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AGGIORNAMENTO AL 31.05.2017 |
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S.U.A.P. in
variante al vigente P.G.T..
R.U.P. e consiglieri comunali prestate
attenzione, molta attenzione: si maneggia "dinamite"!! |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Il fresato d’asfalto è da considerarsi
sottoprodotto laddove utilizzato in quantità ragionevoli e
non eccessive quale materiale di continuo impiego per
alimentare un impianto di produzione di asfalto, non
rientrando –quindi– nella classificazione impeditiva del
c.d. piano provinciale dei rifiuti, che può considerare il
fresato d’asfalto come rifiuto solo laddove collocato in
quantità tali da determinare la formazione di una vera e
propria discarica.
---------------
Il parere favorevole di Valutazione Ambientale Strategica
reso dalla conferenza di servizi in sede di adozione del
progetto edilizio di ampliamento edificatorio produttivo con
formazione di impianti di produzione di asfalto e
calcestruzzo in variante al piano urbanistico generale con
la procedura dello Sportello Unico-SUAP, laddove anche
ricognitivo di tutti i pareri ambientali istruttori
favorevoli resi dai vari enti coinvolti nel procedimento
(ASL, ARPA, Vigili del Fuoco etc.) costituisce un vincolo
procedimentale per il consiglio comunale chiamato ad
assumere la delibera finale di approvazione del progetto
stesso, impedendo la possibilità di un legittimo diniego di
approvazione finale.
La Valutazione Ambientale Strategica è fase procedurale
complessa che deve precedere l’approvazione del progetto
edilizio in variante tramite la procedura di Sportello Unico
SUAP, per cui le valutazioni istruttorie che vengono
compiute nella fase istruttoria ed il giudizio ambientale
positivo finale reso dall’autorità competente consumano per
questi aspetti il potere di valutazione discrezionale
assegnato al consiglio comunale, in ciò innovando
radicalmente rispetto alla risalente giurisprudenza che
riteneva permanesse ampia e totale discrezionalità in capo
al Consiglio Comunale per l’approvazione o meno dei
procedimenti di Sportello Unico nella fase finale, questa
giurisprudenza –invero– si riferisce a casistiche relative a
procedimenti anteriori all’entrata in vigore della normativa
in tema di Valutazione Ambientale Strategica, in cui il
giudizio ambientale veniva reso dal Consiglio Comunale solo
nella fase finale del procedimento.
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L’illegittimo ed illecito arresto di un procedimento di
approvazione di un progetto di ampliamento produttivo in
variante al piano regolatore generale motivato solo per
ragioni di tipo politico, ossia per un ripensamento insorto
nell’amministrazione comunale nella fase finale approvativa
in relazione a manifestazioni pubbliche di segno contrario
provenienti da un comitato ambientalista nell’imminenza del
rinnovo elettorale delle cariche comunali, determina
l’annullamento giudiziale dell’atto di diniego e l’obbligo
di risarcimento del danno per l’ingiusto blocco
all’ampliamento dell’attività produttiva.
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Il tecnico comunale estensore –quale autorità competente VAS–
di un motivato parere favorevole ambientale rispetto al
progetto di ampliamento produttivo mediante le procedure di
Sportello Unico SUAP incorre nel vizio di eccesso di potere
per contraddittorietà manifesta laddove sottoscriva solo in
seguito ma a breve distanza temporale nella fase finale del
procedimento, dopo l’adozione del SUAP da parte del
Consiglio Comunale, una relazione esprimente parere negativo
ambientale ed urbanistico rispetto al medesimo intervento
nonché redigendo bozza di delibera di diniego poi
illegittimamente approvata dal Consiglio Comunale.
---------------
Laddove, annullato dal giudice amministrativo, il diniego di
ampliamento produttivo mediante la procedura di Sportello
Unico SUAP sopravvenga una condizione di difficoltà
economica dell’imprenditore proponente, tale da condurlo
alla presentazione di una proposta di concordato
liquidatorio, viene meno il presupposto legale (ossia
l’esistenza di una impresa attiva che necessità di spazi
ulteriori per il ciclo produttivo) che giustifichi il
rilascio del permesso edilizio richiesto tramite la
procedura SUAP, per cui deve essere rigettato il ricorso per
ottemperanza proposto dal liquidatore giudiziale della
società in concordato preventivo.
Pur sopravvenuta la condizione di liquidazione concordataria
dell’impresa che impedisce il rilascio del permesso edilizio
in variante in ottemperanza della sentenza del giudice
amministrativo che abbia annullato il diniego opposto dal
consiglio comunale, l’amministrazione comunale è comunque
tenuta a risarcire all’imprenditore (e nel caso alla
procedura liquidatoria concordataria gestita dal Tribunale
Fallimentare) tutti i danni subiti per diniego ingiustamente
ed illegittimamente provocati.
Il risarcimento dei danni conseguenti ad illegittimo diniego
di approvazione di progetto edilizio in variante al piano
regolatore comunale mediante la procedura SUAP deve
comprendere:
a) il ristoro di tutte le spese vive sopportate, compreso le spese
per progetti e consulenze varie;
b) la differenza di valore immobiliare tra l’area destinata ad uso
produttivo (come sarebbe stato nel caso di approvazione del
SUAP) e l’area rimasta nella destinazione agricola;
c) i mancati utili conseguenti all’illecito impedimento all’avvio
dell’iniziativa imprenditoriale, anche in relazione al
possibile fatturato venuto meno ed agli appalti non
conseguiti, con applicazione –rispetto al totale
determinato- di parametri riduttivi equitativi riferiti alla
c.d. “perdita di chanche” (nel caso l’amministrazione
comunale di Arcore è stata condannata a pagare 600.000,00 €
complessivi al Tribunale Fallimentare di Bergamo).
---------------
... per la riforma della
sentenza 09.04.2015 n. 898 del TAR per la
LOMBARDIA – Sede di MILANO - SEZIONE II, resa tra le parti,
concernente archiviazione di domanda di Suap. Risarcimento
dei danni.
...
1. Con la sentenza n. 898 del 09.04.2015, il Tribunale
Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
pronunciando sul ricorso proposto dalla società Do. f.lli
s.a.s. (d’ora in poi Do.) in liquidazione e in concordato
preventivo, dichiarava inammissibile la domanda per ottenere
l’ottemperanza al giudicato formatosi a seguito della
sentenza n. 2182 del 10.08.2012, confermata dal Consiglio di
Stato con sentenza n. 4151 del 21.05.2013, e in parte
dichiarava irricevibile e in parte respingeva la domanda di
annullamento proposta avverso la deliberazione del Consiglio
comunale di Arcore n. 3 del 03.02.2014, e contro il nuovo
Piano di governo del territorio del Comune, approvato con
deliberazione di C.C. n. 18 del 27.05.2013, ed il nuovo
Piano di coordinamento della Provincia di Monza e Brianza,
approvato con deliberazione di C.P. n. 16 del 10.7.2013; il
Tar respingeva, inoltre, la domanda di condanna del Comune
di Arcore al risarcimento dei danni.
1.1. La predetta sentenza esponeva in fatto quanto segue.
“La società Do. f.lli s.a.s., operante nel campo
dell’estrazione di materiali inerti naturali e della
fornitura di calcestruzzi nel settore dei lavori pubblici,
era proprietaria di un impianto di produzione di asfalto e
di produzione di calcestruzzo, sito nel territorio del
Comune di Vimercate. A seguito dell’approvazione del
progetto per la realizzazione dell’Autostrada Pedemontana,
il cui tracciato interseca il predetto impianto, la stessa
società ha dovuto avviare un iter per lo spostamento di
quest’ultimo, acquisendo una nuova area in Comune di Arcore,
destinata a zona agricola.
In data 03.08.2009, ha presentato istanza per la
realizzazione del nuovo insediamento produttivo ed il
Comune, con deliberazione n. 200 del 09.12.2009, valutata
l’assenza di zone adeguate per il complesso produttivo in
base allo strumento urbanistico, ha giudicato procedibile
l’istanza ai sensi dell’art. 5 del DPR n. 447 del 1998, ai
fini della variazione dello strumento urbanistico. Il
progetto veniva sottoposto alla procedura di VAS che, dopo
l’acquisizione dei pareri favorevoli delle autorità
coinvolte in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza,
si concludeva con provvedimento favorevole del 14.05.2010
circa la compatibilità ambientale del SUAP a condizione del
rispetto delle prescrizioni ed indicazioni del parere
motivato.
Per l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto e
dell’attività, la Provincia Monza e Brianza giudicava non
necessario l’espletamento della procedura di V.I.A.
regionale. Il Sindaco, con nota 11.12.2009, nel comunicare
all’impresa il buon esito della prima conferenza di servizi
per la valutazione strategica ambientale del SUAP, la
invitava a provvedere al versamento in conto anticipazione
degli oneri di urbanizzazione per euro 150.000. La
Conferenza di servizi si concludeva il 25.01.2011 con
valutazione positiva del progetto per la realizzazione del
nuovo insediamento industriale, con varie prescrizioni.
La Provincia di Monza e Brianza, con nota del 27.01.2011,
nel dare atto del parere favorevole espresso dal proprio
rappresentante in sede di conferenza di servizi, segnalava,
tuttavia, sotto il profilo ambientale, l’incompatibilità
dell’attività di trattamento di rifiuti con il Piano
provinciale dei rifiuti e, considerato che il progetto
comprendeva l’attività di fresa d’asfalto, da considerarsi
alla stregua di un rifiuto, diffidava, in quanto titolare
della funzione ambientale, il Comune di Arcore
dall’autorizzare tale attività. Il Comune di Arcore, con
deliberazione n. 35 del 21.07.2011, richiamando il contenuto
della Relazione allegata alla delibera, respingeva
l’istanza.
La società Do. ha impugnato dinanzi a questo TAR l’atto
negativo comunale nonché il parere parzialmente negativo
espresso dalla Provincia Monza e Brianza nella parte in cui
ritiene incompatibile con il PPGR il progetto di impianto
per l’impiego di fresato di asfalto. Il TAR, con sentenza n.
2182 del 10.08.2012, ha accolto il ricorso. La sentenza è
stata confermata dal Consiglio di Stato in sede di giudizio
di appello (sent. n. 4151 del 06.08.2013). La ricorrente, in
data 17.09.2013, ha protocollato una nota con cui ha chiesto
al Comune di Arcore di dare esecuzione alla pronuncia del
TAR, ormai passata in giudicato. L’amministrazione ha dato
riscontro all’istanza con nota del 30.09.2013.
In tale atto, l’Amministrazione comunica che, per dare nuovo
impulso al procedimento di SUAP, sarebbe stato necessario
che la ricorrente avesse provveduto al deposito di un nuovo
atto unilaterale d’obbligo e di una nuova bozza di
convenzione; precisando che, siccome la stessa ricorrente
aveva nel frattempo presentato al Tribunale di Bergamo
istanza per l’ammissione alla procedura di concordato
preventivo, tali atti avrebbero dovuto essere
preventivamente autorizzati dagli organi della procedura. A
questa nota, ha fatto seguito la deliberazione di Consiglio
Comunale n. 3 del 03.02.2014, con cui il Comune di Arcore ha
deciso di archiviare definitivamente la procedura di SUAP
avviata dalla ricorrente….”.
2. Avverso la prefata sentenza la Do. F.lli s.a.s. in
liquidazione ed in concordato preventivo ha proposto appello
dinanzi a questo Consiglio di Stato, chiedendone
l’annullamento e l’integrale riforma.
...
1. Viene alla decisione del Collegio l’ultimo segmento della
causa suindicata che vede opposta l’appellante Do. F.lli
s.a.s. in liquidazione ed in concordato preventivo alle
amministrazioni intimate.
1.1. Preliminarmente il Collegio fa presente che a mente del
combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e 101, co. 1,
c.p.a., farà esclusivo riferimento ai mezzi di gravame posti
a sostegno dei ricorsi in appello, senza tenere conto di
ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive
successivamente depositate, in quanto intempestive,
violative del principio di tassatività dei mezzi di
impugnazione e della natura puramente illustrativa delle
comparse conclusionali (cfr. ex plurimis Cons. Stato
Sez. V, n. 5865 del 2015); del pari, in via preliminare, si
osserva che la causa appare sufficientemente istruita per
cui non appare necessario disporre alcun incombente
istruttorio.
1.2. Come rilevato nella parte in fatto del presente
elaborato, mercé la sentenza non definitiva n. 5158/2015 è
stata esclusa la fondatezza di tutti i primi quattro motivi
di appello diretti a censurare la prefata sentenza del Tar
n. 898/15 nella parte in cui questa aveva dichiarato
inammissibile la domanda per ottenere l’ottemperanza al
giudicato ed aveva dichiarato in parte irricevibile ed in
parte infondata (respingendola) la domanda di annullamento
dei nuovi atti pianificatori medio tempore emessi dalle
amministrazioni intimate.
1.2. La sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha invece
parzialmente accolto il quinto motivo di appello, ha
indicato i “versanti” di danno risarcibile,
escludendo immediatamente invece la debenza del risarcimento
richiesto con riguardo ad alcune “voci” di danno, pur
causalmente ricollegabili al “primo” diniego, ed ha
disposto una consulenza tecnica su tale aspetto da
determinarsi.
1.3. Va quindi premesso che costituiscono statuizioni
rigiudicate quelle contenute nella sentenza non definitiva
n. 5158/2015 mediante le quali la Sezione ha perimetrato
quali fossero i profili di danno risarcibili: tutti gli
argomenti critici volti a rimettere in discussione gli
approdi ivi raggiunti (si veda in proposito la prima parte
della memoria depositata in data 13.12.2016 dalla appellante
società Do. f.lli s.a.s.) sono pertanto inammissibili.
1.4. Posto però che entrambe le parti processuali hanno
insistentemente tentato (in ultimo con le memorie depositate
successivamente al deposito della relazione di consulenza
tecnica ed in sede di discussione alla odierna pubblica
udienza) di rimettere in discussione profili contenziosi già
decisi con statuizione rigiudicata, si ritiene in proposito
di specificare che:
a) la più volte citata sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha
espressamente affermato che “in tale situazione,
pertanto, permane la illegittimità delle ragioni ostative
poste a base dello stesso e, dunque, la violazione del
legittimo affidamento maturatosi in capo al privato.
I contenuti del giudicato e le argomentazioni poste a
sostegno dello stesso –come sopra diffusamente richiamate–
rivelano, pertanto, in assenza di una rinnovata valutazione
sulle ragioni del primo diniego da parte del soggetto
titolare della potestà pianificatoria, la sussistenza di
profili di responsabilità in capo al Comune”;
a1) consegue da ciò che tutti gli argomenti dell’Amministrazione
comunale tesi a dimostrare che (a cagione della mancata
disponibilità pregressa degli impianti di Vimercate) tale
affidamento non sussistesse, e tutti gli argomenti critici
tesi a dimostrare che giammai l’appellante avrebbe potuto
ottenere il bene della vita e che, pertanto, nessun
risarcimento era dovuto, possono rilevare in punto
(unicamente) di quantificazione dell’importo risarcitorio,
ma non possono incidere sulla attribuibilità del medesimo e
ove a ciò finalizzati devono essere dichiarati
inammissibili;
b) la società Do. F.lli s.a.s. ha eccepito l’integrale
inammissibilità di tali argomenti critici (in quanto “nuovi”
ed impingenti sull’an della realizzabilità
dell’intervento, il che integrava cosa giudicata) ma -nei
limiti prima indicati– la eccezione non è accoglibile in
quanto:
I) è ben vero che il comune avrebbe potuto
prospettare dette “difficoltà realizzative
dell’intervento” –prospettandole quali cause ostative
alla realizzazione del medesimo in sede di rieffusione del
potere- perché, come è noto, la sentenza demolitoria non le
precludeva di ripronunciarsi su tutti gli aspetti della
controversa vicenda una seconda volta (tra le tante, (Cons.
Stato, Sez. IV, 06.10.2014, n. 4987);
II) ciò non ha fatto, e quindi in chiave di
dimostrazione della inassentibilità dell’intervento
edificatorio auspicato dalla società Do. F.lli s.a.s. v’è
una preclusione;
III) pur tuttavia, la detta preclusione non
impedisce al comune comunque di dedurre dette circostanze,
che assumono rilievo in sede (ormai, soltanto) di
quantificazione del risarcimento, laddove esse –in tali
limiti- possono essere liberamente apprezzate dal giudice
(come meglio si vedrà di qui a poco, allorché si chiarirà
che la pretesa della società Do. ha mera consistenza di
chance);
c) quanto alla insistita contestazione da parte del Comune di
Arcore (anche in sede di discussione all’odierna udienza
pubblica) dell’affidamento ingeneratosi sulla società, per
rilevarne la inammissibilità in quanto impingente su una
tematica coperta dal giudicato è sufficiente riportare due
brevi stralci della più volte menzionata sentenza non
definitiva che così ha statuito:” gli argomenti portati a
sostegno della determinazione reiettiva risultano
illegittimi e non sufficienti a fondare il disposto rigetto.
Ciò in considerazione della loro inidoneità a superare le
risultanze del procedimento fino a quel momento svolto
(favorevoli ad una conclusione positiva dello stesso) e
ponendosi, dunque, con le stesse in ingiustificata
contraddizione, con lesione del legittimo e rilevante
affidamento in proposito maturatosi in capo al privato.”;
“ln tale situazione, pertanto, permane la illegittimità
delle ragioni ostative poste a base dello stesso e, dunque,
la violazione del legittimo affidamento maturatosi in capo
al privato.”;
d) di converso, (e con più specifico riferimento agli argomenti
prospettati dalla società Do. F.lli s.a.s. e ribaditi in
sede di discussione all’odierna udienza pubblica) la
medesima sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha
espressamente affermato che:
I) “il maggior onere finanziario (maggior
costo) per la realizzazione del complesso produttivo non è
dovuto”;
II) “neppure deve essere risarcito il danno
finanziario per crisi di liquidità connessa ai maggiori
costi di approvvigionamento dell’appalto”;
III) “dagli atti di causa non emerge la prova
della sussistenza di un nesso causale tra tale pretesa voce
di danno, la sottoposizione di Do. a procedura di concordato
preventivo ed il diniego a suo tempo opposto dal Comune di
Arcore;”
d1) consegue da ciò che non sono ammissibili le argomentazioni
della parte privata nella parte in cui tentano di
sollecitare un ulteriore giudizio su tali profili che,
infatti, non verranno dal Collegio esaminati, in quanto
coperti dal giudicato “interno” formatosi.
2. Ciò premesso, la relazione del Ctu nominato ha fornito
partita risposta ai quattro quesiti descritti nella sentenza
non definitiva n. 5158/2015, in particolare evidenziando
che:
a) quanto alle spese sostenute dalla originaria ricorrente (primo
quesito), esse potevano essere così individuate:
I) per le spese ed i costi di procedura, non
recuperabili, è stato quantificato un importo “certo”
pari ad Euro 326.343,55 e presumibile, pari ad Euro
339.021,69 (pag. 24 CTU);
II) per ciò che concerneva l’acquisto del terreno
ove avrebbe dovuto erigersi l’impianto, tenuto presente che
il medesimo fu acquistato per un importo pari ad Euro
298.000//00 e che la servitù in favore del detto fondo fu
acquistata successivamente (nel 2009) per un importo pari ad
Euro 85.000//00 è stato computato il valore attuale, sia
considerandolo agricolo (€ 152.664,00) che edificabile (€
1.1272.200,00) con l’avvertenza che non sussistevano atti
programmatori tali da fare desumere che lo stesso avesse
assunto caratteristica di area edificabile con destinazione
produttiva (pag. 25 dell’elaborato di Ctu); inoltre, il
valore è stato distinto, facendo riferimento sia all’ipotesi
di alienazione con recupero della servitù, che nell’ipotesi
di alienazione senza recupero della servitù (e ciò sia con
riferimento al valore del suolo quale edificabile, che con
riguardo al valore del suolo quale agricolo); il computo
finale contenuto nell’elaborato di verificazione è stato
pertanto pari (nell’ipotesi di terreno agricolo) ad una
minusvalenza di € 230.336,00 (corrispondente ad € 145.336,00
qual diminuzione del fondo, ed € 85.000,00 corrispondenti
alla servitù ove considerata irrecuperabile) ovvero di €
145.336,00 (scomputati € 85.000,00 corrispondenti alla
servitù ove considerata recuperabile); mentre, nell’ipotesi
di terreno considerato edificabile sarebbe stata
riscontrabile una plusvalenza pari ad € 889.200,00 (laddove
il valore di € 85.000,00 corrispondente alla servitù venisse
considerato irrecuperabile) ovvero pari ad € 974.200,00
(laddove il valore di € 85.000,00 corrispondente alla
servitù venisse considerato recuperabile);
b) quanto al secondo quesito -con il quale, in sostanza si chiedeva
di quantificare con riferimento al periodo dal 21.07.2011 al
24.05.2013 (id est: la voce di “danno”
discendente dagli acquisti di asfalto che la originaria
ricorrente era stata costretta a sostenere (rispetto ai
risparmi che ne sarebbero discesi laddove l’impianto fosse
stato autorizzato e la stessa avesse ivi potuto produrre in
proprio l’asfalto) e quella discendente dalla mancata
vendita del surplus di asfalto eventualmente prodotto- la
relazione ha esaminato la questione alle pagg. 25-43
dell’elaborato, pervenendo ad una quantificazione valoriale
pari ad euro 216.900,00, quanto al maggior costo subito per
l’acquisto dell’asfalto che essa era stata costretta ad
effettuare (piuttosto che produrlo in proprio), e pari ad
euro 313.000 quanto ai guadagni che essa avrebbe potuto
ritrarre dalla vendita dell’asfalto: tale dato è stato
calcolato previa sottrazione dell’arco temporale di nove
mesi (quantificato quale arco temporale necessario per
ottenere la variante) e, quindi, calcolando 13 mesi di
attività effettiva;
c) quanto al terzo quesito con il quale, in sostanza si chiedeva di
quantificare con riferimento al periodo dal 21.07.2011 al
24.05.2013, la voce di “danno” (in termini di mancato
guadagno) derivante dalla presumibile vendita di
calcestruzzo prodotto nell’impianto medesimo, la relazione
ha esaminato la questione alle pagg. 43-47 dell’elaborato,
pervenendo ad una determinazione secondo cui il mancato
margine sarebbe ricompreso tra Euro 699.400,00 (e quindi
16,14 € per metro cubo facendo riferimento ad un volume di
attività “normale” per la società Do., pari a 40.000
metri cubi annui) ed Euro 1.213.729,16 (e quindi 17,23 € per
metro cubo facendo riferimento ad un volume di attività “ideale”
per la società Do., pari a 65.000 metri cubi annui);
d) quanto infine al quarto quesito, la relazione del Ctu la
relazione ha esposto i dati raccolti alle pagg. 47-49
dell’elaborato ed ha fatto presente che nel 2009 l’impianto
di Vimercate della Co. srl (e da questa acquistato nel 2006
dalla società Ca. s.r.l.) venne venduto ad una società
libica (l’impianto venne poi smantellato nel 2010), per cui
a partire da tale data di avvenuta cessione, nel 2009
l’appellante non poteva vantare alcun rapporto negoziale
privilegiato con il detto impianto,
2.1. Con nota allegata alla relazione e versata in atti,
l’Ing. Ba. ha proposto una serie di osservazioni alle
conclusioni del C.t.u., in particolare deducendo che:
a) già nell’agosto 2009 (epoca in cui venne depositata l’istanza al
Comune di Arcore) la società appellante non era più
proprietaria degli impianti ubicati in Vimercate (nel 2006
l’azienda Cantù aveva ceduto i rami di azienda per la
produzione del conglomerato bituminoso ed il calcestruzzo
alla Co., come peraltro colto dal C.t.u. al paragrafo 3.2.
della relazione) l’affermazione contenuta al paragrafo
3.1.1., pag 10, della relazione, ove si sosteneva che
l’appellante utilizzava, nel periodo di interesse, impianti
di proprietà in Vimercate, era in contraddizione con il
paragrafo 3.2. della relazione di consulenza tecnica;
b) la tesi esposta a pag. 10 della relazione, secondo la quale il
progetto di Arcore era finalizzato ad una strategia di
integrazione verticale dell’appellante, era apodittica e
sfornita di evidenze probatorie;
c) quanto al paragrafo 4.1. della relazione, non erano documentati
il merito e la congruità delle spese di progettazione
sostenute;
d) quanto al paragrafo 4.2.1. della relazione, la Conferenza di
servizi si tenne il 25.01.2011 ma a quella data il progetto
non era cantierabile: i tempi di realizzazione del progetto,
quindi, erano ben superiori ai sette mesi stimati dalla
relazione di consulenza tecnica;
e) ciò anche considerato che il progetto era sprovvisto di alcune
autorizzazioni indispensabili a realizzare e mettere in
esercizio l’impianto.
3. Ciò premesso, ritiene il Collegio che il punto di
partenza dal quale occorre muovere è quello per cui, -come
accertato nella sentenza parziale regiudicata n. 5158/2015-
“i contenuti del giudicato e le argomentazioni poste a
sostegno dello stesso –come sopra diffusamente richiamate–
rivelano, pertanto, in assenza di una rinnovata valutazione
sulle ragioni del primo diniego da parte del soggetto
titolare della potestà pianificatoria, la sussistenza di
profili di responsabilità in capo al Comune.
La illegittimità dei motivi di reiezione della variante
lasciano, dunque, supporre (ripetesi, in assenza di
rinnovata valutazione su di essi) che il bene della vita
sperato da Do. sarebbe stato conseguito, non ostandovi le
ragioni concretamente espresse nella delibera n. 35/2011, in
ragione della loro illegittimità ed in considerazione delle
risultanze del procedimento SUAP così come fino a quel
momento svoltosi.”.
3.1. Risultano pertanto incontrovertibili due circostanze:
a) l’an della responsabilità del comune;
b) la necessità di pervenire ad una valutazione di tipo equitativo
fondata sul dato probabilistico del “presumibile”
conseguimento da parte dell’appellante del bene della vita
cui essa aspirava.
3.2. Sulla scorta di tale considerazione, è anzitutto
inaccoglibile la pretesa della società Do. di vedersi
liquidati, per intero, i valori determinati nella relazione
di consulenza.
3.3. La impostazione della sentenza non definitiva n.
5158/2015 non è stata questa (argomentando diversamente non
vi sarebbe logica nella minuta ed analitica strutturazione
dei quesiti n. 2 e n. 3 disposta dalla sentenza medesima) e
l’esito della consulenza non consente neppure di ritenere
plausibile la pretesa della società Do..
3.4. Invero, dalla analitica relazione del C.T.U., e dalle
difese del comune, emerge, quale dato incontrovertibile che,
ferma la illegittimità del diniego opposto dal comune (così,
si ripete, la sentenza suddetta: “il Comune di Arcore ha
illegittimamente denegato, con la prima delibera di
Consiglio Comunale n. 35/2011, l’approvazione della variante
urbanistica SUAP richiesta dalla Do.”) comunque il
progetto presentato non era “completo” (nel senso di
munito di tutte le autorizzazioni provenienti da tutti gli
Enti deputati a rilasciarli) e soprattutto le
caratteristiche dell’impianto progettato, e delle opere
ancora da eseguirsi (ed autorizzazioni da conseguire) non
possono indurre a ritenere certa la costruzione del
medesimo.
3.5. Alla stregua delle superiori considerazioni, tenuto
conto del disposto dell’art. 1226 del codice civile,
pacificamente applicabile alla quantificazione risarcitoria
resa dal Giudice amministrativo, tenuto conto che nulla può
imputarsi a parte appellante in termini di concorso colposo
ex art. 1227 c.c. (peraltro il Comune non ha neppure
formulato tale domanda, si veda Cassazione civile, sez. III,
27/07/2015, n. 15750) e considerata la circostanza che
l’impresa che aspirava a realizzare l’impianto è stata posta
in liquidazione non a cagione delle vicissitudini relative
all’impianto per cui è causa, il Collegio ritiene di
ravvisare una chance di realizzazione dell’impianto
(pari alla misura del 50% di probabilità: vedasi Consiglio
di Stato, sez. V, 25/02/2016, n. 762 Consiglio di Stato,
sez. V, 30/06/2015, n. 3249) e tale argomento ricomprende ed
assorbe tutte le considerazioni (ed i dubbi)
dell’amministrazione comunale in ordine alla tempistica di
realizzazione dell’impianto ed all’an della
realizzabilità del medesimo.
3.5.1. Invero sulla circostanza che non era certa la
realizzazione effettiva dell’impianto, non pare potersi
controvertere; si è già chiarito che tali argomenti dedotti
dal comune non possono essere esplorati in chiave preclusiva
della concedibilità del risarcimento; la tesi della società
secondo la quale trattandosi di procedimento demandato alla
valutazione in sede di Suap il Comune ha artatamente
enfatizzato i possibili ostacoli alla realizzabilità
dell’impianto, (sintetizzati nell’ultima pagine delle
osservazioni alla relazione del Ctu redatte dall’Ingegnere
Ba. e datata 20.05.2016) è apoditttica ed indimostrata: tali
elementi concorrono a far quantificare nella misura di una
chance del 50% la posizione della società.
3.6. Quanto ai restanti argomenti critici, una volta
quantificata nei termini di cui sopra la consistenza della
posizione della ditta Do., il Collegio ritiene che nessuna
delle minuziose critiche che investono l’elaborato di Ctu
sia accoglibile, essendo stata in detta sede vagliata dal
Ctu ogni perplessità prospettata dalle contrapposte parti
processuali, e ritenendosi l’approdo raggiunto dal Ctu –che
il Collegio condivide e fa proprio- compito, completo, ed
immune da contraddizioni.
4. Alla stregua delle superiori considerazioni, il Comune
deve essere condannato a corrispondere in favore della
società odierna appellata un risarcimento che coincide con
le somme che via via si elencano:
a) quanto al quesito n. 1:
I) considerato il terreno quale agricolo
(questione, questa sulla quale non residua dubbio alcuno)
una somma pari ad Euro 145.336,00 in considerazione della
circostanza che la servitù acquistata non appare
irrecuperabile in alcun modo: a tale cifra va sommata quella
pari ad Euro 107. 671, 97 (spese non recuperabili) per un
totale di Euro 243.007,97, dato, questo, cui va sommato il
costo di progettazione degli impianti (Euro 211.311,00 cui
vanno sommati Euro 7.360,50 per un parziale pari ad Euro
218.671,50).
4.1. Il Comune, quindi, dovrà versare alla Società la cifra
di Euro 461.679,47.
4.2. A tale somma, va aggiunta una percentuale delle cifre
quantificate dal Ctu in risposta ai quesiti nn. 2 e 3.
4.2.1. Si rammenta, in proposito, che dette cifre erano
state così determinate:
a) quanto al quesito n. 2 (valutazione del Ctu di cui alla pag. 43
dell’elaborato di consulenza tecnica):
I) Euro 216.900,00 a titolo di maggiore costo;
II) Euro 313.300,00 a titolo di mancato guadagno;
b) quanto al quesito n. 3, (valutazione minimale del Ctu di cui
alla pag. 43 dell’elaborato di consulenza tecnica), il
mancato margine era stato quantificato nella misura di €
699.400,00.
4.2.2. Ora, appare evidente che a fronte di una possibilità
realizzativa indicata nel 50% risulti viepiù ipotetica la
effettiva conseguibilità delle somme in ultimo indicate,
posto che su di esse incide innanzitutto un dato incerto,
rappresentato dall’effettivo rispetto della tempistica di
conseguimento delle autorizzazioni, ed altresì un dato se
possibile ancor più aleatorio, rappresentato dalla
sussistenza di una attività produttiva ed a regime
ininterrotta, senza flessioni ascrivibili a guasti,
malfunzionamenti, senza cali di alcun genere della domanda,
di forniture etc.
E’ noto, che per parte della giurisprudenza, addirittura,
non sarebbe mai consentita, alcuna liquidazione del c.d. “interesse
positivo” nell’ipotesi di chance (ex aliis
Consiglio di Stato, sez. VI, 01/02/2013, n. 633).
4.2.3. Ritiene il Collegio che, bilanciate in sede di
valutazione equitativa ex art. 1226 cc tutte queste
circostanze –e tenuto conto anche del fatto che la domanda
originaria della ditta appellante conteneva una non
irrilevante imprecisione in quanto se è vero che la stessa
aveva una qualche disponibilità dell’impianto di Vimercate,
con conseguente possibilità di godere di condizioni
favorevoli, non ne era proprietaria- la percentuale delle
somme indicate in risposta ai quesiti nn. 2 e 3 del Ctu vada
determinata nella misura del 10% dei valori in essi
indicati.
4.2.4. Alla cifra concernente le “spese” ed il
deprezzamento dell’immobile, e pari ad Euro 461.679,47 si
dovranno sommare pertanto le seguenti voci:
- Euro 21.690,00 (il 10% di Euro 216.900,00); Euro 31.300,00
(il 10% di Euro 313.300,00); Euro 69.940,00 (il 10% di Euro
699.400,00) il che conduce ad una somma parziale pari ad
Euro 122.930,00 che, sommata ad Euro 461.679,47 porta alla
cifra finale da liquidare, che è quindi pari ad Euro
584.609,47.
Sul quantum di danno accertato per la perdita di
chance, trattandosi di un debito di valore, spetta anche la
rivalutazione monetaria da calcolarsi sino alla
pubblicazione della presente sentenza. A decorrere da tale
momento, in conseguenza della liquidazione giudiziale, il
debito di valore si trasforma in debito di valuta e spettano
quindi solo gli interessi nella misura legale sino
all'effettivo soddisfo (Consiglio Stato, sez. VI, 23.07.2009
n. 4628).
5. Conclusivamente, in parziale accoglimento dell’appello,
ed in parziale riforma della sentenza appellata, il ricorso
di primo grado deve essere parzialmente accolto, e pertanto
il comune di Arcore deve essere condannato al pagamento in
favore della parte appellante della somma complessiva di
Euro € 584.609,47, oltre ad accessori come sopra indicati.
5.1. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante,
tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cassazione
civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più
recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
5.2. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati
sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione
di tipo diverso.
6. Deve procedersi alla liquidazione del compenso
complessivo (onorario e spese) spettante al consulente
tecnico d'ufficio, che ne ha fatto espressa richiesta con
due apposite note, rispettivamente in data 05.09.2016 e
18.01.2017 rimettendone la determinazione all'apprezzamento
del giudice: in particolare, è stata richiesta la
liquidazione di euro 445,00 a titolo di spese, e di Euro
22.200,00 complessivi (ivi calcolando anche l’importo di
Euro 6.000,00 anticipato e posto provvisoriamente posto a
carico dell’appellante nella sentenza non definitiva n. 5158
del 12.11.2015) di cui 14.400,00 in favore dalla CTU prof. Ar., e 7.800,00 in favore del collaboratore di questa,
Prof. Pi..
L’importo residuo da liquidare, quindi, sarebbe pari ad Euro
16.200,00.
6.1. Tenuto conto anche della complessità dell’accertamento
ritiene il Collegio che esso possa essere complessivamente
contenuto (ivi comprese le spese, cioè) nella misura di Euro
ventimila (€ 20.000,00) il che, detratto l’anticipo già
erogato, implica che debbano corrispondersi restanti Euro
14.000,00.
6.2.. L'onorario spettante al consulente tecnico d'ufficio e
le spese da questi sostenute da intendersi comprensivo
dell'anticipo pari a Euro 6.000,00 provvisoriamente posto a
carico dell’appellante nella sentenza non definitiva n. 5158
del 12.11.2015 sono poste definitivamente a carico del
Comune di Arcore.
6.3. La complessità delle questioni trattate e la reciproca,
parziale, soccombenza costituiscono ad avviso della Sezione
ragioni idonee a giustificare tutte le spese del doppio
grado di giudizio, ivi comprese (ad esclusione di quelle
relative alla consulenza tecnica, liquidate come sopra).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in
epigrafe proposto, richiamata la propria precedente sentenza
non definitiva n. 5158 del 12.11.2015 così provvede:
a) accoglie parzialmente l’appello, ed in parziale riforma della
impugnata sentenza condanna il comune di Arcore appellato a
corrispondere alla appellante società Do. F.lli sas in
liquidazione ed in concordato preventivo la somma di Euro
584.609,47 siccome determinata in motivazione, oltre ad
accessori come determinati in motivazione;
b) liquida in favore del consulente tecnico d'ufficio, Prof.
An.Ma.Ar. l'importo complessivo di Euro 20.000,00
(comprensivo dell'anticipo pari a Euro 6.000,00, fissato
nella sentenza non definitiva n. 5158 del 12.11.2015) di cui
Euro. 19.555,00 a titolo di onorario ed Euro 445,00 a titolo
di spese ponendolo a carico del Comune di Arcore;
c) compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado di
giudizio (ad esclusione di quelle concernenti la consulenza
tecnica che restano a carico del comune) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 01.03.2017 n. 943 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
E
la stampa ne dà risalto: |
•
Arcore: il Comune paga 606mila euro per il “no” al
bitumificio e Doneda brinda. L'ironia di Luca Doneda
contro il sindaco Rosalba Colombo: "Manderai il
Comune in bancarotta, sei mitica" (19.05.2017
- link a http://giornaledimonza.it).
•
Arcore, stop al bitumificio: il Comune pagherà
600mila euro alla Doneda (ma sorride) (06.03.2017
- link a http://www.ilcittadinomb.it).
•
Caso Doneda: nessun bitumificio ma il comune dovrà
pagare 600mila euro (05.03.2017 -
link a https://www.mbnews.it). |
|
|
IN EVIDENZA |
Una carrellata di arresti in materia d'accesso agli
atti amministrativi... |
ATTI AMMINISTRATIVI: Mentre
in primo grado il ricorrente può
difendersi in proprio [avvalendosi dell’art. 23 (difesa
personale delle parti) del codice del processo
amministrativo secondo cui "Le parti possono stare in
giudizio personalmente senza l'assistenza del difensore nei
giudizi in materia di accesso e trasparenza
amministrativa…"] nel questo grado d'appello è, viceversa,
inderogabilmente necessaria l'assistenza del difensore [in
quanto l’art. 95 (parti del giudizio di impugnazione) dello
stesso codice stabilisce al comma 6 che "ai giudizi di
impugnazione non si applica l'articolo 23, comma 1"
precedente].
---------------
Ora, premesso che in primo grado il ricorrente si era difeso
in proprio, avvalendosi dell’art. 23 (difesa personale delle
parti) del codice del processo amministrativo secondo cui "Le
parti possono stare in giudizio personalmente senza
l'assistenza del difensore nei giudizi in materia di accesso
e trasparenza amministrativa…", va rilevato che in
questo grado d'appello è viceversa inderogabilmente
necessaria l'assistenza del difensore, in quanto l’art. 95
(parti del giudizio di impugnazione) dello stesso codice
stabilisce al comma 6 che "ai giudizi di impugnazione non
si applica l'articolo 23, comma 1" precedente
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.05.2017 n. 2394 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso ai documenti amministrativi, come è noto,
è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità della
P.A. e trova applicazione in ogni tipologia di attività
della P.A..
Il principio della trasparenza amministrativa accolto dal
nostro ordinamento, almeno nella cornice normativa delineata
dalla L. 241/1990, non è affatto assoluto e incondizionato,
ma subisce alcuni temperamenti, basati, fra l'altro, sulla
limitazione dei soggetti attivi del diritto di accesso,
questione quest'ultima che involge i profili della
legittimazione sostanziale ed dell'interesse ad agire.
In particolare, anche se il diritto di accesso è volto ad
assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a
favorirne lo svolgimento imparziale, rimane fermo che
l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti
stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se
ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una
posizione soggettiva legittimante.
Quest'ultima è costituita da una "situazione giuridicamente
rilevante" (comprensiva anche degli interessi diffusi) e dal
collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e
la documentazione di cui si pretende la conoscenza.
L'interesse, per la cui tutela è attribuito il diritto di
accesso, tuttavia, è nozione diversa e più ampia rispetto
all'interesse all'impugnativa così che la legittimazione
all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che
gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano
spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla
lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto di accesso inteso come interesse ad un bene della
vita distinto rispetto alla situazione legittimante
all'impugnativa dell'atto".
È bene specificare che la posizione legittimante, anche se
non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto
soggettivo o dell'interesse legittimo, deve essere però
giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il
generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon
andamento dell'attività amministrativa.
Deve ritenersi, a questa stregua, che l'art. 22, co. 1,
lett. b), l. n. 241/1990, quando parla di "interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso", si riferisca alla
sussumibilità della pretesa concreta in una fattispecie
normativa, secondo una valutazione prognostica e secondo un
rapporto di chiara percepibilità.
La previsione non fa invece riferimento a ipotesi in cui la
pretesa vantata non è a prima lettura riconducibile ad una
previsione normativa, ma potrebbe esservi ricondotta in
virtù di una particolare interpretazione che potrebbe essere
affermata in un giudizio sulla pretesa.
----------------
La giurisprudenza ha più volte chiarito che interessato, ai
fini dell’accesso, è qualunque soggetto nella cui sfera
giuridica il provvedimento, direttamente o indirettamente,
produce effetti e tale deve ritenersi l’odierno ricorrente
in quanto trattasi di atti riferiti all'attività
espropriativa che investe il suo terreno.
----------------
Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che
seguono.
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi, come è
noto, è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità
della P.A. e trova applicazione in ogni tipologia di
attività della P.A.
Occorre, peraltro, ricordare che il
principio della trasparenza amministrativa accolto dal nostro
ordinamento, almeno nella cornice normativa delineata dalla
L. 241/1990, non è affatto assoluto e incondizionato, ma
subisce alcuni temperamenti, basati, fra l'altro, sulla
limitazione dei soggetti attivi del diritto di accesso,
questione quest'ultima che involge i profili della
legittimazione sostanziale ed dell'interesse ad agire. In
particolare, anche se il diritto di accesso è volto ad
assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a
favorirne lo svolgimento imparziale, rimane fermo che
l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti
stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se
ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una
posizione soggettiva legittimante.
Quest'ultima è costituita da una "situazione
giuridicamente rilevante" (comprensiva anche degli
interessi diffusi) e dal collegamento qualificato tra questa
posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende
la conoscenza. L'interesse, per la cui tutela è attribuito
il diritto di accesso, tuttavia, è nozione diversa e più
ampia rispetto all'interesse all'impugnativa così che la
legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa
dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso
abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla
lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del
diritto di accesso inteso come interesse ad un bene della
vita distinto rispetto alla situazione legittimante
all'impugnativa dell'atto" (ex plurimis, cfr.
Consiglio di Stato 27.10.2006 n. 6440).
È bene specificare che la posizione legittimante, anche se
non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto
soggettivo o dell'interesse legittimo, deve essere però
giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il
generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon
andamento dell'attività amministrativa. Deve ritenersi, a
questa stregua, che l'art. 22, co. 1, lett. b), l. n.
241/1990, quando parla di "interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso", si riferisca alla sussumibilità della pretesa
concreta in una fattispecie normativa, secondo una
valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara
percepibilità. La previsione non fa invece riferimento a
ipotesi in cui la pretesa vantata non è a prima lettura
riconducibile ad una previsione normativa, ma potrebbe
esservi ricondotta in virtù di una particolare
interpretazione che potrebbe essere affermata in un giudizio
sulla pretesa (cfr., a questo proposito, cfr. C. Stato, sez.
VI, 18.09.2009 n. 5625).
Nel caso di specie, il ricorrente è legittimato ad agire in
quanto il diritto di proprietà di cui è titolare ha subito
una compressione a causa di una procedura espropriativa nei
confronti della sua dante causa, in forza della quale il
Comune si è immesso nel possesso di parte del suolo. La
richiesta di accesso agli atti del procedimento di
esproprio, quindi, è strumentale alla tutela del diritto
dominicale.
La giurisprudenza ha più volte chiarito che interessato, ai
fini dell’accesso, è qualunque soggetto nella cui sfera
giuridica il provvedimento, direttamente o indirettamente,
produce effetti e tale deve ritenersi l’odierno ricorrente
in quanto trattasi di atti riferiti all'attività
espropriativa che investe il suo terreno.
Ed, invero il
proprietario d'immobile soggetto ad espropriazione
finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche, ha
diritto ad accedere alla documentazione in possesso
dell’amministrazione procedente, inerente alla relativa
procedura espropriativa, quale quella in esame trattandosi
di atti utilizzati ai fini dell'attività pubblicistica del
Comune di S. Maria Capua Vetere, senza dubbio strumentale
alla tutela sia processuale delle proprie ragioni, sia di
conoscenza dell’esatta perimetrazione della sua posizione
dominicale..
Pertanto la domanda va accolta e conseguentemente, previo
annullamento dell’impugnato silenzio rigetto, va ordinato al
Comune di S. Maria C.V. ex art. 25 l. 241/1990 di rilasciare
la documentazione richiesta
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 19.05.2017 n. 2678 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Come
noto l’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990 dispone che
“non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un
controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche
amministrazioni”. Tale assunto è stato confermato anche
dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi
con delibera in data 27.02.2013 con cui la stessa
Commissione ha rilevato che il diritto d'accesso ai
documenti riconosciuti dall'art. 22 legge n. 241/1990, non
si atteggia come una sorta di azione popolare diretta a
consentire una forma di controllo generalizzato
sull'amministrazione, né può essere trasformato in uno
strumento di ispezione popolare sull'efficienza di un
soggetto pubblico o di un determinato servizio, nemmeno in
ambito locale.
L'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza, e
che va accertato caso per caso, deve essere personale e
concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico
nesso e, dall'altro, la documentazione richiesta deve essere
direttamente riferibile a tale interesse, oltre che
individuata o ben individuabile. Qualora invece l'interesse
ad esercitare il diritto d'accesso sia volto ad acquisire
una serie di informazioni su un particolare settore allo
scopo di valutarne l'efficienza e di assumere iniziative a
tutela, il diritto di accesso diviene in uno strumento di
ispezione sull'efficienza dell’attività amministrativa.
---------------
Un soggetto, benché astrattamente legittimato all'accesso,
non può utilizzare lo strumento dell’accesso ai documenti
amministrativi al fine di azionare, come nella fattispecie
concreta, forme di generale controllo sulla legittimità
dell'attività amministrativa.
Per costante giurisprudenza, l’istanza di accesso deve
riferirsi a specifici documenti già esistenti e non può
pertanto comportare la necessità di un’attività di
elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario
della richiesta.
Tale principio deve essere esteso anche al caso in cui i
documenti richiesti già esistono, ma per i criteri della
richiesta, viene imposta all’amministrazione un’attività
complessa di ricerca e reperimento dei documenti che
presuppone un’attività preparatoria di elaborazione di dati.
Sicché, seppure la richiesta di accesso sia supportata da
uno specifico interesse individuale, tuttavia, detta
istanza, per come è stata formulata, avrebbe comportato un
controllo generalizzato e di tipo sostanzialmente ispettivo
sull’operato dell’Amministrazione.
La stessa avrebbe, inoltre, frustrato la ratio sottesa
all’istituto del diritto di accesso, il quale, se per un
verso tutela la posizione qualificata e differenziata del
richiedente, per altro verso non può tollerare che la p.a.
diventi destinataria di richieste esorbitanti e comportanti
una defatigante attività di ricerca delle pratiche, attività
che si porrebbe in contrasto con lo stesso principio di buon
andamento della p.a. di cui all’art. 97 Cost..
---------------
E' bene premettere come i due istituti (accesso ai
sensi della legge n. 241/1990 e accesso civico ai sensi
dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013) operano su piani distinti
avendo diversi presupposti e disciplina; il che non
impedisce che un soggetto possa essere titolare di una
posizione differenziata tale da essere tutelata con
l’accesso “tradizionale” di cui alla legge n. 241/1990 e
contemporaneamente avvalersi dell’accesso civico qualora ne
ricorrano i presupposti.
Per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione di cui
al d.lgs. n. 33/2013, quindi, possono operare
cumulativamente tanto il diritto di accesso “classico” ex l.
n. 241/1990 quanto il diritto di accesso civico ex d.lgs. n.
33/2013, mentre per gli atti non rientranti in tali obblighi
di pubblicazione opererà, evidentemente solo il diritto di
accesso procedimentale di cui alla l. n. 241/1990.
Il diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 della legge n.
241/1990 ossia il “diritto degli interessati di prendere
visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi” è
cosa diversa dal diritto della generalità dei cittadini alla
più ampia accessibilità alle informazioni concernenti
l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione
che si realizza tramite la pubblicazione obbligatoria di una
serie di documenti e che è disciplinata dal d.lgs. n.
33/2013.
Pur essendo il rito ex art. 116 c.p.a. esperibile sia a
tutela dell'accesso ai documenti amministrativi ex art. 22
della l. n. 241 cit., sia "per la tutela del diritto di
accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di
trasparenza", i due istituti sono tra loro diversi vista, in
particolare, la differenza dei relativi presupposti.
Con il d.lgs. n. 33/2013, infatti, si è inteso procedere al
riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i
cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni
concernenti l'organizzazione e l'attività delle P.A., allo
scopo di attuare il principio democratico, nonché i principi
costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento,
responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di
risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una
buona amministrazione e per la realizzazione di
un'Amministrazione aperta, al servizio del cittadino.
Il tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di
documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato
decreto legislativo ed aventi ad oggetto l'organizzazione,
nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti
istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere
a tali siti direttamente ed immediatamente, senza
autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa
pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5
del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in
una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale
adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva
inadempienza dell'obbligo in questione, di ricorrere al G.A.
secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente l'accesso ai documenti amministrativi,
disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, è
relativo al diritto degli interessati di prendere visione e
di estrarre copia di "documenti amministrativi",
intendendosi per "interessati" i soggetti che abbiano un
interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento a cui si rivolge l'accesso, cosicché in funzione
di tale interesse l'istanza di accesso deve essere motivata.
Il Collegio è ben consapevole del fatto che l’accesso civico
è uno strumento che si aggiunge a quelli esistenti, senza
eliderli, ma sovrapponendosi agli stessi.
Ciò nondimeno, è di tutta evidenza che, una volta esercitata
la facoltà di avvalersi di uno degli istituti sopraindicati
mediante la presentazione della relativa specifica istanza,
non è possibile poi far valere, con la pretesa automaticità,
le prerogative di tutela previste per l’altro procedimento;
ciò, anche in un’ottica di leale collaborazione tra le
parti, dovendo l’istanza del soggetto interessato orientare,
in termini di necessaria coerenza, il comportamento
concretamente esigibile dall’Autorità adita.
---------------
Nel caso in esame pur avendo parte ricorrente menzionato
nell’istanza la normativa di cui al cit. d.lgs. n. 33/2013,
difetta comunque una richiesta di accesso civico che,
peraltro, sebbene connotata da estrema informalità,
riflette, ai sensi della disciplina di settore, un contenuto
tipizzato, di certo non fungibile con quello dell’istanza di
accesso ordinaria, siccome volta a promuovere –per finalità
e muovendo da presupposti di legittimazione diversi- i
seguenti adempimenti a carico dell’Amministrazione:
“…procede alla pubblicazione nel sito del documento,
dell'informazione o del dato richiesto e lo trasmette
contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo
l'avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento
ipertestuale a quanto richiesto. Se il documento,
l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati
nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione
indica al richiedente il relativo collegamento
ipertestuale”.
Ed infatti solo in caso di omessa pubblicazione può essere
esercitato, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33 cit., il
cd. accesso civico, consistente in una richiesta (che non va
motivata) di effettuare tale adempimento, con possibilità,
nel caso di conclusiva inadempienza dell'obbligo in
questione, di ricorrere al G.A. secondo le disposizioni
contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
In definitiva, la mancata attivazione del procedimento in
argomento (id est accesso civico) priva il ricorso proposto
ai sensi del combinato disposto dell’articolo 116 c.p.a. e
dell’articolo 5 del d.lgs. 33 del 2013 della relativa causa
petendi essendo, comunque, la forma di tutela prevista dalla
disciplina di settore costruita come un’azione di tipo
impugnatorio che va spiegata avverso la determinazione
reiettiva dell’istanza di accesso civico (giammai
presentata) ovvero avverso la formazione del silenzio (non
perfezionatosi per assenza di un’istanza di accesso civico).
Pertanto, nella suddetta prospettiva, deve concludersi per
l’infondatezza delle censure formulate ai sensi e per gli
effetti di cui al d.lgs. 33 del 2013, dal momento che il
contenuto dell’istanza ostensiva riflette, invero, con
evidenza, che la pretesa attorea è stata azionata ai sensi e
per gli effetti di cui alla legge n. 241/1990 e, come tale,
dunque, è stata coerentemente valutata, dall’Amministrazione
intimata, di talché è solo all’interno del suddetto
perimetro normativo che è possibile valutare la legittimità
del diniego nonché la spettanza del diritto reclamato.
---------------
2. Nel merito il ricorso per accesso ex art. 22 della legge
n. 241/1990 è infondato avendo evidente natura esplorativa e
risultando finalizzato ad esperire un controllo
generalizzato sull’attività delle amministrazioni intimate.
Come noto l’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990 dispone
che “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad
un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche
amministrazioni”. Tale assunto è stato confermato anche
dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi
con delibera in data 27.02.2013 con cui la stessa
Commissione ha rilevato che il diritto d'accesso ai
documenti riconosciuti dall'art. 22 legge n. 241/1990, non si
atteggia come una sorta di azione popolare diretta a
consentire una forma di controllo generalizzato
sull'amministrazione, né può essere trasformato in uno
strumento di ispezione popolare sull'efficienza di un
soggetto pubblico o di un determinato servizio, nemmeno in
ambito locale.
L'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza, e
che va accertato caso per caso, deve essere personale e
concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico
nesso e, dall'altro, la documentazione richiesta deve essere
direttamente riferibile a tale interesse, oltre che
individuata o ben individuabile. Qualora invece l'interesse
ad esercitare il diritto d'accesso sia volto ad acquisire
una serie di informazioni su un particolare settore allo
scopo di valutarne l'efficienza e di assumere iniziative a
tutela, il diritto di accesso diviene in uno strumento di
ispezione sull'efficienza dell’attività amministrativa.
Applicando alla fattispecie in esame le predette coordinate
ermeneutiche è evidente che l’istanza di accesso inoltrata
dalla ricorrente è affetta da genericità ed
indeterminatezza, perché non individua con precisione, i
titoli autorizzatori oggetto di accesso, ma si riferisce ad
una serie indeterminata e non identificata di autorizzazioni
rilasciate in un ampio arco temporale, nondimeno esteso agli
ultimi dieci anni. Non può quindi sostenersi l’obbligo della
Regione Campania di pronunciarsi in senso favorevole su tale
istanza stante la natura manifestamente esplorativa della
richiesta di accesso così come formulata e solo
asseritamente strumentale all’esercizio del diritto di
difesa.
Osserva il Collegio che un soggetto, benché astrattamente
legittimato all'accesso, non può utilizzare lo strumento
dell’accesso ai documenti amministrativi al fine di
azionare, come nella fattispecie concreta, forme di generale
controllo sulla legittimità dell'attività amministrativa
(cfr. Consiglio Stato, VI, 27.02.2008 n. 721; V, 25.09.2006, n. 5636).
Per costante giurisprudenza, l’istanza di accesso deve
riferirsi a specifici documenti già esistenti e non può
pertanto comportare la necessità di un’attività di
elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario
della richiesta (Cons. St., sez. VI, 05.12.2007, n.
6201).
Tale principio deve essere esteso anche al caso in cui i
documenti richiesti già esistono, ma per i criteri della
richiesta, viene imposta all’amministrazione un’attività
complessa di ricerca e reperimento dei documenti che
presuppone un’attività preparatoria di elaborazione di dati
(Cons. Stato, sez. VI, n. 117/2011). Sicché, seppure la
richiesta di accesso sia supportata da uno specifico
interesse individuale, tuttavia, detta istanza, per come è
stata formulata, avrebbe comportato un controllo
generalizzato e di tipo sostanzialmente ispettivo
sull’operato dell’Amministrazione. La stessa avrebbe,
inoltre, frustrato la ratio sottesa all’istituto del diritto
di accesso, il quale, se per un verso tutela la posizione
qualificata e differenziata del richiedente, per altro verso
non può tollerare che la p.a. diventi destinataria di
richieste esorbitanti e comportanti una defatigante attività
di ricerca delle pratiche, attività che si porrebbe in
contrasto con lo stesso principio di buon andamento della
p.a. di cui all’art. 97 Cost..
2.1 Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento
ai documenti di programmazione rispetto ai quali con il
ricorso si lamenta altresì la violazione delle disposizioni
di cui al d.lgs. n. 33/2013.
Sul punto l’istanza di accesso ex art. 22 della legge n. 241
cit. si appalesa evidentemente infondata dal momento che ai
sensi dell’art. 24, comma 1, della lett. c), l. cit, sono
esclusi dal diritto di accesso ivi disciplinato gli atti
amministrativi generali e di programmazione, per i quali
restano ferme le particolari norme che ne regolano la
formazione.
In ogni caso è bene premettere come i due istituti (accesso
ai sensi della legge n. 241/1990 e accesso civico ai sensi
dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013) operano su piani distinti
avendo diversi presupposti e disciplina; il che non
impedisce che un soggetto possa essere titolare di una
posizione differenziata tale da essere tutelata con
l’accesso “tradizionale” di cui alla legge n. 241/1990 e
contemporaneamente avvalersi dell’accesso civico qualora ne
ricorrano i presupposti.
Per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione di cui
al d.lgs. n. 33/2013, quindi, possono operare cumulativamente
tanto il diritto di accesso “classico” ex l. n. 241/1990
quanto il diritto di accesso civico ex d.lgs. n. 33/2013,
mentre per gli atti non rientranti in tali obblighi di
pubblicazione opererà, evidentemente solo il diritto di
accesso procedimentale di cui alla l. n. 241/1990 (cfr.
questa Sezione n. 5671/2014).
Il diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 della legge n.
241/1990 ossia il “diritto degli interessati di prendere
visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi” è
cosa diversa dal diritto della generalità dei cittadini alla
più ampia accessibilità alle informazioni concernenti
l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione
che si realizza tramite la pubblicazione obbligatoria di una
serie di documenti e che è disciplinata dal d.lgs. n.
33/2013.
Pur essendo il rito ex art. 116 c.p.a. esperibile sia a
tutela dell'accesso ai documenti amministrativi ex art. 22
della l. n. 241 cit., sia "per la tutela del diritto di
accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di
trasparenza", i due istituti sono tra loro diversi vista, in
particolare, la differenza dei relativi presupposti.
Con il d.lgs. n. 33/2013, infatti, si è inteso procedere al
riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i
cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni
concernenti l'organizzazione e l'attività delle P.A., allo
scopo di attuare il principio democratico, nonché i principi
costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento,
responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di
risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una
buona amministrazione e per la realizzazione di
un'Amministrazione aperta, al servizio del cittadino. Il
tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di
documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato
decreto legislativo ed aventi ad oggetto l'organizzazione,
nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti
istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere
a tali siti direttamente ed immediatamente, senza
autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa
pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5
del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in
una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale
adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva
inadempienza dell'obbligo in questione, di ricorrere al G.A.
secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente l'accesso ai documenti amministrativi,
disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, è
relativo al diritto degli interessati di prendere visione e
di estrarre copia di "documenti amministrativi",
intendendosi per "interessati" i soggetti che abbiano un
interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento a cui si rivolge l'accesso, cosicché in funzione
di tale interesse l'istanza di accesso deve essere motivata.
Il Collegio è ben consapevole del fatto che l’accesso civico
è uno strumento che si aggiunge a quelli esistenti, senza
eliderli, ma sovrapponendosi agli stessi.
Ciò nondimeno, è di tutta evidenza che, una volta esercitata
la facoltà di avvalersi di uno degli istituti sopraindicati
mediante la presentazione della relativa specifica istanza,
non è possibile poi far valere, con la pretesa automaticità,
le prerogative di tutela previste per l’altro procedimento;
ciò, anche in un’ottica di leale collaborazione tra le
parti, dovendo l’istanza del soggetto interessato orientare,
in termini di necessaria coerenza, il comportamento
concretamente esigibile dall’Autorità adita.
Ed, invero, nel caso in esame pur avendo parte ricorrente
menzionato nell’istanza la normativa di cui al cit. d.lgs.
n. 33/2013, difetta comunque una richiesta di accesso civico
che, peraltro, sebbene connotata da estrema informalità,
riflette, ai sensi della disciplina di settore, un contenuto
tipizzato, di certo non fungibile con quello dell’istanza di
accesso ordinaria, siccome volta a promuovere –per finalità
e muovendo da presupposti di legittimazione diversi- i
seguenti adempimenti a carico dell’Amministrazione:
“…procede alla pubblicazione nel sito del documento,
dell'informazione o del dato richiesto e lo trasmette
contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo
l'avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento
ipertestuale a quanto richiesto. Se il documento,
l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati
nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione
indica al richiedente il relativo collegamento
ipertestuale”.
Ed infatti solo in caso di omessa
pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5
del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in
una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale
adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva
inadempienza dell'obbligo in questione, di ricorrere al G.A.
secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
In definitiva, la mancata attivazione del procedimento in
argomento (id est accesso civico) priva il ricorso proposto
ai sensi del combinato disposto dell’articolo 116 c.p.a. e
dell’articolo 5 del d.lgs. 33 del 2013 della relativa causa petendi essendo, comunque, la forma di tutela prevista dalla
disciplina di settore costruita come un’azione di tipo
impugnatorio che va spiegata avverso la determinazione
reiettiva dell’istanza di accesso civico (giammai
presentata) ovvero avverso la formazione del silenzio (non
perfezionatosi per assenza di un’istanza di accesso civico).
Pertanto, nella suddetta prospettiva, deve concludersi per
l’infondatezza delle censure formulate ai sensi e per gli
effetti di cui al d.lgs. 33 del 2013, dal momento che il
contenuto dell’istanza ostensiva riflette, invero, con
evidenza, che la pretesa attorea è stata azionata ai sensi e
per gli effetti di cui alla legge n. 241/1990 e, come tale,
dunque, è stata coerentemente valutata, dall’Amministrazione
intimata, di talché è solo all’interno del suddetto
perimetro normativo che è possibile valutare la legittimità
del diniego nonché la spettanza del diritto reclamato.
Ed infatti sulla base dell’istanza, e senza che nemmeno sia
stata dedotta la violazione del dovere di pubblicazione, non
è dato comprendere se l'obiettivo avuto di mira dalla
ricorrente includesse anche la pubblicazione, da parte delle
amministrazioni intimate degli atti e documenti di cui al
d.lgs. n. 33/2013, ovvero la sola presa visione ed
estrazione di copia degli atti oggetto dell'istanza
inoltrata. Senza tener conto che né dalla istanza né dal
conseguente ricorso è dato evincersi con certezza che gli
atti di programmazione oggetto di richiesta ostensiva siano
realmente esistenti ed adottati, e comunque efficaci alla
data di entrata in vigore del d.lgs. n. 33 cit. sì da
potersi ritenere assoggettabili al relativo obbligo di
pubblicazione.
In definitiva per quanto sopra esposto il ricorso va
respinto con ogni conseguenza in ordine alle spese
processuali tra le parti costituite che seguono la
soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 12.05.2017 n. 2562 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’accesso
civico previsto e regolato dal dec. lgv. 33 del 2013, come
modificato dal dec. lgv.n. 97 del 2016 non è un istituto
giuridico che riconduce e assorbe ogni regolamentazione in
materia di accesso a superamento anche dalla disciplina
normativa dettata dalla legge 241 del 1990, essendo diversa
la ratio e le finalità delle due normative.
Quella dettata dalla legge 241 del 1990 prevede e regola
l’accesso agli atti amministrativi da parte di soggetti che
abbiano un interesse personale e diretto alla conoscenza di
atti in possesso di un’amministrazione pubblica al fine di
meglio tutelare la loro personale posizione soggettiva.
Si tratta di atti che normalmente attengono all’istruttoria
procedimentale o anche a provvedimenti conclusivi della
stessa che in qualche modo interessano il soggetto che
intenda acquisirli e la cui conoscenza possa essere utile
allo stesso e che per questo deve motivare la propria
richiesta. Per tale accesso valgono i casi di esclusione
previsti dall’art. 24 della legge 241 del 1990 e fra questi
vi è la tutela della riservatezza.
L’istituto dell’accesso civico risponde, invece, a esigenze
diverse delineate chiaramente dall’art. 1 del dec. lgv n. 33
del 2013 laddove richiama i principi di trasparenza, intesa
come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i
diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli
interessati all'attività amministrativa e favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche. Il
riferimento ai cittadini e all’utilizzo delle risorse
pubbliche evidenzia la diversa caratterizzazione
dell’interesse generale e per questo non soggetto ad alcuna
formalità motivazionale, rispetto a quello personale.
Ciò è meglio chiarito dal riferimento all’obbligo della
pubblicazione nei siti istituzionali delle pubbliche
amministrazioni dei documenti, delle informazioni e dei dati
concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche
amministrazioni stesse con particolare riferimento alle
risorse pubbliche (art. 4-bis). In tale specifica ratio e
connotazione vanno letti i casi di esclusione regolati
dall’art. 5-bis nel quale, non a caso al 1° comma, si fa
riferimento, come limiti all’accesso civico, esclusivamente
agli interessi pubblici specificamente indicati e quelli a
tutela di peculiari interessi privati che il comma 2°
individua e tra questi la protezione dei dati personali, in
conformità con la disciplina vigente in materia e che il
comma 3° ribadisce con riferimento all’art. 24 della legge
241 del 1990, a conferma di quanto prima detto sulla netta
distinzione esistente fra l’accesso civico e l’”ordinario”
accesso agli atti.
In sostanza, l’accesso civico non può essere utilizzato per
superare, in particolare in materia di interessi personali e
dei principi della riservatezza, i limiti imposti dalla
legge 241 del 1990.
---------------
2) Il Collegio osserva nel merito, prescindendo dalla
questione, rilevabile d’ufficio, della verifica
dell’integrità del contraddittorio, posto che i docenti i
cui dati relativi ai premi percepiti li legittimerebbero a
contraddire nel presente giudizio, che il ricorso è
infondato.
L’accesso civico previsto e regolato dal dec. lgv. 33 del
2013, come modificato dal dec. lgv.n. 97 del 2016 non è un
istituto giuridico che riconduce e assorbe ogni
regolamentazione in materia di accesso a superamento anche
dalla disciplina normativa dettata dalla legge 241 del 1990,
essendo diversa la ratio e le finalità delle due
normative. Quella dettata dalla legge 241 del 1990 prevede e
regola l’accesso agli atti amministrativi da parte di
soggetti che abbiano un interesse personale e diretto alla
conoscenza di atti in possesso di un’amministrazione
pubblica al fine di meglio tutelare la loro personale
posizione soggettiva.
Si tratta di atti che normalmente attengono all’istruttoria
procedimentale o anche a provvedimenti conclusivi della
stessa che in qualche modo interessano il soggetto che
intenda acquisirli e la cui conoscenza possa essere utile
allo stesso e che per questo deve motivare la propria
richiesta. Per tale accesso valgono i casi di esclusione
previsti dall’art. 24 della legge 241 del 1990 e fra questi
vi è la tutela della riservatezza.
L’istituto dell’accesso civico risponde, invece, a esigenze
diverse delineate chiaramente dall’art. 1 del dec. lgv n. 33
del 2013 laddove richiama i principi di trasparenza, intesa
come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i
diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli
interessati all'attività amministrativa e favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche. Il
riferimento ai cittadini e all’utilizzo delle risorse
pubbliche evidenzia la diversa caratterizzazione
dell’interesse generale e per questo non soggetto ad alcuna
formalità motivazionale, rispetto a quello personale.
Ciò è meglio chiarito dal riferimento all’obbligo della
pubblicazione nei siti istituzionali delle pubbliche
amministrazioni dei documenti, delle informazioni e dei dati
concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche
amministrazioni stesse con particolare riferimento alle
risorse pubbliche (art. 4-bis). In tale specifica ratio
e connotazione vanno letti i casi di esclusione regolati
dall’art. 5-bis nel quale, non a caso al 1° comma, si fa
riferimento, come limiti all’accesso civico, esclusivamente
agli interessi pubblici specificamente indicati e quelli a
tutela di peculiari interessi privati che il comma 2°
individua e tra questi la protezione dei dati personali, in
conformità con la disciplina vigente in materia e che il
comma 3° ribadisce con riferimento all’art. 24 della legge
241 del 1990, a conferma di quanto prima detto sulla netta
distinzione esistente fra l’accesso civico e l’”ordinario”
accesso agli atti.
In sostanza, l’accesso civico non può essere utilizzato per
superare, in particolare in materia di interessi personali e
dei principi della riservatezza, i limiti imposti dalla
legge 241 del 1990.
Sulle base di quanto sopra considerato è, quindi, da
escludere che possa essere consentito alla ricorrente
Associazione sindacale i dati dalla stessa richiesti, ossia
il prospetto analitico dei compensi erogati al personale
docente e dei beneficiari del FIS, ciò perché l’art. 24
della legge 241 del 1990, che prevede come ipotesi di
inammissibilità dell’accesso quella delle istanze di accesso
preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle
pubbliche amministrazioni, stabilisce altresì –al comma 6,
lett. d)- che le Amministrazioni possano escludere
dall’accesso i documenti riguardanti la vita privata o la
riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi,
imprese e associazioni, con particolare riferimento agli
interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario,
industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari,
ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione
dagli stessi soggetti cui si riferiscono: e tutto ciò che
concerne il trattamento economico/retributivo rientra in
pieno in tale ipotesi di tutela della riservatezza.
Tale disposto normativo va, inoltre, integrato con le
disposizioni in materia di privacy di cui al dec. lgv. n.
196 del 30.06.2003 sulle quali è intervenuto il Garante con
un proprio parere del 13.10.2014 nel quale esclude che le
informazioni possano riguardare i compensi riferiti ai
singoli lavoratori individuali, potendosi solo consentire
l’accesso ai dati sui compensi solo in forma aggregata.
Analoga conclusione può trarsi con riferimento proprio al
c.d. accesso civico regolato dal dec. lgs. n. 33 del
14.03.2013 per quanto concerne gli atti per i quali vi è
l’obbligo della pubblicazione: l’art. 20 di tale decreto, in
particolare, prevede che la pubblicazione dei dati
riguardanti l’ammontare complessivo dei premi collegati alla
performance stanziati e l’ammontare dei premi effettivamente
distribuiti possa avvenire solo in maniera complessiva e in
forma aggregata.
Correttamente, quindi, il responsabile dell’Istituto
scolastico ha riscontrato la richiesta della ricorrente
indicando che per l'attribuzione del Bonus Docenti per
gruppi aggregati e i compensi MOF docenti e ATA può essere
consultato il sito dell'Istituto scolastico alla pagina
Amministrazione Trasparente; come correttamente lo stesso
responsabile, con riferimento ai criteri stabiliti dal
Comitato di Valutazione, ha comunicato che possono essere
consultati sul sito dell'Istituto nelle pagine Albo on-line
o Amministrazione Trasparente.
L’art. 5, comma 1, del dec. legv. n. 33 cit., infatti,
chiarisce che l'obbligo previsto dalla normativa vigente in
capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti,
informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di
richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la
loro pubblicazione; donde nessun obbligo aveva il predetto
responsabile di rilasciare comunque in copia i documenti
richiesti essendo essi pubblicati ed essendo stata data
precisa indicazione ove reperirli sul sito web
dell’Istituto. Priva di pregio è, quindi, la doglianza sulla
negazione dell’accesso civico (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 10.05.2017 n. 463 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Non
può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l'accesso
agli atti della p.a., per omessa notifica al
controinteressato, quando la stessa amministrazione non
abbia ritenuto consentire la partecipazione in sede
procedimentale di altri soggetti che potrebbero subire un
pregiudizio dall'accoglimento della istanza di accesso e che
acquisterebbero la qualifica di controinteressati nel caso
di impugnazione del conseguente diniego.
Tale principio risulta, invero, affermato (muovendo dal
disposto dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n.
184) in riferimento ai casi di diniego espresso rispetto ai
quali il comportamento dell’Amministrazione può
effettivamente indurre in errore il soggetto istante che,
"conformandosi" alla valutazione resa dall'Amministrazione,
secondo cui non esistevano posizioni di controinteresse
(tanto da non avere comunicato ad alcuno l'avvenuta
presentazione della domanda di accesso), non abbia
provveduto, a propria volta, a notificare il mezzo di primo
grado.
---------------
Il giudizio in materia di accesso anche se si atteggia come
impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in
quanto rivolto avverso il provvedimento di diniego o avverso
il silenzio-rigetto formatosi sulla relativa istanza, è
sostanzialmente rivolto ad accertare la sussistenza o meno
del titolo all'accesso nella particolare situazione dedotta
in giudizio alla luce dei parametri normativi,
indipendentemente dalla correttezza o meno delle ragioni
addotte dall'Amministrazione per giustificare il diniego.
Infatti, il giudizio proposto, ai sensi dell'art. 116 c.p.a.,
avverso il diniego ha per oggetto la verifica della
spettanza o meno del diritto medesimo, piuttosto che la
verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità del
diniego impugnato; il giudice può, quindi, ordinare
l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi
all'Amministrazione e ordinandole "un facere", solo se ne
sussistono i presupposti, il che, pertanto, implica che,
anche al di là degli specifici vizi e della specifica
motivazione addotta nell'atto amministrativo di diniego
dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o
meno i presupposti dell'accesso, potendo anche negare per
motivi diversi da quelli indicati dal provvedimento
amministrativo.
---------------
Nei rapporti tra riservatezza e accesso (desumibili sia dal
ricordato art. 24 sia dagli artt. 59 e 60 del d.lgs. n.
196/2003 recante il codice in materia di protezione dei dati
personali), la prima recede quanto l’accesso alla
documentazione sia funzionale alla tutela e alla difesa di
propri interessi giuridici.
E’ evidente che la nozione di “cura e difesa di interessi
giuridici” di cui al comma 7 dell’art. 24 che consente di
superare l’esclusione dal diritto di accesso a documenti
riguardanti “la vita privata o la riservatezza di persone
fisiche” [comma 5, lettera c), del medesimo articolo] non
può essere intesa in senso lato fino a ricomprendere
qualsiasi tipo di interesse (non a caso la giurisprudenza
con riguardo al comma 7 cit. ha parlato di “accesso
defensionale” ossia quello propedeutico alla migliore tutela
delle proprie ragioni in un giudizio –già pendente o da
introdurre– ovvero nell’ambito di un procedimento
amministrativo).
---------------
Espone la società ricorrente:
- di essere una start up innovativa che ha elaborato
un’applicazione da installare sugli smartphone per agevolare
il contatto tra utenti e titolari di licenze TAXI e NCC
(noleggio con conducente);
- che in tal modo offre un servizio gratuito di prenotazione
delle corse suscettibile di migliorare la trasparenza e la
qualità del servizio di trasporto;
- di avere, pertanto, chiesto al Comune di Napoli con
l’istanza del 15.07.2016 l’elenco dei nominativi degli NCC autorizzati dall’amministrazione a svolgere tale
attività accompagnato dai numeri di licenza, indirizzo e
recapito telefonico.
Lo scopo della domanda di accesso è quello “di consentire
agli NCC (noleggio con conducente) che aderiranno al
servizio DigiTaxi di essere identificati come autorizzati
(evitando quindi l’iscrizione di abusivi) e ricevere le
prenotazioni degli utenti”.
Con il provvedimento del 27.07.2016 impugnato il Comune
di Napoli ha negato l’accesso sul presupposto che si tratta
“di informazioni personali di soggetti esercenti un pubblico
servizio ma i cui dati personali non possono essere
rilasciati se non dietro autorizzazione”, peraltro, la
richiesta sarebbe stata inoltrata da una impresa “per
l’attivazione di un servizio di intermediazione che si
presume possa essere di natura commerciale”.
La ricorrente ha impugnato il diniego sostenendone
l’illegittimità sotto vari profili.
...
Ciò premesso, devono essere respinte le eccezioni di
inammissibilità del gravame formulate dalla difesa comunale.
Relativamente alla eccepita omessa notifica del ricorso ad
almeno un controinteressato deve osservarsi come la società
ricorrente non conoscesse i nominativi dei titolari di
licenza.
In ogni caso, nella fattispecie può farsi
applicazione di quell’orientamento secondo cui (Cons. Stato
Sez. VI, 08.02.2012, n. 677 ma anche Cons. Stato Sez. IV,
16.05.2011, n. 2968 Cons. Stato Sez. VI, Sent., 30.07.2010,
n. 5062) non può essere dichiarato inammissibile il ricorso
per l'accesso agli atti della p.a., per omessa notifica al controinteressato, quando la stessa amministrazione non
abbia ritenuto consentire la partecipazione in sede
procedimentale di altri soggetti che potrebbero subire un
pregiudizio dall'accoglimento della istanza di accesso e che
acquisterebbero la qualifica di controinteressati nel caso
di impugnazione del conseguente diniego.
Tale principio
risulta, invero, affermato (muovendo dal disposto dell’art.
3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184) in
riferimento ai casi di diniego espresso rispetto ai quali il
comportamento dell’Amministrazione può effettivamente
indurre in errore il soggetto istante che, "conformandosi"
alla valutazione resa dall'Amministrazione, secondo cui non
esistevano posizioni di controinteresse (tanto da non avere
comunicato ad alcuno l'avvenuta presentazione della domanda
di accesso), non abbia provveduto, a propria volta, a
notificare il mezzo di primo grado.
Il Collegio, poiché ritiene il ricorso nel merito infondato,
non reputa necessario per economia processuale procedere
all’integrazione del contraddittorio con i titolari di
licenza i cui dati personali sono stati richiesti con la
domanda di accesso de qua (cfr. C.d.S. n. 1120/2016 che ha
affermato che nel processo amministrativo, ai sensi degli
artt. 74 e 88, comma 2, lett. d), c.p.a., l'integrazione del
contraddittorio, in base al principio di economia degli atti
giuridici ed in specie processuali, non è richiesta nei casi
in cui il ricorso è manifestamente inammissibile o
infondato).
Destituita di fondamento anche l’eccezione di
inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione del
precedente diniego opposto dal Comune su identica istanza di
accesso. Con la domanda di accesso di cui trattasi la
ricorrente ha chiesto l’elenco dei titolari di licenza NCC
mentre con la precedente istanza presentata in data 13.05.2014 veniva chiesto l’elenco dei titolari di licenza
TAXI. E’ evidente, dunque, che si tratta di domande aventi
un diverso oggetto e per le quali non può parlarsi di
reiterazione della stessa domanda di accesso.
Venendo la merito, come esposto in fatto, la ricorrente ha
chiesto l’elenco dei titolari di licenza NCC unitamente al
loro indirizzo e numero telefonico motivando la domanda sul
presupposto di dover garantire che l’iscrizione al servizio
offerto (che come visto mira a mettere in contatto utenti ed
esercenti l’attività di trasporto) sia possibile solo da
parte di operatori muniti di regolare licenza.
Ritiene il Collegio che l’esigenza manifestata nell’istanza
di accesso, sicuramente meritevole di tutela in quanto volta
ad evitare che aderiscano al servizio coloro che lo
esercitano in modo abusivo, sia soddisfatta con il possesso
dell’elenco fornito dal Comune dei nominativi accompagnato
dal numero di licenza. In questo modo deve ritenersi
raggiunto lo scopo dichiarato nella domanda di accesso agli
atti.
A giudizio del Collegio, infatti, il nome unitamente al
numero di licenza consente alla DigiTaxi di identificare
come autorizzati gli aderenti al servizio.
Del resto ogni dubbio circa l’identità degli aderenti
(all’odierna discussione della causa parte ricorrente ha
evidenziato il rischio di casi di omonimia) può essere
fugato chiedendo all’interessato di fornire il proprio
numero di licenza ed in ultima istanza facendo una verifica
successiva presso l’amministrazione comunale (cfr. al
riguardo la nota difensiva del servizio competente del 05.12.2016 depositati in atti).
Sul punto parte ricorrente con la memoria del 10.04.2017
ha sostenuto il divieto di motivazione postuma degli atti da
parte dell’amministrazione.
Rammenta di contro il Collegio che il giudizio in materia di
accesso anche se si atteggia come impugnatorio nella fase
della proposizione del ricorso, in quanto rivolto avverso il
provvedimento di diniego o avverso il silenzio-rigetto
formatosi sulla relativa istanza, è sostanzialmente rivolto
ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso
nella particolare situazione dedotta in giudizio alla luce
dei parametri normativi, indipendentemente dalla correttezza
o meno delle ragioni addotte dall'Amministrazione per
giustificare il diniego. Infatti, il giudizio proposto, ai
sensi dell'art. 116 c.p.a., avverso il diniego ha per
oggetto la verifica della spettanza o meno del diritto
medesimo, piuttosto che la verifica della sussistenza o meno
di vizi di legittimità del diniego impugnato; il giudice
può, quindi, ordinare l'esibizione dei documenti richiesti,
così sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole "un facere", solo se ne sussistono i presupposti, il che,
pertanto, implica che, anche al di là degli specifici vizi e
della specifica motivazione addotta nell'atto amministrativo
di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se
sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo anche
negare per motivi diversi da quelli indicati dal
provvedimento amministrativo (TAR Lazio, Roma, sez. II 10.04.2013 n. 3641).
Nella fattispecie, il Comune di Napoli ha fornito l’elenco
dei nominativi e il numero di licenza degli operatori
autorizzati ma non il loro indirizzo e recapito telefonico.
Non vi è dubbio che si tratti di dati personali di terzi il
cui accesso può giustificarsi ai sensi dell’art. 24, comma 7,
della legge n. 241 del 1990 laddove il richiedente abbia la
necessità di “curare e difendere i propri interessi
giuridici”. Nei rapporti tra riservatezza e accesso
(desumibili sia dal ricordato art. 24 sia dagli artt. 59 e
60 del d.lgs. n. 196/2003 recante il codice in materia di
protezione dei dati personali), la prima recede quanto
l’accesso alla documentazione sia funzionale alla tutela e
alla difesa di propri interessi giuridici.
Nel caso di specie l’esigenza manifestata nella domanda di
accesso di garantire l’iscrizione al servizio dei soli
operatori autorizzati è già soddisfatta dalla conoscenza dei
loro nominativi accompagnati dal numero della licenza mentre
non si comprende quale finalità e quale interesse,
meritevole di tutela nel bilanciamento tra accesso e
riservatezza, sia sottesa alla conoscenza degli indirizzi e
dei recapiti telefonici (per lo più numeri di cellulare –
cfr. difesa dell’amministrazione).
E’ evidente che la nozione di “cura e difesa di interessi
giuridici” di cui al comma 7 dell’art. 24 che consente di
superare l’esclusione dal diritto di accesso a documenti
riguardanti “la vita privata o la riservatezza di persone
fisiche” [comma 5, lettera c), del medesimo articolo] non può
essere intesa in senso lato fino a ricomprendere qualsiasi
tipo di interesse (non a caso la giurisprudenza con riguardo
al comma 7 cit. ha parlato di “accesso defensionale” ossia
quello propedeutico alla migliore tutela delle proprie
ragioni in un giudizio –già pendente o da introdurre–
ovvero nell’ambito di un procedimento amministrativo).
Nel caso di specie l’esigenza di “difendersi dall’accusa di
uso improprio della piattaforma virtuale” (cfr. memoria del
14.04.2017) è già garantita dal possesso dell’elenco dei
nominativi e del numero di licenza e risulta ultronea e
immotivata con riferimento ai recapiti dei titolari di
licenza (sicuramente definibili ai sensi del citato codice
come dati personali).
Deve, poi, aggiungersi che mentre il servizio offerto dalla
ricorrente è gratuito per gli utenti del trasporto, non lo è
per i titolari di licenza che oltre a dover prestare il
proprio consenso al trattamento dei loro dati personali
devono pagare per ogni intermediazione andata a buon fine
per il tramite dell’applicazione (cfr. regolamento di
funzionamento allegato in atti). In altri termini,
l’interesse sotteso alla domanda di accesso sembra
effettivamente essere di natura commerciale (come
evidenziato dal Comune nel proprio diniego) e non può,
comunque, prevalere sul diritto dei terzi alla riservatezza
dei loro dati personali.
Del tutto irrilevante, al riguardo, la diversa scelta (come
affermato in ricorso) effettuata da altri Comuni di
accogliere integralmente analoghe domande di accesso
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 09.05.2017 n. 2463 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto
dalla legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., costituisce un
principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca
in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di
celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i
principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della
funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul
riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti
amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per
l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un
interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede
l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse
legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque
giuridicamente tutelato, ed un rapporto di strumentalità tra
tale interesse e la documentazione di cui si chiede
l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro,
essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione
richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la
difesa dell’interesse giuridicamente rilevante.
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti
amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n.
241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005,
richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti
i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di
quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il
successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque
essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”.
---------------
Il giudizio sul diritto di accesso non esime da una
valutazione circa l’esistenza di una posizione pur sempre
differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi,
in termini di concretezza ed attualità, un interesse
conoscitivo.
A tal proposito, è stato chiarito che essere titolari di
situazioni giuridicamente tutelate non è condizione
sufficiente affinché l’interesse rivendicato possa
considerarsi "diretto, concreto ed attuale", come richiesto
dalla ricordata disposizione normativa, essendo anche
necessario che la documentazione cui si chiede di accedere
sia collegata a quella posizione sostanziale, impendendone
od ostacolandone il soddisfacimento.
Infatti, l’Ordinamento prevede che l’esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l’accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione.
---------------
In linea generale e con riferimento al tema dell’accesso, si
osserva che, anche recentemente, la giurisprudenza ha
ribadito che il diritto di accesso ai documenti
amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241 e
ss.mm., costituisce un principio generale dell’ordinamento
giuridico e si colloca in un sistema ispirato al
contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza
dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione
e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte
dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio
di pubblicità dei documenti amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per
l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un
interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede
l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse
legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque
giuridicamente tutelato, ed un rapporto di strumentalità tra
tale interesse e la documentazione di cui si chiede
l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro,
essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione
richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la
difesa dell’interesse giuridicamente rilevante (per tutte
Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55).
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti
amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n.
241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005,
richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto
e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti
i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di
quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il
successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve
comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ stato ulteriormente precisato che il giudizio sul diritto
di accesso non esime da una valutazione circa l’esistenza di
una posizione pur sempre differenziata in capo al
richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza
ed attualità, un interesse conoscitivo.
A tal proposito, è stato chiarito che essere titolari di
situazioni giuridicamente tutelate non è condizione
sufficiente affinché l’interesse rivendicato possa
considerarsi "diretto, concreto ed attuale", come
richiesto dalla ricordata disposizione normativa, essendo
anche necessario che la documentazione cui si chiede di
accedere sia collegata a quella posizione sostanziale,
impendendone od ostacolandone il soddisfacimento.
Infatti, l’Ordinamento prevede che l’esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l’accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione (in tal
senso, da ultimo, TAR Molise, sez. I, 19.10.2016, n. 424,
TAR Lazio, Roma, sez. II, 12.10.2016, n. 10175; TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 11.10.2016, n. 4658; id.,
30.09.2016, n. 4508; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.03.2016, n.
3364)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 04.05.2017 n. 603 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La parte lesa da un comportamento
disciplinarmente rilevante ha un interesse qualificato
all’ostensione degli atti del relativo procedimento;
rilevano, in proposito, esigenze di tutela, sia giudiziale
che stragiudiziale, rinvenibili prima e indipendentemente
dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale, rispetto
alle quali può essere utile acquisire gli atti
dell’istruttoria disciplinare.
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della
L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”, impone al giudice di accertare
se la conoscenza della documentazione amministrativa
richiesta è potenzialmente utilizzabile a fini di difesa,
giudiziale o stragiudiziale, di interessi giuridicamente
rilevanti.
Dunque, l’autonomia della domanda di accesso comporta che il
giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve
verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di
accesso, e non anche la ricevibilità, l’ammissibilità o la
rilevanza dei documenti richiesti rispetto al giudizio
principale, sia esso pendente o meno, purché, in chiave di
attualità e pertinenza dell’interessa alla pretesa
ostensiva, questi ultimi abbiano una qualche incidenza sulla
misura disciplinare..
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale
ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della
visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe
convincersi della correttezza dell'operato
dell’Amministrazione e rinunciare all'azione
giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.
---------------
Nel caso di specie, gli atti di cui si è negato l’accesso
non solo non sono stati posti alla base del procedimento
disciplinare, non contribuendo in alcun modo alla formazione
della volontà amministrativa, concretizzatasi nel
provvedimento emanato all’esito del procedimento; ma, come
emerso dalla disposta istruttoria e dal chiarimento in tal
senso reso dall’amministrazione resistente in un’ottica di
autoresponsabilità e collaborazione processuale, indicati
solo in sede di contestazione in quanto afferenti il
generale sistema di organizzazione dei rapporti tra docenza
e discenza, senza alcuna specifica incidenza sulla vicenda
de qua.
Ne consegue che deve escludersi che la ricorrente abbia un
“interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata” alla conoscenza di
tali atti di carattere pianificatorio-programmatorio [art.
24, 1° co., lett. c), L. 241/1990] e in nessun modo
incidenti sullo sviluppo concreto del procedimento
disciplinare.
---------------
2.2. Non si può negare che la parte lesa da un comportamento
disciplinarmente rilevante abbia un interesse qualificato
all’ostensione degli atti del relativo procedimento;
rilevano, in proposito, esigenze di tutela, sia giudiziale
che stragiudiziale, rinvenibili prima e indipendentemente
dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale, rispetto
alle quali può essere utile acquisire gli atti
dell’istruttoria disciplinare (cfr. Cons. St., sez. V,
23.02.2010, n. 1067).
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della
L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito
ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”, impone al giudice di
accertare se la conoscenza della documentazione
amministrativa richiesta è potenzialmente utilizzabile a
fini di difesa, giudiziale o stragiudiziale, di interessi
giuridicamente rilevanti. Dunque, l’autonomia della domanda
di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su
tale domanda, deve verificare solo i presupposti
legittimanti la richiesta di accesso, e non anche la
ricevibilità, l’ammissibilità o la rilevanza dei documenti
richiesti rispetto al giudizio principale, sia esso pendente
o meno, purché, in chiave di attualità e pertinenza
dell’interessa alla pretesa ostensiva, questi ultimi abbiano
una qualche incidenza sulla misura disciplinare. (cfr. Cons.
St., sez. III, 13.01.2012, n. 116).
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale
ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della
visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe
convincersi della correttezza dell'operato
dell’Amministrazione e rinunciare all'azione
giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.
2.3. Orbene, nel caso di specie, gli atti di cui si è negato
l’accesso non solo non sono stati posti alla base del
procedimento disciplinare, non contribuendo in alcun modo
alla formazione della volontà amministrativa,
concretizzatasi nel provvedimento emanato all’esito del
procedimento; ma, come emerso dalla disposta istruttoria e
dal chiarimento in tal senso reso dall’amministrazione
resistente in un’ottica di autoresponsabilità e
collaborazione processuale, indicati solo in sede di
contestazione in quanto afferenti il generale sistema di
organizzazione dei rapporti tra docenza e discenza, senza
alcuna specifica incidenza sulla vicenda de qua.
Ne consegue
che deve escludersi che la ricorrente abbia un “interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata” alla conoscenza di
tali atti di carattere pianificatorio-programmatorio [art.
24, 1° co., lett. c), L. 241/1990] e in nessun modo
incidenti sullo sviluppo concreto del procedimento
disciplinare.
3.1. Il ricorso deve quindi essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 03.05.2017 n. 2371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Non
può disconoscersi in capo allo stesso un palese interesse
all'ostensione dei richiesti documenti, la cui conoscenza è
obiettivamente strumentale alla tutela di posizioni
giuridicamente rilevanti (alla tranquillità domestica, alla
integrità della proprietà e al risarcimento dei danni
patiti), alle quali gli stessi documenti si correlano
direttamente.
Risulta quindi integrato il presupposto dell'art. 22 della
legge n. 241 del 1990, il quale individua i soggetti
legittimati all'accesso ai documenti amministrativi in tutti
coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al
documento al quale si chiede l'accesso.
Inoltre, l'interesse all'accesso ai documenti va valutato in
astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al
caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla
fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
l’interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo
valutarsi la legittimazione all'accesso alla stessa stregua
di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante
---------------
La giurisprudenza ha costantemente ritenuto illegittimo il
diniego all'accesso agli atti motivato con esclusivo
riferimento alle ragioni contrarie espresse dal soggetto
controinteressato, senza ulteriori ragionamenti e
controdeduzioni in termini di interesse pubblico, pur
meritevoli di considerazione nel bilanciamento dei
contrapposti interessi.
Invero, la Pubblica amministrazione non può legittimamente
assumere quale unico fondamento del diniego di accesso agli
atti la mancanza del consenso da parte dei soggetti
controinteressati, atteso che la normativa in materia, lungi
dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle
richieste che li riguardino, rimette sempre
all'Amministrazione destinataria della richiesta di accesso
il potere di valutare la fondatezza dell’istanza, anche se
in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai
controinteressati.
Sempre nel senso della fondatezza del presente ricorso, ma
sotto un diverso punto di vista, occorre richiamare l’avviso
pacifico e costante della giurisprudenza secondo cui il
diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di
riservatezza di terzi quando esso sia esercitato per
consentire la cura o la difesa processuale di interessi
giuridicamente protetti e concerna un documento
amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza
non possa essere altrimenti soddisfatta.
---------------
6. Il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento per le
ragioni qui di seguito esposte.
6.1. Con riguardo alla specifica posizione del soggetto qui
richiedente l’accesso, non può disconoscersi in capo allo
stesso un palese interesse all'ostensione dei richiesti
documenti, la cui conoscenza è obiettivamente strumentale
alla tutela di posizioni giuridicamente rilevanti (alla
tranquillità domestica, alla integrità della proprietà e al
risarcimento dei danni patiti), alle quali gli stessi
documenti si correlano direttamente.
Risulta quindi integrato il presupposto dell'art. 22 della
legge n. 241 del 1990, il quale individua i soggetti
legittimati all'accesso ai documenti amministrativi in tutti
coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al
documento al quale si chiede l'accesso.
Resta da aggiungere che l'interesse all'accesso ai documenti
va valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
l’interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo
valutarsi la legittimazione all'accesso alla stessa stregua
di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.04.2005, n. 1896; id.,
sez. IV, 19.03.2001, n. 1621).
6.2. Per contro, deve ritenersi affetta da radicale carenza
di motivazione la giustificazione opposta dalla ASL e
poggiante sulla posizione di mera contrarietà all’esibizione
degli documenti manifestata, in termini del tutto generici e
apodittici, dal terzo controinteressato.
Pronunciandosi su ipotesi analoghe a quella qui in esame, la
giurisprudenza ha costantemente ritenuto illegittimo il
diniego all'accesso agli atti motivato con esclusivo
riferimento alle ragioni contrarie espresse dal soggetto
controinteressato, senza ulteriori ragionamenti e
controdeduzioni in termini di interesse pubblico, pur
meritevoli di considerazione nel bilanciamento dei
contrapposti interessi (ex multis TAR Lazio, sez. III, 21.12.2015, n. 14356).
Si è osservato, in tal senso, che la Pubblica
amministrazione non può legittimamente assumere quale unico
fondamento del diniego di accesso agli atti la mancanza del
consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che
la normativa in materia, lungi dal rendere i
controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li
riguardino, rimette sempre all'Amministrazione destinataria
della richiesta di accesso il potere di valutare la
fondatezza dell’istanza, anche se in contrasto con
l'opposizione eventualmente manifestata dai
controinteressati (TAR Lecce, sez. II, 29.04.2015, n.
1419; TAR Reggio Calabria, sez. I, 16.03.2015, n.
281).
6.3. Sempre nel senso della fondatezza del presente ricorso,
ma sotto un diverso punto di vista, occorre richiamare
l’avviso pacifico e costante della giurisprudenza secondo
cui il diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di
riservatezza di terzi quando esso sia esercitato per
consentire la cura o la difesa processuale di interessi
giuridicamente protetti e concerna un documento
amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza
non possa essere altrimenti soddisfatta (Cons. St., Ad. Plen.
02.04.2007, n. 5).
Nel caso in esame possono ritenersi sussistenti tutti i
presupposti individuati dalla giurisprudenza, in quanto
l'accesso documentale richiesto concerne atti rilevanti e
determinanti per la tutela delle posizione giuridica della
richiedente, siccome idonei a dimostrare, nella specie, la
sussistenza di immissioni moleste nella sua proprietà e la
conseguente sussistenza d un pregiudizio meritevole di
ristoro.
E questo anche alla luce del disposto dell'art. 24 l.
241/1990, che al comma 7 stabilisce la necessità che sia
"... garantita ai richiedenti la visione degli atti dei
procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere il loro stessi interessi
giuridici... "
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 06.04.2017 n. 460 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’art. 22 della legge n. 241 del 1990:
- nell’individuare i soggetti aventi titolo a prendere
visione o estrarre copia dei documenti amministrativi,
individua, quali “interessati”, “tutti i soggetti privati,
compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento, del quale è richiesto l’accesso”;
- specifica, poi, che per “documento amministrativo” si
intende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti anche interni o non relativi ad uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale”.
Per “pubblica amministrazione”, devono, poi, intendersi
“tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di
diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che la situazione
giuridicamente rilevante disciplinata dalla legge
07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il
diritto di accesso è nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; con la
conseguenza che la legittimazione all’accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o
possano spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso
come un bene della vita distinto rispetto all’interesse alla
situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
Conseguenza di tale impostazione è che l’interesse
giuridicamente rilevante sia un qualsiasi interesse che sia
serio, effettivo, autonomo, non emulativo e ricollegabile
all’istante da uno specifico nesso.
Rileva la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo,
il quale evidenzia che gli atti e i documenti abbiano
dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti nei suoi
confronti.
---------------
L'apprezzamento sulla utilità o meno della documentazione
richiesta in ostensione non spetta né all’amministrazione
destinataria dell’istanza ostensiva né allo stesso giudice
amministrativo adito, bensì al giudice (sia esso
amministrativo o ordinario), eventualmente adito
dall’interessato, al fine di tutelare l’interesse
giuridicamente rilevante sotteso alla domanda di accesso.
----------------
Ciò premesso, al fine di vagliare la fondatezza dell’appello
principale e dell’appello incidentale proposto dalla RAI, va
evidenziato che l’art. 22 della legge n. 241 del 1990:
- nell’individuare i soggetti aventi titolo a prendere visione o
estrarre copia dei documenti amministrativi, individua,
quali “interessati”, “tutti i soggetti privati,
compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento, del quale è richiesto l’accesso”;
- specifica, poi, che per “documento amministrativo” si
intende “ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra
specie del contenuto di atti anche interni o non relativi ad
uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica
amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Per “pubblica amministrazione”, devono, poi,
intendersi “tutti i soggetti di diritto pubblico ed i
soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività
di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario”.
La giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV,
20.10.2016, n. 5073; VI, 28.01.2013, n. 511) ha chiarito che
la situazione giuridicamente rilevante disciplinata dalla
legge 07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il
diritto di accesso è nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; con la
conseguenza che la legittimazione all’accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o
possano spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso
come un bene della vita distinto rispetto all’interesse alla
situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
Conseguenza di tale impostazione è che l’interesse
giuridicamente rilevante sia un qualsiasi interesse che sia
serio, effettivo, autonomo, non emulativo e ricollegabile
all’istante da uno specifico nesso.
Rileva la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo,
il quale evidenzia che gli atti e i documenti abbiano
dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti nei suoi
confronti.
La giurisprudenza ha, inoltre, chiarito che l’apprezzamento
sulla utilità o meno della documentazione richiesta in
ostensione non spetta né all’amministrazione destinataria
dell’istanza ostensiva né allo stesso giudice amministrativo
adito, bensì al giudice (sia esso amministrativo o
ordinario), eventualmente adito dall’interessato, al fine di
tutelare l’interesse giuridicamente rilevante sotteso alla
domanda di accesso (Consiglio di Stato, Sez. I, sentenza VI,
sentenza 30.03.2017 n. 1453 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ai
fini della configurabilità dell’interesse diretto, concreto
ed attuale di cui all’art. 22, comma 1, lett. b), L. n.
241/1990, è sufficiente il requisito della vicinitas, che
sussiste in capo al confinante ma anche al frontista e a
coloro che si trovano in una situazione di stabile
collegamento con l’edificio o con il terreno.
---------------
Il ricorso è manifestamente fondato.
In primo luogo, come fondatamente argomentato dalla
ricorrente, il provvedimento impugnato, laddove
genericamente nega l’accesso richiamando il disposto di cui
all’art. 3, comma 2, D.P.R. n. 184/2006 (ove si prevede che:
“Entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione di
cui al comma 1, i controinteressati possono presentare una
motivata opposizione, anche per via telematica, alla
richiesta di accesso. Decorso tale termine, la pubblica
amministrazione provvede sulla richiesta, accertata la
ricezione della comunicazione di cui al comma 1”), non
consente di comprendere se il controinteressato (Zi.Gu. s.r.l.) abbia o meno proposto opposizione, quale
sia stato l’eventuale motivo di opposizione proposto e,
soprattutto, quale sia stato l’iter logico ed il percorso
argomentativo (con il necessario bilanciamento dei
contrapposti interessi) che ha condotto la Provincia di
Padova a sacrificare l’interesse all’accesso vantato dalla
Sig.ra Em.Ca..
In secondo luogo l’istanza di accesso presentata dalla
ricorrente non pare atteggiarsi come una forma di controllo
generalizzato sull’attività amministrativa, stante il
collegamento fisico-spaziale tra il fondo di proprietà della
ricorrente ed i terreni ove sorge l’impianto industriale
della Zi.Gu. s.r.l., collegamento che integra
il requisito della vicinitas.
Al riguardo il Collegio, sulla base della condivisibile
giurisprudenza che già si è pronunciata sul punto (da ultimo
ex multis TAR Lazio-Roma, Sez. II, sent. n. 6032/2016;
TAR Lazio-Roma, Sez. II, sent. n. 11120/2015; TAR
Emilia-Romagna, Sez. Staccata di Parma, Sez. I, sent.
n. 91/2014; TAR Campania, Sez. VI, sent. n. 1713/2013)
osserva che, ai fini della configurabilità dell’interesse
diretto, concreto ed attuale di cui all’art. 22, comma 1,
lett. b), L. n. 241/1990, è sufficiente il requisito della
vicinitas, che sussiste in capo al confinante ma anche al
frontista e a coloro che si trovano in una situazione di
stabile collegamento con l’edificio o con il terreno: nel
presente caso con l’impianto industriale che è stato oggetto
dei procedimenti per il rilascio dell’AIA e per la verifica
di assoggettabilità a VIA, procedimenti di cui la ricorrente
ha richiesto l’ostensione, inoltre espressamente motivando
tale istanza “al fine di tutelare le proprie ragioni in sede
giurisdizionale”.
Di conseguenza il ricorso deve essere accolto con
conseguente annullamento del provvedimento di diniego
impugnato e con condanna della Provincia di Padova a
consentire alla ricorrente l’accesso alla documentazione
richiesta con l’istanza del 30.09.2016
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 28.03.2017 n. 314 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Deve ritenersi sufficiente, ai fini dell’accesso,
a mente dell’art. 22 della legge generale sul procedimento,
“un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso”. Non occorre che sia
instaurato, o in via di instaurazione, un giudizio, bastando
la dimostrazione del grado di protezione che l’ordinamento
accorda alla posizione base, ossia al bene della vita dal
quale scaturisce l’interesse ostensivo.
In altri termini, la legittimazione all'accesso agli atti
della P.A. va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che
gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.
---------------
4.2. Sempre in via generale ed astratta, deve ritenersi
sufficiente, ai fini dell’accesso, a mente dell’art. 22
della legge generale sul procedimento, “un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso”. Non occorre che sia
instaurato, o in via di instaurazione, un giudizio, bastando
la dimostrazione del grado di protezione che l’ordinamento
accorda alla posizione base, ossia al bene della vita dal
quale scaturisce l’interesse ostensivo.
In altri termini, la legittimazione all'accesso agli atti
della P.A. va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che
gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa dell'atto (in tali
termini, da ultimo Cons. Stato Sez. IV, 20.10.2016, n. 4372)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 17.03.2017 n. 1213 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Meritano
accoglimento le critiche mosse alla valutazione del TAR di
inammissibilità del ricorso per la sua mancata notifica ad
almeno un controinteressato.
Fondatamente è stato fatto notare come la giurisprudenza più
recente si sia ormai orientata, in questa materia, nel senso
di valorizzare la previsione dell'art. 3 del d.P.R.
12.04.2006, n. 184.
L’articolo dispone che l’Amministrazione cui sia stata
indirizzata una richiesta di accesso quando individui dei
soggetti controinteressati è tenuta a dare loro
comunicazione della proposizione di tale domanda, mettendoli
così in condizione di presentare un’eventuale opposizione.
L’Amministrazione, in altre parole, già in sede
procedimentale deve consentire la partecipazione del
soggetto che dall'accoglimento dell’istanza di accesso
potrebbe subire un pregiudizio.
E la giurisprudenza da questa previsione ha desunto,
appunto, che in sede giurisdizionale non possa essere
dichiarato inammissibile per omessa notifica al
controinteressato un ricorso per l'accesso allorché, in
precedenza, la stessa Amministrazione non avesse ritenuto di
consentire, in occasione del proprio procedimento, la
partecipazione di coloro che avrebbero potuto subire un
pregiudizio dall'accoglimento dell’istanza di trasparenza.
In base a questo condivisibile orientamento, fondato sulla
ragionevolezza di un parallelismo tra contraddittorio
procedimentale e processuale, quando in sede procedimentale
l'estensione del contraddittorio verso i controinteressati
sia mancata il ricorso giurisdizionale non notificato ad
alcuno di loro non potrebbe quindi essere dichiarato
inammissibile, a ciò opponendosi, oltre ad elementari
considerazioni di equità, la buona fede dell'impugnante
attenutosi alla posizione seguita dall'Amministrazione.
Nella situazione descritta il privato andrebbe pertanto
rimesso in termini per poter integrare ab initio il
contraddittorio processuale.
---------------
L'art. 22, comma 1, lett. c), della legge n. 241/1990 (come
sostituito con la legge n. 15/2005) stabilisce che per "controinteressati"
in materia di accesso devono intendersi "tutti i soggetti,
individuati o facilmente individuabili in base alla natura
del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso
vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza".
Prima dell'avvento di tale norma la giurisprudenza tendeva a
considerare come controinteressati tutti i soggetti
determinati cui -semplicemente- si riferissero i documenti
richiesti in accesso.
La novella definizione appena riportata ha però dispiegato
un indubbio effetto innovativo, avendo imposto di
riconoscere la veste di controinteressato non già a tutti
coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque
coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma
solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero
pregiudicato il loro diritto alla riservatezza.
Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo
in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a
tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di
un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso
documento.
La veste di controinteressato in tema di accesso è una
proiezione, pertanto, del valore della riservatezza, e non
già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera
di un certo soggetto.
Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto
sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo
quelli rispetto ai quali sussista, per la loro inerenza alla
personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero
discendere da una loro diffusione, una precisa e ben
qualificata esigenza di riserbo.
Occorre inoltre aggiungere, sullo specifico versante delle
richieste di accesso ad atti riguardanti lo status o
comunque la carriera di un dipendente pubblico (ipotesi cui
il caso sub judice è, per quanto qui rileva, assimilabile),
che la giurisprudenza si è orientata nel senso che in linea
di principio non sono configurabili controinteressati in
senso tecnico (non potendosi ipotizzare alcuna lesione della
loro sfera giuridica nel caso di ostensione degli atti),
tranne i casi i cui siano chiesti atti concernenti loro dati
sensibili.
---------------
Se può ammettersi (nella fattispecie) che la richiesta di
accesso aveva a oggetto molteplici documenti di natura
eterogenea e non menzionava le date e gli estremi formali
dei singoli atti, non è meno vero, però, che tali elementi
non potevano dall’interessato essere forniti, per la
semplice ragione che non gli erano noti.
E la giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che,
poiché una richiesta di accesso non deve indicare in modo
puntuale i documenti, in quanto molto spesso il privato non
sa in quali fonti siano contenute le informazioni ricercate,
spetta proprio all'Amministrazione individuare i documenti
recanti le informazioni richieste.
---------------
La P.A. non può sottrarsi alla richiesta di accesso
adducendo che questa non attenga a veri e propri “atti
amministrativi”, dal momento che la portata dell’istituto in
rilievo non ricomprende solo questi ultimi, ma, come si
desume dall’art. 22 della legge n. 241/1990, si sostanzia
più ampiamente nel “diritto degli interessati di prendere
visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”, i
quali a loro volta s’identificano “in ogni rappresentazione
… del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno
specifico procedimento, detenuti da una pubblica
amministrazione (n.d.r.: nell’ampia accezione appena vista)
e concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale”.
---------------
4 L’appello è fondato.
5 Meritano accoglimento, innanzitutto, le critiche mosse
alla valutazione del TAR di inammissibilità del ricorso
per la sua mancata notifica ad almeno un controinteressato.
5a Fondatamente è stato fatto notare come la giurisprudenza
più recente si sia ormai orientata, in questa materia, nel
senso di valorizzare la previsione dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184.
L’articolo dispone che l’Amministrazione cui sia stata
indirizzata una richiesta di accesso quando individui dei
soggetti controinteressati è tenuta a dare loro
comunicazione della proposizione di tale domanda, mettendoli
così in condizione di presentare un’eventuale opposizione.
L’Amministrazione, in altre parole, già in sede
procedimentale deve consentire la partecipazione del
soggetto che dall'accoglimento dell’istanza di accesso
potrebbe subire un pregiudizio.
E la giurisprudenza da questa previsione ha desunto,
appunto, che in sede giurisdizionale non possa essere
dichiarato inammissibile per omessa notifica al
controinteressato un ricorso per l'accesso allorché, in
precedenza, la stessa Amministrazione non avesse ritenuto di
consentire, in occasione del proprio procedimento, la
partecipazione di coloro che avrebbero potuto subire un
pregiudizio dall'accoglimento dell’istanza di trasparenza
(C.d.S., Sez. VI, 08.02.2012, n. 677; VI, 30.07.2010, n. 5062; IV, 26.08.2014, n. 4308; 16.05.2011,
n. 2968).
In base a questo condivisibile orientamento, fondato sulla
ragionevolezza di un parallelismo tra contraddittorio
procedimentale e processuale, quando in sede procedimentale
l'estensione del contraddittorio verso i controinteressati
sia mancata il ricorso giurisdizionale non notificato ad
alcuno di loro non potrebbe quindi essere dichiarato
inammissibile, a ciò opponendosi, oltre ad elementari
considerazioni di equità, la buona fede dell'impugnante
attenutosi alla posizione seguita dall'Amministrazione.
Nella situazione descritta il privato andrebbe pertanto
rimesso in termini per poter integrare ab initio il
contraddittorio processuale.
5b Ancora più importante è però osservare con la parte
ricorrente che in radice, nella fattispecie, non emergevano
elementi sufficienti a far assurgere alla qualità di
controinteressati in senso tecnico i tre colleghi del
ricorrente cui l’istanza ostensiva si riferiva.
5b1 L'art. 22, comma 1, lett. c), della legge n. 241/1990
(come sostituito con la legge n. 15/2005) stabilisce che per
"controinteressati" in materia di accesso devono intendersi
"tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in
base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio
dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza".
Prima dell'avvento di tale norma la giurisprudenza tendeva a
considerare come controinteressati tutti i soggetti
determinati cui -semplicemente- si riferissero i documenti
richiesti in accesso (C.d.S., V, 02.12.1998, n. 1725; VI, 08.07.1997, n. 1117; IV, 11.06.1997, n. 643; Ad.Pl., n. 16 del 1999).
La novella definizione appena riportata ha però dispiegato
un indubbio effetto innovativo, avendo imposto di
riconoscere la veste di controinteressato (cfr. sul punto
C.d.S., VI, n. 3601 del 2007) non già a tutti coloro che, a
qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel
documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma solo a coloro
che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il
loro diritto alla riservatezza.
Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo
in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a
tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di
un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso
documento.
La veste di controinteressato in tema di accesso è una
proiezione, pertanto, del valore della riservatezza, e non
già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera
di un certo soggetto (cfr. C.d.S., V, 27.05.2011, n.
3190; IV, 26.08.2014, n. 4308).
Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto
sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo
quelli rispetto ai quali sussista, per la loro inerenza alla
personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero
discendere da una loro diffusione, una precisa e ben
qualificata esigenza di riserbo.
Occorre inoltre aggiungere, sullo specifico versante delle
richieste di accesso ad atti riguardanti lo status o
comunque la carriera di un dipendente pubblico (ipotesi cui
il caso sub judice è, per quanto qui rileva, assimilabile),
che la giurisprudenza si è orientata nel senso che in linea
di principio non sono configurabili controinteressati in
senso tecnico (non potendosi ipotizzare alcuna lesione della
loro sfera giuridica nel caso di ostensione degli atti),
tranne i casi i cui siano chiesti atti concernenti loro dati
sensibili (in termini C.d.S., V, 17.03.2015, n. 1370; v.
inoltre IV, 14.04.2010, n. 2093).
5b2 Il Collegio, una volta posti questi criteri, deve
ricordare che la richiesta ostensiva in esame nella parte
esorbitante dalla specifica sfera del ricorrente concerneva,
con il verbale di riunione sindacale del 15/02/2008 e i
relativi allegati, gli atti d’inquadramento contrattuale e
professionale dei tre dipendenti della società
nominativamente indicati in atti (mentre, infatti, alla
richiesta dell’interessato del livello superiore la società
aveva opposto la carenza dei requisiti previsti dall’accordo
appena detto, ai suoi suddetti colleghi il riconoscimento
era stato invece accordato).
Va altresì rilevato che il diniego d’accesso in
contestazione lasciava intendere solo in maniera del tutto
vaga e generica che la documentazione richiesta avrebbe
contemplato informazioni “ricadenti nelle tutele di cui alla
legge 30.06.2003, n. 196”, senza permettere in alcun
modo di comprendere gli eventuali pregiudizi che
l’ostensione avrebbe potuto in tesi provocare.
Poiché, inoltre, l’accesso richiesto avrebbe dovuto
riguardare la titolarità, da parte dei supposti
controinteressati, dei requisiti previsti dall’accordo
sindacale del 15/02/2008, la mancata precisazione da parte
della Re. del contenuto di tali requisiti ha continuato
ad impedire, anche nel corso del giudizio, l’accertamento
dell’ipotetico carattere sensibile dei dati cui si sarebbe
trattato di dare accesso.
5b3 Per quanto esposto, dunque, poiché l’appellata non ha
fornito nemmeno in sede contenziosa elementi idonei a
giustificare il proprio assunto circa l’esistenza di
posizioni di controinteresse all’accesso, questa
corrispondente prima articolazione dell’appello merita
accoglimento. Senza dire che, marginale essendo l’incidenza,
sull’oggetto della domanda ostensiva, degli atti riguardanti
dei terzi soggetti determinati, il presunto vizio attinente
al contraddittorio non avrebbe potuto comunque inficiare che
in minima parte la richiesta del sig. Ad..
5b4 Ai fini di un corretto indirizzo dell’azione
dell’appellata il Collegio deve rammentare, infine, la
previsione dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990,
il quale stabilisce che “Deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti
dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei
limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini
previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196 , in caso di dati idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale.”
La difesa del ricorrente,
invero, fondatamente ha rivendicato, oltre che la propria
titolarità di un interesse diretto, concreto e attuale
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e
connessa ai documenti richiesti, anche l’applicabilità in
proprio favore della norma appena citata, i presupposti
della quale ben possono rinvenirsi nella necessità
dell’accesso, per lo stesso interessato, per perseguire il
desiderato livello superiore, oppure l’attivazione dei mezzi
di reazione consentiti dall’ordinamento avverso ipotetiche
disparità di trattamento patite sul punto.
6 Con l’appello in esame è stato sottoposto altrettanto
correttamente a critica il secondo capo della sentenza
impugnata, che ha ricondotto l’inammissibilità del ricorso
introduttivo, in pari tempo, a una presunta genericità e
indeterminatezza dell’oggetto della pretesa
dell’interessato.
Avverso l’apodittica conclusione del TAR il ricorrente ha
fondatamente evidenziato, in sintesi: per un verso, che la
propria richiesta di accesso s’inscriveva nella vicenda che
lo aveva appena visto chiedere alla Re. l’inquadramento
nel livello superiore ma ottenere una risposta negativa; per
altro verso, che esisteva una qualificata corrispondenza fra
l’oggetto della sua domanda di accesso, da un lato, e la
motivazione del precedente rigetto della sua richiesta del
livello superiore, dall’altro: la prima s’incentrava
fondamentalmente, infatti, sui punti, poco prima posti dalla
società a base del proprio rigetto, degli accertamenti
eseguiti dalla Re. presso l'Ente Fruitore, e dei
requisiti di cui all’accordo sindacale del 15.02.2008
(cfr. gli allegati dell’appello B9 e B10).
Il Collegio non può pertanto condividere la valutazione del
primo Giudice circa la strumentalità dell’accesso in
discorso rispetto a “un controllo generalizzato sull’operato
della società intimata”, in quanto la domanda di accesso
costituiva invece una chiara espressione della pretesa
sostanziale che l’interessato aveva già fatto valere nei
confronti del proprio datore di lavoro.
Altrettanto recisamente il Collegio deve però escludere che
la sentenza impugnata possa trovare giustificazione in una
pretesa genericità e indeterminatezza dell’oggetto della
pretesa ostensiva.
Se può ammettersi, infatti, che la richiesta aveva a oggetto
molteplici documenti di natura eterogenea e non menzionava
le date e gli estremi formali dei singoli atti, non è meno
vero, però, che tali elementi non potevano dall’interessato
essere forniti, per la semplice ragione che non gli erano
noti. E la giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che,
poiché una richiesta di accesso non deve indicare in modo
puntuale i documenti, in quanto molto spesso il privato non
sa in quali fonti siano contenute le informazioni ricercate,
spetta proprio all'Amministrazione individuare i documenti
recanti le informazioni richieste (C.d.S., V, 27.05.2011, n. 3190, e ulteriori citazioni ivi).
Non vi è dubbio, d’altra parte, che i documenti richiesti in
ostensione fossero, in concreto, agevolmente individuabili
dalla società appellata, anche perché già da essa
direttamente o indirettamente richiamati all’atto del
proprio rifiuto dell’inquadramento richiesto dal ricorrente,
o comunque strettamente connessi alla relativa sua
decisione.
Ne consegue che l’appello merita accoglimento anche sotto
questo profilo.
7 Nemmeno le ulteriori obiezioni riproposte qui
dall’appellata avverso la pretesa ostensiva del dipendente
possono trovare adesione.
7a E’ il caso, in primo luogo, dell’assunto secondo il quale
la soc. Re. non rientrerebbe fra i soggetti tenuti a
riconoscere la garanzia del diritto di accesso ai sensi
della legge n. 241/1990.
Deve subito ricordarsi che ai fini dell’applicazione del
diritto di accesso per “PubblicaAmministrazione”
s’intendono, giusta l’art. 22, comma 1, lett. e), della
legge ult. cit., non soltanto i soggetti di diritto
pubblico, ma anche quelli di diritto privato, sia pure
“limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Va inoltre rammentato, con riferimento alla specifica
condizione giuridica della parte appellata, che la soc.
Re. risulta collocarsi in un sistema disciplinato
inizialmente dall’art. 1 (“Interventi per la
razionalizzazione delle partecipazioni regionali”) della L.R. 18.02.1986 n. 7, il quale, abrogando l’art. 2
della precedente L.R. 11.04.1981, n. 54, già prevedeva
in sintesi quanto segue:
- il personale dipendente dalle società costituite dall’EMS
e dall’AZASI è trasferito alla società costituita dall’ESPI
con il trattamento economico previsto dal contratto di
lavoro vigente presso la società medesima;
- tutto il personale dipendente dalla predetta società
resterà in carico alla società stessa fino al raggiungimento
dell’età minima pensionabile ;
- il personale, durante il periodo di permanenza presso la
società, è utilizzato “da enti o da organizzazioni locali a
carattere pubblico, ovvero dalla Regione direttamente o
mediante assegnazione agli enti locali per lo svolgimento di
funzioni regionali decentrate nonché per lo svolgimento di
servizi socialmente utili o per la frequenza di corsi di
qualificazione”.
Più di recente, la L.R. 20.01.1999 n. 5 (“Soppressione
e liquidazione degli Enti Economici Regionali AZASI, EMS,
ESPI”), all’art. 8, ha disposto poi il trasferimento del
personale dipendente degli enti economici regionali AZASI,
EMS ed ESPI e delle società a totale partecipazione dagli
stessi controllate, residuato e ancora in servizio, nel
rispetto delle anzianità maturate e del trattamento
normativo e contrattuale posseduto, in un’apposita area
speciale transitoria ad esaurimento istituita presso la
Re. s.p.a.. Ed è incontestato che l’interessato sia
transitato alla Re. proprio in applicazione di
quest’ultima disposizione.
Da quanto precede si desume, allora, che la società
appellata è stata prevista e costituita sulla base di
apposite leggi regionali con lo scopo di prendere in carico
i dipendenti di enti soppressi, e delle società dagli stessi
controllate, che non trovavano collocazione nei processi
produttivi, per destinarli presso delle Pubbliche
amministrazioni. Il legislatore regionale ha reputato dunque
di pubblico interesse proprio il fatto del mantenimento in
servizio del personale interessato alle dipendenze della
società in rilievo.
Coerente con questi elementi è l’allegazione di parte
ricorrente, cui l’appellata non ha controdedotto, secondo la
quale la società Re. sarebbe iscritta nell’elenco delle
Amministrazioni Pubbliche inserite nel conto economico
consolidato ai sensi dell’art. 1 della legge n. 196 del
2009.
In definitiva, risulta pertanto che la società appellata sia
stata costituita in forza della legislazione regionale, e a
carico della finanza pubblica, per l’assolvimento
dell’attività, reputata di pubblico interesse, consistente
nel mantenimento in condizioni di occupazione del personale
sopra indicato, e nella strumentale gestione delle relative
risorse umane. Da qui la conseguenza della non
condivisibilità dell’immotivato assunto difensivo della
Re. che l’attività da essa svolta non sarebbe stata di
pubblico interesse, dovendo invece concludersi che
l’attività di gestione del personale interessato, condotta,
per quanto detto, proprio nell’interesse pubblico, non possa
andare esente dalla soggezione all’istituto dell’accesso,
che concorre ad assicurarne la necessaria imparzialità e
trasparenza.
7b Né l’appellata poteva sottrarsi alla richiesta di accesso
adducendo che questa non atteneva a veri e propri “atti
amministrativi”, dal momento che la portata dell’istituto in
rilievo non ricomprende solo questi ultimi, ma, come si
desume dall’art. 22 della legge n. 241/1990, si sostanzia
più ampiamente nel “diritto degli interessati di prendere
visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”, i
quali a loro volta s’identificano “in ogni rappresentazione
… del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno
specifico procedimento, detenuti da una pubblica
amministrazione (n.d.r.: nell’ampia accezione appena vista)
e concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale”.
8 Le considerazioni complessivamente esposte denotano la
fondatezza dell’appello e comportano il suo accoglimento,
con l’assorbimento delle censure non espressamente vagliate.
In riforma della sentenza impugnata l’originario ricorso
introduttivo deve perciò essere accolto, con le conseguenti
statuizioni
(CGARS,
sentenza 16.03.2017 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Anche
recentemente, la giurisprudenza ha ribadito che il diritto
di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla
legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., costituisce un principio
generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un
sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di
celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i
principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della
funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul
riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti
amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per
l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un
interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede
l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse
legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque
giuridicamente tutelato, ed un rapporto di strumentalità tra
tale interesse e la documentazione di cui si chiede
l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro,
essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione
richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la
difesa dell’interesse giuridicamente rilevante.
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti
amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n.
241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005,
richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti
i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di
quelli indicati all'art. 24 c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il
successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque
essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ stato ulteriormente precisato che il giudizio sul diritto
di accesso non esime da una valutazione circa l’esistenza di
una posizione pur sempre differenziata in capo al
richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza
ed attualità, un interesse conoscitivo.
A tal proposito, è stato chiarito che essere titolari di
situazioni giuridicamente tutelate non è condizione
sufficiente affinché l’interesse rivendicato possa
considerarsi "diretto, concreto ed attuale", come richiesto
dalla ricordata disposizione normativa, essendo anche
necessario che la documentazione cui si chiede di accedere
sia collegata a quella posizione sostanziale, impendendone
od ostacolandone il soddisfacimento.
Infatti, l’Ordinamento prevede che l’esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l’accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione.
---------------
E’ necessario, in via preliminare, chiarire che il presente
giudizio attiene esclusivamente alla verifica della
legittimità (o meno) del diniego di accesso opposto dalla
ATS Brescia, restando ovviamente estranee al giudizio tutte
le questioni di merito (relative, cioè, al contenuto delle
segnalazioni effettuate dal ricorrente) sulle quali il
ricorrente si dilunga negli atti introduttivi dei ricorsi e
nelle successive memorie difensive.
Tanto chiarito, in linea generale e con riferimento al tema
dell’accesso, si osserva che, anche recentemente, la
giurisprudenza ha ribadito che il diritto di accesso ai
documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., costituisce un principio generale
dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema
ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed
efficienza dell’azione amministrativa con i principi di
partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione
pubblica da parte dell’amministrato, basato sul
riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti
amministrativi. Ai fini della sussistenza del presupposto
legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve
esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto
che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in
un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma
comunque giuridicamente tutelato, ed un rapporto di
strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui
si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve,
peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la
documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo
utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante
(per tutte Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2007, n.
55).
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti
amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n.
241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005,
richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti
i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di
quelli indicati all'art. 24 c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il
successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque
essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ stato ulteriormente precisato che il giudizio sul diritto
di accesso non esime da una valutazione circa l’esistenza di
una posizione pur sempre differenziata in capo al
richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza
ed attualità, un interesse conoscitivo. A tal proposito, è
stato chiarito che essere titolari di situazioni
giuridicamente tutelate non è condizione sufficiente
affinché l’interesse rivendicato possa considerarsi
"diretto, concreto ed attuale", come richiesto dalla
ricordata disposizione normativa, essendo anche necessario
che la documentazione cui si chiede di accedere sia
collegata a quella posizione sostanziale, impendendone od
ostacolandone il soddisfacimento. Infatti, l’Ordinamento
prevede che l’esibizione dei documenti sia strumentale alla
tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la
necessità di un collegamento specifico e concreto con un
interesse rilevante impedisce che l’accesso possa essere
utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo
generalizzato sulla legittimità degli atti
dell’Amministrazione (in tal senso, da ultimo, TAR Molise,
sez. I, 19.10.2016, n. 424, TAR Lazio, Roma, sez. II,
12.10.2016, n. 10175; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 11.10.2016, n. 4658; id., 30.09.2016, n. 4508; TAR
Lazio, Roma, sez. I, 18.03.2016, n. 3364).
Ebbene, nel caso in esame -a prescindere da ogni altra
valutazione in ordine alla natura degli atti di cui si
discute (ovvero se assunti o meno nell’esercizio di funzioni
di polizia giudiziaria)- il ricorrente non è titolare di un
interesse diretto, concreto ed attuale nei termini sopra
precisati.
Invero, dal provvedimento di diniego parziale -impugnato
con il ricorso sub R.G. 943/2016- emerge che due dei tre
verbali (rispettivamente, quello di data 07.01.2016 e quello
di data 02.02.2016), in relazione ai quali l’accesso è stato
fin da subito negato, sono relativi a sopralluoghi
effettuati per verificare la conformità alle norme di igiene
e sicurezza sul lavoro nell’ambito delle attività in essere;
è, altresì, specificato che entrambi gli accessi sono
propedeutici a provvedimenti prescrittivi di Polizia
Giudiziaria ai sensi del D.Lgs. n. 758/1994; quanto al terzo
verbale (quello del 25.2.2016, anch’esso negato fin da
subito), si specifica che trattasi di sopralluogo “eseguito
da operatori P.S.A.L./U.P.G. congiuntamente ad operatori
della Direzione territoriale del Lavoro di Brescia. Agli
atti si dispone di 4 verbali redatti nei confronti di 4
diverse imprese, su carta intestata dell’ufficio Ispezioni
del Lavoro della D.T.L. A seguito di questi accertamenti
sono generati i verbali di contravvenzione e prescrizione ex
D.Lgs. n. 758/1994”.
Dunque, dallo stesso tenore del diniego parziale risulta che
i sopralluoghi in questione non attengono ad aspetti o
problematiche di carattere ambientale riscontrate nel
cantiere (con conseguente inapplicabilità della relativa
disciplina in tema di accesso ai documenti), ma
essenzialmente a verifiche in ordine al rispetto della
normativa sull’igiene e sulla sicurezza del lavoro, in
relazione alla quale il ricorrente non vanta alcun interesse
diretto e concreto che possa qualificare e differenziare la
sua posizione ai fini di ottenere l’ostensione dei relativi
documenti.
Dunque, il diniego di accesso ai detti verbali opposto
dall’Amministrazione resistente è legittimo e,
conseguentemente, il ricorso sub R.G. n. 943/2016 è
infondato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.01.2017 n. 59 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad
un’informazione qualificata, a fronte del quale
l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare
gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
Dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso.
L’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241,
nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o
diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”.
Dunque la legittimazione all’accesso va quindi riconosciuta
a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali
oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a
spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica,
stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come
interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
Le disposizioni normative che assicurano il
soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono
diretta espressione del principio di imparzialità e
trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una
buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della
“Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”.
---------------
La pretesa ostensiva dei ricorrenti è degna di rilievo ed
apprezzamento, nei limiti di seguito precisati;
- in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi;
- deve essere in buona sostanza garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale;
- la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze di
difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente apprezzabili che si
assumano lese;
- l’interesse all’accesso ai documenti deve essere in particolare
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda (o della
posizione) giudiziale che gli interessati potrebbero
eventualmente avanzare sulla base dei documenti acquisiti
mediante l’accesso e quindi la legittimazione all’accesso
non può essere valutata alla stessa stregua di una
legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante;
- l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di
esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a valutare
l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato
dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine
del soddisfacimento della pretesa correlata;
- nella fattispecie appare chiara la correlazione tra l’aspirazione
coltivata e la situazione giuridica soggettiva sottostante,
ovvero di un collegamento funzionale tra l'interesse
conoscitivo e il contenuto del documento richiesto, in
quanto questo possa assumere rilievo ai fini della cura e
tutela della situazione giuridica soggettiva;
- infatti, la divulgazione degli atti richiesti è necessaria
per i ricorrenti, in quanto la loro piena conoscenza può
orientare le rispettive scelte difensive nel giudizio civile
nel quale sono chiamati a rispondere dei danni provocati.
---------------
Evidenziato:
- che il thema decidendum può essere affrontato a
prescindere dall’ultimo deposito della parte resistente
(note d’udienza e documenti del 22/02/2017), alla cui
ammissione si è opposta la parte ricorrente in Camera di
consiglio;
- che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto
soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del
quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a
divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale
vincolata;
- che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo),
l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un
interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un
qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non
emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile
all’istante da uno specifico nesso;
- che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241,
nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o
diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso”;
- che dunque la legittimazione all’accesso va quindi
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti
procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla
situazione legittimante all’impugnativa dell’atto (Consiglio
di Stato, sez. III – 19/02/2016 n. 696);
- che le disposizioni normative che assicurano il
soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono
diretta espressione del principio di imparzialità e
trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una
buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della
“Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”;
Tenuto conto:
- che nel merito, in virtù degli elementi esposti negli atti
di causa, la pretesa ostensiva dei ricorrenti è degna di
rilievo ed apprezzamento, nei limiti che saranno di seguito
precisati;
- che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della
Costituzione– sono ritenute prioritarie anche rispetto alle
istanze di riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di
Stato, ad. plenaria – 04/02/1997 n. 5);
- che deve essere in buona sostanza garantito agli
interessati l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia
necessaria per curare o difendere i propri interessi
giuridici (cfr. art. 24, comma 7, della L. 241/1990), dal
momento che il diritto di difesa è garantito a livello
costituzionale;
- che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti
esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire
l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad un
effettivo bisogno di tutela di situazioni giuridicamente
apprezzabili che si assumano lese;
- che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere in
particolare valutato in astratto, senza che possa essere
operato, con riferimento al caso specifico, alcun
apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità
della domanda (o della posizione) giudiziale che gli
interessati potrebbero eventualmente avanzare sulla base dei
documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante (Consiglio di Stato, sez. V –
20/01/2015 n. 166);
- che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato),
in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto
a valutare l’inerenza del documento richiesto con
l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del
documento al fine del soddisfacimento della pretesa
correlata;
- che nella fattispecie appare chiara la correlazione tra
l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva
sottostante, ovvero di un collegamento funzionale tra
l'interesse conoscitivo e il contenuto del documento
richiesto, in quanto questo possa assumere rilievo ai fini
della cura e tutela della situazione giuridica soggettiva
(cfr. in proposito TAR Campania Napoli, sez. VI – 29/06/2016
n. 3287);
- che, infatti, la divulgazione degli atti richiesti è
necessaria per i ricorrenti, in quanto la loro piena
conoscenza può orientare le rispettive scelte difensive nel
giudizio civile nel quale sono chiamati a rispondere dei
danni provocati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2017 n. 279 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione
di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di
guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un
provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula
l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
La
questione va risolta in senso opposto rispetto a quanto
auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di
condividere l’orientamento seguito da recente
giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di
argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché
riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento,
depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione
paesaggistica è una condizione di validità del permesso di
costruire e non di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004
qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che
gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla
tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del
permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo
sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le
amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater
e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti
di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute
e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale,
ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
fermo restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il
rilascio del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta".
La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c.
3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
---------------
Non sussiste la denunciata violazione dell’articolo
21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le
prospettazioni rese dall’amministrazione a fondamento della
impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene
giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello,
nel caso di specie antagonista, alla conservazione del
provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello
legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità
ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo
edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato,
sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua
espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il
sacrificio di un valore costituzionale, quello del
paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in
giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con
conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e
privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non
annoverati fra i principi fondamentali”.
In conclusione, atteso il rilievo costituzionale del
paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi
recessivi gli interessi privati in conflitto con il
preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come
quindi esattamente rilevato nella motivazione del
provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti
evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi
dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto
legislativo n. 42/2004.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione del responsabile del settore tecnico
del Comune di Mercogliano n. 416 del 03/12/2015 avente ad
oggetto "annullamento in autotutela del permesso di
costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del
19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi,
collegati e conseguenti", della comunicazione di avvio del
procedimento del 24.03.2015, nonché di ogni altro atto
connesso, presupposto e conseguente.
...
I. Il ricorso è infondato.
II. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente
lamenta, in primis, la contraddittorietà del comportamento
dell’Amministrazione, dopo aver certificato, in data
21.02.2005, la zona interessata dall’intervento non risulta
assoggettata ad alcun vincolo, successivamente, nella
comunicazione di avvio del procedimento del 24.03.2015,
afferma che l’area è parzialmente vincolata.
Il rilievo non
è in grado di inficiare la legittimità dell’atto impugnato,
già per il fatto che il vizio denunciato non si attaglia ad
attività, come nel caso di specie, di natura vincolata,
dovendosi inferire la necessità della previa autorizzazione
paesaggistica dalla mera presenza del relativo vincolo,
senza che residuino margini di apprezzamento discrezionale
che possano consentire di obliterarne la rilevanza. Vi è da
dire che tale circostanza non è contraddetta in ricorso e
neppure può ritenersi superata da una erronea certificazione
rilasciata in passato dall’Amministrazione comunale. Va da
sé che l’atto certificativo ha natura ed effetti
dichiarativi e pertanto non sottende alcun elemento
volontaristico in grado di contraddire le successive
determinazioni dell’Amministrazione.
Invero, il fulcro delle
deduzioni di parte ricorrente investe la natura
dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto condizione di
efficacia invece che di validità del titolo edilizio, di
guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un
provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula
l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Orbene, la
questione, avente rilievo centrale nell’economia del
ricorso, va risolta in senso opposto rispetto a quanto
auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di
condividere l’orientamento seguito da recente
giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di
argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché
riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento,
depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione
paesaggistica è una condizione di validità del permesso di
costruire e non di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004
qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV,
27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che
gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla
tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del
permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo
sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le
amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater
e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti
di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute
e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale,
ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
fermo restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il
rilascio del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative". La disposizione va coordinata con l'art. 23, c.
3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
Il motivo in
esame è quindi infondato.
III. Nemmeno persuade il secondo mezzo, col quale si lamenta
che il Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di
motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo
di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione
repressiva del precedente titolo edilizio.
A tal riguardo
parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del
tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio ex art.
9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio a
carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere
congruamente giustificato attraverso una valutazione
comparativa degli interessi in conflitto, della quale
occorrerebbe dar conto nella quadro motivazionale del
provvedimento.
Peraltro, si osserva in ricorso che la
mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente
sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento
della ricorrente e che, nel corso del tempo, si sono
susseguiti diversi titoli edilizi, senza che mai sia stata
evidenziata dai tecnici comunali la presenza del vincolo
sull’area (permesso di costruire numero 17/2006; variante
della 19.12.2006; Dia n. 17/07 riguardante sistemazione
aree esterne; dia n. 98/07 riguardante modifiche interne
cambio di destinazione d’uso; dia numero 1/08 riguardante
zona EUROSPIN.
Orbene, a parere del Collegio, non sussiste
la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n.
241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese
dall’amministrazione a fondamento della impugnata
determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico
sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso
di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento
e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la
constatata deviazione dal modello legale, che impone
l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera
prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta
esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del
titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo
giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un
valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come
puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a
principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri
interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla
Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali”
(cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105;
idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015,
n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel
senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate,
stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei
beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za
12/20.12.2007 nr. 439).
In conclusione, atteso il
rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2
cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati
in conflitto con il preminente interesse alla tutela del
bene paesaggio (Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n.
4610), come quindi esattamente rilevato nella motivazione
del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla
parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti
applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167
del decreto legislativo n. 42/2004.
IV. Tanto premesso, il ricorso è del tutto infondato e
pertanto va respinto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.05.2017 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla
natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione
di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di
guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un
provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula
l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo,
oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del
procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui
l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità
del permesso di costruire e non di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica
l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità
urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli
atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela
paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso
di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico
per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni
competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi
degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies
della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso,
comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai
fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241,
e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque
denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo
restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio
del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4,
D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei
vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al
comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia
sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via
di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine
di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del
relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole,
la denuncia è priva di effetti.
---------------
Atteso il rilievo
costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono
da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto
con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come
quindi esattamente rilevato nella motivazione del
provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti
evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi
dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto
legislativo n. 42/2004.
Si
osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione
dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del
paesaggio per la particolare dignità data dall'essere
iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi
fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente
alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad
esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica
caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e
non può legittimamente svolgere quell'attività di
comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla
sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra
natura e spettanza che è propria della discrezionalità
amministrativa”.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione del Responsabile del V Settore –
Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 –
Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante
"annullamento in autotutela del permesso di costruire
n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di
tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e
conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
...
II. Non coglie nel segno il secondo mezzo, col quale si
lamenta la mancata prospettazione, in sede motivazionale,
dell’interesse pubblico sotteso all’atto impugnato e che
sarebbe comunque, a parere del ricorrente, insussistente.
Devesi infatti rilevare che non solo il compendio
motivazionale è esaustivo sul punto, ma sono le stesse
ragioni a fondamento dell’atto impugnato a denotare la
sussistenza del necessario profilo di interesse pubblico,
alla luce della natura dell’autorizzazione paesaggistica, in
quanto condizione di efficacia invece che di validità del
titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non può non
sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che
appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Ritiene, infatti, il Collegio di condividere l’orientamento
coltivato da recente giurisprudenza, che si esprime nei
termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di
carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad
ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a
favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica
è una condizione di validità del permesso di costruire e non
di mera efficacia:
- in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004
qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo
edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un
"rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra
valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che
questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso
oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei
termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento
edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV,
27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi
provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio
del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del
titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e
non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio
rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica,
atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso
legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare
l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo
oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato
rilasciato in mancanza della previa autorizzazione
paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine
decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che
sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di
impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti
valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia
stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si
ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se
non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è
il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto
all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di
presupposizione tra di essi;
- l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che
gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla
tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del
permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo
sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le
amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di
servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater
e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti
di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute
e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale,
ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello
unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite
conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis,
14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n.
241, e successive modificazioni, gli atti di assenso,
comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione
dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso,
comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e
del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
fermo restando che, in caso di dissenso manifestato
dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
- l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il
rilascio del permesso di costruire al previo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli
immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo
neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione
del provvedimento finale, la domanda di rilascio del
permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede
il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non
vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo
abilitativo, sia pur inefficace;
- e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001
consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia
di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a
tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo
subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c.
3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso
dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui
al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento
sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in
via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il
termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal
rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia
favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
Nemmeno
persuade quanto ulteriormente dedotto nel senso che il
Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di
motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo
di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione
repressiva dei precedenti titoli edilizi.
A tal riguardo
parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del
tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, sulla base del rilievo costituzionale del paesaggio ex
art. 9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio ha
carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere
congruamente giustificato attraverso una valutazione
comparativa degli interessi in conflitto, della quale
occorrerebbe dar conto nel quadro motivazionale del
provvedimento. Peraltro, si osserva in ricorso che la
mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente
sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento
della ricorrente e che l’edificio è da tempo utilizzato da
due medie strutture di vendita cosicché l’annullamento dei
titoli edilizi avrebbe effetti pregiudizievoli anche sul
piano occupazionale.
Orbene, a parere del Collegio, non
sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies
della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni
rese dall’Amministrazione a fondamento della impugnata
determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico
sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso
di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento
e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la
constatata deviazione dal modello legale, che impone
l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera
prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta
esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del
titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo
giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un
valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come
puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a
principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri
interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla
Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali”
(cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105;
idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015,
n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel
senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate,
stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei
beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za
12/20.12.2007 nr. 439).
Atteso il rilievo
costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono
da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto
con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio
(Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n. 4610), come
quindi esattamente rilevato nella motivazione del
provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti
evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi
dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto
legislativo n. 42/2004.
Nemmeno può condividersi quanto
dedotto a proposito della pretesa compatibilità del
manufatto con il vincolo paesaggistico insistente sull’area,
trattandosi di un contesto edificato ed urbanizzato in
relazione alle caratteristiche del Vallone Acqualeggia. I
rilievi sollevati non sono favorevolmente apprezzabili, in
quanto impingono in valutazioni discrezionali che pertengono
alle Autorità preposte alla gestione del vincolo e che sono
state, nel caso di specie, del tutto pretermesse.
Si
osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione
dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del
paesaggio per la particolare dignità data dall'essere
iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi
fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente
alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad
esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica
caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e
non può legittimamente svolgere quell'attività di
comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla
sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra
natura e spettanza che è propria della discrezionalità
amministrativa” (cfr. TAR Venezia, sez. II. 26.01.2017,
n. 93).
Il motivo in esame è quindi infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Una
interpretazione sistematica di quanto previsto dall’art. 16
del d.p.r. n. 380/2001 porta a concludere che le opere a
scomputo, ai fini del calcolo di un eventuale conguaglio con
gli oneri di urbanizzazione, debbano, come fatto
dall’amministrazione, essere valorizzate al costo effettivo,
tenendo conto di eventuali ribassi d’asta ottenuti in gara.
Sicché, i risparmi di spesa derivanti dal ribasso ottenuto
in asta per la realizzazione delle opere a scomputo incidono
sulla valorizzazione delle stesse nell’ambito dei rapporti
tra amministrazione e soggetto attuatore.
---------------
E’ oggetto del giudizio il corretto criterio di calcolo del
valore delle opere da realizzarsi a scomputo di oneri di
urbanizzazione, sotto il duplice profilo
dell’interpretazione dell’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 e
del significato delle clausole della convenzione in essere
tra le parti.
Quanto al primo aspetto recitano gli artt. 16, commi 2 e 2-bis, del d.p.r. n. 380/2001, come oggi vigenti: “1.…. A
scomputo totale o parziale della quota (ndr di oneri di
urbanizzazione) dovuta, il titolare del permesso può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della
legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni,
con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con
conseguente acquisizione delle opere realizzate al
patrimonio indisponibile del comune.
2-bis. Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento urbanistico generale,
l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria
di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui
all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali
all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio,
è a carico del titolare del permesso di costruire e non
trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n.
163.”
Trattasi di due commi inseriti nel d.p.r. n. 380/2001,
rispettivamente, dal d.lgs. n. 301/2002 e dall’art. 45 del
d.l. n. 201 del 06.12.2011, che, al di là del mancato
coordinamento con la legislazione sopravvenuta in materia di
appalti (tanto la l. n. 109/1994 che il d.lgs. n. 163/2006
sono stati abrogati) raccordano la disciplina degli oneri di
urbanizzazione a scomputo con quella dell’evidenza pubblica.
Deve premettersi che la convenzione urbanistica oggetto del
presente procedimento è datata 22.11.2011 dunque, all’epoca
della sua sottoscrizione, era già vigente il comma 2 citato,
non il comma 2-bis.
La materia, dal punto di vista dell’evidenza pubblica, è
attualmente disciplinata dall’art. 1, comma 2, lett. e), del
d.lgs. n. 50/2016 che prevede genericamente che le
disposizioni del nuovo codice dei contratti si applichino
anche all’aggiudicazione dei contratti di “e) lavori
pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati,
titolari di permesso di costruire o di un altro titolo
abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle
opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del
contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi
dell'articolo 16, comma 2, del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380 e dell'articolo 28, comma
5, della legge 17.08.1942, n. 1150 ovvero eseguono le
relative opere in regime di convenzione.” Ancora, sempre il
d.lgs. n. 50/2016, art. 36, comma 3, prevede, dopo il
correttivo di cui al d.lgs. n. 56/2017, che “per
l'affidamento dei lavori pubblici di cui all'articolo 1,
comma 2, lettera e), del presente codice, relativi alle
opere di urbanizzazione a scomputo per gli importi inferiori
a quelli di cui all'articolo 35, si applicano le previsioni
di cui al comma 2.”
A sua volta il citato comma 2 individua le tipologie di
procedura (affidamento diretto, procedura negoziata previa
consultazione di almeno dieci operatori, procedura negoziata
previa consultazione di almeno quindici operatori, procedure
ordinarie) ammesse per i lavori sottosoglia.
Posto che ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. o), del d.lgs.
n. 50/2016 per “stazioni appaltanti” devono intendersi anche
i privati tenuti all’osservanza della disciplina del nuovo
codice degli appalti, si deve evidentemente intendere che
gli obblighi di evidenza pubblica descritti dal nuovo codice
dei contratti in materia di oneri a scomputo, quantomeno
sottosoglia, gravino sul privato, come previsto dall’art. 16
del d.lgs. n. 380/2001.
Le citate disposizioni rappresentano l’approdo di un
tormentato percorso normativo e giurisprudenziale.
In particolare con la sentenza della Corte di giustizia del
12.07.2001, in causa C-399/98, si è affermato che: “la
direttiva del Consiglio 14.06.1993, 93/37/CEE, che
coordina le procedure
di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, osta ad
una normativa nazionale in materia urbanistica che, al di
fuori delle procedure previste da tale direttiva, consenta
al titolare di una concessione edilizia o di un piano di
lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un'opera
di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del
contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel
caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la
soglia fissata dalla direttiva di cui trattasi.”
Conformemente al citato principio di diritto il legislatore,
ancora intervenendo sulla legge Merloni, ha specificato che
le opere di urbanizzazione a scomputo, ove di valore
superiore alla soglia comunitaria, dovessero essere
aggiudicate nel rispetto dei principi di evidenza pubblica,
escludendo in un primo momento da vincoli di evidenza
pubblica gli affidamenti sottosoglia.
In tal senso disponeva infatti l’art. 2, comma 5, della l. n.
109 del 1994 (ancora, inopinatamente, richiamato dal d.p.r.
n. 380/2001); tale disposizione è stata a sua volta
censurata dalla sentenza della Corte di Giustizia del 21.02.2008 in causa C-412/04 che ha ritenuto che, anche
con riferimento alle opere sottosoglia, per evitare fenomeni
elusivi debbano quantomeno trovare applicazione i principi
generali dell’evidenza pubblica.
Recependo le indicazioni della Corte di giustizia, e tenuto
conto che la disciplina della legge Merloni aveva anche dato
causa ad una procedura di infrazione comunitaria nei
confronti dell’Italia, con il combinato disposto degli artt.
122 e 32, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 163/2006, vigenti
all’epoca di sottoscrizione della convenzione per cui è
causa e ivi richiamati, si è introdotto l’obbligo del
rispetto dei principi di evidenza pubblica anche per
l’affidamento di opere di urbanizzazione a scomputo sotto
soglia, prevedendo l’attivazione della più semplice
procedura di cui all’art. 57, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006
(procedura negoziata senza bando).
La soluzione è la più coerente con le indicazioni del
giudice europeo.
Con il comma 2-bis del d.p.r. n. 380/2001 (introdotto con il
d.l. 201/2011 e non applicabile alla presente fattispecie in
quanto entrato in vigore successivamente alla sottoscrizione
della convenzione) il legislatore ha inteso sottrarre agli
obblighi di evidenza pubblica l’esecuzione di determinate
opere a scomputo (l’eccezione introdotta con il d.l. era
riferita a strade residenziali, spazi di sosta o di
parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione
dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione,
spazi di verde attrezzato) di valore inferiore alla soglia
comunitaria e quando realizzate nell’ambito di interventi
attuativi del P.R.G. e strumenti urbanistici attuativi, il
tutto in verosimile violazione dei principi enunciati dalla
Corte di giustizia.
La dubbia disposizione (che incomprensibilmente sottrae agli
obblighi di evidenza pubblica gli attuatori dei piani
urbanistici, normalmente soggetti professionali che non solo
sono i più attrezzati per gestire procedure di evidenza
pubblica ma, sul lato dell’offerta, ne sono anche i
beneficiari) viene riproposta, ampliandone in termini vaghi
i contenuti, nell’art. 36, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016 che
sottrae agli obblighi di evidenza pubblica più genericamente
“opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla
soglia di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a),
calcolato secondo le disposizioni di cui all'articolo 35,
comma 9, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio”, senza più tipizzare le opere
sottratte a tali obblighi, così innestando su una disciplina
di già dubbia compatibilità comunitaria un elemento di
indeterminatezza.
Così ricostruito il quadro normativo si osserva:
nell’evoluzione normativa si assiste dapprima ad un innesto
diretto dei vincoli eurounitari dell’evidenza pubblica sul
sistema della realizzazione di opere a scomputo di importo
soprasoglia comunitaria, quindi ad un allargamento di tali
vincoli (nella forma di procedure semplificate) anche
nell’ambito sottosoglia.
Il legislatore nazionale pare poi inseguire forme anomale di
sottrazione della materia ai vincoli di evidenza pubblica in
un contesto in cui le indicazioni del giudice europeo
risultano per contro univoche.
Si legge nella citata
sentenza della Corte di giustizia 08.11.2006 in causa
C-412/04 “secondo la giurisprudenza della Corte, il fatto
che una disposizione di diritto nazionale che prevede la
realizzazione diretta di un’opera di urbanizzazione da parte
del titolare di una concessione edilizia o di un piano di
lottizzazione approvato, a scomputo totale o parziale del
contributo dovuto per il rilascio della concessione, faccia
parte di un complesso di norme in materia urbanistica dotate
di caratteristiche proprie e dirette al raggiungimento di
specifici obiettivi, distinti da quelli della direttiva
93/37, non è sufficiente a escludere la realizzazione
diretta dall’ambito di applicazione di quest’ultima, qualora
risultino soddisfatti tutti gli elementi necessari affinché
essa vi rientri (v. sentenza Ordine degli Architetti e a.,
cit., punto 66)”; d’altro canto nelle sue conclusioni
l’avvocato generale precisava: “il governo italiano segnala
le peculiarità del settore urbanistico e le caratteristiche
del regime di aggiudicazione controverso, ma trascura il
fatto che la valutazione di tale sistema nel presente
procedimento deve basarsi sulle direttive in materia di
appalti pubblici. Se si pone l’accento su un piano giuridico
–il piano nazionale– senza prendere in considerazione
l’altro –quello comunitario–, si distorce la situazione.
Inoltre, ho già messo in rilievo che la sentenza resa nella
causa Ordine degli Architetti e a. ha affermato che le
caratteristiche proprie della materia urbanistica non sono
sufficienti ad escludere l’applicazione delle direttive”
Resta il fatto che la disciplina vigente al momento di
sottoscrizione della convenzione, recepita dalla convenzione
stessa ed applicabile al caso di specie, era quella
indubbiamente più ortodossa in termini di rispetto dei
vincoli eurounitari.
Non può quindi che prendersi atto del necessitato
progressivo coordinamento tra la disciplina degli oneri a
scomputo e dei vincoli di evidenza pubblica alla cui luce,
come anche indicato dal legislatore europeo, deve
interpretarsi la materia per questo specifico aspetto.
Se tanto è vero consegue che non possono che essere
integrati in questo aspetto della disciplina urbanistica
tutti i valori dell’evidenza pubblica che attengono tanto
alla tutela della concorrenza all’atto della realizzazione
delle opere che, e contestualmente, al raggiungimento di
obiettivi di efficienza ed economicità dell’azione
amministrativa. Dovendosi infatti coordinare le due materie
appare difficilmente sostenibile recepire l’evidenza
pubblica in termini solo favorevoli all’impresa e non anche
all’amministrazione e quindi all’interesse pubblico sotto il
profilo dell’efficienza ed economicità dell’azione
amministrativa.
La tesi interpretativa proposta da parte ricorrente, che
comporterebbe l’acquisizione al privato dei vantaggi indotti
dal risparmio di spesa frutto dell’applicazione di una
procedura comparativa, appare in ogni caso al collegio
violare tutti i citati valori propri dell’evidenza pubblica.
Da un lato infatti l’acquisizione all’amministrazione di
eventuali risparmi prodotti dall’obbligatorio confronto con
il mercato soddisfa esigenze di efficienza ed economicità
dell’azione amministrativa vanificate dall’interpretazione
proposta in ricorso. Non è un caso se il giudice contabile
ha reiteratamente affermato che la somma da scomputare per
opere di urbanizzazione corrisponde al “costo effettivo”
delle stesse e qualificato l’opposta soluzione foriera di
danno erariale (Corte Conti, sez. contr. Veneto
parere
07.08.2009 n. 148 e
parere 28.07.2010 n. 94; Corte Conti, sez. controllo
Lombardia
parere 24.09.2015 n. 314).
Dall’altro lato l’imposizione degli obblighi di evidenza
pubblica ha lo scopo di impedire che un operatore del
mercato possa, proprio in violazione dei principi di
concorrenza, beneficiare sostanzialmente di un affidamento
diretto a prezzi superiori a quelli di mercato. Trasferire
sul privato attuatore l’obbligo di rispetto dei principi di
evidenza pubblica senza tuttavia acquisire
all’amministrazione il vantaggio economico derivante
dall’applicazione a valle di siffatte procedure equivale a
favorire indebitamente un operatore privato di mercato;
infatti, se pure l’esecutore materiale delle opere le
realizzerà a prezzo di mercato, il soggetto attuatore -privato e normalmente altro operatore professionale del
medesimo mercato- lucrerà la differenza tra gli importi
(avulsi dagli esiti del confronto procedimentale)
presuntivamente indicati nella convenzione e i prezzi
effettivamente applicati. Si finisce così per spostare
l’indebito vantaggio concorrenziale dal soggetto
materialmente esecutore delle opere al soggetto attuatore
(anch’esso un operatore privato di mercato), eludendo il
significato sostanziale dell’intervento della normativa
europea.
Ritiene quindi il collegio che una interpretazione
sistematica di quanto previsto dall’art. 16 del d.p.r. n.
380/2001 porti a concludere che le opere a scomputo, ai fini
del calcolo di un eventuale conguaglio con gli oneri di
urbanizzazione, debbano, come fatto dall’amministrazione,
essere valorizzate al costo effettivo, tenendo conto di
eventuali ribassi d’asta ottenuti in gara.
E’ quindi infondato il primo motivo di ricorso.
Con il secondo motivo di ricorso si persegue il medesimo
risultato interpretativo, sostenendo che la soluzione
proposta sarebbe comunque quella ricavabile dal tenore della
convenzione stipulata tra le parti e quindi da una corretta
applicazione della disciplina contrattuale che le vincola.
La tesi non è condivisibile.
Premesso che, ove questo fosse il significato della
convenzione, essa si porrebbe in contrasto con la legge
vigente all’epoca della sua stipulazione, che imponeva
l’indizione di procedure di evidenza pubblica per la
realizzazione delle opere a scomputo con tutte le
implicazioni che si ritiene ne derivino, il testo della
convenzione non supporta l’interpretazione proposta dai
ricorrenti.
I ricorrenti valorizzano la circostanza che l’art. 7.2 della
convenzione, là dove in verità prevede penetranti poteri di
controllo dell’amministrazione sull’esecuzione delle opere e
sul regolare espletamento della gara, precisa che il Comune
“fatto salvo il potere di controllo resta estraneo ai
rapporti economici tra le parti”. Il senso della
disposizione non è certo quello di individuare il criterio
di valorizzazione delle opere a scomputo ma unicamente
quello di precisare che l’amministrazione, estranea al
contratto di appalto che intercorre tra soggetto attuatore e
impresa affidataria dei lavori, non potrà essere considerata
in alcun modo debitrice del soggetto affidatario.
Ancora prosegue parte ricorrente affermando che dalla
convenzione si evincerebbe che il valore delle opere a
scomputo sarebbe quello desumibile dai progetti esecutivi.
In verità l’art. 6.1 della convenzione che disciplina
espressamente gli oneri a scomputo prevede una stima
immediata dal valore di tali opere, precisando che detta
stima, nel suo importo definitivo, dovrà evincersi, appunto,
dai progetti definitivi ancora non presenti all’atto di
stipulazione della convenzione. Nel testo contrattuale si
prende poi atto che il valore stimato delle opere risulta
inferiore alla determinazione forfetaria degli oneri e si
stabilisce che la quota di conguaglio verrà corrisposta in
quattro rate a partire dal rilascio di ogni singolo permesso
di costruire. Evidentemente la somma presa a riferimento in
questa fase non potrà che essere quella desumibile dai
progetti definitivi.
Precisa poi ulteriormente la convenzione che “eventuali
economie accertate dall’atto unico di collaudo emesso a
titolo patrimoniale saranno corrisposte dall’attuatore in
unica soluzione”. In sostanza la convenzione prevede
appositamente un conguaglio a favore dell’amministrazione
ove il costo effettivo delle opere sia risultato inferiore a
quello atteso in base alla progettazione. Non pare invece
condivisibile l’assunto di parte ricorrente, secondo cui
l’inciso, che descrive un meccanismo generale e coerente –anche con la normativa pertinente– avrebbe inteso
disciplinare la sola ipotesi di mancata realizzazione di
talune delle opere. Tale limitazione non si evince né dalla
lettera né dalla ratio della disposizione.
In conclusione, tanto l’interpretazione della normativa
applicabile quanto quella delle disposizioni della
convenzione urbanistica che vincola le parti, portano il
collegio a preferire la soluzione interpretativa proposta
dall’amministrazione, secondo cui i risparmi di spesa
derivanti dal ribasso ottenuto in asta per la realizzazione
delle opere a scomputo incidono sulla valorizzazione delle
stesse nell’ambito dei rapporti tra amministrazione e
soggetto attuatore.
Il ricorso deve quindi essere respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 19.05.2017 n. 646 - link a www.giustizia-amministratva.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Esteso anche alla pensione anticipata il cumulo dei
contributi versati nelle diverse gestioni (CGIL-FP di
Bergamo,
nota 24.05.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le capacità assunzionali negli Enti Locali dopo il D.L.
14/2017 e 50/2017 (CGIL-FP di Bergamo,
nota 12.05.2017). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Approvazione della nuova normativa sulle
gestione delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo,
circolare 26.05.2017 n. 101). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Incendi di camini e tetti
(Ministero dell'Interno, Comando provinciale dei Vigili del
Fuoco di Bergamo,
nota 19.05.2017 n. 10959 di prot.) |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 22 del 30.05.2017, "Modifiche
all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31
(Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la
riqualificazione del suolo degradato)" (L.R.
26.05.2017 n. 16). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 22 del 30.05.2017, "Legge
di semplificazione 2017" (L.R.
26.05.2017 n. 15).
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
• Art. 14 - (Modifiche agli
articoli 15, 89, 100, 101 e 126 della l.r. 6/2010)
• Art. 21 - (Misure di
semplificazione in materia energetica. Modifiche
all’articolo 4 della l.r. 31/2014, agli articoli 27 e 28
della l.r. 26/2003 e all’articolo 9 della l.r. 24/2006)
• Art. 25 - (Modifiche alla l.r. 33/2015)
• Art. 26 - (Modifiche alla l.r. 12/2005) |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 29.05.2017,
"Adozione dell’integrazione del Piano Territoriale
Regionale, ai sensi della l.r. 31/2014 (articolo 21 l.r.
11.03.2005, n. 12 (legge per il governo del territorio)"
(deliberazione
C.R. 03.05.2017 n. 1523).
...
B.U.R. Lombardia,
serie ordinaria n. 22 del 30.05.2017, "D.c.r. 03.05.2017
- n. X/1523 Adozione dell’integrazione del Piano
Territoriale Regionale, ai sensi della l.r. 31/2014
(articolo 21 l.r. 11.03.2005, n. 12 (legge per il governo
del territorio) pubblicata sul burl seo n. del 29.05.2017" (errata
corrige - ripubblicazione deliberazione C.R.
23.05.2017 n. 1523). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
Modello lettera invito gara informale art. 36, comma 2,
lettere a) (se si vuole) e b), aggiornato al Correttivo
(29.05.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
C. Contessa,
Il primo (e unico) correttivo al ‘Codice dei contratti’ Un
passo avanti verso la semplificazione del sistema?
(24.05.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Aspetti generali della questione - 2.
La scelta del Legislatore di adottare un unico testo
correttivo e le conseguenze di sistema - 3. Su cosa può e su
cosa non può incidere un decreto correttivo – 4. Una (breve)
analisi per settori - 4.1 Le novità e le semplificazioni in
tema di affidamenti sotto-soglia (art. 36) - 4.2. Le
innovazioni in tema di programmazione (artt. 21, 22, 23) -
4.3. Gli interventi in tema di trasparenza, pubblicazioni e
comunicazioni (articoli 29, 53 e 76) - 4.4. Il nuovo ambito
dell’appalto integrato (art. 59) - 4.5. Le novità in tema di
Commissioni giudicatrici (art. 77, 78) - 4.6. Le modifiche
in tema di aggiudicazione al prezzo più basso e di offerte
anomale (artt. 95, 97) - 4.7. Il soccorso istruttorio
(gratuito) nella previsione del Decreto correttivo (art. 83,
co. 9) - 4.8. L’abrogazione della disposizione sulle cc.dd.
‘raccomandazioni vincolanti’ dell’ANAC. Cenni e rinvio (art.
211, co. 2) - 4.9. Le innovazioni in tema di subappalto
(art. 105) - 5. Un primo tentativo di sintesi: il decreto
correttivo muove verso la (parziale) attenuazione dei
vincoli e dei limiti insiti nella prima formulazione del
‘Codice’? |
APPALTI:
Solo la stipulazione del contratto fa sorgere il vincolo
giuridico (22.05.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Ma qual è la difficoltà a chiedere nelle forme brevi alcuni
preventivi? (15.05.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Determina a contrattare semplificata: ennesima norma
fuorviante (13.05.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
E’ diretto l’affidamento diretto? Forse. Sicuramente non è
fiduciario (13.05.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
La
rotazione è necessaria solo nei casi di affidamenti senza
gara (06.05.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi a contratto: no alla fiduciarietà ed alla
"promozione" dei funzionari a dirigenti (22.04.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Correttivo: schema determina affidamento diretto sotto i
40.000 euro (19.04.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Avviso di manifestazione di interesse (18.04.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'ammissibilità, ai sensi
dell'art. 9 del d.P.R. 380/2001, degli interventi di
ristrutturazione edilizia all'esterno del perimetro del
centro abitato nei comuni sprovvisti di strumento
urbanistico generale – Comune di Atina (Regione Lazio,
nota 26.05.2017 n. 270034 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le spese legali.
DOMANDA:
Un dipendente ha vinto in primo grado una causa per
l'annullamento di una sanzione disciplinare (riduzione
oraria stipendiale), con condanna dell'amministrazione delle
spese di giudizio. Si chiede se allo stesso, ove debitamente
documentate, siano rimborsabili anche le spese per
l'assistenza legale nella fase strettamente disciplinare,
prima cioè del giudizio che si è svolto innanzi al
Tribunale, atteso che il dipendente si è avvalso di un
avvocato.
RISPOSTA:
Sulla questione concernente la concessione del beneficio
della tutela legale in relazione anche ai procedimenti
disciplinari dei pubblici dipendenti (conclusisi senza
comminazione di sanzione disciplinare) si è espressa
l’Avvocatura dello Stato, con parere del 10.05.2013,
ritenendo che l’art. 18 del D.L. nr. 67/1997 non offre
possibilità all’interprete di estendere ai procedimenti
disciplinari il diritto al rimborso delle spese legali, sia
per il suo tenore testuale, sia per la ratio legis
sottesa.
Infatti, il procedimento disciplinare ha natura
amministrativa e non giurisdizionale, mentre la garanzia
costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è
limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi,
essere invocata in materia di procedimento disciplinare che,
viceversa, sfocia in un provvedimento non giurisdizionale
(sentenze Corte Cost. n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del
1974).
Ne consegue che il Legislatore, alla luce della diversa e
più attenuata conformazione che il diritto di difesa assume
nel procedimento disciplinare, ben può differenziare,
nell’esercizio della sua discrezionalità, i diritti da
riconoscere in capo a coloro che sono soggetti ad un
procedimento disciplinare, rispetto ai diritti
costituzionali di difesa da riconoscere in capo a coloro che
si vedono parti in un processo civile, penale o contabile.
Il parere espresso dall’Avvocatura è pienamente
condivisibile, in quanto conforme a quanto evidenziato dalla
giurisprudenza amministrativa che, con riguardo all’art. 18
del D.L. nr. 67/1997 (e, analogamente, all’art. 67 del
D.P.R. n. 268/1987 e all’art. 28 del C.C.N.L. 14.09.2000),
ha ribadito che “il suo ambito d’applicazione è
rigorosamente circoscritto a quanto emerge dal suo contenuto
testuale, espressione di un principio generale, da essa
derivando un onere a carico dell’Amministrazione” (TAR
Veneto-Venezia sent.i n. 1295/2012).
E’ vero che la norma fa riferimento -accanto alla
responsabilità civile e penale- anche a quella
amministrativa, ma “è pacifico che la stessa abbia ad
oggetto la responsabilità per danno erariale non potendo,
all'evidenza, essere estesa alla responsabilità disciplinare”
(TAR Piemonte-Torino, sent. n. 276/2011; conforme TAR Umbria
sent, n. 555/2008) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla determinazione del
contributo di costruzione per il rilascio di permesso a
costruire per la realizzazione di annessi agricoli - Comune
di Vicovaro (Regione Lazio,
nota 23.05.2017 n. 260672 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comune di Terni - Procedimento semplificato
autorizzazione paesaggistica (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota 09.05.2017 n. 14620
di prot.).
---------------
Con nota dell'11.04.2017, il Comune di Terni ha rivolto a
questo Ufficio alcuni quesiti concernenti la corretta
applicazione del d.P.R. n. 31 del 2017, in particolare per
quanto riguarda l'individuazione dei casi di esclusione
dall'esonero dalla previa autorizzazione paesaggistica per
particolari categorie di interventi in relazione al rinvio,
più volte operato nel regolamento, alle diverse tipologie di
vincoli previsti dall'articolo 136 del codice di settore.
Si reputa utile, in questa primissima fase applicativa del
nuovo regolamento, per agevolarne la corretta esecuzione e
prevenire l'insorgere di indesiderate difficoltà pratiche
che potrebbero impedirne la funzione semplificatrice,
fornire direttamente risposta anche gli enti territoriali
che dovessero proporre quesiti, e ciò anche in deroga a
quanto disposto dall'art. 4 del d.P.C.M. n. 171 del 2014
(...continua). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: richiesta di parere in materia di progressioni
economiche orizzontali (Ministero dell‘Economia e delle
Finanze, Ragioneria Generale dello Stato,
nota 24.03.2017 n. 49781 di prot.). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
PUBBLICO IMPIEGO:
Chiarimenti in ordine alla pubblicazione degli emolumenti
complessivi a carico della finanza pubblica percepiti dai
dirigenti (art. 14, co. 1-ter del d.lgs. 33/2013) (comunicato
del Presidente del 17.05.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Notizie utili ai fini della tenuta del Casellario
Informatico previsto art. 213, c. 10, del d.l.vo 50/2016
(comunicato
del Presidente 10.05.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI SERVIZI:
Oggetto: chiarimenti sull’attivazione dell’Elenco delle
amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori
che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di
proprie società “in house” previsto dall’art. 192 del d.lgs.
50/2016 (comunicato
del Presidente 10.05.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Attività di vigilanza - Disponibili i moduli per invio
segnalazioni in materia di inconferibilità e
incompatibilità, prevenzione della corruzione e obblighi di
trasparenza (comunicato
del Presidente 27.04.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Ambito di intervento dell’Anac - Comunicato del
Presidente: funzioni e competenze dell’Autorità e tipologie
di segnalazioni a cui non può seguire vigilanza o verifica
(comunicato
del Presidente 27.04.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: chiarimenti sull’attività di ANAC in materia di
accesso civico generalizzato (comunicato
del Presidente 27.04.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Codice Identificativo Gara - In un comunicato del
Presidente indicazioni per i CIG acquisiti entro il
30.04.2011 (comunicato
del Presidente 12.04.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sulla
impossibilità di riconoscere gli emolumenti previsti
dall'art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 18/04/2016 (incentivi)
anche per le attività di manutenzione straordinaria.
L’art. 113 D.Lgs. 50/2016
indica, quali “funzioni tecniche” incentivabili, “esclusivamente”
le attività per la programmazione della spesa per
investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e il controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
Le attività enumerate, pertanto, sono state selezionate dal
legislatore per la loro specifica attitudine a produrre
effetti performanti e di vigilanza sulla spesa.
Il raffronto dell’attuale dettato normativo con quello
previgente, pertanto, deve essere letto alla luce di
una
tendenza evolutiva della ratio degli incentivi in
esame che ulteriormente ne definisce l’ambito con la
finalità di valorizzare “esclusivamente” un
(pertanto) tassativo elenco di attività rispetto ad altre
funzioni necessarie nelle varie fasi di esecuzione di un
contratto pubblico.
Il
legislatore,
con
l’attuale art. 113, D.Lgs. 50/2016, ha ritenuto di dover
circoscrivere la finalità “premiante” degli incentivi
alle (sole) funzioni tecniche tassativamente elencate, a cui
occorre aggiungere, a segnare il superamento del precedente
sistema, l’esplicita esclusione delle attività di
progettazione contenuta nella legge di delega.
Ammettere una tacita e contemporanea riespansione
dell’ambito operativo degli incentivi in esame in favore di
attività, quali quelle manutentive, già espressamente
escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe
con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato,
della riforma del 2016.
----------------
Con nota del 20.02.2017, prot. n. 23883 (prot. C.d.c. n.
1369 del 22.02.2017), il Sindaco del Comune di Treviso
formula richiesta di parere in merito alla legittimità
dell’attribuzione degli emolumenti previsti dall’art. 113
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 a favore delle
attività di manutenzione straordinaria.
Ad avviso dell’Ente, poiché “a differenza del previgente
art. 93, comma 7-ter, del D.lgs. 12.04.2006, n. 163, il
quale escludeva espressamente l’applicabilità degli
incentivi a qualunque attività manutentiva, senza
specificare se ordinaria o straordinaria (ma
“ragionevolmente” riferendosi a entrambe), l’art. 113 del
D.lgs. 12.04.2016, n. 50, introducendo una nuova fattispecie
di incentivi per “funzioni tecniche”, non esclude tali
attività dalla corresponsione degli incentivi.
A giudizio di questo ente, le “manutenzioni straordinarie”
potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione dell’art.
113 del D.lgs. 12.04.2016, n. 50 in quanto, al fine di
realizzare lavori di manutenzione straordinaria, si
rende necessario effettuare una “programmazione della spesa
per investimenti” e, qualora tali lavori vengano affidati a
ditte esterne mediante apposite procedure di appalto,
vengono svolte dai dipendenti quelle attività che, ai sensi
del comma 2, danno titolo alla corresponsione degli
incentivi (tra queste attività, vi è per l’appunto
l’attività di predisposizione e di controllo delle procedure
di bando).
Diverso è il caso invece delle “manutenzioni ordinarie”
per le quali, a differenza delle manutenzioni straordinarie,
non viene effettuata alcuna “programmazione della spesa per
investimenti””.
...
La questione prospettata, difatti, attiene alla
corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche di cui
all’art. 113, D.Lgs. 50/2016, recante la “Attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture”, il quale
dispone che, a valere sugli stanziamenti previsti per la
realizzazione dei singoli lavori, “le amministrazioni
pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie
in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo
dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, per
la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di
controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e
di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti” (comma 2) e che “L'ottanta per cento
delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del
comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio,
fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”
(comma 3).
Trattasi, pertanto, di materia attinente alla gestione della
spesa del Comune, che, come tale, interessa ambiti della
normativa e dei relativi atti applicativi “che
disciplinano, in generale, l’attività finanziaria che
precede o che segue i distinti interventi di settore,
ricomprendendo, in particolare la disciplina dei bilanci e i
relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate,
l’organizzazione finanziario-contabile, la disciplina del
patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la
rendicontazione e i relativi controlli” (Sez. Autonomie,
deliberazione n. 5/AUT/2006, cit.).
Si ritiene necessario sottolineare, alla luce dell’avvenuta
approvazione, con D.G.C. del Comune di Treviso n. 43 del
01.03.2017, dell’autorizzazione alla sottoscrizione
dell’accordo contenente le modalità e i criteri di
ripartizione del Fondo concernente gli incentivi per le
funzioni tecniche, che la funzione consultiva attribuita
alle Sezioni regionali di controllo non può concernere fatti
gestionali specifici del soggetto istante, ma ambiti e
oggetti di portata generale, rimanendo nella piena
discrezionalità e responsabilità dell’Ente la specifica e
concreta scelta gestionale da adottare.
Ciò premesso, di seguito si procede all’analisi, in termini
generali e astratti, che prescindono da una qualunque
valutazione del suddetto atto, del quesito formulato
dall’Ente in merito alla possibilità di corrispondere
incentivi per le attività di manutenzione straordinaria
sulla base della normativa attualmente vigente.
Come si avrà modo di illustrare, si ritiene
in merito ancora attuale, e applicabile al caso di specie,
il percorso interpretativo seguito dalla Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 23.03.2016 n. 10, alla quale si
rimanda per l’esaustiva ricostruzione storico-sistematica
della disciplina in analisi.
Con tale pronuncia, ai sensi dell’art. 6, comma 4, D.L.
174/2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge
07.12.2012, n. 213, è stato affermato il principio di
diritto in base al quale “la corretta interpretazione
dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce
delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri
individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso
dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di
qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra
manutenzione ordinaria o straordinaria.”
L’iter argomentativo tracciato dalla suddetta deliberazione
partiva dalla constatazione che, nel passaggio
dall’orientamento consolidatosi prima della novella recata
dall’art. 13-bis D.L. 90/2014 (per il quale nel silenzio
della legge l’emolumento in parola avrebbe dovuto essere
riconosciuto solo per la manutenzione straordinaria, purché
preceduta da un’attività di progettazione) al contrasto
sorto tra le varie Sezioni regionali di controllo con
l’entrata in vigore del comma 7-ter dell’art. 93 D.Lgs.
163/2006, istitutivo del (nuovo) fondo per la progettazione
e l’innovazione, occorresse dare preminenza al dato
letterale, in coerenza con l’art. 12 delle preleggi, che
escludeva espressamente le attività di manutenzione da
quelle incentivabili.
La Sezione delle Autonome ha ritenuto che il mutato quadro
normativo fosse giustificato da una differente logica dello
strumento delle incentivazioni, ristrette, rispetto al
passato, alla progettazione e innovazione, in un’ottica non
solo di contenimento della spesa, ma anche di una sua
razionalizzazione, alla luce, tra l’altro, della L. 11/2016,
recante la delega che ha condotto all’attuale testo
dell’art. 113, D.Lgs. 50/2016, rispetto al quale verte la
richiesta odierna di parere.
Più precisamente, l’art. 1, c. 1, lett. rr), L. 11/2016,
prevede la destinazione di una somma non superiore al 2%
dell’importo posto a base di gara per le attività tecniche
svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, per l’esplicito fine di incentivare
l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della
realizzazione e l'esecuzione a regola d'arte, con
particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi e
senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera e con
l’espressa esclusione dell'applicazione degli incentivi alla
progettazione.
In attuazione della delega, l’art. 113 D.Lgs. 50/2016
indica, quali “funzioni tecniche” incentivabili, “esclusivamente”
le attività per la programmazione della spesa per
investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e il controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
Le attività enumerate, pertanto, sono state selezionate dal
legislatore per la loro specifica attitudine a produrre
effetti performanti e di vigilanza sulla spesa.
Il raffronto dell’attuale dettato normativo con quello
previgente, pertanto, deve essere letto alla luce di
una
tendenza evolutiva della ratio degli incentivi in
esame che ulteriormente ne definisce l’ambito con la
finalità di valorizzare “esclusivamente” un
(pertanto) tassativo elenco di attività rispetto ad altre
funzioni necessarie nelle varie fasi di esecuzione di un
contratto pubblico (Sez. contr. Emilia Romagna,
parere 07.12.2016 n. 118, Sez. contr. Sardegna,
parere 18.10.2016 n. 122, Sez. contr. Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134, Sez. contr. Puglia,
parere 24.01.2017 n. 5).
Se con l’art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. 163/2006,
il
legislatore ha sentito la necessità, rispetto alla prassi pretoria affermatasi, di chiarire che l’incentivo non fosse
riconoscibile per nessuna attività di manutenzione,
con
l’attuale art. 113, D.Lgs. 50/2016, ha ritenuto di dover
circoscrivere la finalità “premiante” degli incentivi
alle (sole) funzioni tecniche tassativamente elencate, a cui
occorre aggiungere, a segnare il superamento del precedente
sistema, l’esplicita esclusione delle attività di
progettazione contenuta nella legge di delega.
Ammettere una tacita e contemporanea riespansione
dell’ambito operativo degli incentivi in esame in favore di
attività, quali quelle manutentive, già espressamente
escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe
con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato,
della riforma del 2016.
Non è fondata, tra l’altro, un’interpretazione che, nel
constatare che quando il legislatore ha voluto escludere
esplicitamente alcune attività (quali quelle di
progettazione) si è preoccupato di farlo espressamente,
vuole far derivare dal silenzio della legge un significato
ultroneo (incentivazione delle attività manutentive)
rispetto a quello fatto palese dall’elemento puramente
letterale, in quanto nell’attuale testo si è adottata una
differente tecnica normativa che consiste nella esplicita
scelta di limitarsi a menzionare solo e, come recita la
disposizione in esame, “esclusivamente”, alcune
funzioni tecniche, risultando quelle non inserite nella
disposizione in analisi automaticamente e inequivocabilmente
escluse.
Una diversa conclusione rispetto a quella offerta, pertanto,
contrasta non solo con l’inequivoca lettera della norma, che
non ammette interpretazioni difformi in assenza di dubbi sul
suo chiaro significato (rafforzato, come detto, dalla scelta
di utilizzare l’avverbio “esclusivamente”), ma anche
con un’interpretazione storico-sistematica alla luce dei
precedenti approdi della giurisprudenza contabile
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 12.05.2017 n. 338). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI SERVIZI:
Il rito appalti si applica anche agli affidamenti in house
di contratti pubblici.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Termine
dimidiato impugnazione atti di gara – Affidamenti in house
di contratti pubblici – Art. 120 c.p.a. – Applicabilità.
Anche le impugnazioni di affidamenti
in house di contratti pubblici di lavori servizi e forniture
siano soggetti al “rito appalti” di cui agli artt. 119,
comma 1, lett. a), e 120 c.p.a., con il corollario del
dimezzamento del termine per proporre il ricorso di primo
grado, ai sensi del comma 5 di quest’ultima disposizione
(1).
---------------
(1)
La Sezione è giunta a tale conclusione in primo luogo sulla
base dell’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore “procedure
di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture”
e “atti delle procedure di affidamento”, utilizzate
nelle disposizioni del codice del processo amministrativo.
Esse si incentrano sul concetto di “procedure”, che
nella sua latitudine è idonea a racchiudere tutta l’attività
della Pubblica amministrazione espressiva del suo potere di
supremazia, che si manifesta attraverso atti autoritativi e
nelle forme tipiche del procedimento amministrativo.
Con specifico riguardo alla materia degli affidamenti di
contratti di lavori servizi e forniture, il concetto di “procedure”
è pertanto idoneo ad individuare nel suo complesso la fase
che precede la stipula del contratto, allorché, invece,
l’amministrazione dismette i propri poteri autoritativi per
assumere la qualità di parte di un negozio giuridico
bilaterale di diritto privato, fonte di un rapporto di
natura paritetica con l’appaltatore o il concessionario.
Ha aggiunto la Sezione che quand’anche estrinsecatosi uno
actu, anche l’affidamento in house di contratti pubblici
è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa
della Pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme
del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta
in via generale nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché in
tesi con modalità estremamente semplificate. La tesi
contraria introdurrebbe una distinzione incentrata non già
sul profilo di ordine qualitativo legato al settore di
attività della Pubblica amministrazione -affidamento di
contratti di lavori, servizi e forniture-, ma sulle concrete
modalità con cui quest’ultima è addivenuta a tale
affidamento, con il rischio di rendere non agevole il
discrimine tra rito ordinario e rito speciale.
Ad avviso della Sezione, oltre all’argomento di ordine
letterale finora svolto, e sulla base di esso, deve
ritenersi che anche sul piano dell’interpretazione logica
(avuto cioè riguardo all’”intenzione del legislatore”)
gli affidamenti in house siano soggetti al rito “appalti”.
Depone in questo senso la comunanza ai contratti così
stipulati delle esigenze sottese a questo speciale
procedimento giurisdizionale, e cioè la spiccata celerità e
la pienezza di tutela assicurata dai provvedimenti
adottabili ai sensi degli artt. 120–124 c.p.a.. Tra questi
vi è in particolare la possibilità per il giudice di
dichiarare l’inefficacia del contratto stipulato sulla base
del provvedimento autoritativo di affidamento e dunque di
incidere sul rapporto negoziale già instaurato “a valle”
di quest’ultimo.
Da questa ampiezza di poteri e dalle conseguenti ricadute su
assetti contrattuali già instauratisi si coglie pertanto la
necessità sul piano logico e di complessiva coerenza
normativa di assoggettare anche gli affidamenti in house
al rito concernente in generale i contratti di lavori,
servizi e forniture. In caso contrario, rimarrebbero immuni
dal rischio di declaratoria giurisdizionale di inefficacia
proprio gli affidamenti connotati maxime dalla violazione
del principio generale, di matrice anche europea,
dell’evidenza pubblica (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2017 n. 2533
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Termine dimidiato di trenta giorni per impugnare
l’esclusione dalla gara pubblica.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Esclusione –
Impugnazione – Termine di trenta giorni ex art. 120, comma
5, c.p.a. – Applicabilità.
Il termine dimidiato per
l’impugnazione, previsto dall’art. 120, comma 5, c.p.a., si
applica anche all’impugnazione dei provvedimenti di
esclusione e non solo a quelli di aggiudicazione (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che sono soggetti al c.d. rito appalti,
ovvero al giudizio ordinario di legittimità che si svolge
davanti al giudice amministrativo e che ha ad oggetto la
complessiva attività della Pubblica amministrazione
finalizzata alla conclusione di contratti, gli “atti
delle procedure di affidamento” relative “a pubblici
lavori, servizi o forniture” (comma 1 dell’art. 120
c.p.a.).
Analogamente l’art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., che fa
riferimento alle «procedure di affidamento di pubblici
lavori, servizi e forniture». Entrambe le formule normative
hanno carattere generale. Esse sono in altri termini
riferite a tutti gli atti che si collocano nella fase c.d.
pubblicistica di selezione del contraente privato e che
precedono la stipula del contratto.
Quindi, sulla base di un’interpretazione letterale delle
norme in esame, ai sensi dell’art. 12, comma 1, delle
preleggi, il riferimento non può che comprendere anche gli
atti di esclusione di concorrenti adottati dalla stazione
appaltante nell’ambito della procedura di gara.
Tale interpretazione letterale è poi corroborata da un
argomento di ordine logico, in base al quale deve essere
esclusa l’opzione volta a distinguere regimi processuali
diversi, sotto il fondamentale profilo del termine per
proporre l’impugnativa giurisdizionale, nell’ambito di
un’unica attività amministrativa quale appunto quella ad
evidenza pubblica che precede la stipula di contratti.
A questa notazione può essere aggiunta una che fa leva
sull’«intenzione del legislatore» (art. 12 delle
preleggi sopra citato), alla stregua del quale appare
manifestamente irrazionale assoggettare a termini
differenziati, ed in particolare esentare alcuni atti della
procedura di gara dal dimezzamento del termine per ricorrere
ai sensi del citato art. 120, comma 5, pur a fronte
dell’unitaria esigenza di politica legislativa di celere
definizione del contenzioso relativo all’attività
contrattuale della pubblica amministrazione.
Si tratta in
particolare dell’esigenza che è alla base della specialità
del rito appalti e della conseguente deroga prevista in
materia rispetto al termine ordinario per ricorrere in sede
giurisdizionale amministrativa (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 24.05.2017 n. 2444
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti per comminare la sanzione pecuniaria sostitutiva
della demolizione.
---------------
•
Abusi - Sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione –
Presupposti – Art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 –
Individuazione.
•
Abusi - Sanzione
pecuniaria sostitutiva della demolizione – Ambito di
applicazione – Art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 –
Individuazione.
•
Ai fini dell’applicazione dell’art. 34, comma 2,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 –il quale prevede che ai fini
dell’applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva
della demolizione occorre che le opere oggetto di
contestazione siano solo parzialmente difformi dal titolo
abilitativo– occorre tener conto del complesso edilizio
risultante dalle opere via via realizzate; l’art. 34 si
applica quindi anche al caso in cui le opere edilizie sono
del tutto prive di abilitazione urbanistica, con conseguente
difformità totale), se le stesse sono compenetrate rispetto
ad altri manufatti preesistenti i quali, invece, sono stati
realizzati in base a regolare titolo abilitativo (1).
•
Ai sensi dell’art. 34, comma 2-ter, d.P.R.
06.06.2001, n. 380, le opere che eccedano per una misura
inferiore al 2% la volumetria assentita dal titolo edilizio
possano essere considerate come realizzate in parziale
difformità, trattandosi di abusi rientranti nei limiti di
tolleranza e quindi irrilevanti ai fini sanzionatori di cui
al citato art. 34 (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che non rileva, per escludere l’applicazione
del comma 2 dell’art. 34, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la
circostanza che le opere oggetto di considerazione sono del
tutto prive di abilitazione urbanistica (e quindi la
difformità sarebbe totale), atteso che le stesse sono
compenetrate rispetto ad altri manufatti preesistenti i
quali, invece, sono stati realizzati in base a regolare
titolo abilitativo.
Ne consegue che ai fini della decisione in ordine alla
demolizione deve tenersi conto del complesso edilizio
risultante dalle opere via via realizzate, atteso che la
ratio dell’art. 34 consiste proprio nell’evitare che la
demolizione di alcuni interventi edilizi abusivi possa
comportare l’eliminazione anche degli altri regolarmente
realizzati rispetto ai quali i primi siano strutturalmente
compenetrati e non possano essere demoliti se non con
pregiudizio dell’intera struttura.
(2) Ad avviso del Tar la disposizione non prevede che tutte le
opere di entità superiore al 2% rispetto a quelle assentite
andrebbero demolite in quanto ad esse non sarebbe
applicabile la sanzione pecuniaria esulando dall’ambito
applicativo dell’art. 34; il comma 2-ter, infatti, invece,
introduce un margine di flessibilità consentendo di
escludere anche dalla previsione sanzionatoria pecuniaria le
discrepanze dal titolo abilitativo contenute entro la
ridotta misura del 2% (TAR
Molise,
sentenza 24.05.2017 n. 192
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Nel merito parte ricorrente lamenta la violazione dell’art.
34, co. 2, del d.P.R. n. 380/2001, in quanto di tale norma
non sussisterebbero i presupposti, atteso che i manufatti in
questione sarebbero stati realizzati in totale difformità,
perché privi di titolo edilizio e sarebbero poi di entità
rilevante e certamente superiore alla misura del 2% (soglia
limite di cui al comma 2-ter dell’art. 34 d.P.R. n.
380/2001) rispetto a quelle regolarmente edificate.
Anche tali doglianze non meritano di essere condivise.
E’ utile riportare il testo del ripetuto art. 34 del d.P.R.
n. 380/2001: “1. Gli interventi e le opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o
demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il
termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del
dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale
termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese
dei medesimi responsabili dell'abuso.
2. Quando la
demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile
dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo
di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978,
n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal
permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al
doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia
del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da
quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente
articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui
all'articolo 23, comma 01, eseguiti in parziale difformità
dalla segnalazione di di inizio attività.
2-ter. Ai fini
dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale
difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non
eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle
misure progettuali”.
Orbene, dalla disposizione emerge che ai fini
dell’applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva
della demolizione occorre che le opere oggetto di
contestazione siano solo parzialmente difformi dal titolo
abilitativo. Ora, nel caso di specie è pure vero che le
opere oggetto di considerazione sono del tutto prive di
abilitazione urbanistica (e quindi la difformità sarebbe
totale), ma è altresì vero che esse sono compenetrate
rispetto ad altri manufatti preesistenti i quali, invece,
sono stati realizzati in base a regolare titolo abilitativo.
Ne consegue che ai fini della decisione in ordine alla
demolizione deve tenersi conto del complesso edilizio
risultante dalle opere via via realizzate, atteso che la ratio dell’art. 34 consiste proprio nell’evitare che la
demolizione di alcuni interventi edilizi abusivi possa
comportare l’eliminazione anche degli altri regolarmente
realizzati rispetto ai quali i primi siano strutturalmente
compenetrati e non possano essere demoliti se non con
pregiudizio dell’intera struttura.
Questa è la situazione che si verifica nella fattispecie, in
cui a fianco di interventi più risalenti ed assentiti, sono
state realizzate successivamente opere prive di titolo
urbanistico, ma che, secondo quanto rilevato
dall’Amministrazione, a causa della rilevata compenetrazione
con quelle preesistenti, non possono essere demolite senza
pregiudicare la stabilità dell’intera struttura con la quale
esse formano corpo unico.
Parte ricorrente contesta quale ulteriore profilo di
violazione del citato art. 34 la circostanza che le opere
realizzate avrebbero un’incidenza percentuale superiore al
2% rispetto al manufatto complessivamente considerato, con
la conseguenza che ai sensi del comma 2-ter sarebbero di
entità tale non poter essere considerate in parziale
difformità
Il motivo sottende un fraintendimento della
portata del
citato comma 2-ter dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001.
Tale previsione, diversamente da quanto opina parte
ricorrente, esclude che le opere che eccedano per una misura
inferiore al 2% la volumetria assentita dal titolo edilizio
possano essere considerate come realizzate in parziale
difformità, trattandosi di abusi rientranti nei limiti di
tolleranza e quindi irrilevanti ai fini sanzionatori di cui
al ripetuto art. 34.
La disposizione, quindi, opera in senso opposto a quanto
ritenuto dai ricorrenti, i quali pervengono alla conclusione
per la quale tutte le opere di entità superiore al 2%
rispetto a quelle assentite andrebbero demolite in quanto ad
esse non sarebbe applicabile la sanzione pecuniaria esulando
dall’ambito applicativo dell’art. 34, ma ciò non è quanto
prevede il comma 2-ter che, invece,
come visto, introduce un
margine di flessibilità consentendo di escludere anche dalla
previsione sanzionatoria pecuniaria le discrepanze dal
titolo abilitativo contenute entro la ridotta misura del 2%.
Infondata, infine, è anche la censura con la quale parte
ricorrente contesta l’attendibilità della relazione dei
tecnici comunali (prot. n. 293 del 25.01.2016) che
esclude la possibilità di eliminare le opere non oggetto di
sanatoria senza pregiudicare la tenuta dell’intera
struttura. Tale valutazione, che trova supporto anche nei
rilievi fotografici, non può essere sindacata in sede
giurisdizionale se non laddove emergano profili di
irragionevolezza o illogicità di cui nel caso di specie il
Collegio non ravvisa la sussistenza, con la conseguenza che
in mancanza di tali indizi le valutazioni operate nella
consulenza tecnica di parte non possono sovrapporsi a quelle
dell’Amministrazione. |
APPALTI:
Esclusione dalla gara di società in concordato con
continuità aziendale per mancata produzione
dell'autorizzazione del giudice delegato.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara - Società in concordato con continuità aziendale
– Mancata produzione autorizzazione del giudice delegato –
Illegittimità.
E’ illegittima l'esclusione da un
appalto di una società in concordato con continuità
aziendale, disposta per mancata produzione
dell'autorizzazione del giudice delegato, che l’aveva
rifiutata non avendola ritenuta necessaria (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che la procedura di concordato, per le
finalità proprie della partecipazione alle gare pubbliche e
degli adempimenti necessari, si esaurisce con il decreto di
omologa ex art. 181 L.F., e che a seguito della pronuncia di
questo si verifica per l’imprenditore il passaggio dal
regime di spossessamento attenuato, proprio della procedura,
al riacquisto della piena capacità di agire, e per gli
organi tutori dal potere di consentire o meno il compimento
di atti di straordinaria amministrazione ad una funzione di
mera vigilanza sulla corretta esecuzione del concordato
(Cass. civ., sez. VI, n. 2695 del 2016; id., sez. I, n.
12265 del 2016; Cons. St., sez. III, n. 2305 del 2012).
Nella stessa linea interpretativa si colloca la
determinazione ANAC n. 3 di data 23.04.2014, in cui è
precisato che in ambito concordatario “la cessazione
della causa ostativa coincide …con la chiusura della
procedura, che viene formalizzata con il decreto di
omologazione del concordato preventivo ai sensi dell’art.
180 L.F.”.
Tali conclusioni non sono mutate a seguito dell’entrata in
vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici. Ed invero,
l’art. 110, commi 3 e 4, prevede sì che l’impresa ammessa al
concordato con continuità aziendale possa partecipare alle
procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori,
forniture e servizi o di eseguire i contratti già stipulati
“su autorizzazione del giudice delegato, sentito l’ANAC”,
ma non è tale da determinare un’incisione sulle diverse e
separate fasi che scandiscono la procedura concordataria
disciplinata dalla L.F., ed in particolare sulla definizione
di questa a seguito del “giudizio di omologazione”
(art. 180) e della “chiusura della procedura” (art.
181).
Ad avviso del Tar, inoltre, l’art. 110 si riferisce pur
sempre alla fase antecedente l’omologazione e, in
particolare, a quella precedente dell’ammissione, come del
resto pure letteralmente si esprime, laddove la previsione
sia dell’autorizzazione del giudice delegato sia del parere
ANAC è riferita ad un’impresa “ammessa” al
concordato, e dunque non ancora omologato (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 24.05.2017 n. 179
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Decorrenza degli interessi legali sulle spese di lite decise
con sentenza passata in giudicato.
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Processo amministrativo – Giudicato – Condanna a rimborso
spese legali e interessi legali - Decorrenza degli interessi
– Dal passaggio in giudicato della sentenza
Gli interessi legali sulle spese di
lite tardivamente corrisposte decorrono dalla data del
passaggio in giudicato della sentenza che ha condannato a
tale rimborso, perché è solo da quel momento che si
perfeziona l'accertamento giudiziale e il suo effetto
costitutivo, per cui solo dalla stessa data sorgono i
conseguenti obblighi (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che non può rilevare, quale dies a
quo, il giorno di emissione della sentenza che deve
essere ottemperata (Cass. civ. 11.06.2004, n. 11097;
Trga Trento 09.12.2015, n. 514; id.
09.11.2015, n. 453) (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 23.05.2017 n. 728
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
RUP non può far parte della commissione di gara.
Il r.u.p. non può essere membro della commissione; benché la
compatibilità tra le due funzioni sia stata di recente
affermata in giurisprudenza, il contrario è infatti
desumibile dal confronto tra la previsione del soppresso
articolo 84 d.lgs. 12.04.2006, n. 163 secondo cui “i
commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né
possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta” e la formulazione dell’articolo 77,
comma 4, d.lgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui “i commissari
non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
al contratto del cui affidamento si tratta”.
La mancata esclusione del presidente dalla regola prevista
dall’articolo 77 implica chiaramente che il r.u.p. non possa
essere componente della commissione nemmeno quale presidente
e quindi il superamento della giurisprudenza formatasi sotto
il vigore del soppresso codice degli appalti.
Non è d’altro lato condivisibile il rilievo secondo cui la
nuova regola del comma 4 sarebbe destinata ad operare solo
dopo l’istituzione dell’albo dei commissari previsto
dall’articolo 77, comma 2, dato che essa è formulata in
termini generali ed è pertanto immediatamente efficace anche
nel regime transitorio delineato dal comma 12 dell’articolo
77 (con il quale è compatibile).
Nella fattispecie quindi il r.u.p. –che è il soggetto che ha
formulato la lex specialis– illegittimamente ha svolto
l’ufficio di presidente della commissione.
---------------
Premesso che con il ricorso principale e i motivi aggiunti
la ricorrente denuncia l’illegittimità degli atti della gara
indicata in epigrafe in particolare sostenendo che:
a) la
commissione non avrebbe proceduto all’apertura delle buste
contenenti l’offerta tecnica in seduta pubblica violando la
previsione dell’articolo 12 d.l. 07.05.2012 n. 52,
convertito in legge con modificazioni dalla legge 06.07.2012, n. 94;
b) il presidente della commissione di gara non
aveva titolo a ricoprire tale funzione sia perché sprovvisto
di competenza nella materia cui si riferisce il servizio sia
perché ha svolto anche la funzione di responsabile unico del
procedimento; inoltre egli ha svolto la funzione di
componente della commissione incaricata di svolgere la gara
per analogo servizio presso un diverso comune (gara vinta
dalla controinteressata) con conseguente dubbio in ordine
alla sua imparzialità;
c) il bando consentirebbe ribassi che
non garantiscono il rispetto del costo orario dei lavoratori
previsto dai C.C.N.L. con conseguente violazione
dell’articolo 30 d.lgs. 18.04.2016, n. 50;
d)
sussisterebbero varie divergenze tra il contenuto della
lettera di invito alla gara e il capitolato speciale
d’appalto;
e) l’avviso di aggiudicazione non reca
l’indicazione dei concorrenti che hanno partecipato alla
gara;
f) la commissione avrebbe introdotto sub-criteri di
valutazione delle offerte, così integrando il bando di gara
e svolgendo una funzione (quella di definire il regolamento
di gara) che non le compete; a ciò si aggiunge il rilievo
che i sub-criteri illegittimamente definiti dalla
commissione ricalcherebbero “fedelmente le caratteristiche
del servizio offerto dall’impresa aggiudicataria”;
g) i
punteggi delle offerte tecniche sarebbero stati attribuiti
impropriamente e comunque in un modo tale da non far
comprendere se sia stata utilizzata la griglia contenuta
nella lettera di invito o quella del capitolato di gara
(questa censura, contenuta nei motivi aggiunti, si salda al
quarto motivo del ricorso principale con cui si deduce la
contraddittorietà tra i due documenti citati);
Premesso che l’avvocatura generale dello Stato ha depositato
una memoria con cui ha articolato una difesa solo
relativamente ai motivi aggiunti cioè alle censure sopra
sintetizzate sub f) e g);
Ritenuto che:
a) in ordine alla dedotta violazione
dell’articolo 12 d.l. 07.05.2012, n. 52, convertito in
legge con modificazioni dalla legge 06.07.2012, n. 94, la
censura, anche a prescindere dal rilievo che l’articolo
indicato è stato abrogato (dall’articolo 217, comma 1, lett.
u) d.lgs. 18.04.2016, n. 50), è comunque infondata in
fatto, dato che l’apertura delle buste contenenti l’offerta
tecnica è avvenuta in seduta pubblica, come ammesso in
ricorso, e solo la valutazione è avvenuta in seduta
riservata, come pacificamente consentito;
b) in ordine alla
dedotta illegittimità della composizione della commissione,
la sezione condivide il rilievo secondo cui il r.u.p. non
può essere membro della commissione; benché la compatibilità
tra le due funzioni sia stata di recente affermata in
giurisprudenza (si veda TAR Lombardia, Brescia, 19.12.2016, n. 1757), il contrario è infatti desumibile
dal confronto tra la previsione del soppresso articolo 84 d.lgs. 12.04.2006, n. 163 secondo cui “i commissari
diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono
svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta” e la formulazione dell’articolo 77,
comma 4, d.lgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui “i
commissari non devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”;
la mancata esclusione del presidente dalla regola prevista
dall’articolo 77 implica chiaramente che il r.u.p. non possa
essere componente della commissione nemmeno quale presidente
e quindi il superamento della giurisprudenza formatasi sotto
il vigore del soppresso codice degli appalti; non è d’altro
lato condivisibile il rilievo secondo cui la nuova regola
del comma 4 sarebbe destinata ad operare solo dopo
l’istituzione dell’albo dei commissari previsto
dall’articolo 77, comma 2, dato che essa è formulata in
termini generali ed è pertanto immediatamente efficace anche
nel regime transitorio delineato dal comma 12 dell’articolo
77 (con il quale è compatibile); nella fattispecie quindi il
r.u.p. –che è il soggetto che ha formulato la lex specialis– illegittimamente ha svolto l’ufficio di presidente della
commissione;
c) in ordine alla dedotta violazione
dell’articolo 30 d.lgs. n. 50, la base d’asta fissata
dall’amministrazione consente la formulazione di offerte che
rispettino il costo orario dei lavoratori delle cooperative
sociali indicato in ricorso in euro 16,55 (alla offerta
dell’aggiudicataria, utilizzando i dati della lettera
invito, corrisponde un costo orario del servizio di circa
euro 17,30, idoneo a garantire, sia pur di poco, il rispetto
del costo orario dei lavoratori);
d) sussistono infine le
divergenze tra la lettera di invito e il capitolato speciale
di appalto denunciate in ricorso in ordine ai requisiti di
capacità economico-finanziaria (servizi analoghi e
fatturato) richiesti ai concorrenti e ai punteggi
attribuibili (per “esperienza sul campo” e “curricula”),
atteso che per la “comprovata esperienza sul campo” la
lettera di invito prevede un punteggio di 10 e il capitolato
di 20 mentre per i curricula la lettera di invito prevede 20
punti e il capitolato 10;
Ritenuto che quanto precede implichi l’annullamento di tutti
gli atti di gara, con salvezza delle ulteriori
determinazioni dell’amministrazione, e assorbimento delle
ulteriori censure non esaminate;
Ritenuto –in ordine alle
richieste di declaratoria di inefficacia del contratto e di
subentro della ricorrente– che i vizi riconosciuti fondati
implicano la caducazione dell’intera gara a partire dagli
atti che l’hanno indetta con la conseguenza che:
a) non è
possibile il subentro della ricorrente;
b) nel bilanciamento
degli opposti interessi, non si ritiene sussistano i
presupposti per la declaratoria di inefficacia del contratto
tenuto conto che l’affidamento si riferisce al solo corrente
anno scolastico ed è quindi prossimo a scadenza (è quindi
tecnicamente impossibile una rinnovazione della gara che si
concluderebbe necessariamente, tenuto conto dei tempi
occorrenti, ben dopo la fine dell’anno scolastico); di
conseguenza una dichiarazione di inefficacia del contratto
avrebbe il solo effetto di privare i beneficiari del
servizio di assistenza e non risulterebbe di alcuna utilità
per la ricorrente;
Ritenuto, in ordine alla domanda di risarcimento dei danni,
che i vizi riconosciuti fondati implicherebbero la
rinnovazione della gara e non l’aggiudicazione di essa alla
ricorrente; di conseguenza poiché con la sua domanda –peraltro del tutto generica– la ricorrente chiede il danno
da “mancata aggiudicazione” essa deve essere respinta
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 23.05.2017 n. 325 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Acquisizione sanante a seguito di giudizio di ottemperanza.
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Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione
sanante – A seguito di giudizio di ottemperanza - In
alternativa a restituzione immobile illegittimamente
occupato –Possibilità – Condizione.
L’Amministrazione, condannata con
sentenza a restituire l’immobile occupato illegittimamente e
pagare le somme dovute oppure, in alternativa, ad emettere
il decreto di acquisizione sanante ex art. 42-bis, d.P.R.
08.06.2001, n. 327 perde il potere di emanare tale decreto
solo se, a seguito dell’instaurazione del giudizio di
ottemperanza (volto all’esecuzione del giudicato nella sua
interezza), nella persistenza dell’inadempienza, si insedi
il commissario ad acta nominato a provvedere in sua
sostituzione (1).
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(1)
Ha chiarito il Tar, richiamando i principi espressi dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato 09.02.2016, n. 2,
che a fronte di un giudicato alternativo, quale quello in
questione, in caso di inadempienza dell’amministrazione,
parte ricorrente potrà ricorrere allo strumento del ricorso
per l’ottemperanza e, in tal caso, il commissario, se
nominato dal giudice a mente dell’art. 114, comma 3, lett.
d), c.p.a. ed insediatosi a seguito della persistenza
dell’inottemperanza, darà esecuzione al giudicato e pertanto
potrà emanare anche il provvedimento di acquisizione
coattiva, in quanto previsto in sentenza.
Ha aggiunto che la circostanza che in sentenza sia stato
previsto un termine entro il quale restituire l’immobile e
corrispondere le somme dovute oppure emanare il decreto di
acquisizione coattiva non esclude la legittimità del
provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 cit.
emesso successivamente, ove tale adempimento costituisca pur
sempre esecuzione secondo buona fede della sentenza e non
frustri la legittima aspettativa del privato alla
definizione stabile del contenzioso e del contesto
procedimentale.
Ha quindi concluso il Tar che l’amministrazione, condannata
in via alternativa, perde il potere di emanare il
provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis, d.P.R. n 327
del 2001 solo se, a seguito dell’instaurazione del giudizio
di ottemperanza (volto all’esecuzione del giudicato nella
sua interezza), nella persistenza dell’inadempienza, si
insedi il commissario ad acta nominato a provvedere
in sua sostituzione.
Non può condurre a diversa valutazione la circostanza che la
sentenza da ottemperare specificasse che il termine era
posto nell’esclusivo interesse della parte ricorrente; tale
precisazione non si pone in contrasto con le conclusioni cui
è pervenuto il Tar, volendo solo indicare che, scaduto tale
termine, i ricorrenti avrebbero potuto agire con gli
ordinari strumenti a tutela delle loro pretese oppure
concedere ulteriore termine, essendo quest’ultimo, per
l’appunto, posto nel loro interesse (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 22.05.2017 n. 852
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso agli atti di una gara secretata.
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Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica
amministrazione – Contratti secretati - Accessibilità –
Condizione.
Atteso che il d.lgs. 18.04.2016, n.
50 non reca una specifica disciplina dell'accesso con
riferimento agli appalti secretati ai sensi dell’art. 162,
spetta all’interprete il compito di stabilire se e come tale
diritto possa essere esercitato, a tal fine operando un
bilanciamento tra l’interesse alla non divulgazione di
notizie sensibili e il diritto di difesa; l’art. 24, comma
5, l. 07.08.1990, n. 241, la cui applicabilità alle
procedure di evidenza pubblica è sancita dall’art. 53, comma
1, del codice di contratti, infatti, evidenzia come il
segreto possa precludere il diritto d’accesso solo nei
limiti in cui sia necessario per garantire l’interesse a
tutela del quale esso è posto (1).
---------------
(1)
Ad avviso del Tra Catanzaro occorre svolgere un opera di
bilanciamento tra l’interesse alla non divulgazione di
notizie sensibili e il diritto di difesa, garantito
dall’art. 24 Cost., al cui esercizio l’accesso è
finalizzato. La bontà di tali conclusioni è suffragata
dall’art. 24, comma 5, l. 07.08.1990, n. 241, la cui
applicabilità alle procedure di evidenza pubblica è sancita
dall’art. 53, comma 1, del codice di contratti.
Esso, infatti, evidenzia come il segreto possa precludere il
diritto d’accesso solo nei limiti in cui sia necessario per
garantire l’interesse a tutela del quale esso è posto.
L’opera di bilanciamento degli interessi non può essere
svolta in via generale astratto, ma va centrata sulla
specifica vicenda storica all’attenzione dell’interprete (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 22.05.2017 n. 830
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Anche
uno o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno
del lavoratore non sono, di per sé, sintomatici della
presenza di un comportamento “mobbizzante”, occorrendo,
invece, per la sua realizzazione, un complessivo disegno
persecutorio e discriminatorio, qualificato da comportamenti
materiali ovvero da provvedimenti caratterizzati da finalità
di volontaria ed organica vessazione con connotazione
emulativa e pretestuosa.
---------------
Il Collegio ritiene che in ordine ai fatti suindicati, debba
richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale prevalente di
questo Consiglio (ved. ex plurimis CdS sez. VI n.
1945/2015) secondo il quale anche uno o più atti illegittimi
di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono,
di per sé, sintomatici della presenza di un comportamento “mobbizzante”,
occorrendo, invece, per la sua realizzazione, un complessivo
disegno persecutorio e discriminatorio, qualificato da
comportamenti materiali ovvero da provvedimenti
caratterizzati da finalità di volontaria ed organica
vessazione con connotazione emulativa e pretestuosa
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.05.2017 n. 2363 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'aver omesso di presentare allo Sportello unico
per l'edilizia la denuncia delle opere strutturali (nella
fattispecie consistenti di un muro di confine, dei piloni di
sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su
strada, prima dì procedere al loro inizio) integra la
contravvenzione di cui all'art. 93, comma 1,
indipendentemente sia dalle caratteristiche
dell'opera edilizia, che può consistere in qualsiasi
intervento edilizio -con la sola eccezione di quelli di
semplice manutenzione ordinaria- effettuato in zona sismica,
comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato
cementizio armato sia dal grado di sismicità
dell'area, essendo il reato de quo configurabile anche in
caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a
basso indice sismico.
---------------
Nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può
acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si
traduca nella mancanza di consapevolezza dell'illiceità del
fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo
all'agente, consistente in una circostanza che induca alla
convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova
della sussistenza del quale deve essere fornita
dall'imputato, unitamente alla dimostrazione di avere
compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata.
Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di
solidarietà sociale stabiliti dall'art. 2 Cost. impongono al
destinatario di una determinata normativa di adempiere a
stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima
di porre in essere l'attività disciplinata da specifiche
disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che
eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le
particolari modalità previste per la sua esecuzione.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 04/07/2016 il Tribunale di Asti
aveva assolto, con la formula "perché
il fatto non costituisce reato",
No.Ma., Gi.So. e Sa.Ma. in relazione ai reati di cui agli
artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del
2001, per avere: la prima in qualità di committente, il
secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori,
eseguito opere in conglomerato cementizio armato
-consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno
del cancello, in un muretto di recinzione su strada- in
violazione dell'art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere
omesso di presentare allo Sportello unico per l'edilizia la
denuncia delle predette opere strutturali
prima del loro inizio; fatti accertati in Asti in data
12/06/2013.
1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata
pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra
menzionate, dall'istruttoria dibattimentale era, altresì,
emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non
erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che,
per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere
presentare preventivamente la denuncia prevista dall'art. 65
del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato
cementizio armato, che l'art. 53, comma 1, considera come
tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione
statica.
Sulla base della riportata interpretazione della normativa
di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei
lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano,
dunque, consapevolmente determinati a non presentare la
denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile,
siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti
opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo
dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di
legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a
conoscere.
2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per
cassazione il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di
impugnazione proposto ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett.
b), cod. proc. pen., l'inosservanza o erronea applicazione
della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di
cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata
al capo b).
Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile
a tutte le opere realizzate in zona sismica,
indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse
svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che
gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di
errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato
indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità
in materia di obblighi di informazione sulla normativa
settoriale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è
stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare
allo Sportello unico per l'edilizia la denuncia delle opere
strutturali indicate al capo a) -consistenti di un muro di
confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un
muretto di recinzione su strada- prima dì procedere al loro
inizio.
Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la
contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l'omesso
preavviso scritto allo sportello unico delle "costruzioni,
riparazioni e sopraelevazioni" alla cui presentazione è
tenuto chiunque intenda procedervi "nelle zone sismiche
di cui all'articolo 83".
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di
questa Corte il reato in contestazione
resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche
dell'opera edilizia, che può consistere in qualsiasi
intervento edilizio -con la sola eccezione di quelli di
semplice manutenzione ordinaria- effettuato in zona sismica,
comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato
cementizio armato
(Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e
altro, Rv. 261155), sia dal grado di
sismicità dell'area, essendo il reato de quo
configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona
inclusa tra quelle a basso indice sismico
(v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 06/06/2011, Morini,
Rv. 250369).
Ne consegue che, già sotto il profilo dell'elemento
oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente
carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle
caratteristiche dell'opera in rapporto alla sua funzione
statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in
alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità
dell'area interessata dall'intervento, la quale avrebbe,
dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi.
3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa
degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale
prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore
scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia
allo Sportello unico sulla base della Circolare del
Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non
essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo
della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in
siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell'omissione della
denuncia e, per converso, l'irrilevanza delle eventuali
previsioni difformi da parte delle circolari amministrative.
3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata
produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta
ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n.
368/1988 della Corte costituzionale, che
nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può
acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si
traduca nella mancanza di consapevolezza dell'illiceità del
fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo
all'agente, consistente in una circostanza che induca alla
convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova
della sussistenza del quale deve essere fornita
dall'imputato, unitamente alla dimostrazione di avere
compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata
(Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in
proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 05/02/2015,
dep. 02/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del
18/07/2014, dep. 09/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n.
49910 del 04/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosí e altri,
Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 05/10/2004, dep.
01/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del
29/11/1994, dep. 21/12/1994, D'Alessandro, Rv. 200950).
Ciò sul presupposto che gli inderogabili
doveri di solidarietà sociale stabiliti dall'art. 2 Cost.
impongono al destinatario di una determinata normativa di
adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono
che, prima di porre in essere l'attività disciplinata da
specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i
dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di
essa o le particolari modalità previste per la sua
esecuzione.
Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la
presenza di determinate circolari amministrative possa
contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e
scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei
consociati (rientrando, l'ipotesi delle circolari, tra gli
esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/1988 per
configurare una situazione di scarsa perspicuità
dell'assetto normativo, tale eventualmente determinare un
errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di
specie, le circolari invocate riguardavano, come già
osservato (v. supra § 2), tutt'altro oggetto rispetto alla
problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero
l'obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in
cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e
non, come invece sarebbe stato necessario, l'obbligatorietà
della comunicazione connessa alla sismicità dell'area
interessata dall'intervento edificatorio.
Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche
sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque
rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito
dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al
convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue
disposizioni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.05.2017 n.
24585). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sul'istituto
della "convalida".
L’art. 21-nonies l. 07.08.1990 n. 241,
prevede (co. 2) “la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n.
249/1968, prevedeva che “alla convalida degli atti viziati
da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame
in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, per effetto dell’art. 21-nonies sopra
citato, appare evidente “l'intendimento del legislatore di
consentire oggi, in via generale, il mantenimento in vita di
provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere
formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso,
non si necessita di particolare, dettagliata motivazione in
ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli
atti a questo antecedenti.
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine
all’adozione del provvedimento di convalida, ciò, tuttavia,
non comporta che l’organo adottante debba ripercorrere, con
obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli
atti del procedimento) relativi al provvedimento
convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente
dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la
volontà del’organo di assumere tale atto.
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la
Pubblica Amministrazione, in esercizio del proprio potere di
autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di II
grado,, interviene su un provvedimento amministrativo
viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che
ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Essa presuppone, ai sensi dell’art. 21-nonies, la
sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia
decorso un “termine ragionevole” dall’adozione dell’atto
illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti
adottati in esercizio del potere di autotutela, consegue
alla titolarità del potere di adozione dell’atto oggetto
dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una
diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato
reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto
illegittimo, ed in considerazione di ragioni di pubblico
interesse (e della loro natura), può decidere sia di
procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela,
sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto
medesimo, sanando i vizi che, rendendolo illegittimo, ne
determinerebbero astrattamente l’annullabilità.
----------------
Appare del tutto evidente che l’esercizio del potere di
convalida presuppone un atto non ancora annullato (quale che
sia stata la sede in cui l’annullamento è intervenuto),
mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto”
dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia
intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo
dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono
(come dichiaratamente nel caso di specie) alla “convalida”
di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché
adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche
per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto,
non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla
convalida di un atto non più esistente.
---------------
4. Il ricorso volto ad ottenere l’ottemperanza della
sentenza n. 4079/2015 del Consiglio di Stato ed il
successivo ricorso per motivi aggiunti sono fondati e devono
essere, pertanto, accolti, con conseguente declaratoria di
nullità delle deliberazioni nn. 37 e 78 del 2016, adottate
dalla Giunta comunale di Lumezzane.
Con tali delibere, come si è detto nella parte espositiva in
fatto, la Giunta comunale (in virtù delle competenze in tema
di approvazione dei piani attuativi ex novo
attribuitele dalla l.reg. Lombardia n. 4/2012) ha, in
particolare, dapprima proceduto alla convalida delle
deliberazioni del Consiglio comunale, concernenti
l’approvazione del Piano integrato di intervento (del. n.
37/2016) e successivamente alla approvazione in via
definitiva di detta convalida, dopo le pubblicazioni di rito
e la constatazione della assenza di osservazioni (del. n.
78/2016).
In quest’ultima delibera si afferma, in particolare, che “a
garanzia della legittimità della procedura di convalida, il
presente atto ha valore di approvazione del P.I.I.
annullato, facendo espresso riferimento a tutti gli atti in
origine contenuti e facenti parte del procedimento”.
5. Alla luce di quanto esposto, appare evidente la
violazione del giudicato effettuata dal Comune di Lumezzane,
per il tramite degli atti adottati dalla Giunta Comunale, e
ciò per due distinte e concorrenti ragioni:
- per un verso, il Comune di Lumezzane ha proceduto alla “convalida”
di atti già annullati in sede giurisdizionale e, dunque, non
più esistenti nell’ordinamento giuridico;
- per altro verso -anche a voler attribuire agli atti adottati (pur
in contrasto con quanto dagli stessi affermato), valore di
approvazione “nuova ed autonoma” del P.I.I., e non
già di convalida degli atti precedenti- il Comune di
Lumezzane ha adottato atti di “riapprovazione” dello
strumento urbanistico attuativo in contrasto con quanto
affermato dalla sentenza passata in giudicato, e ciò in
violazione dell’art. 21-septies l. n. 241/1990.
6. L’art. 21-nonies l. 07.08.1990 n. 241, prevede (co. 2) “la
possibilità di convalida del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un
termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n.
249/1968, prevedeva che “alla convalida degli atti
viziati da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di
gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, la giurisprudenza di questo Consiglio ha
avuto modo di osservare che, per effetto dell’art. 21-nonies
sopra citato, appare evidente “l'intendimento del
legislatore di consentire oggi, in via generale, il
mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da
vizi di carattere formale”, come quello di incompetenza,
e che, in tal caso, non si necessita di particolare,
dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del
provvedimento da convalidare e degli atti a questo
antecedenti (Cons. St., sez. IV, 29.05.2009 n. 3371).
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine
all’adozione del provvedimento di convalida, ciò, tuttavia,
non comporta che l’organo adottante debba ripercorrere, con
obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli
atti del procedimento) relativi al provvedimento
convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente
dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la
volontà del’organo di assumere tale atto (Cons. Stato, sez.
IV, 12.08.2011 n. 2863).
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la
Pubblica Amministrazione, in esercizio del proprio potere di
autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di II
grado,, interviene su un provvedimento amministrativo
viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che
ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità.
Essa presuppone, ai sensi dell’art. 21-nonies, la
sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia
decorso un “termine ragionevole” dall’adozione
dell’atto illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti
adottati in esercizio del potere di autotutela, consegue
alla titolarità del potere di adozione dell’atto oggetto
dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una
diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato
reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto
illegittimo, ed in considerazione di ragioni di pubblico
interesse (e della loro natura), può decidere sia di
procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela,
sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto
medesimo, sanando i vizi che, rendendolo illegittimo, ne
determinerebbero astrattamente l’annullabilità.
Da quanto esposto, appare del tutto evidente che l’esercizio
del potere di convalida presuppone un atto non ancora
annullato (quale che sia stata la sede in cui l’annullamento
è intervenuto), mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto”
dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia
intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo
dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono
(come dichiaratamente nel caso di specie) alla “convalida”
di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché
adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche
per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto,
non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla
convalida di un atto non più esistente (Cons. Stato, sez. IV,
02.04.2012 n. 1958)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.05.2017 n. 2351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Per
pubblicità deve intendersi "qualsiasi forma di messaggio che
è diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività
commerciale, industriale, artigianale o professionale allo
scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o
immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la
costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di
essi.
Ai fini dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi
diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo
di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero
finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto
pubblicizzato.
Sicché, le indicazioni stradali e i segnali turistici e di
territorio che forniscono agli utenti informazioni
necessarie o utili per la guida e la individuazione di
località, itinerari, servizi e impianti, svolgono per la
loro sostanziale natura di insegne, anche una funzione
pubblicitaria tassabile, ai sensi dell'art. 5, comma 2, del
d.lgs. n. 507/1993.
----------------
Ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n.
145/2007 per pubblicità deve intendersi "qualsiasi forma
di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo,
nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale,
artigianale o professionale allo scopo di promuovere il
trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di
opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento
di diritti ed obblighi su di essi", mentre secondo
l'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 507/1993 "Ai fini
dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi
nell'esercizio di una attività economica allo scopo di
promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati
a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato".
Nel caso di specie, l'oggetto della controversia riguarda
alcune informazioni indicative dei giorni e orari d'apertura
del centro commerciale interessato ("domenica aperto")
ovvero indicazioni sulle attività svolte all'interno dello
stesso, di cui una -punto 30- con il riferimento nominativo
all'impresa controricorrente ("Lecco più Iperal") di
notevoli dimensioni.
Ad avviso del Collegio, secondo la normativa sopra indicata
e secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. ord. n.
8616/2014, 17852/2004) le indicazioni stradali e i segnali
turistici e di territorio che forniscono agli utenti
informazioni necessarie o utili per la guida e la
individuazione di località, itinerari, servizi e impianti,
svolgono per la loro sostanziale natura di insegne, anche
una funzione pubblicitaria tassabile, ai sensi dell'art. 5
d.lgs. cit..
Non può, d'altra parte, non rilevarsi come le indicazioni
oggetto di controversia siano state esposte in un contesto
di esercizio d'attività commerciale, e, quand'anche non
direttamente volte a promuovere l'immagine o i prodotti
dell'impresa interessata, tuttavia, si rivelano utili o
necessarie ad un più proficuo svolgimento dell'attività
d'impresa.
La sentenza va, pertanto, cassata e rinviata nuovamente alla
sezione regionale della Lombardia, in diversa composizione,
affinché riesami il merito della controversia, alla luce dei
principi sopra esposti, in particolare, in subiecta
materia il giudice del rinvio verificherà se i segnali e
le indicazioni, per la loro struttura, ubicazione e
dimensione possano effettivamente ritenersi strumentali al
miglior esercizio dell'attività economica interessata
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 17.05.2017 n. 12349). |
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
sia configurabile una «ristrutturazione edilizia», ai sensi
dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico n. 380 del
2001 è indispensabile che la demolizione e la ricostruzione
si verifichino «con la stessa volumetria» del manufatto
preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato
le opere in questione come una «nuova costruzione», dal
momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente
manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si
applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo
testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che
ha previsto la necessità del permesso di costruire per la
realizzazione della nuova costruzione).
---------------
Quando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il
Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione
per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» e cioè
deve immediatamente emanare il provvedimento che ripristini
la legalità.
Tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31,
comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso,
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o
la demolizione».
---------------
Le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di
applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo
unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il
responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile»)
riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale,
dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione
può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso
il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da
parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la
somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore
dell’immobile.
In altri termini, per l’applicabilità del medesimo art.
33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti,
tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di
demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario
dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio
tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di
ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto
quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali,
inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso»
legittimamente realizzato, il che non avviene –in linea di principio-
quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a
un manufatto preesistente.
---------------
6.1. Con una adeguata motivazione, la sentenza impugnata ha
evidenziato che sul lastrico di copertura dell’edificio è
stato realizzato un manufatto del tutto diverso da quello
preesistente.
Affinché sia configurabile una «ristrutturazione edilizia»,
ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico
n. 380 del 2001 è invece indispensabile che la demolizione e
la ricostruzione si verifichino «con la stessa volumetria»
del manufatto preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato
le opere in questione come una «nuova costruzione», dal
momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente
manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si
applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo
testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che
ha previsto la necessità del permesso di costruire per la
realizzazione della nuova costruzione), il che comporta
l’infondatezza delle censure di violazione delle norme sopra
indicate e la insussistenza dei dedotti profili di eccesso
di potere.
6.2. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 33, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, ritiene il Collegio che
anch’essa risulta infondata e va respinta (sicché non rileva
verificare se essa risulta inammissibile, in ragione delle
censure formulate in primo grado), poiché:
- quando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il
Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione
per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» (cfr.
Consiglio Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1486; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n.
3568; Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955) e cioè deve
immediatamente emanare il provvedimento che ripristini la
legalità;
- tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31,
comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso,
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o
la demolizione»;
- le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di
applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo
unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il
responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile»)
riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale,
dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione
può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso
il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da
parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la
somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore
dell’immobile;
- in altri termini, per l’applicabilità del medesimo art.
33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti,
tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di
demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario
dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio
tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di
ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto
quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali,
inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso»
legittimamente realizzato (cfr. ex plurimis Consiglio di
Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912), il che non avviene –in linea di principio-
quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a
un manufatto preesistente.
7. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposizione d’istanza di accertamento di conformità, ai
sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, successivamente
all’emissione dell’ordinanza di demolizione, lungi da
determinare tout court l’illegittimità della sanzione
adottata, incide unicamente sulla potestà del Comune di
portare ad immediata esecuzione la sanzione.
---------------
6. Col primo motivo d’appello, l’appellante ripropone la
medesima censura già dedotta in prime cure incentrata
sull’argomento che la presentazione d’istanza di
accertamento di conformità, in tempo successivo
all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, condurrebbe
all’illegittimità della sanzione adottata.
7. Il motivo è infondato.
7.1 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale, qui
condiviso, a mente del quale la proposizione d’istanza di
accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R.
380/2001, successivamente all’emissione dell’ordinanza di
demolizione, lungi da determinare tout court l’illegittimità
della sanzione adottata, incide unicamente sulla potestà del
Comune di portare ad immediata esecuzione la sanzione (cfr.
Consiglio di Stato, sez, IV, 19.02.2008 n. 849)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi
del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel
responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un
ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione
procedente, di motivare specificamente il provvedimento in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a
far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo
dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza
il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad
eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo
intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e
l’emanazione del provvedimento di demolizione.
Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado
il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza indugio
emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver
riscontrato opere abusive: il provvedimento deve intendersi
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata
abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non
è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento.
Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere
del ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato
accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi
pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la
legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo
con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla
commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che
l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano
comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece
disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie
sul condono o con la normativa sull’accertamento di
conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle
opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di
alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla
rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
---------------
Constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di
demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al
patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede
alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico
e attuale alla demolizione, né comparazione con gli
interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto.
---------------
8. Col secondo motivo, l’appellante lamenta che i giudici di
prime cure non hanno dato alcun rilievo all’affidamento
maturato sulla legittimità delle opere stante il lungo lasso
di tempo trascorso dall’avvenuta realizzazione di esse fino
al momento dell’adozione della sanzione impugnata.
9. Il motivo è infondato e va respinto.
9.1 I manufatti oggetto dei provvedimenti gravati consistono
in un fabbricato di circa 88, 00 mq, allo stato grezzo e due
manufatti, rispettivamente di 2,5 mq e 9,8 mq, ottenuti
dall’assemblaggio precario di elementi in legno e lamiera
grecata, realizzati –circostanza di fatto non contestata–
in assenza di titolo abilitativo.
9.2 Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi
del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel
responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un
ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione
procedente, di motivare specificamente il provvedimento in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a
far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo
dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza
il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad
eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo
intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e
l’emanazione del provvedimento di demolizione.
9.3 Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e
malgrado il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza
indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di
aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve
intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa”
l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4892;
sez. V, 11.07.2014, n. 3568; sez. IV, 31.08.2010, n.
3955).
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non è
radicalmente prospettabile un legittimo affidamento. Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere del
ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato
accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi
pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la
legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo
con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla
commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che
l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano
comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece
disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie
sul condono o con la normativa sull’accertamento di
conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle
opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di
alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla
rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
Costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato, da
cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi,
che constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di
demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al
patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede
alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico
e attuale alla demolizione, né comparazione con gli
interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.05.2016 n.
1948; Id., sez. VI, 05.05.2016 n. 1774).
10. Conclusivamente l’appello deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione di un immobile abusivo oggetto di
sequestro penale.
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Edilizia
– Abusi – Demolizione immobile sottoposto a sequestro penale
– Invalidità ed inefficacia.
E’ invalido, e,
comunque, inefficace, l'ordine di demolizione, e i
conseguenti provvedimenti sanzionatori, di un immobile
abusivo colpito da sequestro penale ex art. 31, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (1).
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(1) La Sezione ha dato atto che l’indirizzo giurisprudenziale
prevalente, sia amministrativo (cfr. ex multis
Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283), che
penale (Cass. pen., sez. III, 14.01.2009, n. 9186), ritiene
irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione, della sua
eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti
provvedimenti sanzionatori, sulla base della non
qualificabilità della misura cautelare reale quale
impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in
ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine,
di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85
disp. att. c.p.p.
Da tale orientamento la Sezione si è però motivatamente
discostata per una serie di ragioni.
La prima argomentazione si fonda sul fatto che l’ordine di
demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale
dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità, ai
sensi dell’art. 21-septies l. 07.08.1990, n. 241 (in
relazione agli artt. 1346 e 1418 c.c.), e, quindi,
radicalmente inefficace, per l’assenza di un elemento
essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la possibilità
giuridica dell’oggetto del comando. L’ordine di una condotta
giuridicamente impossibile si rivela privo di un elemento
essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e,
in ogni caso, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di
diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo
ai casi in cui –come in quello di specie– l’ordine di
demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato
adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi
genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro
del processo penale si tornerà infra).
A tale argomentazione la Sezione ha aggiunto che le misure
contemplate dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, d.P.R. n. 380 del
2001, rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come
tali, esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità
dell’inottemperanza alla colpa del destinatario
dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni
generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di
responsabilità. Ma nella situazione considerata non è dato
ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta
(necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di
demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione
del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha
sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene.
L’irrogazione di una sanzione per una condotta che non può
in alcun modo essere soggettivamente ascritta alla colpa del
soggetto colpito dalla sanzione stessa, non può che essere
giudicata illegittima per il difetto del necessario elemento
psicologico della violazione.
Ha ancora affermato il giudice di appello che a quanto già
detto si aggiunge una ragione di equità: non può esigersi
–e, giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di
un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche
il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex
art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse
economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua
proprietà, ai soli fini della sua distruzione (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2337
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. – Risulta, in particolare, fondata l’argomentazione,
svolta soprattutto nel terzo motivo di appello, con cui la
società appellante sostiene l’inapplicabilità delle sanzioni
previste per l’inottemperanza a ordini di demolizione di
manufatti abusivi, nelle ipotesi, quale quella in esame, in
cui l’immobile sia sottoposto a sequestro penale.
La questione, quindi, si risolve nella disamina della
validità o dell’efficacia dei provvedimenti sanzionatori
adottati sulla base del rilievo dell’omessa esecuzione di
presupposti ordini di demolizione (o di riduzione in
pristino) di opere abusive, che esulano, tuttavia, dalla
disponibilità del destinatario dell’ordinanza rimasta
inattuata, in quanto sequestrati dal giudice penale.
Tale problema, tuttavia, implica anche la soluzione della
(logicamente) presupposta questione della validità (e
dell’efficacia) dell’ordine di demolizione, per la cui
inottemperanza sono state irrogate le misure sanzionatorie
previste dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
4. – Il Collegio non ignora che l’indirizzo
giurisprudenziale prevalente, sia amministrativo (cfr. ex
multis Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283),
sia
penale (Cass. Pen., sez. III, 14.01.2009, n.9186),
ritiene irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini
della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua
eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti
provvedimenti sanzionatori, sulla base della non qualificabilità della misura cautelare reale quale
impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in
ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine,
di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disp. att. c.p.p.; ma reputa di dissentire da tale
orientamento, per le ragioni di seguito sinteticamente
(tenendo conto, per quanto possibile, della forma
semplificata della presente sentenza) esposte.
5. – Con una prima, e, per certi versi, dirimente,
argomentazione, l’ordine di demolizione di un immobile
colpito da un sequestro penale dovrebbe essere ritenuto
affetto dal vizio di nullità, ai sensi dell’art.21-septies
l. n. 241 del 1990 (in relazione agli artt. 1346 e 1418
c.c.), e, quindi, radicalmente inefficace, per l’assenza di
un elemento essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la
possibilità giuridica dell’oggetto del comando.
In altri termini, l’ingiunzione che impone un obbligo di
facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un
immobile che è stato sottratto alla disponibilità del
destinatario del comando (il quale, se eseguisse
l’ordinanza, commetterebbe il reato di cui all’art. 334
c.p.), difetta di una condizione costituiva dell’ordine, e
cioè, l’imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S.,
Sezioni Riunite, parere n. 1175 del 09.07.2013 – 20.11.2014, sull’affare n. 62/2013).
In quest’ordine di idee, l’ordine di una condotta
giuridicamente impossibile si rivela, quindi, privo di un
elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità
radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a
produrre qualsivoglia effetto di diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo
ai casi in cui –come in quello di specie–
l’ordine di
demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato
adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi
genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro
del processo penale si tornerà infra).
6. – L’affermazione dell’eseguibilità dell’ingiunzione di
demolizione di un bene sequestrato, per quanto tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza
amministrativa, non può, infatti, essere convincentemente
sostenuta sulla base dell’assunto della configurabilità di
un dovere di collaborazione del responsabile dell’abuso, ai
fini dell’ottenimento del dissequestro e della conseguente
attuazione dell’ingiunzione.
Tale argomentazione dev’essere, infatti, radicalmente
rifiutata: sia perché riferisce a un’eventualità futura,
astratta e indipendente dalla volontà dell’interessato la
stessa possibilità (giuridica e materiale) di esecuzione
dell’ingiunzione, mentre, come si è visto, l’impossibilità
dell’oggetto attiene al momento genetico dell’ordine e lo
vizia insanabilmente all’atto della sua adozione; sia
perché, assiomaticamente, finisce per imporre al privato una
condotta priva di qualsivoglia fondamento giuridico
positivo; sia, infine, perché si risolve nella prescrizione
di una iniziativa processuale (l’istanza di dissequestro)
che potrebbe contraddire le strategie difensive liberamente
opzionabili dall’indagato (o dall’imputato) nel processo
penale, peraltro interferendo inammissibilmente
nell’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto,
quale quello di difesa (basti porre mente, in proposito, al
caso che il mantenimento del sequestro penale –sub specie
probatorio, ex art. 253 c.p.p.– risulti funzionale ad
assicurare, per il seguito delle indagini o per il
dibattimento, la prova che quanto realizzato non fosse
abusivo, o non fosse conforme a quanto contestato o ritenuto
dalla pubblica accusa, ovvero avesse altre caratteristiche
scriminanti o anche solo attenuanti l’illiceità penale del
fatto ascritto).
7. – Si aggiunga, ancora, che le misure contemplate
dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001,
rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come tali,
esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità
dell’inottemperanza alla colpa del destinatario
dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni
generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di
responsabilità.
Sennonché, nella situazione considerata, non è dato
ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta
(necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di
demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione
del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha
sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene.
Come si vede, quindi, l’irrogazione di una sanzione (che di
questo si tratta) per una condotta che non può in alcun modo
essere soggettivamente ascritta alla colpa del soggetto
colpito dalla sanzione stessa, non può che essere giudicata
illegittima per il difetto del necessario elemento
psicologico della violazione.
8. – Fermo restando il carattere assorbente delle
considerazioni appena svolte, resta da aggiungere un
argomento, tutt’altro che secondario, di equità (ma, come
tosto si dirà, non solo equitativo): non può esigersi –e,
giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di
un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche
il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex
art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse
economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua
proprietà, ai soli fini della sua distruzione.
Si tratta di un’argomentazione la cui valenza logica e
intuitiva esime da ogni ulteriore spiegazione, restando
immediatamente percepibile l’iniquità dell’imposizione di un
dispendioso onere di diligenza, finalizzato solo alla
distruzione del bene (ancora) di proprietà del destinatario
dell’ingiunzione.
Per ulteriori considerazioni critiche in proposito –se il
dissequestro, più o meno legittimamente, fosse negato, vi
sarebbe anche un onere di gravame? E fino a che grado? O
andrebbe riproposta l’istanza? E quando, e quante volte? –
può rinviarsi al cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013; del
quale però merita condividersi la conclusione, nel senso che
“la tesi [qui avversata] si appalesa, quindi, poco
approfondita in punto di diritto e apoditticamente
sostenuta”.
Essa implica, infatti, l’imposizione di un onere di
diligenza per il quale –al di là della sua assertiva
invocazione ad opera di alcune prospettazioni giuridiche,
che potrebbero forse sembrare più inopinatamente zelanti
nella repressione degli abusi edilizi che adeguatamente
attente al rispetto dei principi fondanti dell’ordinamento
giuridico (ivi incluso quello ex art. 23 Cost., che si è già
richiamato supra)– risulterebbe davvero complicato
rinvenire un convincente fondamento normativo positivo; che,
anzi, sembra da escludere, purché si tenga in adeguata
considerazione l’esigenza che le sanzioni (non solo quelle
penali: nemo tenetur se detergere; ma anche quelle
amministrative) siano, almeno tendenzialmente, strutturate
per essere applicate dai pubblici poteri, piuttosto che
autoeseguite a proprio danno dallo stesso soggetto
destinatario di esse.
9. – Nondimeno –sia per l’ipotesi che si ritenesse di poter
prescindere dalla più persuasiva prospettazione, che si è
sin qui illustrata, che qualifica in termini di nullità il
vizio che affligge l’ordinanza di demolizione emanata nella
pendenza del sequestro dell’immobile di cui trattasi; sia,
comunque, con riferimento ai casi in cui l’ordine
demolitorio o ripristinatorio sia stato adottato (e, in tal
caso, validamente) in un momento in cui il bene non fosse
sequestrato, ma venga invece sequestrato successivamente e
nella pendenza del termine assegnato per ottemperare
all’ingiunzione de qua– va ulteriormente indagato, per
completezza di sistema, il tema dell’incidenza del sequestro
penale (se non, in queste ipotesi, sulla validità)
sull’efficacia dell’ordine di demolire e, derivativamente,
sulla decorrenza o meno del termine a tal fine assegnato
fintanto che il sequestro permanga efficace.
Limitandocisi in questa sede a un mero richiamo delle
argomentazioni dogmatiche più approfonditamente svolte nel
più volte cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013 –in tema di
distinzione tra nullità, come difetto strutturale originario
di uno degli elementi essenziali dell’atto giuridico (sub
specie, qui, di possibilità dell’oggetto), e inefficacia,
allorché tali elementi essenziali (e qui, dunque, la ridetta
possibilità), originariamente sussistenti, vengano meno
successivamente in modo temporaneo o definitivo, in
quest’ultimo caso dandosi adito a una causa estintiva degli
efficacia dell’atto (per impossibilità sopravvenuta) e
invece nel primo solamente a una temporanea sospensione di
tale efficacia– occorre evidenziare che, finché il
sequestro perdura, la demolizione (anche se validamente
ingiunta: vuoi perché disposta anteriormente al sequestro,
ossia in un momento in cui il suo destinatario, essendo in bonis, aveva la possibilità giuridica di ottemperarvi; vuoi,
ipoteticamente, perché non si condivida la tesi, invero
dogmaticamente più coerente, della nullità per impossibilità
giuridica dell’oggetto del provvedimento che abbia ingiunto
la demolizione in costanza di sequestro) certamente non può
eseguirsi.
A questo semplice rilievo consegue necessariamente –e
perfino a prescindere dall’incoerente assunto, che pure si è
già confutato, secondo cui il destinatario dell’ordine demolitorio sarebbe tenuto ad attivarsi per chiedere il
dissequestro ai soli fini della demolizione: giacché
certamente non lo si potrebbe pure onerare del fatto del
terzo, ossia di ottenere tale risultato entro il termine di
90 giorni normalmente assegnatogli– che, per tutto il tempo
in cui il sequestro perdura (e, qui si aggiunge,
indipendentemente dalla condotta attiva o passiva serbata
dall’autore dell’abuso rispetto al sequestro stesso), la non
ottemperanza all’ordine di demolizione non può qualificarsi
non iure, appunto a causa della già rilevata oggettiva
impossibilità giuridica di procedervi.
Ciò non può non implicare, come conseguenza giuridicamente
necessaria, l’interruzione o, quantomeno, la sospensione del
decorso del termine assegnato per demolire, per tutto il
tempo in cui il sequestro rimane efficace.
Detto termine, dunque, inizierà nuovamente a decorrere –per
intero ovvero per la sua parte residua, secondo che si opti
per l’interruzione o per la sospensione di esso in costanza
di sequestro– solo allorché il sequestro venga meno, per
qualunque ragione.
Merita evidenziarsi che l’assunto, qui propugnato, che il
destinatario dell’ordine di demolizione non possa
considerarsi giuridicamente onerato di richiedere il
dissequestro per poter demolire non implica affatto né che
ciò gli sia precluso (potrebbe, infatti, avervi interesse,
per esempio per azzerare la situazione di abusivismo e poter
così richiedere ex novo un titolo edilizio urbanisticamente
conforme per riprendere l’attività edificatoria secundum
legem); né che il dissequestro non possa essere richiesto
all’Autorità giudiziaria penale da parte di chiunque altro
vi abbia interesse: ossia, in primis, dalla stessa
Amministrazione che abbia ingiunto (prima del sequestro,
secondo la tesi qui condivisa) o che intenda ingiungere (non
appena venuto meno il sequestro) la demolizione, con
l’effetto di far ripartire prima possibile il decorso del
termine per demolire e di far produrre, in difetto, le
ulteriori conseguenze (acquisitive) che la legge riconnette
all’inutile decorso di detto termine; ma anche, nei congrui
casi, ai soggetti pubblici e privati controinteressati al
mantenimento dell’opera edilizia abusiva, che abbiano
comunanza di intenti e di interessi con l’Amministrazione
procedente.
Infatti, il venir meno del sequestro –da chiunque provocato
o indotto, e anche se spontaneamente disposto dall’Autorità
giudiziaria procedente– consente ex se all’Amministrazione
di ingiungere, o di reiterare, la demolizione; ovvero
produce, parimenti in via automatica, l’effetto di far
cessare la causa di sospensione (o interruzione) del decorso
del termine entro cui deve essere eseguita la demolizione,
con ogni ulteriore conseguenza di legge in difetto.
Sicché, come ognun vede, si riduce a una mera petizione di
principio –non suffragata, però, da adeguati indici
normativi a suo supporto– l’assunto che il sistema non
possa prescindere dall’onerare il proprietario di
richiedere, contra se, il dissequestro al fine di demolire,
e che perciò tale onere sia necessariamente insito nel
sistema stesso.
Tutto all’opposto, non solo di tale onere non è dato
rinvenire alcun fondamento positivo –e neppure nell’art. 85 disp. att. al c.p.p., che viene solitamente invocato a tal
fine, giacché esso contempla un’ipotesi, e peraltro soltanto
“se l’interessato consente”, ma non radica alcun obbligo in
proposito– ma anzi i principi fondamentali dell’ordinamento
sembrano deporre nel senso della sua esclusione: viepiù ove
si consideri che la funzionalità dell’istituto in discorso
(ossia dell’ordine di demolizione) è comunque assicurata,
pur di fronte all’inerzia dell’Autorità giudiziaria
procedente, dalla facoltà di attivarsi per richiedere a
quest’ultima il dissequestro che deve riconoscersi
all’Amministrazione, oltre che a ogni altro soggetto che
possa vantare analogo interesse.
Beninteso, l’Autorità giudiziaria adita da un’istanza di
dissequestro, da chiunque proposta, potrebbe disporlo –benché “ai soli fini della demolizione”– solo laddove il
mantenimento del sequestro non sia (più) funzionale alle
pertinenti esigenze processuali penali: ossia,
fisiologicamente, solo in casi tendenzialmente abbastanza
limitati e particolari.
Come è noto, infatti, il codice di procedura penale conosce
essenzialmente tre tipologie di sequestro: quello (c.d.
probatorio penale) ex art. 253 c.p.p., che disciplina “il
sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al
reato necessarie per l'accertamento dei fatti”; quello (c.d.
preventivo) ex art. 321 c.p.p., che è volto a prevenire “che
la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato
possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero
agevolare la commissione di altri reati”; e quello (c.d.
conservativo) ex art. 316 c.p.p., che è volto a evitare “che
manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della
pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra
somma dovuta all’erario dello Stato”.
È del tutto evidente che solo il sequestro preventivo può
considerarsi normalmente “cedevole” rispetto alle esigenze
della demolizione (giacché essa tendenzialmente elide le
conseguenza del reato e ne previene la commissione di
ulteriori); laddove, almeno in linea di massima, le esigenze
probatorie del sequestro penale e quelle di garanzia del
sequestro conservativo dovrebbero essere considerate
prevalenti su ogni altra.
In tal senso pare in effetti disporre, abbastanza
univocamente, l’art. 262 c.p.p., che disciplina la “Durata
del sequestro e restituzione delle cose sequestrate” (“1.
Quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di
prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia
diritto, anche prima della sentenza. Se occorre, l'autorità
giudiziaria prescrive di presentare a ogni richiesta le cose
restituite e a tal fine può imporre cauzione. 2. Nel caso
previsto dal comma 1, la restituzione non è ordinata se il
giudice dispone, a richiesta del pubblico ministero o della
parte civile, che sulle cose appartenenti all'imputato o al
responsabile civile sia mantenuto il sequestro a garanzia
dei crediti indicati nell'articolo 316. 3. Non si fa luogo
alla restituzione e il sequestro è mantenuto ai fini
preventivi quando il giudice provvede a norma dell'articolo
321”).
Dall’esame congiunto dei suoi tre commi pare potersi
cogliere, dunque, una comprensibile prevalenza delle
esigenze sottese al c.d. sequestro probatorio penale,
rispetto alle quali sono accessorie quelle tutelate dal
sequestro conservativo; mentre risultano sostanzialmente
residuali quelle sottese al sequestro preventivo.
Nella misura in cui queste considerazioni colgano nel segno,
risulterebbe fortemente svalutata nel sistema la tematica
connessa alle istanze di dissequestro; il che costituirebbe
un ulteriore argomento esegetico nel senso della fallacia
delle tesi che non solo vorrebbero onerare (quantomeno
praeter legem) il destinatario dell’ordine demolitorio a
richiederlo, ma che tendono altresì a sanzionare
l’inottemperanza a tale preteso onere con l’acquisizione. La
quale, invece, sembra essere prevista dalla legge solo a
fronte di una condotta, parimenti omissiva, ma ben diversa:
ossia per chi, ovviamente potendolo giuridicamente fare, non
demolisca l’immobile (e non anche per chi, assertivamente
tenuto a chiedere al giudice il dissequestro, ometta di
formulare istanze in tal senso).
Sicché è anche il fondamentale principio di tipicità delle
sanzioni a ulteriormente confortare la conclusione cui il
Collegio qui perviene. |
URBANISTICA:
Rinegoziazione di una convezione di lottizzazione.
---------------
•
Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Ratio –
Differenza con i costi di costruzione.
•
Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Riduzione
per mancata realizzazione di tutta la volumetria
originariamente prevista – Conseguente riduzione oneri di
urbanizzazione – Esclusione.
•
Piani di
lottizzazione - Rinuncia alla realizzazione di un intervento
-. Offerta di cessione di area edificabile a scomputo dei
contributi di costruzione – Rinegoziazione secondo buona
fede – Obbligo di esaminare la proposta.
•
Gli oneri di urbanizzazione sono contributi dovuti ai Comuni
nei casi di modificazioni dell’assetto urbanistico-edilizio,
per partecipare alle spese che i Comuni sostengono per
l’urbanizzazione del loro territorio; i costi di
costruzione, invece, costituiscono una compartecipazione
comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore
(1).
•
Non è sufficiente rinunciare alla costruzione di uno dei
diversi edifici previsti in un piano di lottizzazione per
ottenere la riduzione degli oneri di urbanizzazione,
dovendosi al più chiedere una variante riduttiva del piano
di lottizzazione, modificando il layout della sua
configurazione, poiché il progetto delle urbanizzazioni
dipende dall’intera strutturazione del piano, a prescindere
dalla realizzazione o meno degli interventi edilizi in esso
pianificati
(2).
•
La rinuncia alla realizzazione di un intervento e l’offerta
del lottizzante di cedere al Comune l’area edificabile
(anche a scomputo dei contributi di costruzione) deve essere
presa in esame dal Comune, in virtù del principio del
diritto-obbligo alla rinegoziazione secondo buona fede, che
regola l’ambito delle convenzioni di lottizzazione e, più in
generale, quello degli strumenti privatistici a base
contrattuale o negoziale
(3).
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(1) Ha ricordato
il Tar che gli oneri di urbanizzazione si dividono in
primaria e secondaria. I primi concorrono alla realizzazione
di strade, parcheggi, fognature, illuminazione pubblica,
verde pubblico, sistemi di distribuzione di acqua, energia,
gas. I secondi sono destinati a finanziare la realizzazione
di scuole, asili, centri civici, parchi urbani, impianti
sportivi, parcheggi pubblici. I criteri di applicazione,
fissati dalla normativa regionale e uniformi per tutto il
territorio regionale, indicano le modalità di applicazione e
i casi in cui ai Comuni è consentito modificare le entità
determinate dalla Regione.
I costi di costruzione sono invece dovuti ai Comuni nei casi
di nuova costruzione o ristrutturazione edilizia ed hanno un
valore misurato in percentuale variabile sul costo
standard
a metro quadro, fissato dalla Regione per le costruzioni di
edilizia agevolata.
(2) V.
Cons. St., sez. IV, 28.06.2016,
n. 2915.
(3) La premesso il Tar che il costo di costruzione, se è
vero che è commisurato alle volumetrie virtuali previste
nella lottizzazione, è altresì vero che non può prescindere
dall’effettiva realizzazione dell’intervento edilizio. Esso
richiede che vi sia un permesso di costruire e che il
conseguente l'intervento determini un aumento del carico
urbanistico (Tar
Napoli, sez. VIII, 07.04.2016, n. 1769)
ha aggiunto che l'art. 16 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 collega
il pagamento del costo di costruzione all'effettiva attività
edificatoria, in quanto gli oneri di costruzione
costituiscono una prestazione patrimoniale di natura
impositiva che trova la sua
ratio
giustificatrice nell'incremento patrimoniale che il titolare
del permesso di costruire consegue in dipendenza del
realizzando intervento edilizio.
Essendo il contributo in questione strettamente connesso al
concreto esercizio della facoltà di edificare, in misura
corrispondente all'entità e alla qualità del maggior carico
urbanistico conseguente alla realizzazione del fabbricato
assentito ed all'insieme dei benefici che la nuova opera ne
trae, la formazione del credito del Comune postula, quale
condizione di esigibilità, l'effettiva attività di
edificazione e comporta la corresponsione di un contributo
commisurato al costo di costruzione globalmente inteso, nel
senso che deve investire ed essere riferito all'intera
opera, per come assentita e realizzata (Tar
Lazio, sez. II quater, 12.05.2015, n. 6901).
Quanto alla rinegoziazione
delle convenzioni di lottizzazione, il Tar ha chiarito che è
la buona fede
in
executivis
che viene in rilievo, nonché la buona fede quale fonte di
eterointegrazione dell’accordo negoziale (artt. 1374 e 1375
c.c.). Il principio di rinegoziazione secondo buona fede ha,
infatti, un inevitabile impatto anche nei contratti e negli
accordi tra privati e Pubblica amministrazione. La
poliedrica clausola generale di buona fede, di cui la
rinegoziazione è una delle possibili declinazioni, è dotata
di straordinaria pervasività, ergendosi a regola non solo
del regolamento tra privati, ma come criterio generale dei
rapporti tra privati e P.A., al fine di preservare la
conservazione dell’equilibrio economico-giuridico fissato
nell’atto consensuale.
Anche in assenza di un’apposita clausola della convenzione
di lottizzazione che obblighi le parti a rinegoziare, è la
stessa struttura di
genus
dell’accordo sostitutivo di provvedimento,
ex
art. 11, l. 07.08.1990, n. 241, cui si può ricondurre la
species
della convenzione di lottizzazione, a imporre
all’Amministrazione pubblica di ponderare gli interessi
pubblici e privati coinvolti nel procedimento negoziato, non
solo nella fase genetica (l’accordo) ma anche nella fase
della sua esecuzione. Ciò anche in considerazione del fatto
che, tra i principi che reggono la negoziazione pubblica, vi
è quello di matrice comunitaria di “proporzionalità”,
a presidio del quale la rinegoziazione è evidentemente
predisposta
(TAR
Molise, sentenza 17.05.2017 n. 184 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Divieto per i cani di entrare nei parchi pubblici.
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Sindaco – Ordinanza contingibile e urgente – Divieto
accesso ai cani nei parchi pubblici – In mancanza di
accertamento di emergenza sanitaria o di igiene pubblica.
E’ illegittima l’ordinanza sindacale
contingibile ed urgente che vieta l’accesso di cani, anche
accompagnati dai rispettivi conducenti, ad un parco
pubblico, per essere stata riscontrata “la presenza di
numerosi escrementi canini in ambito urbano comunale”, ove
sia mancato l’accertamento di un’emergenza sanitaria o di
igiene pubblica (1).
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(1) Ha ricordato il Tar che l’esercizio, da parte del sindaco, del
potere extra ordinem presuppone il requisito della
necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere
uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute
pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o
imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure
straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non
adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli
ordinari mezzi di carattere definitivo previsti
dall'ordinamento giuridico.
Le ordinanze contingibili e urgenti, derogando al principio
di tipicità dei provvedimenti amministrativi, impongono la
precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in
quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di
strumenti extra ordinem, che permettono la
compressione di diritti ed interessi privati con mezzi
diversi da quelli tipici indicati dalla legge.
Nel caso all’esame del Tar il provvedimento impugnato, oltre
a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti
temporali di efficacia, non è sorretto da una adeguata
istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di
un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale
evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione
di “escrementi canini in ambito urbano comunale”
Per completezza il Tar ha ricordato che la Regione Toscana,
con la legge n. 59 del 2009 ha disciplinato la “tutela
degli animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che
“ai cani accompagnati dal proprietario o da altro
detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e
di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge;
in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della
museruola qualora previsto dalle norme statali”.
Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani
solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari
scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine
sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi
cartelli di divieto” (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 16.05.2017 n. 694
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso merita accoglimento.
Rivedendo con una più approfondita ponderazione quanto
ritenuto con l’ordinanza cautelare il Collegio è dell’avviso
che sussista la legittimazione a ricorrere
dell’associazione.
Si è infatti più volte affermato che, ai
sensi degli artt. 13 e 18, l. 08.07.1986, n. 349 —che
attribuiscono alle associazioni ambientalistiche
riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale
per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano
portatrici— sussiste sempre la legittimazione ad agire in
capo a un organismo associativo con finalità
ambientalistiche avverso provvedimenti lesivi degli
interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i
quali rientra quello ad un corretto rapporto con gli animali
in genere e con gli addomesticati, in particolare
(TAR Molise, 17.02.2014 n. 104; TAR Puglia–Lecce, n.
732/2013; TAR Veneto, sez. III, 16.11.2010, n. 6045; ma
vedasi anche Cass. pen., sez. III, 04.10.2016 n. 52031, in
tema di legittimazione di tali associazioni a costituirsi
parte civile nei procedimenti relativi a reati commessi ai
danni di animali).
Nel caso concreto, l’art. 2 dello Statuto stabilisce che lo
scopo dell’associazione è quello di promuovere la difesa
della fauna ed il riconoscimento dei diritti soggettivi di
tutti gli animali e che, a tal fine, l’associazione “attua
o favorisce tutte le iniziative giuridiche, politiche,
culturali...idonee”.
Nel merito il ricorso è fondato, assumendo assorbente
rilievo quanto dedotto con il primo e terzo motivo in
relazione all’insussistenza dei presupposti di cui dell’art.
50, co. 5, d.lgs. n. 267/2000 e al difetto di istruttoria e
di motivazione.
Dispone la norma in parola che il sindaco può emettere
ordinanze contingibili e urgenti “in caso di emergenze
sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale”.
La disposizione è pacificamente interpretata nel senso che
l’esercizio da parte del sindaco di tale potere
extra ordinem presuppone il requisito della necessità di
un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di
grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e
caratterizzato da una situazione eccezionale e/o
imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure
straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non
adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli
ordinari mezzi di carattere definitivo previsti
dall'ordinamento giuridico
(tra le più recenti, TAR Abruzzo, L'Aquila, 05.11.2015 n.
746; TAR Campania, sez. III, 01.06.2015 n. 3011; TAR
Lombardia, sez. III, 15.12.2014 n. 3039).
Si è altresì rilevato che, in quanto
derogano al principio di tipicità dei provvedimenti
amministrativi, le ordinanze contingibili e urgenti
impongono la precisa indicazione del limite temporale di
efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere
consentito l'uso di strumenti "extra ordinem", che
permettono la compressione di diritti ed interessi privati
con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge
(TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 13.02.2015 n. 455).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato, oltre a non
recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali
di efficacia, non appare sorretto da una adeguata
istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di
un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale
evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione
di “escrementi canini in ambito urbano comunale”.
Per completezza d’argomentazione, pur non costituendo motivo
di ricorso, va rilevato che, come evidenziato dalla
ricorrente nella sua memoria conclusiva, la Regione Toscana,
con la legge n. 59/2009 ha disciplinato la “tutela degli
animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai
cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è
consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso
pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in
tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della
museruola qualora previsto dalle norme statali”.
Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani
solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari
scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine
sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi
cartelli di divieto”.
Ne discende, per le ragioni esposte che il ricorso va
accolto con il conseguente annullamento dell’atto impugnato. |
APPALTI: Anche
in tema di gare pubbliche, ai fini della decorrenza del
termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad una
gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena
conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia acquisita
in fase di seduta pubblica o in un’altra circostanza e
anteriormente alla formale comunicazione di cui all’art. 79
del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del d.lgs. n. 50/2016):
ciò perché la disposizione ora menzionata, se risponde al
fine di garantire piena conoscenza e certezza della data di
conoscenza in relazione agli atti di esclusione e di
aggiudicazione della gara, non prevede forme di
comunicazione esclusive o tassative e consente che la “piena
conoscenza” dell’atto sia acquisita con altre forme,
ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce
l’avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle
tipiche prescritte.
In definitiva, l’art. 79 cit. non incide sulle regole
processuali generali del processo amministrativo in tema di
decorrenza dei termini di impugnazione –dalla data della
notificazione, comunicazione o, comunque, piena conoscenza
dell’atto– ex art. 120, comma 5, c.p.a..
Un recente arresto ha richiamato la ratio acceleratoria
della disciplina processuale di cui all’art. 120 c.p.a.,
osservando che gli eventuali problemi di coordinamento con
la normativa regolante l’accesso agli atti possono essere
superati con il rimedio –prima ricordato– della proposizione
dei motivi aggiunti per profili di illegittimità conosciuti
successivamente, in virtù dell’integrale conoscenza degli
atti. La decisione in commento ha, peraltro, precisato che
qualsiasi profilo relativo ad eventuali impedimenti nel
prendere visione degli atti di gara, ai fini della
proposizione dell’impugnativa, va improntato al principio di
diligenza delle parti, che debbono attivarsi tempestivamente
onde ottenere l’accesso agli atti secondo i mezzi messi loro
a disposizione dall’ordinamento.
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La suesposta eccezione di tardività va esaminata alla
stregua dei principi giurisprudenziali in tema di “piena
conoscenza” degli atti amministrativi lesivi.
In particolare, è orientamento consolidato in giurisprudenza
quello per il quale la piena conoscenza del provvedimento
–da cui decorre il termine decadenziale per proporre
ricorso– è integrata dalla cognizione dei suoi elementi
essenziali, del suo contenuto dispositivo e della sua
lesività rispetto agli interessi del ricorrente, senza che,
per contro, sia necessaria la completa acquisizione di tutti
gli atti del procedimento e del contenuto integrale della
determinazione conclusiva (cfr., ex plurimis, C.d.S.,
Sez. IV, 14.06.2016, n. 2565; id., Sez. V, 07.08.2015, n.
3881; id., Sez. III, 16.06.2015, n. 3025).
In altre parole, l’impugnazione va ancorata al momento in
cui in concreto si è verificata ed è stata apprezzata la
situazione di lesività, poiché la piena conoscenza del
provvedimento che l’ha causata non può reputarsi operante
oltre ogni limite temporale, visto che ciò renderebbe
l’attività della P.A. e le iniziative dei controinteressati
suscettibili di impugnazione sine die (C.d.S., Sez.
IV, 19.08.2016, n. 3645).
Nondimeno, è altrettanto pacifica la facoltà di proporre
motivi aggiunti, ove l’accesso agli atti abbia consentito di
avere conoscenza di ulteriori profili di illegittimità
dell’atto impugnato (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI,
30.11.2015, n. 5398).
In ogni caso, la verifica della “piena conoscenza”
dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di
individuare la decorrenza del termine di proposizione del
ricorso, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non
potendo basarsi su mere supposizioni o su deduzioni, pur se
sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche: essa deve
risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai
quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo
potere di verifica d’ufficio dell’eventuale irricevibilità
del ricorso, o che debbono essere rigorosamente indicati
dalla parte che, nel processo, eccepisca l’irricevibilità
del ricorso (C.d.S., Sez. IV, 22.11.2016, n. 4900; TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 09.01.2017, n. 25).
Gli ora visti principi ricevono integrale applicazione anche
in tema di gare pubbliche. Infatti, ai fini della decorrenza
del termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad
una gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena
conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia
acquisita in fase di seduta pubblica o in un’altra
circostanza e anteriormente alla formale comunicazione di
cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del
d.lgs. n. 50/2016): ciò perché la disposizione ora
menzionata, se risponde al fine di garantire piena
conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione
agli atti di esclusione e di aggiudicazione della gara, non
prevede forme di comunicazione esclusive o tassative e
consente che la “piena conoscenza” dell’atto sia
acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova
a carico di chi eccepisce l’avvenuta piena conoscenza con
forme diverse da quelle tipiche prescritte. In definitiva,
l’art. 79 cit. non incide sulle regole processuali generali
del processo amministrativo in tema di decorrenza dei
termini di impugnazione –dalla data della notificazione,
comunicazione o, comunque, piena conoscenza dell’atto– ex
art. 120, comma 5, c.p.a. (cfr., ex multis, C.d.S.,
Sez. IV, 17.02.2014, n. 740; id., Sez. VI, 13.12.2011, n.
6531; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 11.10.2016, n. 2555).
Un recente arresto (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
02.02.2017, n. 696) ha richiamato la ratio
acceleratoria della disciplina processuale di cui all’art.
120 c.p.a., osservando che gli eventuali problemi di
coordinamento con la normativa regolante l’accesso agli atti
possono essere superati con il rimedio –prima ricordato–
della proposizione dei motivi aggiunti per profili di
illegittimità conosciuti successivamente, in virtù
dell’integrale conoscenza degli atti. La decisione in
commento ha, peraltro, precisato che qualsiasi profilo
relativo ad eventuali impedimenti nel prendere visione degli
atti di gara, ai fini della proposizione dell’impugnativa,
va improntato al principio di diligenza delle parti, che
debbono attivarsi tempestivamente onde ottenere l’accesso
agli atti secondo i mezzi messi loro a disposizione
dall’ordinamento
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
commissione di gara dev'essere composta da un numero dispari
di membri e costituisce un collegio perfetto.
E' ben noto al Collegio come, nel vigore
del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che
la regola sulla composizione della Commissione di gara
pubblica con un numero dispari di componenti non superiore a
cinque, costituisse espressione di un principio generale,
immanente nell’ordinamento e tale da implicare
l’illegittimità della costituzione di un collegio con un
numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di
collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che
operano, o occasionalmente possono operare, in composizione
paritaria.
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola,
già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e
poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006,
sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di
sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016,
cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita
nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di
garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le
necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è
coerente con il principio in base al quale i collegi
perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti
da un numero dispari di membri.
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in
cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare,
rispettivamente, le offerte economiche e le offerte
tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in
tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i
ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri
membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che:
•
“la commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce
un collegio perfetto che deve operare con il plenum e non
con la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto,
le operazioni di gara propriamente valutative, quali la
fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle
offerte non possono essere delegate a singoli membri o a
sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte
soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice”;
•
“La regola della collegialità perfetta alla quale deve
attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni
qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere
valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è
possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni
attività preparatorie” o meramente materiali;
•
“L’attività della commissione di gara può essere svolta, in
special modo quando si tratti di esprimere valutazioni
(spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo,
attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di
lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole
offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai
concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata
dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano
esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua
integrale composizione, e in tale veste la commissione
proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte
o progetti”.
---------------
Nel merito il ricorso è fondato e da accogliere, in virtù
della fondatezza delle censure (di cui ai nn. 1, 2 e 3 del
ricorso) mosse alla composizione della Commissione
giudicatrice ed all’affidamento ad apposite Sottocommissioni
della valutazione delle offerte.
Invero, dalla documentazione in atti (cfr. il verbale del
07.09.2016, all. 11 al ricorso e doc. 5 della Fondazione) si
ricava che la Commissione di gara era composta da due
Consiglieri di Gestione della Fondazione (dr. Ga. ed arch.
Ap.) e da due Conservatori del Museo Archeologico “Eno
Bellis” e della Pinacoteca “Alberto Martini”
(dr.ssa Ma. e dr.ssa Bo.). Si ricava, altresì, che la
ridetta Commissione si è divisa in due Sottocommissioni, la
prima formata dai Consiglieri di Gestione, con incarico di
esaminare le offerte economiche, la seconda formata dai due
Conservatori, con incarico di esaminare le offerte tecniche.
In questo modo, tuttavia, si è violata anzitutto la regola
–già contenuta nell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006
ed ora riproposta dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n.
50/2016– che impone che la Commissione di gara sia
costituita da un numero dispari di commissari, non superiore
a cinque.
Sul punto è ben noto al Collegio come, nel vigore del d.lgs.
n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che la regola
sulla composizione della Commissione di gara pubblica con un
numero dispari di componenti non superiore a cinque,
costituisse espressione di un principio generale, immanente
nell’ordinamento e tale da implicare l’illegittimità della
costituzione di un collegio con un numero pari di
componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia
giurisdizionali che amministrativi, che operano, o
occasionalmente possono operare, in composizione paritaria
(cfr. C.d.S., Sez. III, 03.10.2013, n. 4884; id.,
11.07.2013, n. 3730).
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola,
già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e
poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006,
sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di
sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016,
cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita
nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di
garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le
necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è
coerente con il principio in base al quale i collegi
perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti
da un numero dispari di membri (cfr. C.d.S., Sez. V,
06.04.2009, n. 2143; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II,
20.04.2011, n. 595; id., 05.03.2010, n. 1122).
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in
cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare,
rispettivamente, le offerte economiche e le offerte
tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in
tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i
ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri
membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che “la
commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce un
collegio perfetto che deve operare con il plenum e non con
la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto, le
operazioni di gara propriamente valutative, quali la
fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle
offerte non possono essere delegate a singoli membri o a
sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte
soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice” (cfr.
C.d.S., Sez. V, 09.06.2003, n. 3247).
“La regola della collegialità perfetta alla quale deve
attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni
qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere
valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è
possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni
attività preparatorie” o meramente materiali (v. TAR
Sicilia, Catania, Sez. III, 10.12.2009, n. 2009).
“L’attività della commissione di gara può essere svolta,
in special modo quando si tratti di esprimere valutazioni
(spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo,
attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di
lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole
offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai
concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata
dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano
esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua
integrale composizione, e in tale veste la commissione
proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte
o progetti” (cfr. TAR Piemonte, Sez. II, 26.10.2007, n.
3305)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La Corte di giustizia dell’UE ritorna sulla questione della
legittimazione dell’impresa “non definitivamente”
esclusa dalla gara di appalto.
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•
Unione europea
– Gara – Appalti pubblici – Offerte – Integrazione e
regolarizzazione – Differenze.
•
Unione europea
– Gara – Appalti pubblici – Offerente escluso –
Legittimazione a ricorrere – Condizioni.
•
Il principio di parità di trattamento degli operatori
economici stabilito dall’articolo 10 della direttiva
2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono
servizi di trasporto e servizi postali, deve essere
interpretato nel senso che esso osta a che, nell’ambito di
una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico,
l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a
presentare le dichiarazioni o i documenti la cui
comunicazione era richiesta dal capitolato d’oneri e che non
sono stati presentati nel termine stabilito per presentare
le offerte. Tale articolo non osta, invece, a che
l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a
chiarire un’offerta o a rettificare un errore materiale
manifesto contenuto in quest’ultima, a condizione che,
tuttavia, un tale invito sia rivolto a qualsiasi offerente
che si trovi nella stessa situazione, che tutti gli
offerenti siano trattati in modo uguale e leale e che tale
chiarimento o tale rettifica non possa essere assimilato
alla presentazione di una nuova offerta, circostanza che
spetta al giudice del rinvio verificare. (1)
•
La
direttiva 92/13/CE del Consiglio, del 25.02.1992, che
coordina le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione delle norme
comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono
servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel
settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla
direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
dell’11.12.2007, deve essere interpretata nel senso che, in
una situazione come quella di cui al procedimento
principale, in cui una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico ha dato luogo alla presentazione di due
offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti
rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti
e aggiudicazione dell’appalto all’altro, l’offerente
escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due
decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta
dell’offerente aggiudicatario, in modo tale che la nozione
di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla
direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale
avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico. (2)
---------------
(1) I.- Con la prima massima in rassegna la Corte di
Giustizia torna sulla questione della compatibilità del
dovere di soccorso con il principio di parità di trattamento
e precisa che:
a) l’obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di rispettare il
principio di parità di trattamento degli offerenti, che ha
lo scopo di favorire lo sviluppo di una concorrenza sana ed
efficace tra le imprese che partecipano ad un appalto
pubblico implica, in particolare, che gli offerenti devono
trovarsi su un piano di parità sia al momento in cui
preparano le loro offerte sia al momento in cui queste sono
valutate da tale amministrazione aggiudicatrice;
b) il principio di parità di trattamento impone, segnatamente, che
tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità
nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica
quindi che queste siano sottoposte alle medesime condizioni
per tutti i concorrenti;
c) il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza
implicano che, in linea di principio, un’offerta non può
essere modificata dopo il suo deposito, né su iniziativa
dell’amministrazione aggiudicatrice né dell’offerente;
d) il principio di parità di trattamento non osta a che un’offerta
possa essere corretta o completata su singoli punti, qualora
quest’ultima necessiti in modo evidente un chiarimento o
qualora si tratti di correggere errori materiali manifesti,
fatto salvo tuttavia il rispetto di una serie di requisiti:
i) una richiesta di chiarimenti di un’offerta,
che può intervenire soltanto dopo che l’amministrazione
aggiudicatrice abbia acquisito conoscenza di tutte le
offerte, deve, in linea di principio, essere rivolta in modo
equivalente a tutti gli offerenti che si trovino nella
stessa situazione e deve riguardare tutti i punti
dell’offerta che richiedono un chiarimento;
ii) tale richiesta non può condurre, da parte
dell’offerente interessato, alla presentazione di quella che
in realtà sarebbe una nuova offerta;
iii) nell’esercizio del potere discrezionale di
cui dispone per quanto attiene alla facoltà di chiedere ai
candidati di chiarire la loro offerta, l’amministrazione
aggiudicatrice deve trattare i candidati in maniera uguale e
leale, di modo che, all’esito della procedura di selezione
delle offerte e tenuto conto del risultato di quest’ultima,
non possa apparire che la richiesta di chiarimenti abbia
indebitamente favorito o sfavorito il candidato o i
candidati cui essa è stata rivolta;
iv) una richiesta di chiarimenti non può,
tuttavia, ovviare alla mancanza di un documento o di
un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai
documenti dell’appalto, poiché l’amministrazione
aggiudicatrice è tenuta ad osservare rigorosamente i criteri
da essa stessa fissati.
Dopo aver richiamato i principi espressi dalla propria
giurisprudenza come sopra sintetizzati, la Corte rimette al
giudice del rinvio la verifica in concreto se nelle
circostanze del procedimento principale (avente per oggetto
una gara per l’affidamento di servizi per la
digitalizzazione di archivi cartacei), la sostituzione
effettuata dalle imprese concorrenti (sostituzione con un
nuovo campione di microfilm di quello che esse avevano
allegato alla loro offerta e che non era conforme alle
specifiche del capitolato d’oneri) sia rimasta nei limiti
della rettifica di un errore manifesto inficiante l’offerta.
II.- Sul potere di soccorso in materia di gare di appalto e
sul principio di tassatività delle cause di esclusione, per
completezza si segnala:
e)
Corte giust. UE, sez. VI, 02.06.2016, C-27/15,
Pippo Pizzo,
oggetto della
News US in data 05.07.2016,
cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in
relazione alla disciplina nazionale;
f)
Corte giust. UE, sez. X, 06.11.2014, C-42/13,
Cartiera dell’Adda,
in
Urbanistica e
appalti,
2015, 137 con nota di PATRITO;
Dir. proc. amm.,
2015, 1006, con nota di MAMELI, cui si rinvia per ogni
ulteriore approfondimento;
g)
Tar per il Lazio, ordinanza sez. III, 03.10.2016, n. 10012
(oggetto della
News US in data 05.10.2017,
cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in
relazione alla disciplina nazionale), che ha rimesso alla
Corte di giustizia la questione della compatibilità, col
diritto europeo, della disciplina recata dal vecchio codice
degli appalti nella parte in cui ha previsto il c.d.
soccorso istruttorio oneroso;
h) l’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 -Codice dei contratti
pubblici- nel testo novellato dal primo decreto delegato
correttivo 19.04.2017, n. 56 (su cui v. il parere reso da
Cons. Stato, comm. spec., 30.03.2017, n. 782).
(2) I. - La questione di cui alla seconda massima è stata
sollevata nel corso di una gara per l’affidamento del
servizio di digitalizzazione di archivi cartacei con due
soli partecipanti, in cui due imprese, concorrenti in ATI
(da quanto è dato intendere dalla motivazione), hanno
presentato entrambe ricorso avverso la decisione
dell’amministrazione aggiudicatrice di esclusione della loro
offerta impugnando al contempo la decisione di ammissione
dell’offerta dell’altra unica partecipante.
Il giudice del rinvio:
a) premette che l’operatore economico che ha presentato un’offerta
nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico qualora la sua offerta sia ricusata, non ha un
interesse ad agire avverso la decisione di aggiudicazione
dell’appalto pubblico. Di conseguenza, se è vero che un
offerente quale l’ATI ricorrente ha certamente un interesse
a contestare una decisione che rifiuta la propria offerta,
nella misura in cui, in tal caso, lo stesso conservi una
possibilità che l’appalto gli sia aggiudicato, non ha più,
invece, interesse nella fase successiva del procedimento di
aggiudicazione dell’appalto dal momento in cui la sua
offerta sia stata definitivamente rigettata, perlomeno
nell’ipotesi in cui una pluralità di offerte sia stata
presentata e selezionata;
b) sulla scorta di tale premessa domanda se la nozione di «un
determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 92/13, possa riguardare
l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico, atteso che l’articolo 1, paragrafo
3, della direttiva 92/13 prevede che gli Stati membri
provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso,
secondo le modalità che spetta agli Stati membri
determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad
ottenere l’aggiudicazione di un «determinato appalto»
e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta
violazione.
II. -Sul punto la Corte, operando una sintesi delle proprie
precedenti pronunce rese sul tema, evidenzia:
c) di avere già statuito (sentenze
04.07.2013, n. 100, Fastweb,
in
Foro it.,
2015, IV, 311, n. con nota di CONDORELLI e
05.04.2016 C- 689/13, Puligenica,
id.,
2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI, cui si rinvia per
ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza) che,
nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico, gli offerenti hanno un analogo interesse legittimo
all’esclusione dell’offerta degli altri offerenti ai fini
dell’aggiudicazione dell’appalto indipendentemente dal
numero di partecipanti alla procedura e dal numero di
partecipanti che hanno presentato ricorso; da un lato,
infatti, l’esclusione di un offerente può far sì che un
altro offerente ottenga l’appalto direttamente nell’ambito
della stessa procedura; d’altro lato, nell’ipotesi di
un’esclusione di tutti gli offerenti e dell’indizione di una
nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico,
ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi,
ottenere indirettamente l’appalto;
d) innova il proprio indirizzo precisando che nell’ambito di una
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico che ha
dato luogo alla presentazione di due sole offerte e
all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice,
di due decisioni in contemporanea, recanti rispettivamente
il rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e
l’aggiudicazione dell’appalto all’altro
offerente, all’offerente che ha proposto ricorso deve essere
riconosciuto un interesse legittimo all’esclusione
dell’offerta dell’aggiudicatario per mancanza di conformità
di quest’ultima alle specifiche del capitolato d’oneri che
può portare, se del caso, alla constatazione
dell’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di
procedere alla scelta di un’offerta regolare;
e) ribadisce quanto affermato dalla
sentenza 21.12.2016, C- 355/15,
GesmbH,
nel senso che a un offerente la cui offerta sia stata
esclusa dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura
di aggiudicazione di un appalto pubblico può tuttavia essere
negato l’accesso a un ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la decisione
di esclusione di tale offerente sia stata confermata da una
decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima
che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione dell’appalto si pronunci, in modo tale che
detto offerente debba essere considerato definitivamente
escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto
pubblico in questione;
f) evidenzia che nel caso portato all’esame dal giudice del rinvio
le imprese ricorrenti hanno proposto ricorso avverso la
decisione che esclude la loro offerta e avverso la decisione
che aggiudica l’appalto,
adottate
contemporaneamente,
e non possono quindi essere ritenute definitivamente escluse
dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico; in
una situazione del genere, la nozione di «un determinato
appalto» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della
direttiva 92/13 può, dunque, riguardare anche l’avvio di una
nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
III. Per la ricostruzione del dibattito e per i riferimenti
di dottrina e di giurisprudenza sul controverso tema si
rinvia alle seguenti News US:
g)
04.01.2017 avente ad oggetto Corte UE 21.12.2016
GesmbH
(secondo cui «L’articolo
1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio,
del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato
nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da
una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con
una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta
definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la
decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui
trattasi e la conclusione del contratto, allorché a
presentare offerte siano stati unicamente l’offerente
escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che
anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere
esclusa»);
h)
07.04.2016 avente ad oggetto Corte UE
05.04.2016, Puligienica cit.,
(secondo
cui «L’articolo
1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE
del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve
essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso
principale proposto da un offerente, il quale abbia
interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato
appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di
una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia
di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale
diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro
offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di
norme processuali nazionali che prevedono l’esame
prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro
offerente»);
i)
19.01.2017 avente ad oggetto Corte cost., 245 del 2016
pubblicata altresì
in
Foro it.,
2017, I, 75, secondo cui è inammissibile, salvo casi
eccezionali, l’impugnativa di una procedura di gara da parte
di una impresa che non vi abbia partecipato o chiesto di
partecipare;
l)
04.04.2017 avente ad oggetto Tar per la Liguria ordinanza n.
263 del 2017
(secondo cui «Va
rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la
seguente questione pregiudiziale: se gli artt. 1, parr. 1, 2
e 3, e l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665
CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la
possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara
ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda
di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda
giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura,
derivando dalla disciplina della gara un’altissima
probabilità di non conseguire l’aggiudicazione»)
(Corte
giust. comm. ue, sez. VIII, sentenza 10.05.2017, n.
C-131/16, Archus
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittima la mancata notifica ai controinteressati nel
caso di permesso di costruire in deroga al PGT..
Per fondare la
legittimazione e l’interesse ad agire di un’azione di
annullamento rivolta avverso un permesso di costruire è
sufficiente l’elemento della vicinitas, intesa come
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue
che, in sua presenza, non è necessario accertare
concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente.
Ritiene il Collegio che questi principi possano essere
applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga,
posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio
riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico
urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei
proprietari dei fondi finitimi.
Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono
proprietari di immobili residenziali collocati in un
complesso condominiale che, contrariamente da quanto
sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della
struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il
Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro
che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della
prossimità necessario per fondare la legittimazione e
l’interesse ad agire.
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La disciplina riguardante i permessi di costruire rilasciati
in deroga alle previsioni contenute negli strumenti
urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del
2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005.
Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che
dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di
tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai
sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione
analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge
regionale n. 12 del 2005.
Queste norme costituiscono deroga al principio generale,
secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire,
non è di regola necessario l’invio della comunicazione di
avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi
finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla
realizzazione dell’opera.
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del
permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna
attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo
l’amministrazione semplicemente valutare la conformità
dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente,
nei casi di permesso di costruire in deroga
l’amministrazione deve invece effettuare una scelta
discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede
di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque
necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti
portatori degli interessi coinvolti, così come avviene
appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di
redazione del piano di governo del territorio.
E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un
permesso di costruire in deroga presenta, sul piano
funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione
di una variante al piano urbanistico, è necessario
consentire una ampia partecipazione allo stesso
procedimento, così come avviene per i procedimenti
finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue
che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi
dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e
dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del
2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi,
dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
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Viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380
del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005
in quanto l’Amministrazione -senza autorizzare espressamente
una deroga alle previsioni di piano riguardanti le
destinazioni funzionali- permetterebbe la realizzazione di
una struttura avente destinazione contrastante con le
previsioni dello strumento urbanistico, violando peraltro in
tal modo le suddette norme che, a dire dei ricorrenti, non
ammetterebbero la possibilità di assentire deroghe alle
destinazioni di piano impresse alle aree.
La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
L’area interessata dal permesso di costruire impugnato
ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata
dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi. In base a
tale norma, nella suddetta zona sono insediabili “punti di
ristoro”.
Invero, in mancanza di esplicita definizione contenuta nella
normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto di
ristoro” non possano essere ricondotti i veri e propri
ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area
destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione
intenda consentire l’insediamento di strutture aventi
impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano
esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente
funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si
deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di
ristoro” possano rientrare solo le strutture di dimensioni
contenute, dove si somministrano bevande e, tutt’al più,
cibi di veloce preparazione e consumazione.
A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle NTA
del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma
fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli
atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio
ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano
anche per il profilo della destinazione funzionale.
Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio
comunale non ha autorizzato la deroga alla destinazione
funzionale, ma ha esclusivamente autorizzato la deroga al
parametro riguardante il rapporto massimo di copertura.
Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla
risoluzione delle problematiche astratte circa la
possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di
derogare alle previsioni di piano attinenti alle
destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge
anche questioni di carattere costituzionale stante la non
conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n.
12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il
quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe
dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera
oggetto del presente giudizio non possa comunque essere
realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta
delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente
che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale,
conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato
alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente nella
parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti
impugnati per aver essi assentito la realizzazione di
un’opera non conforme alle previsioni contenute nello
strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso
delle aree.
---------------
In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed all’art.
40 della legge regionale n. 12 del 2005, il permesso di
costruire in deroga agli strumenti di pianificazione può
essere rilasciato esclusivamente per la realizzazione di
impianti ed edifici pubblici o di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme fanno
riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche agli
interventi di interesse pubblico, il permesso di costruire
in deroga può essere rilasciato anche per la realizzazione
di edifici privati per i quali sussista appunto un interesse
pubblico alla loro realizzazione.
La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione di
consiglio comunale che assente tale tipologia di interventi
deve essere specificamente motivata con riguardo al profilo
dell’interesse pubblico, dovendo le amministrazioni dare
conto, nel corpo motivazionale dell’atto, delle superiori
ragioni che le inducono ad introdurre un regime distonico
rispetto alle previsioni di piano le quali, per loro natura,
dovrebbero aver delineato un quadro armonico degli assetti
del territorio, assetti che potrebbero venire invece
compromessi dalle disposizioni derogatorie.
Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che possono
sostenere la scelta, vi può anche essere quella di ovviare a
situazioni di degrado.
Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso
specifico, il riferimento alla situazione di degrado
contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si
evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente,
oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca
disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato
supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si
spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul
piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un
permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione
di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata
dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto
spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare
l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si
sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente
costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della
globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di
interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la
deroga al vigente strumento urbanistico.
Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo
motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto
ritenere che la motivazione in esso contenuta sia
effettivamente inadeguata.
---------------
1. Con il ricorso introduttivo viene impugnata la
deliberazione di Consiglio comunale del Comune di Basiglio
n. 24 del 10.06.2016, con la quale è stata accolta la
domanda presentata dalla società AD. s.r.l., finalizzata
all’ottenimento di una deroga, ai sensi dell’art. 40 della
legge regionale n. 12 del 2005 e dell’art. 14 del d.P.R. n.
380 del 2001, per la realizzazione di un intervento edilizio
non conforme allo strumento urbanistico.
2. L’intervento consiste nella chiusura di una terrazza di
pertinenza di un ristorante, mediante la sostituzione delle
strutture rimovibili con altra tipologia di strutture di
carattere fisso.
...
9. Deve preliminarmente esaminarsi l’eccezione di
inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti sollevata
dalla controinteressata secondo la quale i ricorrenti
sarebbero privi di legittimazione ed interesse ad agire.
10. In proposito va osservato che, secondo un pacifico
orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha
motivo per discostarsi, per fondare la legittimazione e
l’interesse ad agire di un’azione di annullamento rivolta
avverso un permesso di costruire è sufficiente l’elemento
della vicinitas, intesa come situazione di stabile
collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue che, in
sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i
lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo
pregiudizio per il ricorrente (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 19.11.2015, n. 5278; Id., sez. III, 17.11.2015, n. 5257;
TAR Piemonte Torino, sez. II, 15.11.2016, n. 1407; TAR
Sicilia Catania, sez. I, 18.01.2016, n. 164).
11. Ritiene il Collegio che questi principi possano essere
applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga,
posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio
riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico
urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei
proprietari dei fondi finitimi.
12. Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono
proprietari di immobili residenziali collocati in un
complesso condominiale che, contrariamente da quanto
sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della
struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il
Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro
che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della
prossimità necessario per fondare la legittimazione e
l’interesse ad agire.
13. Per questa ragione l’eccezione in esame va respinta.
14. Con il primo motivo viene dedotta la violazione
dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto
l’Amministrazione ha omesso di inviare ai ricorrenti la
comunicazione di avviso di avvio del procedimento.
15. In proposito si osserva quanto segue.
16. La disciplina riguardante i permessi di costruire
rilasciati in deroga alle previsioni contenute negli
strumenti urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n.
380 del 2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del
2005.
17. Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che
dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di
tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai
sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione
analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge
regionale n. 12 del 2005.
18. Queste norme costituiscono deroga al principio generale,
secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire,
non è di regola necessario l’invio della comunicazione di
avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi
finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla
realizzazione dell’opera (cfr. sul punto TAR Piemonte, sez.
II, 14.03.2014, n. 448).
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del
permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna
attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo
l’amministrazione semplicemente valutare la conformità
dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente,
nei casi di permesso di costruire in deroga
l’amministrazione deve invece effettuare una scelta
discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede
di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque
necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti
portatori degli interessi coinvolti, così come avviene
appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di
redazione del piano di governo del territorio.
19. E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un
permesso di costruire in deroga presenta, sul piano
funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione
di una variante al piano urbanistico, è necessario
consentire una ampia partecipazione allo stesso
procedimento, così come avviene per i procedimenti
finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue
che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi
dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e
dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del
2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi,
dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
20. Ciò premesso si deve osservare che il Comune di Basiglio
non ha inviato ai ricorrenti la comunicazione di avviso di
avvio del procedimento culminato con l’adozione dell’atto
impugnato, e ciò sebbene questi soggetti risiedano in
prossimità della struttura interessata dall’intervento.
21. Ritiene il Collegio che questa omissione costituisca una
evidente violazione dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R.
n. 380 del 2001 e che, quindi, la censura in esame sia da
condividere.
22. A contrario non vale eccepire, come fa la
controinteressata, che fra la struttura oggetto
dell’intervento e le abitazioni dei ricorrenti è interposto
un parco comunale. In proposito è, infatti, sufficiente
rilevare che il parco comunale è di dimensioni contenute,
tanto è vero che, come riconosce la stessa controinteressata,
le abitazioni più prossime sono collocate a distanza
inferiore a cinquanta metri dalla struttura; ad una distanza
che permette ai residenti di percepirne appieno l’impatto
visivo nonché di percepirne le propagazioni rumorose che da
essa promanano.
23. Si deve pertanto ritenere che i ricorrenti rivestano la
qualifica di soggetti interessati ai sensi del secondo comma
dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001; ne consegue, che,
come anticipato, l’Amministrazione avrebbe dovuto inviare
loro la comunicazione prevista dalla suddetta norma.
24. Va quindi ribadita la fondatezza della censura.
25. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo ed
il primo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 2), viene
dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del
2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in
quanto, con l’atto impugnato, l’Amministrazione -senza
autorizzare espressamente una deroga alle previsioni di
piano riguardanti le destinazioni funzionali- permetterebbe
la realizzazione di una struttura avente destinazione
contrastante con le previsioni dello strumento urbanistico,
violando peraltro in tal modo le suddette norme che, a dire
dei ricorrenti, non ammetterebbero la possibilità di
assentire deroghe alle destinazioni di piano impresse alle
aree.
26. La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
27. L’area interessata dal permesso di costruire impugnato
ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata
dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi.
28. In base a tale norma, nella suddetta zona sono
insediabili “punti di ristoro”.
29. Tanto premesso, va osservato che, secondo il Collegio,
in mancanza di esplicita definizione contenuta nella
normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto
di ristoro” non possano essere ricondotti i veri e
propri ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area
destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione
intenda consentire l’insediamento di strutture aventi
impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano
esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente
funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si
deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di
ristoro” possano rientrare solo le strutture di
dimensioni contenute, dove si somministrano bevande e,
tutt’al più, cibi di veloce preparazione e consumazione (in
questo senso si veda Consiglio di Stato, sez. IV,
06.08.2013, n. 4148).
30. A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle
NTA del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma
fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
31. Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli
atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio
ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano
anche per il profilo della destinazione funzionale.
32. Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio
comunale n. 24 del 10.06.2016 non ha autorizzato la deroga
alla destinazione funzionale, ma ha esclusivamente
autorizzato la deroga al parametro riguardante il rapporto
massimo di copertura.
33. Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla
risoluzione delle problematiche astratte circa la
possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di
derogare alle previsioni di piano attinenti alle
destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge
anche questioni di carattere costituzionale stante la non
conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n.
12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il
quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe
dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera
oggetto del presente giudizio non possa comunque essere
realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta
delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente
che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale,
conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato
alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
34. Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente
nella parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti
impugnati per aver essi assentito la realizzazione di
un’opera non conforme alle previsioni contenute nello
strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso
delle aree.
35. Preme al Collegio precisare che a contrario non è
neppure utile invocare l’art. 23-bis, primo comma, lett.
a-bis), del d.P.R. n. 380 del 2001 (che esclude la rilevanza
urbanistica dei mutamenti di destinazione d’uso che comunque
non sottraggono ai fabbricati la destinazione
turistico-ricettiva), atteso che il terzo comma di tale
norma fa salve le diverse disposizioni contenute negli
strumenti urbanistici e che, per le ragioni sopra
illustrate, si deve escludere che lo strumento urbanistico
del Comune di Basiglio abbia inteso assentire l’insediamento
di veri e propri ristoranti nell’area oggetto del presente
giudizio.
36. Per tutte queste ragioni deve essere ribadita la
fondatezza della censura in esame.
37. Con il terzo motivo del ricorso introduttivo e
con il secondo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 3),
viene ancora dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R.
n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12
del 2005 in quanto, a dire dei ricorrenti, le ragioni di
interesse pubblico addotte a fondamento della decisione di
concedere la deroga sarebbero del tutto inadeguate.
38. Anche questa censura è fondata per le ragioni di seguito
esposte.
39. In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed
all’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005, il
permesso di costruire in deroga agli strumenti di
pianificazione può essere rilasciato esclusivamente per la
realizzazione di impianti ed edifici pubblici o di interesse
pubblico.
40. La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme
fanno riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche
agli interventi di interesse pubblico, il permesso di
costruire in deroga può essere rilasciato anche per la
realizzazione di edifici privati per i quali sussista
appunto un interesse pubblico alla loro realizzazione (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. IV, 12.12.2005 n. 7031; id., sez V,
29.10.2002 n. 5913; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2016, n.
1475; TAR Lombardia Milano, sez. II, 07.02.2014, n. 417).
41. La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione
di consiglio comunale che assente tale tipologia di
interventi deve essere specificamente motivata con riguardo
al profilo dell’interesse pubblico, dovendo le
amministrazioni dare conto, nel corpo motivazionale
dell’atto, delle superiori ragioni che le inducono ad
introdurre un regime distonico rispetto alle previsioni di
piano le quali, per loro natura, dovrebbero aver delineato
un quadro armonico degli assetti del territorio, assetti che
potrebbero venire invece compromessi dalle disposizioni
derogatorie (Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014, n.
4518; id., 20.12.2013, n. 6136; id., sez. IV, 23.07.1999, n.
4664; id., 03.02.1981, n. 128).
42. Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che
possono sostenere la scelta, vi può anche essere quella di
ovviare a situazioni di degrado.
43. Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso
specifico, il riferimento alla situazione di degrado
contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si
evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente,
oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca
disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato
supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si
spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul
piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un
permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione
di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata
dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
44. In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto
spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare
l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si
sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente
costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della
globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di
interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la
deroga al vigente strumento urbanistico.
45. Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo
motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto
ritenere che la motivazione in esso contenuta sia
effettivamente inadeguata.
46. Le censure in esame sono, quindi, fondate (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 09.05.2017 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Strumenti urbanistici: il valore delle osservazioni dei
proprietari interessati
Le osservazioni formulate dai
proprietari interessati costituiscono un mero apporto
collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e
non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro
rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo
serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del
piano regolatore generale.
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte
effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al prg., salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali sono date dal superamento degli standards minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
---------------
Con la seconda parte dell’unico motivo di impugnazione (che
per ragioni logiche conviene esaminare in via prioritaria)
gli appellanti deducono il difetto di motivazione che
vizierebbe l’atto impugnato, in quanto la Regione non ha
specificamente ed esaurientemente esternato le ragioni in
base alle quali l’osservazione da loro proposta –pur
favorevolmente esitata dal comune– non è stata accolta.
Il mezzo non merita positiva considerazione.
La Giurisprudenza di
questa Sezione ha infatti da tempo chiarito che le
osservazioni formulate dai proprietari interessati
costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione
degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una
dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state
esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano regolatore generale
(cfr. fra le recenti IV Sez. nn. 3643 del 2016 e 874 del
2017).
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte
effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al prg., salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali sono date dal superamento degli standards minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
Dal momento che gli appellanti non rientrano in alcuna delle
descritte situazioni differenziate il mezzo in parola va
quindi conclusivamente disatteso.
Sotto un diverso profilo gli appellanti osservano che
l’inserimento del loro fondo nella zona di espansione
(all’interno della quale l’edificazione è consentita ai
sensi delle NTA comunali solo previa redazione di un piano
di lottizzazione di misura eccedente quella del fondo
stesso) si dimostra illogica e irrazionale in quanto la zona
circostante, infatti, è già densamente edificata.
Anche questo mezzo non merita positiva considerazione in
quanto in primo luogo investe il merito di scelte
discrezionali coinvolgenti il governo del territorio e
riservate all’Amministrazione, come tali insindacabili in
sede giurisdizionale (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2017 n. 2089 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
modifica normativa dell'art. 21-nonies della Legge n.
241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1)
della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime temporale
rigido di annullabilità dell'atto amministrativo (18 mesi)-
si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti
di primo grado adottati successivamente all'entrata in
vigore della norma.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione del Responsabile del V Settore –
Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 –
Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante
"annullamento in autotutela del permesso di costruire
n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di
tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e
conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
I. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente
lamenta la violazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990
per essere stato emesso l’impugnato provvedimento del 03.12.2015 ben oltre il termine di diciotto mesi
contemplato da detta norma con la modifica introdotta
dall’art. 6 della legge n. 124/2015. Il lasso di tempo
decorso non sarebbe comunque ragionevole, riferendosi l’atto
a permessi di costruire rilasciati nel 2006 e quindi
risalenti a circa dieci anni prima.
L’infondatezza si deve
al fatto che la modifica normativa dell'art. 21-nonies della
Legge n. 241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett.
d), n. 1) della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime
temporale rigido di annullabilità dell'atto amministrativo-
si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti
di primo grado adottati successivamente all'entrata in
vigore della norma (TAR Napoli, sez. II, 12.09.2016, n. 4229).
La vicenda di causa risulta quindi estranea all’alveo
applicativo della norma invocata da parte ricorrente, in
considerazione della data cui risalgono i permessi di
costruire annullati. Il decorso di circa due lustri dalla
data di adozione di questi, a sua volta, non rileva stante
la particolare pregnanza dell’interesse pubblico sotteso
all’atto impugnato, come si esporrà al capo che segue. Il
motivo in esame è quindi infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Niente
spoils system per l'incarico tecnico-professionale
affidato dal Sindaco ad un soggetto esterno al Comune.
1)
nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle
Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi
dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte
costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e
n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in
cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta
coerente con i principi costituzionali di cui all'art. 97
Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti
della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà"
della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore
specificazione che la "fiduciarietà", per legittimare
l'applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa
come preventiva valutazione soggettiva di consonanza
politica e personale con il titolare dell'organo politico,
che di volta in volta viene in considerazione come
nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di
incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il
compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo
svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto
agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente
di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà"
della scelta del soggetto da nominare non si configura come
preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e
personale con il titolare dell'organo politico nominante;
2) l'interpretazione costituzionalmente
orientata al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla
consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils
system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110, commi
3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con l'art.
19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che un
incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica il
compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento
(nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco
di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del
termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato
elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di anticipata
cessazione da parte del Comune stesso a causa della morte
improvvisa del Sindaco persona fisica nominante,
sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico
medesimo
---------------
III - Esame delle censure
3. L'esame congiunto di tutti i motivi di censura - reso
opportuno dalla loro intima connessione - porta
all'accoglimento del ricorso, per le ragioni di seguito
esposte.
...
4. Deve essere chiarito che, nella presente controversia, si
discute dell'incarico di funzioni di dirigente dei Settori
Urbanistica, Lavori pubblici, Programmazione e progettazione
originariamente attribuito all'attuale ricorrente nel marzo
1999 fino allo scadere del mandato elettorale del sindaco
dal Sindaco del Comune di Reggio Calabria, incarico
confermato con la stessa durata nel maggio 2001 dopo le
elezioni comunali svoltesi "medio tempore", di cui lo stesso
Comune nel maggio 2002 ha disposto l'anticipata cessazione,
in conseguenza dell'improvviso decesso del Sindaco persona
fisica che aveva conferito l'incarico.
La principale questione controversa è quella di stabilire se
l'art. 110, commi 3 e 4, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267
(d'ora in poi: TUEL) possa consentire di applicare nella
specie il meccanismo dello "spoils system" che comporta la
cessazione anticipata dell'incarico e se tale risultato
possa, o meno, considerarsi conforme alla clausola del
contratto accessorio al provvedimento di conferimento
dell'incarico ove si è stabilito che il termine finale del
rapporto doveva coincidere con "lo scadere del mandato
elettorale del sindaco".
5. La soluzione di tale questione comporta la ricostruzione
di una complessa vicenda normativa e fattuale.
Tale ricostruzione è stata effettuata dalla Corte d'appello
di Reggio Calabria muovendo dalla premessa secondo cui in
base all'art. 110, comma 3, del d.lgs. 18.08.2000, n.
267 (d'ora in poi: TUEL) sarebbe consentita la cessazione
automatica degli incarichi dirigenziali non apicali del tipo
qui considerato al venire meno del "rapporto fiduciario" con
il Sindaco persona fisica che ha provveduto al relativo
conferimento, sicché in caso di improvviso decesso del
Sindaco prima della fine del relativo mandato a detti
incarichi potrebbe applicarsi il meccanismo dello "spoils
system".
6. Tale premessa è erronea in quanto non trova riscontro né
nella lettera e nella "rado" della suindicata disposizione,
né nella consolidata giurisprudenza in materia di "spoils
system" della Corte costituzionale (di cui si dirà più
avanti) condivisa da questa Corte di cassazione, alla quale
il Collegio intende dare continuità.
Ne risultano prive di base, e quindi infondate, tutte le
ulteriori statuizioni che -partendo dalla suindicata
premessa- hanno condotto la Corte territoriale al rigetto
dell'appello proposto da Gi.Ro.Fi., a partire
dalla interpretazione della clausola del contratto di lavoro
dirigenziale originariamente stipulato dall'appellante con
il Comune di Reggio Calabria l'11.03.1999 -il cui
contenuto, come si è detto, è stato confermato con decreto
n. 102 del 28.05.2001, successivo a nuove elezioni
comunali svoltesi "medio tempore"- ove si era stabilito che
il termine finale del rapporto dovesse coincidere con "lo
scadere del mandato elettorale del Sindaco".
7. A tale ultimo riguardo va, in particolare, sottolineato
come la interpretazione data dalla Corte territoriale alla
suddetta clausola del contratto "de quo", oltre ad essere il
"portato" di una erronea interpretazione della disciplina
generale in materia di incarichi conferiti dalle
Amministrazioni Pubbliche effettuata senza alcuna
considerazione dei principi affermati in materia da una
giurisprudenza costituzionale ormai decennale, risulta anche
essere stata effettuata senza il dovuto rispetto dei criteri
di ermeneutica contrattuale dettati dal codice civile (artt.
1362 e ss. cod. civ.).
8. Per chiarezza espositiva si ritiene opportuno procedere,
in primo luogo, a delineare, per sommi capi il quadro
normativo di riferimento, partendo dal duplice presupposto
secondo cui, diversamente da quanto si afferma nella
sentenza impugnata:
a) è indubbia l'applicabilità agli enti
locali della disciplina in materia di incarichi dirigenziali
dettata per il lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni
Pubbliche dal relativo TU (d'ora in poi: TUPI), a partire
dall'originario d.lgs. n. 29 del 1993 fino all'attuale
d.lgs. n. 165 del 2001 e s.m.i.;
b) agli incarichi affidati
a soggetti esterni alla Amministrazione si applica, in linea
di massima, la medesima disciplina dettata per gli incarichi
dati a dipendenti dell'Amministrazione, tranne che per gli
aspetti intrinsecamente incompatibili ovvero specificamente
diversificati.
8.1. Invero, a norma dell'art. 1 del TUPI le
disposizioni contenute in tale TU "disciplinano
l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di
impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche"
(comma 1), intendendosi per amministrazioni pubbliche, tra
le altre, "le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le
Province e i Comuni" (comma 2). Tali disposizioni
"costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117
Cost." (comma 3) e, in quanto tali, devono trovare
applicazione pure nell'ambito delle Amministrazioni degli
enti locali. In epoca successiva ai fatti per cui è
controversia ciò è stato reso palese attraverso la
sostituzione dell'originario comma 6 dell'art. 7 dello
stesso TUPI -disposizione questa inserita nel Titolo I
("Principi generali")- con i commi 6, 6-bis e 6-ter
dell'articolo, che poi sono stati ulteriormente modificati.
È stato così chiarito, al comma 6, che le amministrazioni
pubbliche, per esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, possono conferire incarichi
individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura
occasionale o coordinata e continuativa ad esperti di
provata competenza, soltanto in presenza dei presupposti di
legittimità ivi indicati e si è aggiunto che "i regolamenti
di cui all'art. 110, comma 6, del TU di cui al d.lgs. 18.08.2000, n. 267 si adeguano ai principi di cui al comma
6" (vedi: comma 6-ter, introdotto con decorrenza dal 12.08.2006, dal d.l. n. 223 del 2006, art. 32, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, richiamato
da Cass. 13.01.2014, n. 478, cui si rinvia per
eventuali ulteriori approfondimenti).
8.2. Parallelamente, gli artt. 88 e 111 del TUEL hanno
previsto, rispettivamente, che:
a) "all'ordinamento degli
uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i
dirigenti" si applicano, oltre a quelle del TUEL, le
disposizioni del d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e successive
modificazioni ed integrazioni e quindi, nel tempo, quelle
del d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 88);
b) con particolare
riguardo alla disciplina della dirigenza, gli enti locali,
nell'esercizio della propria potestà regolamentare e
statutaria, devono adeguare i propri statuti e i regolamenti
oltre che ai principi dettati dal TUEL e anche a quelli
stabiliti del capo II ("Dirigenza") del d.lgs. n. 29 del
1993 e s.m.i. cit.
Peraltro, anche in questo ambito, tale soluzione è stata
definitivamente ribadita con il d.lgs. 27.10.2009, n.
150, art. 40 -avente decorrenza 15.11.2009, quindi
successiva ai fatti per cui è controversia- ove è stato
nuovamente stabilito che le disposizioni dei commi 6 (come
modificato) e 6-bis dell'art. 19 cit. -comprendenti la
norma sulla durata degli incarichi- si applicano alle
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, e cioè a tutte
le Amministrazioni pubbliche, tra cui le Regioni, le
Province e i Comuni (vedi comma 6-ter dell'art. 19 cit.).
8.3. Comunque, deve essere precisato che i suindicati
interventi legislativi chiarificatori
successivi ai fatti di causa sono stati qui richiamati
soltanto per completezza -e per dare conto
dell'evoluzione del quadro normativo- in quanto
l'applicabilità agli enti locali del regime degli
incarichi esterni dettato dal TUPI era già indubbia da
quando la relativa normativa è entrata
originariamente in vigore.
In particolare, dell'applicabilità, in aggiunta alla
normativa dettata dal TUEL, dell'art. 19
del TUPI (rubricato: "Incarichi di funzioni dirigenziali"),
non poteva dubitarsi da quando è entrato in vigore l'art.
111 del TUEL (13.10.2000), visto che il suddetto art.
19 è
compreso tra le norme del Capo II del TUPI richiamate
dall'art. 111 stesso.
8.4. In base all'indicato art. 19 del TUPI (nel testo
applicabile "ratione temporis") gli
incarichi di funzione dirigenziale, che non comportano la
direzione degli uffici di livello
dirigenziale generale, come quello "de quo" (come si dirà
più avanti):
a) sono conferiti a tempo
determinato;
b) "hanno durata non inferiore a due anni e non
superiore a sette anni, con
facoltà di rinnovo" (comma 2);
c) sono revocati nelle
previste ipotesi di responsabilità
dirigenziale per inosservanza delle direttive generali e per
i risultati negativi dell'attività
amministrativa e della gestione ovvero in caso di
risoluzione consensuale del contratto
individuale (comma 7).
L'art. 110, comma 4, TUEL prevede come ulteriore specifica
ipotesi di risoluzione di
diritto del contratto a tempo determinato in argomento,
quella del "caso in cui l'ente locale
dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni
strutturalmente deficitarie".
Anche in questo ambito si sono avuti ulteriori interventi
del legislatore, successivi ai fatti
di causa. Così il d.l. n. 155 del 2005, art. 14-sexies,
convertito con modificazioni dalla legge n.
168 del 2005, nel modificare l'art. 19 cit. circa le
modalità del conferimento degli incarichi
dirigenziali, ha stabilito, tra l'altro, che la loro durata
non possa essere inferiore a tre anni né
eccedere il termine di cinque anni. In tal modo la durata
massima degli incarichi disciplinati
dall'art. 19 cit. è stata allineata a quella prevista dal
TUEL, il cui art. 110, comma 3, nel primo
periodo, stabilisce che gli incarichi a contratto -qual'è
quello per cui è controversia- non
possono avere durata superiore al mandato elettivo del
sindaco (o del presidente della
Provincia) in carica.
Ebbene, pure la suddetta modifica legislativa, evidentemente
diretta ad equiparare il più
possibile la disciplina degli incarichi esterni conferiti
dalle diverse Amministrazioni pubbliche
pure dal punto di vista della durata, offre un ulteriore
elemento ermeneutico -di tipo evolutivo- volto a confermare che il significato da attribuire alla
suindicata disposizione dell'art. 110,
comma 3, del TUEL non può che essere quello, e solo quello,
di indicare nel quinquennio la
durata massima degli incarichi.
8.5. Quanto al CCNL del Comparto Regioni ed Enti Locali Area
della Dirigenza 1998-2001, all'art. 13 (Affidamento e revoca degli incarichi),
nel sostituire l'art. 22 del CCNL del 10.04.1996:
a) ribadisce che gli enti, con gli atti
previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le
regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti
dall'art. 19, commi 1 e 2, del TUPI, "con
particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la
revoca degli incarichi e per il passaggio
ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può
essere inferiore a due anni, fatte
salve le specificità da indicare nell'atto di affidamento e
gli effetti derivanti dalla valutazione
annuale dei risultati";
b) aggiunge che "la revoca
anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza
può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e
produttive o per effetto dell'applicazione
del procedimento di valutazione dei risultati".
Per quel che si è detto - contrariamente a quanto sostenuto
nella sentenza impugnata -
non può certamente dubitarsi che la suddetta disciplina
contrattuale abbia portata generale,
ma va anche aggiunto che essa si limita a chiarire il
significato della disciplina legislativa e a
confermare l'obbligo degli Enti locali di adeguamento della
propria disciplina sugli incarichi
dirigenziali a quella prevista dal TUPI.
9. A tutto questo va aggiunto che la Corte territoriale -nell'affermare che le sentenze
della Corte costituzionale n. 161 del 2008 e n. 103 del
2007, richiamate dall'appellante ai fini della prospettata
questione di legittimità costituzionale, riguardano
fattispecie non equiparabili
a quella di cui si discute nel presente giudizio- non ha
considerato che, al di là dell'incidente di
costituzionalità, comunque tali sentenze si inseriscono
nella copiosa giurisprudenza della Corte
costituzionale che, a partire proprio dalla sentenza n. 103
del 2007 e dalla coeva sentenza n.
104 del 2007, ha riscontrato profili di illegittimità
costituzionale in alcune discipline legislative
in materia di "spoils system" e, nel contempo, ne ha meglio
delineato i connotati, precisando
che la decadenza automatica -in assenza di valutazioni
concernenti i risultati raggiunti,
condotte nel rispetto del principio del giusto procedimento- risulta in contrasto con l'art. 97
Cost., sotto il duplice profilo della tutela
dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica
amministrazione oltre che del principio di continuità
dell'azione amministrativa.
Questo complesso cammino ha portato il Giudice delle leggi a
precisare che le uniche
ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può
essere ritenuta coerente con i principi
costituzionali sono quelle nelle quali si riscontrano i
requisiti della "apicalità" dell'incarico
nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da
nominare, con la ulteriore specificazione
che tale "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione
dell'indicato meccanismo, deve essere
intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza
politica e personale con il titolare
dell'organo politico, che di volta in volta viene in
considerazione come nominante.
In assenza di tali requisiti, il meccanismo si pone in
contrasto con l'art. 97 Cost., in
quanto la sua applicazione viene a pregiudicare la
continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione
amministrativa, oltre a comportare la sottrazione al
titolare dell'incarico, dichiarato decaduto,
delle garanzie del giusto procedimento (in particolare la
possibilità di conoscere la motivazione
del provvedimento di decadenza), poiché la rimozione del
dirigente risulterebbe svincolata
dall'accertamento oggettivo dei risultati conseguiti.
9.1. In questo ambito più volte (sentenze n. 228 del 2011,
n. 224 e n. 34 del 2010, n.
390 e n. 351 del 2008, n. 104 e 103 del 2007) la Corte
costituzionale ha affermato
l'incompatibilità con l'art. 97 Cost. di disposizioni di
legge prevedenti meccanismi di decadenza
automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle
vicende del rapporto instaurato con il
titolare e non correlati a valutazioni concernenti i
risultati conseguiti da quest'ultimo, quando
tali meccanismi siano riferiti non al personale addetto ad
uffici di diretta collaborazione con
l'organo di governo (sentenza n. 304 del 2010) oppure a
figure apicali, per le quali risulti
decisiva la personale adesione agli orientamenti politici
dell'organo nominante, ma ai titolari di
incarichi dirigenziali che comportino l'esercizio di
funzioni amministrative di attuazione
dell'indirizzo politico, anche quando tali incarichi siano
conferiti a soggetti esterni (sentenze n.
246 del 2011, n. 81 del 2010 e n. 161 del 2008).
Nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di
disposizioni regionali che prevedevano la
decadenza automatica di figure tecnico- professionali
incaricate non già del compito di
collaborare direttamente al processo di formazione
dell'indirizzo politico, ma di perseguire gli
obiettivi definiti dagli atti di pianificazione e indirizzo
degli organi di governo locali (sentenze n.
20 del 2016, n. 27 del 2014, n. 152 del 2013, n. 228 del
2011, n. 104 del 2007 e, ancora, n.
34 del 2010) la Corte ha dato rilievo al fatto che "le
relative nomine richiedano il rispetto di
specifici requisiti di professionalità, che le loro funzioni
abbiano in prevalenza carattere tecnico-gestionale"
e che i loro rapporti istituzionali con gli organi politici
dell'Ente non siano diretti,
bensì mediati da una molteplicità di livelli intermedi
(sentenza n. 20 del 2016).
9.2. In sintesi se si tratta di figure tecnico-professionali
incaricate non già del compito di
collaborare direttamente al processo di formazione
dell'indirizzo politico, ma chiamate a
svolgere soltanto funzioni gestionali e di esecuzione
rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi
di governo dell'Ente di riferimento il meccanismo dello "spoils
system" non è applicabile anche se la nomina è avvenuta fiduciariamente, perché in questo caso la "fiduciarietà"
della scelta del
soggetto da nominare non si configura come preventiva
valutazione soggettiva di consonanza
politica e personale con il titolare dell'organo politico
(vedi, da ultimo: sentenza n. 269 del
2016).
10. Poiché nella presente controversia si discute
dell'utilizzabilità del meccanismo dello
"spoils system" (dovuto al decesso del Sindaco nominante)
per un incarico di funzioni
dirigenziali di tipo tecnico-professionale (dirigenza dei
Settori Urbanistica, Lavori pubblici,
Programmazione e progettazione), ne risulta l'assoluta
pertinenza della suddetta
giurisprudenza costituzionale, alla quale si è conformata la
giurisprudenza di questa Corte
(vedi, per tutte: Cass. 22.07.2008, n. 20177; Cass. 09.06.2009, n. 13232; Cass. 10.02.2015, n. 2555; Cass. 18.02.2016, n. 3210;
Cass. 15.07.2016, n. 14593).
All'applicazione dei principi affermati da tale
giurisprudenza alla presente fattispecie
consegue che:
a) l'art. 110, comma 3, TUEL non può certamente essere
inteso nel senso di consentire
l'applicabilità dello "spoils system" ad incarichi non
apicali e di tipo tecnico-professionale, a
meno che non sia dimostrato che la "fiduciarietà" iniziale
si configuri come preventiva
valutazione soggettiva di consonanza politica e personale
tra l'incaricato del titolare dell'organo
politico di cui si tratta;
b) a tale risultato ermeneutico si perviene in base
all'obbligo dell'interprete di intendere
tutte le norme in materia di "spoils system" in senso
costituzionalmente orientato al rispetto
dell'art. 97 Cost., come interpretato dalla Corte
costituzionale;
c) in particolare, rispetto a tale interpretazione è
incompatibile l'attribuzione
all'espressione "in carica" posta alla fine della prima
frase dell'art. 110, comma 3, cit. -il cui
testo completo, per quanto interessa, è il seguente: "3. I
contratti di cui ai precedenti commi
non possono avere durata superiore al mandato elettivo del
sindaco ... in carica"- del
significato di consentire la decadenza automatica
dall'incarico tutte le volte in cui il sindaco per
una qualunque ragione e, quindi, anche per il suo decesso
improvviso, non sia più in carica, in
quanto questo equivarrebbe a legittimare il ricorso al
meccanismo dello "spoils system" anche
in ipotesi nella quali ciò si porrebbe in contrasto con
l'art. 97 della Costituzione, come
interpretato dalla giurisprudenza costituzionale;
d) di conseguenza, la su riportata norma non può che essere
intesa come diretta a
stabilire un limite oggettivo é chiaro di durata massima
degli incarichi di cui si tratta (la cui
durata minima è quella stabilita dell'art. 19 TUPI),
attraverso un implicito riferimento al
precedente art. 51 TUEL, ove è stabilita la durata
quinquennale del mandato elettivo "de quo";
e) nello stesso modo devono, quindi, intendersi tutti gli
atti che per gli incarichi in parola
fanno riferimento alla durata del mandato, quindi anche la
clausola contrattuale con la quale si
è stabilito che il termine finale del rapporto in oggetto
doveva coincidere con "lo scadere del
mandato elettorale del Sindaco".
11. A proposito di questa clausola vi è da aggiungere che la
Corte territoriale,
nell'interpretarla, non ha neppure tenuto conto dei principi
affermati da questa Corte in merito
all'interpretazione delle clausole contrattuali.
11.1. Una prima inesattezza rinvenibile al riguardo nella
sentenza impugnata è
rappresentata dalla mancata considerazione della normativa
sui contratti di lavoro a termine
nella parte in cui stabilisce la necessità di fissare il
termine finale del rapporto. In base a tale disciplina, in
linea generale, la suddetta scadenza può anche non essere
fissata in una data
determinata purché sia comunque determinabile (Cass. 02.03.1994, n. 2047; Cass. 20.02.1990, n. 1234).
Ma ciò certamente non significa che si possa trattare di una
data "variabile", determinata
ad esclusiva discrezione della parte datoriale.
E, tanto meno, una simile legittima scelta può legittimare
la creazione di ipotesi di
risoluzione anticipata del contratto stipulato con una P.A.
per un incarico dirigenziale che non
trovino alcun riscontro nelle disposizioni normative di
riferimento, come è avvenuto nella
specie, avendo la Corte territoriale -per giustificare la
propria decisione sul punto- richiamato
il comma 4 dell'art. 110 del TUEL mentre tale disposizione
non fa alcun riferimento, neppure
implicito, al decesso improvviso del Sindaco, per la
risoluzione di diritto, visto che testualmente
stabilisce: "4. Il contratto a tempo determinato è risolto
di diritto nel caso in cui l'ente locale
dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni
strutturalmente deficitarie".
Di conseguenza, anche in questa ottica, in conformità sia
con l'art. 97 Cost. sia con la
giurisprudenza di questa Corte, l'espressione usata dai
contraenti per indicare il momento
finale del rapporto non poteva che essere intesa nel senso
di ricalcare la norma di cui all'art.
110, comma 3, TUEL, e quindi nel senso stabilire un termine
finale certo di durata del rapporto
(in armonia con quanto stabilito dal TUPI), tanto più
considerando l'avvenuto prolungamento
dell'originario termine biennale operato con il decreto 05.07.2001, che la Corte territoriale
considera pacifico.
11.2. In ogni caso, in base al principio di utilità, la
clausola stessa deve essere
interpretata nel senso che possa produrre un effetto valido
e conforme alla legge piuttosto che
in senso contrario (arg. ex Cass. 20.03.2012, n. 8295).
11.3. Inoltre, secondo la consolidata e condivisa
giurisprudenza di questa Corte
l'interpretazione del contratto, dal punto di vista
logico-giuridico è un percorso circolare, il
quale impone all'interprete di:
(a) compiere l'esegesi del
testo, considerandone il contenuto
nella sua interezza e interpretando le clausole le une per
mezzo delle altre, onde valutare il
senso complessivo dell'atto;
(b) ricostruire in base ad essa
l'intenzione delle parti;
(c)
verificare se l'ipotesi di "comune intenzione" ricostruita
sulla base del testo sia coerente con le
parti restanti del contratto e con la condotta delle parti,
il tutto facendo puntuale applicazione i
dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod.
civ. (vedi, da ultimo: Cass. 10.05.2016, n. 9380; Cass. 15.07.2016, n. 14432; Cass.
09.12.2014, n. 25840).
12. Per concludere, nella sentenza impugnata, l'affermata
utilizzabilità dello "spoils
system" al caso di specie:
a) con riguardo alla ricostruzione del quadro normativo di
riferimento, risulta il frutto
della mancata applicazione della consolidata giurisprudenza
costituzionale e di legittimità in
materia di cessazione anticipata degli incarichi
dirigenziali nel lavoro pubblico, dalla quale
agevolmente su desume l'inapplicabilità del suddetto
meccanismo.
Ciò in quanto l'incarico di cui si tratta, oltre a non
essere apicale, risulta pacificamente
essere stato conferito per svolgere compiti di tipo
tecnico-professionale nell'esercizio di
funzioni meramente gestionali, sicché la fiduciarietà della
scelta operata dal Sindaco
nominante, titolare dell'organo politico "de quo", non
risulta essersi basata su una preventiva
valutazione soggettiva di consonanza politica e personale
tra il nominante e il soggetto
incaricato né si deduce che l'incarico sia stato attribuito
per svolgere compiti di collaborazione
diretta al processo di formazione del relativo indirizzo
politico.
Inoltre, pure dai numerosi riscontri positivi ottenuti dal
Ro.Fi. in sede di
valutazione è facile arguire che, tutt'al più, si sia
trattato di una "fiducia" nella preparazione
tecnico-professionale dell'incaricato allo svolgimento delle
diverse funzioni via via affidategli,
con l'obbligo di perseguire in veste neutrale risultati ed
obiettivi indicati dall'Amministrazione in
conformità con gli indirizzi deliberati dagli organi di
governo dell'Ente;
b) con riguardo alla interpretazione della clausola relativa
alla durata del contratto
accessorio al provvedimento di conferimento dell'incarico,
risulta viziata altresì dalla mancata
applicazione corretta degli artt. 1362 e ss. cod. civ., che
invece avrebbe consentito di dare alla
clausola stessa il significato di attribuire al contratto
una durata quinquennale, come stabilito
dalla normativa di riferimento (in particolare dall'art.
110, comma 3, TUEL, primo periodo, cit.,
interpretato in conformità con l'art. 97 Cost.).
IV — Conclusioni
14. In sintesi, per le ragioni dianzi esposte il ricorso
deve essere accolto, con assorbimento di ogni altro profilo
di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con
rinvio, anche per le spese del presente giudizio di
cassazione, alla Corte d'appello di Reggio Calabria, in
diversa composizione, che si atterrà, nell'ulteriore esame
del merito della controversia, a tutti i principi su
affermati e, quindi, anche ai seguenti:
1) nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle
Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi
dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte
costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e
n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in
cui l'applicazione dello "spoils system" può essere
ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui
all'art. 97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i
requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché
della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da
nominare, con la ulteriore specificazione che la "fiduciarietà",
per legittimare l'applicazione del suindicato meccanismo,
deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di
consonanza politica e personale con il titolare dell'organo
politico, che di volta in volta viene in considerazione come
nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di
incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il
compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo
svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto
agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente
di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà"
della scelta del soggetto da nominare non si configura come
preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e
personale con il titolare dell'organo politico nominante
(vedi, da ultimo: Corte cost. sentenza n. 269 del 2016);
2) l'interpretazione costituzionalmente orientata
al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla
consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils
system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110,
commi 3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con
l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che
un incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica
il compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento
(nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco
di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del
termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato
elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di
anticipata cessazione da parte del Comune stesso a causa
della morte improvvisa del Sindaco persona fisica nominante,
sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico
medesimo
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 05.05.2017 n. 11015). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto,
l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del
costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a
quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che
sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono
“tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia
non è soltanto il costruttore, ma anche il committente,
mentre il proprietario non autore dell’abuso e non
committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto
ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella
realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori.
----------------
... per l'annullamento della determinazione 02.01.2017, n. 3,
del Responsabile del Settore Tecnico e di Pianificazione del
Territorio del Comune di Sangano (comunicata in data
14.01.2017), con la quale è stata applicata nei confronti dei
sig.ri Ba.An., Ba.Ro., Ga.Ch. e Ve.Da., ai sensi dell'art. 34, c. 2, D.P.R.
380/2001, la sanzione pecuniaria di Euro 62.433,41 a titolo
di ‘fiscalizzazione' per la realizzazione di opere in
parziale difformità dalla concessione edilizia n. 55/1973
ed, in particolare, per l'ampliamento di 35,93 mq. della
superficie dell'edificio di civile abitazione ubicato in via
.. n. 1 - via ... (doc. 9);
...
5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con
sentenza in forma semplificata alla luce di recenti
decisioni della Sezione che si sono pronunciate su
fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme
alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di
ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione
che “Il secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto,
l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del
costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a
quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che
sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono
“tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia
non è soltanto il costruttore, ma anche il committente,
mentre il proprietario non autore dell’abuso e non
committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto
ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella
realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna,
sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater,
10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria,
sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti
già citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per
discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in
esame.
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i
ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso
accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i
soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare
del permesso di costruire, committente, costruttore,
direttore dei lavori). Essi hanno acquistato la proprietà
delle rispettive unità immobiliari solo in anni recenti, tra
il 1984 e il 2008, mentre l’abuso edilizio è stato posto in
essere all’epoca di realizzazione dell’intero fabbricato,
tra il 1973 e il 1974, e comunque certamente prima del 1984,
come dimostra il primo atto pubblico di vendita posto in
essere dai titolari della concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito Notaio Pi. in
data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979, docc. 3 e 3-bis),
che già aveva ad oggetto due unità immobiliari al piano
terreno, in luogo dell’unica assentita dall’amministrazione,
e due unità immobiliari al primo piano, nella stessa
conformazione plano-volumetrica accertata attualmente dal
Comune di Sangano e fatta oggetto del provvedimento
sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto,
l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è
stato adottato nei confronti di soggetti privi della
qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2, DPR
380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria
ivi prevista
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimo il provvedimento di revoca del passo carrabile se
il garage diventa ufficio.
Non è possibile mantenere un passo carrabile di fronte ad un
ufficio che in precedenza era adibito a locale destinato al
ricovero dei veicoli. Anche se saltuariamente questo
manufatto viene utilizzato per ricoverare veicoli a due
ruote.
Ai sensi dell’art. 46, comma 2, lett.
B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve consentire
l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo
stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il
locale in riferimento al quale viene concesso il passo
carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il
rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che
esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere
utilizzati a fini commerciali.
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini
commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti
dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore
serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta
circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione
d’uso impressa dalla stessa ricorrente.
----------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del
01.12.2016, notificato il 21.12.2016, con il quale è stata
disposta “la revoca della concessione per l'esercizio di
passo carrabile n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la
riconsegna del cartello n. 6947 di Passo Carrabile (…)
nonché il ripristino (…) dello stato dei luoghi (rifacimento
marciapiede in corrispondenza del n. civico 12/r)”;
- di ogni altro atto presupposto, attuativo e/o comunque
connesso a tale provvedimento, se lesivo, ivi compresi:
a) la comunicazione di inizio del procedimento di revoca della
concessione passo carrabile n. 6947/1996, a firma del
Responsabile della Direzione Nuove Infrastrutture e
Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali e Autorizzazioni;
b) la comunicazione del 30.01.2017, Responsabile della Direzione
Nuove Infrastrutture e Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali
e Autorizzazioni, di conferma della provvedimento di revoca.
...
Con il presente ricorso la Sig.ra Ca.Al. ha impugnato il
provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del 01.12.2016,
notificato il 21.12.2016, con il quale è stata disposta “la
revoca della concessione per l’esercizio di passo carrabile
n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la riconsegna del
cartello n. 6947”, unitamente all’impugnazione degli
atti ad esso presupposti, tra i quali, la comunicazione del
30.01.2017 del Comune Firenze di conferma della
provvedimento di revoca.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
Con i due motivi di gravame, la cui sostanziale analogia
delle argomentazioni proposte consente una trattazione
unitaria, si sostiene che l’Amministrazione comunale avrebbe
ingenerato l’affidamento circa l’ammissibilità del
mantenimento del passo carrabile anche in presenza di locali
utilizzati ad uso “uffici” e, ancora, la violazione
dell’art. 46, comma 2, lett. b), del Dpr 495/1992.
Al riguardo va rilevato che, nel corso della voltura del
2005, era stata la stessa Sig.ra Ca. a dichiarare che
l’autorimessa e/o lo spazio aperto a cui si accede con il
passo carrabile “è permanentemente e continuativamente
destinato a ricovero di veicoli e che in caso di cambiamenti
nella destinazione d’uso questi saranno tempestivamente
comunicati”.
L’autorizzazione per il passo carrabile è stata dunque
rilasciata sul presupposto della veridicità delle
dichiarazioni rese dalla Sig.ra Ca. e in funzione di una
precisa utilizzazione dei locali, circostanze queste ultime
che sono state smentite dagli accertamenti posti in essere.
In particolare dal verbale del 21.09.2016 si desume che,
contrariamente a quanto affermato, dal passo carrabile si
accedeva ad un’agenzia di assicurazioni e, quindi, non a
locali adibiti al ricovero di veicoli, ma a locali
utilizzati a ufficio (circostanza comprovata dalla
documentazione in atti ed in particolare dal contratto di
locazione sottoscritto dalla ricorrente e dal materiale
fotografico allegato al ricorso).
Ciò premesso è evidente che, a fronte dell’insussistenza dei
presupposti per il mantenimento del passo carrabile, il
Comune di Firenze non avrebbe potuto che adottare il
provvedimento di revoca ora impugnato.
Si consideri, infatti, che, ai sensi dell’art. 46, comma 2,
lett. B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve
consentire l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo
stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il
locale in riferimento al quale viene concesso il passo
carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il
rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che
esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere
utilizzati a fini commerciali (in questo senso si veda TAR
Toscana Firenze Sez. III, 17.02.2006, n. 485).
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini
commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti
dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore
serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta
circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione
d’uso impressa dalla stessa ricorrente.
In definitiva l’infondatezza delle censure dedotte consente
di respingere il ricorso (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
12.04.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire
e formazione
del silenzio assenso
“La formazione del silenzio-assenso
sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza
sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non
determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni
qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto
previsti dalla norma, tenendo presente che il
silenzio-assenso non può formarsi in assenza della
documentazione completa prescritta dalle norme in materia
per il rilascio del titolo edilizio, in quanto l'eventuale
inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento
espresso”; e tanto perché “il silenzio equivale al
provvedimento amministrativo, e ciò non incide in senso
abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che
rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di
conseguimento dell’autorizzazione”.
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai
fini della formazione del provvedimento silenzioso, la
dichiarazione del progettista abilitato che assevera la
conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente
“poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento
favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di
semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il
conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente
conforme alla disciplina urbanistica”; ragion per cui, “non
può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in
cui il progettista si sia limitato ad affermare
genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla
vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione
sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato
l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti
della conformità e della compatibilità (quest'ultima,
infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla
stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che
le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca
dal progettista, soprattutto in considerazione delle
relative responsabilità, anche sul piano penale”, atteso
anche che “La formazione del silenzio assenso sulle domande
di concessione edilizia ha carattere limitato ed è
subordinato alla esistenza di uno strumento urbanistico
vigente ed adeguato alle prescrizioni ed agli standard
introdotti dalla l. n. 765 del 1967, nonché di una
programmazione urbanistica di dettaglio, tale da non
lasciare all'amministrazione alcuno spazio di
discrezionalità, neppure sotto il profilo tecnico”.
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la
documentazione deve essere data prova, alla stregua degli
ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.),
dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui
copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente
accessibile mediante l'impiego degli strumenti
procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento”.
---------------
Oggetto della domanda demolitoria proposta in questa sede è
la nota prot. n. 5245/2012 del 05/12/2012, con cui il Comune
di Cautano - Sportello Unico per l'Edilizia ha inviato a
Ma.Lu. [la quale, in data 04.07.2012, aveva
presentato un’istanza (prot. n. 3181) per il rilascio di un
permesso di costruire volto al “mutamento di destinazione
d’uso per uso residenziale del nucleo familiare del
proprietario, L.R. n. 19/2009 mod. dalla L.R. n. 1/2011 art.
6-bis (piano casa bis)”, in relazione a cui, peraltro, già
vi era stata una richiesta di integrazione documentale (con
nota prot. n. 3352 del 05.07.2012), riscontrata positivamente
dall’interessata il successivo 03.08.2012 (prot. n. 3701)] la
seguente comunicazione: “in riferimento alla domanda di PDC
in oggetto, la Commissione Edilizia nella seduta del
26/11/2012 ha rinviato la pratica con osservazioni e per
acquisire relazione tecnica asseverata sui titoli
abilitativi pregressi con allegati grafici”; contestualmente
evidenziandosi che "nel caso di mancata
integrazione”l’Ufficio“trascorso il termine perentorio di 60
giorni dalla data della ricezione” avrebbe archiviato
l’istanza edilizia.
A sostegno di detta domanda, parte ricorrente prospetta un
unico, articolato motivo di ricorso.
Ciò posto, va preliminarmente rilevato che, pur avendo la
citata nota natura di atto infraprocedimentale, la sua
impugnazione risulta ammissibile per essere essa
suscettibile di determinare un arresto del procedimento
edilizio attivato dalla Matarazzo, con conseguente lesione
dell’interesse legittimo di costei, in caso di mancata
produzione da parte sua di una “relazione tecnica asseverata
sui titoli abilitativi pregressi con allegati grafici”
(richiesta di cui appunto viene contestata qui la
legittimità).
Nel merito, va disattesa la censura incentrata sull’asserito
sostanziarsi, secondo il modulo previsto dall’art. 20 DPR
380/2001 (nella formulazione applicabile ratione temporis),
del silenzio assenso sulla presentata domanda di permesso di
costruire.
Va premesso, invero, conformemente a condivisibile
giurisprudenza, che “La formazione del silenzio-assenso
sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza
sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non
determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni
qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto
previsti dalla norma, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in assenza della documentazione
completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio
del titolo edilizio, in quanto l'eventuale inerzia
dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare
agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero
mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso” (così
TAR Campania-Napoli n. 110 del 29.02.2016; nonché cfr. TAR Puglia-Lecce n. 3342 del 19.01.2015); e tanto perché “il
silenzio equivale al provvedimento amministrativo, e ciò non
incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, ma introduce una
modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione”
(così TAR Puglia-Bari n. 37 del 14.01.2016).
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai
fini della formazione del provvedimento silenzioso, la
dichiarazione del progettista abilitato che assevera la
conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente
“poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento
favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di
semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il
conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente
conforme alla disciplina urbanistica” (così TAR Abruzzo-Pescara n. 486 del
03.12.2014); ragion per cui, “non
può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in
cui il progettista si sia limitato ad affermare
genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla
vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione
sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato
l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti
della conformità e della compatibilità (quest'ultima,
infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla
stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che
le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca
dal progettista, soprattutto in considerazione delle
relative responsabilità, anche sul piano penale” (così TAR Campania-Napoli n. 2281 del
03.05.2013), atteso anche che “La
formazione del silenzio assenso sulle domande di concessione
edilizia ha carattere limitato ed è subordinato alla
esistenza di uno strumento urbanistico vigente ed adeguato
alle prescrizioni ed agli standard introdotti dalla l. n.
765 del 1967, nonché di una programmazione urbanistica di
dettaglio, tale da non lasciare all'amministrazione alcuno
spazio di discrezionalità, neppure sotto il profilo
tecnico” (così Cons. di Stato sez. V, n. 3796 del
17.07.2014).
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la
documentazione deve essere data prova, alla stregua degli
ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.),
dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui
copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente
accessibile mediante l'impiego degli strumenti
procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento”
(così TAR Lazio-Roma n. 9267 del 09.08.2016).
Orbene, nella fattispecie in esame, dalla prodotta copia
della “richiesta di permesso di costruire inoltrata in data
04.07.2012 prot. n. 3181 e documentazione allegata” (cfr.
indice della produzione di parte ricorrente) presentata al
Comune di Cautano, risultano sì essere state allegate alla
pratica edilizia, una “relazione tecnica” e una “relazione
paesaggistica”, entrambe a firma dell’architetto Co.Ca., ma le stesse non risultano essere munite della
formale asseverazione prescritta dall’art. 20, co. 1, DPR
380/2001, specificamente richiesta quanto alla “conformità
del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed
adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie
nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non
comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme
relative all'efficienza energetica”; come pure non emerge
la presentazione della “attestazione concernente il titolo
di legittimazione” pure richiesta dal medesimo articolo: e
appunto tali carenze portano ad escludere che sussistessero
i presupposti per la formazione dell’invocato silenzio-assenso.
E’ fondata, viceversa, l’ulteriore censura incentrata
sull’assunto che la richiesta di integrazione documentale
sarebbe in violazione degli artt. 9-bis e 20 co. 5 DPR
380/2001.
Deve, infatti, convenirsi con la difesa di parte
ricorrente, allorché evidenzia che i “titoli abilitativi
pregressi” relativi al fabbricato oggetto del progettato
intervento sono atti già in disponibilità
dell’Amministrazione procedente, ovvero da questa
acquisibili autonomamente, per cui la richiesta di una
“relazione tecnica asseverata” in ordine ad essi, “con
allegati grafici” risulta del tutto ultronea e dilatoria;
come anche dimostrato dalla circostanza che si tratta di una
seconda richiesta di integrazione documentale, laddove
appunto il comma 5 del ricordato art. 20 DPR 380/2001
consente un’unica interruzione procedimentale per acquisire
“documenti che integrino o completino la documentazione
presentata”.
Non sussiste, infine, la necessità di esaminare la censura
incentrata sull’asserzione della non necessità, per
l’intervento de quo, del previo rilascio di una
autorizzazione paesaggistica, non figurando tale
problematica tra le ragioni ostative ad una positiva
conclusione del procedimento edilizio.
Pertanto, l’atto impugnato va annullato, salvi comunque
rimanendo gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione
procedente in ordine alla definizione della pratica edilizia
in questione (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 03.04.2017 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Non
vi è dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato non possa andare incontro a una responsabilità
di posizione, in difetto di elementi di diretta
partecipazione al reato o di un contributo materiale o
morale nell'illecita gestione dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza
autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono
realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che
essi non possono consistere nel mero mantenimento della
discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in
assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla
sola consapevolezza della loro esistenza, salvo che risulti
integrata una condotta concorsuale mediante condotta
omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l'obbligo
giuridico di impedire la realizzazione od il mantenimento
dell'evento lesivo.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel
ritenere che, in materia di rifiuti, non è configurabile in
forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo,
D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un
terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato
rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si
attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale
responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo
giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento
dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo
ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
---------------
1. I ricorsi sono infondati.
2. Come ha correttamente argomentato il procuratore Generale
non vi è
dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o
depositato rifiuti in modo incontrollato non possa andare
incontro a una
responsabilità di posizione, in difetto di elementi di
diretta partecipazione al
reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita
gestione dei rifiuti.
I reati
di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e
stoccaggio di rifiuti
tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati
permanenti, che
possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne
consegue che essi non
possono consistere nel mero mantenimento della discarica o
dello stoccaggio da
altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione
attiva e in base alla sola
consapevolezza della loro esistenza (Sez. U, n. 12753 del
05/10/1994,
Zaccarelli, Rv. 199385), salvo che risulti integrata una
condotta concorsuale
mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto
aveva l'obbligo giuridico di impedire la realizzazione od il
mantenimento dell'evento lesivo (Sez. F, n. 44274
del 13/08/2004, Preziosi, Rv. 230173).
Sul punto, come ricorda lo stesso ricorrente, la
giurisprudenza di legittimità
è ferma nel ritenere che, in materia di rifiuti, non è
configurabile in forma
omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs.
n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o
depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in
cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un
obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il
mantenimento dell'evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, Rv.
266030).
Nel caso in esame, tuttavia, l'accusa ipotizza che gli
indagati abbiano
realizzato o comunque gestito una discarica non autorizzata
sul proprio terreno.
Va ricordato che, in sede di riesame del sequestro
probatorio, il tribunale è
chiamato a verificare l'astratta configurabilità del reato
ipotizzato, valutando il
"fumus commissi delicti" in relazione alla congruità degli
elementi rappresentati,
non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla
concreta fondatezza
dell'accusa, bensì con esclusivo riferimento alla idoneità
degli elementi, su cui si
fonda la notizia di reato, a rendere utile l'espletamento di
ulteriori indagini per
acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti
esperibili senza la
sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso
nella disponibilità
dell'autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 15254 del 10/03/2015, Previtero, Rv. 263053)
sicché, in materia di riesame del vincolo probatorio, il
sindacato del giudice non
può investire la concreta fondatezza dell'accusa, ma è
circoscritto alla verifica
dell'astratta possibilità di sussumere il fatto in una
determinata ipotesi di reato e
al controllo circa la qualificazione dell'oggetto
sequestrato come corpus delicti e,
quindi, all'esistenza di una relazione di immediatezza tra
il bene stesso e l'illecito
penale.
Ciò posto, il tribunale ha osservato i suddetti principi ed
ha anche dato atto
tanto delle finalità probatorie perseguite dal pubblico
ministero quanto della
serietà del progetto investigativo finalizzato ad eseguire
ulteriori accertamenti
già delegati alla polizia giudiziaria con atto del 18.12.2015, con la
conseguenza che la doglianza formulata non ha alcun
fondamento né sotto il
profilo del fumus e neppure riguardo alle perseguite
finalità probatorie.
3. I ricorsi vanno pertanto rigettati
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.03.2017 n. 14503). |
URBANISTICA:
I Piani urbanistici attuativi devono contenere le
indicazioni anche per gli edifici pubblici.
E' da ritenersi illegittimo il Piano
urbanistico attuativo che prevede la riqualificazione di
un'area dismessa quantificando gli standard di parcheggio
con esclusivo riferimento alle destinazioni private
(residenze, uffici e negozi), senza indicazioni per quanto
riguarda gli edifici pubblici.
Con riferimento ai piani di attuazione
degli strumenti urbanistici generali, ai sensi della
disposizione contenuta nell'art. 22 l.r. Lombardia 51/1975,
(come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la
dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le
singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia
multipiano, è legittimo individuare la superficie
complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r.
Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli
standards urbanistici a livello comunale, prevedono che
negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione
globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature
pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli
insediamenti residenziali rimettendo alla potestà
discrezionale dell'amministrazione in relazione alle
effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni
di distribuzione della stessa dotazione fra quattro
categorie di opere (la prima delle quali concerne
l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la
determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle
attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti
criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza
di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di
strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti.
---------------
7.4. Infine, è fondata la censura con la quale l’appellante
lamenta che il TAR avrebbe dovuto rilevare come fosse
corretta la scelta dell’amministrazione di rinunciare alla
realizzazione del P.I.I. stante la sua illegittimità per
violazione dell’art. 22, l.r. Lombardia, n. 51/1975, nella
parte in cui, pur avendo contemplato la formazione di
rilevanti strutture che generano fabbisogno di parcheggi,
quali il nuovo municipio e la sala espositiva biblioteca,
non prevedeva contestualmente la formazione degli standard
di supporto.
Al riguardo, infatti, deve essere richiamata la copiosa
giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., Sez. IV,
16.12.2003, n. 8234) che ha precisato come con riferimento
ai piani di attuazione degli strumenti urbanistici generali,
ai sensi della disposizione contenuta nell'art. 22 cit.,
(come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la
dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le
singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia
multipiano, è legittimo individuare la superficie
complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r.
Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli
standards urbanistici a livello comunale, prevedono che
negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione
globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature
pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli
insediamenti residenziali rimettendo alla potestà
discrezionale dell'amministrazione in relazione alle
effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni
di distribuzione della stessa dotazione fra quattro
categorie di opere (la prima delle quali concerne
l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la
determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle
attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti
criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza
di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di
strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti
(Cons. St., Sez. IV, 09.04.1984, n. 226) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.02.2017 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Agente degradato.
Svilire la professionalità di un agente di polizia può
configurare mobbing e dare luogo al risarcimento del danno.
Il comune non può mortificare un agente di polizia
municipale sottraendogli ogni attività e relegandolo in un
ufficio cimiteriale. In questo caso scatterà addirittura il
mobbing e l'amministrazione sarà costretta a risarcire il
danno patito dallo sfortunato operatore.
Al fine di configurare
il mobbing lavorativo, questa Corte ha
affermato che devono ricorrere:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o
anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento
vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo
miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente
da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche
da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo
dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità
del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio
subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica
e/o nella propria dignità;
d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di
tutti i comportamenti lesivi.
---------------
1. Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 4 e 6
d.lgs. 165/2001 per avere la Corte di
appello ritenuto illegittime le delibere della giunta
comunale del luglio 2004, con cui il Ba.
venne inquadrato nella qualifica Istruttore Amministrativo;
tali determinazioni avevano ad
oggetto modifiche della pianta organica, materia che esula
dalla competenza dirigenziale.
Dal
secondo all'ottavo motivo il ricorso denuncia vizi di
motivazione, così sintetizzabili: 2-3)
omessa motivazione in ordine alla necessità, da parte del
Comune, nell'esercizio dello ius
variandi, di rinvenire una collocazione adeguata al
dipendente giudicato inidoneo ai servizi
esterni; 4) contraddittoria motivazione in ordine alla
disamina e valutazione delle deposizioni
dei testi Ba. e Be. in merito alla ritenuta
inattività lavorativa in cui sarebbe stato
lasciato il dipendente; 5) erronea valutazione di
inattendibilità del teste Ma.; 6)
contraddittorietà della sentenza nella valorizzazione della
deposizione della teste Be. a
fronte della deposizione del teste Ba.; 7) motivazione
contraddittoria circa la deposizione
del teste Barone in merito all'assegnazione della sede di
lavoro del Ba. presso gli "uffici
cimiteriali"; 8) omessa motivazione in ordine alla
circostanza che il Ba. per circa tre anni
(dal 1998 al 2001) svolse regolarmente la propria attività
in qualità di vigile urbano addetto
anche ai servizi esterni.
2. Al punto nove, parte ricorrente contesta la sussistenza
del mobbing, deducendo che il
Ba. prestò regolare servizio per un triennio senza nulla
lamentare, ma nell'immediatezza
del verbale della Commissione medica si rifiutò di prestare
servizio esterno anche in via
sporadica; il Comune chiese la revoca della qualifica di
Agente di Polizia Municipale, non avendo necessità di un
agente che prestasse servizio interno e procedette ad
inquadrare il
Ba. quale Istruttore Amministrativo; d) lo stesso viene
successivamente assegnato
all'Ufficio Tributi. Alla stregua dei fatti, non vi erano
elementi per affermare l'esistenza di un
intento persecutorio o di vessazioni poste in essere dal
Comune ai danni del proprio
dipendente.
3. Il ricorso è infondato.
4. Quanto alla questione di diritto oggetto del primo
motivo, deve rilevarsene l'inammissibilità
per essere il ricorso carente dei requisiti di indicazione e
di allegazione, di cui agli artt. 366,
primo comma, n. 6 c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c.
non risultando le delibere vertenti
sullo ius variandi trascritte né in tutto né in parte e non
essendo indicata la sede della loro
produzione in giudizio (ex plurimis, Cass. n. 26174 del
2014, n. 2966 del 2014, n. 15628 del
2009; cfr. pure Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. n.
22302 del 2008, n. 4220 del 2012,
n. 8569 del 2013 n. 14784 del 2015 e, tra le più recenti,
Cass. n. 6556 del 14.03.2013, n.
16900 del 2015).
Vi è un duplice onere a carico del
ricorrente, quello di produrre il documento
e quello di indicarne il contenuto. Il primo onere va
adempiuto indicando esattamente nel
ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di
parte si trovi il documento in questione;
il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo
nel ricorso il contenuto del
documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri
rende il ricorso inammissibile.
4.1. Il motivo è inammissibile anche per altra ragione:
l'illegittimità dell'atto è stata valutata
dalla Corte di appello anche (e soprattutto) per il
demansionamento in cui il mutamento di
assegnazione si espresse. Valutando il complesso delle
acquisizioni istruttorie, la Corte di
merito ha rilevato che sin da settembre/ottobre 2004 il Ba., nella nuova posizione
assegnata, venne dapprima relegato a compiti esecutivi non
riconducibili a profili della
categoria di inquadramento (area C), ma riferibili
addirittura a mansioni di area A, e
successivamente venne privato del tutto delle mansioni.
4.2. Esula quindi dall'oggetto del giudizio ogni
problematica sull'equivalenza delle mansioni in
relazione all'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 e dell'esercizio
dello ius variandi datoriale in relazione alla
dedotta esigibilità di tutte le mansioni ascrivibili a
ciascuna categoria. Il Ba. non venne
adibito alle mansioni proprie del profilo assegnato di
Istruttore Amministrativo, ma ad altre
(ben inferiori) non riconducibili a da quelle proprie della
categoria di appartenenza. Del pari, la
sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere
costituisce ipotesi vietata anche
nell'ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009,
n. 11405 del 2010, nonché Cass. n.
687 del 2014).
5. Per il resto, il ricorso sostanzialmente tende a proporre
una diversa valutazione dei fatti con
formulazione, in definitiva, di una richiesta di
duplicazione del giudizio di merito.
Costituisce principio
consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al
giudice di legittimità non il
potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda
processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo
la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza
giuridica e della coerenza logico-formale,
delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale
spetta, in via esclusiva, il compito di
individuare le fonti del proprio convincimento, di
controllarne l'attendibilità e la concludenza, di
scegliere, tra le complessive risultanze del processo,
quelle ritenute maggiormente idonee a
dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando
così liberamente prevalenza all'uno o
all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi
tassativamente previsti dalla legge.
5.1. Nella specie, la Corte di merito ha ricostruito, alla
stregua delle risultanze della prova
testimoniale e documentale, i numerosi elementi atti a
configurare, nel loro concorso, il
mobbing lavorativo. Come questa Corte ha affermato, a tal
fine devono ricorrere:
a) una serie
di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o
anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro
la vittima in modo miratamente
sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte
del datore di lavoro o di un suo
preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al
potere direttivo dei primi;
b)
l'evento lesivo della salute, della personalità o della
dignità del dipendente;
c) il nesso
eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito
dalla vittima nella propria integrità
psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l'elemento
soggettivo, cioè l'intento persecutorio
unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del
2014).
5.2. La ricostruzione della vicenda operata dal giudice di
merito è agevolmente sussumibile
nella fattispecie astratta così definita. La soluzione si
fonda su un giudizio valutativo immune
da vizi logici e adeguato a sorreggere la decisione, dovendo
altresì osservarsi che il controllo di
logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 n.
5 c.p.c., non equivale alla revisione del
"ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto
il giudice del merito ad una
determinata soluzione della questione esaminata, posto che
una simile revisione, in realtà, non
sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe
sostanzialmente in una sua nuova
formulazione, contrariamente alla funzione assegnata
dall'ordinamento al giudice di legittimità.
5.3. Ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito
del vizio di motivazione ogni
possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un
nuovo giudizio di merito attraverso
l'autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti
di causa. Né, ugualmente, la stessa
Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è
demandato, ma inevitabilmente
compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se -confrontando la sentenza con le
risultanze istruttorie- prendesse in considerazione fatti
probatori diversi o ulteriori rispetto a
quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua
decisione, accogliendo il ricorso
"sub specie" di omesso esame di un punto (v. Cass. n.
3161/2002).
5.4. Deve poi osservarsi, quanto alle censure vertenti sulla
omessa considerazione di fatti
ritenuti decisivi, che costituisce fatto (o punto) decisivo
ai sensi del'art. 360, primo comma, n.
5, c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate
dall'art. 54, comma 1, lett. b, del D.L. 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L.
07.08.2012, n. 134), quello la cui
differente considerazione è idonea a comportare, con
certezza, una decisione diversa (Cass.
n. 18368 del 31.07.2013); la nozione di decisività
concerne non il fatto sulla cui ricostruzione
il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del
vizio denunciato, ove riconosciuto, a
determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, inerisce
al nesso di casualità fra il vizio della
motivazione e la decisione, essendo peraltro necessario che
il vizio, una volta riconosciuto
esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si
sarebbe avuta una ricostruzione del
fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non
già la sola possibilità o probabilità di
essa. (v., ex plurimis, Cass. n. 3668 e 20612 del 2013).
5.5. Nella specie, i dedotti vizi di motivazione non
corrispondono al modello enucleabile negli
esposti termini dal n. 5 del citato art. 360 c.p.c., poiché,
si sostanziano nel ripercorrere
criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice
del rinvio; nel valutare le stesse
risultanze istruttorie da quest'ultimo esaminate; nel trarne
implicazioni e spunti per la
ricostruzione della vicenda in senso difforme da quello
esposto nella sentenza impugnata; nel
desumerne apprezzamenti circa la maggiore o minore valenza
probatoria di alcun elementi
rispetto ad altri. Essi, dunque, incidono sull'intrinseco
delle opzioni nelle quali propriamente si
concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso
estranee all'ambito meramente
estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di
legittimità (v. ex plurimis Cass. n. 6288 del
2011).
6. Il ricorso va, pertanto, respinto. Nulla va disposto
quanto alle spese del giudizio di
legittimità, in mancanza di attività difensiva dell'intimato
(Corte di
Cassazione, Sez. Lavoro,
sentenza 27.01.2017 n. 2142). |
EDILIZIA PRIVATA: Che
la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge
17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque può prendere
visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e
dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio
della licenza edilizia in quanto in contrasto con le
disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le
prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani
particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso
introdurre una forma di azione popolare, è affermazione
troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici
precedenti.
Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato dall’art.
136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, in
ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo
l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di
Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere
riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo
in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui
la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una
situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio
ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che,
dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non
edificazione gravante sul terreno della controparte e della
perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà,
censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione
dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza
dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano
provocato uno specifico danno e, in particolare, una
diminuzione del valore economico dei beni, costituendo
questa una questione di merito irrilevante sulla condizione
dell'azione.
---------------
Non è consentito al giudice di anticipare alla fase dello
scrutinio della sussistenza dell’interesse (e della
legittimazione) a ricorrere la verifica del rispetto o meno
dell'assetto prodotto dall'intervento contestato, perché è
sufficiente l'astratta prospettazione della suscettibilità
del contrasto con siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a
coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona
ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo
diverso, uno stabile collegamento a consentire di
riconoscerne l’interesse, oltre che la legittimazione
attiva, al ricorso giurisdizionale avverso le scelte
compiute.
---------------
25.1. Quanto al primo motivo, non ha pregio
l’eccezione di carenza di interesse in capo all’originario
ricorrente, già vagliata e respinta dal TAR e riproposta in
questo grado di giudizio.
25.1.1. Che la regola sancita dall’art. 31, nono comma,
della legge 17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque
può prendere visione presso gli uffici comunali, della
licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere
contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in
contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o
con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani
particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso
introdurre una forma di azione popolare, è affermazione
troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici
precedenti.
25.1.2. Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato
dall’art. 136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del
2001, in ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo
l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di
Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere
riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo
in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui
la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una
situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio
ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che,
dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non
edificazione gravante sul terreno della controparte e della
perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà,
censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione
dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza
dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano
provocato uno specifico danno e, in particolare, una
diminuzione del valore economico dei beni, costituendo
questa una questione di merito irrilevante sulla condizione
dell'azione (cfr. per tutte, in termini, sez. VI,
15.06.2010, n. 3744; sez. IV, 08.07.2013, n. 3596; sez. IV,
18.11.2014, n. 3596; sez. IV, 12.11.2015, n. 5160; sez. IV,
06.06.2016, n. 2395; sez. IV, 26.07.2016, n. 3330).
25.1.3. In definitiva, non è consentito al giudice di
anticipare alla fase dello scrutinio della sussistenza
dell’interesse (e della legittimazione) a ricorrere la
verifica del rispetto o meno dell'assetto prodotto
dall'intervento contestato, perché è sufficiente l'astratta
prospettazione della suscettibilità del contrasto con
siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a coloro che siano
titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la
stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile
collegamento a consentire di riconoscerne l’interesse, oltre
che la legittimazione attiva, al ricorso giurisdizionale
avverso le scelte compiute (cfr. sez. IV, 12.06.2013, n.
3257)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio è dell’avviso che il modulo
procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R. n.
160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui
interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art.
5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente
richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
La necessità dell’assenso regionale, espressa nella
disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010,
era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del
d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta
l'approvazione della Regione, le attribuzioni di
quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione
alla conferenza di servizi nei termini previsti
dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n.
24, nel testo all’epoca vigente.
Deve dunque dirsi che:
a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso
di specie la Provincia) sia essenziale al completamento
dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la
Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono
parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle
disposizioni ricordate;
b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra
procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla
natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto
interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere
contrario, producendo un arresto definitivo che termina
nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia
lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale,
può essere immediatamente impugnato dal destinatario;
c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella
Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una
proposta di variante dello strumento urbanistico
(espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998;
implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione
definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta-
spetta al Consiglio comunale;
e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente
destinata a essere evocata in giudizio;
f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito
nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è
necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della
deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante
del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un
atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla
variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre
neppure che lo stesso venga impugnato.
---------------
Per giurisprudenza costante, la procedura semplificata di
variante urbanistica ha carattere eccezionale e derogatorio
della disciplina generale, sicché non può trovare
applicazione al di fuori delle ipotesi specificamente
previste dalla norma, e i presupposti fattuali, da cui si
assume nascere l’esigenza di tale variante, vanno accertati
con in modo oggettivo con il dovuto rigore.
Secondo la normativa vigente, la variante semplificata può
essere adottata “nei comuni in cui lo strumento urbanistico
non individua aree destinate all'insediamento di impianti
produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva
l'applicazione della relativa disciplina regionale” (art. 8
del d.p.r. n. 160/2010, cit.).
---------------
26. Del pari
infondati sono i motivi dell’appello n. 4840/2016.
26.1 Non ha pregio il primo motivo, con il quale il
Comune appellante rinnova un’eccezione di inammissibilità
del ricorso di primo grado, già rigettata dal TAR e fondata
sull’omessa notifica alla Provincia di Perugia dell’atto
introduttivo del giudizio.
26.1.1. Condividendo pienamente le osservazioni del
Tribunale regionale sul punto, il Collegio è dell’avviso che
il modulo procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R.
n. 160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui
interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art.
5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente
richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
26.1.2. La necessità dell’assenso regionale, espressa nella
disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010,
era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del
d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta
l'approvazione della Regione, le attribuzioni di
quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione
alla conferenza di servizi nei termini previsti
dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n.
24, nel testo all’epoca vigente.
26.1.3. Deve dunque dirsi che:
a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso
di specie la Provincia) sia essenziale al completamento
dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la
Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono
parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle
disposizioni ricordate;
b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra
procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla
natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto
interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere
contrario, producendo un arresto definitivo che termina
nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia
lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale,
può essere immediatamente impugnato dal destinatario (per
una problematica analoga -riguardo al ruolo
dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento di
rilascio di un titolo edilizio- Cons. Stato, sez. VI,
12.06.2008, n. 2903; sez. IV, 12.02.2015, n. 738);
c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella
Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una
proposta di variante dello strumento urbanistico
(espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998;
implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione
definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta-
spetta al Consiglio comunale (Cons. Stato, sez. IV,
10.08.2011, n. 4768; sez. IV, 02.10.2012, n. 5187; sez. V,
11.04.2013, n. 1972; sez. IV, 26.05.2014, n. 2667);
e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente
destinata a essere evocata in giudizio;
f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito
nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è
necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della
deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante
del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un
atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla
variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre
neppure che lo stesso venga impugnato (Cons. Stato, n. 2667
del 2014, cit.).
26.1.3. Da ciò, appunto, il rigetto dell’eccezione.
26.2. E’ anche infondato il secondo motivo.
26.2.1. Per giurisprudenza costante, la procedura
semplificata di variante urbanistica ha carattere
eccezionale e derogatorio della disciplina generale, sicché
non può trovare applicazione al di fuori delle ipotesi
specificamente previste dalla norma, e i presupposti
fattuali, da cui si assume nascere l’esigenza di tale
variante, vanno accertati con in modo oggettivo con il
dovuto rigore (Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2006, n. 1038;
sez. IV, 25.06.2007, n. 3593; sez. IV, 15.07.2011, n. 4308;
sez. IV, 08.01.2016, n. 27).
26.2.2. Secondo la normativa vigente, la variante
semplificata può essere adottata “nei comuni in cui lo
strumento urbanistico non individua aree destinate
all'insediamento di impianti produttivi o individua aree
insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa
disciplina regionale” (art. 8 del d.p.r. n. 160/2010,
cit.).
26.2.3. Nel caso di specie, è noto che il capannone
industriale preesisteva e non è stata data alcuna
convincente spiegazione circa l’effettiva necessità di un
ampliamento degli spazi per l’attività di distribuzione di
energia per i veicoli a trazione elettrica.
26.2.4. Sembra piuttosto doversi dire che il Comune, messo
sull’avviso dall’ordinanza cautelare della Sezione n.
3150/2011 (che, resa in relazione al ricorso n. 4654/2011,
ha accolto la domanda cautelare, ma al solo scopo di
mantenere la res integra, considerando tuttavia
prima facie la sentenza appellata esente dalle censure
proposte), abbia inteso utilizzare la speciale procedura
della variante semplificata per un fine improprio, cioè
quello di sanare un insediamento abusivo.
26.2.5. Sono dunque fondate le censure di violazione di
legge e di eccesso di potere per sviamento dalla funzione
tipica, sicché il secondo motivo dell’appello va parimenti
respinto.
26.3. Tanto premesso, non occorre neppure esaminare il terzo
motivo del gravame, essendo acclarata l’illegittimità del
provvedimento impugnato. Tale motivo, per ragioni di
economia processuale, resta perciò assorbito (Cons. Stato,
ad. plen., 27.04.2015, n. 5)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 18.05.2017 |
ã |
SI SCATENA LA GUERRA TRA
"POVERI":
il Legislatore con la mano destra dà
l'«incentivo
funzioni tecniche»
solo ad alcuni dipendenti e con la mano sinistra lo
rivuole indietro mettendo le mani nelle tasche di
tutti gli altri!! |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
per funzioni tecniche - art. 113, comma 2, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 e applicabilità del tetto del salario
accessorio previsto, all’art. 9, comma 2-bis, del d.l.
31.05.2010, n. 78, convertito in l. 30.07.2010, n. 122.
Gli incentivi per funzioni tecniche di
cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da
includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui
all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di
stabilità 2016).
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1. La questione di massima oggetto di esame è incentrata
sull’esclusione o meno dal tetto di spesa per il salario
accessorio dei dipendenti pubblici –già previsto dall’art.
9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1,
comma 236, della legge n. 208/2015– dei compensi destinati a
remunerare le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art.
113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016.
La questione, come sopra accennato, era stata risolta in
senso positivo dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51
delle Sezioni riunite in sede di controllo, con riferimento,
però, all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Preliminarmente, va rilevata la sostanziale sovrapponibilità
del provvedimento di limitazione alla crescita delle risorse
destinate al trattamento accessorio del personale adottato
con l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, rispetto
alla previsione della legge di stabilità 2016.
Quest’ultima norma così dispone: “Nelle more
dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli
articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124, con
particolare riferimento all'omogeneizzazione del trattamento
economico fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto
conto delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal
01.01.2016 l'ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale, anche
di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni,
non può superare il corrispondente importo determinato per
l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in
misura proporzionale alla riduzione del personale in
servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi
della normativa vigente”.
Infatti, gli aspetti innovativi della nuova formulazione
–essenzialmente riferiti al richiamo alle perduranti
esigenze di finanza pubblica, alla prevista attuazione dei
decreti legislativi attuativi della riforma della pubblica
amministrazione, alla considerazione anche del personale
assumibile e all’assenza di una previsione intesa a
consolidare nel tempo le decurtazioni al trattamento
accessorio– non incidono sulla struttura del vincolo di
spesa, come già evidenziato da questa Sezione (deliberazione
07.12.2016 n. 34).
La norma si sostanzia in un vincolo alla crescita dei fondi
integrativi rispetto ad una annualità di riferimento e
nell’automatica riduzione del fondo in misura proporzionale
alla contrazione del personale in servizio.
Le Sezioni riunite, chiamate a pronunciarsi sulla soggezione
di taluni compensi ai tetti di spesa per i trattamenti
accessori posti dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n.
78/2010, hanno ritenuto la norma di stretta interpretazione,
tenuto conto dell’effetto di proliferazione della spesa per
il personale determinato dalla contrattazione integrativa, i
cui meccanismi hanno finito per vanificare l’efficacia delle
altre misure di contenimento della spesa (tra cui i vincoli
assunzionali).
In tale contesto, l’Organo nomofilattico ha individuato
quale criterio discretivo la circostanza che determinati
compensi siano remunerativi di “prestazioni tipiche di
soggetti individuati e individuabili” le quali “potrebbero
essere acquisite anche attraverso il ricorso a personale
estraneo all’amministrazione pubblica con possibili costi
aggiuntivi”. Sussistendo queste condizioni, gli
incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma
7-ter, d.lgs. n. 163/2006, sono stati esclusi dall’ambito
applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, andando a compensare
prestazioni professionali afferenti ad “attività
sostanzialmente finalizzata ad investimenti”.
Peraltro, tale orientamento si riporta alle affermazioni di
questa Sezione (deliberazione
13.11.2009 n. 16)
che, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a
norma dell’art. 1, commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296,
aveva escluso gli incentivi per la progettazione interna di
cui al previgente codice degli appalti a motivo della
loro riconosciuta natura “di spese di investimento,
attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel
titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi
stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non
di spese di funzionamento”.
2. Come ben evidenziato nella delibera di remissione della
Sezione territoriale, il compenso
incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo
codice degli appalti non è sovrapponibile all’incentivo per
la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n.
163/2006, oggi abrogato.
È anzi precisato nella legge delega (art. 1, comma 1, lett.
rr, l. n. 11/2016), che tale compenso va a
remunerare specifiche e determinate attività di natura
tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della
programmazione, predisposizione e controllo delle procedure
di gara e dell’esecuzione del contratto “escludendo
l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Di conseguenza, sono destinate risorse al
fondo di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 (nella
misura del 2% degli importi a base di gara) “esclusivamente
per le attività di programmazione della spesa per
investimenti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici,
di responsabile unico del procedimento, di direzione dei
lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo
tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Diversamente dispone l’art. 113, comma 1, per “gli
oneri inerenti alla progettazione, alla direzione
dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione,
alla vigilanza, ai collaudi tecnici e
amministrativi ovvero alle verifiche di conformità,
al collaudo statico, agli studi e alle
ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento” i quali “fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti”.
È, quindi, fondato il dubbio interpretativo e la remissione
della questione alla Sezione delle autonomie, trattandosi di
fattispecie non assimilabili.
Va, poi, considerato che il compenso
incentivante di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs. n.
50/2016, riguarda non soltanto lavori, ma anche
servizi e forniture,
come anche ritenuto dalla Sezione remittente nel parere reso
sul primo quesito proposto dal Comune di Medicina, il che
aggiunge ulteriori elementi di differenziazione rispetto
all’istituto di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n.
163/2006.
Tale interpretazione è avvalorata dalla giurisprudenza della
Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo
Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato
ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli
appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra
i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro
che svolgono attività relative alla progettazione e al
coordinamento della sicurezza. In tal senso è anche l’avviso
di questa Sezione che, con
deliberazione 13.05.2016 n. 18, ammette che “la
nuova normativa, sostitutiva della precedente, abolisce gli
incentivi alla progettazione previsti dal previgente art.
93, comma 7-ter ed introduce, all’art. 113, nuove forme di
«incentivazione per funzioni tecniche»”.
3. In relazione alla rilevata difformità
della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs.
n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi
alla progettazione, occorre verificare la sussistenza, nei
nuovi “Incentivi per funzioni tecniche”, dei requisiti
fissati dalla Sezione riunite, ai fini della loro inclusione
o meno nei tetti di spesa di cui all’art. 1, comma 236, l.
n. 208/2015.
Per quanto già esposto, va affermato che
nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che
consentano di qualificare la relativa spesa come
finalizzata ad investimenti; il fatto che tali
emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità,
anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che
gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come
spese di funzionamento e, dunque, come spese
correnti (e di personale).
Nel caso di specie, non si ravvisano, poi,
gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite
(nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51),
per escludere gli incentivi di cui trattasi dal
limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del
personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati e
individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a
personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro
disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016.
La citata norma,
infatti –nel disporre che la ripartizione della parte più
consistente delle risorse (l’80%) debba avvenire “per
ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità
e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori” e
che “gli importi sono comprensivi anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione”–
appare indicativa della diversa connotazione degli
incentivi in parola.
È infatti evidente l’intento del
legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli
incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non,
del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del
procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo
codice dei contratti pubblici, all’art. 21, è resa
obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi)
all’esecuzione del contratto. Al contempo, la citata
disposizione richiama gli istituti della contrattazione
decentrata, il che può essere inteso come una sottolineatura
dell’applicazione dei limiti di spesa alle risorse
decentrate.
Per converso, giova ribadire che, nella riscrittura della
materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano
assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi
incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati
con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti, per le spese di progettazione, di direzione dei
lavori o dell’esecuzione, di vigilanza, per i collaudi
tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i
collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la
progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il
coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove
previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti
previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma
dell’art. 113, comma 1, d.lgs. n. 50/2016.
In tal senso, deve essere apprezzato l’intento
chiarificatore del legislatore delegato.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla
Sezione di regionale di controllo per l’Emilia-Romagna con
il
parere 07.12.2016 n. 118, enuncia il seguente
principio di diritto: “Gli incentivi per
funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs.
n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015
(legge di stabilità 2016)”
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 06.04.2017 n. 7). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Gli incentivi per funzioni tecniche rientrano nei
limiti del salario accessorio.
Gli incentivi per funzioni tecniche, di cui all'articolo
113, comma 2 del Dlgs n. 50/2016, sono da includere nel
limite al trattamento accessorio.
Sono queste le conclusioni della
deliberazione 06.04.2017 n. 7, della sezione Autonomie
della Corte dei conti sulla tanto attesa vicenda che ha
lasciato con il fiato sospeso gli operatori degli enti
locali.
Il principio di diritto enunciato, però, creerà non pochi
problemi nella gestione dei fondi del salario accessorio,
portando con sé il rischio di una lotta intestina tra i
dipendenti che parteciperanno alle attività tecniche,
rispetto al resto dei lavoratori.
La cornice normativa
Negli ultimi anni, il legislatore ha imposto precisi limiti
ai fondi della contrattazione integrativa. Nel quadriennio
2011-2014, il trattamento accessorio non poteva essere
superiore al limite dell'anno 2010, ridotto sulla base dei
cessati in virtù dell'articolo 9, comma 2-bis, del Dl n.
78/2010. A decorrere dall'anno 2016, l'articolo 1, comma
236, della legge 208/2015, ha spostato il riferimento
temporale del tetto all'anno 2015.
Nel frattempo, le cosiddette «progettazioni interne»,
contenute prima nell'articolo 92 e poi nell'articolo 93 del
Dlgs n. 163/2006, si sono trasformate negli «incentivi
per funzioni tecniche» di cui all'articolo 113, del
nuovo codice dei contratti pubblici con una sostanziale
modifica dei soggetti beneficiari e delle modalità di
quantificazione ed erogazione.
Con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, la Corte dei conti a
Sezioni riunite, aveva affermato che gli incentivi del
precedente codice degli appalti e dei contratti erano
esclusi dai limiti del trattamento accessorio, in quanto
risorse correlate allo svolgimento di prestazioni
professionali specialistiche, offerte da personale
qualificato in servizio presso l'amministrazione pubblica.
Ma questa esclusione si può riproporre automaticamente per
gli incentivi per funzioni tecniche, di cui al Dlgs n.
50/2016?
L'analisi della Corte dei conti
I magistrati contabili, evidenziano fin da subito che, nella
novella disposizione, non si ravvisano i presupposti
delineati dalle Sezioni riunite, per escludere gli incentivi
di cui si tratta dal limite del tetto di spesa per i
trattamenti accessori del personale dipendente.
Ciò è dovuto al fatto che essi non vanno a remunerare
prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e
individuabili, acquisibili anche attraverso il ricorso a
personale esterno, ma è piuttosto evidente l'intento del
legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli
incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non,
del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del
procedimento di spesa, dalla programmazione all'esecuzione
del contratto.
Quindi, non ci sono motivi per poter escludere dal limite
del trattamento accessorio di cui all'articolo 1, comma 236,
della legge n. 208/2015, tali erogazioni.
Le conclusioni
La questione diventa, a questo punto, difficilissima da
gestire dal punto di vista operativo. Nel limite del
trattamento accessorio 2015 attualmente in vigore, non vi
erano tali incentivi. Quindi, se ora l'ente, sulla base
della regolamentazione interna, dovesse erogare tali somme
che invece vanno considerate nel tetto, si supererebbe il
vincolo finanziario, a meno che l'ente non vada a compensare
riducendo le altre quote del fondo, quelle che fanno
riferimento al trattamento accessorio di tutti (gli altri)
dipendenti. Ovvero, in altre parole: per far spazio agli
incentivi per funzioni tecniche, sarà obbligatorio ridurre
altre componenti del fondo, con un calo, quindi, dei
trattamenti economici accessori dei lavoratori.
Ci potrebbe essere anche un'altra alternativa, cioè quella
di non adottare i regolamenti per gli incentivi tecnici e,
quindi, non corrispondere alcun compenso, ai sensi
dell'articolo 113, del Dlgs n. 50/2016, ma a questo punto ci
sarà da fare i conti con le prestazioni già effettuate dallo
scorso anno in poi.
Da ogni parte da cui si affronta la questione appare un
contrasto o una guerra, appunto, tra i dipendenti.
Un'ultimissima soluzione (ma servirà l'avallo da parte dei
magistrati contabili) potrebbe consistere nel rendere
omogeneo il dato, per cui il tetto del 2015 andrebbe
ricalcolato con gli incentivi sulle progettazioni.
D'altronde, non è logico, né razionale, parificare (e
paragonare) due limiti che contengono al loro interno, voci
differenti che rispondono a situazioni diverse.
E le spese di personale?
Un'ultima nota finale. Le progettazioni interne vecchia
maniera, sono state, da sempre, escluse anche dalle norme
sul contenimento della spesa di personale di cui
all'articolo 1, commi 557 e 562, della legge n. 296/2006.
Si potrà sostenere lo stesso anche per gli incentivi per
funzioni tecniche? Per ora registriamo il passaggio della
deliberazione 06.04.2017 n. 7, della sezione Autonomie, in cui si
legge: «va affermato che nei nuovi incentivi non
ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la
relativa spesa come finalizzata a investimenti; il fatto che
tali emolumenti siano erogabili, con carattere di
generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture
comporta che gli stessi si configurino, in maniera
inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come
spese correnti (e di personale)».
Ed ora i dubbi si infittiscono sempre di più (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.04.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
ai progettisti inclusi nel salario accessorio.
Delibera della sezione autonomie della corte
conti.
Anche gli incentivi per funzioni tecniche devono essere
inclusi nel tetto al salario accessorio.
Lo ha stabilito la Corte dei conti – sezione autonomie, con
la
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla
sezione di regionale di controllo per l'Emilia-Romagna.
Quest'ultima riguardava la portata dell'art. 1, comma 236,
della l. 208/2015 (legge di stabilità 2016), che ha
reiterato il limite all'ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale delle pubbliche amministrazioni (già previsto fino
al 2014 dall'art. 9, comma 2-bis, del 78/2010),
parametrandolo all'importo determinato per l'anno 2015
automaticamente diminuito in misura proporzionale alla
riduzione del personale in servizio, tenuto conto di quello
assumibile secondo la normativa vigente.
Il dubbio, come già in passato, riguardava le voci da
conteggiare e quelle che, invece , possono essere escluse.
In particolare, in discussione erano gli incentivi previsti
dall'art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti (dlgs
50/2016). Tali emolumenti vanno a remunerare le funzioni
tecniche svolte dai dipendenti pubblici per le «attività di
programmazione della spesa per investimenti, per la verifica
preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo
delle procedure di comando e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti».
A giudizio della sezione autonomie, nel caso di specie non
si ravvisano i presupposti delineati dalle sezioni riunite
(nella
deliberazione 04.10.2011 n. 51) per sostenere l'esclusione
dal tetto, a differenza di quanto accadeva per gli incentivi
alla progettazione previsti dal vecchio codice (art. 93,
comma 7-ter, del dlgs 163/2006).
I nuovi incentivi, infatti, non vanno a remunerare
«prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e
individuabili» acquisibili anche attraverso il ricorso a
personale esterno alla p.a. Al contrario, nel disporre che
la ripartizione della parte più consistente delle risorse
(l'80%) debba avvenire «per ciascuna opera o lavoro,
servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra
i loro collaboratori» e che «gli importi sono comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione», il legislatore ha inteso ampliare il
novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati
nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto
nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici,
all'art. 21, è resa obbligatoria anche per l'acquisto di
beni e servizi) all'esecuzione del contratto. Al contempo,
l'art. 113 richiama gli istituti della contrattazione
decentrata, il che può essere inteso come una sottolineatura
dell'applicazione dei limiti di spesa alle risorse
decentrate.
Sebbene la questione non fosse oggetto di specifico esame,
la Sezione ha altresì affermato che la possibilità di
riconoscere tali emolumenti, con carattere di generalità,
anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che
gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come
spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di
personale)
(articolo ItaliaOggi del 13.04.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE: La
Corte conti smentisce se stessa.
L'Intervento/ sugli incentivi ai tecnici.
Incentivi ai tecnici solo entro il tetto complessivo del
fondo delle risorse decentrate del 2015. La Corte dei conti
smentisce se stessa e ritiene che le risorse poste a
finanziare l'incentivazione dei soggetti addetti alle fasi
tecniche di gestione degli appalti rientrino nel computo
della spesa complessiva del personale da tenere sotto il
livello fissato dall'articolo 1, comma 236, della legge
208/2015.
Il revirement è stato disposto dalla Corte dei conti,
sezione autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, che propone una
lettura diametralmente opposta a quella offerta dalle
Sezioni riunite mediante la
deliberazione 04.10.2011 n. 51.
Secondo la sezione autonomie il nuovo orientamento è dovuto
alla diversità delle regole prese in esame. Nel 2011, le
sezioni riunite stabilirono che gli oneri per gli incentivi
ai progettisti non fossero da computare nei tetti alla spesa
della contrattazione decentrata, fondandosi sull'articolo
93, comma 7-ter, del dlgs 163/2006, il vecchio codice dei
contratti, oggi sostituito dal dlgs 50/2016. In linea con
l'assunto delle sezioni riunite, nel vecchio regime anche la
sezione autonomie aveva concluso che le spese per gli
incentivi ai tecnici non rientrassero nel tetto alla spesa
per la contrattazione decentrata: la deliberazione
13.11.2009 n. 16
aveva decretato tale esclusione la natura di spese di
investimento degli incentivi, in quanto «attinenti alla
gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della
spesa, e finanziate nell'ambito dei fondi stanziati per la
realizzazione di un'opera pubblica, e non di spese di
funzionamento».
Secondo la
deliberazione 06.04.2017 n. 7 il nuovo
codice dei contratti ha mutato il quadro normativo
preesistente. Infatti, per esempio, l'articolo 113 del dlgs
50/2016 esclude che l'incentivazione possa riguardare
l'attività di progettazione. Accertato, quindi, che la
disciplina dell'articolo 113 del nuovo codice dei contratti
è diversa da quella dell'articolo 93, comma 7-bis, la
sezione autonomie ritiene che «nei nuovi incentivi non
ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la
relativa spesa come finalizzata ad investimenti». Questo,
perché gli incentivi sono erogabili anche per gli appalti di
servizi e forniture e, dunque, come spese correnti (di
personale). Inoltre, secondo la sezione autonome, l'articolo
113 del dlgs 50/2016 non remunera «prestazioni professionali
tipiche di soggetti individuati e individuabili» acquisibili
anche attraverso il ricorso a personale esterno alla p.a.,
requisito ritenuto utile dalle sezioni riunite nel 2011 per
escludere gli incentivi dal tetto ai fondi della
contrattazione decentrata.
Secondo la
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
l'articolo 113, comma 3, del codice dei contratti –nello
stabilire che la ripartizione della parte più consistente
delle risorse (l'80%) debba avvenire, secondo le indicazioni
della contrattazione decentrata tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro
collaboratori e nel disporre che gli importi sono
comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell'amministrazione- connota l'incentivazione in
modo diverso rispetto al precedente regime.
La sezione
ritiene che, da un lato, il legislatore abbia inteso
ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame;
dall'altro, poiché la norma richiama gli istituti della
contrattazione decentrata va guardata alla luce della
necessità di coordinarla con le regole sui limiti di spesa
alle risorse decentrate. L'interpretazione offerta dalla
sezione autonomie, però, è tutt'altro che convincente. Il
riferimento alla contrattazione decentrata era contenuto
anche nel precedente regime normativo, nell'articolo 93,
comma 7-ter, del dlgs 163/2006.
Ed anche se gli incentivi
tecnici erano finanziati con risorse di conto capitale,
comunque queste dovevano, come nel nuovo regime normativo,
transitare nel fondo delle risorse decentrate per poter
essere erogati. La spesa connessa, quindi, com'è di natura
corrente relativa al personale nel nuovo regime, altrettanto
corrente lo era nel precedente regime. Nella sostanza, gli
appigli motivazionali esposti dalla sezione autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7 appaiono piuttosto deboli ed il parere non
può considerarsi risolutivo della questione, visto che le
conclusioni opposte delle sezioni riunite sono da ritenere
ancora attuali ed efficaci
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2017). |
Ed i sindacati si muovono... |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: disdetta degli accordi relativi all’incentivo per le funzioni
tecniche (CGIL-FP e CISL-FP di Bergamo,
nota 11.05.2017). |
QUINDI?? |
La
Sez. Autonomie della Corte dei Conti è stata chiara nello
spiegare perché prima del D.Lgs. 50/2016, di fatto, le somme
destinate all'incentivo per la progettazione erano,
sostanzialmente, una partita di giro all'interno del
contratto decentrato ed oggi non più. Ecco il passaggio
saliente della deliberazione: |
In relazione alla rilevata difformità
della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs.
n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi
alla progettazione, occorre verificare la sussistenza, nei
nuovi “Incentivi per funzioni tecniche”, dei requisiti
fissati dalla Sezioni riunite, ai fini della loro
inclusione
o meno nei tetti di spesa di cui all’art. 1, comma 236, l.
n. 208/2015.
Per quanto già esposto,
va affermato che
nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che
consentano di qualificare la relativa spesa come
finalizzata ad investimenti; il fatto che tali
emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità,
anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che
gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese
correnti (e di personale).
Nel caso di specie, non si ravvisano, poi,
gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite
(nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51),
per escludere gli incentivi di cui trattasi dal
limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del
personale dipendente in quanto
essi non vanno a remunerare “prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati e
individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a
personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro
disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016. |
Conseguentemente, il "pallino"
ora è in mano al legislatore: o si ritorna al vecchio tenore
letterale della norma o la Corte dei Conti resterà
irremovibile per quanto statuito ed inizierà a "spulciare"
già il conto consuntivo 2016 nel ricercare eventuali danni
erariali (e, ovviamente, chi li ha cagionati). |
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Ancora, altri pronunciamenti in materia di "incentivo
funzioni tecniche": |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE:
Incentivi per funzioni tecniche anche per servizi e forniture ma
senza sforare i limiti di legge.
In materia di incentivi per funzioni tecniche, in base all’articolo 113 del
Dlgs 50/2016, non trova alcun fondamento una diversa interpretazione della
norma che tenda ad ampliare le attività (e il novero dei soggetti
beneficiari), inserendone altre diverse da quelle tassativamente elencate.
Inoltre, il compenso incentivante spetta anche per i servizi e le forniture.
Questo il principio contenuto nel
parere 27.04.2017 n. 52
della Corte dei conti , sezione di controllo regionale delle Marche.
Un Presidente di Provincia, per il tramite di un Consiglio delle Autonomie
Locali, ha chiesto un parere in ordine all'articolo 113 del Dlgs 50/2016,
ovvero: a) alla possibilità di estendere l'incentivo a personale
amministrativo (per adempimenti connessi alle varie fasi della procedura di
gara); b) se il medesimo incentivo potesse spettare anche nel caso di
forniture e/o servizi anche se non riconducibili a committenze connesse alla
realizzazione dei lavori/opere.
I beneficiari
Relativamente al primo quesito, i giudici marchigiani hanno evidenziato che
la norma in questione si applica per le attività poste in essere
successivamente al 19.04.2016 (data di entrata in vigore dello stesso
decreto 50/2016), con l'obiettivo di assicurare l'efficacia della spesa e la
corretta realizzazione dell'opera a regola d'arte, nei tempi e con i costi
previsti dal progetto (a fronte dell'abolizione degli incentivi alla
progettazione di cui all'articolo 93, comma 7-ter, del Dlgs 163/2006).
Le nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti pubblici riguardano esclusivamente: le attività di programmazione
della spesa per investimenti; la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di Rup, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara.
La Corte ha puntualizzato che le figure professionali diverse da quelle
espressamente previste che non hanno svolto dette funzioni tecniche -sebbene
svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche-
possono essere incentivate soltanto con gli ordinari istituti contrattuali e
le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti
contratti collettivi nazionali di lavoro.
Servizi e forniture
In ordine al secondo quesito, il Collegio ha osservato che nei nuovi
incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la
relativa spesa come finalizzata a investimenti; il fatto che tali emolumenti
siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di
servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera
inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti
(e di personale) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.05.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L'ottanta per cento delle
risorse finanziarie del fondo per le funzioni tecniche è
ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio,
fornitura
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche espressamente indicate, nonché tra i loro
collaboratori. La corresponsione dell'incentivo è disposta
dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento delle specifiche
attività, tassativamente elencate, svolte dai predetti
dipendenti.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici,
sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma
7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e
ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, per
la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di
controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e
di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti.
Si tratta in sostanza di attività tecnico-burocratiche
tassativamente individuate, prima non incentivate, tese ad
assicurare l’efficacia della spesa e la corretta
realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con i
costi previsti dal progetto.
L’intento del legislatore è stato quello di
ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi,
individuati nei profili, tecnici e non, del personale
pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di
spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei
contratti pubblici, all’art. 21 è resa obbligatoria anche
per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del
contratto.
La disciplina in esame individua espressamente i soggetti
tra cui può essere ripartito il fondo (RUP, i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche tassativamente elencate nel
comma 2 e i loro collaboratori) e specifica che detto
personale per fruire dei benefici deve comunque avere
effettivamente svolto le suddette funzioni.
Non è pertanto possibile e non trova alcun fondamento
normativo una diversa interpretazione della norma che tenda
in qualche modo ad ampliare le attività, inserendone altre
diverse da quelle tassativamente elencate e,
conseguentemente, ad aumentare il novero dei soggetti
beneficiari.
I dipendenti diversi da quelli indicati dalla norma e che
non hanno svolto le funzioni tecniche parimenti individuate
dalla stessa norma, benché svolgano attività comunque
connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono
essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari
istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie
stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro.
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Il
compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs.
n. 50/2016, riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e
forniture, il che aggiunge ulteriori elementi di
differenziazione rispetto all’istituto di cui all’art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Nei nuovi
incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di
qualificare la relativa spesa come finalizzata ad
investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili,
con carattere di generalità, anche per gli appalti di
servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino,
in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e,
dunque, come spese correnti (e di personale).
Alla luce di quanto sopra esposto, si rileva che
la nuova
normativa di cui all’articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016
ha previsto il compenso incentivante anche per i servizi e
le forniture, ovviamente nel rispetto delle condizioni
stabilite dalla stessa normativa.
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In data 08.03.2017 è pervenuta, per il tramite del
Consiglio delle Autonomie Locali della Regione Marche, una
richiesta di parere formulata dalla Presidente della
Provincia di Ancona ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge n. 131/2003.
L’Amministrazione istante, con riferimento all’articolo 113,
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (“Incentivi
per funzioni tecniche”), pone i seguenti quesiti:
- “se l'ottanta per cento delle risorse finanziarie
dell'apposito fondo previsto dal sopra citato art. 113,
comma 2, per le funzioni tecniche ivi espressamente indicate
svolte dai dipendenti pubblici, possa essere ripartito anche
a favore di personale amministrativo (ad esempio: personale
preposto alla spesa per investimenti; personale preposto
alle procedure di gara per l'individuazione del soggetto
appaltatore e per gli adempimenti connessi alla stipula del
contratto di appalto);
- se gli incentivi riferiti a forniture e/o servizi possano
essere riconosciuti anche se non riconducibili a committenze
strettamente necessarie per la realizzazione dei
lavori/opere.”.
La stessa Amministrazione, ai fini dell’ammissibilità della
richiesta di parere, ha dichiarato in particolare che:
1. le disposizioni di legge di cui si chiede
l'interpretazione sono l'art. 113 e 102, del Decreto
Legislativo 18/04/2016 n. 50;
2. la propria tesi interpretativa in merito alla
disposizione di legge citata è la seguente: l'ottanta per
cento delle risorse finanziarie dell'apposito fondo previsto
dal sopra citato art. 113, comma 2, per le funzioni tecniche
ivi espressamente indicate svolte dai dipendenti pubblici,
possono essere ripartite anche a favore di personale
amministrativo (ad esempio: personale preposto alla spesa
per investimenti; personale preposto alle procedure di gara
per l'individuazione del soggetto appaltatore e per gli
adempimenti connessi alla stipula del contratto di appalto);
gli incentivi per funzioni tecniche riguardanti forniture e
servizi sono previsti indipendentemente dal fatto che siano
riconducibili alla realizzazione di lavori/opere;
3. il quesito proposto ha carattere generale e attiene a
temi relativi alla contabilità pubblica in quanto riferito
all'utilizzo di risorse pubbliche per forme di incentivo a
favore di dipendenti pubblici;
4. il parere richiesto non riguarda provvedimenti già
adottati da questa Amministrazione, né profili relativi ai
controlli ex articolo 1, commi 166 e seguenti, della legge
266/2005 in quanto: l'Amministrazione non ha ancora
provveduto a regolamentare la materia in questione stante le
difficoltà interpretative riguardanti l'art. 113 del Decreto
Legislativo 18/04/2016 n. 50;
5. il parere richiesto non prospetta questioni inerenti alla
sussistenza di danni erariali di competenza della Sezione
giurisdizionale della Corte dei Conti in quanto: la
richiesta di parere precede l'operato di questa
Amministrazione.
...
Nel merito si osserva quanto segue.
L’articolo 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici
approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
introduce nuove forme di “Incentivi per funzioni tecniche” e
si applica per le attività poste in essere successivamente
al 19.04.2016, data di entrata in vigore dello stesso
decreto.
In particolare detto articolo recita testualmente:
“Art. 113 Incentivi per funzioni tecniche - 1. Gli oneri
inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche
connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo
09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del
fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti
da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione anche per il progressivo uso di
metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione
elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture,
di implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento
informatico, con particolare riferimento alle metodologie e
strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le
amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di
orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24 giugno
1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di
alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici
previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le
Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della
centrale unica di committenza, una quota parte, non
superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma
2.”.
Al riguardo si rileva che, sul punto, l’articolo 1, comma 1,
lettera rr), della legge delega 28.01.2016, n. 11, ha
previsto i seguenti criteri: “al fine di incentivare
l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della
realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi
previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in
corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2 per
cento dell'importo posto a base di gara per le attività
tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei
tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi
alla progettazione”.
Da quanto sopra esposto si ricava che la disciplina
normativa in esame dispone che l'ottanta per cento delle
risorse finanziarie del fondo per le funzioni tecniche è
ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio,
fornitura
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche espressamente indicate, nonché tra i loro
collaboratori. La corresponsione dell'incentivo è disposta
dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento delle specifiche
attività, tassativamente elencate, svolte dai predetti
dipendenti.
Sulla materia la Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 e
deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha affermato
una serie di principi che, per quanto di interesse, qui si
richiamano.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici,
sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma
7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e
ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, per
la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di
controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e
di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti.
Si tratta in sostanza di attività tecnico-burocratiche
tassativamente individuate, prima non incentivate, tese ad
assicurare l’efficacia della spesa e la corretta
realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con i
costi previsti dal progetto.
L’intento del legislatore, secondo la Sezione delle
autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7),
è stato quello di ampliare il novero dei
beneficiari degli incentivi, individuati nei profili,
tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle
diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione
(che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21 è
resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi)
all’esecuzione del contratto.
La disciplina in esame individua espressamente i soggetti
tra cui può essere ripartito il fondo (RUP, i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche tassativamente elencate nel
comma 2 e i loro collaboratori) e specifica che detto
personale per fruire dei benefici deve comunque avere
effettivamente svolto le suddette funzioni.
Non è pertanto possibile e non trova alcun fondamento
normativo una diversa interpretazione della norma che tenda
in qualche modo ad ampliare le attività, inserendone altre
diverse da quelle tassativamente elencate e,
conseguentemente, ad aumentare il novero dei soggetti
beneficiari.
I dipendenti diversi da quelli indicati dalla norma e che
non hanno svolto le funzioni tecniche parimenti individuate
dalla stessa norma, benché svolgano attività comunque
connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono
essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari
istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie
stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro (cfr. Sezione
regionale di controllo per le Marche
parere 17.12.2014 n. 141).
In ordine poi al secondo quesito e cioè se gli incentivi
riferiti a forniture e/o servizi possano essere riconosciuti
anche se non riconducibili a committenze strettamente
necessarie per la realizzazione dei lavori/opere, si osserva
quanto segue.
Sul punto la Corte dei conti - Sezione delle Autonomie con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha affermato, che
il
compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs.
n. 50/2016, riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e
forniture, il che aggiunge ulteriori elementi di
differenziazione rispetto all’istituto di cui all’art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Tale interpretazione, secondo la Sezione delle Autonomie, “è
avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede
consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato
ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli
appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i
beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che
svolgono attività relative alla progettazione e al
coordinamento della sicurezza. In tal senso è anche l’avviso
di questa Sezione che, con
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
ammette che la nuova normativa, sostitutiva della
precedente, abolisce gli incentivi alla progettazione
previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter ed introduce,
all’art. 113, nuove forme di «incentivazione per funzioni
tecniche»”.
La Sezione delle Autonomie inoltre chiarisce che
nei nuovi
incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di
qualificare la relativa spesa come finalizzata ad
investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili,
con carattere di generalità, anche per gli appalti di
servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino,
in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e,
dunque, come spese correnti (e di personale).
Alla luce di quanto sopra esposto, si rileva che
la nuova
normativa di cui all’articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016
ha previsto il compenso incentivante anche per i servizi e
le forniture, ovviamente nel rispetto delle condizioni
stabilite dalla stessa normativa.
L’Amministrazione, pertanto, nell’ambito dei poteri di
gestione di esclusiva competenza e delle connesse
responsabilità dovrà procedere alle valutazioni e alle
conseguenti determinazioni al fine di ottemperare agli
adempimenti previsti dalla normativa vigente sopra
illustrata, tenendo presente l’esigenza imprescindibile di
assicurare il puntuale rispetto delle condizioni e dei
limiti previsti dalla stessa disciplina normativa e del
quadro giurisprudenziale, come sopra illustrati
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 27.04.2017 n. 52). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: E'
da escludere che l’attività manutentiva possa essere
incentivata, ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016.
---------------
1) Il Sig. Presidente della Provincia di Perugia, con
nota del 03.04.2017, ha inoltrato una richiesta di parere,
ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, in merito alla
“inclusione o esclusione delle attività di manutenzione,
ordinaria e straordinaria, dall’incentivazione prevista
dall’art. 113 del d.lgs n. 50/2016”.
2) Al riguardo, dopo aver riportato per esteso il testo del
comma 1 del precitato art. 113 (v. pag. 1 del quesito), ha
fatto presente che il medesimo articolo, “al successivo
comma 3, [ha] previsto che l’80% delle risorse finanziarie
del fondo, costituito ai sensi del [precedente] comma 2, è
ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento, adottato dalle
amministrazioni, secondo i rispettivi ordinamenti” (v.,
anche per la sottolineatura, ancora pag. 1 del quesito).
Nell’evidenziare che il previgente art. 93, co. 7-ter del
d.lgs. n. 163/2006, ha espressamente escluso dall’analogo
riparto dell’80% del fondo allora previsto “le attività
manutentive”, ha fatto notare come “la formulazione
dell’art. 113 [ora in rassegna] non esclud[a] espressamente
le manutenzioni, ma si limit[i] a riferirsi a ciascuna opera
o lavoro” e come “l’art. 3 del d.lgs. n. 50/2016
stabilisc[a] che, ai fini del codice, per lavori di cui
all’allegato I debbano intendersi le attività di
costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione
urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro,
manutenzione di opere” (v. pag. 2 del quesito, anche per
la sottolineatura).
3) Il Presidente della Provincia di Perugia ha anche
richiamato il precedente parere di questa Sezione, ex
parere 14.05.2015 n. 71, con il quale è stato
escluso ogni beneficio per l’attività manutentiva, anche
straordinaria, in relazione all’esplicito disposto del
precitato comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006
(v. ancora pag. 2 del quesito).
...
6) – Ciò premesso, nel merito, si rileva che le
argomentazioni che articolano il quesito all’esame del
Collegio disvelano una ricostruzione della trama normativa
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, da parte di chi ha
formulato il quesito stesso, non aderente alla lettera ed
allo spirito del precitato articolo 113.
6.1.) Al riguardo è bene evidenziare,
anzitutto, le finalità perseguite dal ripetuto art. 113.
Come correttamente evidenziato anche dalla
Sezione delle Autonomie:
a) l’articolo in riferimento mira ad incentivare
le “funzioni operative per l’esecuzione di lavori”,
per realizzare l’“opera a regola d’arte e nei tempi
previsti dal progetto, senza alcun ricorso a varianti in
corso d’opera”
(v. Sez. Aut.
deliberazione 23.03.2016 n. 10, paragrafo 5);
b) l’articolo stesso ha abolito “gli incentivi
della progettazione, previsti dal previgente art. 93, co.
7-ter del d.lgs. n. 163/2006” ed ha introdotto “nuove
forme di incentivazioni per funzioni tecniche”
(v. Sez. Aut.
deliberazione 13.05.2016 n. 18, paragrafo 1, con
grassetto e sottolineatura dello scrivente) .
6.2.) Le Sezioni Regionali di controllo,
già interessate al problema della compensabilità delle
attività manutentive con quesiti analoghi a quello ora in
esame, hanno chiarito come le “funzioni
tecniche” oggetto di incentivo siano solo quelle
tassativamente indicate nel secondo comma dell’art. 113 del
d.lgs. n. 50/2016. Esse costituiscono un numero chiuso, come
è agevole desumere anche dall’“avverbio esclusivamente,
utilizzato dal legislatore nel[lo stesso] comma 2” .
D’altronde,
si è ulteriormente precisato, gli incentivi
per la “progettazione e l’innovazione”, previsti dal
previgente art. 93, co. 7-bis del d.lgs. n. 163/2006), così
come gli “incentivi per funzioni tecniche”, ora
previsti dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, “costituiscono
eccezioni al generale principio della onnicomprensività del
trattamento economico” e sono, perciò, di stretta
interpretazione e “possono essere riconosciuti solo per
le attività espressamente previste dalla legge”.
Sul punto, per vero, la richiesta di parere all’esame del
Collegio non articola nessun dubbio interpretativo.
6.3) La richiesta stessa, invece, focalizza l’attenzione sul
comma 3 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, per tentare di
offrirne una lettura coordinata con l’art. 3 del medesimo
testo normativo, tale da permettere di attrarre anche
l’attività di manutenzione nell’elenco delle “funzioni
tecniche” incentivate.
In realtà, l’art. 3 del d.lgs. n. 50/2016, nel dare le “definizioni”
delle espressioni e dei termini di maggior interesse usati
nel medesimo decreto legislativo, alla lettera nn) precisa
che, per “lavori di cui allegato I”, si devono
intendere “le attività di costruzione, demolizione,
recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia,
sostituzione, restauro [e] manutenzione di opere” (la
sottolineature è della richiesta di parere).
6.4) Una simile puntualizzazione non consente di attrarre
l’attività manutentiva nell’area della incentivazione,
secondo un’attenta lettura del sistema di incentivazione
regolato dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016.
In tale sistema, infatti, la manutenzione resta un “lavoro”
e non una “funzione tecnica”, anche alla stregua
della ricostruzione normativa offerta nella richiesta di
parere.
6.4.1) E’ da rilevare, per una corretta interpretazione del
comma 3 dell’art. 113, che le relative disposizioni –nella
loro più intrinseca consistenza normativa– si limitano a
precisare che “l’80% delle risorse del fondo […] è
ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio [o]
fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa, sulla base di
apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo
i rispettivi ordinamenti”.
Il predetto comma 3, dunque, reca semplicemente un criterio
di riparto del fondo di incentivazione riferito a “ciascuna
opera o lavoro, servizio [o] fornitura”, ma non offre
spazi esegetici per aggiungere altre “funzioni tecniche”
all’elenco di cui al precedente comma 2.
6.5) Una interpretazione armonica e
coordinata dei primi tre commi dell’art. 113 del
d.lgs. n. 50/2016, aderente ai noti canoni ermeneutici
dell’art. 12, co. 1, delle disposizioni sulla legge in
generale (letterale, sistematico e teleologico), lascia
intravedere un complessivo disegno normativo, per il quale:
a) il comma 1, precisa i criteri di
quantificazione degli “stanziamenti [relativi ai] singoli
lavori”, con allocazione in essi anche delle risorse per
“gli oneri inerenti la progettazione, [la] direzione dei
lavori”, ecc.;
b) il comma 2, fissa i criteri di
quantificazione del fondo per incentivare le “funzioni
tecniche”, ivi specificamente e tassativamente elencate
(“attività di programmazione della spesa per
investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando”,
ecc.), determinandolo nel 2% dell’“importo dei lavori
posti a base di gara, [da] valere sugli stanziamenti di cui
al comma 1”;
c) il comma 3, infine, indica i criteri di
riparto dell’“80% del fondo [di cui al] comma 2,
[rapportandoli a] ciascuna opera o lavoro, servizio [o]
fornitura”.
Da nessuno degli elencati commi dell’art.
113 del d.lgs. n. 50/2016 emerge uno spiraglio
interpretativo per inserire tra le “funzioni tecniche”
da incentivare l’attività manutentiva.
7) – Per quanto finora esposto e considerato, dunque,
è da escludere che l’attività manutentiva
possa essere incentivata, ai sensi dell’art. 113 del d.lgs.
n. 50/2016, tenuto
conto dei dubbi interpretativi prospettati con l’esaminata
richiesta di parere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 26.04.2017 n. 51). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Pagamento legittimo anche se la prestazione
affidata è ancora da eseguire.
Un ente locale ha avanzato una richiesta di parere
-riguardante la materia degli incentivi, ora previsti per le
prestazioni tecniche dall’articolo 113, Dlgs n. 50/2016-
ponendo i seguenti quesiti: se la disciplina regolante
l’incentivo è quella vigente al momento in cui l’opera è
stata inserita nei documenti di programmazione,
indipendentemente dal momento in cui le prestazioni
incentivate vengono in concreto poste in essere; se, in
subordine, in caso di opere già approvate e in corso di
realizzazione, debbano continuare ad essere applicate le
disposizioni normative vigenti al momento dell’applicazione
anche per le attività tecniche già avviate ma completate
successivamente (responsabile del procedimento, direzione
lavori, coordinamento in fase di esecuzione, collaudo in
corso d’opera e finale).
La questione è stata esaminata dal recente
parere 20.04.2017 n. 22
della Corte dei conti, Sezione Regionale Controllo
Basilicata.
Il quadro normativo
L’articolo 113 del Dlgs n. 50/2016 ha modificato,
principalmente, l’oggetto delle prestazioni incentivabili e
i soggetti coinvolti, rispetto a quanto precedentemente
regolato dall’articolo 93, Dlgs n. 163/2006.
Già in passato la giurisprudenza aveva espresso il
convincimento che, qualora si succedano nel tempo
disposizioni che diversamente prevedono e regolano
l’incentivazione di talune attività, il discrimine tra le
due discipline è dato dal momento “genetico” in cui
l’opera o il lavoro sono approvati e inseriti nei documenti
di programmazione vigenti nell’esercizio in cui sono stati
adottati o, in prospettiva, nel Documento Unico di
Programmazione che la Giunta è tenuta a predisporre e
presentare al Consiglio per le conseguenti deliberazioni
(art. 170 Tuel); conclusione, questa, ribadita nella
deliberazione in commento.
Ciò precisato, deve l’interprete interrogarsi se la
prestazione, lecita al momento in cui è sorta, diventi
illecita (vietata) prima di essere adempiuta; e ciò con
specifico riguardo per il pagamento dell’incentivo per la
progettazione di cui all’articolo 93, Dlgs n. 163/2006
riferito ad attività che, seppure in precedenza previste,
siano state adempiute solo successivamente alla novella di
cui all’articolo 113 Dlgs n. 50/2016).
Orbene, secondo la deliberazione in commento, non può
giungersi a tale conclusione, atteso che l’articolo 1, comma
1, lett. r), della legge delega n. 11/2016 non ha
espressamente “vietato” l’applicazione
dell’incentivazione precedentemente prevista, essendosi
limitata a prescrivere un “divieto” circa “lo
svolgimento contemporaneo dell’attività di validazione con
quella di progettazione”, onde evitare conflitti di
interesse. Nulla del genere, invece, per quanto attiene la
disciplina dell’incentivo, limitandosi la predetta legge
delega a prevedere che siano incentivate attività diverse da
quelle precedentemente indicate, “escludendo”
l’applicazione degli incentivi alla progettazione.
Orbene, la circostanza che l’ordinamento non si sia espresso
sulla non meritevolezza o sulla sopravvenuta illiceità del
pagamento dell’incentivo per le prestazioni precedentemente
affidate e ancora da eseguire, impedisce di pervenire alla
conclusione che la nuova disciplina sia di impedimento alla
conclusione del programma obbligatorio generatosi sotto la
vigenza dell’abrogato articolo 93, Dlgs n. 163/2006.
Il parere
Conclusivamente, quanto alle opere già approvate e in corso
di realizzazione alla data di entrata in vigore del Dlgs n.
50/2016, il pagamento non è impedito dal principio “tempus
regit actum”, trattandosi di rapporto obbligatorio di
natura privatistica, ed inoltre in quanto l’esclusione
dell’incentivo alla progettazione è espressamente riferita
alle procedure di gara non ancora attivate al momento
dell’entrata in vigore della novella legislativa ed il
pagamento non trova un chiaro e univoco divieto in alcuna
disposizione di legge, né è precluso da altre disposizioni
che impediscano il compimento di tale atto, al tempo in cui
deve essere posto in essere
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.05.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Relativamente all’affidamento agli uffici interni del Comune
delle attività incentivate a norma dell’art. 93, la
disciplina resta quella vigente al momento in cui l’opera è
stata inserita nei documenti di programmazione,
indipendentemente dal momento in cui le prestazioni
incentivate vengono in concreto poste in essere, non potendo la nuova
disciplina operare retroattivamente.
----------------
Quanto alle opere già approvate e in corso di realizzazione
alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016,
l’adempimento della obbligazione pecuniaria (il pagamento
dell’incentivo), seppure oggetto di uno speciale
“procedimento” amministrativo e contabile, non è impedito
dal principio “tempus regit actum” per la ragione che:
i) trattasi di rapporto obbligatorio di natura privatistica;
ii) l’esclusione dell’incentivo alla progettazione è
espressamente riferita alle procedure di gara non ancora
attivate al momento dell’entrata in vigore della novella
legislativa (art. 216, comma 1);
iii) il pagamento non trova un chiaro e univoco divieto in
alcuna disposizione di legge posta in rassegna da questa
Sezione, a ciò non potendosi riferire il divieto che l’art.
1, comma 1, lett. rr, legge delega n. 11/2016 ha posto per
“lo svolgimento contemporaneo dell'attività di validazione
con quella di progettazione”, e ciò per evitare conflitti di
interesse, né è precluso da altre disposizioni che
impediscano il compimento di tale atto, al tempo in cui deve
essere posto in essere.
---------------
Il Presidente della Provincia di Potenza premette che
a seguito del D.Lgs. n. 50/2016, che ha approvato il nuovo “Codice
degli appalti pubblici”, è stata riformata la materia
degli incentivi, ora previsti per le prestazioni tecniche
(art. 113). Tuttavia, nel passato, la materia è stata più
volte oggetto di interventi riformatori, la cui disciplina
potrebbe non essersi ancora esaurita, con la conseguenza che
diverse discipline, regolanti fattispecie pregresse,
potrebbero coesistere.
Tanto premesso, pone i seguenti quesiti:
a) se la disciplina regolante l’incentivo è quella vigente al
momento in cui l’opera è stata inserita nei documenti di
programmazione, indipendentemente dal momento in cui le
prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere;
b) se, in subordine, in caso di opere già approvate e in corso
di realizzazione, debbano continuare ad essere applicate le
disposizioni normative vigenti al momento dell’applicazione
anche per le attività tecniche già avviate ma completate
successivamente (responsabile del procedimento, direzione
lavori, coordinamento in fase di esecuzione, collaudo in
corso d’opera e finale).
...
Nel merito
3. Con il quesito posto l’Ente istante ha inteso
esplicitamente richiamare l’approdo cui era giunta questa
Sezione con il
parere 12.02.2015 n. 3, il cui
contenuto si dà qui per riprodotto, salvo quanto si renderà
necessario riportare.
In sostanza, in detta pronuncia si era ritenuto che la
disciplina che regola l’incentivo (allora destinato alla
“progettazione”) fosse quella vigente al momento in cui
l’opera era stata approvata. Ciò nel senso che l’obbligo di
prestare l’attività richiesta e, per corrispettivo,
l’obbligo di pagare l’incentivo, dovessero essere regolati
secondo la disciplina vigente nel momento genetico in cui
tali obblighi sono stati assunti. Tale momento, per le
argomentazioni ivi sviluppate, si era ritenuto che dovesse
identificarsi con l’approvazione dell’opera o del lavoro sul
cui stanziamento far valere l’aliquota del 2% da destinare
al “fondo” per la progettazione e l’innovazione. Di
conseguenza, in osservanza del principio di (tendenziale)
irretroattività della norma, un mutamento della disciplina
di settore non avrebbe avuto effetti sul diritto
all’incentivo, così come regolato dalla disciplina vigente
al momento dell’approvazione dell’opera o del lavoro, salvo
la necessaria verifica del corretto adempimento.
Di lì a poco, con
deliberazione 24.03.2015 n. 11), la Sezione delle
Autonomie, esaminando una questione interpretativa riferita
a norme succedutesi nel tempo e diversamente regolanti la
materia degli incentivi, concludeva nel senso che le
questioni di diritto intertemporale che insorgessero per il
mutare, nel tempo, della disciplina, dovessero essere
risolte secondo il principio della irretroattività della
legge, e cioè che la legge successiva non potesse andare a
modificare o a incidere su posizioni giuridiche sorte in
precedenza.
Correttamente, quindi, la citata delibera della Sezione
delle Autonomie collocava anche questa Sezione tra quanti
sostenevano la tesi della irretroattività della legge e,
dunque, la sua non applicazione alle fattispecie regolate
dalla norma precedente.
4. Fermo restando questo fondamentale punto di convergenza,
tuttavia, una diversità di opinioni, peraltro rilevata dalla
stessa Sezione delle Autonomie, ha riguardato il momento in
cui, in virtù del principio di irretroattività, fosse
precluso alla norma successiva di regolare vicende già sorte
o in corso di svolgimento. Questa Sezione aveva ritenuto che
tale momento andasse individuato con l’approvazione
dell’opera o del lavoro; la Sezione delle Autonomie aveva
ritenuto che tale momento coincidesse con la esecuzione
della prestazione, secondo il principio “tempus regit actum”.
5. La soluzione adottata dalla Sezione delle Autonomie
giungeva, in concreto, a rendere applicabile il limite
massimo di incentivo anche alle attività
tecnico-professionali espletate dai dipendenti
successivamente all’entrata in vigore del D.L. 24.06.2014, n.90, ancorché riferibili a progetti approvati in
precedenza. A seguito di tale ultimo D.L., infatti, il
limite dell’incentivo pagabile annualmente per ciascun
percettore, che la norma precedentemente vigente aveva
fissato nella misura del 100% del trattamento economico
annuo lordo, veniva ulteriormente ridotto alla misura
massima del 50%.
Si trattava, quindi, di spiegare l’applicazione di detto
limite, più restrittivo rispetto a quello vigente in
precedenza, anche a quelle prestazioni poste in essere
successivamente all’entrata in vigore del decreto legge,
seppure in adempimento di obblighi sorti quando il limite
non sussisteva. A questo scopo la Sezione delle Autonomie si
era richiamata al principio “tempus regit actum” per
mantenere, da un lato, ferma l’irretroattività della nuova
norma e, dall’altro, applicare la nuova regola alle
prestazioni ricadenti nel tempo successivo alla sua entrata
in vigore, senza che rilevasse la disciplina vigente nel
momento in cui l’obbligazione era sorta.
6. A parere di questa Sezione, tuttavia, non vi è un
contrasto tra le due tesi sul punto, atteso che alla stessa
conclusione cui è pervenuta la Sezione delle Autonomie si
sarebbe potuti pervenire anche secondo la tesi seguita da
questa Sezione.
In verità, l’applicazione del limite massimo individuale del
50% anche per le prestazioni rese successivamente
all’entrata in vigore del D.L. n. 90/2014, convertito dalla
L. n. 114/2014, che tale limite ha introdotto, può
giustificarsi senza dover, necessariamente, fare ricorso
alla tesi della irretroattività della norma, e senza dover
richiamare il principio “tempus regit actum”, che impone,
poi, di collocare il confine temporale tra le due norme nel
momento della esecuzione della prestazione piuttosto che in
quello genetico del rapporto.
A ben vedere, infatti, quello che viene in evidenza è che il
limite legislativo di cui si discute interviene a modificare
una disciplina sostanzialmente di natura pattizia, il cui
oggetto (i criteri e la misura del riparto dell’incentivo),
è cioè devoluto alla contrattazione integrativa decentrata
(art. 93, comma 7-ter, D.Lgs n. 163/2006) da recepirsi con
regolamento dell’Ente (vds., di questa Sezione, parere n.
7/2017).
Già il comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 aveva
stabilito, da un lato, che le modalità e i criteri con cui
ripartire gli incentivi fossero previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione; dall’altro, aveva posto un
limite di legge alla misura dell’incentivo erogabile (allora
pari al trattamento economico complessivo annuo). Limite
che, dunque, non avrebbe potuto essere derogato dalle parti
contraenti in quanto norma imperativa di legge finalizzata a
contenere la spesa e il trattamento economico complessivo
del personale, che deve trovare applicazione anche sui
contratti già stipulati in sede integrativa decentrata, ai
sensi dell’art. 40, comma 3-quinquies del TUIP, quinto
periodo, a tenore del quale “Nei casi di violazione dei
vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla
contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole
(dei contratti integrativi in sede decentrata) sono nulle,
non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi
degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice
civile” (sul punto vds. anche l’art. 40-bis del TUIP).
Pertanto, il limite del 50%, introdotto con D.L. n. 90/2014,
sarebbe andato a sostituire, comunque, il precedente limite
massimo di spesa pagabile annualmente, modificando di
conseguenza anche l’accordo decentrato (analogamente, il
D.L. n. 66/2014 ha inciso sui contratti in corso, inserendo
automaticamente, alle precedenti convenzioni, il nuovo tetto
massimo quale limite alla retribuzione di alcune categorie
di amministratori pubblici o di società pubbliche).
In definitiva, il ritenuto contrasto con la Sezione delle
Autonomie è solo apparente non trattandosi di questione di
diritto intertemporale.
7. Tanto chiarito, occorre ora tornare al tema principale
sollevato con il quesito in esame, per la cui soluzione le
sopra esposte considerazioni non sono prive di rilievo.
I quesiti
8. L’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 (“Codice dei contratti
pubblici”) ha modificato, principalmente, l’oggetto delle
prestazioni incentivabili e i soggetti coinvolti, rispetto a
quanto precedentemente regolato dall’art. 93, D.Lgs. n.
163/2006. In altre parole, talune attività e talune
qualifiche professionali, che prima erano incentivabili, ora
non lo sono più e, al contrario, sono oggi divenute
incentivabili altre prestazioni e altre professionalità, se
presenti all’interno dell’ente.
Sicché, in questo caso, un vero problema di diritto
intertemporale si potrebbe porre –e l’Ente istante in
effetti lo pone, come meglio si dirà- nel momento in cui si
dubitasse che le prestazioni di “progettazione”, già
convenute e non ancora adempiute, ove poste in essere
successivamente alla novella legislativa, diano ancora
diritto al pagamento dell’incentivo per il quale erano state
accantonate le risorse nell’apposito “fondo”.
Giova precisare che il quesito in esame si limita a
scrutinare la sorte dell’incentivo per le prestazioni
previste dall’art. 93, D.Lgs. n. 163/2006, relative ai soli
lavori e per le quali erano state appostate le risorse
nell’apposito “fondo progettazione”, se rese successivamente
all’entrata in vigore della novella legislativa introdotta
dal D.Lgs. n. 50/2016. Resta esclusa dal perimetro del
parere ogni altra questione relativa alle attività non più
incentivabili, che potranno comunque essere affidate agli
uffici interni della stazione appaltante per lavori, servizi
e forniture successivamente alla novella stessa (ex art.
24).
Ciò chiarito, va detto che, anche in questo caso, non sembra
che la questione sia riconducibile al tema dell’applicazione
retroattiva della norma nuova rispetto a situazioni
pregresse, trattandosi, semmai, di un problema di
ultrattività della norma precedente e della sua idoneità a
continuare a regolare un rapporto già in essere.
9. Nel precedente
parere 12.02.2015 n. 3, questa Sezione aveva
espresso il convincimento che,
qualora si succedano nel
tempo disposizioni che diversamente prevedono e regolano
l’incentivazione di talune attività (ora di progettazione
ora tecniche), il discrimine tra le due discipline non è
dato dal momento in cui viene compiuto ogni singolo atto in
cui si realizza il rapporto obbligatorio tra il dipendente e
l’Ente datore di lavoro, consistente nel compimento delle
attività di “progettazione” dedotte in obbligazione, e
neppure dal momento in cui deve pagarsi l’incentivo,
trattandosi di un mero adempimento, ma dal momento in cui
l’opera o il lavoro sono approvati e inseriti nei documenti
di programmazione vigenti nell’esercizio in cui sono stati
adottati o, in prospettiva, nel Documento Unico di
Programmazione che la Giunta è tenuta a predisporre e
presentare al Consiglio per le conseguenti deliberazioni
(art. 170 TUEL).
È in questo momento, infatti, che, con il
lavoro: i) si decide anche di affidare all’interno dell’ente
le attività, (allora) di progettazione (ora) tecniche,
necessarie affinché possa realizzarsi l’opera programmata; ii) si indicano gli stanziamenti disponibili e da inserire
nel bilancio di previsione, sulla base dei quali stabilire
il valore complessivo dell’appalto da porre a base d’asta;
iii) si quantificano le risorse da destinare al “fondo”
incentivazione.
In altre parole, aveva ritenuto questa Sezione che
la
disciplina regolante il rapporto tra Ente e il suo
dipendente –trattandosi di rapporto obbligatorio di natura
privatistica- fosse quella fissata nel momento genetico da
cui scaturisce l’obbligo di rendere la specifica prestazione
[di “progettazione”, ovvero di programmazione, di direzione
lavori, di supporto tecnico-amministrativo alle attività del
responsabile del procedimento e del dirigente competente
alla programmazione dei lavori pubblici (ex art. 24, D.Lgs.
n. 50/2016)], e che tale momento sia, appunto, quello come
sopra indicato.
10. Ovviamente, trattandosi di prestazioni che, soprattutto
se riferite all’esecuzione di lavori, possono essere rese in
un arco di tempo ampio, è del tutto plausibile che la
disciplina del rapporto possa essere incisa con modifiche
apportate da successive fonti normative e/o contrattuali.
Anche da questa considerazione possono trarre fondamento i
dubbi espressi dal Comune istante.
Non è dubbio, infatti, che il contenuto della prestazione
obbligatoria debba conformarsi alle regole vigenti al
momento in cui essa viene resa: ad esempio, quando la norma
sopravvenuta richieda l’adeguamento a certi standard tecnici
o giuridici o di qualità, o il rispetto di talune
prescrizioni in materia di certificazioni, di tracciabilità,
e così oltre. Si tratta, a ben vedere, di disposizioni che
incidono non già sulla fonte dell’obbligo, o sulla
obbligatorietà della prestazione, ma solo sul suo contenuto,
ovvero sui requisiti che la prestazione deve avere per
essere considerata correttamente adempiuta.
In questo contesto può anche accadere che la prestazione,
lecita al momento in cui è sorta, diventi illecita e,
quindi, vietata, prima di essere adempiuta.
C’è da chiedersi se questa sia la situazione venutasi a
determinare per il pagamento dell’incentivo per la
progettazione (ex art. 93, D.Lgs. n. 163/2006) riferito ad
attività che, seppure in precedenza previste, siano state
adempiute solo successivamente alla novella (art. 113 D.Lgs.
n. 50/2016).
11. A parere di questa Sezione così non è.
In via preliminare si rileva che sulla questione qui in
discussione non si rinvengono precedenti pronunciamenti
della Sezione delle Autonomie, dal momento che la
deliberazione 13.05.2016 n. 18
ha espresso principi di diritto su tutt’altri
quesiti. In quella sede, passandosi in rassegna le
disposizioni normative regolanti l’incentivo, ci si è
limitati a menzionare la novità introdotta dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, segnalando che la nuova normativa,
sostitutiva della precedente, abolisce il previgente regime
di incentivo alla progettazione (art. 93, D.Lgs. n.
163/2006), sostituendolo con nuove forme di “incentivazione
per funzioni tecniche”, sulla base di nuove disposizioni
che, ai sensi della disciplina transitoria (articoli 216 e
217), troveranno applicazione per le sole attività poste in
essere successivamente alla data di entrata in vigore, ossia
il 19.04.2016. Tale affermazione, oltre ad essere
senz’altro condivisibile, nei termini di cui si dirà, non
prende posizione ex professo sulla questione qui in esame.
A questo punto mette conto esaminare criticamente quanto,
invece, affermato dall’ANAC nella Delibera n. 973 del 14.09.2016 - Linee Guida n. 1, di attuazione del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi generali
sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e
all’ingegneria”, ove, al capito III, paragrafo 1.3, si
legge: “Nel caso di ricorso alla progettazione interna non
potrà essere applicato l’incentivazione del 2%,
espressamente vietata dalla legge delega 11/2016 (art. 1,
comma 1, lettera oo), principio recepito dall’art. 113,
comma 2 del decreto legislativo n. 50/2016”.
L’affermazione secondo cui la legge delega n. 11/2016 abbia
espressamente “vietato” l’applicazione dell’incentivazione
precedentemente prevista, merita un approfondimento.
La legge di delega, all’art. 1, comma 1, lett. rr (per
errore indicata come oo nella citata delibera), è del
seguente letterale tenore: “(princìpi e criteri direttivi
specifici ai quali il Governo dovrà attenersi) revisione e
semplificazione della disciplina vigente per il sistema
della validazione dei progetti, stabilendo la soglia di
importo al di sotto della quale la validazione è competenza
del responsabile unico del procedimento nonché il divieto
(sottolineatura aggiunta), al fine di evitare conflitti di
interesse, dello svolgimento contemporaneo dell'attività di
validazione con quella di progettazione; al fine di
incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento
della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei
tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti
in corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2
per cento dell'importo posto a base di gara per le attività
tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei
tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi
alla progettazione”.
A ben vedere, l’unico “divieto” che la disposizione
prescrive riguarda “lo svolgimento contemporaneo
dell'attività di validazione con quella di progettazione”, e
ciò per evitare conflitti di interesse.
Nulla del genere, invece, per quanto attiene la disciplina
dell’incentivo; la delega si limita, infatti, a prevedere
che siano incentivate attività diverse da quelle
precedentemente indicate, “escludendo” l’applicazione degli
incentivi alla progettazione.
Conformemente alla delega, l’art. 113 ha indicato le
attività oggetto di nuova incentivazione. Tale (nuova)
disciplina “si applica alle procedure e ai contratti per i
quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di
scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla
data della sua entrata in vigore nonché, in caso di
contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle
procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di
entrata in vigore del presente codice, non siano ancora
stati inviati gli inviti a presentare le offerte” (art. 216,
comma 1); di conseguenza è stato abrogato l’art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006 (unitamente all’abrogazione dell’intero
articolato, ex art. 217).
12. In altre parole la vicenda che ha riguardato l’incentivo
alla progettazione è da inquadrarsi in un normale
avvicendamento di discipline diverse, con applicazione delle
nuove disposizioni alle future fattispecie e ciò in ossequio
al principio della irretroattività della legge.
La circostanza che l’ordinamento non si sia espresso sulla
non meritevolezza o sulla sopravvenuta illiceità del
pagamento dell’incentivo per le prestazioni precedentemente
affidate e ancora da eseguire, impedisce di pervenire alla
conclusione che la nuova disciplina sia di impedimento alla
conclusione del programma obbligatorio generatosi sotto la
vigenza dell’abrogato art. 93. Nel caso in questione,
infatti, si discute di un rapporto obbligatorio, lecitamente
instauratosi tra ente (datore di lavoro) e lavoratore,
avente ad oggetto diritti patrimoniali da eseguirsi con il
pagamento dell’incentivo al verificarsi dell’adempimento
della controparte, alle condizioni che ne impongono la
liquidazione così come disciplinate dall’art. 93 citato.
13. Conclusivamente, in ordine ai quesiti posti, si conferma
l’orientamento espresso da questa Sezione nel richiamato
parere 12.02.2015 n. 3, nel senso che
la disciplina regolante
l’incentivo alla progettazione resta quella vigente al
momento in cui l’opera è stata inserita nei documenti di
programmazione, indipendentemente dal momento in cui le
prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere.
Quanto alle opere già approvate e in corso di realizzazione
alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016,
l’adempimento della obbligazione pecuniaria (il pagamento),
seppure oggetto di uno speciale “procedimento”
amministrativo e contabile, non è impedito dal principio
“tempus regit actum” per la ragione che:
i)
trattasi di
rapporto obbligatorio di natura privatistica;
ii)
l’esclusione dell’incentivo alla progettazione è
espressamente riferita alle procedure di gara non ancora
attivate al momento dell’entrata in vigore della novella
legislativa;
iii)
il pagamento non trova un chiaro e univoco divieto in alcuna
disposizione di legge posta in rassegna da questa Sezione,
né è precluso da altre disposizioni che impediscano il
compimento di tale atto, al tempo in cui deve essere posto
in essere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
parere 20.04.2017 n. 22). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Circa
la legittimità della corresponsione del compenso
incentivante per la progettazione di cui all’art. 92, c. 5, D.Lgs. 163/2006, recante il Codice dei contratti
pubblici (comma abrogato dall’art. 13, c. 1, D.L. 90/2014,
n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 114/2014),
per le attività di manutenzione sia ordinaria che
straordinaria, la Sezione ritiene di non doversi
discostare dal consolidato orientamento delle Sezioni
regionali di controllo in sede consultiva maturato nella
vigenza della citata normativa, orientamento che ha escluso
dal novero delle attività incentivabili la manutenzione
ordinaria e riconosciuto il predetto emolumento solo a
favore delle attività di manutenzione straordinaria, purché
si renda necessaria un’attività di progettazione.
---------------
Circa la riferibilità tanto alla
manutenzione
ordinaria che straordinaria della nozione di attività di
manutenzione espressamente esclusa, dall’art. 93, c. 7-ter,
del D.Lgs. 163/2006 (comma inserito dall’art. 13-bis, c. 1,
D.L. 90/2014, n. 90), dalle prestazioni legittimanti la
fruizione delle risorse del Fondo per la progettazione e
l’innovazione di cui al precedente c. 7-bis del medesimo
articolo la Sezione, sul punto, è tenuta a conformarsi al principio
di diritto stabilito in merito dalla Sezione delle Autonomie
con atto di indirizzo interpretativo, ai sensi dell’art. 6,
c. 4, del D.L. 174/2012, convertito dalla L. 213/2012, in
base al quale “la corretta interpretazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni
recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla
legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione
dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque
attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione
ordinaria o straordinaria”.
---------------
Con la nota riferita in epigrafe, il Sindaco del Comune di
Reggio Calabria (RC) formula una richiesta di parere alla
Sezione articolata nei seguenti plurimi quesiti:
a) se sia legittima la previsione e corresponsione del
compenso incentivante di cui all’art. 92, c. 5, D.Lgs.
163/2006, a favore dei dipendenti interni
all’Amministrazione, a prescindere dalla natura ordinaria o
straordinaria dell’attività di manutenzione;
b) se l’attività di manutenzione di cui all’art. 93, c.
7-ter, del medesimo D.Lgs. 163/2006 ricomprenda, oltre i
lavori di manutenzione ordinaria anche quelli di natura
straordinaria;
c) se l’Ente possa applicare riduzioni ed esenzioni alla
TARI sulla base dell’art. 1, c. 660, L. 147/2013 e del
proprio Regolamento per la disciplina della Tassa sui
rifiuti garantendo la copertura finanziaria con le risorse
della stessa tassa ovvero se, in mancanza, a carico del
bilancio, atteso il rispetto dell’obbligo di assicura, con i
proventi della tariffa, la copertura integrale dei costi di
gestione del servizio; inoltre, se, in assenza di una
normativa ad hoc, l’Ente possa applicare analoghe
agevolazioni a quelle testé citate per il servizio
acquedotto, garantendone la riduzione della tariffa con la
rimodulazione della tariffa per gli altri utenti non aventi
diritto alle agevolazioni;
d) se l’art. 5, c. 9, D.L. 95/2012 sia compatibile con
l’art. 90 T.U.E.L. al fine di poter ricorrere al
conferimento di incarichi gratuiti a ex dipendenti per gli
uffici di supporto alle dirette dipendenze degli organo di
governo ivi contemplati;
e) se nei rimborsi spese che devono essere rendicontati
nell’ambito degli incarichi di cui al medesimo art. 5, c. 9,
D.L. 95/2012 possano rientrare i buoni pasto.
...
3. Nel merito, il parere è parzialmente ammissibile dal
punto di vista oggettivo, per i punti a), b), d), ed e), in
termini di afferenza alla materia della contabilità pubblica
nell’accezione fornita dalla costante giurisprudenza
contabile in sede consultiva (ex multis, deliberazioni n.
5/AUT/2006 e n. 54/CONTR/2010, rispettivamente della Sezione
delle Autonomie e delle Sezioni Riunite in sede di
controllo), quale “sistema di principi e di norme che
regolano l'attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e
degli Enti pubblici”, in una visione dinamica di
salvaguardia degli equilibri dell’Ente.
a) Più precisamente, è ammissibile oggettivamente il primo
quesito, concernente la legittimità della corresponsione del
compenso incentivante per la progettazione di cui all’art.
92, c. 5, D.Lgs. 163/2006, recante il Codice dei contratti
pubblici (comma abrogato dall’art. 13, c. 1, D.L. 90/2014,
n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 114/2014),
per le attività di manutenzione sia ordinaria che
straordinaria.
A tale proposito,
la Sezione ritiene di non doversi
discostare dal consolidato orientamento delle Sezioni
regionali di controllo in sede consultiva maturato nella
vigenza della citata normativa, orientamento che ha escluso
dal novero delle attività incentivabili la manutenzione
ordinaria e riconosciuto il predetto emolumento solo a
favore delle attività di manutenzione straordinaria, purché
si renda necessaria un’attività di progettazione
(cfr. Sez. Aut.
deliberazione 23.03.2016 n. 10).
b) Risulta ammissibile oggettivamente anche il secondo
quesito relativo alla riferibilità tanto alla manutenzione
ordinaria che straordinaria della nozione di attività di
manutenzione espressamente esclusa, dall’art. 93, c. 7-ter,
del D.Lgs. 163/2006 (comma inserito dall’art. 13-bis, c. 1,
D.L. 90/2014, n. 90), dalle prestazioni legittimanti la
fruizione delle risorse del Fondo per la progettazione e
l’innovazione di cui al precedente c. 7-bis del medesimo
articolo.
La Sezione, sul punto, è tenuta a conformarsi al principio
di diritto stabilito in merito dalla Sezione delle Autonomie
con atto di indirizzo interpretativo, ai sensi dell’art. 6,
c. 4, del D.L. 174/2012, convertito dalla L. 213/2012, in
base al quale “la corretta interpretazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni
recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla
legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione
dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque
attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione
ordinaria o straordinaria”
(Sez. Aut.
deliberazione 23.03.2016 n. 10).
c) Il terzo quesito, relativo alle eventuali riduzioni ed
esenzioni alla TARI sulla base dell’art. 1, c. 660, L.
147/2013 e del proprio Regolamento per la disciplina della
Tassa sui rifiuti e alle modalità della relativa copertura
finanziaria, deve essere dichiarato oggettivamente
inammissibile poiché, avendo l’Ente aderito alla procedura
di riequilibrio finanziario pluriennale di cui all’art.
243-bis T.U.E.L., il relativo riscontro è suscettibile di
produrre sovrapposizioni con altra funzione di controllo
della Sezione e, precisamente, con l’attività di
monitoraggio di cui al successivo art. 243-quater T.U.E.L.
(Sez. Controllo Sicilia, n. 274/2015, Sez. Controllo
Basilicata, n. 59/2015).
La costante giurisprudenza delle Sezioni regionali di
controllo, difatti, è nel senso di escludere la sussistenza
dei requisiti di generalità e astrattezza del quesito posto
nelle ipotesi in cui la relativa soluzione possa generare
interferenze con altre funzioni, della stessa Corte dei
conti o di altre Magistrature.
Analoghe considerazioni giustificano la dichiarazione di
inammissibilità oggettiva del successivo quesito avente a
oggetto la sussistenza di una facoltà dell’Ente, in assenza
di una normativa ad hoc, di introduzione di agevolazioni
analoghe a quelle testé citate per il servizio acquedotto,
garantendo la riduzione della tariffa con la rimodulazione
della stessa per gli altri utenti non aventi diritto alle
agevolazioni.
d) Un ulteriore quesito riguarda la possibilità di
attribuire incarichi a titolo gratuito a ex dipendenti e,
accertata nei confini sopra descritti la relativa
ammissibilità oggettiva, lo stesso deve essere risolto nei
termini che seguono.
La disposizione di cui all’art. 5, c. 9, D.L. 95/2012 (come
successivamente modificato, da ultimo, dall’art. 17, c. 3,
L. 124/2015) vieta l’attribuzione di incarichi di studio, di
consulenza, dirigenziali o direttivi o di cariche in organi
di governo a soggetti collocati in quiescenza (ad eccezione
dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei
componenti o titolari degli organi elettivi degli ordini,
dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali
e degli enti aventi natura associativa), salvo che a titolo
gratuito (e, per i soli incarichi dirigenziali e direttivi,
ferma restando la gratuità, per una durata non superiore a
un anno, non prorogabile né rinnovabile).
L’Ente domanda se tali incarichi possano essere attribuiti
anche per gli uffici di cui all’art. 90 del T.U.E.L. ovvero
per gli uffici posti alle dirette dipendenze del Sindaco,
del Presidente della Provincia, della Giunta o degli
Assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di
controllo loro attribuite dalla legge.
Tale disposizione prevede che detti uffici siano “costituiti
da dipendenti dell'ente, ovvero, salvo che per gli enti
dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori
assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se
dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati
in aspettativa senza assegni” (1° comma) e che “Al personale
assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo
determinato si applica il contratto collettivo nazionale di
lavoro del personale degli enti locali.” (2° comma), fermo
restando che “(…) il trattamento economico accessorio
previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da
un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro
straordinario, per la produttività collettiva e per la
qualità della prestazione individuale.” (3° comma).
Fermo restando che potranno essere attribuiti agli ex
dipendenti gli incarichi non vietati dall’art. 5, c. 9, D.L.
95/2012 anche nell’ambito degli uffici c.d. di staff, per
ciò che concerne l’attribuibilità a titolo gratuito degli
incarichi altrimenti vietati, la Sezione ritiene di non
doversi discostare dalla costante giurisprudenza contabile
formatasi in sede consultiva per la quale, in virtù del
carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro
(artt. 2094 e 2126 c.c.) salvo i casi espressamente previsti
dalla legge, non è ammissibile l’attribuzione a titolo
gratuito degli incarichi di cui all’art. 90 T.UE.L..
Quest’ultimo, tra l’altro, letteralmente impone, se il
lavoratore non sia già dipendente dell’Ente, la tipologia
del rapporto di lavoro a tempo determinato, che non può che
essere, in assenza di una diversa qualificazione, un
rapporto di lavoro subordinato, nel caso di specie con
esplicita applicazione del contratto collettivo nazionale di
lavoro del personale degli enti locali (per un’ampia
ricostruzione in merito, cfr. Sezione controllo
Campania/155/2014/PAR e Campania/213 /2015/PAR).
La natura necessariamente onerosa del rapporto di lavoro
presso gli uffici c.d. di staff è confermata dal fatto che
nel caso di dipendente di altra pubblica amministratore vi
sarà un obbligatorio collocamento in aspettativa senza
assegni, il che mal si concilia con l’ipotesi di possibile
gratuità del contratto in esame.
e) Infine, con riguardo alla ricomprensibilità dei buoni
pasto nell’ambito dell’ultimo periodo dell’art. 5, c. 9,
D.L. 95/2012, il quale stabilisce che “Devono essere
rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei
limiti fissati dall'organo competente dell'amministrazione
interessata”, premessa l’ammissibilità oggettiva del quesito
proposto nei termini sopra tracciati, si osserva quanto
segue.
Occorre premettere che la questione rileva, ovviamente, per
i rimborsi spese concedibili nell’ambito degli incarichi
gratuiti altrimenti vietati dalla norma considerata.
A tale proposito, come chiarito con la Circolare n. 6 del 04.12.2014 del Ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione (“Interpretazione e applicazione
dell'articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012,
come modificato dall'articolo 6 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90”), la disciplina in materia di incarichi agli ex
dipendenti “non esclude alcuna delle forme contrattuali
contemplate dall'articolo 7 del decreto legislativo n. 165
del 2001 (ovvero contratti di lavoro autonomo, di natura
occasionale o coordinata e continuativa, che possono essere
utilizzati per attribuire a esperti incarichi individuali
per esigenze cui non si può far fronte con personale in
servizio, n.d.r.), ma impedisce di utilizzare quelle forme
contrattuali per conferire incarichi aventi il contenuto
proprio degli incarichi vietati” e, di conseguenza, che
“l'ambito dell'eccezione, dal punto di vista oggettivo,
coincide con quello dei divieti”.
Tanto premesso, occorre considerare che non risulta
sovrapponibile l’istituto del buono pasto, tipico del
rapporto di lavoro subordinato, con quello del rimborso
spese, tipico del lavoro autonomo o parasubordinato.
A conferma, la Circolare 4/2014 del Ministero della Funzione
pubblica ha escluso l’utilizzabilità dei buoni pasto per i
contratti di collaborazione stabilendo che “Come noto,
l'erogazione di buoni pasto spetta al personale contrattualizzato dipendente della pubblica amministrazione
a fronte di un orario di lavoro articolato sui cinque giorni
lavorativi ed in assenza di un servizio mensa o altro
servizio sostitutivo presso la sede lavorativa (si veda
l'articolo 2, comma 11, della legge 28.12.1995, n.
550, legge finanziaria 1996). Potrà, invece, essere previsto
nel contratto un apposito rimborso spese, in quanto istituto
tipico nei rapporti di lavoro autonomo, qualora ne ricorrano
i presupposti.”.
Del resto, la norma della quale si domanda
un’interpretazione non pone nessun vincolo contenutistico
(in merito alla tipologia e all’entità), ma solo un obbligo
di rendicontazione (ai fini del controllo finalistico della
spesa in materia e del rispetto dei limiti fissati
dall’Amministrazione di appartenenza) delle spese sostenute
per l’espletamento dell’incarico e, pertanto, non ha portata
precettiva sullo specifico istituto dei buoni pasto.
A tale proposito, occorre considerare che il presupposto per
l’accesso ai buoni basto è rappresentato dalla sussistenza
di un rapporto di lavoro dipendente tra il lavoratore e il
datore di lavoro come chiarito dalla giurisprudenza:
●
costituzionale (i buoni pasto “costituiscono «una sorta di
rimborso forfettario delle spese che il lavoratore, tenuto a
prolungare la propria permanenza in servizio oltre una certa
ora, deve affrontare per consumare il pranzo». Si tratta,
quindi, di «una componente del trattamento economico
spettante ai dipendenti pubblici, che rientra nella
regolamentazione del contratto di diritto privato che lega
tali dipendenti “privatizzati” all’ente di appartenenza",
Corte cost. nn. 77/2011 e 225/2013),
●
contabile
(“L'erogazione del buono pasto da parte delle
Amministrazioni pubbliche è conseguente alle previsioni
contenute nella contrattazione collettiva, trattandosi, in
sostanza, di spesa che l'Ente sostiene in relazione ai
rapporti di lavoro dipendente in essere e, pertanto, rientra
fra quelle inerenti il complessivo costo del personale
dipendente dell'Ente.”, v. delibera Sezione controllo
Piemonte, n. 14/2012/SRCPIE/PAR) e
●
civile (nel chiarire la
natura meramente assistenziale di tale erogazione, da
ultimo, v. Cass. civ., Sez. lav. n. 14388/2016, ha precisato
che trattasi di un’erogazione “che, nell'ambito
dell'organizzazione dell'ambiente di lavoro, è diretta a
conciliare le esigenze del servizio con le esigenze
quotidiane del dipendente, offrendogli, laddove non sia
previsto un servizio mensa, la fruizione del pasto (i cui
costi vengono assunti dall'Amministrazione di appartenenza)
onde garantire allo stesso il benessere fisico necessario
per proseguire l'attività lavorativa”).
L’alternatività rispetto alla fruibilità a titolo gratuito
di una mensa, del resto, non può essere forzata nel senso di
un’alternatività rispetto alla concessione, su base
contrattuale individuale, di un rimborso spese per la
medesima causale (consumo di un pasto nelle vicinanze del
luogo di lavoro), rimborso la cui corresponsione è governata
dalla regole discrezionali ordinarie che presiedono a tale
tipologia di erogazione (sussistenza di un’inerenza
funzionale con l’erogazione del servizio e contenimento
della spesa) con rilievo in senso analogico della disciplina
dei contratti collettivi in materia di buoni pasto (l’art.
46, c. 2, del CCNL del 14.09.2000, stabilisce che “i
lavoratori hanno titolo, nel rispetto della specifica
disciplina sull'orario adottata dall'ente, ad un buono pasto
per ogni giornata effettivamente lavorata nella quale, siano
soddisfatte le condizioni di cui all'art. 45, comma 2” del
medesimo CCNL”.
Tale ultima disposizione prevede che:
“possono usufruire della mensa i dipendenti che prestino
attività lavorativa al mattino con prosecuzione nelle ore
pomeridiane, con una pausa non superiore a due ore e non
inferiore a trenta minuti. La medesima disciplina si applica
anche nei casi di attività per prestazioni di lavoro
straordinario o per recupero. Il pasto va consumato al di
fuori dell'orario di servizio”) e alla luce delle specifiche
indicazioni dell’ARAN (a titolo non esaustivo, la Circolare
ARAN RAL_1849_Orientamenti Applicativi, con la quale è stato
precisato che “(…) d) il CCNL, pertanto, si è limitato
semplicemente a prevedere la possibilità di corrispondere al
lavoratore buoni pasto, in alternativa al servizio mensa,
solo in presenza delle precise condizioni generali dallo
stesso stabilite; e) spetta al singolo ente, invece, in
relazione al proprio assetto organizzativo ed alle risorse
spendibili a tal fine, oltre che la decisione se attivare o
meno il servizio mensa o il buono pasto sostitutivo,
definire autonomamente la disciplina di dettaglio sulle
modalità di erogazione anche sulla tipologia del buono
pasto, tenendo conto ovviamente del delicato profilo dei
costi; f) sussiste, pertanto, un autonomo spazio decisionale
che ogni ente può utilizzare in relazione alla particolare
natura di talune prestazioni di lavoro; g) nell’esercizio di
tale autonomo potere decisionale, l’ente definisce in via
preventiva, con conseguente assunzione della relativa
responsabilità, secondo criteri di ragionevolezza e di
compatibilità dei relativi oneri, le regole e le condizioni
per la fruizione del buono pasto, ivi compresa l'entità
delle prestazioni minime antimeridiane e pomeridiane, a tal
fine richieste al personale, evitandosi peraltro situazioni
che possono dare luogo a forme di disparità di trattamento
tra le diverse categorie di dipendenti.”) oltre, che,
infine, dei vincoli quantitativi vigenti per i buoni pasto
(l’art. 5, c. 7, del medesimo D.L. 95/2012 stabilisce che “A
decorrere dal 01.10.2012 il valore dei buoni
pasto attribuiti al personale, anche di qualifica
dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall'Istituto nazionale di statistica
(ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge
31.12.2009, n. 196, nonché le autorità indipendenti ivi
inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa
(Consob) non può superare il valore nominale di 7,00 euro”)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria,
parere 26.01.2017 n. 5). |
18.05.2017 - LA
SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Motivazione dell’annullamento d’ufficio della concessione
edilizia in sanatoria intervenuto a distanza di anni dal suo
rilascio: rimessione all’Adunanza plenaria.
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Edilizia – Concessione edilizia in sanatoria –
Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni dal
rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine
all’interesse pubblico comparato con quello del privato –
Contrasto giurisprudenziale – Rimessione all’Adunanza
plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, stante il contrasto
giurisprudenziale formatosi sul punto, la questione se,
nella vigenza dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241,
come introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, l’annullamento
di un provvedimento amministrativo illegittimo, sub specie
di concessione in sanatoria, intervenuta ad una distanza
temporale considerevole dal provvedimento annullato, debba o
meno essere motivata in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico valutato in concreto in correlazione ai
contrapposti interessi dei privati destinatari del
provvedimento ampliativo e agli eventuali interessi dei
controinteressati, indipendentemente dalla circostanza che
il comportamento dei privati possa aver determinato o reso
possibile il provvedimento illegittimo, anche in
considerazione della valenza –sia pure solo a fini
interpretativi– dell’ulteriore novella apportata al citato
articolo, la quale appare richiedere tale valutazione
comparativa anche per il provvedimento emesso nel termine di
18 mesi, individuato come ragionevole, e appare consentire
un legittimo provvedimento di annullamento successivo solo
nel caso di false rappresentazioni accertate con sentenza
penale passata in giudicato (1).
---------------
(1)
La Sezione ha chiarito che sulla questione si sono formati
due contrapposti orientamenti.
Un primo, più recente orientamento (Cons.
St., sez. VI, 27.01.2017, n. 341), con
riferimento ad un provvedimento di annullamento in
autotutela di una concessione in sanatoria, e rispetto alla
formulazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, nel
testo modificato dalla l. n. 15 del 2005, ha affermato che
il potere di annullamento ha un presupposto rigido
(l’illegittimità dell’atto da annullare) e due presupposti
riferiti a concetti indeterminati, affidati
all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione (la
ragionevolezza del termine di adozione dell’atto; la
sussistenza dell’interesse pubblico alla sua rimozione
unitamente alla considerazione dell’interesse dei
destinatari).
Ha quindi ritenuto necessaria una motivazione in ordine
all’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto
in relazione alla pregnanza e preminenza dell’interesse
pubblico alla eliminazione d’ufficio di un titolo
illegittimo; tanto più, in presenza di un provvedimento,
come quello in materia edilizia, destinato ad esaurirsi con
l’adozione dell’atto permissivo, dove assume maggiore
rilevanza l’interesse dei privati destinatari dell’atto
ampliativo e minore rilevanza quello pubblico
all’eliminazione di effetti che si sono prodotti in via
definitiva. Con l’ulteriore corollario che l’interesse
pubblico alla rimozione attuale dell’atto non può coincidere
con l’esigenza del mero ripristino della legalità violata e
deve essere integrato da ragioni differenti.
L’orientamento maggioritario ha invece affermato che
il provvedimento di annullamento di una concessione edilizia
illegittima è in re ipsa correlato alla necessità di
curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al
ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio
del titolo edilizio comporta la sussistenza di una
permanente situazione contra legem e di conseguenza
ingenera nell’amministrazione il potere-dovere di annullare
in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita (Cons.
St., sez. IV, 19.08.2016, n. 3660; id.,
sez. V, 08.11.2012, n. 5691).
Ciò soprattutto quando l’illegittimità è dipesa dalle
prospettazioni non veritiere del privato. La motivazione
sulla comparazione degli interessi è stata ritenuta
necessaria quando l’esercizio dell’autotutela discenda da
errori di valutazione dovuti all’amministrazione (n. 5691
del 2012 cit.).
In particolare, in fattispecie nelle quali era applicabile
il 21-nonies, cit. si è ritenuto che, se è stata
rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto
in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio
di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso
soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se
ragione idonea e sufficiente per l’adozione del
provvedimento di annullamento di ufficio del titolo
medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere,
ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un
interesse pubblico attuale e concreto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 19.04.2017 n. 1830
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. La sentenza appellata ha respinto il ricorso proposto
dai proprietari di un immobile, acquistato nel 1995, per
l’annullamento dell’ordinanza n. 124 del 26.08.2008, con la
quale: era stata annullata la concessione edilizia in
sanatoria, rilasciata nell’ottobre 1999 (in riferimento a
pratica edilizia del 1994 attivata dalla precedente
proprietaria); erano stati annullati gli atti ad essa
consequenziali; era stata ordinata la demolizione del
manufatto realizzato abusivamente.
1.1. La concessione in sanatoria riguardava una unità
immobiliare adibita a guardiania, facente parte di un
complesso ex industriale, composto anche da un capannone e
da un fabbricato uso uffici, acquistato unitamente alla
guardiania. Mediante successivi titoli abilitativi
intervenuti sino al 2005, che avevano riguardato anche gli
altri immobili del complesso, con connessi mutamenti di
destinazione d’uso, l’originario capannone industriale era
stato trasformato in cinema/teatro e la ex guardiania in
bar/rosticceria.
In esito al riscontro di irregolarità in un sopralluogo del
2007, nel 2008 venivano avviati procedimenti per
l’annullamento dei titoli edilizi, sia per l’immobile
adibito a cinema/teatro, che per quello relativo a
bar/rosticceria. Il procedimento relativo al primo veniva
archiviato, in ragione della ritenuta assenza di ragioni
attuali di interesse pubblico in raffronto alla esigenze di
certezza delle situazioni giuridiche; il secondo sfociava
nel provvedimento di annullamento in autotutela oggetto del
presente processo.
1.2. L’annullamento della concessione edilizia in sanatoria,
e degli atti consequenziali, veniva fondato dal giudice di
primo grado sulla illegittimità della sanatoria, per essere
stata rilasciata in difetto di istruttoria sulla scorta di
una errata prospettazione dello stato dei luoghi, con
conseguente situazione permanente contra ius,
rispetto alla quale l’interesse pubblico attuale al
ripristino della legalità violata risultava in re ipsa.
1.3. La sentenza di primo grado, dopo aver esposto le
ragioni a fondamento del ritenuto ampliamento del manufatto
in pendenza della pratica di condono da parte dei nuovi
proprietari e aver collegato lo stesso ad una domanda
presentata dalla originaria proprietaria in modo ambiguo,
previo accordo con i ricorrenti verosimilmente già in
trattative per l’acquisto, così essenzialmente argomenta:
a) l’affidamento riposto dai privati nella legittimità della
concessione in sanatoria, invocato nel ricorso, non è degno
di tutela in mancanza di buona fede, atteso che la
situazione di illegalità è stata creata dai ricorrenti,
ampliando la ex guardiania in epoca successiva all’acquisto;
b) pertanto, l’amministrazione non aveva l’obbligo di verificare se
l’interesse al ripristino della legalità violata fosse o
meno prevalente sul contrapposto interesse dei privati; né
il potere dell’amministrazione di annullamento dell’atto è
limitato in ragione del lungo tempo trascorso dal rilascio
della concessione illegittima;
c) il manufatto, in zona di inedificabilità assoluta ai sensi della
legge regionale n. 56 del 1980, non avrebbe potuto essere
condonato o altrimenti sanato;
d) nella fattispecie, l’interesse pubblico al ripristino della
legalità violata –che negli abusi è in re ipsa e non
richiede una particolare motivazione– è prevalente rispetto
all’interesse dei ricorrenti al mantenimento del manufatto
abusivo, venendo anche in questione valori ambientali
d’importanza prevalente secondo il legislatore regionale.
2. L’appello, oltre a criticare la sentenza nella parte in
cui ritiene accertato l’ampliamento del manufatto ad opera
dei nuovi proprietari in pendenza della pratica di condono,
si incentra, essenzialmente, nell’invocazione della
violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990,
introdotto dalla legge n. 15 del 2005. Si deduce che, sulla
base di tale disposizione, è richiesto all’amministrazione
di valutare in concreto la sussistenza di un interesse
pubblico alla eliminazione di un provvedimento illegittimo,
diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata,
anche comparandolo con l’interesse dei destinatari e
controinteressati, e, comunque, entro un termine
ragionevole, in ragione delle esigenze di certezza delle
situazioni giuridiche originate dal provvedimento
annullabile in via di autotutela e dell’affidamento sulle
stesse riposto dagli interessati, ingenerato dal trascorrere
di un apprezzabile lasso temporale.
Mentre, il provvedimento impugnato prescinderebbe
dall’apprezzamento sul se il provvedimento abbia determinato
un effetto negativo sull’assetto urbanistico; prescinderebbe
dalla considerazione degli interessi privati sacrificati,
dal tempo trascorso (pari a nove anni), financo dal mancato
rilievo della difformità nel sopralluogo compiuto
dall’amministrazione nel 2002.
Inoltre, il comportamento dell’amministrazione sarebbe stato
contraddittorio rispetto alla valutazione in concreto fatta
relativamente agli altri immobili dello stesso complesso,
dove l’archiviazione è stata disposta valutando
l’affidamento sulle esistenti autorizzazioni paesaggistiche
e valutando la mancanza di ragioni attuali di interesse
pubblico all’annullamento.
Nelle memorie, si invoca, a fini interpretativi, la
successiva formulazione dello stesso art. 21-nonies cit.
(risultante dalle modifiche apportate con la legge n. 124
del 2015), che individua in 18 mesi il termine ragionevole
per l’esercizio dell’autotutela.
3. Va precisato che ratione temporis è applicabile
l’art. 21-nonies “Annullamento d'ufficio”, inserito
dall'art. 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15, che
così dispone: “1. Il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge.
2. E' fatta salva la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.”.
4. Nella giurisprudenza di questo Consiglio appaiono
individuabili due contrapposti orientamenti. Di
seguito, senza pretese di completezza, sono sinteticamente
esposti.
4.1. Recentemente (CdS, sez. VI, n. 341 del 2017), in
riferimento a provvedimento di annullamento in autotutela di
una concessione in sanatoria, e rispetto alla stessa
formulazione dell’art. 21-nonies, cit. applicabile
ratione temporis, si è ritenuto che il potere di
annullamento ha un presupposto rigido (l’illegittimità
dell’atto da annullare) e due presupposti riferiti a
concetti indeterminati, affidati all’apprezzamento
discrezionale dell’amministrazione (la ragionevolezza del
termine di adozione dell’atto; la sussistenza dell’interesse
pubblico alla sua rimozione unitamente alla considerazione
dell’interesse dei destinatari). Il fondamento di questi due
ultimi presupposti è stato individuato nella garanzia della
tutela dell’affidamento dei destinatari in ordine alla
certezza e stabilità degli effetti giuridici, mediante la
valutazione discrezionale della amministrazione nella
ricerca del giusto equilibrio tra ripristino della legalità
violata e conservazione dell’assetto regolativo del
provvedimento viziato. Esigenze rafforzate dalla novella del
2015, con la fissazione del termine ragionevole in quello
massimo di 18 mesi, valevole come indice ermeneutico.
La conseguenza che la richiamata decisione ha tratto è stata
quella di una motivazione necessaria circa l’apprezzamento
degli interessi dei destinatari dell’atto in relazione alla
pregnanza e preminenza dell’interesse pubblico alla
eliminazione d’ufficio di un titolo illegittimo; tanto più,
in presenza di un provvedimento, come quello in materia
edilizia, destinato ad esaurirsi con l’adozione dell’atto
permissivo, dove assume maggiore rilevanza l’interesse dei
privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza
quello pubblico all’eliminazione di effetti che si sono
prodotti in via definitiva. Con l’ulteriore corollario che
l’interesse pubblico alla rimozione attuale dell’atto non
può coincidere con l’esigenza del mero ripristino della
legalità violata e deve essere integrato da ragioni
differenti.
La decisione del 2017 si collega all’orientamento (espresso
da CdS, sez. IV n. 351 del 2016, e ritenuto generalmente
condiviso da altre pronunce (CdS, IV, n. 915 del 2013),
secondo cui l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio
di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di
legittimità codificati nell’articolo 21-nonies cit.,
consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e
nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati. Con
l’ulteriore canone del termine ragionevole per il legittimo
esercizio del potere di autotutela (poi fissato in 18 mesi).
4.2. Invece, appare maggioritario l’orientamento
-ripreso anche nella vigenza dell’art. 21-nonies cit. (CdS,
sez. IV, n. 2885 del 2016; ibidem, n. 4619 del 2012)-
secondo il quale il provvedimento di annullamento di
concessione edilizia illegittima è da ritenersi in re
ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse
pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità
violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta
la sussistenza di una permanente situazione contra legem
e di conseguenza ingenera nell’amministrazione il
potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione
illegittimamente assentita (CdS sez. IV, n. 3660 del 2016;
CdS, sez. V, n. 5691 del 2012).
In questo filone giurisprudenziale, per esonerare dalla
comparazione tra interesse pubblico e interesse privato,
spesso, assumono rilievo le indicazioni fuorvianti o false
della parte istante, che avevano determinato l’illegittimità
del provvedimento annullato (n. 3660 del 2016 cit.). Invece,
la motivazione sulla comparazione degli interessi è
richiesta quando l’esercizio dell’autotutela discenda da
errori di valutazione dovuti all’amministrazione (n. 5691
del 2012 cit.).
In particolare, in fattispecie nelle quali era applicabile
il 21-nonies, cit. si è ritenuto che, se è stata
rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto
in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio
di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso
soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se
ragione idonea e sufficiente per l’adozione del
provvedimento di annullamento di ufficio del titolo
medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere,
ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un
interesse pubblico attuale e concreto.
Si è poi ritenuto del tutto inconferente, nell’economia
della causa, il richiamo dell’appellante alla disciplina
contenuta negli artt. 21-octies e 21-nonies della legge n.
241 del 1990, perché proprio la falsa rappresentazione della
realtà, rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da
parte dell’amministrazione comunale, del provvedimento di
annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(n. 4619 del 2012 cit.).
5. In estrema sintesi,
appare emergere un
contrasto tra:
- un recente orientamento che, sulla base
dell’art. 21-nonies, cit., e anche in considerazione delle
modifiche dello stesso, ritiene necessaria una valutazione
dell’interesse pubblico in concreto in rapporto agli
interessi dei destinatari (e dei controinteressati) degli
originari provvedimenti, in un tempo ragionevole; con la
conseguenza che il lungo decorso del tempo agisce a favore
dell’affidamento ingenerato nel privato e incide anche sulla
valutazione del pubblico interesse in concreto;
- un orientamento, che sembra maggioritario,
il quale, pur nella vigenza del citato articolo, esclude la
necessità della valutazione dell’interesse pubblico in
concreto, essendo esso insito nella restaurazione della
legalità violata, quantomeno, tutte le volte che la
illegittimità sia dipesa dalle prospettazioni non veritiere
del privato.
6. Nella specie,
il giudice di primo grado, con argomentazioni pure censurate
dai ricorrenti, ha ritenuto attribuibile l’ampliamento del
manufatto in pendenza della pratica di condono ai nuovi
proprietari ed ha collegato l’ampliamento ad una domanda
presentata dalla originaria proprietaria in modo ambiguo,
previo accordo con i ricorrenti; lo stesso giudice ha
escluso per questi motivi ogni rilievo al tempo trascorso (9
anni) e alla mancata valutazione comparativa tra interesse
pubblico in concreto e affidamento dei privati, in quanto
affidamento non degno di essere tutelato. Mentre, gli
appellanti assumono comunque la violazione dell’art.
21-nonies, nell’interpretazione sostenuta dalla recente
decisione del 2017.
7. Con Ordinanza collegiale n. 1337 del 2017, è stata già
sottoposta all’adunanza plenaria la questione “Se
l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella
specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente
motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto
e attuale al ripristino della legalità violata quando il
provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza
temporale straordinariamente lunga dalla commissione
dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del
provvedimento sanzionatorio”.
7.1. Stante il contrasto giurisprudenziale in atto, al
Collegio appare opportuno –anche al fine di favorire la
trattazione della materia nell’ambito di un quadro più
completo– deferire il presente ricorso all'esame
dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi
dell'art. 99, co. 1, c.p.a., per la decisione della seguente
questione: “Se, nella vigenza dell’art.
21-nonies, come introdotto dalla legge n. 15 del 2005,
l’annullamento di un provvedimento amministrativo
illegittimo, sub specie di concessione in sanatoria,
intervenuta ad una distanza temporale considerevole dal
provvedimento annullato, debba o meno essere motivata in
ordine alla sussistenza di un interesse pubblico valutato in
concreto in correlazione ai contrapposti interessi dei
privati destinatari del provvedimento ampliativo e agli
eventuali interessi dei controinteressati, indipendentemente
dalla circostanza che il comportamento dei privati possa
aver determinato o reso possibile il provvedimento
illegittimo, anche in considerazione della valenza –sia pure
solo a fini interpretativi– della ulteriore novella
apportata al citato articolo, la quale appare richiedere
tale valutazione comparativa anche per il provvedimento
emesso nel termine di 18 mesi, individuato come ragionevole,
e appare consentire un legittimo provvedimento di
annullamento successivo solo nel caso di false
rappresentazioni accertate con sentenza penale passata in
giudicato”. |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza di legittimità ha
più volte affermato
che al soggetto autore di una falsa dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente
applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen..
Ciò, ad esempio:
- laddove vengano rese false attestazioni circa gli stati,
le qualità personali ed i fatti indicati nell'art. 46 del
d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a una gara di
appalto,
oppure
- si affermi in difformità dal vero di aver completato opere
edilizie entro i termini utili per la concessione in
sanatoria,
ovvero ancora
- si dichiari falsamente di non avere mai riportato condanne
penali con atto allegato ad un'istanza di iscrizione nel
registro dei praticanti geometri.
Occorre, quale presupposto per
l'applicazione della norma de qua, che la dichiarazione
sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti
oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a
dire che esista l'obbligo del privato di attestare il vero
in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici
effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è
inserita dal pubblico ufficiale ricevente».
---------------
1. Il ricorso appare fondato.
1.1 La giurisprudenza di legittimità ha
infatti più volte affermato
-in casi analoghi a quello oggi sub judice-
che al soggetto autore di una falsa dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente
applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.:
ciò, ad esempio, laddove vengano rese false attestazioni
circa gli stati, le qualità personali ed i fatti indicati
nell'art. 46 del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a
una gara di appalto
(Cass., Sez. V, n. 20570 del 10/05/2006, Esposito),
oppure si affermi in difformità dal vero di aver
completato opere edilizie entro i termini utili per la
concessione in sanatoria
(Cass., Sez. V, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi),
ovvero ancora si dichiari falsamente di non avere
mai riportato condanne penali con atto allegato ad
un'istanza di iscrizione nel registro dei praticanti
geometri (Cass.,
Sez. V, n. 48681 del 06/06/2014, Sola).
Occorre, quale presupposto per
l'applicazione della norma de qua, che la
dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità
dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale,
vale a dire che esista l'obbligo del privato di attestare il
vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici
effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è
inserita dal pubblico ufficiale ricevente»
(v. Cass., Sez. V, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici, nonché
Cass., Sez. V, n. 39215 del 04/06/2015, Cremonese, dove la
configurabilità del delitto è stata esclusa in casi dove le
false dichiarazioni erano state rese ad un curatore
fallimentare, sull'avvenuta distruzione di documentazione
contabile e societaria, e ad un notaio, sul precedente
acquisto a titolo di usucapione di un bene oggetto di
successiva vendita).
Il menzionato presupposto ricorre, all'evidenza, anche
nell'odierna fattispecie concreta, visto che le indicazioni
della In. sullo status di disoccupati da riconoscere
ad alcuni componenti del suo nucleo familiare valevano ad
incidere sulla formazione della graduatoria per
l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.
1.2 L'approccio interpretativo fatto proprio dal Gip del
Tribunale di Palermo, del resto, risulta chiaramente
smentito fino dal 2010, quando si è affermato che
argomentazioni come quelle oggi ribadite dal giudice di
merito portano «ad un risultato ermeneutico da ritenere
frutto di errata applicazione dell'art. 483 cod. pen.
Invero, che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio,
presentata dal privato a corredo della istanza
amministrativa, sia tale da integrare il requisito della
"attestazione in atto pubblico", come previsto dall'art. 483
cod. pen., non può essere posto in dubbio.
Questa Corte, al riguardo, ha già messo in evidenza che le
false dichiarazioni del privato concernenti la sussistenza
dei requisiti richiesti dalla legge o dagli strumenti
urbanistici per il rilascio di concessione edilizia, essendo
destinate a dimostrare la verità dei fatti cui si
riferiscono e ad essere "recepite" quali condizioni per la
emanazione o per la efficacia dell'atto pubblico, producendo
cioè immediati effetti rilevanti sul piano giuridico, sono
idonee ad integrare, se ideologicamente false, il delitto di
cui all'art. 483 cod. pen. [...].
Della ricorrenza del requisito in parola non hanno dubitato
nemmeno le Sezioni Unite le quali, in una fattispecie in
tutto analoga (presentazione di dichiarazione di privato
circa il possesso dei requisiti per la partecipazione ad una
gara d'appalto), hanno confermato la sussistenza del reato
di cui all'art. 483 cod. pen. (Cass., Sez. U, n. 35488 del
28/06/2007, Scelsi).
Ad avviso della consolidata giurisprudenza, in conclusione,
la dichiarazione del privato resa con dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà, in presenza di una norma
che preveda il ricorso a tale procedura, vale a far ritenere
integrate anche l'ulteriore requisito richiesto dall'art.
483 cod. pen. (dichiarazione "in atto pubblico") ogni volta
in cui la dichiarazione stessa sia destinata ad essere poi
"trasfusa" in un atto pubblico [...].
Viceversa e specularmente si è escluso, ad esempio, che
integri il delitto di falso ideologico commesso dal privato
in atto pubblico la condotta del privato che attesti
falsamente, con dichiarazione diretta al sindaco,
l'ultimazione dei lavori di un fabbricato, quando tale
dichiarazione non sia destinata a confluire in un atto
pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa
attestati, come verificatosi nella ipotesi di dichiarazione
finalizzata ad ottenere il rilascio del certificato di
abitabilità» (Cass., Sez. V, n. 2978/2010 del
26/11/2009, Urso).
Nella motivazione della pronuncia appena richiamata si legge
altresì che non risulta sostenibile l'assunto secondo cui il
requisito dato dalla necessità che il falso ideologico sia
commesso dal privato "in atto pubblico" non sarebbe
integrato dalla verifica che la falsa dichiarazione sia, in
alternativa, "destinata ad essere trasfusa in atto
pubblico", stante la diversità ontologica dei due
concetti e l'esistenza -nel corpo dell'art. 495 cod. pen.-
di una autonoma sanzione per l'ipotesi di "destinazione
della dichiarazione ad essere riprodotta in atto pubblico".
A tali osservazioni la sentenza Urso ribatte che «la
ipotesi del falso ideologico commesso dal privato ai sensi
dell'art. 483 cod. pen. deve ritenersi integrata in tutti i
suoi requisiti anche ulteriori per il combinato rilievo che
l'atto si intende [...] ricevuto dal pubblico ufficiale
nell'esercizio delle sue funzioni con la stessa attitudine a
produrre gli effetti giuridici connessi alla dichiarazione
dalla norma specifica che gli attribuisce l'obbligo di
affermare il vero.
Come già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte
(Cass., Sez. U, n. 6 del 17/02/1999, Lucarotti) "oggetto
della tutela penale in relazione al reato di cui all'art.
483 cod. pen. è l'interesse di garantire il bene giuridico
della pubblica fede in quanto si attiene alla pubblica fede
documentale attribuita agli atti pubblici non in relazione a
ciò che vi attesta per suo fatto e di sua scienza il
pubblico ufficiale documentante, ma per quello che vi
assevera, mediante la documentazione del pubblico ufficiale,
il dichiarante. Talché, è palese che il reato postula che il
dichiarante abbia il dovere giuridico di esporre la verità"
[...].
La situazione non è sostanzialmente mutata, ad avviso del
Collegio, a seguito dell'abrogazione della legge n. 15 del
1968, attuata in via generale, da ultimo, dal d.lgs. n. 445
del 2000, art. 77, in seguito alla quale la sottoscrizione
della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non deve più
essere autenticata dal pubblico ufficiale, in quanto, come
sopra precisato, quel che rileva, ai fini della sussistenza
del delitto in questione, è la destinazione e lo scopo della
falsa dichiarazione del privato e gli effetti di essa sul
piano giuridico, che impongono una particolare tutela.
Quanto alla particolare menzione, contenuta nell'art. 495
cod. pen. [...], è appena il caso di ricordare come si
tratti di un inciso che reca un contributo assai opinabile
alla tesi che qui si esclude. Infatti quell'inciso è stato
eliminato dal legislatore nel testo vigente dell'art. 495
cod. pen., (come modificato con d.l. n. 92 del 2008),
assieme alla menzione, separata, della dichiarazione "in
atto pubblico", senza peraltro che tale
modifica abbia impedito alla giurisprudenza di sostenere,
pur in presenza del nuovo lessico normativo, che la condotta
di "attestazione falsa", nonostante l'eliminazione del
riferimento all'atto pubblico, continua a incriminare
tuttora il soggetto che renda false dichiarazioni
"attestanti", ovvero tese a garantire, il proprio stato od
altre qualità della propria od altrui persona, destinate ad
essere riprodotte in un atto fidefaciente idoneo a
documentarle».
La linea interpretativa ora illustrata, in chiara antitesi
rispetto alle tesi sostenute nella sentenza oggetto di
ricorso, risulta ribadita anche in pronunce successive (v.
Cass., Sez. V, n. 42524 del 12/07/2012, Picone) (Corte di
cassazione, Sez. V penale,
sentenza 07.04.2017 n. 17774). |
IN EVIDENZA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Divieto di esternalizzazione per i servizi finanziari del
Comune.
La gestione del servizio finanziario di
un Comune non può essere esternalizzata, in quanto trattasi
di funzione pubblica essenziale. Gli enti, quindi, per
esercitarla potranno solamente avvalersi delle forme di
lavoro a tempo indeterminato o di lavoro flessibile previste
dall'ordinamento.
La vicenda
Sono queste le conclusioni del
parere
09.03.2017 n. 4
della sezione di controllo della regione Friuli Venezia
Giulia della Corte dei conti che ha esaminato il caso di un
piccolo ente alle prese con l'organizzazione dell'ufficio
finanziario in cui attualmente vi è solo il segretario
comunale che svolge le funzioni di responsabile senza avere
alcun supporto.
Tra le varie opzioni proposte dal sindaco nel quesito per
quella che si potrebbe chiamare «sopravvivenza»,
appare anche quella di poter esternalizzare il servizio di
contabilità.
La possibilità di acquistare sul mercato le attività prima
gestite internamente è concessa alle amministrazioni
pubbliche dagli articoli 6 e 6-bis del Dlgs 165/2001, purché
si dimostri di raggiungere le conseguenti economie di
gestione e si adottino le adeguate misure in materia di
personale. Ma le esternalizzazioni sono immaginabili per
tutti i servizi?
La decisione
I magistrati friulani si rifanno innanzitutto ad altre
sezioni regionali, le quali, in maniera uniforme, hanno
affermato che l'ambito di estensione di una
esternalizzazione può riguardare tutti i cosiddetti servizi
pubblici di rilevanza economica, rimanendo, però, escluse da
tali fattispecie le funzioni pubbliche fondamentali che il
Comune deve svolgere direttamente, non potendo essere
appaltate a soggetti esterni, in quanto si tratta di
funzioni strettamente connaturate al soggetto pubblico che
ne è titolare.
La conclusione è, quindi, che dovranno necessariamente
continuare a essere svolte in via diretta tutte quelle
attività che sono connaturate all'esistenza stessa
dell'ente, incluse tra queste ultime le attività dell'area
economico-finanziaria e di redazione del bilancio.
Il richiamo corre, pertanto, al principio dell'articolo 14,
comma 26, del Dl 78/2010 che afferma che «l'esercizio
delle funzioni fondamentali dei Comuni è obbligatorio per
l'ente titolare» e al successivo elenco delle funzioni,
modificato, da ultimo, dall'articolo 19 del Dl 95/2012. Tra
tali compiti appare, senza possibilità di appello, anche la
funzione a) che tratta dell'organizzazione generale
dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e
controllo.
E, richiamando i principi da sempre diffusi dal Dipartimento
della Funzione Pubblica (ad esempio la circolare n. 3/2006),
è in sede di programmazione che l'amministrazione deve
stabilire quali servizi rientrano nelle cosiddette attività
non istituzionali che possono essere oggetto di una
esternalizzazione, rispetto a quelle funzioni che, essendo
fondamentali, possono essere gestite esclusivamente in modo
diretto dagli enti con assunzioni di personale a tempo
indeterminato o determinato, con prestazioni di lavoro
flessibile o attraverso le collaborazioni coordinate e
continuative. Ovviamente, nel rispetto di tutti i vincoli
finanziari e assunzionali vigenti (articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 27.03.2017). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto
di esternalizzazione per i servizi finanziari del Comune.
Relativamente alla esternalizzazione dei servizi degli
Enti locali, vale la pena di evidenziare che la norma di
riferimento è quella contenuta nel D.Lgs. 30.03.2001, n.
165 (c.d. TUPI), recante norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche, che
all’art. 6-bis detta specifiche disposizioni in materia di
misure in materia di organizzazione e razionalizzazione
della spesa per il funzionamento delle pubbliche
amministrazioni.
In base a detta previsione, le pubbliche Amministrazioni sono autorizzate, nel rispetto dei
principi di concorrenza e di trasparenza, ad acquistare sul
mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio
interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di
gestione e di adottare le necessarie misure in materia di
personale e di dotazione organica.
---------------
Per gli Enti locali sarà possibile procedere
all’attivazione di processi di esternalizzazione di servizi
pubblici a rilevanza economica, purché tale scelta produca
“economie di gestione”, precipuamente con riferimento ai
servizi di cui agli articoli 112 e seguenti del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL - Testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali),
dovendo invece
necessariamente continuare ad essere svolte in via diretta
tutte quelle attività che sono connaturate all’esistenza
stessa dell’Ente, incluse tra queste ultime le attività
dell’area economico-finanziaria e di redazione del bilancio.
---------------
I. Come esposto nella premessa ed in sede di esame
preliminare dell’ammissibilità, la tematica oggetto di esame
nello svolgimento di questo motivato avviso riguarda i
limiti assunzionali attualmente gravanti sugli Enti locali,
nonché l’eventuale possibilità di esternalizzare i servizi
dei Comuni che risultano sprovvisti di personale idoneo al
loro svolgimento in forma diretta.
Per ben risolvere le problematiche sollevate dal Comune di
Lestizza (UD), e ferme restando in capo all’autonomia
decisionale del Comune le scelte gestionali da porre
concretamente in essere, in considerazione della non
praticabilità e utilità, almeno per il momento, di forme
associative con altri Enti (come approfonditamente esposte
dal Sindaco anche in sede di audizione preliminare a questa
camera di consiglio), appare utile procede ad una preventiva
disamina della tematica relativa alla eventuale
esternalizzazione del servizio dell’Area
Economico-Finanziaria, per poi procedere ad una succinta
esposizione del quadro di riferimento che contraddistingue
il comparto unico del pubblico impiego regionale e
concludere quindi con la normativa che regola i limiti
assunzionali a tempo determinato attualmente gravanti sugli
Enti locali (anche con riferimento alla possibilità o meno
di conferire incarichi esterni).
II. Relativamente alla esternalizzazione dei servizi degli
Enti locali, vale la pena di evidenziare che la norma di
riferimento è quella contenuta nel D.Lgs. 30.03.2001, n.
165 (c.d. TUPI), recante norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche, che
all’art. 6-bis detta specifiche disposizioni in materia di
misure in materia di organizzazione e razionalizzazione
della spesa per il funzionamento delle pubbliche
amministrazioni.
In base a detta previsione, le pubbliche Amministrazioni (di
cui all'articolo 1, comma 2, del TUPI) nonché gli Enti
finanziati direttamente o indirettamente a carico del
bilancio dello Stato sono autorizzati, nel rispetto dei
principi di concorrenza e di trasparenza, ad acquistare sul
mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio
interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di
gestione e di adottare le necessarie misure in materia di
personale e di dotazione organica.
Relativamente alla spesa
per il personale e alle dotazioni organiche, le
Amministrazioni interessate dai processi in argomento
provvedono al congelamento dei posti e alla temporanea
riduzione dei fondi della contrattazione, fermi restando i
conseguenti processi di riduzione e di rideterminazione
delle dotazioni organiche nonché i conseguenti processi di
riallocazione e di mobilitò del personale. I collegi dei
revisori dei conti e gli organi di controllo interno delle
Amministrazioni che attivano i processi di cui sopra
vigilano sull'applicazione del presente articolo, dando
evidenza, nei propri verbali, dei risparmi derivanti
dall'adozione dei provvedimenti in materia di organizzazione
e di personale, anche ai fini della valutazione del
personale con incarico dirigenziale.
Tale disciplina, introdotta dall’art. 22, co. 1, della legge
18.06.2009, n. 69 recante Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività nonché in
materia di processo civile, ricalca analoghi istituti già
contemplati dall’art. 29, co. 1, della legge 28.12.2001
n. 448 (legge finanziaria per il 2002) secondo cui “Le
pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché gli
enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del
bilancio dello Stato sono autorizzati, anche in deroga alle
vigenti disposizioni, a:
a) acquistare sul mercato i
servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a
condizione di ottenere conseguenti economie di gestione;
b)
costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità di
cui alla lettera a), soggetti di diritto privato ai quali
affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza;
c)
attribuire a soggetti di diritto privato già esistenti,
attraverso gara pubblica, ovvero con adesione alle
convenzioni stipulate ai sensi dell'articolo 26 della legge
23.12.1999, n. 488, e successive modificazioni, e
dell'articolo 59 della legge 23.12.2000, n. 388, lo
svolgimento dei servizi di cui alla lettera b)”.
Essendo questo il quadro di riferimento per i processi di
c.d. “esternalizzazione” dei servizi pubblici locali, vale
la pena di evidenziare che l’ambito di estensione di tale
istituto può riguardare tutti i cosiddetti servizi pubblici
di rilevanza economica, rimanendo però escluse da tali
fattispecie le funzioni pubbliche essenziali che il Comune
deve svolgere direttamente, non potendo essere appaltate a
soggetti esterni, in quanto si tratta di funzioni
strettamente connaturate al soggetto pubblico che ne è
titolare.
In tal senso, ha avuto modo di esprimersi anche la Sezione
regionale di controllo per la Lombardia con il parere
n. 355/2012/PAR con cui si è affermato che “in via
preliminare, si rammenta che ogni la scelta amministrativa,
quando realizzata spendendo la capacità negoziale di diritto
comune dell’ente (art. 1 e 1-ter della L. n. 241 del 1990),
presuppone due momenti volitivi distinti, articolabili in
una fase pubblicistica, di carattere prodromico, e una
propriamente negoziale: la prima è sostanzialmente
riconducile alla determinazione a contrarre, fase
preliminare di ogni procedura ad evidenza pubblica. La
struttura bifasica dell’agire di diritto comune degli enti
pubblici è stata messa in evidenza dal Consiglio di Stato,
nell’Adunanza Plenaria n. 10 del 2011: in tale arresto il
Supremo Consesso amministrativo ha evidenziato che gli atti
pubblicistici vanno, sul piano logico, cronologico e
giuridico, tenuti nettamente distinti dai successivi atti
negoziali cui sono prodromici. Nell’atto amministrativo si
condensano le valutazioni sugli interessi pubblici (espressi
dalla legge con l’indicazione degli scopi e dei limiti
all’agire giuridico dell’amministrazione) che, sul piano
negoziale, il più delle volte, rimangono estranei alla causa
giuridica, segnalandosi come meri “motivi”, di norma
irrilevanti per il diritto privato. Nel caso di negozi con
cui si realizza un’esternalizzazione, la preliminare
decisione pubblicistica deve riscontrare che la decisione di
esternalizzare persegua l’efficientamento della p.a. e non
si ponga in contrasto con i limiti ordinamentali, tanto di
carattere interno, quanto di carattere esterno”.
Ne consegue che per gli Enti locali sarà possibile procedere
all’attivazione di processi di esternalizzazione di servizi
pubblici a rilevanza economica, purché tale scelta produca
“economie di gestione”, precipuamente con riferimento ai
servizi di cui agli articoli 112 e seguenti del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL - Testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali), dovendo invece
necessariamente continuare ad essere svolte in via diretta
tutte quelle attività che sono connaturate all’esistenza
stessa dell’Ente, incluse tra queste ultime le attività
dell’area economico-finanziaria e di redazione del bilancio.
In tal senso ha avuto modo di esprimersi recentemente anche
la Sezione regionale di controllo per la Liguria che, con la
deliberazione n. 61/2015/PAR, ha respinto la richiesta
avanzata da un comune ligure volta a sapere “se risulti
possibile, in considerazione dell’assoluta impossibilità
oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili
all’interno della propria dotazione organica, provvedere
alla esternalizzazione del servizio relativo all’ufficio
tecnico comunale” (per i magistrati liguri, tali processi di
esternalizzazione possono eccezionalmente essere ammessi per
attività che richiedono specifiche qualificazioni, come ad
esempio quelle che possono essere svolti soltanto da
professionisti iscritti in specifici albi professionali, ma
non per le attività ordinariamente connesse all’esistenza
dell’ente, per cui potranno essere al più attivate forme di
esercizio congiunto di funzioni con altri enti che si
trovino nelle stesse condizioni).
Così succintamente affrontata la problematica
dell’esternalizzazione di funzioni comunali,
deriva pertanto
chiaramente per il Comune la possibilità di esternalizzare
soltanto servizi pubblici di rilevanza economica
suscettibili di produrre economie di gestione e non anche
funzioni strettamente connaturate all’esistenza dell’Ente,
quali appunto quelle dell’area economico-finanziaria e di
redazione del bilancio oggetto della richiesta formulata dal
Comune di Lestizza.
Per ovviare ai problemi sollevati dal Comune richiedente,
pertanto, appare opportuno effettuare una succinta disamina
del comparto unico del pubblico impiego regionale e delle
possibilità di effettuare assunzioni a tempo determinato e/o
di conferire incarichi esterni.
III. Il comparto unico del pubblico impiego regionale e
locale del Friuli Venezia Giulia, di cui fanno parte i
dipendenti del Consiglio regionale, dell'Amministrazione
regionale, degli Enti regionali, delle Province, dei Comuni,
delle Comunità montane e degli altri Enti locali, è stato
istituito con l’art. 127 della legge regionale 09.11.1998, n.13.
Detta norma è stata introdotta per dare concreta attuazione
alla legge costituzionale 23.09.1993, n. 2, che
all’art. 5 ha previsto l’attribuzione alla Regione Friuli
Venezia Giulia della competenza esclusiva in materia di
“ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni”.
La disciplina positiva dettata in materia di comparto unico
è stata recentemente innovata con la Legge regionale 26.06.2014, n. 12, recante “misure urgenti per le autonomie
locali”, che ha dedicato l’intero capo II (articoli 4-11) a
fornire una regolamentazione organica ed aggiornata, anche
alla luce di quanto statuito con la sentenza della Corte
costituzionale n. 54/2014, con cui è stata “confermata
l’applicabilità alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
dei principi di coordinamento della finanza pubblica
stabiliti dalla legislazione statale, più volte riconosciuta
da questa Corte (da ultimo, sentenze n. 3 del 2013 e n. 217
del 2012)”.
Si deve infatti debitamente precisare che, ai sensi
dell'art. 117, c. 3, e dell’art. 119, c. 2, della nostra
Costituzione, le disposizioni contenute nelle leggi statali
relative al Patto di stabilità interno (PSI) per gli Enti
territoriali costituiscono princìpi fondamentali del
coordinamento della finanza pubblica. Il contributo della
Regione al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica
ha matrice pattizia, essendo frutto dell'Intesa raggiunta
-anno per anno- tra la Regione stessa e lo Stato (MEF), i
cui contenuti vengono poi trasfusi nella annuale legge di
stabilità.
In materia di comparto unico del pubblico impiego regionale
e locale, la Sezione ha già avuto modo di esprimersi con
numerosi motivati avvisi (cfr., ex multis, pareri n. FVG/51/2016/PAR,
n. FVG/133/2015/PAR, n. FVG/70/2015/PAR, n. FVG/51/2015/PAR,
n FVG/2015/PAR, n. FVG/97/2014/PAR, n. FVG/53/2014/PAR, n. FVG/18/2014/PAR,
n. FVG/17/2014/PAR).
In particolare, con il parere n. FVG/51/2015/PAR, la Sezione
ha posto in evidenza il quadro normativo di riferimento,
fornendo una lettura coerente tra la legislazione emanata
dalla Regione e i princìpi recati dal Parlamento, anche alla
luce dell’interpretazione fornita dalla Corte
costituzionale.
Con tale deliberazione, in particolare, si è ulteriormente
ricordata la funzionalizzazione, più volte affermata dalla
Corte costituzionale, alla finalità del contenimento della
spesa pubblica (cfr., ex plurimis, Corte costituzionale,
sentenze nn. 108/2001 e 155/2011), delle discipline
rilevanti in materia di vincoli e obiettivi derivanti dal
Patto di stabilità interno, con i connessi limiti
complessivi di spesa.
Nel riconoscere la non completa sovrapponibilità delle
normative vincolistiche sul patto di stabilità e sul governo
della spesa del personale (avendo queste ultime -le norme di
contenimento della spesa di personale- una estensione più
ampia rispetto alle prime, essendo dirette anche alle
Autonomie locali non soggette ai vincoli del patto di
stabilità, per le quali valgono disposizioni comunque
finalizzate a obiettivi di contenimento e riduzione della
spesa del personale), va rimarcato che, per quel che
riguarda le disposizioni relative al patto di stabilità, in
Friuli Venezia Giulia il concorso agli obiettivi di finanza
pubblica in termini di saldo netto da finanziare e di
indebitamento netto è definito in sede pattizia, attraverso
apposito accordo sottoscritto tra il Presidente del
Consiglio dei Ministri il Ministro dell’Economia e delle
Finanze e il Presidente della regione Friuli Venezia Giulia.
I relativi contenuti vengono poi trasfusi nell’annuale legge
di stabilità.
Per gli anni dal 2014 al 2017 tale concorso è definito ai
commi da 512 a 523 dell’art. 1 della legge 23.12.2014,
n. 190.
In ragione e in forza di tale regime pattizio è la stessa
Regione a dettare, con proprie norme, le regole, gli
obiettivi, i vincoli e correlate sanzioni inerenti al patto
di stabilità per il sistema dei propri Enti locali, in
maniera tale da garantire, in maniera autonoma, nel rispetto
dei principi di coordinamento della finanza pubblica, il
concorso dell’intero sistema delle Autonomie locali della
regione al raggiungimento degli obblighi posti allo Stato a
livello comunitario.
In tale ottica, la stessa deliberazione n. FVG/51/2015/PAR
aveva provveduto a fornire una utile interpretazione a
carattere sistematico, “circa la necessaria sussunzione nel
novero degli obiettivi inerenti al rispetto del patto di
stabilità interno, convergenti verso le medesime finalità di
contenimento della spesa pubblica complessiva, anche le
previsioni in materia di spesa per il personale, sia in
un’ottica di sostenibilità complessiva, sia con riguardo
specifico all’obiettivo della progressiva riduzione della
medesima, si possono formulare le seguenti notazioni in
ordine, appunto, alle previsioni in materia di disciplina
vincolistica e di facoltà assunzionali applicabili al
sistema degli EELL della regione FVG. Possono, in tale
ottica, individuarsi (almeno) tre serie di norme:
1) una
prima serie di norme pone obiettivi di contenimento
dell'aggregato "Spesa di personale" per gli EELL sia
soggetti al PSI (es. il comma 557 dell’art. 1 L. n. 296/2006
e comma 25 dell’art. 12 della L.R. n. 17/2008) che non
soggetti (es. comma 562 L. n. 296/2006). Per gli EELL del
FVG -in ragione del regime pattizio valevole tra Stato e
Regione ai fini della determinazione del concorso della
seconda agli obiettivi del PSI discendente dagli obblighi
facenti capo all’Italia in forza della sua appartenenza
all’UE– detti obiettivi sono fissati dal legislatore
regionale;
2) una seconda serie contempla norme preordinate
a definire le facoltà assunzionali degli EELL in regola con
le norme sui vincoli del P.S.I. e con quelle di contenimento
della spesa di personale (per gli EELL del FVG, ripetesi, di
fonte regionale): tali facoltà, o, meglio, i limiti alle
dette facoltà, con le correlate fattispecie di deroga, sono,
per espresso rinvio dell'art. 4, comma 2, L.R. n. 12/2014,
rimesse alla potestà del legislatore statale;
3) ulteriori
norme, correlate alle ultime descritte, e perciò stesso ad
esse assimilabili quanto all'individuazione della fonte di
produzione normativa, pongono tetti di spesa (rectius
limitazioni al tetto di spesa) per gli enti in regola con
l'obbligo di riduzione della spesa di personale. Così la
norma di cui all’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 su
cui, come innanzi ricordato, è intervenuta la delibera SdA
n. 2/2015”.
Alla luce del complessivo quadro normativo di riferimento,
pertanto, le facoltà assunzionali riferite agli Enti locali
anche del Friuli Venezia Giulia sono determinate facendo
riferimento a quanto previsto dal Legislatore nazionale in
sede di fissazione di obiettivi di finanza pubblica.
IV. Così delineato il quadro giuridico di riferimento
valevole per il Friuli Venezia Giulia in materia di vincoli
assunzionali per il pubblico impiego locale, si deve ora
procedere ad affrontare specificamente la problematica delle
assunzioni a tempo determinato e/o del conferimento di
incarichi temporanei per fare fronte ad eccezionali
criticità degli Enti locali.
Al riguardo, viene in rilievo principalmente l’art. 9, co. 28,
del D.L. 78/2010 (convertito dalla L. 30/07/2010, n. 122) in
base al quale a decorrere dall'anno 2011, le Amministrazioni
dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le Agenzie,
incluse le Agenzie fiscali, gli Enti pubblici non economici,
le Università e le Camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura possono avvalersi di personale a
tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di
collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50
per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità
nell'anno 2009. Per le medesime Amministrazioni la spesa per
personale relativa a contratti di formazione-lavoro, ad
altri rapporti formativi, alla somministrazione di lavoro,
nonché al lavoro accessorio non può essere superiore al 50
per cento di quella sostenuta per le rispettive finalità
nell'anno 2009.
I limiti di cui al primo e al secondo periodo non si
applicano, anche con riferimento ai lavori socialmente
utili, ai lavori di pubblica utilità e ai cantieri di
lavoro, nel caso in cui il costo del personale sia coperto
da finanziamenti specifici aggiuntivi o da fondi dell'Unione
europea; nell'ipotesi di cofinanziamento, i limiti medesimi
non si applicano con riferimento alla sola quota finanziata
da altri soggetti. Le disposizioni in commento rappresentano
princìpi generali ai fini del coordinamento della finanza
pubblica ai quali si adeguano le Regioni, le Province
autonome, gli Enti locali e gli Enti del Servizio sanitario
nazionale.
La norma aggiunge che le limitazioni su riportate non si
applicano agli Enti locali in regola con l'obbligo di
riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562
dell'articolo 1 della L. n. 296/2006, per i quali comunque
“la spesa complessiva non può essere superiore alla spesa
sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009” ed inoltre
precisa che, per le Amministrazioni che nell'anno 2009 non
hanno sostenuto spese per lavoro flessibile, il limite deve
essere computato con riferimento alla media sostenuta per le
stesse finalità nel triennio 2007-2009.
Con l’emanazione della legge 07/08/2016 n. 160 di conversione
del D.L. 24/06/2016 n. 113, all’art. 16, comma 1-quater, è
stata disposta l’esclusione dalle limitazioni previste
dall’art. 9, comma 28, del D. L. n. 78/2010, per le spese
sostenute per le assunzioni a tempo determinato ai sensi
dell’articolo 110, comma 1, del testo unico di cui al D.Lgs.
18/08/2000 n. 267.
A rafforzamento di tali previsioni, il medesimo comma 28 ha
previsto anche pesanti effetti sanzionatori per la sua
eventuale non applicazione, stabilendo che il mancato
rispetto dei limiti di spesa in esso previsti costituisce
illecito disciplinare e determina responsabilità erariale.
Sull’argomento, si è espressa anche la Sezione delle
Autonomie della Corte dei conti che, sulla specifica materia
dell’art. 9, co. 28, ora in commento, ha avuto modo di
esprimersi affermando il principio di diritto secondo cui:
“le limitazioni dettate dai primi sei periodi dell’art. 9,
comma 28, del d.l. n. 78/2010, in materia di assunzioni per
il lavoro flessibile, alla luce dell’art. 11, comma 4-bis,
del d.l. 90/2014 (che ha introdotto il settimo periodo del
citato comma 28), non si applicano agli enti locali in
regola con l’obbligo di riduzione della spesa di personale
di cui ai commi 557 e 562 dell’art. 1, l. n. 296/2006, ferma
restando la vigenza del limite massimo della spesa sostenuta
per le medesime finalità nell’anno 2009, ai sensi del
successivo ottavo periodo dello stesso comma 28”.
Sul punto, inoltre, ha recentemente avuto modo di esprimersi
la Sezione regionale di controllo per la Puglia con il
parere n. 149/2016/PAR con cui si è precisato che “i vincoli
in materia di c.d. “lavoro flessibile” hanno carattere
indefettibile ed appaiono rivolti anche ad evitare che le
amministrazioni pubbliche soggette ad un regime limitativo
delle assunzioni a tempo indeterminato possano ricorrere
all’utilizzo di contratti di lavoro flessibile per eludere
il blocco assunzionale ad esse applicabile… La Corte
costituzionale, con sentenza n. 173/2012, proprio con
riferimento all’articolo 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010,
ha osservato che tale disposizione “pone un obiettivo
generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto
settore del personale e, precisamente, a quello costituito
da quanti collaborano con le pubbliche amministrazioni in
virtù di contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo
indeterminato” e “lascia alle singole amministrazioni la
scelta circa le misure da adottare con riferimento ad ognuna
delle categorie di rapporti di lavoro da esso previste.
Ciascun ente pubblico può determinare se e quanto ridurre la
spesa relativa a ogni singola tipologia contrattuale, ferma
restando la necessità di osservare il limite della riduzione
del 50 per cento della spesa complessiva rispetto a quella
sostenuta nel 2009”.
A conclusione di detto parere, si procedeva quindi a una
disamina dei ridotti limiti assunzionali previsti dalla
normativa vigente, valorizzando in particolare il DUP
(Documento Unico di Programmazione), previsto nell’ambito
dall’armonizzazione dei sistemi contabili, affermando che
“il legislatore riserva, dunque, nella predisposizione del DUP da parte degli enti locali, particolare attenzione alla
programmazione del personale sia nella sezione strategica
che in quella operativa. In particolare, nell’ambito della
sezione strategica, volta a definire i principali contenuti
della programmazione strategica ed i relativi indirizzi
generali con riferimento al periodo di mandato, al punto 8.1
dell’allegato 4.1 al D.Lgs. n. 118/2011, è inserita anche
l’analisi della disponibilità e gestione delle risorse umane
con riferimento alla struttura organizzativa dell'ente in
tutte le sue articolazioni ed alla sua evoluzione nel tempo
anche in termini di spesa. Parimenti il successivo punto 8.2,
lett. j), prescrive espressamente, nella redazione della
sezione operativa, l’indicazione della programmazione del
fabbisogno di personale a livello triennale ed annuale”.
Essendo questa la situazione in materia di assunzioni di
personale, anche a tempo determinato, la Sezione rileva
peraltro che altre forme di utilizzazione di risorse
estranee alla pubblica Amministrazione richiedono
presupposti applicativi particolarmente rigorosi.
Il riferimento è rivolto principalmente all’ipotesi di
utilizzazione di contratti di lavoro autonomo, di natura
occasionale o coordinata e continuativa, da stipulare con
professionisti di particolare e conclamata specializzazione,
anche universitaria.
Tali fattispecie trova la sua fondamentale disciplina
nell’art. 7, co. 6 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche – c.d. TUPI).
In base a detta previsione di legge, “per esigenze cui non
possono far fronte con personale in servizio, le
amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi
individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura
occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di
particolare e comprovata specializzazione anche
universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di
legittimità:
a) l'oggetto della prestazione deve
corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento
all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti
specifici e determinati e deve risultare coerente con le
esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente;
b)
l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno;
c) la prestazione deve essere di
natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il
rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è
consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare
il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore,
ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di
affidamento dell'incarico;
d) devono essere preventivamente
determinati durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione. Si prescinde dal requisito della comprovata
specializzazione universitaria in caso di stipulazione di
contratti di collaborazione di natura occasionale o
coordinata e continuativa per attività che debbano essere
svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con
soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo ,
dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché'
a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i
servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di
certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto
legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza pubblica , ferma
restando la necessità di accertare la maturata esperienza
nel settore. Il ricorso a contratti di collaborazione
coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni
ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori
subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il
dirigente che ha stipulato i contratti”.
Da notare che, per effetto dell’art. 2, co. 4, del D.Lgs. 15.06.2015, n. 81, come da ultimo modificato dal D.L. 30.12.2016, n. 244 (convertito con modificazioni dalla L.
27.02.2017, n. 19), “fino al completo riordino della
disciplina dell'utilizzo dei contratti di lavoro flessibile
da parte delle pubbliche amministrazioni, la disposizione di
cui al comma 1 non trova applicazione nei confronti delle
medesime. Dal 01.01.2018 è comunque fatto divieto alle
pubbliche amministrazioni di stipulare i contratti di
collaborazione di cui al comma 1”.
Tali contratti potranno quindi essere stipulati fino al 31.12.2017, purché siano rispettati tutti i presupposti
richiesti dal sopra riportato art. 7, co. 6 del TUPI (cfr., sul
punto: Sezione centrale del controllo di legittimità sugli
atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato -
deliberazione n. 37/2015/PREV del 23/12/2015).
Peraltro, è bene evidenziare che tale tipologia contrattuale
potrà essere utilizzata purché siano rispettata adeguate
procedure comparative delle professionalità da utilizzare, e
comunque senza eludere i limiti di spesa per contratti di
lavoro a tempo determinato cui è soggetto il Comune.
Pertanto, in considerazione delle difficoltà rappresentate
dal Sindaco, il Comune potrà avvalersi di forme di lavoro a
tempo determinato e/o di contratti di lavoro autonomo, di
natura occasionale o coordinata e continuativa, nel rispetto
della normativa applicabile e avendo cura di rispettare il
limite di spesa fissato dall’art. co. 28, del D.L. 78/2010,
dovendosi però categoricamente escludere la possibilità di esternalizzare l’Area economico-finanziaria preposta alla
redazione del bilancio in quanto, alla luce dell’attuale
quadro ordinamentale, i Comuni possono esternalizzare
soltanto servizi pubblici di rilevanza economica
suscettibili di produrre economie di gestione e non anche
funzioni pubbliche strettamente connaturate all’esistenza
dell’Ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia
Giulia,
parere
09.03.2017 n. 4). |
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(INAIL, aprile 2017). |
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1. La successione: profili civilistici - cenni.
La successione per causa di morte si apre al momento della
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Nelle successioni gli attori coinvolti sono i seguenti:
(...continua)
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017). |
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GUIDA PER L’ACQUISTO DELLA CASA: le imposte e le
agevolazioni fiscali (Agenzia delle Entrate,
marzo 2017). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comunicazione - differimento dei termini di
presentazione pratiche sismiche in formato cartaceo -
Decreto n. 4733 del 27.04.2017 (Regione Lombardia,
DIREZIONE GENERALE SICUREZZA, PROTEZIONE CIVILE E
IMMIGRAZIONE - SISTEMA INTEGRATO DI PREVENZIONE -
PREVENZIONE RISCHIO SISMICO E RISCHI INTEGRATI,
nota 05.05.2017 n. 5496 di prot.). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Art. 54 del decreto legge 24.04.2017, n. 50. Documento Unico
di Regolarità Contributiva in presenza di dichiarazione di
adesione alla definizione agevolata ai sensi dell’art. 6 del
decreto legge 22.10.2016, n. 193 (INPS,
circolare 02.05.2017 n. 80 - link a www.inps.it).
---------------
SOMMARIO:
La presente circolare fornisce indicazioni in merito alla
disciplina introdotta dall’art. 54 del d.l. n. 50 del
24.04.2017 in materia di verifica della regolarità
contributiva in presenza di dichiarazione di adesione alla
definizione agevolata di cui all’art. 6 del d.l. n. 193 del
22.10.2016. |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Rilascio del Durc in presenza della definizione
agevolata dei carichi affidati agli agenti della riscossione
dal 2000 al 2016 ai sensi dell’articolo 6 del decreto legge
22.10.2016, n. 193 e successive modifiche (INAIL,
circolare 28.04.2017 n. 18). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto del Presidente della
Repubblica 13.02.2017, n. 31, recante:
Individuazione degli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura semplificata (MIBACT,
circolare 21.04.2017
n. 15). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Chiarimenti in merito al messaggio Hermes n.
828/2017 relativo al congedo facoltativo per i padri
lavoratori dipendenti di cui all’art.4, comma 24, lettera
a), della legge 92/2012 (INPS,
messaggio 10.04.2017 n. 1581 - link a
www.inps.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
D.Lgs. 25.11.2016, n. 222 di attuazione della delega
contenuta nell’articolo 5 della Legge n. 124/2015, c.s.
“Legge Madia”, in materia di riordino del sistema delle
autorizzazioni amministrative – Quesiti in materia di regime
delle attività di intrattenimento e pubblico spettacolo
(Ministero dello Sviluppo Economico,
risoluzione 06.04.2017 n. 133759 di prot.).
----
Intrattenimento e pubblico spettacolo:
chiarimenti sulle autorizzazioni amministrative.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, con la risoluzione
06.04.2017 n. 133759 di prot., divulga i chiarimenti forniti
dal Ministero dell’Interno in materia di attività di
intrattenimento e di pubblico spettacolo a seguito della
entrata in vigore delle disposizioni di semplificazione in
materia di avvio e di esercizio dell’attività d’impresa.
Con la risoluzione n. 133759 del 6 aprile 2017 avente ad
oggetto “D.Lgs. 25.11.2016, n. 222 di attuazione della
delega contenuta nell’articolo 5 della Legge n. 124/2015,
c.s. “Legge Madia”, in materia di riordino del sistema delle
autorizzazioni amministrative – Quesiti in materia di regime
delle attività di intrattenimento e pubblico spettacolo” il
Ministero dello Sviluppo Economico, divulga i chiarimenti
forniti dal Ministero dell’Interno in materia di attività di
intrattenimento e di pubblico spettacolo a seguito della
entrata in vigore delle disposizioni di semplificazione in
materia di avvio e di esercizio dell’attività d’impresa.
In particolare il Ministero fornisce chiarimenti in merito:
- all’applicazione delle nuove disposizioni, che prevedono
il regime dell’autorizzazione anche per le attività di
spettacolo o trattenimento presso locali e impianti con
capienza complessiva pari o inferiore a 200 persone;
- al significato della previsione che prevede l’obbligo del
SUAP, che riceve l’istanza diretta alla medesima
autorizzazione, di trasmetterla alla Commissione di
vigilanza sui locali di pubblico spettacolo pure quando essa
sia accompagnata da una relazione asseverata ai sensi
dell’articolo 141, comma 2 del Regolamento TULPS;
- alle sale da gioco soggette a licenza comunale ex articolo
86 (c.d. sale con apparecchi da gioco Slot o AWP),
sottoposte ad autorizzazione comunale, laddove è ampiamente
diffusa la prassi dell’apertura previa presentazione di una
mera SCIA.
Il Ministero evidenzia come allo stato attuale, non sembra
comunque possibile dare ai quesiti qui proposti una risposa
con i caratteri della certezza e delle definitività, vista
l’insufficienza del tenore letterale delle relative
disposizioni, e auspica un riordino complessivo della
materia (commento tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL D.P.R. 13.02.2017 N. 31 - LA SEMPLIFICAZIONE DEI
PROCEDIMENTI DI TUTELA PAESAGGISTICA - IL RACCORDO CON I
PROVVEDIMENTI EDILIZI (ANCI, aprile 2017). |
APPALTI:
Oggetto: Abrogazione dei voucher e modifiche alla
responsabilità solidale negli appalti – D.L. n. 25/2017 (ANCE
di Bergamo,
circolare 24.03.2017 n. 70). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Nuove proroghe in materia di sicurezza e di
antincendio (ANCE di Bergamo,
circolare 24.03.2017 n. 68). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 16.05.2017, "Nomina
dei sostituti di n. 2 componenti la «Commissione regionale
in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in
zone sismiche», esperti, rispettivamente, in geotecnica
sismica e in geologia sismica (l.r. 33/2015, art. 4, comma 2
– D.g.r. 5001/2016, all. L)" (deliberazione
G.R. 12.05.2017 n. 6589). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 16.05.2017, "Aggiornamento
albo delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – Art. 57)" (decreto
D.S. 10.05.2017 n. 5242). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 dell'08.05.2017, "Terzo
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 04.05.2017 n. 4925). |
APPALTI:
G.U. 05.05.2017 n. 103, suppl. ord. n. 22/L, "Disposizioni
integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016
n. 50" (D.Lgs.
19.04.2017 n. 56). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 04.05.2017, "Interruzione,
per mesi sei, della decorrenza del periodo transitorio di
dodici mesi, previsto dall’art. 13, comma 2, secondo
periodo, della l.r. 33/2015 e avviato, a far data dal
04.05.2016, dal decreto n. 3809/2016, fino alla scadenza del
quale è consentito il deposito della documentazione di cui
all’art. 6 della medesima l.r. 33/2015 in formato sia
elettronico che cartaceo" (decreto
D.U.O. 27.04.2017 n. 4733). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 27.04.2017, "Istituzione
dell’elenco dei membri di indicazione regionale per le
commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs.
42/2017, allegato 2, parte B, punto 2, e definizione delle
modalità per l’inserimento nell’elenco e per l’utilizzo di
detto elenco per la costituzione delle commissioni d’esame"
(decreto
D.U.O. 21.04.2017 n. 4578). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 27.04.2017, "Presentazione
da parte dei tecnici competenti in acustica riconosciuti da
Regione Lombardia con il regime previgente al d.lgs. 42/2017
delle istanze per l’inserimento nell’elenco nazionale di cui
al d.lgs. 42/2017" (comunicato
regionale 20.04.2017 n. 66). |
APPALTI - ENTI LOCALI:
G.U. 22.04.2017 n. 94 "Ripubblicazione
del testo del decreto-legge 17.03.2017, n. 25, convertito,
senza modificazioni, dalla legge 20.04.2017, n. 49,
recante: “Disposizioni urgenti per l’abrogazione delle
disposizioni in materia di lavoro accessorio nonché per la
modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in
materia di appalti".". |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
G.U. 21.04.2017 n. 93 "Testo
del decreto-legge 20.02.2017, n. 14, coordinato con la legge
di conversione 18.04.2017, n. 48, recante:
«Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»". |
ENTI LOCALI - VARI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 15 del 14.04.2017, "Regolamento
di attuazione delle disposizioni di cui al Titolo VIII, Capo
II, della l.r. 33/2009 recante norme relative alla tutela
degli animali di affezione e prevenzione del randagismo"
(regolamento
regionale 13.04.2017 n. 2). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 14.04.2017, "Pubblicazione,
ai sensi e per gli effetti dell’art. 4, comma 2 del d.p.r.
13.02.2017, dell’elenco dei provvedimenti di tutela
paesaggistica dotati di criteri di gestione degli interventi"
(comunicato
regionale 12.04.2017 n. 62). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 13.04.2017, "Approvazione
dei criteri e delle modalità per la classificazione delle
strade regionali (SR), ai sensi dell’art. 2, comma 2-quater,
della l.r. 04.05.2001 n. 9" (deliberazione
G.R. 10.04.2017 n. 6485). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 13.04.2017, "Determinazione
dei criteri di gestione obbligatori e delle buone condizioni
agronomiche ed ambientali, ai sensi del regolamento (UE) n.
1306/2013. Modifiche e integrazioni alla d.g.r. X/3351 del
01.04.2015 e smi. regime di condizionalità per l’anno 2017"
(deliberazione
G.R. 10.04.2017 n. 6480). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 11.04.2017 n. 85, "Rilevazione dei prezzi medi per
l’anno 2015 e delle variazioni percentuali annuali, in
aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento,
relative all’anno 2016, ai fini della determinazione delle
compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da
costruzione più significativi" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 31.03.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 10.04.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.03.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 04.04.2017 n. 53). |
ENTI
LOCALI:
G.U. 04.04.2017 n. 79 "Misure minime di sicurezza ICT per
le pubbliche amministrazioni (Direttiva del Presidente del
Consiglio dei ministri 01.08.2015)" (Agenzia per
l'Italia Digitale,
circolare 17.03.2017 n. 1/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 04.04.2017 n. 79 "Disposizioni in materia di
armonizzazione della normativa nazionale in materia di
inquinamento acustico, a norma dell’articolo 19, comma 2,
lettere a) , b) , c) , d) , e) , f) e h) della legge
30.10.2014, n. 161" (D.Lgs.
17.02.2017 n. 42). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 13 del 30.03.2017, "Modifiche
alla legge regionale 11.12.2006, n. 24 (Norme per la
prevenzione e la riduzione delle emissioni in atmosfera a
tutela della salute e dell’ambiente) e alla legge regionale
31.07.2013, n. 5 (Assestamento al bilancio per l’esercizio
finanziario 2013 ed al bilancio pluriennale 2013/2015 a
legislazione vigente e programmatico – I provvedimento di
variazione con modifiche di leggi regionali)" (L.R.
27.03.2017 n. 8). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
R. De Nictolis,
Le sentenze del
giudice amministrativo in forma semplificata. Tra mito e
realtà (08.05.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. La sentenza in “forma semplificata”,
economia, tempo, “risorsa giustizia”. - 2. Le questioni. -
3. Il “nomen iuris”: la sentenza in “forma semplificata” o
“sentenza breve “ e “le altre”. - 4. Tecnica di redazione
della sentenza “classica” e della sentenza “in forma
semplificata”. - 4.1. Quadro delle fonti. - 4.2. L’omissione
dei motivi di ricorso e delle domande di parte. - 4.3. Il
“sintetico riferimento a un precedente conforme”. - 4.4. Il
“mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti
delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare
proprie”. - 4.5. “Il sintetico riferimento al punto di fatto
o di diritto ritenuto risolutivo”. La “taglia giusta” della
sentenza: il contenuto sostanziale minimo essenziale,
affinché sia rispettato il diritto costituzionale di difesa
e l’assorbimento processuale. - 4.6. La “taglia giusta”:
portata endoprocessuale ed extraprocessuale,
autosufficienza, funzione nomofilattica della sentenza. - 5.
Il bilanciamento tra sinteticità e chiarezza della sentenza.
- 6. Lo “stile” della sentenza. - 7. La sentenza “in forma
semplificata” tra mito e realtà: lo “strano caso” del rito
appalti. - 8. Conclusione n. 1) La “taglia giusta” della
sentenza non si presta a schematizzazioni legislative,
occorrono misure organizzative. - 9. Conclusione n. 2) La
sentenza in forma semplificata non garantisce la ragionevole
durata del processo. Le “esternalità negative” dei riti
veloci. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
R. Perna,
Accesso e trasparenza: due
linee destinate ad incontrarsi?
(14.04.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Accesso e trasparenza: cenni
introduttivi. 2. L’accesso documentale e l’accessibilità
agli atti amministrativi. 3. L’accesso civico. 3.1 L’accesso
civico “proprio” e il diritto alla conoscibilità. 3.2.
L’accesso civico “generalizzato”: dal bisogno di conoscere
al diritto di conoscere. 4. Accesso e trasparenza:
osservazioni conclusive. |
APPALTI:
F. Gambardella,
Procedura negoziata senza bando e consultazioni preliminari
di mercato. Intorno a una recente proposta di Linee guida
dell’ANAC (05.04.2017
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La procedura negoziata senza bando
per forniture e servizi infungibili e il rischio di lock-in
per le stazioni appaltanti: le giuste preoccupazioni dell’ANAC.
2. Le consultazioni preliminari di mercato: caratteri e
finalità dell’istituto. 3. Consultazioni preliminari di
mercato e tenuta delle dinamiche concorrenziali: le scelte
della pubblica amministrazione e i rischi per le imprese. 4.
Brevi conclusioni: l’opportunità di un intervento di
regolazione intorno alle consultazioni preliminari di
mercato. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Follieri,
Decisione amministrativa e atto vincolato (05.04.2017
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. L’atto amministrativo vincolato come
atto senza decisione. - 2. “Scetticismo sulla vincolatezza”.
- 3. L’atto vincolato come atto puramente costitutivo. - 4.
L’atto vincolato come decisione. - 5. Conclusioni. |
CORTE DEI CONTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Delibera illegittima se manca il parere tecnico e contabile.
La mancata acquisizione dei parere di
regolarità tecnica e contabile nelle deliberazioni di Giunta
e di Consiglio (che non siano meri atti di indirizzo)
determina l'illegittimità degli atti. La norma generale si
applica anche al caso di proposta di transazione formulata
da un mediatore esterno all'ente.
Il caso
Con il
parere 11.04.2017 n. 62
la Corte dei conti, Sezione di controllo dell'Emilia
Romagna, affronta il tema legato alla necessità di
acquisizione dei pareri di regolarità contabile e tecnica
sugli atti deliberativi, su sollecitazione di un Comune che,
a fronte della mediazione avviata dal giudice, vorrebbe
accogliere, con proprio atto deliberativo, la soluzione
transattiva formulata dal soggetto terzo, senza acquisire
preventivamente i pareri degli uffici e dell'avvocatura
interna.
Ciò sulla base della circostanza, argomenta il Comune, che
la proposta di transazione è formulata da un soggetto terzo
nell'ambito di un procedimento finalizzato a ridurre il
contenzioso in sede giurisdizionale, in assenza, si presume,
di situazioni conflittuali e dunque nel rispetto degli
interessi pubblici e dell'esigenza di corretta gestione
delle pubbliche risorse.
La decisione
Secondo la prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato,
la mancanza dei pareri di regolarità tecnica e di
contabilità costituirebbe una mera irregolarità. Tuttavia,
rileva la Corte dei conti, l'irregolarità in generale
ricorre in presenza di una lieve anormalità del
provvedimento amministrativo, a fronte di un vizio
marginale, allorché la diversità della forma o la non
perfetta osservanza di un adempimento endoprocedimentale non
siano tali da impedire il concreto raggiungimento
dell'interesse pubblico tutelato dalla norma. Ciò non sembra
potersi affermare lì ove manchino i pareri di regolarità
tecnica e contabile.
Tali pareri, infatti, costituiscono atti procedimentali
obbligatori ai sensi dell'articolo 49 del Tuel, che li
colloca al centro del sistema, anche per ovviare alla
mancanza di competenza tecnica dei componenti di Giunta e
Consiglio. Inoltre, in forza dell'articolo 147-bis del Tuel,
il controllo preventivo di regolarità amministrativa e
contabile è assicurato, nella fase preventiva della
formazione dell'atto, proprio dai pareri di regolarità
tecnica e contabile.
Il primo deve attestare la regolarità e la correttezza
dell'azione amministrativa, cioè sia la sua conformità alla
normativa, che la correttezza sostanziale delle soluzioni
adottate. Con il parere di regolarità contabile invece è
stato assegnato al responsabile di ragioneria un ruolo
centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente.
Riguardo, infine, al ruolo dell'avvocatura interna, i
giudici contabili hanno già espresso l'avviso per cui,
sebbene, per gli enti territoriali non sia previsto un
particolare iter procedimentale per gli atti di transazione,
ove l'ente sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe
opportuno che questa fosse investita della questione in
analogia a quanto prevede per le amministrazioni dello Stato
l'articolo 14 della legge di contabilità generale
(deliberazione Corte dei conti controllo Piemonte n.
20/2012).
La delibera in analisi esprime il concetto in modo ancor più
netto, poiché il «sarebbe opportuno», che leggiamo
nella deliberazione della Sezione Piemonte, diventa un
«sicuramente opportuna», rendendo ancor più difficile agli
enti locali discostarsi dall'indicazione (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.04.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
I pareri di regolarità tecnica e contabile
devono necessariamente essere resi, costituendo presupposti
necessari delle deliberazioni sottoposte alla Giunta e al
Consiglio, ad eccezione di quelle che costituiscono meri
atti di indirizzo.
L’omessa acquisizione dei pareri in
argomento, pertanto, è tale da determinare l’illegittimità
dell’atto, non potendosi, per l’importante funzione ad essi
assegnata dal legislatore, ritenere che la loro mancanza non
sia tale da impedire il concreto raggiungimento
dell’interesse pubblico volta per volta tutelato dalle
norme.
---------------
La circostanza che la deliberazione abbia ad oggetto
una proposta di transazione formulata da un mediatore,
soggetto terzo, il quale offre garanzie di imparzialità,
azionata a seguito di invito del giudice, non è tale da
poter consentire una deroga alla norma generale, la quale
prevede la necessaria acquisizione dei pareri di regolarità
tecnico e contabile. Il ruolo del mediatore, infatti, non
esclude l’esigenza di un approccio prudente, finalizzato ad
evitare un depauperamento delle pubbliche risorse, che deve
sempre essere assicurato dalle pubbliche amministrazioni
nell’utilizzare strumenti transattivi e di composizione
delle liti.
Né, ai fini della resa del parere di
regolarità contabile, rileva come la deliberazione abbia
ad oggetto solo un’entrata per il Comune e nessuna spesa,
giacché come previsto dal più volte richiamato art. 49 del
tuel, detto parere dev’essere reso ogniqualvolta l’atto
comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria, o sul patrimonio dell’ente.
In merito, invece, al parere
dell’Avvocatura interna, non vi è motivo per discostarsi da
quanto affermato in generale per le transazioni dalla
Sezione regionale di controllo per il Piemonte la quale ha ritenuto l’acquisizione dello stesso non
obbligatoria, ma sicuramente opportuna.
---------------
Il Sindaco del Comune di Zocca (MO) ha rivolto a questa
Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto un’ipotesi
di transazione.
In particolare, il Sindaco istante descrive dettagliatamente
una controversia in corso nei confronti della He. spa,
nell’ambito della quale il citato ente locale ha ottenuto un
decreto ingiuntivo nei confronti della stessa. La He. ha
quindi instaurato un giudizio in opposizione, ad esito del
quale l’A.G. ha invitato le parti a dare avvio ad una
mediazione.
Non riuscendo a trovare un accordo, le parti hanno
autorizzato il mediatore a individuare una proposta di
soluzione transattiva, poi effettivamente formulata.
Il Sindaco di Zocca chiede se il Comune possa deliberare
l’accoglimento della proposta del mediatore, anche senza
acquisire preventivamente i pareri degli uffici e
dell’avvocatura interna; ciò, sulla base della
circostanza che detta proposta è stata formulata da un
soggetto terzo, nell’ambito di un procedimento finalizzato a
ridurre il contenzioso in sede giurisdizionale, e che si
deve presumere l’assenza di sospetti di lesione degli
interessi pubblici, nonché che sia rispettosa dell’esigenza
di corretta gestione delle pubbliche risorse.
Evidenzia, infine, come la proposta comporti solo un’entrata
per il Comune e nessuna spesa.
...
4. Preliminarmente, occorre individuare il quadro normativo
rilevante ai fini del parere.
L’art. 49 del tuel (recante “Pareri dei responsabili dei
servizi”), come modificato dall’art. 3 del d.l. n.
174/2012, recante “Disposizioni urgenti in materia di
finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché
ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel
maggio 2012, convertito con modificazioni dalla legge
07.12.2012, n. 213”, prescrive: “1. Su ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che
non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il
parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione.
2. Nel caso in cui l'ente non abbia i responsabili dei
servizi, il parere è espresso dal segretario dell'ente, in
relazione alle sue competenze.
3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via
amministrativa e contabile dei pareri espressi.
4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai
pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata
motivazione nel testo della deliberazione”.
Il primo comma del successivo art. 147-bis del tuel
(rubricato “Controllo di regolarità amministrativa e
contabile”), inserito dal citato d.l. n. 174/2012,
stabilisce quanto segue: “1. Il controllo di regolarità
amministrativa e contabile è assicurato, nella fase
preventiva della formazione dell’atto, da ogni responsabile
di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del
parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la
correttezza dell’azione amministrativa. Il controllo
contabile è effettuato dal responsabile del servizio
finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del
parere di regolarità contabile e del visto attestante la
copertura finanziaria”.
5. Individuato il quadro normativo, occorre verificare se vi
siano precedenti giurisprudenziali in materia.
La funzione del parere di regolarità contabile e
l’estensione della portata dello stesso è esaurientemente
ricostruita dalla Sezione regionale di controllo per le
Marche, con
parere 05.06.2013 n. 51, al quale si rimanda per
un approfondimento della materia.
In essa si evidenzia, tra l’altro, come il legislatore
statale, mediante le modifiche apportate dal d.l. n.
174/2012 all’art. 49 del tuel, in particolare sostituendo
l’espressione “qualora comporti impegno di spesa o
diminuzione di entrata” con “qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente”, abbia
ampliato i casi in cui è necessario acquisire il parere
di regolarità contabile, al contempo assegnando, al
responsabile di ragioneria, un ruolo centrale, a tutela
degli equilibri di bilancio dell’ente.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato negli ultimi anni
si è consolidata nel ritenere che i pareri di regolarità
tecnica e contabile non costituirebbero requisiti di
legittimità delle deliberazioni alle quali si riferiscono,
così che l’eventuale mancanza degli stessi determinerebbe
una mera irregolarità, tale da non influire sulla
legittimità e sulla validità delle deliberazioni (ex
multis, C. di S., Sez. V,
sentenza 08.04.2014 n. 1663). Detta posizione è
altresì richiamata dalla Sezione regionale di controllo per
la Basilicata, con
deliberazione 15.05.2014 n. 79 secondo la quale
la mancanza dei pareri in argomento non avrebbe riflessi
sulla validità delle deliberazioni.
Passando alla questione concernente il ruolo dell’avvocatura
interna rispetto ad un procedimento relativo
all’approvazione di una proposta di transazione da parte di
un ente territoriale, la Sezione regionale di controllo per
il Piemonte, con
parere 28.02.2012 n. 20
ha espresso l’avviso secondo cui “per
gli enti territoriali non è previsto un particolare iter
procedimentale per gli atti di transazione, ma, ove il
medesimo sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe
opportuno che questa fosse investita della questione in
analogia a quanto prevede per le amministrazioni dello Stato
l’art. 14 della legge di contabilità generale (R.D. n.
2440/1923)”.
6. È ora possibile entrare nel merito.
Come sopra ricordato, secondo la prevalente giurisprudenza
del Consiglio di Stato la mancanza dei pareri di
regolarità tecnica e di contabilità costituirebbe una
mera irregolarità.
Tuttavia, l’irregolarità in generale ricorre in presenza di
una lieve anormalità del provvedimento amministrativo, a
fronte di un vizio marginale, allorché la diversità della
forma o la non perfetta osservanza di un adempimento
endoprocedimentale non siano tali da impedire il concreto
raggiungimento dell’interesse pubblico tutelato dalla norma.
Ciò non sembra potersi affermare lì ove manchino i pareri
di regolarità tecnica e contabile.
Tali pareri, infatti, costituiscono atti procedimentali
obbligatori, poiché il legislatore, all’art. 49, ha previsto
che “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla
Giunta e al Consiglio […] deve essere richiesto il parere”;
gli stessi sono stati posti al centro del sistema, anche per
ovviare alla mancanza di competenza tecnica dei componenti
di Giunta e Consiglio.
Si aggiunga che il citato art. 49, a seguito della novella
attuata mediante il d.l. n. 174/2012, dev’essere letto
unitamente all’art. 147-bis, introdotto nell’ambito di tale
riforma, in forza del quale il controllo preventivo di
regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella
fase preventiva della formazione dell’atto, proprio dai
pareri di regolarità tecnica e contabile. Pertanto, i
pareri de quibus assicurano anche il controllo
preventivo sugli atti di Giunta e Consiglio.
L’importanza del parere di regolarità contabile, come
ridisegnato dal legislatore mediante il richiamato d.l. n.
174/2012, è stata ricordata dalla Sezione regionale di
controllo per le Marche, con
parere 05.06.2013 n. 51,
che ha evidenziato come mediante esso sia stato assegnato al
responsabile di ragioneria un ruolo centrale nella tutela
degli equilibri di bilancio dell’ente. Il rilievo del
parere di regolarità tecnica, invece, emerge altresì dal
nuovo art. 147-bis, che ne ha specificato il contenuto,
stabilendo come lo stesso debba attestare la regolarità e la
correttezza dell’azione amministrativa, cioè sia la sua
conformità alla normativa, che la correttezza sostanziale
delle soluzioni adottate.
È vero che il comma 4, dell’art. 49, del tuel, prevede la
possibilità per Giunta e Consiglio di non conformarsi ai
pareri in analisi “dandone adeguata motivazione nel testo
della deliberazione”, ma non potrebbe essere altrimenti,
in quanto in caso contrario i responsabili dei servizi in
questione diventerebbero, di fatto, amministratori.
Per quanto sopra esposto, ad avviso di questo Collegio
i pareri di regolarità tecnica e contabile
devono necessariamente essere resi, costituendo presupposti
necessari delle deliberazioni sottoposte alla Giunta e al
Consiglio, ad eccezione di quelle che costituiscono meri
atti di indirizzo. L’omessa acquisizione dei pareri in
argomento, pertanto, è tale da determinare l’illegittimità
dell’atto, non potendosi, per l’importante funzione ad essi
assegnata dal legislatore, ritenere che la loro mancanza non
sia tale da impedire il concreto raggiungimento
dell’interesse pubblico volta per volta tutelato dalle
norme.
7. Per quanto più specificamente concerne la richiesta di
parere formulata dal Sindaco istante, cioè se il Comune
possa deliberare di accogliere la proposta del mediatore
anche senza acquisire preventivamente i pareri degli uffici
e dell’avvocatura interna, ad avviso di questa Sezione,
la circostanza che la deliberazione abbia ad oggetto
una proposta di transazione formulata da un mediatore,
soggetto terzo, il quale offre garanzie di imparzialità,
azionata a seguito di invito del giudice, non è tale da
poter consentire una deroga alla norma generale, la quale
prevede la necessaria acquisizione dei pareri di regolarità
tecnico e contabile. Il ruolo del mediatore, infatti, non
esclude l’esigenza di un approccio prudente, finalizzato ad
evitare un depauperamento delle pubbliche risorse, che deve
sempre essere assicurato dalle pubbliche amministrazioni
nell’utilizzare strumenti transattivi e di composizione
delle liti.
Né, ai fini della resa del parere di
regolarità contabile, rileva come la deliberazione abbia
ad oggetto solo un’entrata per il Comune e nessuna spesa,
giacché come previsto dal più volte richiamato art. 49 del
tuel, detto parere dev’essere reso ogniqualvolta l’atto
comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria, o sul patrimonio dell’ente.
In merito, invece, al parere
dell’Avvocatura interna, non vi è motivo per discostarsi da
quanto affermato in generale per le transazioni dalla
Sezione regionale di controllo per il Piemonte,
con il
parere 28.02.2012 n. 20,
la quale ha ritenuto l’acquisizione dello stesso non
obbligatoria, ma sicuramente opportuna
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 11.04.2017 n. 62). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Va ricordato che:
- di norma anche gli enti pubblici possono
transigere le controversie delle quali siano parte ex art.
1965 c.c.;
- i limiti del ricorso alla transazione da parte
degli enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto
dell’ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione
soggettiva e la disponibilità dell’oggetto, e quelli
specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto
tra privati e pubblica amministrazione.
Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che,
nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici,
l’attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura
concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura
dell’interesse intestato all’ente. Pertanto, i negozi
giuridici conclusi con i privati non possono condizionare
l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia
rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della
comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle
posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di
imparzialità dell’azione amministrativa;
- la scelta se proseguire un giudizio o addivenire
ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto
della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito dello
svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come
tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato
giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle
stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente
apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione
amministrativa.
Uno degli elementi che l’ente deve considerare è sicuramente
la convenienza economica della transazione in relazione
all’incertezza del giudizio, intesa quest’ultima in senso
relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle
pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad
eventuali orientamenti giurisprudenziali;
- ai fini dell’ammissibilità della transazione è
necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non
di un semplice conflitto economico), che sussiste o può
sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui
non sia possibile a priori stabilire quale sia
giuridicamente fondata.
Di conseguenza il contrasto tra l’affermazione di due
posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto
serve per individuare le reciproche concessioni, elemento
collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna
parte ha in relazione all’oggetto della controversia. Si
tratta di un elemento che caratterizza la transazione
rispetto ad altri modi di definizione della lite;
- la transazione è valida solo se ha ad oggetto
diritti disponibili (art. 1966, co. 2 cc) e cioè, secondo la
prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno
il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’
nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che
formano oggetto della lite siano sottratti alla
disponibilità delle parti per loro natura o per espressa
disposizione di legge;
- requisito essenziale dell’accordo transattivo
disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in
forza dell’art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità
del rapporto giuridico;
- inoltre,
costituisce transazione solo quell’accordo che cade su un
rapporto che, oltre a presentare, almeno nell'opinione delle
parti, carattere di incertezza, è contrassegnato dalla
reciprocità delle concessioni. Oggetto della transazione,
quindi, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si
riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite
cui questa ha dato luogo o possa dar luogo e che le parti
stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni.
Quanto ai termini (soggetto e oggetto) del contratto di
transazione va ancora rammentato che i
soggetti devono essere dotati non solo di capacità giuridica
ma devono avere anche la legittimazione intesa come potere
di agire in ordine ai rapporti sui quali incide la
transazione.
Sotto questo profilo vengono in rilievo per gli enti
pubblici le procedure che prevedono le modalità di
formazione ed espressione della volontà amministrativa.
Per gli enti territoriali non è
previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di
transazione, ma, ove il medesimo sia dotato di una propria
avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita
della questione in analogia a quanto prevede per le
amministrazioni dello Stato l’art. 14 della legge di
contabilità generale (R.D. n. 2440/1923).
---------------
La Regione Piemonte, con nota a firma del Presidente
della Giunta, ha formulato una richiesta di parere
relativamente alla “ragionevolezza” di addivenire
alla transazione di un contenzioso giudiziario in essere con
un Istituto di credito per “esigenze di certezza in
ordine agli importi da inserire a Bilancio”.
A tal fine espone che il detto Istituto, dopo avere
garantito nel tempo una anticipazione di cassa ad un
soggetto erogatore anche di prestazioni sanitarie, ha citato
in giudizio la Regione per il recupero delle somme
anticipate. Il Giudice nella sentenza non ha disposto il
rimborso, ma ha ravvisato in capo alla Regione una
responsabilità extracontrattuale per un importo inferiore a
quello oggetto dell’anticipazione de qua. L’Istituto ha
impugnato la sentenza insistendo nel richiedere l’importo
originario dell’anticipazione e, nel contempo, ha proposto
una transazione della lite.
I termini di tale proposta transattiva vengono
sinteticamente riferiti come segue.
L’Istituto rinuncerebbe al risarcimento dei danni da
responsabilità extracontrattuale, mentre la Regione
riconoscerebbe il debito conseguente alla spesa sanitaria
anticipata dall’Istituto medesimo a titolo di anticipazione
bancaria, con relativi interessi e piano di ammortamento.
...
...questa Sezione non può quindi pronunciarsi in ordine alla
“ragionevolezza”, se intesa in termini di opportunità
e di convenienza per l’Ente, della transazione, di cui
vengono rappresentati i profili essenziali, di un
contenzioso giudiziario pendente tra la Regione e un
istituto di credito in ordine ad una anticipazione bancaria
concessa ad un soggetto erogatore di prestazioni sanitarie.
Astraendo, invece, dalla specificità del caso sottoposto
all’esame ed escludendosi, conseguentemente, qualsiasi
commistione con le scelte gestionali di esclusiva competenza
e responsabilità degli organi dell’Ente, la
richiesta può essere ritenuta ammissibile sotto il profilo
dell’individuazione, in linea generale, di limiti
all’applicabilità della transazione agli enti pubblici.
3. Sull’argomento questa Sezione si è già pronunciata (cfr.
parere 28.09.2007 n. 15) e così altre (cfr. ad es. Sez.
controllo Lombardia 16.04.2008 n. 26 e 18.12.2009 n. 1116),
ma sempre con riferimento a profili di carattere generale
(il primo parere verte sulla equiparazione dei crediti
derivanti da sentenza di condanna del giudice contabile ai
crediti tributari ai fini della praticabilità della c.d.
transazione fiscale, il secondo e il terzo sulla
ammissibilità del contratto di transazione per gli enti
pubblici in generale e sulla transigibilità dei crediti
derivanti dall’esercizio della potestas puniendi
dell’Amministrazione).
In particolare
(cfr. Sez. Lombardia n. 26/2008 e n. 1116/2009 cit.),
va ricordato che:
- di norma anche gli enti pubblici possono
transigere le controversie delle quali siano parte ex art.
1965 c.c.;
- i limiti del ricorso alla transazione da parte
degli enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto
dell’ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione
soggettiva e la disponibilità dell’oggetto, e quelli
specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto
tra privati e pubblica amministrazione.
Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che,
nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici,
l’attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura
concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura
dell’interesse intestato all’ente. Pertanto, i negozi
giuridici conclusi con i privati non possono condizionare
l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia
rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della
comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle
posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di
imparzialità dell’azione amministrativa;
- la scelta se proseguire un giudizio o addivenire
ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto
della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito dello
svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come
tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato
giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle
stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente
apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione
amministrativa.
Uno degli elementi che l’ente deve considerare è sicuramente
la convenienza economica della transazione in relazione
all’incertezza del giudizio, intesa quest’ultima in senso
relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle
pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad
eventuali orientamenti giurisprudenziali;
- ai fini dell’ammissibilità della transazione è
necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non
di un semplice conflitto economico), che sussiste o può
sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui
non sia possibile a priori stabilire quale sia
giuridicamente fondata.
Di conseguenza il contrasto tra l’affermazione di due
posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto
serve per individuare le reciproche concessioni, elemento
collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna
parte ha in relazione all’oggetto della controversia. Si
tratta di un elemento che caratterizza la transazione
rispetto ad altri modi di definizione della lite;
- la transazione è valida solo se ha ad oggetto
diritti disponibili (art. 1966, co. 2 cc) e cioè, secondo la
prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno
il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’
nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che
formano oggetto della lite siano sottratti alla
disponibilità delle parti per loro natura o per espressa
disposizione di legge;
- requisito essenziale dell’accordo transattivo
disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in
forza dell’art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità
del rapporto giuridico;
- inoltre, come affermato dalla giurisprudenza civile (cfr., ex
multis, Cass. 06.05.2003 n. 6861),
costituisce transazione solo quell’accordo che cade su un
rapporto che, oltre a presentare, almeno nell'opinione delle
parti, carattere di incertezza, è contrassegnato dalla
reciprocità delle concessioni. Oggetto della transazione,
quindi, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si
riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite
cui questa ha dato luogo o possa dar luogo e che le parti
stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni.
Quanto ai termini (soggetto e oggetto) del contratto di
transazione va ancora rammentato che i
soggetti devono essere dotati non solo di capacità giuridica
ma devono avere anche la legittimazione intesa come potere
di agire in ordine ai rapporti sui quali incide la
transazione.
Sotto questo profilo vengono in rilievo per gli enti
pubblici le procedure che prevedono le modalità di
formazione ed espressione della volontà amministrativa.
Per gli enti territoriali non è
previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di
transazione, ma, ove il medesimo sia dotato di una propria
avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita
della questione in analogia a quanto prevede per le
amministrazioni dello Stato l’art. 14 della legge di
contabilità generale (R.D. n. 2440/1923)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 28.02.2012 n. 20). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: determinazione n. 241 dell’08.03.2017 “Linee
guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del
d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i
titolari di incarichi politici, di amministrazione, di
direzione o di governo e i titolari di incarichi
dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs.
97/2016” – sospensione dell’efficacia limitatamente alla
pubblicazione dei dati di cui all’art. 14, co. 1, lett. c)
ed f), del d.lgs. 33/2013 per i titolari di incarichi
dirigenziali (comunicato
del Presidente 12.04.2017 unitamente alla
delibera 12.04.2017 n. 382 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Trasparenza - Sospeso l’obbligo di
pubblicare redditi e patrimoni dei dirigenti pubblici.
Con decisione assunta il 12 aprile il Consiglio
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha sospeso
l’efficacia delle Linee guida sugli obblighi di
pubblicazione dei dirigenti pubblici, relativamente a
compensi, spese per viaggi di servizio, situazione
patrimoniale e reddituale. Tali previsioni, stabilite dal
dlgs. 97/2016 (cd. “decreto Trasparenza”), erano già state
oggetto di una ordinanza cautelare del Tar del Lazio dello
scorso 2 marzo limitatamente all’Autorità Garante della
privacy. Con la delibera dell’Anac, la sospensione viene
estesa a tutte le pubbliche amministrazioni. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Per
l’Anac appalto di servizi per tutte le attività dei legali.
Tutte le attività professionali legali svolte per le
pubbliche amministrazioni rientrano nel concetto generale di
appalto di servizi legali e alcune tipologie di pareri
possono essere richiesti anche ad altri professionisti.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha sottoposto a
consultazione (del 10.04.2017) (con osservazioni che possono essere presentate
sino al 10 maggio) uno
schema di atto di regolazione
finalizzato a risolvere le problematiche applicative delle
norme del codice sull'affidamento di tali particolari
attività, con particolare riferimento a quelle di gestione
del contenzioso.
Il concetto di appalto di servizio legale
L'Anac evidenzia anzitutto come debba ritenersi superata la
posizione interpretativa formatasi in precedenza, in vigenza
del Dlgs 163/2006, in base alla quale il patrocinio legale,
cioè il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto
bisogno di difesa giudiziale del cliente, fosse inquadrabile
nell'ambito della prestazione d'opera intellettuale,
distinguendolo dai servizi legali, intesi come attività più
complesse e con differente modulo organizzativo.
Il documento posto in consultazione evidenzia, invece, come
tale distinzione non possa più ritenersi attuale, in quanto,
a seguito del recepimento delle direttive comunitarie, la
nozione di appalto è molto lata e ben più ampia della
nozione italiana, come desunta dal codice civile, e in
questo quadro il legislatore europeo ha ricondotto ogni
attività professionale legale in favore delle pubbliche
amministrazioni nel concetto generale di appalto di servizio
legale, non operando alcuna distinzione tra incarico singolo
e occasionale, eseguito dal professionista con lavoro
prevalentemente proprio (senza una necessaria
organizzazione) e incarico di assistenza e consulenza
giuridica eseguita con organizzazione di mezzi e personale.
La gestione del contenzioso in sede giudiziale e
stragiudiziale
L'Anac afferma pertanto che, indipendentemente dalla
qualificazione civilistica del contratto di affidamento
dell'incarico per la prestazione di servizi legali,
l'affidamento deve essere ricondotto alla categoria degli
appalti di servizi e, a seconda della tipologia lo stesso
dovrà essere inquadrato nell'elenco di cui all'articolo 17
del Dlgs 50/2016 oppure nella categoria residuale di cui
all'Allegato IX.
L'esclusione dall'applicazione del codice riguarda non solo
la gestione del contenzioso in sede giudiziale e
stragiudiziale, ma anche i servizi di consulenza legale
prodromici ad un'attività di difesa in un procedimento di
arbitrato, di conciliazione o giurisdizionale, prestati da
avvocati e necessari per valutare la possibilità di tutela
di una propria posizione giuridica soggettiva attraverso la
promozione di uno dei procedimenti in sede giurisdizionale o
stragiudiziale o per valutare l'eventuale fondatezza di una
pretesa da altri vantata nei propri confronti e le possibili
strategie difensive (compresa l'opportunità di pervenire ad
una conciliazione).
Alcune specificità
L'affidamento dei servizi legali esclusi dall'applicazione
del codice deve avvenire comunque nel rispetto dei principi
comunitari (secondo quanto indicati dall'articolo 4 del Dlgs
50/2016), potendo considerare anche alcune specificità (es.
per l'affidamento di un servizio di rappresentanza in
giudizio, la presenza di un pregresso contenzioso che si è
concluso con esito positivo per la stessa amministrazione).
L'Anac precisa come per tali affidamenti le amministrazioni
debbano richiedere preventivi per una valutazione
comparativa, potendo selezionare gli avvocati da elenchi
previamente costituiti mediante una procedura trasparente e
aperta, potendo così restringere tra i soggetti iscritti il
confronto concorrenziale al momento dell'affidamento. Gli
elenchi devono essere costituiti in base a un avviso
pubblicato sul sito istituzionale dell'amministrazione e
possono essere eventualmente suddiviso per settore di
competenza.
Nell'ipotesi di costituzioni in giudizio impellenti e non
conciliabili con i tempi sia pur stretti e semplificati
richiesti dall'attuazione dei principi comunitari,
l'autorità considera ammissibile un'estrazione a sorte
dall'elenco o una scelta diretta, ma motivata.
Il documento di consultazione precisa anche gli elementi
interpretativi per l'individuazione dei servizi legali
compresi nell'allegato IX, sottoposti alle regole di
affidamento previste dal codice dei contratti pubblici, con
le possibilità di semplificazione previste dagli articoli
142 e 143. In tale novero secondo l'Anac rientrano
soprattutto quei servizi che si realizzano prevalentemente
mediante la produzione di pareri e di atti di assistenza
legale non connessa alla difesa in giudizio.
Si tratta,
quindi, di attività stragiudiziale non riservata agli
avvocati, ma che può essere svolta anche da altre categorie
professionali dotate di formazione equivalente (consulenti
del lavoro, commercialisti, eccetera) (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.04.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
No all'affidamento fiduciario ai legali.
L'Anac sull'assegnazione dei servizi.
Gli incarichi agli avvocati non possono essere assegnati
intuitu personae per via fiduciaria, né se si tratti della
difesa in giudizio, né se si tratti di altri servizi legali,
come le consulenze. Inoltre, la circostanza che un servizio
possa essere configurato come prestazione d'opera
individuale non può essere sufficiente per escludere
l'applicazione dei principi del diritto comunitario, che
ispirano le regole contenute nel codice dei contratti.
L'Anac, con il
documento sui servizi legali posto in
consultazione (del 10.04.2017) sul suo sito allo scopo di emanare uno
specifico atto di regolazione, interviene in maniera chiara
e definitiva sull'annosa questione dell'assegnazione dei
servizi legali.
Secondo l'Autorità «non può più considerarsi
attuale» la teoria, sostenuta anche dal Consiglio di stato
con la sentenza della Sezione V, 11.05.2012, n. 2730
secondo cui si dovrebbe distinguere il conferimento di un
singolo incarico di patrocinio legale dall'attività di
assistenza e consulenza giuridica. Il primo caso era
sottratto alla disciplina del dlgs. n. 163/2006 in quanto.
Secondo tale teoria, la difesa in giudizio sarebbe un
«contratto d'opera intellettuale», nell'ambito del quale il
legale opera in via principalmente personale e con lavoro
proprio senza organizzazione imprenditoriale, sicché
sfuggirebbe alla qualificazione di «appalto». Invece,
l'attività di assistenza e consulenza giuridica,
comprendente l'organizzazione di una serie di servizi legali
tra cui plurime difese in giudizio, in quanto caratterizzata
dalla complessità dell'oggetto e dalla predeterminazione
della durata, sarebbe un appalto e, quindi soggetta alle
regole codicistiche.
Il documento posto in consultazione dall'Anac è tranciante
nel negare che col dlgs 50/2016 tale distinzione (molto
dubbia anche nel precedente regime normativo) sia
ulteriormente applicabile e che, quindi, si possano affidare
gli incarichi di difesa in giudizio per via fiduciaria. L'Anac
insiste sulla circostanza che il codice dei contratti
recepisce le direttive comunitarie, a loro volta espressione
di un ordinamento che offre dell'appalto un'accezione lata e
molto più ampia di quella definibile dall'ordinamento
civilistico interno e tale da ricomprendere, nella sostanza,
ogni prestazione di servizi, anche se resa da persone
fisiche con lavoro proprio. Dunque, le «prestazioni d'opera
intellettuale» finiscono per restare attratte nella
disciplina dei contratti.
In particolare, spiega l'Anac, la difesa in giudizio non può
essere regolata dal codice civile, ma dall'articolo 17 del
dlgs 165/2001. Pertanto, la difesa in giudizio è da
considerare senza alcun dubbio come «appalto di servizi»,
anche se escluso dall'applicazione delle regole puntuali
procedurali previste dal codice e, dunque, soggetto solo ai
principi enunciati dall'articolo 4 del codice. L'attuazione
dei quali impone comunque una scelta motivata, trasparente e
competitiva.
Il documento in consultazione propone un'interessante
definizione dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, il rispetto dei quali impedisce
affidamenti intuitu personae. In particolare, il principio
di imparzialità fa sì che «la stazione appaltante maturi la
sua decisione finale da una posizione di terzietà rispetto a
tutti i concorrenti, senza essere indebitamente influenzata
nelle sue decisioni da interessi politici di parte»: il che
esclude radicalmente gli affidamenti fiduciari.
L'Anac suggerisce di raccogliere manifestazioni di interesse
degli avvocati ad essere iscritti in albi sempre aperti, ai
quali attingere nel rispetto dei criteri di rotazione per
attivare una competizione concorrenziale. La procedura
selettiva dovrà rispettare criteri qualitativi, ma anche
inevitabilmente economici: l'Anac considera inevitabile, nel
rispetto del principio di economicità, chiedere anche un
ribasso sulla base di gara, determinabile in base all'esame
di incarichi analoghi conferiti dalle p.a. o dalle tariffe
professionali vigenti.
Molte amministrazioni si mostrano restie a procedure
selettive per i legali, soprattutto perché preoccupate da
non infrequenti casi nei quali occorre procedere con
urgenza. L'Anac evidenzia che ciò non crea alcun problema:
l'urgenza può consentire un affidamento diretto tramite
estrazione a sorte dall'albo eventualmente costituito dalla
singola pubblica amministrazione o una scelta diretta ma
motivata (del resto, è applicabile anche l'articolo 63 del
codice).
Per questi affidamenti, l'Anac ritiene
indispensabile verificare i requisiti generali dei legali,
in applicazione dell'articolo 80 del codice, sia pure in
forma attenuata. Gli «altri servizi legali», tra i quali i
servizi di certificazione o di consulenza, sono indicati
dall'allegato IX e, pertanto, sono ricompresi nella
disciplina del codice, con una soglia comunitaria di 750.000
euro, in quanto si applicano gli articoli da 140 e 144 del
codice, se sopra soglia. Si può applicare l'articolo 32,
invece, se sotto soglia
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in
materia di prevenzione della corruzione (delibera
29.03.2017 n. 330 - link a
www.anticorruzione.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza sul
rispetto degli obblighi di pubblicazione di cui al decreto
legislativo 14.03.2013 n. 33 (delibera
29.03.2017 n. 329 - link a
www.anticorruzione.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi
nonché sul rispetto delle regole di comportamento dei
pubblici funzionari (delibera
29.03.2017 n. 328 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Comune di Forlì – quesito giuridico acquisito al
protocollo n. 86620 del 01.06.2016 - Procedura aperta per
l’affidamento del servizio di manutenzione del verde
pubblico – Istanza di accesso agli atti di gara presentata
da consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, D.lgs.
18.08.2000, n. 267, recante Testo unico sull’ordinamento
degli anti locali - Differibilità dell’accesso agli atti di
gara di verifica dell’anomalia dell’offerta nei riguardi di
consiglieri comunali istanti – Accesso civico cd
generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, del Dlgs.
14.03.2013, n. 33, smi - AG 01/2017/AP.
---------------
Accesso agli atti di gara – Consigliere
comunale – Procedimento ad evidenza pubblica – Anomalia
dell’offerta – Fase di verifica - Differimento – Legittimo.
La disciplina dettata dall'art. 13 D.Lgs. 12.04.2006, n. 163
(Codice degli appalti), in tema di accesso agli atti di gare
pubbliche, è più restrittiva di quella generale di cui
all'art. 24 L. 07.08.1990 n. 241, sia sotto il profilo
soggettivo, atteso che nel primo caso l'accesso è consentito
solo al concorrente che abbia partecipato alla selezione,
che sul piano oggettivo, essendo l'accesso condizionato alla
sola comprovata esigenza di una difesa in giudizio, laddove
il citato art. 24 offre un ventaglio più ampio di
possibilità, consentendo l'accesso ove necessario per la
tutela della posizione giuridica del richiedente, senza
alcuna restrizione sul piano processuale. Il diritto di
accesso agli atti di gara è norma speciale rispetto al
diritto di accesso della l. 241/1990.
Procedimento ad evidenza pubblica –
Consigliere comunale – Diritto di accesso agli atti –
Differimento – Legittimità.
In ragione della tutela del regolare esercizio dell’azione
amministrativa e della tutela del principio di segretezza
delle offerte, che tutela il principio di libera concorrenza
nel mercato delle gare pubbliche, ai consiglieri comunali
non può essere opposto un diniego assoluto di accesso agli
atti, ma può essere legittimamente riconosciuto un
differimento dell’accesso ai sensi dell’art. 53, comma 2,
lett. d), del D.lgs. 50/2016.
Accesso civico cd generalizzato – Accesso
agli atti di gara – Codice dei contratti pubblici -
Esclusioni – Limiti.
Le disposizioni del Codice dei contratti pubblici in materia
di accesso agli atti delle procedure di affidamento
rientrano nell’ambito dei limiti e delle condizioni alle
quali è subordinato l’accesso civico generalizzato di cui
agli artt. 5 e 5-bis del D.lgs 33/2013.
Con riguardo a tale disciplina, si deve ritenere che -prima
dell’aggiudicazione- il diritto di accesso civico
generalizzato possa essere legittimamente escluso in ragione
dei divieti di accesso previsti dall’art. 53 del D.lgs.
50/2016; successivamente all’aggiudicazione della gara, il
diritto di accesso debba essere consentito a chiunque,
ancorché nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 5-bis,
commi 1 e 2, del D.lgs. 33/2013.
---------------
Art. 13, comma 2, lett. c-bis, del D.lgs. 12.04.2006, n. 163
Art. 53, comma 2, lett. d), del D.lgs. 50/2016
Art. 43, D.lgs. 18.08.2000, n. 267
Art. 5, comma 2, del D.lgs. 14.03.2013, n. 33 (Parere
sulla Normativa 29.03.2017 n. 317 - rif. AG 01/2017/AP
- link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Oggetto: chiarimenti sull’iscrizione all’Albo dei
componenti delle commissioni giudicatrici (comunicato
del Presidente 22.03.2017 - link a
www.anticorruzione.it).
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A seguito delle numerose richieste di iscrizione all’Albo
dei commissari di gara, di cui all’articolo 78 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, si rende necessario, con il
presente Comunicato, approvato dal Consiglio dell’Autorità
nell’adunanza del 22.03.2017, fornire alle pubbliche
amministrazioni e a tutti i soggetti pubblici e privati
interessati all’applicazione del predetto istituto, alcuni
chiarimenti e indicazioni circa la relativa disciplina
transitoria.
Si precisa che l’articolo 78 citato, al primo comma
prescrive che: “È istituito presso l’A.N.AC., che lo
gestisce e lo aggiorna secondo criteri individuati con
apposite determinazioni, l'Albo nazionale obbligatorio dei
componenti delle commissioni giudicatrici nelle procedure di
affidamento dei contratti pubblici”; il medesimo comma,
ultimo periodo, prescrive che: “Fino all'adozione della
disciplina in materia di iscrizione all'Albo, si applica
l'articolo 216, comma 12”.
A tal fine si rammenta che l’A.N.AC., con Determinazione
16/11/2016 n. 1190 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del
03/12/2016, n. 283), ha emanato le pertinenti Linee guida
(n. 5/2016) recanti i criteri di scelta dei commissari di
gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale
obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici,
rimandando l’entrata in vigore dell’Albo all’adozione di un
Regolamento ANAC teso a disciplinare le procedure
informatiche per garantire la casualità della scelta, la
corrispondenza delle professionalità richieste, la rotazione
degli esperti, nonché le modalità di comunicazione tra
l’Autorità, le stazioni appaltanti e i commissari di gara,
stabilendo altresì i termini del periodo transitorio da cui
scatta l’obbligo del ricorso all’Albo.
Considerato che ad oggi il predetto Regolamento non è stato
adottato, stante anche il procedimento legislativo di
correzione che investe l’Istituto in oggetto, si chiarisce
che, ai sensi degli articoli 77, comma 12, e 216, comma 12,
del citato decreto, la nomina della commissione giudicatrice
continua ad essere di esclusiva spettanza delle pubbliche
Amministrazioni secondo regole di organizzazione, competenza
e trasparenza preventivamente individuate. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Come sapere se il prezzo è giusto. Procedure
d'urgenza: all'affidatario anticipo del 50%. Verifica dell'Anac
entro 60 giorni sulla congruità di quanto pagato per
forniture e servizi.
Assoluta trasparenza per le verifiche di congruità dei
prezzi relativi alle forniture e ai servizi affidati in
regime di urgenza per calamità naturali; possibili controlli
successivi da parte dell'Anac.
È quanto chiede l'Autorità nazionale anticorruzione con il
comunicato del
Presidente 15.02.2017 (Oggetto: presupposti di
ammissibilità e modalità di presentazione delle istanze per
il rilascio del parere sulla congruità del prezzo, ai sensi
dell’art. 163 del d.l.gs. n. 50/2016), reso pubblico il 2 marzo,
che riguarda un nuovo compito affidato dal decreto 50 all'Anac
e codificato all'articolo 163, comma 9.
Nell'articolo suddetto si prevede che per le procedure di
somma urgenza e di protezione civile per appalti di
forniture e servizi, se non sono disponibili «elenchi di
prezzi definiti mediante l'utilizzo di prezzari ufficiali di
riferimento, gli affidatari si impegnano a fornire i servizi
e le forniture richiesti a un prezzo provvisorio stabilito
consensualmente tra le parti e ad accettare la
determinazione definitiva del prezzo a seguito di apposita
valutazione di congruità».
In questi casi il responsabile del procedimento deve
comunicare «il prezzo provvisorio, unitamente ai documenti
esplicativi dell'affidamento, all'Anac che, entro sessanta
giorni rende il proprio parere sulla congruità del prezzo».
La disposizione prevede anche che, in attesa
dell'acquisizione del parere di congruità, la stazione
appaltante corrisponde all'affidatario, intanto, il 50% del
prezzo provvisorio.
Il comunicato siglato da Raffaele Cantone, verificato che
molte richieste «sono risultate del tutto prive dei
necessari presupposti di ammissibilità, ovvero carenti di
documentazione, con conseguente aggravio di istruttoria per
l'Anac», ha quindi dettato alcuni chiarimenti dell'Autorità,
finalizzati anche a razionalizzare l'attività degli uffici
incaricati di gestire questo nuovo adempimento.
L'Anac richiama innanzitutto le fattispecie che legittimano
l'applicazione dell'articolo 163 che, in particolare,
riguardano anche «le calamità naturali o connesse con
l'attività dell'uomo che, in ragione della loro intensità ed
estensione, debbono, con immediatezza d'intervento, essere
fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare
durante limitati e predefiniti periodi di tempo».
In questi casi, il comunicato specifica che il parere deve
riguardare l'acquisizione di servizi o forniture e devono
essere indicati i motivi o le cause che hanno determinato lo
stato di urgenza a cui la stazione appaltante ha dovuto far
fronte senza indugio; deve essere inoltre attestata la
mancanza di prezzari ufficiali di riferimento, «documentando
di avere svolto, al riguardo, le necessarie verifiche».
Infine, al parere dovranno essere allegate tutte le
informazioni e gli elementi essenziali sull'acquisto
effettuato che permettono di procedere alla valutazione di
congruità del prezzo.
L'Autorità, che dovrà concludere la procedura in 60 giorni,
informerà le amministrazioni nel caso la comunicazione
risulti incompleta, ma potrà svolgere il controllo sulla
effettiva sussistenza della ragioni di urgenza anche
successivamente nell'ambito dell'esercizio dell'attività di
vigilanza. Questo perché è il comma 10 dell'articolo 163 a
prevedere la massima trasparenza di questi affidamenti di
cui si devono pubblicare gli atti con la specifica
dell'affidatario, delle modalità della scelta e delle
motivazioni che non hanno consentito il ricorso alle
procedure ordinarie.
Il comunicato chiarisce che le amministrazioni che fanno
ricorso alle procedure d'urgenza di cui all'art. 163 citato,
per l'acquisizione sia di lavori che di servizi e forniture,
anche qualora non abbiano formulato una richiesta di parere
di congruità, sono comunque tenute a trasmettere all'Anac la
relativa documentazione, entro il termine che sarà indicato
nel nuovo Regolamento in materia di attività di vigilanza
sui contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017). |
QUESITI & PARERI |
PATRIMONIO:
Alienazione terreno comunale.
Prima della stipula del rogito l'Ente è
tenuto al rispetto delle procedure e dei termini posti a
tutela dei terzi, ai sensi dell'articolo 58 del decreto
legge 25.06.2008, n. 112, nella considerazione che l'Ente è
tenuto una sola volta ai suddetti adempimenti con
riferimento al medesimo bene.
Il Comune informa che nel piano di valorizzazione e
alienazione del patrimonio comunale inserito nel Documento
unico di programmazione (DUP), allegato al bilancio di
previsione 2016-2018, era stato inserito un bene comunale la
cui alienazione risulta iniziata ma non ancora conclusa.
L'Ente ha previsto nel nuovo piano di valorizzazione e
alienazione del patrimonio comunale inserito nel DUP,
allegato al bilancio di previsione 2017-2019, l'alienazione
del medesimo terreno.
Pertanto, l'Ente chiede un parere per conoscere se, prima
della stipula del rogito del terreno suddetto, si debbano
attendere le necessarie pubblicazioni e conseguenti
adempimenti connessi all'approvazione del nuovo piano di
valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale,
riferito al triennio 2017-2019.
La normativa in materia di ricognizione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare degli enti locali è contenuta
nell'articolo 58 del D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito con
modifiche dalla legge 06.08.2008, n. 133.
[1].
In particolare, l'articolo 58 del D.L. 112/2008 prevede che
attraverso una delibera dell'organo di Governo venga redatto
un apposito elenco degli immobili non strumentali
all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali,
suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione,
costituendo in tal modo il piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari (comma 1).
L'inserimento degli immobili nel piano su richiamato ne
determina la loro classificazione come patrimonio
disponibile. Con successiva deliberazione il consiglio
comunale approva il piano delle alienazioni e
valorizzazioni, determinando le destinazioni d'uso
urbanistiche degli immobili ivi contenuti (comma 2).
Gli elenchi degli immobili devono essere pubblicati nelle
forme previste da ciascun Ente e hanno effetto dichiarativo
della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni e
producono gli effetti previsti dall'articolo 2644
[2] del
codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione
del bene in catasto. A tutela dell'interesse di eventuali
soggetti terzi, è ammesso ricorso amministrativo contro
l'iscrizione del bene nell'elenco, entro sessanta giorni
dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Pertanto, prima della stipula del rogito l'Ente è tenuto al
rispetto delle procedure e dei termini posti a tutela dei
terzi, ai sensi della normativa sopra richiamata, nella
considerazione che l'Ente è tenuto una sola volta ai
suddetti adempimenti con riferimento al medesimo bene.
---------------
[1] Art. 58 (Ricognizione e valorizzazione del patrimonio
immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali)
<<1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione
del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e
altri Enti locali, nonché di società o Enti a totale
partecipazione dei predetti enti, ciascuno di essi, con
delibera dell'organo di Governo individua, redigendo
apposito elenco, sulla base e nei limiti della
documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i
singoli beni immobili ricadenti nel territorio di
competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie
funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione
ovvero di dismissione. Viene così redatto il piano delle
alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al
bilancio di previsione nel quale, previa intesa, sono
inseriti immobili di proprietà dello Stato individuati dal
Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del
demanio tra quelli che insistono nel relativo territorio.
2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la
conseguente classificazione come patrimonio disponibile,
fatto salvo il rispetto delle tutele di natura
storico-artistica, archeologica, architettonica e
paesaggistico-ambientale. Il piano è trasmesso agli Enti
competenti, i quali si esprimono entro trenta giorni,
decorsi i quali, in caso di mancata espressione da parte dei
medesimi Enti, la predetta classificazione è resa
definitiva. La deliberazione del consiglio comunale di
approvazione, ovvero di ratifica dell'atto di deliberazione
se trattasi di società o Ente a totale partecipazione
pubblica, del piano delle alienazioni e valorizzazioni
determina le destinazioni d'uso urbanistiche degli immobili.
Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore
della presente disposizione, disciplinano l'eventuale
equivalenza della deliberazione del consiglio comunale di
approvazione quale variante allo strumento urbanistico
generale, ai sensi dell'articolo 25 della legge 28.02.1985,
n. 47, anche disciplinando le procedure semplificate per la
relativa approvazione. Le Regioni, nell'ambito della
predetta normativa approvano procedure di co-pianificazione
per l'eventuale verifica di conformità agli strumenti di
pianificazione sovraordinata, al fine di concludere il
procedimento entro il termine perentorio di 90 giorni dalla
deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si
applica il comma 2 dell'articolo 25 della legge 28.02.1985,
n. 47. Le varianti urbanistiche di cui al presente comma,
qualora rientrino nelle previsioni di cui al paragrafo 3
dell'articolo 3 della direttiva 2001/42/CE e al comma 4
dell'articolo 7 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e
s.m.i. non sono soggette a valutazione ambientale
strategica.
3. Gli elenchi di cui al comma 1, da pubblicare mediante le
forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto
dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti
trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo
2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi
dell'iscrizione del bene in catasto.
4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle
conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e
voltura.
5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui al
comma 1 è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta
giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Omissis>>
[2] 2644. Effetti della trascrizione.
Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno
effetto [c.c. 509] riguardo ai terzi che a qualunque titolo
hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto
trascritto [c.c. 507, 2659, 2667] o iscritto [c.c. 2839]
anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi [c.c.
2643, 2652, n. 3, 2653, n. 1, 2685, 2827, 2857, 2914, n. 1].
Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui
che ha trascritto [c.c. 2666] alcuna trascrizione o
iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore,
quantunque l'acquisto risalga a data anteriore [c.c. 1380,
2649, 2655, 2812, 2848, 2866, 2913, 2915] (11.05.2017
-
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I diritti edificatori.
DOMANDA:
Vorremmo sapere se i cosiddetti diritti edificatori, ossia
quelle cubature non legate ad una specifica area edificabile
ma che possono essere utilizzate in altre zone del
territorio comunale oppure essere acquistate e vendute,
siano o meno soggette ad IMU ed eventualmente in che misura.
RISPOSTA:
Il diritto urbanistico statale o regionale prevede diversi
istituti giuridici volti a trasferire le capacità
edificatorie, che sono suscettibili di incidere sul valore
venale dell’area fabbricabile, tra i quali si menzionano i
seguenti:
- Trasferimento di cubatura; in virtù delle
prescrizioni dello strumento urbanistico, è possibile cedere
una quota di cubatura edificabile per consentire ad un altro
soggetto di disporre della minima estensione di terreno
richiesta per l’edificazione, oppure di realizzare una
volumetria maggiore di quella consentita dalla superficie
del suo fondo,
- Traslazione del diritto ad edificare; il
titolare del diritto ad edificare già assentito (tramite
permesso di costruire o altro titolo), quando non possa più
esercitare tale diritto a causa di un sopravvenuto vincolo
non urbanistico (ad esempio, di tipo paesaggistico), ha
facoltà di chiedere di esercitarlo su un’altra area del
territorio comunale, della quale abbia disponibilità,
-
Diritto di rilocalizzazione, in base al quale il
proprietario di un edificio, che dovrà essere demolito, o la
cui esistenza è incompatibile con la realizzazione di opere
pubbliche, potrà ricostruirlo in un’altra zona di sua
proprietà nell’ambito dello stesso comune, anche in deroga
alle limitazioni derivanti dal piano regolatore generale. Il
diritto, con il consenso del comune, è trasferibile a terzi.
La natura di tali diritti è stata a lungo controversa; a
proposito del diritto di rilocalizzazione previsto dalla
legge regionale dell’Emilia Romagna, n. 38 del 01.12.1998, l’Agenzia delle Entrate, con R.M. 233/E del 20.08.2009 ha chiarito che esso è strutturalmente assimilabile
alla categoria dei diritti reali di godimento. E’ questa la
strada seguita recentemente dal legislatore: l’art. 5, co.
3, del d.l. 70/2011 ha stabilito la trascrivibilità nei
registri immobiliari dei contratti che trasferiscono,
costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque
denominati, integrando le previsioni dell’art. 2643 c.c.
In ogni caso, il trasferimento dei diritti edificatori ha
effetto sulla determinazione dell'IMU: con tali negozi
giuridici, si modifica la valutazione del suolo
fabbricabile, la cui base imponibile è determinata anche in
funzione delle potenzialità edificatorie; i diritti
trasferiti non costituiscono un’area fabbricabile autonoma,
ma viene inciso, unicamente, il valore venale dei terreni
interessati. In conclusione, i diritti edificatori non hanno
una tassazione autonoma ma sono rilevanti nella valutazione
dell’area fabbricabile, quando sono ad essa legati (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Le graduatorie concorsuali degli altri enti.
DOMANDA:
Esiste un criterio per individuare l'ente con cui stipulare
l'accordo postumo per l'utilizzo della graduatoria per
assunzione a tempo indeterminato (es. stessa provincia 7
comuni confinanti ecc)? Il regolamento dell'ente richiedente
nulla dispone in merito ovvero non specifica se devono
essere o meno limitrofi. Abbiamo richiesto agli enti
confinanti che stanno svolgendo o hanno svolto concorsi di
categoria e profilo corrispondente all'assunzione da
effettuare, in base alle nostre conoscenze (ad oggi non
abbiamo avuto risposta).
L'Ente ha un accordo già stipulato,
ma la graduatoria è esaurita. Un idoneo di un concorso (che
in passato ha lavorato a tempo determinato presso di noi) ha
segnalato il Comune in cui è validamente collocato in
graduatoria, si tratta però di un ente non limitrofo, di
altra provincia. Attingendo alla stessa, laddove il Comune
addivenga all'accordo, violiamo regole di trasparenza ed
imparzialità, potrebbe essere illegittima l'assunzione la
finalità dell'amministrazione, piccolo ente è coprire il
posto nel più breve periodo.
RISPOSTA:
In riscontro al quesito proposto è necessario premettere
quanto segue. Il DL 90/2014 (art. 3, c. 5-ter) ha esteso anche
agli enti locali la regola valida per lo stato secondo cui
prima di avviare la procedura concorsuale è necessario
esaurire le proprie graduatorie (idonei), salvo comprovate
non temporanee necessità organizzative adeguatamente
motivate (art. 4, c. 3, L. 125/2013).
Nel caso in cui non
disponga di proprie graduatorie valide, l’ente può anche
utilizzare le graduatorie di altri enti (artt. 14, c. 4-bis DL 95/2012 e 3 c. 61 L 350/2003) purché: - abbia previsto
tale modalità assunzionale nel proprio regolamento di
organizzazione; - stipuli una convenzione (anche mediante
semplice scambio di lettere) con l’amministrazione titolare
della graduatoria (art. 3, c. 61, L 350/2003).
Al termine di
un lungo dibattito sul tema, secondo l’orientamento più
recente l’accordo può anche essere successivo
all’approvazione della graduatoria (C. Conti Umbria
124/2013), anche se per il Ministero dell’Interno resta
comunque preferibile che esso intervenga prima della formale
approvazione della graduatoria (parere n. 15700 5A3
0004435).
La questione su cui verte la querelle di cui si è fatto
cenno relativa al momento della stipula della convenzione,
attiene alla necessità che nell’utilizzo di graduatorie
altrui non venga pregiudicata l’imparzialità dell’azione
amministrativa, rendendo il processo di scelta maggiormente
leggibile e trasparente, così da evitare azioni arbitrarie
ed illegittime.
Venendo alla concreta questione posta nel quesito, questa
stessa esigenza di imparzialità impone all’ente di
predeterminare i criteri di scelta anche nel caso, ed anzi
soprattutto nel caso, in cui si provveda a stipulare la
convenzione successivamente all’approvazione della
graduatoria, come nel caso prospettato essendo esaurita la
graduatoria dell’ente già convenzionato. In tal senso la
costante giurisprudenza che, appunto, considera presupposto
fondamentale, per evitare scelte discrezionali che
potrebbero invalidare la procedura, la predeterminazione dei
parametri di utilizzo delle graduatorie nel regolamento di
organizzazione, specialmente con riguardo ai criteri di
individuazione degli enti da interpellare (numero e ordine).
La prassi e la giurisprudenza, invece, non stabiliscono
particolari vincoli in ordine ai criteri di scelta che il
comune può adottare per individuare concretamente l’ente con
cui convenzionarsi.
In sintesi, per quanto detto, con il proprio regolamento il
comune dovrà prevedere l’utilizzo delle graduatorie di altri
enti tra le modalità assunzionali e fissare i criteri di
scelta della P.A con cui accordarsi, rispettando in tale
ambito il solo principio dell’imparzialità del proprio agire
e, dunque, senza ulteriori limitazioni sui concreti criteri
da usare. Potrà così autonomamente decidere se prevedere
come requisito prioritario, ad esempio, la distanza tra gli
enti ovvero l’analogia di dimensioni, le caratteristiche
geografiche o di funzionamento simili; se, ancora, limitare
la scelta al solo ambito della propria provincia/regione o
ampliare i confini all’intero territorio nazionale e, per
altro verso, se interpellare solo enti del proprio comparto
o anche enti pubblici che applicano contratti differenti.
Sotto quest’ultimo aspetto, resta da evidenziare che la
giurisprudenza ha più volte ribadito che elemento necessario
ai fini dello scorrimento della graduatoria di altri enti è
che vi sia omogeneità tra il posto richiesto e quello in
graduatoria con riguardo a profilo, categoria professionale
e regime giuridico (ad es. part-time – tempo pieno) (C. Conti
e Ministero Int. citati, Tar Veneto 864/2011).
A tal fine è
pertanto necessario confrontare con attenzione la
declaratoria del profilo della graduatoria con quello che si
ricerca in quanto nei singoli enti possono essere diversi.
Infine, per completezza, si ritiene utile ricordare che
anche nel caso di scorrimento delle graduatorie di altri
enti si ritiene necessario la preventiva attivazione delle
mobilità volontaria e di quella prevista dall’art. 34-bis D.Lgs.
165/2001 (F.P. parere 215/2005; circolari 4/2008 e 11786/
2011) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Autorizzazione paesaggistica -
Termine di efficacia (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
27.04.2017 n. 13204 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. n.
81172 del 16.02.2016, con la quale si
chiede, in relazione ad una fattispecie
rappresentata dal Comune di Rocca Priora, se
sia possibile rilasciare un titolo
abilitativo edilizio in base ad
un'autorizzazione paesaggistica rilasciata
nel 2007 "in applicazione della previsione
dell'ultimo periodo dell'art. 146 del D.lgs.
n. 42 del 2004 ....che, nell'attuale
formulazione, fa decorrere il termine di
efficacia dell'autorizzazione paesaggistica
dal giorno in cui acquista efficacia il
titolo edilizio eventualmente necessario per
la realizzazione dell'intervento" .
Al riguardo, codesta amministrazione
prospetta la tesi secondo cui "l'efficacia
differita dovrebbe interessare le
autorizzazioni rilasciate successivamente al
01.06.2014 (entrata in vigore delle
modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del
2014) in quanto i provvedimenti rilasciati
anteriormente avevano già acquistato
efficacia in virtù della normativa
previgente".
La soluzione proposta appare senz'altro
condivisibile.
La disposizione che prevede l'abbinamento
del dies a quo di efficacia ...
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comune di Robbiate -
Procedimento semplificato autorizzazione
paesaggistica (MIBACT, Ufficio
Legislativo,
nota
26.04.2017 n. 13008 di prot.).
---------------
Con nota prot. n. 3974 del 30.03.2017, il
Comune di Robbiate ha rivolto a questo
Ufficio un quesito relativo alle modalità di
individuazione degli immobili di interesse
storico-architettonico o
storico-testimoniale, isolati o ricompresi
nei centri storici sottoposti a vincolo
provvedimentale ai sensi dell'articolo 136,
comma 1, lettere c) del codice, al fine
della esclusione dall'esonero dalla previa
autorizzazione paesaggistica per particolari
categorie di interventi ricadenti su tale
tipologia di immobili, atteso il rinvio a
tale esclusione più volte operato dal d.P.R.
n. 31 del 2017.
Il Comune richiedente, nella richiesta che
qui si allega, rappresenta che il centro
storico risulta sottoposto a un vincolo
generalizzato, apposto nel 1969,
riconducibile alle lettere c) e d)
dell'articolo 136 del codice.
La prospettazione contenuta nella richiesta
di parere sembra comprendere due distinte
questioni: da un lato, se e come sia
possibile distinguere, all'interno di un
unico provvedimento di vincolo riconducibile
in modo indifferenziato ad entrambe le
categorie di "vincolo d'insieme" oggi
suddistinte ... (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Permessi agli amministratori locali. Riproporzionamento.
Si ritiene che all'amministratore locale
che svolge attività lavorativa quale dipendente in regime di
part time spettino interamente i permessi previsti per
l'espletamento della carica. Tale orientamento, sostenuto a
livello ministeriale, non è, tuttavia, condiviso dall'Aran
la quale, invece, applica, nel caso di specie, il principio
del riproporzionamento dei periodi di assenza spettanti al
lavoratore a tempo parziale.
Il Comune chiede un parere in materia di permessi spettanti
agli amministratori locali. In particolare, chiede se,
qualora un assessore svolga l'attività lavorativa quale
dipendente in regime di part-time verticale, tali permessi
debbano o meno essere riproporzionati in relazione allo
status lavorativo.
L'articolo 79, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 prevede che: 'I componenti degli organi esecutivi
dei comuni [...] hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai
precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di
lavoro per un massimo di 24 ore lavorative al mese [...].'
Il successivo comma 5 dispone, poi, che: 'I lavoratori
dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad
ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24
ore lavorative mensili qualora risultino necessari per
l'espletamento del mandato'.
La Corte dei Conti ha, anche di recente, ribadito che «la
norma costituisce parte della disciplina dei permessi e
delle licenze, retribuite o gratuite, concedibili ai
lavoratori dipendenti chiamati ad espletare funzioni
elettive/di governo presso enti locali, in aderenza al
precetto posto dall'art. 51, comma 3, Cost., in base al
quale "chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha
diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento
e di conservare il suo posto di lavoro"».
[1]
Il Ministero dell'Interno, investito di una questione
analoga a quella in esame, ha ritenuto che 'all'amministratore
in questione spettino interamente i permessi previsti per
l'espletamento della carica, in quanto la norma conserva la
propria autonomia a prescindere dalla tipologia del rapporto
specificando, al riguardo, che i permessi di cui può fruire
l'amministratore trovano legittimazione qualora
l'espletamento delle funzioni connesse con la carica
elettiva ricoperta coincida temporalmente con l'obbligo
della prestazione lavorativa e sono, pertanto, strettamente
correlati alla specifica condizione di lavoratore dipendente'.
[2]
Anche l'ANCI, nell'affrontare la tematica in esame, ha
affermato che: 'L'amministratore ha diritto a fruire
integralmente dei permessi retribuiti e non retribuiti
stabiliti dall'art. 79 del Testo Unico, senza alcuna
riduzione per la posizione di lavoratore a part-time'.
[3]
In senso diverso da quello sopra riportato si è, invece,
espressa l'Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle
Pubbliche Amministrazioni (ARAN) la quale ha affermato che:
'Siamo del parere che i permessi disciplinati nell'art.
79, comma 4, del D.Lgs. n.267/2000 spettino anche ai
dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale
(verticale o orizzontale) perché non esiste, in proposito,
alcuna espressa disposizione contraria.
Il vero problema, però, è quello di stabilire se detti
permessi, spettanti in ragione di un massimo di 24 o 48 ore
mensili, a seconda dell'incarico ricoperto, debbano essere
riproporzionati e come.
In proposito, a nostro avviso, non può non trovare
applicazione il principio generale del riproporzionamento
dei periodi di assenza spettanti al lavoratore a tempo
parziale di cui all'art. 6, comma 8, del CCNL del
14.09.2000.
Infatti, se esso vale a ridurre i periodi di assenza di
alcuni istituti, tutelati anche a livello costituzionale
(come per le ferie), non può non trovare applicazione anche
nel caso in esame.
In materia, pertanto, il principio di riproporzionamento
dovrebbe operare come segue:
[...]
tempo parziale verticale che preveda periodi lavorativi
consecutivi inferiori al mese (ad esempio, una settimana di
lavoro ed una di riposo): le ore di permesso vanno
riproporzionate in funzione della durata complessiva della
prestazione riferita la mese.' [4]
La tesi sostenuta dall'ARAN è stata fatta propria anche da
certa dottrina [5]
la quale, dopo aver riportato le affermazioni sostenute
dall'Agenzia ha, altresì, affermato che 'alcuni autori,
in verità non molti, sono contrari alla tesi del
riproporzionamento dei permessi ex art. 79, comma 4, TUEL
per il dipendente con rapporto di lavoro a tempo parziale,
in quanto, a loro giudizio, verrebbe leso il principio di
non discriminazione che deve assicurare al lavoratore a
tempo parziale di poter beneficiare degli stessi diritti di
un lavoratore a tempo pieno'.
A parere di chi scrive, in assenza di una specifica
disposizione di legge che preveda il riproporzionamento dei
permessi spettanti agli amministratori locali che svolgono
attività lavorativa dipendente in regime di part-time, pare
maggiormente condivisibile l'orientamento ministeriale.
[6] A
sostegno di un tanto militano diversi argomenti: in
primis, si consideri che esso è diretta esplicazione del
diritto politico alla libera e piena esecuzione del mandato
elettivo. Tale principio, sancito a livello costituzionale
dall'articolo 51, comma 3, Cost., è ribadito e specificato
dall'articolo 77, comma 1, del TUEL.
Tale norma, dopo aver affermato che 'La Repubblica tutela
il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche
pubbliche nelle amministrazioni degli enti locali ad
espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e
delle risorse necessari ed usufruendo di indennità e di
rimborsi spese nei modi e nei limiti previsti dalla legge',
al comma 2, annovera, in un rapporto di genus a species,
anche la disciplina dei permessi spettanti agli
amministratori locali, successivamente analiticamente
regolamentata all'articolo 79 del D.Lgs. 267/2000. Segue
l'indisponibilità del diritto in riferimento e la connessa
inammissibilità di ipotesi di suo ridimensionamento, se non
per via legislativa ed in modo espresso.
Infatti, stante il disposto di cui all'articolo 1, comma 4,
TUEL, [7]
per poter derogare alle disposizioni di cui all'articolo 79
in commento, sarebbe necessaria un'esplicita espressione di
volontà legislativa in tal senso, che, allo stato attuale,
risulta non esistente.
Da ultimo, si rileva che l'ARAN, nell'applicare il principio
del riproporzionamento, rinvia alle norme della
contrattazione collettiva: al riguardo si evidenzia che la
materia dei permessi per l'espletamento del mandato elettivo
non pare riconducibile a quella relativa al contratto di
lavoro né alla disciplina delle relazioni sindacali
[8] 'trattandosi
invece di istituto che, tanto per la sua collocazione
normativa quanto per i suoi contenuti, afferisce invece,
[...] ad un ambito prettamente pubblicistico.'
[9]
Stante, tuttavia, la diversità di orientamenti esistenti
sulla tematica in oggetto, si ritiene che solo un giudice,
eventualmente investito della questione, potrebbe fornire
una risposta puntuale con riferimento al caso concreto.
---------------
[1] Così, Corte dei Conti, Lombardia, sez. contr.,
delibera del 02.02.2016, n. 21.
[2] Ministero dell'Interno, parere del 04.12.2007.
[3] ANCI, parere dell'01.06.2010. Nello stesso senso si veda
anche parere del 03.02.2005.
[4] ARAN, orientamento applicativo RAL 937 del 07.12.2011.
[5] Così, Nicola e Monica Laudisio, 'L'amministratore
locale', Maggioli editore, 2014, pag. 66.
[6] A sostegno della non riproporzionabilità dei permessi
spettanti amministratori locali che svolgono attività
lavorativa dipendente in regime di part-time, si veda
l'approfondita analisi di A. Le Donne e E. D'Urso, 'I
permessi dell'amministratore locale per lo svolgimento del
mandato elettivo in caso di rapporto di lavoro part-time',
in Nuova Rassegna, 2007, n. 2, pagg. 127 e seg., le cui
considerazioni sono in parte riprodotte nel prosieguo del
parere. Tali autori rilevano, tuttavia, che 'l'opposta tesi
(prospettata dai suoi sostenitori in modo peraltro
estremamente dogmatico) appare oggi maggiormente condivisa.'
[7] Recita l'articolo 1, comma 4, del TUEL: 'Ai sensi
dell'articolo 128 della Costituzione le leggi della
Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo
unico se non mediante espressa modificazione delle sue
disposizioni.'
[8] Si ricorda che, ai sensi dell'articolo 40, comma 1,
prima parte, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165: 'La
contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi
direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le
materie relative alle relazioni sindacali.'
[9] Così, A. Le Donne e E. D'Urso, 'I permessi
dell'amministratore locale per lo svolgimento del mandato
elettivo in caso di rapporto di lavoro part-time', citati in
nota 6, pag. 133 (26.04.2017 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Interventi edilizi realizzati
prima dell'apposizione del vincolo
paesaggistico - Permesso di costruire in
sanatoria - Disciplina paesaggistica (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 20.04.2017 n. 12633 di prot.).
---------------
Con la nota n. prot. 81219 del
16.02.2016, codesta Amministrazione
regionale ha posto un quesito riguardante la
disciplina applicabile ai casi di sanatoria
edilizia ai sensi dell'art. 36 del dPR n.
380 del 2001 relativi ad abusi edilizi
commessi antecedentemente all'apposizione
del vincolo paesaggistico (è stato
rappresentato il caso di un abuso edilizio
commesso nel comune di Sutri,
antecedentemente alla data di pubblicazione
del VIR adottato, in area posta all'interno
della "fascia di rispetto di un bene lineare
tipizzato di interesse archeologico, di cui
all'art. 13, lett. a), L.r. n. 24 del 1998",
e per il quale è stato richiesto il permesso
di costruire in sanatoria).
In particolare, è stato chiesto di chiarire
... (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33. Obblighi di pubblicazione
concernenti i titolari di incarichi politici delle ASP.
In considerazione delle funzioni svolte
dai consigli di amministrazione delle Aziende pubbliche di
servizi alla persona, che coincidono in tutto o in parte con
quanto descritto dall'Autorità nazionale anticorruzione
nelle FAQ in materia di trasparenza e nella delibera n.
241/2017, si ritiene che i membri dei CDA delle ASP siano
soggetti agli obblighi di pubblicazione indicati all'art.
14, comma 1, del D.Lgs. 33/2013.
Parimenti, considerata l'estensione di tali obblighi anche
ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo
conferiti, le aziende devono pubblicare i dati e i documenti
di cui all'art. 14, comma 1, anche con riguardo alle figure
dirigenziali, quale quella del direttore generale.
AGGIORNAMENTO: L'ANAC, con l'emanazione della
delibera n. 382 del 12.04.2017, ha sospeso l'efficacia della
delibera n. 241/2017, limitatamente alle indicazioni
relative all'applicazione dell'art. 14, comma 1, lett. c) ed
f), del d.lgs. 33/2013, per tutti i dirigenti pubblici.
Pertanto, al momento attuale, non sussiste l'obbligo di
pubblicazione dei documenti ivi richiamati, con riguardo
alle figure dirigenziali.
L'Azienda di servizi alla persona chiede un chiarimento
sull'applicazione dell'art. 14 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, così come modificato dal decreto
legislativo 24.05.2016, n. 97. In particolare, l'Azienda
chiede di sapere quali siano gli obblighi di pubblicazione
della situazione reddituale e patrimoniale dei consiglieri
dell'ASP e del direttore generale dell'Azienda, nominato
dallo stesso consiglio di amministrazione.
Il novellato art. 14 del d.lgs. 33/2013 stabilisce gli
obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di
incarichi politici, di amministrazione, di direzione e di
governo e i titolari di incarichi dirigenziali. In
particolare, per quanto qui di interesse, il comma 1, alla
lett. f), dispone che i titolari di incarichi politici,
anche se non di carattere elettivo, sono tenuti alla
pubblicazione delle 'dichiarazioni di cui all'art. 2
[1],
della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e le
dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della stessa legge,
come modificata dal presente decreto, limitatamente al
soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il
secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni
caso data evidenza al mancato consenso (...).'
[2]
Con riguardo all'ambito soggettivo di applicazione della
norma, si osserva che, come chiarito dall'ANAC
[3], le
disposizioni di cui all'art. 14 si applicano, negli enti
diversi da quelli territoriali (come le ASP), anche agli
organi non espressione di rappresentanza politica ma che
svolgono una funzione di indirizzo. Ritiene infatti l'ANAC
che, nell'individuazione dei titolari di incarichi o cariche
di amministrazione, di direzione o di governo comunque
denominati, vadano annoverati anche i componenti degli
organi che, pur non espressione di rappresentanza politica,
siano titolari di poteri di indirizzo generale con
riferimento all'organizzazione e all'attività
dell'amministrazione cui sono preposti [4].
Per facilitare l'individuazione degli organi tenuti ad
osservare la norma in parola, l'ANAC ha chiarito che 'Negli
enti pubblici diversi da quelli territoriali, dove di norma
non si hanno organi elettivi, (...) occorrerà considerare
gli organi nei quali tendono a concentrarsi competenze, tra
le quali, tra l'altro, l'adozione di statuti e regolamenti
interni, la definizione dell'ordinamento dei servizi, la
dotazione organica, l'individuazione delle linee di
indirizzo dell'ente, la determinazione dei programmi e degli
obiettivi strategici pluriennali, l'emanazione di direttive
di carattere generale relative all'attività dell'ente,
l'approvazione del bilancio preventivo e del conto
consuntivo, l'approvazione dei piani annuali e pluriennali,
l'adozione di criteri generali e di piani di attività e di
investimento.' [5]
Dunque, in considerazione delle funzioni svolte dai consigli
di amministrazione delle ASP, che coincidono in tutto o in
parte con quanto descritto dall'Autorità, si ritiene che
anche i membri di tali CDA siano soggetti agli obblighi di
pubblicazione su indicati. Peraltro, non si reputa rilevante
il fatto che le nomine dei consiglieri vengano effettuate
dal sindaco di un comune con popolazione inferiore a 15.000
abitanti. Infatti, l'esclusione dall'obbligo di
pubblicazione dei documenti di cui all'art. 14, comma 1,
lett. f), del d.lgs. 33/2013, opera solo nei confronti dei
titolari di incarichi politici [6]
di tali enti, e non già per soggetti da questi a qualsiasi
titolo nominati in altre amministrazioni.
Per quanto concerne, infine, il direttore generale
dell'Azienda, si osserva innanzitutto che, per effetto delle
modifiche al d.lgs. 33/2013 apportate dal d.lgs. 97/2016, i
titolari degli incarichi dirigenziali rientrano ora fra i
soggetti individuati dall'art. 14 [7].
Ne deriva che, ai sensi dell'art. 14, comma 1-bis, le
pubbliche amministrazioni sono tenute alla pubblicazione dei
dati di cui al comma 1 anche 'per i titolari di incarichi
dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti'. Inoltre, ai
sensi del comma 1-ter, i dirigenti sono tenuti anche a
comunicare all'amministrazione presso la quale prestano
servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della
finanza pubblica, dati che poi devono essere pubblicati sul
sito istituzionale [8].
AGGIORNAMENTO
Con riferimento alla nota prot. 3542 del 19 aprile scorso,
per quanto concerne i dati relativi al direttore generale
dell'Azienda, si segnala che l'ANAC, con l'emanazione della
delibera n. 382 del 12.04.2017, ha sospeso l'efficacia della
delibera n. 241/2017, limitatamente alle indicazioni
relative all'applicazione dell'art. 14, comma 1, lett. c) ed
f), del d.lgs. 33/2013, per tutti i dirigenti pubblici.
Tale intervento si è reso necessario in seguito
all'ordinanza cautelare n. 1030/2017, emanata il 2 marzo
scorso dalla sezione I-quater del TAR Lazio, che, su ricorso
presentato da dirigenti del Garante della privacy, ha
sospeso atti del Segretario generale del Garante medesimo
sull'attuazione dell'articolo 14. All'ANAC è inoltre stato
notificato un ricorso per l'annullamento, previa sospensiva,
delle Linee guida di cui alla determinazione n. 241/2017.
L'ANAC ha quindi comunicato che: 'Alla luce di quanto
sopra, tenuto conto del contenzioso in atto, delle
motivazioni dell'ordinanza del TAR del Lazio divenuta
definitiva in data 02.04.2017 nonché al fine di evitare alle
amministrazioni pubbliche situazioni di incertezza sulla
corretta applicazione dell'art. 14 con conseguente
significativo contenzioso e disparità di trattamento fra
dirigenti appartenenti a amministrazioni diverse, il
Consiglio dell'Autorità in data 12.04.2017 ha deciso di
sospendere l'efficacia della delibera n. 241/2017
limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione
dell'art. 14, co. 1, lett. c) ed f) del d.lgs. n. 33/2013
per tutti i dirigenti pubblici, anche per quelli del SSN, in
attesa della definizione nel merito del giudizio o in attesa
di un intervento legislativo chiarificatore.'
[9]
---------------
[1] Si tratta, in sintesi e per quanto qui rilevante, di
una dichiarazione concernente i diritti reali su beni
immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le
azioni di società, le quote di partecipazione a società e di
copia dell'ultima dichiarazione dei redditi soggetti
all'imposta sui redditi delle persone fisiche.
[2] Per completezza di informazione si segnala che il
successivo comma 1-bis dispone che non sussiste l'obbligo di
pubblicazione dei documenti e delle informazioni elencati al
comma 1 nel caso in cui gli incarichi o le cariche di
amministrazione, di direzione o di governo siano attribuiti
a titolo gratuito.
[3] Delibera ANAC n. 241 dell'08.03.2017, recante 'Linee
guida recanti indicazioni sull'attuazione dell'art. 14 del
d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i
titolari di incarichi politici, di amministrazione, di
direzione o di governo e i titolari di incarichi
dirigenziali» come modificato dall'art. 13 del d.lgs.
97/2016'.
[4] Tale interpretazione è coerente con quella già fornita
dalla stessa Autorità nella delibera n. 144 del 2014.
[5] Punto 5.1 delle FAQ in materia di trasparenza
(sull'applicazione del d.lgs. n. 33/2013 come modificato dal
d.lgs. n. 97/2016), reperibili sul sito internet
dell'Autorità nazionale anticorruzione.
[6] Nonché dei loro coniugi non separati e dei parenti entro
il secondo grado.
[7] Mentre prima a questi si applicava l'art. 15, ora
ristretto ai soli titolari di incarichi di collaborazione o
consulenza.
[8] Con riferimento agli obblighi di pubblicazione
riguardanti i titolari di incarichi dirigenziali, si rinvia
ai chiarimenti e alle osservazioni formulati dall'ANAC al
punto 2.3 delle Linee guida approvate nell'adunanza
dell'08.03.2016 (delibera n. 241/2016).
[9] Si veda il Comunicato dell'ANAC del 12.04.2017 (19.04.2017
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Obbligo di astensione ai sensi dell'articolo 78 TUEL.
L'obbligo di astensione degli
amministratori locali costituisce principio di carattere
generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.
Enti locali), che non ammette deroghe o eccezioni,
ricorrendo ogni qualvolta sussista una relazione diretta fra
la posizione dell'amministratore e l'oggetto della
deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere
altro apprezzabile esito e la scelta fosse in concreto la
più utile e opportuna per l'interesse pubblico; e tale
dovere sussiste in tutti i casi in cui l'amministratore
versa in situazioni che, avuto riguardo al particolare
oggetto della decisione da assumere, appaiano - anche solo
potenzialmente - idonee a minare la sua imparzialità.
Il Comune chiede un parere in merito all'obbligo di
astensione di cui all'articolo 78, comma 2, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, gravante sugli
amministratori locali.
La vicenda, che si pone alla base della presente richiesta
di parere, è originata da un atto di diniego di
autorizzazione al mutamento di destinazione d'uso di un
fabbricato assunto nell'anno 1998 dall'allora sindaco, padre
dell'attuale vicesindaco, successivamente annullato con
sentenza del giudice amministrativo.
Con successiva pronuncia del tribunale amministrativo
regionale, emessa in sede di ottemperanza, è stato disposto,
oltre all'obbligo di esecuzione della sentenza di primo
grado, anche il risarcimento del danno a carico del Comune
per il danno patito dal privato a causa del diniego
provvedimentale di cui sopra. Premesso un tanto, l'attuale
giunta comunale ha autorizzato il sindaco in carica
[1] a
proporre ricorso innanzi al Consiglio di Stato contro la
sentenza emessa in sede di ottemperanza,
[2] con propria
delibera alla quale ha preso parte anche il vicesindaco.
[3]
Ciò premesso, il Comune desidera sapere se questi si sarebbe
dovuto astenere dal partecipare alla discussione e dal
votare la delibera giuntale in riferimento attesa la
parentela (l'essere figlio) che lo lega al soggetto che,
nell'anno 1998, ha emesso, in qualità di sindaco, l'atto
provvedimentale che si pone alla base della vicenda
giudiziaria sopra descritta.
In via preliminare, si ricorda che non compete a questo
Ufficio esprimersi in merito alla legittimità degli atti
degli enti locali stante l'avvenuta soppressione del regime
dei controlli ad opera della legge costituzionale 3/2001. Di
seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni
generali circa il dovere di astensione che incombe sugli
amministratori locali, che possano risultare di utilità al
Comune in relazione alla vicenda realizzatasi, fermo che
solo un giudice eventualmente investito della questione
potrebbe fornire una risposta puntuale con riferimento al
caso concreto.
L'articolo 78, comma 2, del D.Lgs. 267/2000 recita: 'Gli
amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, devono
astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di
astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta
fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado'.
Come rilevato dalla giurisprudenza, «l'obbligo di
astensione per incompatibilità del consigliere comunale, [è]
espressione del principio generale di imparzialità e di
trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica
Amministrazione deve conformare la propria immagine, prima
ancora che la propria azione». [4]
Ancora, si è affermato che: «L'obbligo di astensione
degli amministratori locali costituisce principio di
carattere generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n.
267/2000 (T.U. Enti locali), che non ammette deroghe o
eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta sussista una
correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e
l'oggetto della deliberazione, anche se la votazione
potrebbe non avere altro apprezzabile esito e la scelta
fosse in concreto la più utile e opportuna per l'interesse
pubblico; e tale dovere sussiste in tutti i casi in cui essi
versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare
oggetto della decisione da assumere, appaiano -anche solo
potenzialmente- idonee a minare l'imparzialità dei medesimi.»
[5]
Con riferimento alla fattispecie in esame si tratta di
definire se sussista o meno una 'correlazione diretta fra
la posizione dell'amministratore e l'oggetto della
deliberazione'. La giurisprudenza ha, infatti, sottolineato
in diverse occasioni che: 'La norma è chiara nello stabilire
in termini generali l'obbligo di astensione dei consiglieri
in tutte le ipotesi in cui sia ravvisabile una relazione
specifica tra l'oggetto della delibera approvata e gli
interessi facenti capo all'amministratore o ai suoi parenti
o affini entro il quarto grado'. [6]
Al riguardo, si segnalano, di seguito, alcuni orientamenti
formatisi in campo giurisprudenziale dai quali poter trarre
elementi di utilità per affrontare la questione in esame.
In particolare, si riportano alcuni tratti della sentenza
del Supremo Organo di Giustizia Amministrativa del
16.05.2016, n. 1969 che, in relazione all'esistenza del
conflitto di interessi ha affermato: 'Per pacifica
giurisprudenza, quest'ultimo sussiste allorché i componenti
di un collegio amministrativo siano portatori di un
interesse personale divergente da quello affidato alle cure
dell'organo di cui fanno parte (Cons. Stato, Sez. III;
02/04/2014, n. 1577; Sez. V, 13/06/2008, n. 2970).
Nel caso di specie tale divergenza non è configurabile, in
quanto, l'interesse dei componenti della Giunta Municipale e
del Dirigente del Settore Personale, coincide con quello
pubblico perseguito con l'atto di ritiro, ovvero evitare non
dovuti esborsi di denaro pubblico per effetto di
provvedimenti di stabilizzazione ritenuti illegittimi.
Giova soggiungere che la verifica della sussistenza del
conflitto d'interessi, dovendo essere condotta sotto un
profilo eminentemente oggettivo, non è influenzata dalle
motivazioni soggettive poste a base dell'agire.'
[7]
Se, dunque, secondo tale sentenza non sussisterebbe
l'obbligo di astensione nel caso di interesse coincidente
con quello pubblico, né rileverebbero le motivazioni
soggettive che spingono l'amministratore locale ad agire, al
contempo, si ritiene necessario segnalare, altresì, quelle
pronunce giurisprudenziali che, invece, ritengono
sussistente l'obbligo di astensione quando 'dalla
situazione concreta emerga la mancanza di una posizione di
neutralità rispetto a concreti interessi a contenuto
patrimoniale facenti capo direttamente e indirettamente al
consigliere comunale'. [8]
In tale alveo si pongono quelle sentenze che, in linea
generale, affermano che il conflitto di interessi rilevante
ai fini della sussistenza dell'obbligo di astensione di cui
all'articolo 78, comma 2, TUEL, 'a tutela dell'immagine
dell'amministrazione', [9]
è anche quello potenziale.
Circa la nozione di conflitto di interessi potenziale,
elaborata in diversi settori del diritto, si rileva che essa
ricomprende quelle 'situazioni in grado di compromettere,
anche solo potenzialmente, l'imparzialità richiesta [...]
nell'esercizio del potere decisionale.'
[10]
Costituiscono esplicazione di tale principio una serie di
ulteriori affermazioni giurisprudenziali. In particolare, è
stato affermato che: 'La regola della astensione del
consigliere comunale deve trovare applicazione in tutti i
casi in cui il consigliere, per ragioni obiettive, non si
trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alle
decisioni da adottare di natura discrezionale; in tal senso
il concetto di 'interesse' del consigliere alla
deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di
contrasto di situazioni personali, comportante una tensione
della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa
ricavare dal contribuire alla adozione di una delibera (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 04.11.2003, n. 7050)'.
[11]
Ancora, è stato rilevato che: 'In linea generale, è
configurabile un obbligo generale di astensione dei membri
di collegi amministrativi o dei titolari di organi
monocratici che si vengano a trovare in posizione di
conflitto di interessi perché portatori di interessi
personali, diretti o indiretti, in contrasto anche
potenziale con l'interesse pubblico. Il conflitto
d'interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per
ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due
interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di
tipo istituzionale ed un altro di tipo personale. La ratio
di tale obbligo va ricondotta al principio costituzionale
dell'imparzialità dell'azione amministrativa sancito
dall'art. 97 Cost., a tutela del prestigio
dell'amministrazione che deve essere posta al di sopra del
sospetto, e costituisce regola tanto ampia quanto
insuscettibile di compressione alcuna (Conferma della
sentenza del Tar Molise, sez. I, 04.09.2008, n. 718)'.
[12]
Corollario dei principi da ultimo espressi è che l'obbligo
di astensione sussiste anche 'quando la votazione non
potrebbe avere altro apprezzabile esito e quand'anche la
scelta fosse in concreto la più utile e la più opportuna per
lo stesso interesse pubblico.' [13]
---------------
[1] Si tratta di un soggetto diverso da quello che ha
emesso l'atto di diniego di autorizzazione al mutamento di
destinazione d'uso di un fabbricato assunto nell'anno 1998.
[2] Per completezza espositiva, si segnala che la delibera
in riferimento ha, altresì, disposto l'autorizzazione al
sindaco a proporre ricorso innanzi al Consiglio di Stato con
riferimento ad altra sentenza, rispetto a quella citata nel
testo del parere, relativa all'avvenuto annullamento, da
parte del giudice di primo grado, di una
ordinanza-ingiunzione di demolizione, nonché ha individuato
il legale cui affidare l'incarico di patrocinio legale dei
ricorsi in riferimento.
[3] Lo statuto del Comune prevede, infatti, che la giunta,
tra l'altro, decida 'con proprio atto la costituzione in
giudizio dell'Ente e la proposizione delle liti ed autorizza
il Sindaco a stare in giudizio' [articolo 28, comma 4, lett.
n)].
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.09.2014, n.
4806.
[5] TAR Calabria, Reggio Calabria, sentenza del 09.01.2014,
n. 18.
[6] TAR Veneto, Venezia, sez. II, sentenza del 27.01.2015,
n. 92.
[7] Il caso sottoposto all'attenzione del Consiglio di
Stato, che si è espresso riformando la precedente pronuncia
del tribunale amministrativo regionale della Campania,
riguardava l'avvenuto annullamento in autotutela di una
delibera della giunta comunale che aveva stabilizzato alcuni
dipendenti precari. Il provvedimento di ritiro era stato
ritenuto viziato in quanto adottato col contributo del
dirigente del Settore Personale e di alcuni componenti della
giunta che, per essere personalmente coinvolti nell'indagine
della Procura contabile instaurata con riferimento alla
delibera di stabilizzazione, si sarebbero dovuti astenere
trovandosi in situazione di conflitto di interesse.
[8] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza dell'08.07.2002,
n. 3804. Sul medesimo concetto la sentenza in riferimento
richiama anche altra giurisprudenza del medesimo Consiglio
(Cons. Stato, IV, 28.01.2000, n. 442) secondo cui 'l'obbligo
di astensione cui è soggetto il consigliere comunale in
relazione alle delibere alle quali sia direttamente o
indirettamente interessato, è giustificato dal
coinvolgimento dell'interesse del consigliere stesso,
indipendentemente dal vantaggio o svantaggio che in concreto
possa derivargli, in conseguenza di quella serenità che egli
deve avere all'atto dell'adozione di un provvedimento di
natura discrezionale'.
[9] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.06.2008, n.
2970.
[10] Affermazione espressa dall'Autorità Nazionale
Anticorruzione (orientamento n. 95 del 07.10.2014), con
riferimento all'articolo 6-bis della legge 241/1990.
Afferma, ancora, tale Autorità che 'il riferimento alla
potenzialità del conflitto di interessi mostra la volontà
del legislatore di impedire ab origine il verificarsi di
situazioni di interferenza, rendendo assoluto il vincolo
dell'astensione, a fronte di qualsiasi posizione che possa,
anche in astratto, pregiudicare il principio di
imparzialità.
L'obbligo di astensione, dunque, non ammette deroghe ed
opera per il solo fatto che il dipendente pubblico risulti
portatore di interessi personali che lo pongano in conflitto
con quello generale affidato all'amministrazione di
appartenenza'.
[11] Consiglio di Stato, sentenza 2970/2008, citata in nota
9.
[12] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 28.05.2012, n.
3133.
[13] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 26.05.2003,
n. 2826 (18.04.2017 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ L'urgenza va motivata. Per
le delibere di immediata eseguibilità.
È necessaria un'autonoma votazione a maggioranza dei
componenti.
Ai sensi dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n.
267/2000, in materia di deliberazioni del consiglio e della
giunta dichiarate immediatamente eseguibili, nel caso di
urgenza, con il voto espresso dalla maggioranza dei
componenti, è necessaria una specifica motivazione
giustificativa della formula di «immediata eseguibilità»?
In linea generale, in base alla disposizione citata, la
dichiarazione di immediata eseguibilità risponde
all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti
quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da
apposita separata votazione che la approvi con il voto
favorevole della maggioranza dei componenti del collegio,
non essendo sufficiente il voto della maggioranza semplice
dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la
connotazione dell'immediata eseguibilità assume, infatti,
autonoma valenza rispetto all'approvazione del provvedimento
cui si riferisce, restandone logicamente distinta.
A tal proposito, il Tar Liguria, sez. II, con decisione n.
2/2007 ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del
decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la
dichiarazione di immediata eseguibilità, per motivi di
urgenza, di una delibera di consiglio o di giunta, sia
oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale
dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si
identifichi con essa. Lo stesso tribunale ha puntualizzato
che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata
eseguibilità quale attributo necessario di ogni delibera, ma
ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale,
basata sul requisito dell'urgenza, dell'amministrazione
procedente.
Sullo specifico quesito, si condividono le osservazioni
formulate dal Tar Piemonte nella sentenza n. 460 del 2014
circa la indefettibilità di una adeguata motivazione
giustificativa della dichiarazione di immediata
eseguibilità. Nella citata pronuncia il giudice
amministrativo ha ritenuto che «la clausola di immediata
eseguibilità dipende da una scelta discrezionale
dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al
requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata
motivazione nell'ambito dello stesso atto»
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Commissioni consiliari e conferenze dei capigruppo.
1) La previsione circa la possibilità,
per il consiglio comunale, di avvalersi di commissioni
consiliari deve essere contenuta nello statuto comunale.
Spetta, poi, al regolamento consiliare disciplinare la loro
istituzione, composizione e funzionamento.
2) Non è possibile demandare alla conferenza dei capigruppo
la discussione della bozza di un regolamento che
spetterebbe, invece, alla commissione consiliare di
riferimento, attesa sia la diversità dei compiti
ordinariamente propri di tali due organi, sia la diversa
composizione degli stessi, atteso che la conferenza dei
capigruppo non rispecchia il criterio di rappresentatività
richiesto, invece, per le commissioni consiliari.
Il Comune chiede un parere in materia di commissioni
consiliari anche in riferimento al distinguo tra l'attività
svolta dalle stesse e quella propria della conferenza dei
capigruppo.
Più in particolare, premesso che il vigente regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale nulla dispone in merito
alle commissioni consiliari, la cui previsione è contenuta
solo in sede statutaria, chiede se sia possibile istituire
una commissione consiliare specifica, diretta ad analizzare
i contenuti della bozza di un regolamento volto a
disciplinare l'istituto del baratto amministrativo.
[1] Tale
richiesta consegue ad un atto di assunzione di impegno da
parte del consiglio comunale che, nel corso di una seduta
avente ad oggetto la disamina di una bozza di regolamento
afferente il baratto amministrativo, demandava la
valutazione circa la fattibilità di tale atto di normazione
secondaria alla successiva disamina della questione da parte
di una apposita commissione consiliare.
In subordine, chiede se la bozza di regolamento di cui in
oggetto possa essere discussa, invece che in sede di
commissione consiliare, in seno alla conferenza dei
capogruppo.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 38 dello statuto rubricato 'Commissioni
consiliari' prevede che: '1. Il consiglio comunale può
avvalersi di commissioni costituite nel proprio seno con
criterio proporzionale, secondo le modalità previste dal
regolamento che ne disciplina altresì il funzionamento e le
forme di pubblicità dei lavori.
2. Esse potranno avere natura sia permanente, che speciale'.
Come già anticipato, il vigente regolamento per il
funzionamento del consiglio comunale non contiene alcuna
previsione sulle commissioni consiliari di talché, ad oggi,
l'Ente risulta essere privo di una disciplina volta a
definire quali siano e come debbano operare le stesse. Al
contempo, va, altresì, rilevato che si tratta di organi non
necessari dell'ente locale cosicché la loro istituzione è
meramente facoltativa (sempreché esista nello statuto la
previsione circa la loro esistenza) [2].
Come rilevato dal Ministero dell'Interno,
[3] 'esse non
sono organi necessari dell'ente locale, cioè non sono
componenti indispensabili della sua struttura organizzativa,
bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali,
costituiscono componenti interne dell'organo assembleare,
prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad
esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari
operano sempre e comunque nell'ambito della competenza dei
consigli'.
Attesa la natura giuridica di tali commissioni, che sono
delle articolazioni interne del consiglio, prive di una
competenza autonoma e distinta da quella ad esso propria,
considerata l'oggettiva impossibilità di loro costituzione,
per assenza di una disciplina relativa alla loro
istituzione, composizione e funzionamento, si ritiene che la
questione da trattare in seno alla stessa debba essere
affrontata dal consiglio comunale nell'ambito delle
competenze ad esso proprie. In alternativa, questi dovrebbe
integrare il proprio regolamento consiliare o, il che è lo
stesso, introdurre una disciplina regolamentare specifica
diretta alla loro regolamentazione.
Con riferimento alla seconda questione posta, si osserva, in
generale, che i gruppi consiliari costituiscono aggregazioni
di carattere politico all'interno del consiglio comunale la
cui esistenza, benché non espressamente sancita da alcuna
norma espressa, risulta tuttavia desumibile da diverse norme
contenute nel TUEL. [4]
In particolare, quanto alla conferenza dei capigruppo, in
assenza di specifiche indicazioni normative circa il suo
funzionamento ed attività, si ritiene che la fonte deputata
a stabilire un tanto sia quella statutaria e/o
regolamentare. Al riguardo, lo statuto dell'Ente dispone che
'É istituita la conferenza dei capigruppo, secondo le
modalità di cui al regolamento' (articolo 37). L'atto
regolamentare, all'articolo 49, poi, prevede che: 'Nei
casi previsti dalla legge, dallo Statuto Comunale o qualora
si renda necessario, il Sindaco provvede alla convocazione
della conferenza dei capigruppo consiliari. L'avviso di
convocazione con i relativi oggetti deve essere recapitato
ai capigruppo consiliari almeno due giorni interi prima di
quello fissato per la conferenza. Le funzioni di Segretario
verbalizzante sono svolte dal segretario Comunale o, in caso
di impedimento, da un suo delegato'.
Le disposizioni citate non declinano le competenze di tale
conferenza dei capigruppo. Di conseguenza si ritiene che la
stessa, in linea con le funzioni ordinariamente proprie di
quest'organo, abbia competenza 'in materia di
programmazione dei lavori del consiglio e di coordinamento
delle attività delle Commissioni consiliari'
[5] nonché
compiti rivolti a consentire di conseguire la finalità di
garantire e sostanziare il diritto di informazione dei
consiglieri, sia come singoli che come gruppo, previsto
dall'articolo 39, comma 4, del D.Lgs. 267/2000.
[6] Di qui
l'impossibilità di equiparare l'attività dalla stessa svolta
a quella propria delle commissioni consiliari che, invece,
svolgono funzioni più propriamente 'consultive,
istruttorie, di studio e di proposta direttamente
finalizzate alla preparazione dell'attività del consiglio'
[7].
Alla luce di quanto sopra espresso si ritiene che non sia
possibile demandare alla conferenza dei capigruppo la
discussione della bozza di regolamento sul baratto
amministrativo che spetterebbe, invece, alla commissione
consiliare di riferimento, o in sua mancanza, al consiglio
comunale.
Per completezza espositiva, si segnala che a diverse
conclusioni si potrebbe pervenire nel caso in cui il
regolamento del consiglio comunale prevedesse la
costituzione della conferenza dei capigruppo con le modalità
di cui all'articolo 38, comma 6, TUEL, e con attribuzione
alla stessa di poteri e funzioni coincidenti con quelli
delle commissioni consiliari. In particolare, quanto a sua
composizione, si ricorda che, ordinariamente, la conferenza
dei capigruppo non rispecchia il criterio di
rappresentatività richiesto, invece, per le commissioni
consiliari.
----------------
[1] Normativa di riferimento per la disciplina di tale
istituto giuridico è l'articolo 24 del decreto legge
12.09.2014, n. 133, come sostituito dalla legge di
conversione 11.11.2014, n. 164 e l'articolo 190 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50.
[2] Si veda, al riguardo, l'articolo 38, comma 6, del
decreto legislativo 18.08.20000, n. 267 il quale recita:
'Quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di
commissioni costituite nel proprio seno con criterio
proporzionale. Il regolamento determina i poteri delle
commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le forme di
pubblicità dei lavori'.
[3] Ministero dell'Interno, parere del 03.04.2014.
[4] Si consideri, al riguardo, l'articolo 38, comma 3, TUEL
nella parte in cui demanda al regolamento sul funzionamento
dei consigli comunali la disciplina, tra l'altro, anche
della gestione delle risorse attribuite per il funzionamento
dei gruppi consiliari regolarmente costituiti. Ancora,
l'articolo 39, comma 4, TUEL, prevede che il presidente del
consiglio comunale assicura una adeguata e preventiva
informazione ai gruppi consiliari sulle questioni sottoposte
al consiglio.
[5] Così Ministero dell'Interno, pareri del 29.02.2012; del
20.04.2010 e del 03.11.2009.
[6] Anche la dottrina ha rilevato che 'la conferenza dei
capigruppo, all'interno dell'articolazione del consiglio
comunale, costituisce una 'commissione' a cui vengono
generalmente affidati compiti collaborativi con il
presidente dell'assemblea per la redazione dell'ordine del
giorno (una sorta di pre-informazione sugli argomenti da
discutere); oppure, in funzione di apposite norme
regolamentari, possiede compiti istruttori finalizzati alla
stesura di atti regolamentari o alle modifiche statutarie o
a specifiche materie'. (articolo dal titolo 'Niente gettoni
ai componenti della conferenza dei capigruppo e doverosa
contestazione in caso di mancato recupero della somma
erogata', in Gazzetta degli enti locali, 08.09.2011).
[7] Così Ministero dell'Interno, pareri citati in nota 5
(07.04.2017 -
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Computo del periodo di pubblicazione delle deliberazioni
degli enti locali.
Secondo il Ministero dell'interno, in
conformità all'orientamento giurisprudenziale, nel periodo
di 15 giorni consecutivi previsti per la pubblicazione delle
deliberazioni comunali va computato il giorno iniziale.
Il Comune chiede di conoscere se il computo dei giorni utili
al compimento dell'obbligo di pubblicazione delle
deliberazioni degli enti locali, che costituisce presupposto
per la loro esecutività [1],
includa, o meno, il giorno iniziale, rilevando che il
Ministero dell'interno afferma che «nel periodo di 15
giorni consecutivi previsti per la pubblicazione delle
deliberazioni comunali va computato il dies a quo [...]»
[2].
Considerato che nel documento intitolato «Redazione di
linee guida sulla pubblicità legale dei documenti e sulla
conservazione dei siti web delle PA» (maggio 2016)
[3], che
non risulta ancora essere stato approvato in via definitiva
[4],
l'Agenzia per l'Italia Digitale - AgID asserisce, invece,
che il periodo di pubblicazione è di quindici giorni interi
e consecutivi e che il computo dei giorni inizia dal giorno
successivo alla data di pubblicazione [5],
questo Ufficio ha ritenuto doveroso interpellare, in via
collaborativa, la predetta Agenzia [6],
al fine di conoscere le motivazioni giuridiche in base alle
quali essa ritenga preferibile assumere tale orientamento.
Atteso il tempo trascorso dalla richiesta di parere avanzata
dal Comune, nelle more di un auspicabile riscontro dell'AgID,
a tutt'oggi non pervenuto, questo Ufficio ritiene di poter
comunque rappresentare quanto segue.
L'avviso reso dal Ministero dell'interno si fonda sulle
previsioni contenute nell'art. 124, comma 1
[7] e
nell'art. 134, comma 3 [8],
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, mentre in questa
Regione occorre fare riferimento alla disciplina recata
dall'art. 1, comma 15, secondo periodo («Le deliberazioni
[...] degli enti locali sono pubblicate, entro sette giorni
dalla data di adozione [9],
per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche
disposizioni di legge.») e comma 19, primo periodo («Gli
atti degli organi collegiali di governo degli enti locali
diventano esecutivi il giorno successivo al termine della
pubblicazione, salvo che, per motivi di urgenza, siano
dichiarati immediatamente eseguibili con il voto espresso
della maggioranza dei componenti dell'organo deliberante.»)
della legge regionale 11.12.2003, n. 21.
Si ritiene che l'interpretazione fornita dal Ministero
dell'interno, in aperta adesione all'insegnamento
giurisprudenziale [10]
[11], sia
valida anche in riferimento alla normativa vigente in questo
territorio regionale, atteso che l'espressione utilizzata «pubblicate
[...] per quindici giorni consecutivi» è la medesima.
Secondo la Cassazione civile «il dies a quo del periodo
di affissione [12]
non può che comprendere il giorno iniziale», in
considerazione tanto del dato testuale della norma di legge,
il quale prevede esattamente il periodo di durata della
pubblicazione (quindici giorni consecutivi), quanto
dell'osservazione che l'applicazione della regola generale
posta dall'art. 2963 [13]
del codice civile e dall'art. 155 [14]
del codice di procedura civile incontra un limite oggettivo.
Il Giudice osserva, infatti, che la regola secondo la quale
nel computo del termine si esclude il giorno iniziale
costituisce senza dubbio un 'criterio generale per il
computo del tempo', ma rileva che essa si riferisce ai
termini che assumono come punto di riferimento un evento dal
verificarsi del quale acquista rilevanza giuridica
l'attività o l'inattività di un soggetto e non trova,
invece, applicazione laddove una norma di legge prenda in
considerazione o assegni rilevanza ad una situazione secondo
la sua durata effettiva.
La suprema Corte afferma, perciò, che «ai fini del
compimento del periodo di affissione indicato dall'art. 124
del d.lgs. n. 267 del 2000, e in relazione ad ogni effetto
giuridico connesso all'affissione, il giorno iniziale non
può non restare compreso nel periodo, atteso che esso, come,
peraltro, si ricava espressamente dal testo della norma, è
uno dei giorni utili alle finalità (conoscenza legale per la
generalità dei cittadini) dell'affissione stessa».
Qualora l'AgID fornisca considerazioni sulla questione in
esame, sarà cura dello scrivente Ufficio darne tempestiva
informazione.
---------------
[1] Si tratta, perciò, delle deliberazioni 'ordinarie',
vale a dire di quelle non dichiarate immediatamente
eseguibili.
[2] V. parere del 13.09.2006.
[3] V.
qui
[4] V.
www.agid.gov.it/documentazione/linee-guida
[5] V. par. 7, pag. 7.
[6] Tanto informalmente via mail, quanto con nota prot. n.
12461 del 14.12.2016.
[7] «Tutte le deliberazioni del comune e della provincia
sono pubblicate [...] per quindici giorni consecutivi, salvo
specifiche disposizioni di legge.».
[8] «Le deliberazioni [...] diventano esecutive dopo il
decimo giorno dalla loro pubblicazione.».
[9] Le deliberazioni dichiarate immediatamente eseguibili
sono, invece, pubblicate entro cinque giorni dalla loro
adozione (art. 1, comma 19, secondo periodo, della legge
regionale 11.12.2003, n. 21).
[10] V. Cassazione civile - Sez. I, 08.06.2004, n. 12240.
[11] In dottrina, l'orientamento è ricordato, tra gli altri,
in:
- La gestione degli atti amministrativi. Principi,
procedure, competenze e aspetti teorico pratici, Halley
editrice, settembre 2011;
- La gestione dell'albo pretorio. Modalità, adempimenti e
tempistica delle pubblicazioni nell'albo pretorio on-line,
Halley editrice, dicembre 2011;
- Agenda dei Comuni 2012 - Guida normativa, Grafiche E.
Gaspari Ed., dicembre 2011.
[12] Da intendersi ora come 'pubblicazione'.
[13] La norma, trattando dei termini di prescrizione,
dispone che «Non si computa il giorno nel corso del quale
cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si
verifica con lo spirare dell'ultimo istante del giorno
finale.» (secondo comma).
[14] L'articolo, nel disciplinare i termini processuali,
prevede che «Nel computo dei termini a giorni o ad ore, si
escludono il giorno o l'ora iniziali.» (primo comma) (03.04.2017
-
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Amministratori locali obblighi di comunicazione e relativo
regime sanzionatorio nel D.Lgs. n. 33/2013.
L'art. 14, D.Lgs. n. 33/2013, disciplina
gli obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di
incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di
governo e i titolari di incarichi dirigenziali, da parte
delle pubbliche amministrazioni, per i dati e le
informazioni ivi previsti.
Ai sensi dell'art. 47, comma 1, D.Lgs. n. 33/2013, la
mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei
dati di cui all'articolo 14, concernenti la situazione
patrimoniale complessiva del titolare dell'incarico al
momento dell'assunzione in carica, la titolarità di imprese,
le partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei
parenti entro il secondo grado, nonché tutti i compensi cui
dà diritto l'assunzione della carica, dà luogo a una
sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10.000 euro a
carico del responsabile della mancata comunicazione e il
relativo provvedimento è pubblicato sul sito internet
dell'amministrazione o organismo interessato.
Le modalità di attuazione dell'art. 47 richiamato sono state
dettate da ultimo nella delibera ANAC 15.03.2017, n. 241.
L'Amministratore locale chiede di sapere se il provvedimento
col quale è stata irrogata la sanzione per violazione degli
obblighi di trasparenza previsti dalla L. n. 441/1982
[1], dal
D.L. n. 174/2012 [2]
e dal D.Lgs. n. 33/2013 [3],
debba intendersi riservato. L'Amministratore chiede inoltre
chiarimenti in ordine all'obbligo di riportare il codice
fiscale del soggetto sanzionato.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale
di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L'art. 14, D.Lgs. n. 33/2013, disciplina gli obblighi di
pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici,
di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari
di incarichi dirigenziali, da parte delle pubbliche
amministrazioni, per i dati e le informazioni ivi previsti
[4].
Per quanto riguarda il primo aspetto del quesito, si osserva
che il provvedimento sanzionatorio non risulta coperto da
riservatezza, ai sensi dell'art. 47, comma 1, D.Lgs. n.
33/2013, il quale prevede che la mancata o incompleta
comunicazione delle informazioni e dei dati di cui
all'articolo 14, concernenti la situazione patrimoniale
complessiva del titolare dell'incarico al momento
dell'assunzione in carica, la titolarità di imprese, le
partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti
entro il secondo grado, nonché tutti i compensi cui dà
diritto l'assunzione della carica, dà luogo a una sanzione
amministrativa pecuniaria da 500 a 10.000 euro a carico del
responsabile della mancata comunicazione e il relativo
provvedimento è pubblicato sul sito internet
dell'amministrazione o organismo interessato.
Si rileva in proposito che le modalità di attuazione
dell'art. 47 richiamato sono state dettate da ultimo nella
delibera ANAC 15.03.2017, n. 241 [5].
Per quanto concerne la necessità dell'indicazione del codice
fiscale, si osserva che il Garante per la protezione dei
dati personali, con riferimento agli obblighi di
pubblicazione previsti dal D.Lgs. n. 33/2013 -tra i quali,
ad esempio, quelli relativi alle dichiarazioni dei redditi,
ex art. 14- ha affermato che i soggetti destinatari degli
obblighi di pubblicazione contenuti nel D.Lgs. n. 33/2013
sono tenuti al rispetto dei principi di pertinenza e non
eccedenza (art. 11, comma 1, lett. d) del Codice), sicché
non risulta giustificato diffondere, tra l'altro, i recapiti
personali oppure il codice fiscale dell'interessato
[6].
---------------
[1] L. 05.07.1982, n. 441, recante: 'Disposizioni per la
pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di
cariche elettive e di cariche elettive di alcuni enti'.
[2] Con riferimento alle province e ai comuni, il D.L. n.
174/2012 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e
funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori
disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio
2012), convertito in legge, con modificazioni, dalla L.
07.12.2012, n. 213, aveva introdotto l'art. 41-bis del
D.Lgs. n. 267/2000, che disciplinava gli obblighi di
trasparenza dei titolari di cariche elettive e di governo
negli enti locali con popolazione superiori a 15.000
abitanti, e che è stato abrogato dal D.Lgs. n. 33/2013.
[3] D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, recante: 'Riordino della
disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte della pubblica amministrazione'.
[4] L'elenco contiene, tra l'altro, le dichiarazioni di cui
all'art. 2, L. n. 441/1982, nonché le attestazioni e
dichiarazioni di cui agli artt. 3 e 4 della medesima legge,
relative alla situazione reddituale dell'interessato e a
quella del coniuge non separato e dei parenti entro il
secondo grado, ove gli stessi vi consentano (art. 14, comma
1, lett. f), D.Lgs. n. 33/2013).
[5] 'Linee guida recanti indicazioni sull'attuazione
dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013 'Obblighi di pubblicazione
concernenti i titolari di incarichi politici, di
amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di
incarichi dirigenziali' come modificato dall'art. 13 del
d.lgs. 97/2016'.
[6] Garante per la protezione dei dati personali,
provvedimento n. 243 del 15.05.2014, recante: 'Linee guida
in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche
in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità
di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e
da altri enti obbligati' (24.03.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Amministratori locali obblighi di trasparenza ai sensi del
D.Lgs. n. 33/2013.
Ai sensi dell'art. 14, D.Lgs. n.
33/2013, i titolari di incarichi politici e gli altri
soggetti indicati hanno l'obbligo di comunicare i dati e le
informazioni previsti, tra cui, alla lett. f), le
dichiarazioni di cui all'art. 2, L. n. 441/1982, e dunque,
tra l'altro, le dichiarazioni dei redditi soggetti
all'imposta sul reddito delle persone fisiche (art. 2, comma
2, L. n. 441/1982).
L'ANAC ha precisato che gli obblighi di pubblicazione delle
dichiarazioni reddituali e patrimoniali dei titolari di
incarichi politici valgono per i comuni con popolazione
superiore a 15.000 abitanti. Ciò, in ragione della
previsione di cui all'art. 1, comma 1, n. 5, L. n. 441/1982
-che viene in considerazione essendo stato abrogato dal
D.Lgs. n. 33/2013 l'art. 41-bis del D.Lgs. n. 267/2000-,
secondo cui le disposizioni della legge medesima si
applicano ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia
ovvero con popolazione superiore a 15.000 abitanti.
L'amministratore locale, consigliere in un comune con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti, chiede chiarimenti
in ordine all'obbligo di dichiarare i propri redditi, ai
sensi del D.Lgs. n. 33/2013.
L'art. 14, D.Lgs. n. 33/2013, disciplina gli obblighi di
pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici,
di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari
di incarichi dirigenziali, da parte delle pubbliche
amministrazioni.
In particolare, ai sensi del comma 1, lett. f, dell'art. 14
richiamato, gli enti locali pubblicano, con riferimento ai
titolari di incarichi politici, anche se non di carattere
elettivo, le dichiarazioni di cui all'art. 2, L. n.
441/1982, e dunque, tra l'altro, le dichiarazioni dei
redditi soggetti all'imposta sul reddito delle persone
fisiche (art. 2, comma 2, L. n. 441/1982).
L'art. 1, comma 1, n. 5, L. n. 441/1982, come novellato
dall'art. 52, comma 1, lett. a), n. 4), D.Lgs. n. 33/2013,
prevede che le disposizioni della legge medesima si
applicano ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia
ovvero con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
Peraltro, l'art. 14 del D.Lgs. n. 33/2013, pur richiamando
l'art. 2, L. n. 441/1982 (applicabile nei comuni al di sopra
dei 15.000 abitanti), non differenzia espressamente la
disciplina degli obblighi di pubblicazione ivi previsti a
seconda della dimensione demografica dei comuni, essendo
rivolto in generale alle pubbliche amministrazioni.
I chiarimenti in proposito sono stati forniti dalla
Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità
delle amministrazioni pubbliche (CIVIT) [1],
con la delibera 31.07.2013, n. 65.
In particolare, la Commissione ha affermato che, con
specifico riferimento all'individuazione dei comuni a cui si
applica l'art. 14, comma 1, lett. f), stante l'abrogazione
dell'art. 41-bis [2]
del d.lgs. n. 267/2000 da parte del D.Lgs. n. 33/2013,
occorre considerare il riferimento all'art. 1, comma 1, n.
5) della L. n. 441/1982.
Pertanto, ai sensi della richiamata norma, sono soggetti
agli obblighi di pubblicazione relativamente alla situazione
reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche elettive i
comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, fermo
restando l'obbligo di pubblicazione per tutti i comuni,
indipendentemente dal numero di abitanti, dei dati e delle
informazioni di cui alle lettere da a) ad e) del medesimo
art. 14, comma 1.
Questa posizione è stata confermata dall'ANAC, dapprima
nella delibera 07.10.2014 n. 144 e da ultimo nella recente
delibera 15.03.2017, n. 241 [3],
ove l'Autorità ribadisce l'esclusione dall'obbligo della
pubblicazione dei dati di cui all'art. 14, c. 1, lett. f)
(dichiarazioni reddituali e patrimoniali) per i titolari di
incarichi politici nei comuni con popolazione inferiore a
15.000 abitanti, fermo restando, anche in questi comuni,
l'obbligo di pubblicare i dati e le informazioni di cui alle
lett. da a) ad e) del medesimo art. 14, c. 1.
---------------
[1] Ai sensi dell'art. 1, comma 1, L. n. 190/2012, la
Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità
delle amministrazioni pubbliche, di cui all'art. 13 del
decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, è individuata e
opera quale Autorità nazionale anticorruzione.
Dal 31.10.2013, con l'entrata in vigore della legge n. 125
del 2013, di conversione del decreto legge 31.08.2013, n.
101, la CIVIT ha assunto la denominazione di 'Autorità
Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la
trasparenza delle amministrazioni pubbliche' (A.N.AC.) (art.
5, c. 3, D.L. n. 101/2013).
[2] La norma, introdotta dal D.L. n. 174/2012, disciplinava
gli obblighi di trasparenza dei titolari di cariche elettive
e di governo negli enti locali con popolazione superiore a
15.000 abitanti.
[3] 'Linee guida recanti indicazioni sull'attuazione
dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013 'obblighi di pubblicazione
concernenti i titolari di incarichi politici, di
amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di
incarichi dirigenziali' come modificato dall'art. 13 del
d.lgs. 97/2016' (20.03.2017 -
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APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Durata rinnovo contratto di appalto.
Secondo l'orientamento della
giurisprudenza e dell'ANAC, è consentito il rinnovo del
contratti pubblici, purché detta eventualità sia prevista
nel bando di gara, e il rinnovo avvenga alle stesse
condizioni del contratto originario, per un tempo
predeterminato e limitato, in modo espresso e con adeguata
motivazione.
Queste considerazioni fanno ritenere che il rinnovo del
contratto, ove previsto negli atti di gara, debba avvenire
per il tempo espressamente indicato. Un tanto, in
considerazione dell'esigenza di tutela della concorrenza,
che richiede di mantenere, in sede di rinnovo, le condizioni
rese evidenti in sede di gara, che hanno determinato le
valutazioni dei concorrenti di partecipare alla gara stessa
e potersi assumere l'impegno di eseguire il contratto per
tutta la sua durata comprensiva di quella eventuale.
Il Comune riferisce di avere in corso un contratto di
appalto per la gestione di servizi afferenti alla locale
casa di riposo, che prevede espressamente la durata di 24
mesi, in scadenza il 31.05.2017, e la possibilità di rinnovo
per ulteriori 24 mesi, ad insindacabile giudizio dell'Ente
Appaltante. L'Ente chiede se sia possibile un rinnovo di
durata inferiore (nel caso, di 7 mesi).
Si premette che l'attività di questo Servizio consta nel
fornire un supporto giuridico generale sulle questioni poste
dagli enti locali, senza entrare nel merito dei casi
rappresentati e lungi dall'interferire sull'interpretazione
dei contenuti degli atti negoziali o unilaterali dei comuni.
Ciò premesso, in via collaborativa, si esprimono sul caso in
esame le seguenti considerazioni.
Il contratto dell'Ente ricade nell'ambito temporale di
applicazione del previgente D.Lgs. n. 163/2006, ai sensi
dell'art. 216, comma 1, D.Lgs. n. 50/2016
[1].
Inoltre, l'ANAC [2]
ritiene che continuano ad applicarsi le disposizioni
previgenti anche agli affidamenti aggiudicati prima della
data di entrata in vigore del nuovo codice, per i quali, sia
disposto -fermo restando il divieto generale di rinnovo
tacito del contratto e di proroga del contratto- il rinnovo
del contratto già previsto nel bando di gara.
Con quest'ultima precisazione, l'ANAC risulta allineare la
sua posizione, in tema di rinnovo dei contratti pubblici, a
quella della giurisprudenza che distingue l'ipotesi in cui
la possibilità del rinnovo non è stata espressamente
indicata nella lex specialis, da quella in cui il
bando contempla detta eventualità, facendone discendere, in
tale secondo caso, la possibilità che le amministrazioni
dispongano la 'proroga' dei rapporti in corso, alle medesime
condizioni, purché per un tempo predeterminato e limitato,
in modo espresso e con adeguata motivazione
[3].
Secondo il Consiglio di Stato [4],
un argomento positivo a favore dell'ammissibilità del
rinnovo contrattuale, se espressamente previsto dalla lex
specialis di gara, si trae dall'art. 29 del (previgente
n.d.r.) Codice dei contratti pubblici, che a proposito del
valore stimato degli appalti e dei servizi pubblici
prescrive che si tenga conto di qualsiasi forma di opzione o
rinnovo del contratto [5].
Per il Supremo giudice amministrativo, posto che il
principio del divieto di rinnovo è ispirato alla finalità di
scongiurare affidamenti reiterati allo stesso soggetto in
elusione del principio di concorrenza, che più di ogni altro
garantisce la scelta del miglior contraente, nessuna lesione
alle regole di trasparenza, concorrenzialità, parità di
trattamento è possibile riscontrare, allorché la facoltà di
rinnovo sia resa nota ai concorrenti sin dall'inizio delle
operazioni di gara, cosicché ognuno possa formulare le
proprie offerte in considerazione della durata eventuale del
contratto. Inoltre, l'inserimento della clausola di rinnovo
consente all'amministrazione di rivalutare la convenienza
del rapporto in essere alla sua scadenza e di confermare il
medesimo contraente del quale è già comprovata l'idoneità
tecnica e la capacità economica.
Venendo al quesito posto dall'Ente, circa la possibilità di
operare il rinnovo del contratto per un periodo inferiore a
quello espressamente previsto negli atti di gara e nel
contratto, si rileva che le riflessioni della giurisprudenza
richiamata farebbero propendere per un'interpretazione della
clausola di durata del contratto dell'Ente in senso
rigorosamente letterale, con la conseguenza che qualora
l'Ente intendesse avvalersi della facoltà del rinnovo,
dovrebbe farlo per l'ulteriore periodo di tempo
espressamente stabilito in detta clausola, cioè per 24 mesi.
In proposito, viene in considerazione l'esigenza di tutela
della concorrenza, che richiede di mantenere, in sede di
rinnovo, le condizioni rese evidenti in sede di gara,
specificamente in ordine alla durata eventuale. Dette
condizioni, infatti, hanno determinato le valutazioni dei
concorrenti di partecipare alla gara e potersi assumere
l'impegno di eseguire il contratto per tutta la sua durata,
comprensiva di quella dell'eventuale rinnovo. Il rinnovo del
contratto per un periodo inferiore a quello previsto negli
atti di gara potrebbe avere l'effetto di alterare questa
par condicio dei concorrenti. Ed invero, se la clausola
del rinnovo fosse stata prevista nel bando di gara per una
durata inferiore, ciò avrebbe potuto avere l'effetto di
modificare la platea dei partecipanti alla gara.
---------------
[1] Il D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, ha abrogato, all'art.
217, c. 1, lett. e), il previgente D.Lgs. n. 163/2006 e ha
stabilito, all'art. 216, che le disposizioni del decreto
medesimo si applicano alle procedure e ai contratti per i
quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di
scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla
sua entrata in vigore (19.04.2016).
[2] ANAC, Comunicato del Presidente dell'11.05.2016.
[3] Consiglio di Stato, Sez. III, 05.07.2013, n. 3580; Sez.
VI, 24.11.2011, n. 6194; Sez. VI, 16.02.2010, n. 850; Sez.
V, 27.04.2012, n. 2459
[4] Consiglio di Stato n. 3580/2013 cit., che richiama, in
tal senso, Consiglio di Stato nn. 850/2010 e 2459/2012 citt..
[5] In proposito, si osserva che l'art. 35, comma 4, D.Lgs.
n. 50/2016, in attuazione della Direttiva 26.02.2014, n.
2014/24/UE (art. 5), prevede che 'Il calcolo del valore
stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e
forniture è basato sull'importo totale pagabile, al netto
dell'IVA, valutato dall'amministrazione aggiudicatrice o
dall'ente aggiudicatore. Il calcolo tiene conto dell'importo
massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali
opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei
documenti di gara. [...]' (16.03.2017 -
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NEWS |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Un
solo placet ambientale. Potrà sostituire Via e
autorizzazione all'attività. Lo
prevede un dlgs varato, in prima lettura, dal consiglio dei
ministri.
Arriva il provvedimento unico ambientale e spunta la «Vinca»
(valutazione d'incidenza) nella Via (Valutazione d'impatto
ambientale). Uno schema di dlgs, approvato venerdì in
consiglio dei ministri (prima lettura), va a modificare la
parte seconda del dlgs 152/2006, introducendo una nuova
disciplina degli istituti soggetti alla verifica di
assoggettabilità alla Via.
In particolare, il dlgs
ribattezza come «Vinca» la vecchia Via e introduce
nell'ordinamento italiano un nuovo istituto: una sorta di
provvedimento unico ambientale che in colpo solo sostituisce
sia la vecchia Via, sia la successiva autorizzazione
ambientale all'esercizio delle attività.
Lo schema di dlgs (Atto
del Governo n. 401 - Schema di decreto
legislativo recante attuazione della direttiva 2014/52/UE
che modifica la direttiva 2011/92/UE concernente la
valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti
pubblici e privati) punta a recepire nell'ordinamento
italiano la direttiva 2014/52/Ue del parlamento europeo del
16/04/2014.
Gli obiettivi dichiarati sono: efficientare le
procedure, innalzare i livelli di tutela ambientale e
contribuire a sbloccare il potenziale derivante dagli
investimenti in opere, infrastrutture e impianti per
rilanciare la crescita sostenibile. Ma andiamo con ordine.
Semplificazioni.
Per i progetti assoggettati a Via statale, viene prevista la
facoltà per il proponente di richiedere, in alternativa al
provvedimento di Via ordinario (comprensivo della sola
valutazione d'incidenza, la «VINCA», ove necessaria), il
rilascio di un provvedimento unico ambientale, che coordini
e sostituisca tutti i titoli abilitativi o autorizzativi
comunque riconducibili ai fattori «ambientali» da prendere
in considerazione ai fini della Via. La bozza di decreto
(che dovrà ora passare al vaglio della Conferenza
stato-regioni e delle commissioni parlamentari) prevede,
inoltre:
- razionalizzazione del riparto delle competenze
amministrative tra stato e regioni e contrattazione al
livello statale delle procedure di Via per infrastrutture e
impianti energetici, considerata la loro rilevanza
nazionale, salvo limitate eccezioni sui progetti di
interesse locale;
- la previsione di una procedura più snella per l'adozione
finale del provvedimento di Via di competenza statale
(affidata al ministero dell'ambiente, di concerto con i beni
culturali), con eliminazione della sottoscrizione dei
ministri;
Riorganizzazione.
La bozza di dlgs snellisce anche le modalità di
funzionamento della commissione Via, da tempo tallone
d'Achille dei procedimenti. Per migliorare le performances
di questo organismo e assicurare l'integrale copertura dei
costi di funzionamento verranno utilizzati solo proventi
tariffari versati dai proponenti. La proposta prevede anche
la costituzione di un Comitato tecnico a supporto della
commissione per le istruttorie.
Altri miglioramenti riguardano il procedimento in sé stesso.
Ad esempio, l'eliminazione della fase di consultazione
formale del pubblico della procedura di verifica di
assoggettabilità a Via, non richiesta dalla normativa
europea. Anche la tentazione di approcci dilatori e
defatigatori verrà contrastata con la riduzione complessiva
dei tempi per la conclusione dei procedimenti, abbinata alla
qualificazione di tutti i termini come «perentori», ai sensi
e per gli effetti della disciplina generale sulla
responsabilità disciplinare e amministrativo contabile dei
dirigenti; nonché prevedendo la sostituzione amministrativa
in caso di inadempienza.
Queste regole, assieme alle altre previste, costituiranno un
quadro omogeneo per il procedimento di Via su tutto il
territorio nazionale, e la conseguente rimodulazione delle
competenze normative delle Regioni, alle quali viene
attribuito esclusivamente il potere di disciplinare
l'organizzazione e le modalità di esercizio delle proprie
funzioni amministrative, con la facoltà di delegarle agli
enti territoriali sub-regionali e di prevedere forme e
modalità ulteriori di semplificazione e coordinamento.
C'è
poi la completa digitalizzazione degli oneri informativi a
carico dei proponenti i progetti, con eliminazione integrale
degli obblighi di pubblicazione sui mezzi di stampa; cosa, a
ben vedere, non positiva perché ignora il tema del «digital
divide». Infine, in ragione delle numerose agevolazioni e
semplificazioni procedimentali introdotte dallo schema di
decreto, la proposta consente al proponente di richiedere
all'autorità competente l'applicazione della nuova
disciplina anche ai procedimenti pendenti alla data di
entrata in vigore del decreto
(articolo ItaliaOggi del 14.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di condono è uno stop.
Demolizione sospesa fino al termine del procedimento.
Il Tar Lazio: impossibile acquisire nel patrimonio edilizio
del comune l'opera abusiva.
Il comune non può acquisire gratuitamente l'opera abusiva al
suo patrimonio se nel frattempo il responsabile dei lavori
contro legge ha chiesto il condono: fino a che non è stato
definito il procedimento, infatti, l'amministrazione locale
non può assumere iniziative repressive che renderebbero
inutile l'eventuale rilascio della concessione in sanatoria.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.02.2017 n. 2056, pubblicata dalla
Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso dei proprietari: annullata la
determinazione adottata dal dirigente del comune che investe
anche l'area di sedime, oltre che l'immobile, dopo
l'inottemperanza all'ordine di demolizione delle opere
abusive. L'efficacia del provvedimento che impone di
abbattere i manufatti contro legge risulta sospesa dalla
presentazione della domanda di condono: deve dunque
ritenersi preclusa la formazione della fattispecie
acquisitiva.
Dopo l'istanza, infatti, l'amministrazione
locale ha l'obbligo di pronunciarsi sulla vicenda,
stabilendo se l'opera può essere sanata o meno. Mentre la
trascrizione dell'acquisizione gratuita al patrimonio
vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo
in sanatoria: la concessione renderebbe lecita la
costruzione dal punto di vista urbanistico. Insomma: la
determinazione dell'ente risulta assunta in violazione
dell'articolo 38 della legge 47/1985.
Ma non è l'unica pronuncia in tal senso.
Il comune non può
annullare in autotutela la Dia concessa a suo tempo e dare
il via all'iter per reprimere l'abuso edilizio se non motiva
il provvedimento sull'interesse pubblico al ripristino
dell'originario stato dei luoghi. E ciò perché più passa il
tempo, più si consolida la posizione del destinatario del
titolo abilitativo.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.02.2017 n. 2809,
pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma, che ha
accolto il ricorso del proprietario dell'opera: sono
annullate le due note dell'amministrazione con cui si
dichiara i lavori eseguiti con la Dia privi di titolo
edilizio e si dispone l'iter che porta alla demolizione
degli abusi edilizi.
Il ricorrente sostiene che sarebbe
scaduto il termine di diciotto mesi ex articolo 21-nonies
della legge 241/1990, introdotto dalla riforma Madia. Ma non è
questo il punto. Anche in materia edilizia il provvedimento
in autotutela costituisce la manifestazione di un potere
discrezionale da parte dell'amministrazione: quando il
comune decide di esercitarlo, dunque, deve motivare
mostrando che al momento in cui si procede l'interesse
pubblico ad abbattere il manufatto contro legge prevale su
quello del privato a conservare l'atto illegittimo.
Il tutto
mentre il decorso del tempo fa insorgere in capo
all'interessato uno stato di affidamento sulla Dia con la
quale ha realizzato i lavori. Bisogna, quindi, spiegare a
chi giova demolire. Inutile poi invocare la relazione del
perito allegata alla comunicazione con cui l'ente annuncia
l'avvio del procedimento anti abuso edilizio se mancano
riferimenti all'interesse pubblico.
Analogamente il provvedimento conclusivo del comune non può
bocciare il condono edilizio per l'opera contro legge per
motivi non indicati nel preavviso di rigetto. E ciò perché
così facendo si vanifica lo scopo dell'istituto di cui alla
legge 10-bis della legge sulla trasparenza, che prevede la
partecipazione dell'interessato al procedimento: quando le
motivazioni dello stop non coincidono in pieno con quelle
annunciate si finisce per rendere inutili le memorie
difensive presentate in precedenza dal proprietario del
manufatto.
È quanto emerge dalla
sentenza 27.08.2017 n. 4111, pubblicato dalla III
Sez. del TAR Campania-Napoli con la quale si accoglie il ricorso
del titolare del manufatto, che pure è stato sequestrato.
Il
parere dell'ufficio condono del comune spiega come la
sanatoria possa essere concessa per le porzioni di immobile
oggetto dell'istanza originaria e non per la parte restante,
che si ritiene realizzata soltanto dopo la presentazione
della domanda: si traccia una netta linea di demarcazione,
dalla quale tuttavia si discosta del tutto il dirigente che
pronuncia il no definitivo al colpo di spugna.
Ed è proprio
questo che fa sorgere dubbi sull'istruttoria condotta
dall'amministrazione. Risulta evidente la violazione del
principio del contraddittorio perché chi ha realizzato i
lavori si vede privato da una fondamentale garanzia tipica
del giusto procedimento: articolare valide controdeduzioni
ai motivi che secondo il comune impediscono il condono.
Altri precedenti.
Il condono copre le opere edilizie contro legge e non anche
la lottizzazione abusiva. È così che se il reato è
prescritto ma la confisca risulta confermata, il comune
ordina al proprietario di consegnargli l'immobile: la
sanatoria delle opere, infatti, è compatibile con la misura
ablativa penale ma soltanto con l'eventuale autorizzazione a
lottizzare concessa in sanatoria l'ente locale può
rinunciare ad acquisire le aree al patrimonio indisponibile
comunale.
È quanto emerge dalla
sentenza
10.03.2016 n. 668, pubblicata
dal TAR Sicilia-Palermo - Sez. II.
L'amministrazione si convince a non demolire i fabbricati. È
evidente che l'autorizzazione a lottizzare in sanatoria non
può estinguere il reato, ma dimostra soltanto ex post la
conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici.
E
non conta che sia intervenuta nelle more la concessione in
sanatoria per le opere edilizie realizzate sui singoli
lotti: il titolo abilitativo che è sopravvenuto, infatti,
legittima soltanto il manufatto interessato, ma non comporta
alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione
rispetto alle scelte generali di pianificazione urbanistica;
la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue invece
soltanto all'adozione di un provvedimento esplicito che
«legittima» la lottizzazione, emesso dall'autorità
amministrativa competente.
Nel nostro caso il Comune concede appunto la sanatoria per
le opere abusive, ma non per la lottizzazione. E dunque
rispetta l'articolo 19 della legge 47/1985 che vincola
l'ente ad acquisire al proprio patrimonio le opere
realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di
lottizzazione abusiva, benché oggetto di condono
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Un
paracadute per l'avvocato. Può rivolgersi alla controparte
se il cliente non paga. Recenti sentenze della Corte di
cassazione individuano spiragli sulle parcelle difficili.
Tra date rilevanti ai fini della liquidazione del compenso e
valore delle cause, si apre per il legale una sorta di
ombrello che gli consente di rivolgersi alla controparte in
caso di inadempienza del proprio cliente.
Ci sono tre recentissime sentenze della Cassazione che
diventano per la quotidianità della professione legale una
sorta di vademecum, da un lato perché hanno come tema comune
l'onorario dell'avvocato e dall'altro perché fanno luce sia
sulle norme da applicare per la liquidazione del compenso e
sia offrono all'avvocato (ed al giudice) una chiara linea
guida su come comportarsi in caso di domande di diverso
valore, alcune determinato altre indeterminato.
Onorario: è rilevante la data di liquidazione del compenso.
Circa l'onorario dell'avvocato è noto che le previsioni
tariffarie vengano determinate alla luce di due decreti
ministeriali, il n. 127/2004 e il n. 140/2012, ebbene, i
giudici della II Sez. civile della Corte di
cassazione, con l'ordinanza
27.02.2017 n. 4949, hanno affermato che andrà ad applicarsi una
previsione piuttosto che un'altra anche in base alla data in
cui avverrà la liquidazione del compenso.
Nella stessa sentenza gli Ermellini, commentando l'art. 41
del dm n. 140 del 2012, in ossequio anche ad un orientamento
dettato dalle sezioni unite, hanno ribadito che tale
articolo dovrà leggersi nel senso che «i nuovi parametri
debbano trovare applicazione ogni qual volta la liquidazione
giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di
entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al
compenso spettante a un professionista che, a quella data,
non abbia ancora completato la propria prestazione
professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio
e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora
erano in vigore le tariffe professionali abrogate (Cass. S.u. n. 17405/2012)».
È, altresì, ovvio che, come osservato
anche dai giudici di Piazza Cavour, il presupposto per
l'applicazione dei nuovi parametri dovrà ricollegarsi, oltre
che all'intervento della liquidazione in epoca successiva
all'entrata in vigore del menzionato dm n. 140/2012, anche
alla ulteriore circostanza che alla stessa data, il
professionista non abbia ancora completato la propria
prestazione professionale.
L'avvocato può rivolgersi alla controparte per il pagamento.
Ed ancora a febbraio di questo anno, precisamente il 17,
sempre la II Sez. civile della Corte di Cassazione, con la
sentenza
17.02.2017 n. 4250, in tema di solidarietà del compenso
professionale, ha affermato che l'avvocato ha facoltà di
rivolgersi alla controparte per il pagamento dei propri
compensi se non sarà stata espressamente prevista
l'esclusione con sottoscrizione dei difensori.
Nella stessa
sentenza è stato anche citato il principio dettato dalla
Cassazione medesima, secondo il quale affinché possa
sussistere l'obbligazione solidale ed il difensore possa
richiedere il pagamento degli onorari ed il rimborso delle
spese nei confronti della parte avversa al proprio cliente,
si renderà necessaria la definizione del giudizio con una
transazione (o con un accordo equivalente) che vada a
sottrarre al giudice la definizione del giudizio e la
pronuncia in ordine alle spese.
Inoltre il fatto che la ratio dell'articolo 68 rd 1578/1933
consista nell'intento di prevenire il rischio che il credito
professionale dell'avvocato possa essere vanificato da
comportamenti elusivi delle parti non significa che detto
intento elusivo faccia parte della fattispecie costitutiva
dell'obbligazione solidale di ciascuna delle parti in causa
per la soddisfazione dei crediti professionali dei difensori
delle altre parti.
È stato, quindi, richiamato quanto
affermato dalla giurisprudenza della Cassazione (nn.
13047/2009 e 13135/2006), secondo cui: «L'art. 68 del rdl 27.12.1933, n. 1578, modificato dalla legge 22.01.1934, n. 36, stabilendo che tutte le parti, le quali abbiano
transatto una vertenza giudiziaria, sono tenute solidalmente
al pagamento degli onorari degli avvocati, è operante -in
ragione della latitudine della formula normativa e della sua
finalità, diretta a evitare intese tra le parti indirizzate
a eludere il giusto compenso e il rimborso delle spese ai
loro difensori- anche nel caso di accordo (che assume, nei
riguardi del professionista, la valenza di un presupposto di
fatto ai fini, appunto, dell'ottenimento degli onorari e
delle spese), stipulato con o senza l'intervento del giudice
o l'ausilio dei patroni, dalle parti stesse, le quali
abbiano previsto semplicemente l'abbandono della causa dal
ruolo o rinunciato ritualmente agli atti del giudizio (come
nella specie, con derivante estinzione del processo), e
prescinde, perciò, dalla persistenza del ministero
difensivo».
Come comportarsi tra più domande di diverso valore. Ed,
infine, con la
sentenza 16.02.2017 n.
4187, sempre i giudici della II Sez. civile della
Corte di Cassazione hanno affermato che, per quanto riguarda la
determinazione dello scaglione per la liquidazione degli
onorari degli avvocati, nel caso in cui vengano proposte più
domande, alcune di valore indeterminabile ed altre di valore
determinato, bisognerà considerare di valore indeterminabile
l'intera causa, solo ed esclusivamente nel caso in cui
ponendo in atto tale criterio venga agevolato il
riconoscimento di compensi maggiori rispetto al cumulo delle
domande di valore determinato.
Opinare diversamente, a
parere degli Ermellini, e cioè reputare che debba sempre
applicarsi il criterio di liquidazione previsto per le
controversie di valore indeterminabile, anche nel caso in
cui ciò non rechi alcun vantaggio al professionista,
«porterebbe alla conclusione, del tutto priva di razionalità
e giustificazione, secondo cui l'attività professionale
connotata da maggiore complessità (in quanto contemplante la
necessità di approntare difese, oltre che per le domande di
valore determinato, anche per quella di valore
indeterminabile) sarebbe compensata con una somma inferiore
rispetto a quella riconoscibile per l'attività difensiva
relativa alle sole domande di valore determinato».
Inoltre, sempre nella stessa sentenza, i giudici hanno
evidenziato come nel caso di contestazione relativa
all'effettuazione delle prestazioni di redazione della
comparsa (consultazioni col cliente e trasferte) non si
metta in discussione l'esistenza del rapporto professionale,
né l'esistenza del credito, ma soltanto la quantificazione
di quest'ultimo, in relazione alle specifiche attività
compiute dall'avvocato
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017). |
ENTI LOCALI:
Delibere consiliari ai raggi X. Fusioni, va valutata la valenza
giuridica ed economica. L’accorpamento di società di
gestione del servizio idrico offre utili spunti di riflessione.
Se il collegio dei revisori viene chiamato a esprimere un parere su una
proposta di delibera del consiglio comunale su un progetto di accorpamento
societario, deve verificare la valenza giuridica ed economica
dell’operazione? La risposta non può che essere positiva.
Proviamo ad analizzare un caso di studio.
Si propone di accorpare a una società che gestisce il servizio idrico e il
servizio di igiene ambientale per conto di comuni facenti parte di un
ambito, altre società similari operanti nello stesso bacino al fine di
ottenere un unico soggetto gestore. La motivazione economica è abbastanza
chiara: a seguito della fusione per incorporazione aumenterà la base
richiedente i servizi e di conseguenza si potranno attuare, con maggiori
ricavi a parità di costi fissi, economie di scala con possibilità di
reimpiego delle risorse risparmiate per ulteriori investimenti o rinnovi di
impianti esistenti.
La società incorporante propone il progetto di fusione al comitato di
controllo di bacino, formato dai rappresentanti degli enti interessati, il
quale si esprime favorevolmente. Nella proposta, però, che prevede l’aumento
di capitale a seguito dell’incorporazione e conseguente ingresso dei nuovi
soci, ovvero i comuni soci delle società incorporate per quote
corrispondenti al valore riconosciuto al patrimonio delle stesse, si prevede
anche un contestuale aumento di capitale a seguito conferimento di beni da
parte del socio di maggioranza dell’incorporante, che non intende, con
l’ingresso dei nuovi soci, ridurre la sua percentuale di partecipazione al
di sotto del 50%. I beni sono terreni soggetti a bonifica. Non si conoscono,
però, i costi per la bonifica, ma il socio conferente si dichiara disposto a
manlevare la conferitaria da ogni rischio e costo conseguente.
La proposta di aumento di capitale da parte della società incorporante agli
altri soci entranti, riporta un valore attribuito ai terreni oggetto del
conferimento, pari a quello indicato dal perito nominato dal tribunale e la
sottoscrizione di patti parasociali tra i vecchi e i nuovi soci per
garantire una governance che rispetti anche le piccole partecipazioni.
A questo punto la società incorporante, forte del consenso espresso dal
comitato di controllo di bacino, avvia il procedimento di fusione,
rassicurando gli enti che in ogni caso, anche in presenza di costi
aggiuntivi per la bonifica di detti terreni, ci sarebbe una rideterminazione
dei valori conferiti, da parte dell’organo amministrativo della società
conferitaria, in ossequio al terzo comma dell’art. 2343 c.c., entro 180
giorni dalla data dell’atto di conferimento.
Di fronte a tale quadro di proposte, che tipo di considerazioni deve fare il
revisore di un ente socio chiamato a esprimersi con un parere sulla proposta
di delibera del consiglio comunale sull’approvazione del progetto di fusione
e sulla partecipazione all’atto? Ci sono due considerazioni da fare. La
prima è di carattere giuridico. In presenza di eventuali costi di bonifica
da sostenere in futuro nei beni oggetto del conferimento, al momento
dell’atto, il valore dei beni conferiti non è determinato in quanto detti
costi non sono quantificati e di conseguenza si è in presenza di un atto
aleatorio, non possibile per gli enti pubblici, perché, qualora si dovessero
sostenere, poi, detti costi, si potrebbe verificare un danno patrimoniale a
carico degli enti soci, che si vedrebbero ridurre sostanzialmente il valore
reale (anche se non nominale) della loro quota di partecipazione nella
società partecipata.
Potrebbe essere risolto questo problema, se a fronte di dette passività
potenziali ci fosse da parte dell’ente socio conferente dei beni, una
garanzia fideiussoria di terzi, come ad esempio una banca, ma resterebbe
sempre il problema del quantum. La seconda è di carattere economico. Il
valore dei beni deve essere prima di tutto oggetto di valutazione sulla
valenza economica dell’operazione.
Di fatto il conferimento vale come cessione e quindi si potrebbe ipotizzare
da parte della conferitaria un acquisto alternativo di un altro bene con
migliori caratteristiche o, a parità di caratteristiche, con un prezzo
inferiore. Per soddisfare tale esigenza, è necessario che gli enti soci si
esprimano prima della proposta di aumento di capitale con conferimento di
beni, con l’approvazione di un progetto preliminare, che indichi le
motivazioni economiche dell’operazione e il prezzo dei beni, compreso
eventuali costi aggiuntivi come quelli, nel caso in esame, di bonifica. Solo
dopo tale approvazione della maggioranza degli enti soci, con apposita
delibera dei rispettivi consigli comunali, si potrà dare avvio
all’operazione di conferimento.
A nulla, invece, serve in tal senso, la perizia redatta dal perito nominato
dal tribunale, che ha, come scopo, la tutela dei terzi e dei soci, come
stabilito dal primo comma dell’art. 2343 c.c., così come è sempre a tutela
degli stessi la revisione della stima da parte degli amministratori, da
porsi in essere entro sei mesi, come sopra richiamato.
Ma la stima indica il valore massimo iscrivibile nel patrimonio netto della
società conferitaria e non anche il valore economico del bene oggetto del
conferimento, che deriva, invece, da una trattativa ovvero da una proposta
unilaterale accettata dai soggetti che partecipano all’operazione. È chiaro
che nel caso in cui non vengano rispettate tali condizioni di salvaguardia e
di rispetto della valenza economica, l’organo di revisione non potrà che
esprimersi (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni,
la mobilità è neutra. Non comporta nuova o maggiore spesa di
personale. Chiuso il ricollocamento
degli esuberi provinciali, si aprono nuovi spazi per gli
enti.
La mobilità torna a essere neutra sul piano finanziario e
non consuma né spazi né resti assunzionali.
Chiusasi la procedura complicatissima di ricollocazione dei
dipendenti provinciali in sovrannumero (anche se ancora per
la gran parte dei 6 mila addetti ai servizi per il lavoro,
l'avventura della ricollocazione è tutt'altro che finita),
il 2017 è l'anno nel quale gli enti possono ricominciare ad
assumere senza gli impedimenti derivanti dalla legge
190/2014.
Ci sono ovviamente da rispettare i tetti posti al turn-over,
ma si sono riaperti comunque spazi alle assunzioni.
Torna, dunque, in auge l'utilizzo della mobilità. Infatti,
le procedure concorsuali debbono essere tutte precedute da
due tipi di mobilità.
La prima è comunemente denominata «obbligatoria» ed è quella
disciplinata dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001, il
quale impone alle amministrazioni, a pena di nullità delle
assunzioni effettuate, di verificare con i servizi per il
lavoro operanti nelle regioni e col Dipartimento della
funzione pubblica se vi sia personale in esubero, iscritto
nelle liste di disponibilità.
È una misura rivolta a evitare che questi dipendenti con
rapporto di lavoro sospeso fino ad un massimo di 24 mesi (la
disponibilità è una specie di cassa integrazione del lavoro
pubblico) siano licenziati: uno strumento di prevenzione
della disoccupazione che prevale necessariamente sul
reclutamento di nuovo personale.
Il secondo tipo di mobilità da esperire, anche in ordine
cronologico, è quella «volontaria», prevista dall'articolo
30, comma 2-bis, ai sensi del quale «le amministrazioni,
prima di procedere all'espletamento di procedure
concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in
organico, devono attivare le procedure di mobilità».
Questa mobilità è volontaria, però, solo per i dipendenti
che hanno facoltà di presentare la loro domanda alle
amministrazioni che intendono assumere; queste, al
contrario, sono obbligate ad attivare tale mobilità, come si
dimostra l'utilizzo, nel comma 2-bis, del verbo dovere.
Dunque, anche se in questo caso non è prevista la nullità
dell'assunzione in via espressa, la violazione del dovere
giuridico di procedere mediante mobilità espone le
amministrazioni quanto meno al rischio di danno erariale; il
legislatore intende dare priorità alle assunzioni per
mobilità proprio perché non comportano nuova maggiore spesa
di personale, ma sono neutre sul piano finanziario.
Da questo punto di vista, non può considerarsi corretto e va
senz'altro disapplicato il parere 27.04.2016 n. 127 della Corte dei conti,
sezione regionale di controllo della Lombardia, che suggerisce: «In questo caso, ove l'esito
del bando di mobilità sia positivo, la conseguente
assunzione deve incidere sui budget assunzionali dell'ente
(determinati dall'art. 3, comma 5, del citato decreto-legge
n. 90 del 2014) e non essere, invece, considerata neutra
(come previsto, in linea generale, dall'art. 1, comma 47,
della legge n. 311 del 2004)».
La Corte dei conti esprime questo avviso sul presupposto che
questa mobilità «volontaria» è presupposto doveroso e
necessario dei concorsi e, dunque, viene utilizzata, di
fatto, per consumare le disponibilità assunzionali.
L'assunto, però, non può considerarsi corretto. Si è visto
prima che scopo della mobilità è evitare (per quanto
possibile) la nuova spesa di personale derivante dal
reclutamento di dipendenti dall'esterno, perché col
trasferimento di persone che dipendono già da pubbliche
amministrazioni gli oneri complessivi della spesa del
personale restano invariati.
Tale conseguenza, cioè l'invarianza della spesa di
personale, si ha sia che la mobilità sia disposta ai sensi
dell'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001 (la mobilità
volontaria vera e propria, quella disposta senza che vi sia
una programmazione di concorsi connessi), sia che venga
attivata ai sensi del comma 2-bis.
Comunque, infatti, l'ente
che avvia la mobilità ai sensi del comma 2-bis non inserisce
nuovi lavoratori nei ruoli pubblici. Inoltre, il comma 2-bis
conclude disponendo che «il trasferimento può essere
disposto anche se la vacanza sia presente in area diversa da
quella di inquadramento assicurando la necessaria neutralità
finanziaria».
Il riferimento esplicito alla «neutralità finanziaria» è la
conferma indubitabile che anche il comma 2-bis dà vita ad
una mobilità neutra che, come tale, non erode le capacità assunzionali
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2017). |
INCARICHI PROGETTUALI: Pagamenti
dei progettisti, è la somma che fa il totale.
Provincia di Trento su corrispettivi per i
progetti divisi in lotti.
Per progetti ripartiti in lotti il corrispettivo del
progettista viene calcolato come somma degli onorari di ogni
lotto; previsto compenso ulteriore per il coordinamento
della progettazione; più trasparenza negli atti di gara per
il calcolo dei corrispettivi.
Sono queste alcune delle indicazioni che vengono fornite con
la deliberazione 23.02.2017 adottata dalla giunta
provinciale di Trento che contiene il regolamento attuativo
della legge provinciale 2/2016.
Il provvedimento, che deve essere formalmente emanato dal
presidente della Provincia e pubblicato sul bollettino
ufficiale, stabilisce in primo luogo che l'onorario
professionale, quando il progetto prevede la ripartizione
dell'opera in appalti sequenziali, è costituito dalla somma
degli onorari calcolati sull'importo di ciascun lotto;
inoltre si prevede che le spese siano calcolate sul totale
degli appalti sequenziali oggetto di ciascun incarico.
Un'altra disposizione regolamentare specifica poi che,
sempre nei casi di ripartizione dell'opera in appalti
sequenziali, l'amministrazione può affidare l'attività di
coordinamento della progettazione (consistente nelle
funzioni di responsabile di progetto come definito dalla
medesima legge provinciale), ma in questo caso per
l'attività di coordinamento della progettazione sarà
riconosciuto un corrispettivo ulteriore.
Importante è anche una indicazione in tema di trasparenza
delle spese, profilo per cui si stabilisce che la stazione
appaltante deve riportare nella documentazione necessaria
per l'affidamento il procedimento adottato per il calcolo
dei corrispettivi inteso come elenco dettagliato delle
prestazioni e dei relativi corrispettivi.
Per la determinazione dei compensi dei commissari esterni
all'amministrazione nei concorsi di idee e nei concorsi di
progettazione si utilizzano le stesse voci del decreto
parametri (dm 17.06.2016) utilizzate per la
progettazione, cioè le voci Qb.I.19, Qb.II.26, Qb.III.08 e
Qb.III.10, Qc.I.13, del decreto parametri, con diversi gradi
di complessità, quando tali voci non sono già riconosciute
per la medesima attività, oltre al rimborso delle eventuali
spese di viaggio, vitto e pernottamento, a presentazione dei
relativi titoli giustificativi.
Sui pagamenti, il regolamento prevede l'obbligo per il
fornitore dell'appaltatore o del subappaltatore o il
subcontraente dell'appaltatore di inviare
all'amministrazione e all'affidatario copia delle fatture
inevase. Sarà poi il responsabile del procedimento ad
invitare l'appaltatore o il subappaltatore a comunicare le
proprie controdeduzioni o a depositare le fatture
quietanzate entro un termine non inferiore a 15 giorni; in
tale periodo resta sospeso il pagamento dello stato
avanzamento lavori successivo.
Decorso inutilmente il termine previsto dal comma 4,
l'amministrazione sospende il pagamento dello stato di
avanzamento dell'appalto principale o il pagamento del
subappalto per una somma corrispondente al doppio
dell'importo delle fatture inevase. Sarà quindi
l'amministrazione aggiudicatrice a pagare la somma sospesa
solo previa trasmissione delle fatture quietanzate da parte
del fornitore o dal subcontraente diverso dal subappaltatore
o di specifica liberatoria del medesimo
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Allattamento
al seno, niente ostacoli nella Pa. Direttiva in Gazzetta.
Le pubbliche amministrazioni e i
dipendenti non devono ostacolare l’allattamento delle madri
lavoratrici della Pa.
A sottolinearlo è la
direttiva 03.02.2017 n. 1/2017 della presidenza del Consiglio dei
ministri, dipartimento funzione pubblica, pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale numero 55 del 7 marzo, vigilia dell’8
marzo..
Con la direttiva «si richiama l’attenzione delle pubbliche
amministrazioni e dei singoli dipendenti nella propria
attività di erogazione dei servizi alla collettività, sulla
necessità di assumere azioni positive, comportamenti
collaborativi o comunque di non adottare atti che ostacolino
le esigenze di allattamento».
La direttiva arriva subito dopo la denuncia lanciata via
Twitter dal ministro per la Pubblica amministrazione,
Marianna Madia: «In alcun luogo dovrebbe essere vietato
#allattamento. Subito direttiva per tutta la #Pa». Il
ministro aveva anche denunciato su Facebook quanto le era
accaduto in un ufficio postale di Biella, dove le avevano
detto che poteva allattare solo con il biberon e non al
seno.
Il provvedimento ricorda che l’allattamento al seno
costituisce la «modalità di alimentazione naturale nella
prima infanzia e che il latte materno fornisce tutti i
nutrienti di cui il lattante ha bisogno nei primi sei mesi
di vita» e menziona anche la direttiva 2006/141/Ce della
Commissione del 22.12.2006, che richiama il principio
della promozione e della protezione dell’allattamento al
seno e la necessità di non scoraggiare questa pratica.
Inoltre, si sottolineano anche i benefici che l’allattamento
al seno apporta alla salute della donna (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017). |
ENTI LOCALI: Pensionati
coperti dall’Inail. In caso di affidamento di incarichi
gratuiti dalla Pa.
In caso di affidamento di incarichi gratuiti a dipendenti in
pensione da parte delle pubbliche amministrazioni, ai fini
dell’applicazione ad essi della copertura assicurativa ciò
che pesa non è la gratuita dell’incarico, ma la
qualificazione dello stesso effettuata dall’amministrazione
interessata.
A sottolinearlo è
l’Inail, con la
nota 08.03.2017 n. 4856 di prot..
L’articolo 5, comma 9, del Dl 95/2012, convertito dalla
legge 135/2012, ha fatto divieto a tutte le amministrazioni
dello Stato, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite
nel conto economico della Pa e alle autorità indipendenti,
inclusa la Consob, di attribuire incarichi di studio e
consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici
collocati in quiescenza, se non a titolo gratuito.
In questo
contesto -evidenzia l’Inail- ai fini della copertura
assicurativa da applicare al pensionato ciò che conta è solo
«la qualificazione che la stessa amministrazione conferente
intende dare al rapporto che va ad instaurare con il
soggetto in relazione all’oggetto della prestazione dedotta
nell’atto di conferimento o nel contratto».
Per l’assolvimento degli obblighi assicurativi si
applicheranno, quindi, le solite modalità della speciale
“gestione per conto” o della gestione assicurativa
ordinaria, a seconda che il soggetto assicurante sia
destinatario dell’una o dell’altra modalità e, nel caso
delle amministrazioni pubbliche rientranti nella gestione
per conto, della natura del rapporto instaurato.
Se
l’amministrazione conferente qualificherà l’incarico come
collaborazione coordinata e continuativa scatterà l’obbligo
assicurativo nella forma della gestione ordinaria nel caso
in cui sussistano i requisiti per la stessa, ossia il
coordinamento con il committente, la personalità e la
continuità delle prestazioni lavorative. La stessa regola si
applicherà anche per le amministrazioni rientranti nella
gestione per conto, in quanto quest’ultima non ricomprende i
lavoratori parasubordinati.
Se, viceversa, gli incarichi gratuiti sono inquadrati come
rapporto di lavoro autonomo, non potrà trovare attuazione
l’obbligo assicurativo in assenza di una apposita norma di
riferimento (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017). |
ENTI LOCALI: Per
le telecamere del Comune occorre la Scia. Sicurezza urbana.
Nota prefettizia.
Le telecamere di videosorveglianza
sono sostanzialmente fuorilegge, se sono del Comune: in
questo caso, vanno trattate come impianti privati e quindi
necessitano di un’autorizzazione, che in molti casi manca.
Lo stesso vale per altri impianti di trasmissione, tra cui
quelli per le radio di servizio dei vigili urbani.
Lo afferma
chiaramente la Prefettura di Pordenone, nella
nota 06.03.2017 n. 6104 di prot.,
dopo una segnalazione di «ripetute
problematiche» da parte del ministero dello Sviluppo
economico. E quella della provincia friulana è una realtà in
linea col resto del territorio nazionale, anche perché non
risulta che finora qualcuno avesse segnalato la questione in
maniera così evidente.
Che il problema scoppi adesso è un paradosso: il nuovo
decreto legge sulla sicurezza urbana (Dl 14/2017) ha
l’intento di rafforzare le attività del Comuni, anche se non
ha rimosso ostacoli che da anni le rendono difficili (come
l’accesso delle polizie locali alla banca dati Sdi di quelle
nazionali e la mancata equiparazione del trattamento dei
vigili a quello degli altri agenti, in caso di infortuni in
servizio). La segnalazione del ministero è datata 16
febbraio, mentre il decreto è del 20 ed è entrato in vigore
il giorno dopo.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, sono proprio le
telecamere dei Comuni a coprire la maggior parte del
territorio. Tanto che i corpi di polizia nazionali se ne
avvalgono sistematicamente nelle loro indagini.
Tecnicamente, il ministero dello Sviluppo economico ha
ricordato che «l’attività di installazione ed esercizio di
reti o servizi di comunicazione elettronica ad uso privato
(... ) sono soggetti ad un’autorizzazione generale che si
consegue con le modalità prescritte dall’articolo 99, comma
4, e dall’articolo 107 del Codice delle comunicazioni
elettroniche». Quindi, tra le altre cose, occorre presentare
all’ufficio competente del ministero una dichiarazione, a
titolo di Scia (segnalazione certificata di inizio
attività). L’interessato è abilitato iniziare
l’installazione o l’esercizio degli impianti solo dopo che
la dichiarazione è stata presentata.
La circolare della Prefettura di Pordenone afferma
esplicitamente che queste regole valgono anche per i Comuni,
perché le loro reti di comunicazione elettronica sono da
considerarsi ad uso privato. Anche se esse sono «a supporto
delle proprie attività istituzionali e/o lavorative».
La Prefettura cita anche alcuni esempi di tali impianti
pubblici equiparati a quelli ad uso privato: «le reti per la
trasmissione di immagini a circuito chiuso
(videosorveglianza del traffico veicolare) o per la
trasmissione di dati o fonia tra differenti uffici o sedi».
La nota non fa alcun cenno agli apparecchi di rilevazione
delle infrazioni stradali (come i misuratori di velocità o i
documentatori di passaggi con semaforo rosso o in zone a
traffico limitato). Per prassi essi vengono considerati a
sé, perché sono omologati secondo le procedure prescritte
dal Codice della strada (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017). |
ENTI LOCALI: Videosorveglianza,
i comuni pagano. Circolare della
prefettura di Pordenone.
Per il Mise gli impianti di videosorveglianza urbana sono
assimilabili ai sistemi di trasmissione dati in
disponibilità dei privati cittadini e quindi per l'esercizio
di queste tecnologie il comune deve presentare una
dichiarazione ad hoc. E pagare il contributo annuo dovuto
allo Stato per non incorrere nelle sanzioni previste dal
codice delle comunicazioni elettroniche.
Lo ha chiarito la Prefettura di Pordenone con la
circolare 06.03.2017 n. 6104 di prot..
Nonostante gli indiscutibili successi investigativi che
derivano dall'uso condiviso tra polizia, carabinieri e
vigili dei moderni sistemi di videosorveglianza urbana in
dotazione alle città lo stato ora mette un freno burocratico
a questi sistemi.
Oltre all'autorizzazione preventiva del
comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica d'ora in poi
il sindaco che vorrà dotarsi di un moderno sistema di
analisi dei flussi veicolari e dei soggetti pericolosi dovrà
presentare una dichiarazione preventiva al ministero dello
sviluppo economico per non incorrere nelle pesanti sanzioni
previste dal codice della comunicazioni elettroniche. E
pagare ogni anno il contributo previsto per l'attività di
vigilanza e controllo ai sensi dell'art. 34 del dlgs
259/2003. Una bella doccia fredda per i sindaci appena
promossi al ruolo di controllori delle città più sicure con
il dl 14/2017, in corso di conversione in legge alla camera.
Del resto la nota della prefettura friulana è molto chiara.
L'ispettorato territoriale del Mise ha segnalato di aver
riscontrato numerose irregolarità in materia di sistemi di
videosorveglianza urbana. Anche questi impianti ricadono
nelle disposizioni degli artt. 99 e 107 del codice delle
comunicazioni elettroniche, trattandosi per il mise di reti
di comunicazione elettronica ad uso privato.
Quindi occorre
presentare una apposita Scia al ministero prima di accendere
le telecamere a caccia di ladri e delinquenti. Solo lo
stato, ai sensi dell'art. 100 del dlgs 259/2003, può infatti
agire in deroga a queste previsioni. I comuni non si
occupano prioritariamente di ordine pubblico e sicurezza e
quindi devono pagare dazio. Oppure spegnere i sistemi
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Avvocati
senza l'esclusiva. Ai legali incarichi dirigenziali senza
paletti. L'Anci non condivide la
tesi del Cnf e chiede chiarimenti al ministro Madia.
Il conferimento di incarichi dirigenziali agli avvocati
comunali senza vincolo di esclusività deve essere
compatibile con l'iscrizione nell'elenco speciale degli
avvocati dipendenti pubblici e con il mantenimento dello «ius
postulandi» nell'interesse dell'ente.
È quanto prevede il comma 221 della legge di stabilità 2016
(legge n. 208/2015) che è da considerarsi norma speciale
rispetto alle previsioni dell'ordinamento forense.
A
sostenerlo è l'Anci in una lettera inviata dal presidente
Antonio Decaro al ministro della funzione pubblica Marianna
Madia a seguito della querelle sul conferimento di
incarichi dirigenziali agli avvocati civici che ha visto
contrapposti i comuni da un lato e il Consiglio nazionale
forense dall'altro.
Come si ricorderà (si veda ItaliaOggi del 02/03/2017) è
stata proprio l'Associazione dei comuni a chiamare in causa
il Cnf affinché fornisse indicazioni univoche ai consigli
locali dopo che alcuni ordini territoriali hanno cancellato
dall'elenco speciale i legali ai quali erano stati conferiti
incarichi dirigenziali dalle amministrazioni, proprio in
applicazione del comma 221.
Ma la risposta del Consiglio nazionale forense non è stata
quella che l'Anci si attendeva. Il Cnf infatti (si veda
ItaliaOggi del 02/03/2017) ha ritenuto il vincolo di
esclusività «condicio sine qua non» per l'attribuzione di
incarichi dirigenziali. Senza esclusività, quindi,
scatterebbe necessariamente la cancellazione dall'elenco
speciale e la conseguente impossibilità a svolgere le
mansioni di avvocato.
Tuttavia, secondo l'Anci, questa tesi non è accettabile, in
primis perché condurrebbe a una «sostanziale disapplicazione
del comma 221». E poi perché, osserva Decaro nella missiva
inviata a palazzo Vidoni, «a fronte della riduzione degli
organici e del contenimento delle spese di personale, per
molti comuni l'unica possibilità per mantenere in essere
l'avvocatura ed evitare la completa esternalizzazione dei
servizi legali, è data proprio dalla possibilità di
attribuire al dirigente avvocato anche compiti ulteriori,
pur nella piena garanzia dell'autonomia dell'ufficio
legale».
Per questo, l'Anci ha chiesto ufficialmente un chiarimento
al ministro Madia, attraverso una circolare interpretativa
della Funzione pubblica o attraverso una norma correttiva
del comma 221 della Manovra 2016. La proposta di emendamento
dell'Anci, che potrebbe trovare posto nel decreto enti
locali chiesto a gran voce dalle autonomie (si veda altro
pezzo in pagina), renderebbe applicabile il comma 221 in
materia di avvocature civiche chiarendo che tale previsione
si pone in rapporto di specialità con la disciplina prevista
in generale per gli avvocati dipendenti pubblici dall'art.
23 della legge sull'ordinamento forense (legge n. 247/2012)
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Subappalto,
Ance ricorre alla Ue. No al tetto del 30%, ai tre nomi con
l’offerta, alla scelta gara per gara.
Lavori pubblici. Esposto dell’associazione costruttori a
Bruxelles contro i paletti imposti dal nuovo codice.
Varca i confini
italiani, arrivando fino a Bruxelles, la protesta dei
costruttori contro i paletti sul subappalto imposti dal
nuovo codice dei contratti pubblici. L’associazione
nazionale delle imprese edili (Ance) ha presentato un
esposto alla Commissione europea contestando l'aderenza
delle nuove regole al diritto dell’Unione e chiedendo, di
conseguenza, «di dar corso urgentemente alla procedura di
infrazione» prevista dal Trattato.
Nel mirino dei costruttori ci sono soprattutto tre aspetti
della nuova disciplina del subappalto delle opere pubbliche,
entrata in vigore il 19.04.2016. Il primo aspetto riguarda
il tetto ai subaffidamenti, al momento individuato nel 30%
dell'importo complessivo dei lavori. Per i costruttori
imporre un tetto per legge è contrario alle direttive
europee che regolano il settore. Per suffragare questa tesi
l'esposto cita in particolare una sentenza della Corte di
Giustizia pubblicata lo scorso 14 luglio (caso «Wroclaw»)
che ha bocciato le norme che, in Polonia, obbligano le
imprese vincitrici di appalti a eseguire in proprio almeno
il 25% delle opere.
Per i giudici europei, si ricorda nell’esposto, «la
direttiva ammette il ricorso al subappalto, senza indicare
limitazioni». Seppure importante non è, però, il tetto la
questione centrale. «Noi non siamo per il subappalto al 100%
-spiega Edoardo Bianchi, vicepresidente Ance, con delega
alle opere pubbliche-. Si rischierebbe la smobilitazione
delle imprese. Tra un estremo e un altro si può trovare un
punto di equilibrio». Piuttosto sono altri due i punti più
contestati dai costruttori. Al primo posto c'è la scelta di
assegnare alle stazioni appaltanti il compito di decidere,
gara per gara, se autorizzare o meno, l'esecuzione di una
parte di lavori in subappalto.
«È una scelta contraria al principio di libera
organizzazione dei fattori della produzione, che rischia di
spazzare via un intero sistema -attacca Bianchi-. Quale
politica industriale si può impostare sulla base di
un'indicazione simile? Devo organizzarmi per fare tutto in
casa o posso affidarmi a degli specialisti, se il caso lo
richiede? L’impresa è in grado di adeguarsi a qualsiasi
scelta, ma una scelta ci deve essere? Per paradosso, allora
sarebbe stato meglio vietare del tutto il subappalto, anche
se nel 2017 sarebbe una decisione davvero anacronostica,
oltre che contraria al diritto europeo».
L’ultimo passaggio riguarda l’obbligo di indicare tre nomi
di possibili subappaltatori con l’offerta. Qui l'obiezione
riguarda i tempi, molto anticipati rispetto alla fase di
cantiere. Ma anche i possibili condizionamenti che
potrebbero arrivare da imprese specializzate in un
particolare tipo di lavorazione. «In alcune gare si rischia
che siano i subappaltatori a decidere chi può partecipare o
meno», sottolinea Bianchi.
Una parziale modifica di questa impostazione arriverà con il
decreto correttivo al Codice che il governo ha licenziato in
prima lettura a fine febbraio e che ieri è arrivato in
Parlamento per il giro di pareri. Il provvedimento confina
il divieto di subbappaltare più del 30% delle opere solo ai
lavori prevalenti in cantiere (come accadeva prima della
riforma) e lascia alle stazioni appaltanti il compito di
decidere se chiedere o meno la «terna» dei subaffidatari con
l’offerta. Resta però inalterato il punto-chiave contestato
dai costruttori: la scelta sul subappalto «gara per gara».
Difficile, dunque, che senza ulteriori aggiustamenti
l’esposto venga ritirato (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Società
senza privacy. Richieste di accesso civico: niente freni.
Pareri del garante su istanze relative al
Freedom of information act.
Le società non hanno una privacy. Le richieste di accesso
civico ad atti e documenti detenuti dalla p.a. relativi a
persone giuridiche non possono essere stoppate dalla
normativa sulla protezione dei dati. Questa tutela
espressamente le persone fisiche.
Lo ha precisato il garante della privacy con due pareri
(provvedimento
09.02.2017 n. 49 e
provvedimento 16.02.2017 n. 58) su altrettante istanze di accesso, formulate
ai sensi dell'articolo 5, comma 2, del dlgs 33/2013 (il
Foia-Freedom of information act italiano).
Si aggiunge, però, che se la privacy (articolo 5-bis, comma
2, lett. c, dlgs 33/2013) non è di per sé uno scudo per
società e persone giuridiche, queste, però, potrebbero
invocare a schermare i propri dati gli interessi economici e
commerciali, compresi la proprietà intellettuale, il diritto
d'autore e i segreti commerciali (articolo 5 bis, comma 2,
lett. c, dlgs 33/2013). Ma vediamo i casi esaminati dal
collegio presieduto da Antonello Soro.
Il primo parere ha riguardato un richiesta di accesso civico
avente a oggetto l'elenco degli esercizi commerciali che
hanno ricevuto sanzioni amministrative per aver violato le
norme sull'igiene e la sicurezza alimentare, includendo
importo e motivo della sanzione. Nel proprio parere il
garante ha ricordato l'esclusione delle persone giuridiche
dall'elenco dei soggetti cui si applica il Codice della
privacy e, quindi, la normativa sulla riservatezza fa un
passo indietro.
Peraltro i nominativi dei soggetti
sanzionati e, in alcuni casi anche i nominativi degli
esercizi commerciali sanzionati (ad esempio le ditte
individuali) possono essere identificativi, direttamente o
indirettamente, di persone fisiche, e rientrano pertanto
nella definizione di dato personale: sta, a riguardo delle
persone fisiche, ai singoli enti valutare se sussistano
pregiudizi alla riservatezza, tali da bloccare l'accesso
civico.
Il secondo caso ha posto all'attenzione del garante i
verbali di una società a responsabilità limitata. In questa
ipotesi un provvedimento di diniego all'accesso civico non è
da fondare proprio sulla tutela dei dati in quanto tale,
poiché una srl non beneficia della tutela del Codice della
privacy e, di conseguenza, nemmeno della tutela di cui
all'articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del dlgs n. 33/2013.
Alla srl possono applicarsi gli altri limiti e cioè gli
interessi economici e commerciali, compresi la proprietà
intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
Foia non alza il velo sugli avvocati.
Il Foia (Freedom of information act) italiano non alza il
velo sui procedimenti disciplinari nei confronti degli
avvocati.
L'accesso civico generalizzato (articolo 5 dlgs 33/2013),
infatti, non è la scorciatoia per aggirare i paletti
dell'accesso documentale (legge 241/1990).
Così il garante della privacy, con il
provvedimento
09.02.2017 n. 50. Il garante è stato chiamato a dare il
suo parere su una richiesta di accesso civico avente ad
oggetto tutti gli atti relativi a un procedimento
disciplinare concluso nei confronti di un avvocato.
Il
problema è se un caso di questo tipo può rientrare in quanto
previsto dall'articolo 5, comma 2, del dlgs 33/2013 sulla
trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Questo
articolo, da un lato, assicura l'accesso ai dati e ai
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, a
chiunque e senza bisogno di una particolare motivazione;
dall'altro lato però si individua la tutela della privacy
della persona fisica (concreto pregiudizio alla
riservatezza) quale limite alla trasparenza.
Quindi, vista
da un lato, il Foia italiano dovrebbe far aprire tutti gli
archivi pubblici all'istante essendo sufficiente la mera
richiesta immotivata; ma dall'altro lato bisogna vedere se e
come il diritto alla privacy può giocare un ruolo in senso
contrario. La materia è stata sviscerata dalle Linee guida,
approvate dall'Anac, Autorità nazionale anticorruzione,
d'intesa con il garante per la protezione dei dati personali
(determinazione n. 1309 del 28/12/2016, in G.U. n. 7 del
10/01/2017).
Nel caso in esame il garante ha ravvisato che la stessa
natura disciplinare del procedimento sembrerebbe
suscettibile di determinare, nel caso di accoglimento
dell'istanza, il pregiudizio concreto al diritto alla
protezione dei dati personali tale da legittimarne il
diniego dell'istanza d accesso civico. Tra l'altro si legge
nel provvedimento del garante, quando si tratta di
procedimenti disciplinari, ci sono limiti anche all'accesso
documentale (legge 241/1990). Limiti, che, però, si aggiunge
possono essere superati nel caso di accesso strumentale
all'esercizio del diritto di difesa.
Da un punto di vista generale, è encomiabile il tentativo
del garante di dare una mano alle p.a. cercando di
uniformare l'attuazione di una norma, che invece abbandona
ciascun ente pubblico alla valutazione caso per caso
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
mozziconi finanzieranno nuovi cassonetti. Gazzetta
Ufficiale. Proventi delle multe a ministero e Comuni.
Le multe per chi butta per terra le
sigarette spente serviranno per comprare nuovi raccoglitori
per i mozziconi. Il che dovrebbe -negli obiettivi del
ministero dell’Ambiente- ridurre il fenomeno dell’abbandono
dei piccolissimi rifiuti come scontrini, fazzoletti di
carta, gomme da masticare
e sigarette.
A convincere i cittadini a non lasciare per strada i
mozziconi ci dovrebbe pensare il decreto legislativo n. 152
del 2006 che ha introdotto una multa da 25 a 155 euro per
chi abbandona piccoli rifiuti sul suolo.
Quante siano le sanzioni comminate finora non si sa. Si sa,
però, che i proventi di queste multe verranno ripartiti in
parti uguali tra i Comuni e un fondo istituito presso lo
stato di previsione del ministero dell’Ambiente.
Il 50% destinato alle amministrazioni sarà utilizzato per
l’installazione nelle strade, nelle piazze, nei parchi,
nelle aree a verde e nei luoghi di alta aggregazione sociale
di «appositi raccoglitori per la raccolta dei mozziconi
dei prodotti da fumo» e per la pulizia di caditoie e
tombini, oltre che per la promozione di campagne di
comunicazione su scala locale. Il 50% delle multe sarà,
invece, utilizzato dal ministero per l’attuazione di
campagne di informazione su scala nazionale.
L’impiego dei proventi è stato regolato dal decreto
ministeriale del 15 febbraio, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 54 di ieri.
Resta adesso da capire quante multe sono state
effettivamente comminate: in assenza di dati dei Comuni, per
scoprirlo basterà contare il numero di raccoglitori per
mozziconi che verranno istallati. Pochi raccoglitori
significherà poche multe. Poche multe significherà che le
persone non si toglieranno il brutto vizio di usare i
marciapiedi come cassonetti (articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Mozziconi
in terra, dalle multe piani informativi e raccoglitori.
Metà delle multe per chi lascia mozziconi, fazzoletti e
gomme da masticare per strada andranno a finanziare
l'acquisto di raccoglitori, l'altra metà, campagne di
sensibilizzazione nazionali sui danni che simili gesti
provocano all'ambiente.
A dare attuazione all'articolo 40 della legge sulla Green
economy (221/2015), che dal 02.02.2016 prevede per chi
venga pizzicato a gettare in terra i mozziconi una sanzione
dai 30 ai 300 euro è il decreto dell'Ambiente 15.02.2017, recante «Disposizioni in materia di rifiuti di
prodotti da fumo e di rifiuti di piccolissime dimensioni»,
pubblicato ieri sulla Gazzetta ufficiale n. 54.
Il 50% delle somme derivanti dai proventi delle sanzioni
amministrative pecuniarie andrà dunque a finanziare un
apposito Fondo istituito presso lo stato di previsione del
ministero dell'ambiente per l'attuazione di campagne di
informazione su scala nazionale. Il restante cinquanta è
invece destinato ai comuni nel cui territorio sono state
accertate le violazioni.
Tali somme sono impiegate, in via prioritaria, per le
attività di installazione nelle strade, nelle piazze, nelle
aree a verde, nei parchi nonché nei luoghi di alta
aggregazione sociale di appositi raccoglitori per la
raccolta dei mozziconi dei prodotti da fumo e, in via
residuale e secondo le specifiche esigenze, per la pulizia
di caditoie e di tombini facenti parte del sistema fognario
nonché per le campagne di informazione su scala locale. Ma
l'apporto di risorse non finisce qui.
Anche i produttori di prodotti da fumo attuano, infatti, in
collaborazione con il ministero dell'ambiente, campagne di
informazione al fine di sensibilizzare i consumatori sulle
conseguenze nocive per l'ambiente derivanti dall'abbandono
di mozziconi dei prodotti da fumo.
Le campagne di informazione sensibilizzano le
amministrazioni, la cittadinanza e i consumatori sulle
tematiche della raccolta dei mozziconi dei prodotti da fumo
ed in particolare: sugli effetti nocivi arrecati
all'ambiente dall'abbandono dei rifiuti dei prodotti da
fumo; sull'obbligo di non gettare ed abbandonare i mozziconi
dei prodotti da fumo sul suolo, nelle acque, nelle caditoie
stradali e nel sistema fognario, e i conseguenti benefici in
termini economici e ambientali; sulle sanzioni in caso di
violazione dei divieti di abbandono dei rifiuti; sulla
possibilità di attivare per i rifiuti di prodotti da fumo
specifiche procedure di raccolta differenziata atte a
destinare i rifiuti di prodotti da fumo a specifiche filiere
di recupero, piuttosto che al conferimento in discarica.
I comuni, con i soldi recuperati dall'operazione, installano
una rete di raccoglitori per la raccolta di mozziconi dei
prodotti da fumo nelle strade, nei parchi nonché nei luoghi
di alta aggregazione sociale, segnalandone la collocazione e
il corretto utilizzo
(articolo ItaliaOggi del 07.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuove
regole antincendio in autorimesse.
Procedure più rapide per la prevenzione incendi
dell'autorimessa. Le semplificazioni si possono applicare
alle attività di superficie complessiva coperta superiore a
300 metri quadrati. Non sono considerate autorimesse le aree
destinate al parcamento di veicoli ove ciascun posto auto
sia accessibile direttamente da spazio scoperto o con un
percorso inferiore due volte l'altezza del piano parcamento.
E gli spazi destinati all'esposizione, alla vendita o al
deposito di veicoli siano provvisti di quantitativi limitati
di carburante per la semplice movimentazione nell'area.
È con il decreto del 21.02.2017 (pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del 03.03.2017 n. 52) che sono state
approvate le norme tecniche di prevenzione.
Tali norme (in
vigore dal 01.04.2017) si applicano alle attività
riportate all'allegato 1, che costituisce parte integrante
del decreto stesso, nell'ambito delle norme tecniche di cui
al decreto del ministero dell'Interno del 03.08.2015,
recante «approvazione di norme tecniche di prevenzione
incendi, ai sensi dell'art. 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139».
Al fine di non costituire pericolo
durante l'operazione di estinzione dell'incendio, deve
essere previsto in zona segnalata e di facile accesso, un
dispositivo di sezionamento di emergenza che con una sola
manovra tolga tensione a tutto l'impianto elettrico
dell'autorimessa, compreso quello di eventuali box,
alimentati da un impianto elettrico separato.
La protezione
dai sovraccarichi e dai guasti a terra dell'impianto
elettrico e il dispositivo di sezionamento di emergenza
devono essere installati del compartimento antincendio
(articolo ItaliaOggi del 07.03.2017). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Riparametrazione delle offerte tecnica e economica.
---------------
Contratti della pubblica amministrazione – Offerta –
Riparametrazione – Possibilità.
In sede di gara pubblica la scelta
di procedere o meno alla riparametrazione dei punteggi
dell’offerta economica si inserisce nel più ampio ambito
dell’individuazione, da parte della stazione appaltante,
degli elementi di valutazione e comparazione delle offerte
nelle gare da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa; la riparametrazione, in
particolare, ha la funzione di garantire l’equilibrio tra
elementi qualitativi e quantitativi di giudizio, in modo da
assicurare la completa attuazione della volontà manifestata
al riguardo dalla stazione appaltante: applicando la
riparametrazione a una delle componenti dell’offerta, o a
entrambe, il peso ne viene valorizzato, nel senso che il
concorrente titolare dell’offerta anche di poco migliore
rispetto alle altre si vede assegnato il punteggio massimo
astrattamente previsto, come se si trattasse di un’offerta
tecnicamente eccellente, ovvero considerevolmente
conveniente sul piano economico (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che, tale essendo il ruolo della
riparametrazione, non è discutibile che appartenga alla
discrezionalità della stazione appaltante stabilire quale
debba essere il punto di equilibrio tra la componente
tecnica e quella economica dell’offerta e fino a che punto
si imponga (o, di contro, non si imponga) la tutela
dell'equilibrio astratto corrispondente ai massimali di
punteggio da essa stessa contemplati, non essendovi peraltro
alcuna norma di carattere generale, nel sistema degli
appalti pubblici, che imponga alla stazione appaltante di
attribuire alla migliore offerta il punteggio massimo
previsto in relazione ai diversi criteri valutativi (Cons.
St., sez. III, 27.09.2016, n. 3970; id.
25.02.2016, n. 749; id.,
sez. V, 27.01.2016, n. 266) (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 16.05.2017 n. 689
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2.1. Con il primo motivo di gravame, la cooperativa La
Sp. di Gr. –gestore uscente del servizio oggetto di causa–
lamenta che l’aggiudicazione sarebbe viziata da un errore
metodologico commesso dalla stazione appaltante. La
commissione giudicatrice, infatti, avrebbe proceduto
all’assegnazione dei punteggi relativi alle offerte
economiche previa riparametrazione degli stessi al punteggio
massimo previsto dalla legge di gara, mentre i punteggi
relativi alle offerte tecniche sarebbero stati attribuiti
senza riparametrazione. Questo modo di procedere avrebbe
alterato l’esito del confronto tra i concorrenti e lo stesso
rapporto tra elemento economico ed elemento tecnico espresso
dalla lex specialis attraverso la previsione dei
rispettivi punteggi massimi. Eseguendo la riparametrazione
delle offerte tecniche, sarebbe la ricorrente a risultare
vincitrice.
Per l’ipotesi in cui la mancata riparametrazione dovesse
ritenersi imposta dalla lettera di invito, dal capitolato o
comunque dalla legge di gara, la ricorrente deduce altresì
l’illegittimità di quest’ultima (e quella
dell’aggiudicazione in via derivata).
La censura è infondata.
Il paragrafo 3) dell’avviso pubblico a manifestare interesse
e della lettera di invito predisposti dalla centrale unica
di committenza dei Comuni resistenti prevede l’assegnazione
di un massimo di 30 punti per l’offerta economica, da
attribuirsi attraverso la formula X = (Rx30)/Rmax,
comportante la riparametrazione del miglior punteggio al
punteggio massimo e la conseguente attribuzione di punteggi
proporzionalmente ridotti alle offerte rimanenti.
Diversamente è a dirsi per il punteggio da assegnare alle
offerte tecniche, frutto della sommatoria semplice dei
punteggi conseguiti dai concorrenti per ciascuno dei criteri
e subcriteri di valutazione, senza riparametrazione del
miglior punteggio a quello massimo di 70.
Ciò posto,
la scelta di procedere o meno
alla riparametrazione dei punteggi si inserisce nel più
ampio ambito della individuazione, da parte della stazione
appaltante, degli elementi di valutazione e comparazione
delle offerte nelle gare da aggiudicarsi secondo il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa. La
riparametrazione, in particolare, ha la funzione di
garantire l’equilibrio tra elementi qualitativi e
quantitativi di giudizio, in modo da assicurare la completa
attuazione della volontà manifestata al riguardo dalla
stazione appaltante: applicando la riparametrazione a una
delle componenti dell’offerta, o a entrambe, il peso ne
viene valorizzato, nel senso che il concorrente titolare
dell’offerta anche di poco migliore rispetto alle altre si
vede assegnato il punteggio massimo astrattamente previsto,
come se si trattasse di un’offerta tecnicamente eccellente,
ovvero considerevolmente conveniente sul piano economico
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.08.2014, n. 4359).
Se questo è il ruolo della
riparametrazione, non è discutibile che appartenga alla
discrezionalità della stazione appaltante stabilire quale
debba essere il punto di equilibrio tra la componente
tecnica e quella economica dell’offerta e fino a che punto
si imponga (o, di contro, non si imponga) la tutela
dell'equilibrio astratto corrispondente ai massimali di
punteggio da essa stessa contemplati, non essendovi peraltro
alcuna norma di carattere generale, nel sistema degli
appalti pubblici, che imponga alla stazione appaltante di
attribuire alla migliore offerta il punteggio massimo
previsto in relazione ai diversi criteri valutativi
(solo per le più recenti, cfr. Cons. Stato, sez. III,
27.09.2016, n. 3970; id., 25.02.2016, n. 749; id., sez. V,
27.01.2016, n. 266).
Erra, pertanto, la ricorrente nell’affermare che la
commissione sarebbe incorsa in un vizio metodologico nel
riparametrare i soli punteggi inerenti le offerte
economiche, e non anche quelli assegnati alle offerte
tecniche. La mancata riparametrazione è frutto di una
pedissequa applicazione della lex specialis, nei cui
confronti la ricorrente si limita a critiche generiche,
inidonee a evidenziare obiettivi profili di manifesta
illogicità o irragionevolezza delle scelte discrezionali
compiute dalla stazione appaltante. |
APPALTI:
I provvedimenti di autotutela impugnati con il
ricorso sono caratterizzati dall’evidente violazione
dell’art. 21-nonies, 1° comma, della l. 07.08.1990 n. 241,
non contenendo una qualche motivazione in ordine alle
<<ragioni di interesse pubblico>> legittimanti
l’annullamento in sede di autotutela del provvedimento, ma
solo l’indicazione del (presunto) vizio di legittimità
riscontrato (di per sé insufficiente a legittimare
l’annullamento, non potendo essere ravvisato l’interesse
pubblico all’annullamento dell’atto nella mera esigenza di
ripristino della legalità violata).
Per di più uno dei due appare essere caratterizzato anche da
evidente difetto di motivazione in ordine al vizio di
legittimità legittimante l’annullamento in sede di
autotutela non potendo ovviamente essere considerato
sufficiente il generico riferimento a <<vizi procedurali
tali da poter inficiare ab origine la procedura di gara>>,
non accompagnato da una qualche specificazione del vizio
riscontrato.
---------------
La mancata nomina del R.U.P. di cui all’art. 31 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 deve essere inquadrata nel più generale
orientamento giurisprudenziale che ha escluso che <<l'omessa
indicazione …. del responsabile del procedimento …(possa
dare) luogo a vizio di legittimità, salvo che sia dimostrato
un concreto pregiudizio (ciò che nella specie non è),
applicandosi la norma suppletiva di cui all'art. 5 della
citata legge nr. 241 del 1990, a tenore della quale nella
prospettata ipotesi è considerato responsabile del singolo
procedimento il funzionario preposto all'unità organizzativa
competente>>.
Del resto, l’applicabilità alla nuova previsione di cui
all’art. 31 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 della
giurisprudenza sopra richiamata non è certo esclusa dal
riferimento all’atto formale di nomina del R.U.P. previsto
dalla disposizione (la necessità dell’atto formale di nomina
sarebbe, infatti, comunque desumibile dai principi generali,
anche in mancanza di previsione espressa) o dalla mancanza,
nella disposizione impugnata, dell’espresso richiamo della
l. 07.08.1990, n. 241, apparendo di tutta evidenza come si
tratti di una particolare articolazione (con aspetti di
particolarità che, in questa sede, non rilevano)
dell’istituto del responsabile del procedimento prevista
dalla legge generale sul procedimento.
---------------
La società ricorrente partecipava alla gara per
l’affidamento con durata annuale del servizio di fornitura
bevande calde, fredde e snack mediante distributori
automatici indetta dal Liceo Statale “Coluccio Salutati”
di Montecatini Terme, con lettera di invito 16.12.2016 prot.
n. 4821/D9; all’esito delle operazioni di gara conseguiva la
prima posizione in graduatoria con complessivi 60 punti
avanti alla C. Ve. s.r.l., che conseguiva la seconda
posizione con punti 47,66.
Invece di procedere all’aggiudicazione, il Dirigente
scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati” di
Montecatini Terme, con provvedimento 19.01.2017 prot. n.
182/D9, disponeva l’annullamento in autotutela dell’intera
procedura, sulla base della seguente motivazione: <<verificata
la sussistenza nel procedimento selettivo di vizi
procedurali tali da poter inficiare ab origine la procedura
di gara>>.
A seguito delle contestazioni della Su. s.p.a., il Dirigente
scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati” di
Montecatini Terme emanava il successivo provvedimento
10.02.2017 prot. 550/D9 che sostituiva il precedente,
disponendo l’annullamento della gara sulla base della
seguente e diversa motivazione: <<verificata la
sussistenza nel procedimento selettivo di vizi procedurali
tali da poter inficiare ab origine la procedura di gara
(mancata individuazione del RUP ex art. 31 del D.Lgs
50/2016); Sussistendo pertanto l’interesse pubblico ad
annullare atti procedimentali viziati; In assenza di
posizioni giuridiche consolidate>>.
...
Nel merito, il ricorso è poi fondato e deve pertanto essere
accolto.
Tutti e due i provvedimenti di autotutela impugnati con il
ricorso sono caratterizzati dall’evidente violazione
dell’art. 21-nonies, 1° comma, della l. 07.08.1990 n. 241,
non contenendo una qualche motivazione in ordine alle <<ragioni
di interesse pubblico>> legittimanti l’annullamento in
sede di autotutela del provvedimento, ma solo l’indicazione
del (presunto) vizio di legittimità riscontrato (di per sé
insufficiente a legittimare l’annullamento, non potendo
essere ravvisato l’interesse pubblico all’annullamento
dell’atto nella mera esigenza di ripristino della legalità
violata: TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.02.2017,
n. 127; TAR Friuli-Venezia Giulia, 25.11.2013, n. 614).
Per di più il provvedimento 19.01.2017 prot. n. 182/D9 del
Dirigente scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati”
di Montecatini Terme appare essere caratterizzato anche da
evidente difetto di motivazione in ordine al vizio di
legittimità legittimante l’annullamento in sede di
autotutela non potendo ovviamente essere considerato
sufficiente il generico riferimento a <<vizi procedurali
tali da poter inficiare ab origine la procedura di gara>>,
non accompagnato da una qualche specificazione del vizio
riscontrato.
Al contrario, il secondo provvedimento di autotutela (il
provvedimento 10.02.2017 prot. 550/D9 del Dirigente
scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati” di
Montecatini Terme) deve ritenersi sufficientemente motivato
per quello che riguarda il vizio di legittimità riscontrato
(ma non per l’interesse pubblico all’annullamento, per
quanto già rilevato), ma del tutto erroneo in diritto.
La mancata nomina del R.U.P. di cui all’art. 31 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 deve, infatti, essere inquadrata nel più
generale orientamento giurisprudenziale che ha escluso che
<<l'omessa indicazione …. del responsabile del
procedimento …(possa dare) luogo a vizio di legittimità,
salvo che sia dimostrato un concreto pregiudizio (ciò che
nella specie non è), applicandosi la norma suppletiva di cui
all'art. 5 della citata legge nr. 241 del 1990, a tenore
della quale nella prospettata ipotesi è considerato
responsabile del singolo procedimento il funzionario
preposto all'unità organizzativa competente>> (Cons.
Stato, sez. IV, 22.03.2013, n. 1632; TAR Toscana, sez. III,
30.01.2012, n. 197; TAR Campania, Napoli, VII, 14.01.2011,
n. 164; TAR Lazio, Roma, III, 09.09.2010, n. 32207; Cons.
Stato, sez. II, 16.05.2007, parere n. 866).
Del resto, l’applicabilità alla nuova previsione di cui
all’art. 31 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 della
giurisprudenza sopra richiamata non è certo esclusa dal
riferimento all’atto formale di nomina del R.U.P. previsto
dalla disposizione (la necessità dell’atto formale di nomina
sarebbe, infatti, comunque desumibile dai principi generali,
anche in mancanza di previsione espressa) o dalla mancanza,
nella disposizione impugnata, dell’espresso richiamo della
l. 07.08.1990, n. 241, apparendo di tutta evidenza come si
tratti di una particolare articolazione (con aspetti di
particolarità che, in questa sede, non rilevano)
dell’istituto del responsabile del procedimento prevista
dalla legge generale sul procedimento.
In definitiva, i due provvedimenti di autotutela devono
essere annullati, senza che sussista una qualche necessità
di procedere all’annullamento anche della clausola della
lettera di invito 16.12.2016 prot. n. 4821/D9 prevedente la
possibilità dell’annullamento della gara ad <<insindacabile
giudizio>> della Stazione appaltante; la detta clausola
non può, infatti, assumere il valore di una preventiva
rinuncia a chiedere il sindacato giudiziale dei
provvedimenti di annullamento d’ufficio e pertanto non
rileva nella presente vicenda
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 12.05.2017 n. 672 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Acquisto della proprietà del bene illegittimamente
espropriato per effetto della rinuncia abdicativa implicita
nella richiesta di risarcimento del danno.
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Espropriazione per pubblica utilità - Irreversibile
trasformazione del bene – Richiesta risarcimento danni –
Implicita rinuncia abdicativa – Acquisto della proprietà da
parte dell’Amministrazione – Esclusione.
In caso di procedura espropriativa
divenuta illegittima con irreversibile trasformazione del
bene, l’Ente espropriante non può acquistare la proprietà
del bene per effetto della rinuncia abdicativa che sarebbe
implicita nella richiesta di risarcimento del danno (1).
---------------
(1)
Con tale conclusione il Tar si è motivatamente discostato
dal recente arresto del Tar Catanzaro, sez. II, 12.05.2017,
n. 438, secondo cui il ricorrente proprietario, sarebbe
facoltizzato a formulare una domanda di mero risarcimento
del danno per equivalente (a fronte dell’irreversibile
trasformazione del fondo) e contestualmente rinunciare alla
proprietà del bene (abdicando al diritto) ovvero alla sua
restituzione.
Ad avviso del Tar Reggio Calabria la tesi urta contro un
ostacolo giuridico evidente, laddove si riconnette il
risarcimento del danno da perdita della proprietà all’esito
di un comportamento volontario posto in essere
discrezionalmente dal proprietario medesimo.
La rinuncia è infatti negozio unilaterale il cui solo
effetto è quello dismissivo del diritto di proprietà, mentre
l’effetto acquisitivo da parte dello Stato è solo effetto di
secondo grado.
Né può configurarsi un illecito aquiliano
dell’Amministrazione, se non nel limitato senso di
ipotizzare un diritto al risarcimento del danno da
occupazione illegittima temporanea (e cioè dall’inizio
dell’occupazione illegittima con trasformazione del bene
irreversibile sino alla rinuncia) ovvero ad altri ulteriori
pregiudizi da provarsi a cura della parte istante.
E’ invece palese che non può essere ricollegato al
comportamento illecito dell’Amministrazione il danno da
perdita della proprietà legato ad un atto meramente
dismissivo, posto che difetta il necessario nesso di
consequenzialità diretta imposto dall’art. 1223 c.c.
Si ribadisce infatti che la rinuncia (la cui sola natura è
abdicativa) è negozio unilaterale, con effetto dismissivo
automatico, che non può far sorgere un illecito in capo al
terzo acquirente a titolo originario (Stato ex art. 827
c.c.), né tanto meno a carico dell’ente espropriante, il cui
acquisto avviene semmai in base ad un autonomo titolo
provvedimentale (art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001).
Né possono trarsi argomenti dalla sentenza SS.UU. n. 735 del
2015 (atteso il generico riferimento alla rinuncia
abdicativa che suona più come immotivato obiter)
ovvero alla decisione della
Adunanza plenaria n. 2 del 2016, nella quale la
menzione della rinuncia abdicativa sembra da interpretarsi
solo quale evento che, in linea astratta e generale, pone
fine all’illecito permanente (si rinuncia al diritto e
dunque cessa evidentemente la lesione del diritto stesso) ma
non certo come vicenda giuridica che attribuisce
direttamente il bene all’Amministrazione a fronte del
versamento del controvalore.
Ciò sarebbe possibile, astrattamente, solo all’esito di una
vicenda traslativa, che nulla ha a che vedere con l’istituto
della rinuncia e che assume i contorni di una fattispecie
complessa di natura contrattuale; inammissibile tuttavia,
laddove tesa a poggiarsi sul medio di una pronuncia
giudiziaria che accerti la cessione del bene dal privato
alla P.A..
La funzione giudiziaria diverrebbe invero strumento
ancillare rispetto all’esercizio di facoltà discrezionali
del privato nonché rispetto ad una forma di circolazione del
bene, invero inaudita, che porrebbe per altro serie
criticità nei rapporti coi terzi.
Invero, ribadisce il Tar, dalla illegittima ablazione di un
immobile per effetto di un procedimento espropriativo non
conclusosi con un regolare e tempestivo decreto di esproprio
sorge dunque (al di là dell’unica ipotesi alternativa
costituita dalla possibilità di un contratto traslativo
ovvero di un accordo transattivo), unicamente, l’obbligo per
l’Amministrazione di sanare la situazione di illecito
venutasi a creare, restituendo il terreno con la
corresponsione del dovuto risarcimento per il periodo di
illegittima occupazione temporanea ovvero, in via
subordinata, adottando il decreto di acquisizione sanante ex
art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 e versando il relativo
indennizzo/risarcimento secondo i parametri ivi disciplinati
(TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 12.05.2017 n. 438
- commento tratto da e link a
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APPALTI:
Illegittimo subentro nel Raggruppamento temporaneo
aggiudicatario.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese – Modifiche soggettive – Contratto
d’affitto di ramo d’azienda – Mancanza di elementi del
contratto d’affitto di ramo d’azienda – Conseguenza -
Illegittimità del subentro.
E' illegittimo, per violazione degli
artt. 38 e 51 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, il subentro a
catena nell’appalto di due imprese a quella facente parte
del raggruppamento temporaneo che aveva partecipato alla
gara, risultandone aggiudicatario a seguito di ripetuti,
successivi, provvedimenti in autotutela, qualora l'impresa
originaria fosse in stato di decozione fin dal momento della
presentazione dell'offerta, in ragione dell'accertata
strumentalità del subentro e della inqualificabilità dello
stesso in termini di affitto di ramo d'azienda (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar, richiamando un proprio precedente in
termini (08.04.2016, n. 191), che il principio generale
fissato dall'ordinamento è quello dell'immutabilità dei
raggruppamenti dopo la presentazione dell'offerta (art. 37,
comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006), principio il quale trova,
nel successivo art. 51, una deroga affatto parziale e
limitata, poiché l'imprenditore subentrante, secondo quanto
la disposizione stabilisce, deve possedere, nel complesso,
gli stessi requisiti del subentrato. D’altra parte, la
cessione, per essere consentita, deve potersi riconoscere
come attinente ad una entità organica, capace di vita
economica propria, che l'affittuario deve gestire
conservando l'efficienza dell'organizzazione e degli
impianti, giusta artt. 2561 e 2562 c.c.: organizzazione e
impianti che, nella fattispecie posta all’esame del
Tribunale, concernono limitate posizioni, e sono comunque
certamente inidonei a configurare un autonomo organismo
imprenditoriale, capace di vita propria (TRGA
Trentino Alto Adige,
sentenza 12.05.2017 n. 170
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Importanti principi espressi dall’Adunanza plenaria in tema
di esecuzione del giudicato ed esecuzione in forma
specifica.
---------------
•
Processo amministrativo – Giudicato – Riconoscimento
fondatezza pretesa sostanziale – Successivo esercizio del
potere – In carenza di discrezionalità – Conseguenza.
•
Processo
amministrativo – Giudicato – Obbligazione nascente dal
giudicato – Esecuzione in forma specifica – Impossibilità
sopravvenuta – Conseguenza.
•
Giurisdizione -
Giudicato – Esecuzione in forma specifica – Impossibilità
sopravvenuta – Domanda rivolta ad altra parte privata
beneficiaria del provvedimento illegittimo – Giurisdizione
Ago.
•
Risarcimento
danni – Contratti della Pubblica amministrazione –
Aggiudicazione – Illegittima mancata aggiudicazione - Lucro
cessante – Individuazione.
•
Risarcimento
danni – Contratti della Pubblica amministrazione –
Aggiudicazione – Illegittima mancata aggiudicazione –
Mancato utile – Spettanza - Condizione.
•
Dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza
della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di
discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce
ex lege, in capo all’amministrazione, un’obbligazione, il
cui oggetto consiste nel concedere “in natura” il bene della
vita di cui è stata riconosciuta la spettanza.
•
L’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma
specifica dell’obbligazione nascente dal giudicato –che dà
vita in capo all’amministrazione ad una responsabilità
assoggettabile al regime della responsabilità di natura
contrattuale, che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone
peraltro ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina
civilistica– non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex
lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria,
avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della
vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della
esecuzione in forma specifica; l’insorgenza di tale
obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza
originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre
che dell’antigiuridicità della condotta.
•
In base agli artt. 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice
amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie
nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un
soggetto ad essa equiparato, con la conseguenza che la
domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità
di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato
proponga nei confronti dell’altra parte privata,
beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula
dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
•
Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al
lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo,
che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa
avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno
c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa
a causa del mancato arricchimento del curriculum e
dell’immagine professionale per non poter indicare in esso
l’avvenuta esecuzione dell’appalto).
Spetta, in ogni caso, all’impresa danneggiata offrire, senza
poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa
dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse
risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo opera con
pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.),
e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod.
civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di
impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova
sull’ammontare del danno.
•
Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di
annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza
dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo
dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a
disposizione in vista della commessa. In difetto di tale
dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia
riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per
altri lavori, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum
(1).
---------------
(1) La sentenza ha pronunciato sull’ottemperanza della sentenza del
Cons. St., A.P., 29.02.2016, n. 6 (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 12.05.2017 n. 2
- commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA: Le
contravvenzioni in materia antisismica possono
essere commesse da
chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del
preavviso e del deposito
dei progetti e degli allegati tecnici e della richiesta al
compente ufficio tecnico
regionale, sicché, pur non trattandosi di un reato proprio
del proprietario, la
configurazione giuridica dello stesso può esser inquadrata
in quelli a soggettività
ristretta, giacché, oltre che da questi, può esser commesso
dal committente, dal
titolare della concessione edilizia ed, in genere, da chi ha
la disponibilità
dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da quei
soggetti che esplicano
attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione senza
accertarsi degli intervenuti
adempimenti e, come tale, non è esonerato automaticamente da
responsabilità
per la presenza di un direttore dei lavori.
In tale contesto, in materia di violazioni della legge
antisismica il proprietario delle
opere risponde, anche se abbia incaricato altra persona,
della omessa
presentazione al competente ufficio del progetto della
costruzione e degli
allegati, poiché, quale destinatario della predetta
normativa, ha l'obbligo
precipuo di accertarsi dell'avvenuto adempimento.
Ne consegue che il
proprietario non è esente
da responsabilità per la violazione delle contravvenzioni
antisismiche nel caso di
affidamento a terzi della committenza e/o esecuzione delle
opere.
----------------
1. Con sentenza in data 02.09.2016, il Tribunale di
Caltagirone, previa dichiarazione di estinzione del reato di
cui all'art. 110 cod. pen. e 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del
2001, per essere lo stesso estinto per rilascio di
concessione edilizia in sanatoria, ha condannato -per quanto
qui di rilievo- Co.An. alla pena di € 350,00 di ammenda
in relazione alla violazione degli artt. 93, 94 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 per avere omesso di dare preavviso,
alle competenti autorità, della denuncia di inizio dei
lavori e di deposito dei progetti. Accertato in Caltagirone
il 23/06/2009.
...
5. Ciò posto, nel merito il motivo di ricorso è infondato.
Con riferimento al primo profilo, questa Corte ha
ripetutamente affermato che le
contravvenzioni in materia antisismica in oggetto possono
essere commessa da
chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del
preavviso e del deposito
dei progetti e degli allegati tecnici e della richiesta al
compente ufficio tecnico
regionale, sicché, pur non trattandosi di un reato proprio
del proprietario, la
configurazione giuridica dello stesso può esser inquadrata
in quelli a soggettività
ristretta, giacché, oltre che da questi, può esser commesso
dal committente, dal
titolare della concessione edilizia ed, in genere, da chi ha
la disponibilità
dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da quei
soggetti che esplicano
attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione senza
accertarsi degli intervenuti
adempimenti e, come tale, non è esonerato automaticamente da
responsabilità
per la presenza di un direttore dei lavori.
In tale contesto è stato precisato, per quanto qui di
rilievo in connessione con la
censura, che in materia di violazioni della legge
antisismica il proprietario delle
opere risponde, anche se abbia incaricato altra persona,
della omessa
presentazione al competente ufficio del progetto della
costruzione e degli
allegati, poiché, quale destinatario della predetta
normativa, ha l'obbligo
precipuo di accertarsi dell'avvenuto adempimento (Sez. 3, n.
4578 del
11/02/1986, Ferrara, Rv. 172892).
Ne consegue che il
proprietario non è esente
da responsabilità per la violazione delle contravvenzioni
antisismiche nel caso di
affidamento a terzi della committenza e/o esecuzione delle
opere.
La sentenza impugnata risulta correttamente motivata e la
condanna fondata
sulla qualifica di proprietaria soggetto destinatario degli
obblighi informativi
sanzionati dall'art. 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 a nulla
rilevando che costei non
fosse committente e/o esecutrice dei lavori compiuti da
terzi
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2017 n. 22281). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dichiarazione di ultimazione dei lavori – Efficacia
probatoria – Termini per l’impugnazione del titolo da parte
del terzo.
La dichiarazione sostitutiva rilasciata
dal direttore dei lavori ai sensi degli artt. 47 e 76 d.p.r.
n. 445/2000, sebbene non costituisca elemento probatorio
dirimente in ordine alla data di ultimazione dei lavori,
rappresenta un importante elemento di valutazione che,
unitamente ad altri elementi, anche indiziari, possono
indurre a determinare la data di decorrenza del termine per
l’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo
(Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 05.05.2017 n. 2063
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione
ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione
all'insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista,
senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona
interessata alla trasformazione urbanistica e
indipendentemente dalla concreta utilità che il
concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e
dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse.
Tale obbligazione nasce poi nel momento del rilascio del
titolo per costruire ed è a tale momento che occorre aver
riguardo per la determinazione dell'entità del contributo.
--------------
9.2.2. Come rilevato pacificamente dalla giurisprudenza,
infatti, il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione
ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione
all'insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista,
senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona
interessata alla trasformazione urbanistica e
indipendentemente dalla concreta utilità che il
concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e
dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse.
Tale obbligazione nasce poi nel momento del rilascio del
titolo per costruire ed è a tale momento che occorre aver
riguardo per la determinazione dell'entità del contributo (ex
multis, Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2015, n. 5412)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.05.2017 n. 2055 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: La
domanda di accesso deve essere accolta anche con riguardo
agli esposti e alle segnalazioni dalle quali ha preso avvio
l’attività amministrativa che ha dato luogo agli addebiti
contestati alla parte ricorrente, in quanto l’ordinamento
non “tollera le denunce segrete e colui il quale subisce un
procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse
qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti
amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di
vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di
preiniziativa, quali, appunto, denunce o esposti” dato che,
ove sussistenti, eventuali esigenze di riservatezza a tutela
dello sviluppo dell’istruttoria possono trovare riscontro in
un eventuale breve differimento del diritto di accesso.
---------------
In materia di accesso la qualità di controinteressato, ai
sensi dell'art. 22, comma 1, lett. c), legge 07.08.1990, n.
241, come modificato dall'articolo 15, comma 1, della legge
11.02.2005, n. 15 (per il quale per "controinteressati" si
intendono "tutti i soggetti, individuati o facilmente
individuabili in base alla natura del documento richiesto,
che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il
loro diritto alla riservatezza"), non è riconosciuta più a
tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o
comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza
ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell'ostensione
vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza,
ed una tale evenienza non è configurabile in capo alle
aziende vinicole.
Infatti in materia di rilascio dei titoli edilizi esistono
specifiche disposizioni di legge e regolamentari che, sulla
scorta della nota disposizione di cui all'art. 31 della
legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dalla legge
06.08.1967, n. 765, prevedono un regime di pubblicità molto
più esteso di quello contemplato dalla legge 07.08.1990, n.
241, riscontrabile nell'art. 20, comma 6, del DPR
06.06.2001, n. 380, nella parte in cui stabilisce che
dell'avvenuto rilascio di un titolo edilizio va dato avviso
all'albo pretorio che è funzionale a consentire a qualsiasi
soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento
in ragione di quel controllo "diffuso" sull'attività
edilizia che il legislatore ha inteso garantire e che è
espressamente contemplato nell'art. 27, comma 3, del DPR
06.06.2001, n. 380.
---------------
Benché nella domanda non vi sia una specifica menzione degli
atti di cui è richiesta l’ostensione, nondimeno in base agli
elementi offerti dall’istante (che chiede di visionare le
pratiche edilizie inerenti gli interventi di ampliamento
delle tre aziende vinicole univocamente identificate in base
all’ubicazione della loro sede) è possibile individuare i
documenti richiesti senza che ciò implichi lo svolgimento di
un’attività di ricerca o di elaborazione dati dal parte del
Comune, e non può ritenersi che costituisca un onere del
richiedente l'esatta indicazione dei dati identificativi di
ciascun documento di cui è chiesto l’accesso trattandosi di
elementi che ordinariamente non sono nell' ordinaria
disponibilità e cognizione del privato.
---------------
Quanto all’insussistenza di un interesse concreto ed attuale
all’ostensione dedotto dal Comune perché ormai è decorso il
termine per l’eventuale impugnazione degli atti di cui è
chiesto l’accesso che disvelerebbe la volontà di svolgere un
controllo generalizzato sull’operato del Comune, vi è da
osservare che non spetta all’Amministrazione ingerirsi
nell’apprezzamento dell’effettiva e concreta utilità che
l’istante intende trarre dalla domanda di accesso che
compete al solo interessato, dovendosi la stessa limitarsi
ad un giudizio estrinseco sull'esistenza di un legittimo e
differenziato bisogno di conoscenza in capo a chi richiede i
documenti che nella fattispecie sussiste, atteso che la
parte ricorrente ha rappresentato la necessità di verificare
la correttezza o meno degli oneri e contributi dalla stessa
versati in occasione dell’ampliamento del proprio
stabilimento, la cui eventuale restituzione può essere
richiesta, come è noto, nel termine ordinario di
prescrizione, e ciò integra un interesse attuale e
giuridicamente rilevante utile alla difesa della propria
posizione soggettiva.
---------------
La ricorrente è proprietaria di uno stabilimento enologico
denominato “Bo.Ro.Sv.” nel Comune di Soave, in cui
periodicamente svolge delle serate di promozione dei propri
prodotti.
Il Comune con comunicazioni prot. n. 12974 del 15.09.2015, e
prot. n. 3938 del 03.03.2016, ha contestato il superamento
dei valori di immissione acustica dovuto alla rumorosità dei
predetti eventi di promozione dei prodotti, e con nota prot.
n. 11269 del 29.06.2016, ha contestato l’esercizio abusivo
dell’attività temporanea di somministrazione di alimenti e
bevande.
La ricorrente con domanda dell’11.07.2016 in relazione a
tali addebiti ha presentato un’istanza di accesso volta a
visionare ed estrarre copia di tutta la documentazione
afferente a tali contestazioni per tutelare i propri diritti
ed interessi.
La ricorrente espone altresì di aver stipulato con il Comune
una convenzione urbanistica per l’ampliamento e la
ristrutturazione del proprio stabilimento sito in viale
Vittoria, e di aver maturato dei dubbi circa la correttezza
degli oneri posti a suo carico rispetto ad analoghi
interventi edilizi svolti da soggetti svolgenti la medesima
attività.
Con domanda del 12.07.2016, la ricorrente ha quindi chiesto
di poter accedere alla documentazione amministrativa
(convenzioni, permessi di costruire pareri ecc.) relativa
alle pratiche edilizie urbanistiche di realizzazione ed
ampliamento di stabilimenti enologici siti in via
Circonvallazione, in località Monti (nel prosieguo di via
Matteotti) e in località Monte Tondo, specificando che la
conoscenza di tale documentazione è necessaria per
effettuare un confronto tra tali posizioni e la pratica
urbanistica conclusasi con la stipula in data 21.01.2016
della convenzione urbanistica tra la ricorrente ed il Comune
per l’ampliamento del proprio stabilimento, al fine di
potersi eventualmente tutelare nelle opportune sedi.
Il Comune non ha risposto alle istanze e la ricorrente con
il ricorso in epigrafe chiede sia dichiarata l’illegittimità
del silenzio diniego ed ordinata l’esibizione dei documenti
richiesti.
Si è costituito in giudizio il Comune di Soave eccependo
l’inammissibilità del ricorso relativamente alla prima
richiesta di accesso agli atti, in quanto il Comune prima
della proposizione dell’atto introduttivo del giudizio ha
manifestato la propria disponibilità a consentire l’accesso
agli atti richiesti, e l’inammissibilità e l’infondatezza
del ricorso relativamente alla seconda domanda, perché il
ricorso non è stato notificato ai controinteressati, e la
domanda di accesso è generica perché non individua né i
titolari delle pratiche edilizie cui si riferisce, né in
modo puntuale gli atti di cui è chiesta l’ostensione, e deve
comunque essere respinta perché volta a svolgere un
inammissibile controllo generalizzato sull’attività
dell’ente, non essendo sorretta da un concreto interesse in
quanto sono già spirati i termini per un eventuale ricorso
di tipo impugnatorio volto ad ottenere l’annullamento degli
atti relativi alle pratiche edilizie rispetto alle quali è
richiesto l’accesso.
Alla Camera di consiglio del 13.04.2017, la causa è stata
trattenuta in decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto relativamente ad
entrambe le domande di accesso.
Quanto alla prima istanza di accesso deve essere
respinta l’eccezione di inammissibilità motivata con
riferimento alla circostanza che l’Amministrazione si è resa
disponibile ad esibire i documenti richiesti prima ancora
della proposizione del ricorso.
Infatti come è stato chiarito nel corso del giudizio, tale
disponibilità non è satisfattiva delle richieste della
ricorrente, perché limitata ai documenti di cui la stessa è
già in possesso, ed il Comune ritiene invece non ostensibili
gli esposti e le segnalazioni che la ricorrente intende
invece conoscere.
Sul punto il Collegio osserva che la domanda di accesso deve
essere accolta anche con riguardo agli esposti e alle
segnalazioni dalle quali ha preso avvio l’attività
amministrativa che ha dato luogo agli addebiti contestati
alla parte ricorrente, in quanto l’ordinamento non “tollera
le denunce segrete e colui il quale subisce un procedimento
di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a
conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi
utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a
cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa,
quali, appunto, denunce o esposti” dato che, ove
sussistenti, eventuali esigenze di riservatezza a tutela
dello sviluppo dell’istruttoria possono trovare riscontro in
un eventuale breve differimento del diritto di accesso (cfr.
Tar Lombardia, Brescia, 12.07.2016, n. 980; Tar Lazio, Roma,
Sez. II, 10.09.2015 n. 11188; Consiglio di Stato, Sez. V,
19.05.2009, n. 3081; Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.06.2007
n. 3601).
Per quanto concerne la seconda istanza di accesso il
Collegio osserva quanto segue.
Deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità del
ricorso perché non notificato ai controinteressati, atteso
che in materia di accesso la qualità di controinteressato,
ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. c), legge 07.08.1990,
n. 241, come modificato dall'articolo 15, comma 1, della
legge 11.02.2005, n. 15 (per il quale per "controinteressati"
si intendono "tutti i soggetti, individuati o facilmente
individuabili in base alla natura del documento richiesto,
che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il
loro diritto alla riservatezza"), non è riconosciuta più
a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o
comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza
ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell'ostensione
vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.06.2016, n. 2863; Tar
Puglia, Bari, Sez. III, 09.04.2015, n. 572; Tar Veneto, Sez.
III, 12.12.2008, n. 3840), ed una tale evenienza non è
configurabile in capo alle aziende vinicole.
Infatti in materia di rilascio dei titoli edilizi esistono
specifiche disposizioni di legge e regolamentari che, sulla
scorta della nota disposizione di cui all'art. 31 della
legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dalla legge
06.08.1967, n. 765, prevedono un regime di pubblicità molto
più esteso di quello contemplato dalla legge 07.08.1990, n.
241, riscontrabile nell'art. 20, comma 6, del DPR
06.06.2001, n. 380, nella parte in cui stabilisce che
dell'avvenuto rilascio di un titolo edilizio va dato avviso
all'albo pretorio che è funzionale a consentire a qualsiasi
soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento
in ragione di quel controllo "diffuso" sull'attività
edilizia che il legislatore ha inteso garantire e che è
espressamente contemplato nell'art. 27, comma 3, del DPR
06.06.2001, n. 380.
Anche le ulteriori eccezioni sollevate dal Comune sono
infondate, in quanto, benché nella domanda non vi sia una
specifica menzione degli atti di cui è richiesta
l’ostensione, nondimeno in base agli elementi offerti
dall’istante (che chiede di visionare le pratiche edilizie
inerenti gli interventi di ampliamento delle tre aziende
vinicole univocamente identificate in base all’ubicazione
della loro sede) è possibile individuare i documenti
richiesti senza che ciò implichi lo svolgimento di
un’attività di ricerca o di elaborazione dati dal parte del
Comune, e non può ritenersi che costituisca un onere del
richiedente l'esatta indicazione dei dati identificativi di
ciascun documento di cui è chiesto l’accesso trattandosi di
elementi che ordinariamente non sono nell' ordinaria
disponibilità e cognizione del privato (cfr. Consiglio di
Stato, Se. VI, 07.04.2010, n. 1962).
Quanto all’insussistenza di un interesse concreto ed attuale
all’ostensione dedotto dal Comune perché ormai è decorso il
termine per l’eventuale impugnazione degli atti di cui è
chiesto l’accesso che disvelerebbe la volontà di svolgere un
controllo generalizzato sull’operato del Comune, vi è da
osservare che non spetta all’Amministrazione ingerirsi
nell’apprezzamento dell’effettiva e concreta utilità che
l’istante intende trarre dalla domanda di accesso che
compete al solo interessato, dovendosi la stessa limitarsi
ad un giudizio estrinseco sull'esistenza di un legittimo e
differenziato bisogno di conoscenza in capo a chi richiede i
documenti (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez.
V, 12.02.2013, n. 793) che nella fattispecie sussiste,
atteso che la parte ricorrente ha rappresentato la necessità
di verificare la correttezza o meno degli oneri e contributi
dalla stessa versati in occasione dell’ampliamento del
proprio stabilimento, la cui eventuale restituzione può
essere richiesta, come è noto, nel termine ordinario di
prescrizione, e ciò integra un interesse attuale e
giuridicamente rilevante utile alla difesa della propria
posizione soggettiva.
In definitiva pertanto il ricorso va accolto dovendosi
dichiarare il diritto di accedere agli atti oggetto di
entrambe le istanze nei termini sopra indicati e l’obbligo
per l’Amministrazione comunale di renderli disponibili
mediante estrazione di copia degli stessi
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.05.2017 n. 451 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di appalto, le variazioni di cui all'art. 1660 cod.
civ. sono quelle non previste nel progetto, ma rese
necessarie dall'esecuzione dell'opera; ove si tratti di
variazioni strettamente necessarie alla realizzazione a
regola d'arte dell'opera commessa in appalto, deve ritenersi
consentito all'appaltatore darvi esecuzione senza preventiva
autorizzazione del committente, ma in tal caso, in mancanza
di accordo fra le parti, spetta al giudice accertare la
detta necessità delle variazioni e determinare il
corrispettivo delle relative opere, parametrandolo ai prezzi
unitari previsti nel preventivo ovvero ai prezzi di mercato
correnti.
---------------
Sotto il secondo profilo, relativo alla mancata
comunicazione della necessità di opere aggiuntive, i giudici
di appello -nel ritenere che il pagamento delle opere
aggiuntive eseguite è dovuto indipendentemente dal fatto che
l'appaltatore ne abbia avvertito il committente- si sono
conformati alla giurisprudenza di questa Suprema Corte
richiamata nella sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. 1, n.
349 del 29/01/1966) e il ricorrente non ha fornito argomenti
validi per mutare orientamento.
Va in proposito ricordato che la diligenza
nell'adempimento, cui è tenuto ogni debitore ai sensi
dell'art. 1176, primo comma, cod. civ., si connota in modo
peculiare per l'appaltatore, assumendo costui
un'obbligazione di risultato (e non di mezzi) ed essendo
pertanto tenuto a realizzare l'opera a regola d'arte,
osservando, nell'esecuzione della prestazione, la diligenza
qualificata ai sensi dell'art. 1176, 2° comma, cod. civ.
quale modello astratto di condotta, che si estrinseca (sia
egli professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo
tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente
ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla
natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della
prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse
creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi.
Sul punto, va ricordato che la giurisprudenza di questa
Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, ha
statuito che la responsabilità
dell'appaltatore per i vizi dell'opera sussiste ancorché
tali vizi siano riconducibili ad una condizione posta in
essere da un terzo (come nel caso in cui egli sia chiamato
ad eseguire un progetto predisposto dal committente),
essendo l'appaltatore tenuto verso il committente -per aver
assunto un'obbligazione di risultato e non di mezzi- a
realizzare l'opera a regola d'arte e rispondendo anche per
le condizioni imputabili allo stesso committente o a terzi
se, conoscendole o potendole conoscere con l'ordinaria
diligenza, non le abbia segnalate all'altra parte, né abbia
adottato gli accorgimenti opportuni per far conseguire il
risultato utile, salvo che, in relazione a tale situazione,
ottenga un espresso esonero di responsabilità
(Cass., Sez. 2, n. 10927 del 18/05/2011).
Si è affermato perciò che l'appaltatore,
anche laddove si attenga alle previsioni del progetto
altrui, può comunque essere ritenuto responsabile per i vizi
dell'opera se, nell'eseguire fedelmente il progetto e le
indicazioni ricevute, non segnali eventuali carenze ed
errori, giacché la prestazione da lui dovuta implica anche
il controllo e la correzione degli eventuali errori del
progetto, mentre egli va esente da responsabilità laddove il
committente, pur reso edotto delle carenze e degli errori,
gli richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o gli
ribadisca le indicazioni, in tale ipotesi risultando
l'appaltatore stesso ridotto a mero nudus minister, cioè
passivo strumento nelle mani del primo, direttamente e
totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza
possibilità di iniziativa o vaglio critico
(Cass., Sez. 2, n. 1981 del 02/02/2016; Sez. 1, n. 22036 del
17/10/2014; Sez. 2, n. 10927 del 18/05/2011; Sez. 3, n.
12995 del 31/05/2006).
Pertanto, ove l'appaltatore non fornisca la
prova di aver manifestato al committente il proprio dissenso
dalle previsioni progettuali per gli errori in esse
contenuti e di essere stato cionondimeno indotto ad
eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze
del committente ed a rischio di quest'ultimo, egli è tenuto,
a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua
obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le
imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il
concorso di colpa del progettista o del committente, né
l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni
impartite dal direttore dei lavori
(Cass., Sez. 2, n. 8016 del 21/05/2012).
In altri termini, l'obbligazione di
risultato assunta dall'appaltatore (salvo il caso in cui lo
stesso operi quale mero nudus minister) implica che
egli osservi comunque i criteri generali della tecnica
relativi al particolare lavoro affidatogli e sia obbligato a
controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del
progetto o delle istruzioni impartite dal committente,
essendo responsabile nei confronti di quest'ultimo per i
vizi dell'opera ove le previsioni progettuali siano
palesemente errate.
Questo è il senso della previsione di cui all'art. 1160 cod.
civ., secondo cui «Se per l'esecuzione dell'opera a
regola d'arte, è necessario apportare variazioni al progetto
e le parti non si accordano, spetta al giudice di
determinare le variazioni da introdurre e le correlative
variazioni del prezzo».
Quando si tratti di variazioni al progetto strettamente
necessarie alla realizzazione a regola d'arte dell'opera
commessa in appalto, deve ritenersi consentito
all'appaltatore darvi esecuzione senza preventiva
autorizzazione del committente (in tal senso, (Cass., Sez.
1, n. 349 del 29/01/1966). In tal caso, in mancanza di
accordo fra le parti, spetterà al giudice accertare la
necessità delle variazioni e determinare il corrispettivo di
tali lavori, parametrandolo ai prezzi unitari previsti nel
preventivo ovvero ai prezzi di mercato correnti.
Sul punto va enunciato, ai sensi dell'art 384 primo comma,
cod. proc. civ., il seguente principio di diritto: «In
tema di appalto, le variazioni di cui all'art. 1660 cod.
civ. sono quelle non previste nel progetto, ma rese
necessarie dall'esecuzione dell'opera; ove si tratti di
variazioni strettamente necessarie alla realizzazione a
regola d'arte dell'opera commessa in appalto, deve ritenersi
consentito all'appaltatore darvi esecuzione senza preventiva
autorizzazione del committente, ma in tal caso, in mancanza
di accordo fra le parti, spetta al giudice accertare la
detta necessità delle variazioni e determinare il
corrispettivo delle relative opere, parametrandolo ai prezzi
unitari previsti nel preventivo ovvero ai prezzi di mercato
correnti».
Avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione di
tale principio, il motivo in esame risulta infondato
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.05.2017 n. 10891). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
Corte costituzionale giudica legittimo il termine
decadenziale di 120 giorni, per la proposizione della
domanda risarcitoria autonoma.
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Giustizia
amministrativa – Codice del processo amministrativo -
Domanda risarcitoria autonoma – Termine decadenziale di 120
giorni – Questione infondata di costituzionalità
È infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 30, comma 3, del d.lgs. 02.07.2010,
n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18.06.2009,
n. 69, recante delega al governo per il riordino del
processo amministrativo), nella parte in cui stabilisce che
la «domanda di risarcimento per lesione di interessi
legittimi è proposta entro il termine di decadenza di
centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è
verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il
danno deriva direttamente da questo», sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111,
primo comma, 113, primo e secondo comma, e 117, primo comma,
della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 47
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
proclamata a Nizza il 12.12.2000, e agli artt. 6 e 13 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (1).
---------------
(1) I.- Con la sentenza in epigrafe, la Consulta ha respinto le
questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar
per il Piemonte (cfr. sez. II, ordinanza 17.12.2015 n. 1747)
con riferimento alla disciplina del codice del processo
amministrativo, nella parte in cui è stato introdotto un
ristretto termine decadenziale per l’esercizio dell’azione
risarcitoria autonoma nei confronti della p.a.; tale
previsione, secondo l’ordinanza di rimessione, potrebbe
configurare un privilegio per la pubblica amministrazione
responsabile di un illecito, con ciò risultando in contrasto
con il principio del giusto processo e con quelli in tema di
effettività della tutela, nonché (per il tramite dell’art.
117, primo comma, della Costituzione) con il diritto ad un
processo equo e ad un ricorso effettivo sancito dall’art. 47
della Carta dei diritti UE e dagli artt. 6 e 13 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
II.- Con la sentenza in epigrafe la Consulta respinge i
diversi profili dedotti.
In primo luogo, in relazione al principio di
ragionevolezza, secondo la Consulta la previsione del
termine di decadenza per l’esercizio dell’azione
risarcitoria non può ritenersi il frutto di una scelta
viziata da manifesta irragionevolezza, ma costituisce
l’espressione di un coerente bilanciamento dell’interesse
del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di
agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con
eliminazione della regola della pregiudizialità), con
l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire
in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico
amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria,
secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben
conosciuta anche in diritto privato (art. 2377, sesto comma,
del codice civile). La ragionevolezza emerge anche a fronte
del bilanciamento operato con l’interesse, di rango
costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche
amministrazioni (artt. 81, 97 e 119 Cost.) e di non esporli,
a distanza rilevante di tempo, a continue modificazioni
incidenti sulla coerenza e sull’efficacia dell’azione
amministrativa.
In secondo luogo, in relazione al principio di
uguaglianza, la Consulta esclude la sussistenza del
presupposto dell’identità di situazioni. Infatti, alla
necessità che davanti al giudice amministrativo sia
assicurata al cittadino la piena tutela, anche risarcitoria,
non consegue che detta tutela debba essere del tutto analoga
all’azione risarcitoria del danno da lesione di diritti
soggettivi.
In terzo luogo, in relazione all’introduzione di un
termine breve per l’esercizio della difesa ex artt. 24 e 113
Cost., secondo la Consulta il termine di centoventi giorni è
significativamente più lungo di molti dei termini
decadenziali previsti dal legislatore sia nell’ambito
privatistico che in quello pubblicistico, e per ciò solo non
può dirsi in alcun modo inidoneo a rendere la tutela
giurisdizionale effettiva.
Infine, in merito ai parametri di ordine sovranazionale,
mentre il principio di equivalenza è rispettato in quanto la
norma censurata riguarda sia la posizione dei titolari di
posizioni giuridiche fondate sul diritto dell’Unione sia i
titolari di posizioni giuridiche fondate sul diritto
interno, per ciò che concerne il principio di effettività,
il termine di centoventi giorni, di per sé ed in assenza di
problemi legati alla conoscibilità dell’evento dannoso, non
rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico
dell’Unione.
III.- In materia di azione risarcitoria davanti al G.A.
vanno richiamati gli orientamenti già espressi dalla
Consulta e dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in
particolare:
a) Corte cost., sentenza 12.12.2012, n. 280, in Foro it., 2013, I,
1065 con nota di Travi (cui si rinvia per ogni ulteriore
riferimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui: “È
inammissibile, in quanto priva di rilevanza, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 30, 5º comma, cod. proc.
amm., nella parte in cui assoggetta a un termine di
decadenza di centoventi giorni la domanda di risarcimento
dei danni per lesione di interessi legittimi, in riferimento
agli art. 3, 24, 103 e 113 cost.”
b) Corte cost., sentenza 31.03.2015, n. 57, in Foro it., 2015, I,
3063 con nota di Travi (cui si rinvia per ogni ulteriore
riferimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui:
«È
manifestamente inammissibile la q.l.c. dell'art. 30, comma
5, d.lgs. 02.07.2010 n. 104, censurato, in riferimento agli
art. 3, 24, 103 e 113 cost., nonché all'art. 117, comma 1,
cost., in relazione all'art. 6 della convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali (Cedu), in quanto prevede che l'azione
risarcitoria per lesione di interessi legittimi (connessa a
quella di annullamento del provvedimento lesivo), ove non
formulata nel corso dello stesso giudizio di annullamento,
possa essere proposta "sino a centoventi giorni dal
passaggio in giudicato della relativa sentenza»; il
rimettente, nel presupporre che il denunciato art. 30, comma
5, si applichi, in ragione della sua natura processuale,
anche nel giudizio a quo, introdotto anteriormente
alla sua entrata in vigore, non ha tenuto conto della
disposizione di cui all'art. 2 del Titolo II dell'Allegato
3, la quale -nel prevedere che per i termini che sono in
corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a
trovare applicazione le norme previgenti- non è altrimenti
interpretabile che nel senso della sua riferibilità anche
all'ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual
è quello di prescrizione, ed un termine processuale
precedentemente non previsto, quale appunto il termine di
decadenza sub art. 30 censurato, risultando una diversa
lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo,
della sua riferibilità solo a termini processuali "in
corso”) innegabilmente contra constitutionem,
sicché il rimettente avrebbe dovuto avere riguardo al regime
di prescrizione quinquennale di diritto comune (art. 2947
c.c.) vigente al momento della proposizione dell'azione
risarcitoria; omissione, questa, che si risolve in una
carente motivazione sulla rilevanza della questione;
c) Cons. St., Ad. plen., sentenza 06.07.2015, n. 6, in Foro it.,
2015, III, 501 con nota di TRAVI (cui si rinvia per ogni
ulteriore riferimento di dottrina e giurisprudenza), secondo
cui: “Il termine decadenziale di centoventi giorni
previsto, per la domanda di risarcimento per lesione di
interessi legittimi, dall'art. 30, comma 3, c.p.a., non è
applicabile ai fatti illeciti anteriori all'entrata in
vigore del codice”.
IV.- Per completezza si segnala:
d) Tar Napoli, sez. III, 24.10.2016 n. 4866, secondo cui: “L'azione
risarcitoria ex art. 30, comma 3, c.p.a. di condanna
dell'Amministrazione al risarcimento da comportamento o
provvedimento illegittimo segue un regime processuale
diverso da quello dell'azione di risarcimento dei danni
connessi all'impossibilità o comunque alla mancata
esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del
giudicato, contemplata in seno al giudizio di ottemperanza
dall'art. 112, comma 3, c.p.a.. La prima soggiace, infatti,
a una differente disciplina processuale, sia in termini di
proposizione; sia sotto il rilevante profilo tipologico del
rito, che è quello ordinario, con i relativi tempi di
calendarizzazione e conseguente fissazione dell'udienza di
trattazione del merito (in dipendenza del ruolo e del
relativo carico) e di deposito della sentenza e non quello
celere e preferenziale dell'ottemperanza, trattata con il
rito camerale; sia per il diverso ammontare del contributo
unificato; sia sotto il considerevole aspetto del termine
decadenziale di proposizione sancito dall'art. 30, comma 3,
c.p.a., che, nel caso di specie, di azione non contestuale
al ricorso demolitorio, è di 120 giorni dal passaggio in
giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento
causativo del danno”
(Corte
Costituzionale, sentenza 04.05.2017 n.
94 -
commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Non si può negare che la parte lesa da un
comportamento disciplinarmente rilevante abbia un interesse
qualificato all’ostensione degli atti del relativo
procedimento; rilevano, in proposito, esigenze di tutela,
sia giudiziale che stragiudiziale, rinvenibili prima e
indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione
giudiziale, rispetto alle quali può essere utile acquisire
gli atti dell’istruttoria disciplinare.
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della
L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”, impone al giudice di accertare
se la conoscenza della documentazione amministrativa
richiesta è potenzialmente utilizzabile a fini di difesa,
giudiziale o stragiudiziale, di interessi giuridicamente
rilevanti.
Dunque, l’autonomia della domanda di accesso comporta che il
giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve
verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di
accesso, e non anche la ricevibilità, l’ammissibilità o la
rilevanza dei documenti richiesti rispetto al giudizio
principale, sia esso pendente o meno, purché, in chiave di
attualità e pertinenza dell’interessa alla pretesa
ostensiva, questi ultimi abbiano una qualche incidenza sulla
misura disciplinare.
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale
ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della
visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe
convincersi della correttezza dell'operato
dell’Amministrazione e rinunciare all'azione
giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.
---------------
1.1. La ricorrente, dipendente dell’Istituto scolastico
comprensivo “Moro Pascoli”, insorge avverso il
parziale diniego di accesso agli atti del procedimento
disciplinare a suo carico, da lei richiesto con istanza del
31.05.2016.
1.2. L’Istituto Scolastico, in effetti, riscontrava
l’istanza della ricorrente con una nota di reiezione (prot.
N. 80/ris.) relativamente agli atti di cui al n. 5
dell’istanza suddetta (“segnalazioni dei docenti e
genitori”), motivata sulla base del fatto che “nel
corredo motivazionale del provvedimento disciplinare
irrogato” non vi fosse alcun riferimento ai documenti di
cui si negava l’accesso.
1.3. Tale conclusione, viene censurata in questa sede per
violazione dell’art. 97 Cost., nonché per violazione degli
artt. 22 e 24, co. 7, della L. 241/1990.
1.4. L’Amministrazione, costituitasi in giudizio, difende il
proprio operato sostenendo che gli atti relativi alle
segnalazioni dei docenti e genitori non hanno avuto alcuna
valenza istruttoria nel procedimento disciplinare; inoltre,
e più in generale, si denuncia l’assenza di un interesse
giuridicamente rilevante della ricorrente ad ottenere
l’ostensione degli atti in discorso.
2.1 Il ricorso è infondato e va respinto per le ragioni che
seguono.
2.2. Non si può negare che la parte lesa da un comportamento
disciplinarmente rilevante abbia un interesse qualificato
all’ostensione degli atti del relativo procedimento;
rilevano, in proposito, esigenze di tutela, sia giudiziale
che stragiudiziale, rinvenibili prima e indipendentemente
dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale, rispetto
alle quali può essere utile acquisire gli atti
dell’istruttoria disciplinare (cfr. Cons. St., sez. V,
23.02.2010, n. 1067).
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della
L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito
ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”, impone al giudice di
accertare se la conoscenza della documentazione
amministrativa richiesta è potenzialmente utilizzabile a
fini di difesa, giudiziale o stragiudiziale, di interessi
giuridicamente rilevanti.
Dunque, l’autonomia della domanda di accesso comporta che il
giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve
verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di
accesso, e non anche la ricevibilità, l’ammissibilità o la
rilevanza dei documenti richiesti rispetto al giudizio
principale, sia esso pendente o meno, purché, in chiave di
attualità e pertinenza dell’interessa alla pretesa
ostensiva, questi ultimi abbiano una qualche incidenza sulla
misura disciplinare (cfr. Cons. St., sez. III, 13.01.2012,
n. 116).
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale
ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della
visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe
convincersi della correttezza dell'operato
dell’Amministrazione e rinunciare all'azione
giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.
2.3. Orbene, nel caso di specie, gli atti di cui si è negato
l’accesso non solo non sono stati posti alla base del
procedimento disciplinare, non contribuendo in alcun modo
alla formazione della volontà amministrativa,
concretizzatasi nel provvedimento emanato all’esito del
procedimento; ma, come emerso dalla disposta istruttoria e
dal chiarimento in tal senso reso dall’amministrazione
resistente in un’ottica di autoresponsabilità e
collaborazione processuale, indicati solo in sede di
contestazione in quanto afferenti il generale sistema di
organizzazione dei rapporti tra docenza e discenza, senza
alcuna specifica incidenza sulla vicenda de qua.
Ne consegue che deve escludersi che la ricorrente abbia un “interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata” alla conoscenza di
tali atti di carattere pianificatorio-programmatorio (art.
24, 1° co., lett. c L. 241/1990) e in nessun modo incidenti
sullo sviluppo concreto del procedimento disciplinare.
3.1. Il ricorso deve quindi essere respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 03.05.2017 n. 2371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Indicazione
degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice dei contratti
pubblici.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Indicazione degli oneri di sicurezza c.d. aziendali o
interni - Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Necessità – Mancata indicazione – Esclusione dalla gara.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Indicazione degli oneri di sicurezza c.d. aziendali o
interni - Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Necessità – Mancata indicazione - Soccorso istruttorio –
Esclusione.
● Ai sensi dell’art. 95, comma 10,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, l’indicazione nell’offerta
economica degli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni
si prefigura quale obbligo ineludibile di legge, cosicché
legittimamente è disposta l’esclusione del concorrente la
cui offerta ne sia priva, senza che possa rilevare che gli
atti di gara non contengano un’espressa previsione di
esclusione, trattandosi di obbligo discendente dalla norma
primaria ed operando quindi il meccanismo dell’eterointegrazione
(1).
● Il concorrente che ha omesso di indicare nell’offerta
economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni
non può invocare il c.d. soccorso istruttorio, ammesso dalla
giurisprudenza per le gare bandite anteriormente all’entrata
in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e non
applicabile in presenza dell’espressa previsione di legge e
trattandosi di elemento essenziale dell’offerta.
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che non è conferente l’ordinanza della
Corte di giustizia (sez. VI) del 10.11.2016, trattandosi di
decisione emessa nei riguardi della normativa previgente ed
in relazione alla Direttiva abrogata 2004/18 (come
esplicitato ai punti 21, 22 e 23 dell’ordinanza nella causa
C-697/15). Difatti, in relazione al regime antecedente, la
Corte di giustizia ha ritenuto contrastante con il principio
della parità di trattamento e con l’obbligo di trasparenza
l’esclusione per omessa separata indicazione nell’offerta
dei costi aziendali, la quale sia frutto di
un’interpretazione e non risulti espressamente, oltre che
dai documenti di gara, “dalla normativa nazionale” (cfr.
punto 34 ord. cit.).
Viceversa, con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n.
50 è superata ogni incertezza interpretativa, nel senso
dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95,
comma 10. In presenza di una così esplicita disposizione di
legge, è del tutto irrilevante se né la lex specialis
di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta
economica predisposto dalla stazione appaltante hanno
previsto la dichiarazione separata di tali oneri,
discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge
l’obbligo (rectius, l’onere) di effettuare la
dichiarazione stessa: il ché è proprio il quid novi
contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95,
comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per
tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente
assetto normativo
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
03.05.2017 n.
2358 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2- La controversia involge principalmente la legittimità
dell’esclusione dalla suddetta gara, per insussistenza della
dichiarazione relativa agli oneri di sicurezza aziendali
interni, in base a quanto dispone l’art. 95, comma 10, del
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, a tenore del quale: <<Nell'offerta
economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali
concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro>>.
Il ricorso è infondato.
Il menzionato comma 10 dell’art. 95 pone l’onere di indicare
nell’offerta economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali
o interni, il cui mancato rispetto comporta l’esclusione
dalla gara, senza che possa invocarsi la necessità di far
ricorso al soccorso istruttorio.
È, difatti, acclarato che:
- la nuova disciplina fissa un obbligo legale
inderogabile a carico dei partecipanti alla gara pubblica,
cosicché resta ininfluente che gli atti della procedura non
dispongano espressamente al riguardo, operando piuttosto il
meccanismo dell’eterointegrazione con l’obbligo discendente
dalla norma primaria;
- non può ammettersi il soccorso istruttorio
(previsto dall’art. 83, nono comma, del d.lgs. n. 50 del
2016 per “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e del documento di
gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di
quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica), in
quanto gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente
all’offerta economica e, per la loro finalità di tutela
della sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento
essenziale" (cfr.
TAR Campania, sez. I di Salerno, 05/01/2017 n. 34 e TAR
Veneto, sez. I, 21/02/2017 n. 182).
Le argomentazioni della ricorrente vanno disattese,
fondandosi su un orientamento maturato nel regime previgente,
in base alla citata sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 19
del 2016 (orientamento di recente ribadito, ma pur tuttavia
con esplicito riferimento alle “gare bandite
anteriormente all'entrata in vigore del c.d. nuovo Codice
dei contratti pubblici”: Cons. Stato, sez. V, 07/03/2017
n. 1073; conf., Cons. Stato, sez. V, 07/11/2016 n. 4646).
Neppure rileva il richiamo alle ordinanze C.G.U.E. (Sesta
Sezione) del 10/11/2016, trattandosi anche in tal caso di
decisione emessa nei riguardi della normativa previgente ed
in relazione alla Direttiva abrogata 2004/18 (come
esplicitato ai punti 21, 22 e 23 dell’ordinanza nella causa
C-697/15; idem per le ulteriori ordinanze CGUE, in
differenti punti).
Difatti, in relazione al regime antecedente, la Corte di
Giustizia ha ritenuto contrastante con il principio della
parità di trattamento e con l’obbligo di trasparenza
l’esclusione per omessa separata indicazione nell’offerta
dei costi aziendali, la quale sia frutto di
un’interpretazione e non risulti espressamente, oltre che
dai documenti di gara, “dalla normativa nazionale” (cfr.
punto 34 ord. cit.).
Viceversa, con l’entrata in vigore del
d.lgs. n. 50 del 2016 è superata ogni incertezza
interpretativa, nel senso sopra illustrato
dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95,
comma 10 [cfr. TAR
Campania, sez. I di Salerno, 06/07/2016 n. 1604: “tale
disposizione configura un preciso ed ineludibile obbligo
legale in sede di predisposizione dell’offerta economica”;
cfr., altresì, TAR Veneto, sez. I, 21/02/2017 n. 182, cit.:
“in presenza di una così esplicita
disposizione di legge, è del tutto irrilevante che né la lex
specialis di gara (bando e disciplinare), né il modello di
offerta economica predisposto dalla stazione appaltante
avessero previsto la dichiarazione separata di tali oneri,
discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge
l’obbligo (rectius, l’onere) di effettuare la dichiarazione
stessa: il ché –occorre aggiungere– è proprio il quid novi
contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95,
comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per
tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente
assetto normativo;
(…) né, va infine rimarcato, emergono allo stato
profili di incompatibilità fra le disposizioni di diritto
interno che impongono, ora in modo tassativo, l’indicazione
degli oneri in questione ed il pertinente paradigma
normativo eurounitario
(C.d.S., Sez. V, ord. n. 5582/2016, cit.)”].
2.1- La censura avverso l’aggiudicazione non può trovare
ingresso per difetto di interesse, non potendo la ricorrente
vantare alcuna pretesa a contestare l’esito della gara da
cui è stata legittimamente esclusa.
3- Alla stregua delle motivazioni che precedono, il ricorso
va dunque complessivamente respinto.
In ragione della parziale novità della
questione introdotta dal nuovo Codice dei contratti
pubblici, con riferimento alle incertezze interpretative
ingenerate dalla previgente disciplina,
sussistono valide ragioni per disporre la compensazione per
l’intero tra tutte le parti degli onorari e delle spese di
giudizio, restando a carico della Società ricorrente il
contributo unificato versato. |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’amicizia su Facebook non è cause di
incompatibilità del componente la
commissione di concorso.
---------------
Concorso – Commissione di concorso –
Cause di incompatibilità – Amicizia su
Facebook – Non è tale.
Nei pubblici
concorsi i componenti delle commissioni
esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi
solo ed esclusivamente se ricorre una delle
condizioni tassativamente previste dall’art.
51 c.p.c., senza che le cause di
incompatibilità previste dalla predetta
norma, proprio per detto motivo, possano
essere oggetto di estensione analogica (nel
caso di specie, non è stata ritenuta
rilevante l’amicizia su Facebook) (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che Facebook implica una possibile
diffusione del materiale pubblicato sul
profilo dell'utente a un numero imprecisato
e non prevedibile di soggetti se l’utente
stesso non provvede ad effettuare
restrizioni che peraltro il social network
consente. Le cosiddette “amicizie” su
Facebook sono del tutto irrilevanti poiché
lo stesso funzionamento del social network
consente di entrare in contatto con persone
che nella vita quotidiana sono del tutto
sconosciute.
Né si può pretendere che gli utenti (escluso
un utilizzo sconveniente del mezzo) debbano
controllare ogni possibile controindicazione
del social network posto che esso, per come
si è evoluto, costituisce ormai una modalità
di comunicazione difficilmente
classificabile (ognuno ne fa l’utilizzo che
ritiene più appropriato ma per lo più si
tratta di attività ludica e ricreativa).
Pertanto, non può concretizzare una delle
cause di incompatibilità previste dall’art.
51 c.p.c..
In ordine alle foto “scaricate” dal
social network la conclusione non muta. Esse
non valgono a provare alcuna “commensalità
abituale” quale prevista dall’art. 51
c.p.c. (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 03.05.2017 n. 281 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Il primo motivo è infondato alla luce di
pacifica giurisprudenza anche di questa
Sezione.
La sussistenza di una situazione di
incompatibilità tale da imporre l’obbligo di
astensione deve essere valutata ex ante, in
relazione agli effetti potenzialmente distorsivi che il sospetto difetto di
imparzialità è idoneo a determinare in
relazione alla situazione specifica, ma
anche con estrema cautela in relazione alla
sua portata soggettiva, onde evitare che la
sussistenza dell’obbligo di astensione possa
essere estesa a casi e fattispecie in alcun
modo contemplate dalla normativa di
riferimento (Consiglio di Stato, sez. VI, 19.03.2015, n. 1411).
Nei pubblici concorsi i componenti delle
commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di
astenersi solo ed esclusivamente se ricorre
una delle condizioni tassativamente previste
dall’art. 51 del c.p.c., senza che le cause
di incompatibilità previste dalla predetta
norma, proprio per detto motivo, possano
essere oggetto di estensione analogica
(Cons. Stato, sez. V, 24.07.2014, n.
3956, Tar Sardegna, Cagliari, Sez. I, 28.12.2016, n. 986).
L’incompatibilità tra esaminatore e
concorrente implica quindi o l’esistenza di
una comunanza di interessi economici o di
vita tra i due soggetti [di intensità tale
da far ingenerare il sospetto che il
candidato sia giudicato non in base alle
risultanze oggettive della procedura, ma in
virtù della conoscenza personale con
l’esaminatore (Cons. Stato, sez. VI,
04.03.2015, n. 1057) ed idonea a far insorgere un
sospetto consistente di violazione dei
principi di imparzialità, di trasparenza e
di parità di trattamento (comunque
inquadrabile nell’art. 51, comma 2, del c.p.c.)], ovvero la sussistenza di un
potenziale conflitto di interessi per
l’esistenza di una causa pendente tra le
parti, o la sussistenza di grave inimicizia
tra di esse.
Poiché l’impossibilità del ricorso alla
analogia è giustificata dall’esigenza di
tutela di certezza dell’azione
amministrativa e della stabilità della
composizione delle commissioni giudicatrici,
è stato ritenuto dalla giurisprudenza che
neppure la presentazione di denuncia in sede
penale da parte del ricusante nei confronti
del commissario di concorso costituisce
causa di legittima ricusazione, perché essa
non è di per sé idonea a creare una
situazione di causa pendente o di grave
inimicizia (Cons. Stato, sez. III,
02.04.2014 n. 1577).
Questi principi sono stati affermati
recentemente dalla Sezione con sentenza n.
986 del 28.12.2016.
Occorre effettuare ulteriori precisazioni,
data la particolarità del caso.
Anche sui rapporti di “colleganza” (qui
oggetto di specifica contestazione) la
giurisprudenza si è pronunciata
ripetutamente.
E’ stato per esempio affermato che “i
rapporti personali di colleganza o di
collaborazione tra alcuni componenti della
commissione e determinati candidati ammessi
alla prova orale non sono sufficienti a
configurare un vizio della composizione
della commissione stessa, non potendo le
cause di incompatibilità previste dall'art.
51 (tra le quali non rientra l'appartenenza
allo stesso ufficio e il rapporto di
colleganza) essere oggetto di estensione
analogica, in assenza di ulteriori e
specifici indicatori di una situazione di
particolare intensità e sistematicità, tale
da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio
professionale; pertanto, la conoscenza che
alcuno dei membri di una commissione di
concorso abbia di un candidato, ove non
ricada nelle suddette fattispecie tipiche,
non implica di per sé la violazione delle
regole dell'imparzialità e nemmeno il
sospetto della violazione di tali regole”
(Consiglio di Stato, sez. III, 28/04/2016,
n. 1628 e , in senso conforme, Consiglio di
Stato, sez. III, 20/01/2016, n. 192,
Consiglio di Stato, sez. VI, 23/09/2014, n.
4789).
Veniamo all’ultimo singolare profilo
contestato dai ricorrenti e cioè “l’amicizia
sul social network Facebook”.
Anche questa contestazione, in assenza di
ulteriori e solide prove, non può essere
positivamente apprezzata dal Collegio.
Come è noto, Facebook implica una possibile
diffusione del materiale pubblicato sul
profilo dell'utente a un numero imprecisato
e non prevedibile di soggetti se l’utente
stesso non provvede ad effettuare
restrizioni che peraltro il social network
consente. Le cosiddette “amicizie” su Facebook sono del tutto irrilevanti poiché
lo stesso funzionamento del social network
consente di entrare in contatto con persone
che nella vita quotidiana sono del tutto
sconosciute.
Né si può pretendere che gli
utenti (escluso un utilizzo sconveniente del
mezzo) debbano controllare ogni possibile
controindicazione del social network posto
che esso, per come si è evoluto, costituisce
ormai una modalità di comunicazione
difficilmente classificabile (ognuno ne fa
l’utilizzo che ritiene più appropriato ma
per lo più si tratta di attività ludica e
ricreativa). Insomma, non è certo Facebook
in sé che può concretizzare una delle cause
di incompatibilità previste dall’art. 51
c.p.c.. La questione è talmente pacifica che
non necessita di particolare
approfondimento.
In ordine alle foto “scaricate” dal social
network la questione non muta. Esse non
valgono a provare alcuna “commensalità
abituale” prevista dall’art. 51 c.p.c..
E qui il Collegio deve effettuare ancora
alcune precisazioni.
Torniamo al “nocciolo della questione”.
Come già riferito, secondo la tradizionale
interpretazione giurisprudenziale dell’art.
51 c.p.c., i casi di astensione obbligatoria
sono tassativi e non suscettibili di
interpretazione né analogica, né estensiva.
Essi sfuggono ad ogni tentativo di
manipolazione analogica, vista l'esigenza di
assicurare la certezza dell'azione
amministrativa e la stabilità della
composizione delle commissioni giudicatrici.
Soprattutto in dottrina è stato
ampiamente
dibattuto il significato da attribuire alla
locuzione convivente o commensale abituale.
Per la maggior parte della dottrina,
l'espressione deve intendersi in senso lato,
vale a dire quale soggetto appartenente ad
una cerchia di persone che hanno una certa
affectio familiaritatis, ossia che vivono in
famigliarità e hanno interessi comuni. Altri
autori ritengono invece che si debbano
assumere le espressioni convivenza e
commensalità nel loro significato letterale.
Quel che è certo è che tale motivo di
astensione è ravvisabile quando vi è prova
che il membro della commissione abbia con il
candidato frequenza di contatti e di
rapporti di tale continuità da far dubitare
della sua imparzialità e serenità di
giudizio. Il riferimento alla “abitualità”
della commensalità esclude per l’appunto,
per pura e semplice logica, l’occasionalità
della stessa.
E della abitualità occorre dare prova. Prova
che non può essere certo fornita mediante
Facebook. Non è chi non veda che
nell’odierno modo di comunicare, qualunque
occasione conviviale anche del tutto
episodica, può essere “catturata” con il
telefono cellulare e repentinamente
pubblicata sul social network. Non può,
questo, essere considerato indice di una commensalità abituale.
L’art. 51 c.p.c. se correttamente
interpretato, non può condurre a tale
illogico risultato.
Il ragionamento quindi va concluso tenuto
conto che per le stesse caratteristiche del
social network Facebook, sopra ampiamente
descritte, né le argomentazioni dei
ricorrenti né le produzioni dei medesimi
(fotografie tratte dal social network)
possono essere positivamente apprezzate dal
Collegio perché non provano nulla circa la
commensalità abituale tra membri della
commissione e candidati. |
APPALTI:
Impugnazione immediata della clausola del
bando che prevede l’aggiudicazione con il
criterio del massimo ribasso.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti –
Atto impugnabile – Bando – Criterio del
massimo ribasso – E’ immediatamente
impugnabile.
Il bando di gara,
che prevede il sistema di aggiudicazione
della gara del massimo ribasso, è
immediatamente impugnabile, sussistendo
tutti i presupposti per non rinviare
all’avvenuta aggiudicazione il ricorso,
quali:
a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale
interesse sostanziale, la competizione
secondo meritocratiche opzioni di qualità
oltre che di prezzo;
b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del
massimo ribasso in difetto dei presupposti
di legge;
c) l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità concretamente
ritraibile da una pronuncia demolitoria che
costringa la stazione appaltante
all’adozione del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, ritenuto
dalle norme del nuovo codice quale criterio
“ordinario” e generale (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che l’attuale normativa consente di
ritenere in parte superato l’arresto della
Adunanza plenaria 29.01.2003, n. 1,
secondo cui “Non può essere condiviso
quell'indirizzo interpretativo che è volto
ad estendere l'onere di impugnazione alle
prescrizioni del bando che condizionano,
anche indirettamente, la formulazione
dell'offerta economica tra le quali anche
quelle riguardanti il metodo di gara e la
valutazione dell'anomalia. Anche con
riferimento a tali clausole, infatti,
l'effetto lesivo per la situazione del
partecipante al procedimento concorsuale si
verifica con l'esito negativo della
procedura concorsuale o con la dichiarazione
di anomalia dell'offerta. L'effetto lesivo
è, infatti, conseguenza delle operazioni di
gara, e delle valutazioni con essa
effettuate, dal momento che è solo il
concreto procedimento negativo a rendere
certa la lesione ed a trasformare l'astratta
potenzialità lesiva delle clausole del bando
in una ragione di illegittimità concreta ed
effettivamente rilevante per l'interessato:
devono pertanto ritenersi impugnabili
unitamente all'atto applicativo, le clausole
riguardanti i criteri di aggiudicazione,
anche se gli stessi sono idonei ad influire
sulla determinazione dell'impresa relativa
alla predisposizione della proposta
economica o tecnica, ed in genere sulla
formulazione dell'offerta, i criteri di
valutazione delle prove concorsuali, i
criteri di determinazione delle soglie di
anomalie dell'offerta, nonché le clausole
che precisano l'esclusione automatica
dell'offerta anomala”.
Il nuovo Codice appalti –ed in particolare
gli artt. 95, 204 (nella parte in cui
prevede l’immediata impugnabilità
dell’ammissione di altri operatori
economici), 211, comma 2 (sull’autotutela “doverosa”)
– rende, infatti, chiaro che vi sono
elementi fisiologicamente disciplinati dal
bando o dagli altri atti di avvio della
procedura, che assumono rilievo sia
nell’ottica del corretto esercizio del
potere di regolazione della gara, sia in
quella dell’interesse del singolo operatore
economico ad illustrare ed a far apprezzare
il prodotto e la qualità della propria
organizzazione e dei propri servizi, così
assicurando, nella logica propria
dell’interesse legittimo (figlio della
sintesi di potere e necessità) la protezione
di un bene della vita che è quello della
competizione secondo il miglior rapporto
qualità prezzo; un bene, cioè, diverso, e
dotato di autonoma rilevanza rispetto
all’interesse finale all’aggiudicazione.
Ha aggiunto la Sezione che una diversa
soluzione –più aderente alla lettera che
alla ratio dell’Adunanza Plenaria del
2003 ed all’esigenza della sua
interpretazione in chiave evolutiva–
finirebbe per svilire e depontenziare le due
architravi del nuovo impianto normativo:
a) da un lato il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa -assunto da legislatore ad
elemento di rilancio di una discrezionalità
“sana e vigilata” da porre a
disposizione di amministrazioni qualificate
sì da renderle capaci di selezionare le
offerte con razionalità ed attenzione ai
profili qualitativi– sarebbe destinato a
rimanere privo di garanzie di effettività,
posto che, la sua correzione si avrebbe solo
all’esito della procedura concorsuale e
della sua appendice giurisdizionale, in
presenza di un operatore (quello offerente
il massimo ribasso) in capo al quale si sono
tra l’altro già ingenerate aspettative;
b) dall’altro sarebbe irragionevolmente derogata la logica bifasica
(ammissioni/esclusioni prima fase;
aggiudicazione seconda fase) che ha
caratterizzato il nuovo approccio
processuale in tema di tutela, poiché è
evidente che l’illegittimità del bando, sub
specie del criterio di aggiudicazione, è un
prius logico giuridico rispetto alle
ammissioni, condizionandole e rendendole
illegittime in via derivata. Con il
risultato che l’intento di affrancare il
contenzioso sull’aggiudicazione da tutte le
questioni sollevabili in via incidentale dal
controinteressato (e fra queste anche quelle
relative all’illegittimità del bando,
strumentali all’utilitas della
riedizione della gara) che ha ispirato la
formulazione delle nuove norme processuali,
risulterebbe tradito proprio in relazione ad
aspetti basilari della prima fase.
Altro argomento a riprova dell’irrazionalità
della tesi dell’impugnazione postergata del
criterio di aggiudicazione, è che il
ricorrente, costretto ad attendere, quale
dies a quo per l’impugnativa, il momento
dell’aggiudicazione ad altri, non è
vincolato dalla correlazione tra criterio
del massimo ribasso e la mancata
aggiudicazione, non dovendo egli dimostrare
un rapporto di causalità tra effetto lesivo
del bene “aggiudicazione” e lex
gara: la lesione, nell’orientamento
giurisprudenziale tradizionale varato
dall’Adunanza Plenaria nel 2003, è infatti
solo l’elemento, che integrando una delle
condizioni dell'azione, abilita alla tutela
dell'interesse legittimo attraverso
l'esperimento dell'azione demolitoria.
Una volta realizzatasi la condizione
dell'azione, il ricorrente è ammesso a far
valere la violazione dell’obbligo del
criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, insieme a tutti gli altri vizi
di legittimità del bando che non attengano a
clausole escludenti, a prescindere se la
mancata aggiudicazione sia riferita, o meno,
proprio all'operare di quella o di quelle
clausola (si pensi, oltre che al criterio di
aggiudicazione, alla difettosa composizione
del seggio di gara o alle previsioni sulle
modalità di apertura delle buste o, in
generale, alle norme sul modus procedendi).
In questi casi non è cioè necessaria la
dimostrazione che, in assenza del vizio,
l'aggiudicazione sarebbe stata senz'altro
riconosciuta al ricorrente, costituendo, la
violazione delle norme di legge, un sintomo
della cattiva organizzazione e gestione
della gara e conseguentemente dell'erroneità
dei suoi esiti. Se così è, allora, non v’è
ragione alcuna per attendere, al fine di
invocare tutela, che la procedura di
concluda con l’aggiudicazione a terzi.
Tale soluzione non risponderebbe a finalità
deflattive ed anzi inficerebbe quelle legate
al pur contemplato onere di impugnazione
delle ammissioni; non risponde del resto a
finalità di coerenza giuridica o dogmatica,
poiché il postergare l'impugnazione della
lex gara finanche quando la violazione è
già conclamata, può avere un senso solo in
relazione a clausole che non violino
immediatamente l’interesse del singolo
imprenditore, è così certamente non è per
quelle che gli impediscono di concorrere
sulla qualità; è inoltre contraria al dovere
di leale collaborazione ed al rispetto del
principio di legittimo affidamento,
immanenti anche nell’ordinamento
amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 02.05.2017 n. 2014 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Annullamento d’ufficio di un bando di
concorso per incompetenza: profili di
giurisdizione e limiti all’autotutela.
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Giurisdizione – Concorso – Annullamento
in autotutela – Impugnazione – giurisdizione
giudice amministrativo.
Concorso – Bando – Revoca – Discrezionalità
– Limiti.
Concorso – Bando – Concorso Enti locali –
Approvazione – Competenza – Art. 107, t.u.
n. 267 del 2000 – E’ del dirigente.
Rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo la
controversia avente ad oggetto il
provvedimento che, in autotutela, ha
annullato una procedura concorsuale
terminata con l’approvazione della
graduatoria (1).
La revoca di un bando di concorso pubblico
rientra nei normali ed ampi poteri
discrezionali della pubblica amministrazione
che, fino a quando non sia intervenuta la
nomina dei vincitori, può provvedere in tal
senso (2).
Ai sensi dell’art. 107, t.u. 18.08.2000, n.
267, rientra nella competenza del dirigente,
e non della Giunta, l’approvazione di un
bando di concorso (3).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che in regime di impiego pubblico
privatizzato, le controversie seguono,
quanto al riparto di giurisdizione, le
regole previste dall’art. 63, d.lgs.
30.03.2001, n. 165, essendo, quindi,
attribuite alla giurisdizione del giudice
ordinario tutte quelle inerenti ad ogni fase
del rapporto di lavoro, incluse le
controversie concernenti l'assunzione al
lavoro e il conferimento di incarichi
dirigenziali, giacché la riserva, in via
residuale, alla giurisdizione
amministrativa, contenuta nel comma 4 del
citato art. 63, concerne esclusivamente le
procedure concorsuali, strumentali alla
costituzione del rapporto con la P.A., che
si sviluppano fino all'approvazione della
graduatoria dei vincitori e degli eventuali
idonei, ma non riguardano la fase successiva
a detta approvazione.
La procedura concorsuale, infatti, termina
con la compilazione della graduatoria finale
e la sua approvazione, spettando alla
giurisdizione ordinaria il sindacato, da
esplicare con la gamma dei poteri cognitori
del giudice civile, sui comportamenti
successivi, riconducibili alla fase di
esecuzione, in senso lato, dell'atto
amministrativo presupposto (Cass. civ.,
ss.uu., n. 20126 del 2005).
Peraltro, se è vero, in via generale, che
l'approvazione della graduatoria segna il
limite temporale oltre il quale sussiste la
giurisdizione del giudice ordinario, è pur
vero che permane la giurisdizione del
giudice amministrativo nell’ipotesi in cui
sia stato posto in essere un atto di
autotutela della graduatoria stessa o
comunque della procedura concorsuale,
mediante l’adozione di un contrarius
actus, la cui legittimità deve essere
verificata dal giudice amministrativo (Cass.
civ., ss.uu., 26.02.2010, n. 4648).
Nel caso all’esame del Tar, parte ricorrente
non chiede il riconoscimento del diritto
all’assunzione, né mette in discussione i
principi giurisprudenziali attinenti
all’assenza di un obbligo al reclutamento di
un dipendente pur in presenza di una
graduatoria (di cui, nel caso, la giunta non
aveva operato la “presa d’atto”
prevista dal bando); contesta, invece, la
legittimità dell’atto di autotutela con il
quale l’amministrazione ha annullato propri
atti precedentemente adottati relativi alla
procedura in questione e precisamente il
bando introduttivo e la deliberazione di
programmazione del fabbisogno del personale,
adducendo diverse doglianze, dimodoché la
giurisdizione è quella del giudice
amministrativo.
(2)
Cons. St., sez. III, 01.08.2011, n. 4554.
In particolare, la giurisprudenza ha
ritenuto che, sino all’immissione in
servizio e alla nomina, l’amministrazione ha
il potere di non procedere alla nomina e
financo di annullare la procedura
concorsuale e la relativa graduatoria in
presenza di valide e motivate ragioni di
interesse pubblico che facciano venire meno
la necessità o l’opportunità di copertura
del posto, dovendo il giudice adito valutare
la ragionevolezza di tali scelte e la
coerenza delle scelte successivamente
compiute (Cons.
St., sez. VI, 03.07.2014, n. 3359).
(3) Ha chiarito il Tar che il bando, adottato dalla Giunta, non può
essere annullato se il dirigente ha
ratificato l’operato dell’organo collegiale.
Nel caso all’esame del Tribunale il
dirigente preposto ha esplicitamente
rivendicato la paternità dell’atto
embrionale, ne ha asseverato la legittimità
ed ha, nei fatti, convalidato l’atto,
rendendo finanche parere negativo rispetto
alla scelta di ritirare la procedura
concorsuale.
Ne consegue l’illegittimità
dell’annullamento in autotutela del bando
per incompetenza, atteso che, comunque,
l’avvenuta ratifica dell’operato della
giunta da parte del dirigente competente,
rivendicata con il detto parere dallo
stesso, ha comunque superato il vizio di
incompetenza dell’originaria deliberazione
di giunta (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 02.05.2017 n. 709 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. La questione sottoposta all’esame di
questo Collegio investe la legittimità o
meno della deliberazione con cui la Giunta
comunale del Comune di Crotone ha revocato
la delibera n. 336 del 2014 -con cui si dava
mandato al dirigente del settore personale
di dare attuazione alla procedura
concorsuale inerente la copertura di un
posto a tempo pieno e indeterminato di
dirigente di area tecnica, approvando il
relativo bando– ed ha modificato la delibera
n. 131 del 2016, ad oggetto “Piano
triennale del fabbisogno del personale anni
2016/2017/2018 – linee di indirizzo”,
rendendo indisponibile il posto dirigenziale
in contestazione, vacante alla data del
15.10.2015, ai sensi e per gli effetti del
comma 219 della legge 208/2015.
1.1. Preliminarmente il Collegio rileva la
fondatezza delle eccezioni sollevate da
parte ricorrente in udienza relative alla
tardività del deposito da parte
dell’amministrazione comunale, della memoria
del 28.03.2017 e della memoria di replica
del 22.03.2017, in quanto entrambe tardive
rispetto ai termini di cui all’art. 73, co.
1, del cod. proc. amm., con la conseguenza
che le stesse vanno considerate tamquam
non essent.
1.2. Va premesso che,
secondo giurisprudenza consolidata, in
regime di impiego pubblico privatizzato, le
relative controversie seguono, quanto al
riparto di giurisdizione, le regole previste
dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63,
essendo, quindi, attribuite alla
giurisdizione del giudice ordinario tutte
quelle inerenti ad ogni fase del rapporto di
lavoro, incluse le controversie concernenti
l'assunzione al lavoro e il conferimento di
incarichi dirigenziali, giacché la riserva,
in via residuale, alla giurisdizione
amministrativa, contenuta nel quarto comma
del citato art. 63, concerne esclusivamente
le procedure concorsuali, strumentali alla
costituzione del rapporto con la P.A., che
si sviluppano fino all'approvazione della
graduatoria dei vincitori e degli eventuali
idonei, ma non riguardano la fase successiva
a detta approvazione. La procedura
concorsuale, infatti, termina con la
compilazione della graduatoria finale e la
sua approvazione, spettando alla
giurisdizione ordinaria il sindacato, da
esplicare con la gamma dei poteri cognitori
del giudice civile, sui comportamenti
successivi, riconducibili alla fase di
esecuzione, in senso lato, dell'atto
amministrativo presupposto
(cfr. Cass. sez. un., n. 20126 del 2005).
Se è dunque vero, in via
generale, che l'approvazione della
graduatoria segna il limite temporale oltre
il quale sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario, è pur vero che permane la
giurisdizione del giudice amministrativo
nell’ipotesi in cui sia stato posto in
essere un atto di autotutela della
graduatoria stessa o comunque della
procedura concorsuale, mediante l’adozione
di un "contrarius actus", la cui
legittimità deve essere verificata dal
giudice amministrativo
(cfr. Cass. S.U. 26.02.2010 n. 4648).
Nel caso di specie, parte ricorrente non
chiede il riconoscimento del diritto
all’assunzione, né mette in discussione i
principi giurisprudenziali attinenti
all’assenza di un obbligo al reclutamento di
un dipendente pur in presenza di una
graduatoria (di cui, nel caso, la giunta non
aveva operato la “presa d’atto”
prevista dal bando); contesta, invece, la
legittimità dell’atto di autotutela de quo
con il quale l’amministrazione (precisamente
la giunta comunale) ha annullato propri atti
precedentemente adottati relativi alla
procedura in questione e precisamente il
bando introduttivo e la deliberazione di
programmazione del fabbisogno del personale,
adducendo diverse doglianze, dimodoché la
giurisdizione è quella del giudice
amministrativo.
1.3. In merito alla possibilità di
intervenire in autotutela su un bando
allorché sia stata già approvata la
graduatoria (anche se nel caso, come detto,
è mancata la prevista presa d’atto della
giunta), è stato affermato che “per
principio pacifico …la revoca di un bando di
concorso pubblico rientra nei normali ed
ampi poteri discrezionali della pubblica
amministrazione che, fino a quando non sia
intervenuta la nomina dei vincitori, può
provvedere in tal senso”
(così Cons. Stato, sez. III, 01.08.2011, n.
4554).
In particolare, la giurisprudenza ha
ritenuto che, sino
all’immissione in servizio e alla nomina,
l’amministrazione ha il potere di non
procedere alla nomina e financo di annullare
la procedura concorsuale e la relativa
graduatoria in presenza di valide e motivate
ragioni di interesse pubblico che facciano
venire meno la necessità o l’opportunità di
copertura del posto, dovendo il giudice
adito valutare la ragionevolezza di tali
scelte e la coerenza delle scelte
successivamente compiute
(Cons. St. VI, 03.07.2014, n. 3359).
Tanto premesso in ordine all’astratta
ammissibilità della revoca/annullamento
della procedura selettiva indetta dal Comune
di Crotone, occorre valutare se sussistono
in concreto i presupposti per l’adozione di
un siffatto atto nel caso di specie.
2. Occorre, quindi, passare all’esame delle
doglianze avverso la scelta di ritirare la
delibera di giunta comunale n. 336 del
29.12.2014.
Con tale deliberazione, l’amministrazione
aveva dato mandato al Responsabile del
servizio Personale di dare attuazione alla
procedura concorsuale inerente la copertura
di un posto a tempo pieno e indeterminato di
dirigente dell’area tecnica, approvando
l’allegato schema bando con relativo schema
di domanda di partecipazione.
La deliberazione impugnata annulla la
precedente in quanto ritenuta viziata da
incompetenza, essendo l’approvazione del
bando di competenza dell’organo gestionale.
Parte ricorrente si duole dell’illegittimità
della deliberazione in parte qua, in quanto
la stessa sarebbe viziata da illogicità,
contraddittorietà e da violazione dell’art.
21-octies della legge n. 241 del 1990,
specie alla luce del parere negativo reso
dal dirigente del settore VI al riguardo.
2.1. La doglianza è fondata.
Infatti, quanto alla
competenza ad approvare il bando in vigenza
dell’art. 107 del t.u.e.l., nessuno dubita
che “a seguito della privatizzazione del
rapporto di pubblico impiego, ai dirigenti è
attribuita la competenza esclusiva nella
gestione dell’attività amministrativa,
compresa l’adozione degli atti che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno mentre
agli organi di governo sono rimaste le
funzioni di indirizzo politico”
(Cons. St. n. 6267/2012);
tanto discende, prima ancora che dai
principi giurisprudenziali, dalla normativa
vigente (art. 107 del t.u.e.l.), che
espressamente attribuisce ai dirigenti (o
-nei comuni privi di dirigenti- ai
responsabili con funzioni dirigenziali) la
responsabilità delle procedure di concorso e
gli atti di amministrazione e di gestione
del personale, quale è evidentemente il
bando di concorso.
Ne consegue che nessuna
competenza spetta alla giunta in ordine
all’approvazione del bando di concorso,
essendo quest’ultimo una tipica espressione
di atto gestionale del
dirigente/responsabile competente.
Vero ciò, è pur vero che il dirigente
preposto ha esplicitamente rivendicato la
paternità dell’atto embrionale, ne ha
asseverato la legittimità ed ha, nei fatti,
convalidato l’atto, rendendo finanche parere
negativo rispetto alla scelta di ritirare la
procedura concorsuale.
Il soggetto competente, in particolare, con
il parere negativo reso alla deliberazione
impugnata per la parte relativa alla
decisione di ritirare la deliberazione n.
336 del 29.12.2014, ha fatto presente di
avere pubblicato a propria cura il bando e
che la fase di gestione della procedura di
concorso ha riguardato le varie fasi della
stessa (dall’individuazione e nomina dei
commissari alla determinazione di criteri di
valutazione, fino alla fase conclusiva di
redazione della graduatoria e della sua
successiva approvazione); ha fatto presente,
altresì, che ha avallato, mediante parere ex
art. 49 del t.u.e.l., la regolarità
amministrativa dell’atto embrionale, che “è
agli atti della procedura una ratifica
dell’operato della stessa da parte dello
scrivente” ed infine che la mobilità
prevista dall’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001
è regolarmente avvenuta con avviso a firma
dello stesso dirigente.
Peraltro, nel detto parere, il dirigente,
assumendosene la relativa responsabilità,
non si è limitato a convalidare l’atto della
giunta ma si è spinto ad effettuare una
comparazione dell’interesse sotteso all’atto
da convalidare con quelli pubblici attuali,
ritenendo prevalenti “le esigenze di
economicità e di economia procedimentale che
il compimento della procedura concorsuale
determina”.
Ne consegue la illegittimità della
deliberazione sotto tale profilo, atteso
che, comunque, l’avvenuta ratifica
dell’operato della giunta da parte del
dirigente competente, rivendicata con il
detto parere dallo stesso, ha comunque
superato il vizio di incompetenza
dell’originaria deliberazione di giunta. |
LAVORI PUBBLICI:
Risarcimento per equivalente in caso di
irreversibile trasformazione del fondo.
---------------
Risarcimento danni – Espropriazione per
pubblica utilità – Occupazione illegittima -
Mancanza di un legittimo atto di
acquisizione – Irreversibile trasformazione
del fondo – Risarcimento per equivalente –
Possibilità.
A fronte di
un’occupazione illegittima e della mancanza
di un legittimo atto di acquisizione (come
nel caso ove, a seguito della dichiarazione
di p.u., non abbia fatto seguito il decreto
di espropriazione nei termini), il
proprietario, fermo restando il diritto alla
restituzione del bene occupato, può
formulare una domanda di mero risarcimento
del danno per equivalente a fronte
dell’irreversibile trasformazione del fondo
(1).
---------------
(1) La sentenza affronta la questione della proponibilità della
sola domanda risarcitoria anche alla luce
della sentenza dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del
2016.
Aderendo ai recenti approdi
giurisprudenziali in materia, il Tar ha
ritenuto che l’illecito permanente può
venire a cessare anche a seguito della
rinunzia abdicativa (e non traslativa) da
parte del proprietario, implicita nella
richiesta di risarcimento del danno per
equivalente monetario a fronte della
irreversibile trasformazione del fondo.
Ha sottolineato, altresì, che la rinuncia
abdicativa su suolo irreversibilmente
trasformato, che muove la richiesta
risarcitoria, ha carattere meramente
abdicativo e non traslativo, donde da essa
non può conseguire, quale effetto
automatico, l’acquisto della proprietà del
fondo da parte dell’Amministrazione, che,
sulla base dell’attuale assetto normativo e
giurisprudenziale, può sicuramente avvenire
sulla base del meccanismo di cui all’art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni,
dichiarato compatibile con i principi CEDU,
secondo l’interpretazione fornitane dalla
Corte di Strasburgo, con la sentenza della
Corte Costituzionale n. 71 del 30.04.2015.
Altre sentenze, con riferimento all’ipotesi
di rinuncia abdicativa, hanno previsto la
trascrizione sui registri immobiliari della
sentenza di accertamento della rinunzia
abdicativa della proprietà (Tar
Catanzaro, sez. I, 16.02.2017, n. 253),
salva la facoltà di adottare il
provvedimento di acquisizione sanante;
oppure hanno affermato che il provvedimento
con il quale l’amministrazione procede alla
effettiva liquidazione del danno
–rappresentando il mancato inveramento della
condizione risolutiva implicitamente apposta
dal proprietario al proprio atto abdicativo
che di esso rappresenta il presupposto–
costituisce esso stesso atto da trascriversi
ai sensi degli artt. 2643, comma 1, n. 5 e
2645 cod. civ., anche al fine di conseguire
gli effetti della acquisizione del diritto
di proprietà in capo all’amministrazione, a
far data dal negozio unilaterale di rinuncia
(Cons.
St., sez. IV, 07.11.2016, n. 4636)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 02.05.2017 n. 708 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Impugnazione immediata di ammissione di Ati
con componente privo di requisiti di
partecipazione.
---------------
● Processo amministrativo – Rito appalti
– Rito superaccelerato – Impugnazione
immediata ammissione di altro concorrente –
Presupposto – Individuazione.
● Contratti della Pubblica amministrazione –
Requisiti di partecipazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese – Professionista
membro dell’Ati – Mancata assegnazione
specifica quota di esecuzione dell’appalto -
Requisiti di partecipazione – Non occorrono.
● Contratti della Pubblica amministrazione –
Requisiti di partecipazione – Presenza di
qualifica professionale tra i dipendenti
della società – Espressa previsione della
lettera di invito - Contratto d’opera
professionale con vincolo di esclusiva – Non
è equipollente.
● La nuova regola
processuale del consolidamento
dell’ammissione di un concorrente alla gara
pubblica, conseguente alla mancata
tempestiva impugnazione della stessa ex art.
120, comma 2-bis, c.p.a., aggiunto dall’art.
204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, presuppone
che ci sia stata pubblicità degli atti di
gara (cfr. in tal senso), occorrendo che ai
candidati sia garantito il pieno e
tempestivo accesso alla documentazione, non
potendo altrimenti decorrere il termine per
impugnare un atto (l’ammissione di un altro
operatore) privo di diretta lesività e la
cui piena conoscenza postula la verifica dei
presupposti su cui si fonda (1).
●
Il giovane professionista che sia
anche membro del Raggruppamento partecipante
ad una gara pubblica ma al quale non sia
stata assegnata una specifica quota di
esecuzione dell’appalto non deve
necessariamente possedere i requisiti di
partecipazione, non potendosi configurare un
interesse in tal senso nemmeno in capo
all’Amministrazione, tenuto conto della
sostanziale estraneità dello stesso
professionista rispetto all’esecuzione (2).
●
La previsione della lettera di
invito in una procedura negoziata, che
prescrive la presenza, tra i dipendenti
delle società partecipanti, di una
determinata qualifica professionale non è
soddisfatta allorché si indichi un
professionista con il quale la società
partecipante abbia stipulato un contratto
d’opera professionale, anche se con vincolo
di esclusiva (3).
---------------
(1)
Cons. St., Comm. spec., 30.03.2017, n. 782
Ciò, ha chiarito il Tar, a differenza di
quanto avviene secondo la regola ordinaria
in cui la semplice conoscenza del
provvedimento giustifica l’immediato decorso
del termine di impugnazione, in quanto il
destinatario è posto in grado fin da subito
di apprezzarne la lesività, salvo
l’esperimento di motivi aggiunti.
(2)
Cons. St., sez. IV, 23.04.2015, n. 2048;
Tar Brescia 14.05.2015, n. 724
(3) Ha chiarito il Tar che la figura del rapporto di lavoro
subordinato e quella del contratto d’opera
si distinguono nettamente atteso che l’art.
2094 cod. civ. definisce prestatore di
lavoro subordinato chi "si obbliga
mediante retribuzione a collaborare
nell'impresa, prestando il proprio lavoro,
intellettuale o manuale, alle dipendenze e
sotto la direzione dell'imprenditore".
Nel rapporto di lavoro subordinato
l'intensità di questo vincolo è
particolarmente forte, tanto da
caratterizzarsi per la continuità con la
quale il lavoratore mette a disposizione del
datore di lavoro le sue energie e le sue
capacità, inserendosi all'interno
dell'organizzazione produttiva.
Diversamente, l'art. 2222 cod. civ., sotto
la rubrica contratto d'opera, sancisce che "quando
una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un'opera o un servizio, con
lavoro prevalentemente proprio e senza
vincolo di subordinazione nei confronti del
committente, si applicano le norme di questo
capo, salvo che il rapporto abbia una
disciplina particolare nel libro IV".
La differenza strutturale fra le due si
riflette sull’intensità del potere del
creditore di pretendere l’esecuzione della
prestazione dal professionista, tenuto conto
che la violazione degli obblighi sanciti nel
contratto d’opera professionale conduce ad
una responsabilità da inadempimento, mentre
la violazione delle direttive del datore di
lavoro da parte del dipendente può condurre,
a certe condizioni, alla stessa risoluzione
del rapporto di lavoro con conseguenze ben
più gravi sul professionista in quanto
incidenti sulla sua stessa condizione
lavorativa, con un conseguente maggior
incentivo alla corretta esecuzione della
prestazione dell’appalto.
Né il vincolo di esclusiva inserito nel
contratto d’opera potrebbe consentire
un’effettiva assimilazione con il rapporto
di lavoro subordinato, atteso che
l’esclusiva non può che riferirsi al solo
periodo di esecuzione dell’appalto con la
conseguenza che il professionista non “avvertirà”
il medesimo vincolo del dipendente ad
eseguire la prestazione, come invece
intendeva l’Amministrazione nell’introdurre
la previsione statutaria in questione.
Infine ritenere assimilabili, ai fini del
possesso del requisito di partecipazione, il
rapporto derivante dal contratto d’opera
professionale e quello di dipendenza
significherebbe incidere sulla par condicio
dei partecipanti, atteso il maggior costo
sostenuto dalla struttura che ha proceduto
all’assunzione del professionista, destinata
ad avere efficacia durevole, rispetto a
quella che ha stipulato il contratto d’opera
da eseguire solo in caso di aggiudicazione
dell’appalto e per la sola durata di questo
(TAR Molise,
sentenza 28.04.2017 n. 150 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
RUP è legittimato ad escludere l'offerente a
seguito della verifica della documentazione
amministrativa
Invero, tale attività costituisce competenza
residuale conseguente alla preliminare
attività di valutazione della documentazione
amministrativa attestante il possesso dei
requisiti indicati dalla lex specialis, non
potendo tale compito essere assolto dalla
Commissione giudicatrice che nelle gare,
come quella oggetto del presente
contenzioso, da aggiudicarsi sulla base del
criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa è chiamata a valutare le offerte
sotto gli aspetti tecnici ed economici.
---------------
Ciò premesso, palesemente infondato è il
primo motivo di doglianza con cui è stata
prospettata l'incompetenza del RUP ad
adottare la contestata determinazione di
esclusione.
Al riguardo, in linea con quanto dedotto in
merito dalla resistente amministrazione, il
Collegio osserva che:
a) l'art. 31, comma 3, del D.lgvo n. 50/2016 prevede che "Il RUP,
ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241,
svolge tutti i compiti relativi alle
procedure di programmazione, progettazione,
affidamento ed esecuzione previste dal
presente codice, che non siano
specificatamente attribuiti ad altri organi
o soggetti";
b) trattasi di una competenza residuale che comprende anche
l'esclusione delle offerte conseguente alla
preliminare attività di valutazione della
documentazione amministrativa attestante il
possesso dei requisiti indicati dalla lex
specialis, non potendo tale compito
essere assolto dalla Commissione
giudicatrice che nelle gare, come quella
oggetto del presente contenzioso, da
aggiudicarsi sulla base del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa
è chiamata a valutare le offerte sotto gli
aspetti tecnici ed economici;
c) tale interpretazione è stata, altresì suffragata dalle Linee
Guida formulate dall'Autorità Anticorruzione
la quale ha chiarito che il RUP è chiamato a
controllare la documentazione amministrativa
prodotta dai partecipanti e ad adottare le
determinazioni conseguenti alle valutazioni
effettuate;
d) poiché nella vicenda in esame l'esclusione dell'offerta delle
ricorrenti dalla procedura di gara è stata
disposta a seguito della verifica della
documentazione amministrativa da parte del
RUP, ne discende che quest'ultimo era
legittimato ad adottare la contestata
esclusione (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 27.04.2017 n. 4951 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per precedente
risoluzione contrattuale non definitiva.
---------------
Contratti della pubblica amministrazione
– Esclusione dalla gara – Per gravi illeciti
professionali – Art. 80, comma 5, lett. c),
d.lgs. n. 50 del 2016 – Pendenza e non
definitività del giudizio avente ad oggetto
la contestazione di una risoluzione
contrattuale – Non comporta l’esclusione.
L’art. 80, comma 5,
lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 80,
afferente ai “gravi illeciti professionali”,
deve essere inteso nel senso che la pendenza
e la non definitività del giudizio, avente
ad oggetto la contestazione di una
risoluzione contrattuale pronunciata nei
confronti dell’impresa, non giustifica
l’esclusione dalla gara (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
18.04.2016, n. 80 consente alle stazioni
appaltanti di escludere i concorrenti ad una
procedura di affidamento di contratti
pubblici in presenza di “gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua
integrità o affidabilità”, tra i quali …
“le significative carenze nell'esecuzione
di un precedente contratto di appalto o di
concessione che ne hanno causato la
risoluzione anticipata”.
Ad avviso della Sezione, sulla base
dell’interpretazione letterale della norma
(ex art. 12 delle preleggi), si richiede che
al provvedimento di risoluzione sia stata
prestata acquiescenza o che lo stesso sia
stato confermato in sede giurisdizionale. E
questa conferma non può che essere data da
una pronuncia di rigetto nel merito della
relativa impugnazione divenuta
inoppugnabile, come si evince dalla
locuzione (ancorché atecnica) “all’esito
di un giudizio”. A questo stesso
riguardo è invece da ritenersi evidentemente
insufficiente la definizione di un incidente
di natura cautelare (come nella fattispecie
sottoposta all’esame della sezione), con
decisione avente funzione interinale e
strumentale rispetto a quella di merito.
La Sezioni ha poi escluso che la questione
di conformità del diritto nazionale a quello
europeo prospettata dall’appellante possa
essere apprezzata in senso favorevole. La
causa di esclusione su cui si controverte ha
infatti carattere facoltativo.
Tale conclusione trova conferma nell’art.
57, par. 4, della direttiva 2014/24/UE.
Questa disposizione prevede infatti che le
situazioni da esso elencate relative agli
operatori economici partecipanti a procedure
di affidamento di contratti pubblici sono
quelle in presenza delle quali le
amministrazioni aggiudicatrici “possono
escludere”, oppure possono essere
richieste da "gli Stati membri”, in
sede di recepimento della direttiva, “di
escludere dalla partecipazione alla
procedura d’appalto” tali operatori.
Quindi, la norma europea facoltizza gli
Stati membri a prevedere quale causa di
esclusione da procedure di affidamento di
contratti pubblici, senza porre a carico
degli stessi alcun vincolo. A fortiori
deve ritenersi pertanto che non vi siano
vincoli quanto alla definizione normativa
della causa di esclusione in questione a
livello nazionale.
Non giova neanche richiamare il considerando
101, laddove si fa riferimento alla
possibilità di escludere dalla gara
l’operatore economico in caso di “grave
violazione dei doveri professionali”,
dimostrata dall’amministrazione “con
qualsiasi mezzo idoneo”, “prima che sia
stata presa una decisione definitiva e
vincolante sulla presenza di motivi di
esclusione obbligatori”. Quest’ultima
previsione è infatti espressamente riferita
ai motivi di esclusione “obbligatori”,
ovvero a quelli previsti dall’art. 57 della
direttiva, ai paragrafi 1 e 2, mentre nel
caso di specie si verte nelle ipotesi
contemplate dal paragrafo 4 della medesima
disposizione.
Per essa vale dunque il rinvio a “qualsiasi
mezzo idoneo”, che il legislatore
nazionale nell’esercizio della sua
discrezionalità rispetto ad un ambito del
diritto dei contratti pubblici non vincolato
a livello europeo può ritenere integrato
solo in presenza di una decisione
giurisdizionale definitiva, come avvenuto
nel caso di specie con l’art. 80, comma 5,
lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2017 n. 1955 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: E'
illegittima la deliberazione giuntale con la
quale si provvede a sopprimere l'avvocatura
comunale laddove non risultano comprensibili
le ragioni per cui l’Amministrazione abbia
inteso escludere completamente la
possibilità di una difesa interna dell’ente,
né appare adeguatamente valutato l’impatto
economico delle spese derivanti dalla
necessità di affidare all’esterno tutto il
contenzioso, presente e futuro.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione
nella prossima Camera di Consiglio in cui si
chiede sin d'ora di poter partecipare:
- della deliberazione G.M. n. 27 del
09.02.2017, pubblicata dal 17.02.2017 al
04.03.2017 sull'Albo Pretorio on-line del
Comune di Montalto Uffugo, avente ad oggetto
“Approvazione Nuova Macrostruttura
dell'Ente e riorganizzazione dei Servizi e
degli Uffici. ….Soppressione avvocatura
civica……………..”, assunta dalla Giunta
Comunale di Montalto Uffugo, nonché degli
allegati A) e B) aventi ad oggetto la nuova
struttura Organizzativa e l'Organigramma
dell'Ente;
...
- Rilevato che la ricorrente, responsabile
dell’Avvocatura municipale di Montalto
Uffugo, impugna le deliberazione di G.M.
09.02.2017 n. 26 e n. 27, che ha soppresso
l’Avvocatura ed istituito, a far data
dall’01.08.2017, il nuovo servizio
denominato “Gare ed appalti, consulenza
legale, controllo società concessionaria del
servizio di riscossione coattiva delle
entrate e contenzioso tributario”, con
la funzione di redigere pareri legali, di
trattare i ricorsi tributari e di operare il
controllo sulla società concessionaria del
servizio di riscossione coattiva delle
entrate locali, mentre il contenzioso sarà
gestito mediante avvocati esterni;
- Ritenuto che, dalla motivazione degli atti
impugnati, non risultano comprensibili le
ragioni per cui l’Amministrazione abbia
inteso escludere completamente la
possibilità di una difesa interna dell’ente,
né appare adeguatamente valutato l’impatto
economico delle spese derivanti dalla
necessità di affidare all’esterno tutto il
contenzioso, presente e futuro (cfr. TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, 26.04.2016 n.
811);
- Ritenuto, pertanto, che sussistono i
presupposti per adottare una sentenza in
forma semplificata di accoglimento, per
vizio di motivazione;
- Ritenuto che la natura formale della
decisione e, quindi, l’assenza di una
soccombenza sostanziale, giustificano
l’integrale compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Calabria (Sezione Seconda), definitivamente
pronunciando sul ricorso, come in epigrafe
proposto, lo accoglie e, per l’effetto,
annulla le deliberazione di G.M. 09.02.2017
n. 26 e n. 27, per quanto d’interesse (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 27.04.2017 n. 699 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Deve convenirsi che l'attività
concernente
attivazione e gestione dei centri di raccolta, cui
-come si vedrà- deve essere
assimilata quella avente ad oggetto la istituzione e
conduzione delle ecopiazzole, non sia più assoggettata alla autorizzazione
regionale in quanto
la realizzazione di essi è soggetta unicamente
all'approvazione del Comune
territorialmente competente; l'attivazione e la conduzione
di un centro di
raccolta, non richiede, pertanto, alcuna autorizzazione
regionale non potendo
questo essere classificato alla stregua degli impianti di
smaltimento e/o
recupero dei rifiuti, per i quali continua, invece, a
rendersi necessaria
l'autorizzazione regionale.
Va, tuttavia, osservato che la nozione di
centro di raccolta
è nozione non
di tipo naturalistico ma normativamente fissata, in quanto
l'art. 1 del dm 08.04.2008, come modificato dal successivo dm 20.07.2009, ampiamente
richiamando la ricordata lettera mm) dell'art. 183, del dlgs
n. 152 del 2006,
individua i centri di raccolta comunali o intercomunali come
«costituiti da aree
presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di
raccolta, mediante
raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli
impianti di
recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili,
di smaltimento, dei
rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I,
paragrafo 4.2, conferiti in
maniera differenziata rispettivamente dalle utenze
domestiche e non
domestiche anche attraverso il gestore del servizio
pubblico, nonché dagli altri
soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al
ritiro di specifiche
tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche».
Tanto premesso, rileva la Corte che la pur legittima
applicabilità alla
cosiddette ecopiazzole attivate dai singoli Comuni
nell'ambito del loro
territorio della disciplina prevista per i centri di
raccolta
deve,
tuttavia, intendersi
subordinata alla presentazione da parte delle aree in
questione della
caratteristiche morfologiche e funzionali proprie dei centri
di raccolta come
normativamente individuati.
Deve conseguentemente escludersi che, al di fuori
dell'ipotesi
contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree
attrezzate per il
conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un
generico concetto di ecopiazzola o isola ecologica possa ritenersi sottratta alla
disciplina generale
sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha ormai
definitivamente
delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, un regime autorizzatorio e
gestionale che, come si è visto, consente il conferimento ai
centri di raccolta
di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata.
In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con il
modello dettato dal
legislatore dovrà procedersi ad una valutazione
dell'attività in tal modo posta
in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti,
ivi compreso
l'assoggettamento della attività di loro raccolta ad
apposita autorizzazione.
---------------
Il Tribunale di Novara, a seguito di giudizio -celebrato
col rito abbreviato- susseguente ad opposizione a decreto penale, ha condannato Vi.Ma., nella qualità di Sindaco del Comune di Vicolungo,
alla pena di
giustizia, avendola riconosciuta responsabile del reato di
cui all'art. 256,
comma 2, lettera a), del dlgs n. 152 del 2006, per avere,
nella predetta
qualità, allestito e gestito una cosiddetta isola ecologica,
adibita a punto di
conferimento e raccolta di talune tipologie di rifiuto
urbano da inviare
successivamente allo smaltimento, senza adempiere agli
obblighi prescritti
dal Decreto del Ministero dell'Ambiente del 08.04.2008.
...
Il ricorso è infondato.
Osserva, infatti, la Corte che il presupposto da cui parte
la difesa della
imputata onde censurare la sentenza impugnata è che
l'impianto di cui al capo
di imputazione, gestito dal Comune di Vicolungo, debba
essere considerato
una "piazzola ecologica" e che, pertanto, ai fini della sua
gestione non
debbano essere richieste le autorizzazioni previste
dall'art. 256 dlgs n. 152 del
2006.
Siffatto presupposto, pur corretto in linea di principio, è,
peraltro nel
tutto inconferente rispetto alla fattispecie ora in
scrutinio.
Deve, infatti, rilevarsi che, alla luce della normativa primaria e
secondaria susseguitasi in argomento, e costituita dal dlgs
n. 4 del 2008, nella
parte in cui esso ha modificato l'art. 183 del dlgs n. 152
del 2006,
introducendo in esso la lettera mm), ove è dettata la
nozione di centro di
raccolta, nonché dal dm 08.04.2008 e 13.05.2009,
parzialmente
modificativo del precedente, deve convenirsi che l'attività
concernente
attivazione e gestione dei centri di raccolta, cui -come si
vedrà- deve essere
assimilata quella avente ad oggetto la istituzione e
conduzione delle ecopiazzole, non sia più assoggettata alla autorizzazione
regionale in quanto
la realizzazione di essi è soggetta unicamente
all'approvazione del Comune
territorialmente competente; l'attivazione e la conduzione
di un centro di
raccolta, non richiede, pertanto, alcuna autorizzazione
regionale non potendo
questo essere classificato alla stregua degli impianti di
smaltimento e/o
recupero dei rifiuti, per i quali continua, invece, a
rendersi necessaria
l'autorizzazione regionale (così, in termini: Corte di
cassazione, Sezione III
penale, 14.01.2013, n. 1690; idem Sezione III penale, 09.05.2011,
n. 17864).
Va, tuttavia, osservato che la nozione di
centro di raccolta
è nozione non
di tipo naturalistico ma normativamente fissata, in quanto
l'art. 1 del dm 08.04.2008, come modificato dal successivo dm 20.07.2009, ampiamente
richiamando la ricordata lettera mm) dell'art. 183, del dlgs
n. 152 del 2006,
individua i centri di raccolta comunali o intercomunali come
«costituiti da aree
presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di
raccolta, mediante
raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli
impianti di
recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili,
di smaltimento, dei
rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I,
paragrafo 4.2, conferiti in
maniera differenziata rispettivamente dalle utenze
domestiche e non
domestiche anche attraverso il gestore del servizio
pubblico, nonché dagli altri
soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al
ritiro di specifiche
tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche».
Tanto premesso, rileva la Corte che la pur legittima
applicabilità alla
cosiddette ecopiazzole attivate dai singoli Comuni
nell'ambito del loro
territorio della disciplina prevista per i centri di
raccolta -ampiamente
riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte, una volta
abbandonata la
tesi sino ad allora prevalente secondo la quale esse
andavano assimilate ai
centri di stoccaggio come tali assoggettati alla relativa
disciplina anche
autorizzatoria sulla base della vigente legislazione (in tal
senso infatti: Corte
di cassazione Sezione III penale, 28.09.2005, n.
34665), in ragione proprio della qualificazione normativa
attribuita al concetto di centro di
raccolta (Corte di cassazione, Sezione III penale, 09.05.2011, n. 17864;
idem Sezione III penale, 01.03.2011, n. 7950)-
deve,
tuttavia, intendersi
subordinata alla presentazione da parte delle aree in
questione della
caratteristiche morfologiche e funzionali proprie dei centri
di raccolta come
normativamente individuati.
Deve conseguentemente escludersi che, al di fuori
dell'ipotesi
contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree
attrezzate per il
conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un
generico concetto di ecopiazzola o isola ecologica possa ritenersi sottratta alla
disciplina generale
sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha ormai
definitivamente
delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, un regime autorizzatorio e
gestionale che, come si è visto, consente il conferimento ai
centri di raccolta
di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata.
In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con il
modello dettato dal
legislatore dovrà procedersi ad una valutazione
dell'attività in tal modo posta
in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti,
ivi compreso
l'assoggettamento della attività di loro raccolta ad
apposita autorizzazione
(Corte di cassazione, Sezione III penale, 14.01.2013,
n. 1690).
Sulle basi di quanto riportato è, a questo punto, agevole,
rilevare come
il Tribunale di Novara abbia fatto corretta applicazione dei
principi vigenti in
materia dichiarando la penale responsabilità della prevenuta
nella qualità di
Sindaco del Comune di Vicolungo.
Invero, ribadito il principio secondo il quale, in tema di
rifiuti, pur a
seguito della entrata in vigore del dlgs n. 267 dei 2000, il
quale ha distinto fra
poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo e
poteri di gestione,
attribuendo i primi agli organi di governo locale ed
i
secondi alle figure
dirigenziali legate alla amministrazione da un rapporto non
rappresentativo
ma di servizio, tuttavia spetta al Sindaco un dovere di
attivazione e di
controllo sul corretto esercizio dalla attività gestite in
sede comunale (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 13.09.2013, n. 37544; idem
Sezione
III penale, 11.05.2009, n. 19882‘), va osservato che
nel caso di specie il
Tribunale di Novara ha riscontrato che l'area in questione
risultava priva di
pavimentazione e di sistemi di captazione delle acque
meteoriche che,
pertanto, in caso di pioggia ruscellavanci fra i rifiuti; lì
più ampia parte di
questi ultimi non avevano alcuna protezione dalie intemperie
e risultavano accatastati, in assenza di idonee strutture di
controllo, alla rinfusa con
soltanto alcune grossolane differenziazioni per generi.
L'evidente ascrivibilità del sito di cui alla imputazione
contestata alla
Vi., attese le descritte caratteristiche di quello,
alla categoria del
deposito incontrollato, come peraltro puntualmente
attribuito alla imputata nel
libello introduttivo, ed il fatto che nessun dubbio sia
stato avanzato dalla
ricorrente sulla mancanza delle invece necessarie
autorizzazioni, giustifica,
conclusivamente sul punto, il rigetto del relativo motivo di
ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.04.2017 n. 19594). |
APPALTI:
Il soccorso istruttorio non si applica in
caso di omessa presentazione della garanzia
fideiussoria per l’esecuzione del contratto.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione
– Soccorso istruttorio – Garanzia
fideiussoria per l’esecuzione del contratto
– Art. 93, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Omessa presentazione – Inapplicabilità del
soccorso istruttorio.
L’omessa produzione, in
violazione dell’art. 93. comma 8, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, della garanzia
fideiussoria per l’esecuzione del contratto,
qualora l’offerente risultasse affidatario
non consente il soccorso istruttorio ex art.
83, comma 9, d.lgs. n. 50, trattandosi di
elemento richiesto a pena di esclusione (1)
---------------
(1)
Tar Lazio, sez. I-ter, 18.01.2017, n. 878.
Il Tar ha escluso che possano trovare
applicazione i principi espressi dal
Consiglio di Stato (sez.
III, 02.03.2017, n. 975), in
ordine al c.d. “soccorso istruttorio
processuale” posto che
“l’Amministrazione ha esplicitamente e
erroneamente ritenuto che il requisito,
invece richiesto dalla legge, non fosse
dovuto” (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 21.04.2017 n. 275 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Competenza della Regione sulla
localizzazione di impianti di energia da
fonti rinnovabili.
---------------
Energia elettrica – Fonti alternative –
Impianti eolici – Localizzazione –
Competenza - E’ della Regione – Competenze
comunali – Sono escluse.
Nel sistema delineato dall’art.
12, d.lgs. 29.12.2003, n. 387 non è
ravvisabile una funzione autonoma del Comune
in materia di localizzazione degli impianti
di energia da fonti rinnovabili (in specie
degli impianti eolici), essendo il tema
attratto (anche nelle regioni titolari di
potestà legislativa esclusiva in materia di
urbanistica e paesaggio, come la Regione
Sardegna) nell’ambito della competenza
regionale finalizzata alla individuazione
dei siti non idonei alla localizzazione dei
predetti impianti, con conseguente
esclusione per il Comune della possibilità
di utilizzare lo strumento urbanistico
generale per condizionare tali profili (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar Sardegna che in tema di localizzazione
degli impianti da fonti, come ha più volte
chiarito la Corte costituzionale (sentenze
n. 275 del 2011; n. 224 del 2012), il
sistema delineato dall’art. 12, d.lgs.
29.12.2003, n. 387 (e in particolare nel
comma 10, fondato sulla approvazione in
conferenza unificata delle linee guida e sul
riconoscimento alle regioni del potere di «procedere
alla indicazione di aree e siti non idonei
alla installazione di specifiche tipologie
di impianti») è espressivo di una norma
fondamentale di principio nella materia “energia”,
vincolante anche per le Regioni a statuto
speciale; e, nel contempo, costituisce un
punto di equilibrio rispettoso di tutte le
competenze, statali e regionali, che
confluiscono nella disciplina della
localizzazione degli impianti eolici.
Non è ravvisabile una funzione autonoma del
Comune in materia di localizzazione degli
impianti di energia da fonti rinnovabili.
Conclusione, questa, che trova una ulteriore
conferma anche in quanto previsto dall’art.
12, comma 3, d.lgs. n. 387 cit., nella parte
in cui dispone che l’autorizzazione unica,
rilasciata dalla Regione «costituisce,
ove occorra, variante allo strumento
urbanistico»; il che non può avere altro
significato se non di rendere irrilevanti
eventuali norme urbanistiche o norme
tecniche di attuazione contrastanti con le
scelte di localizzazione effettuate in sede
di rilascio dell’autorizzazione unica; e,
conseguentemente, esclude una competenza del
Comune in punto di localizzazione di detti
impianti.
Il Tar ha quindi ritenuto non condivisibile
la posizione di chi ritiene che le
disposizioni di cui al d.lgs. n. 387 del
2003 non escludono in alcun modo il potere
del Comune di disciplinare l’uso del
territorio al fine di assicurare una
distribuzione equilibrata e razionale degli
impianti eolici (da ultimo,
Tar Catania, sez. II, 24.02.2017, n. 372).
Tale funzione di contemperamento (tra –da un
lato- tutela del paesaggio e uso del
territorio; e, dall’altro lato, l’esigenza
di massima diffusione delle fonti di energia
rinnovabili) si svolge, infatti, a un
livello sovracomunale, secondo il sistema
(conforme a Costituzione) di cui all’art.
12, d.lgs. n. 387 del 2003 (TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 21.04.2017 n. 271 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
copia completa della e-mail certificata per
la notifica Pec. Processo telematico.
Notifica Pec da provare con le ricevute di
accettazione e consegna più allegati in
formato cliccabile. Le regole tecniche Pat
impongono la copia completa della e-mail
certificata consegnata: nel dubbio sulla
firma digitale del ricorso il collegio
intende verificare e invita la parte a
mettersi in regola. I giudici concedono alla
parte privata qualche giorno perché i suoi
adempimenti non risultano in regola con le
specifiche tecniche del processo
amministrativo telematico: per dimostrare
che il ricorso è stato notificato via Pec
bisogna trasmettere in modalità informatica
le ricevute di accettazione e di avvenuta
consegna con allegati i documenti notificati
via e-mail certificata al Comune controparte
in formato “cliccabile” e verificabile dal
collegio.
È quanto emerge dall'ordinanza
19.04.2017 n. 581 della I Sez. del
TAR Campania-Napoli.
La controversia nasce da una differenza sul
compenso che l'azienda vanta nei confronti
del comune per lavori al verde pubblico. Ma
nel fascicolo informatico ci sono due
ricorsi: il primo è senza firma digitale,
l'altro risulta depositato oltre 10 giorni
dopo. Per provare l'avvenuta notifica la
società deposita la scansione per immagini
delle ricevute di accettazione e di avvenuta
consegna dell'impugnazione mandata via Pec
all'amministrazione locale.
L'art. 14, c. 3, del dpcm 40/2016 parla
chiaro: per provare in giudizio la notifica
via posta elettronica certificata le
ricevute di avvenuta consegna devono
contenere anche la copia completa del
messaggio mail consegnato
(articolo ItaliaOggi
del 26.04.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: In
linea con la giurisprudenza, gli atti della
gara non hanno specificato le modalità
attraverso le quali sarebbero dovuti essere
sigillati i plichi contenenti le offerta, ma
hanno richiesto esclusivamente che tali
modalità fossero idonee.
Proprio nell’ottica non formalistica
indicata dagli stessi atti di gara,
l’apposizione del nastro adesivo può
ritenersi un modo di sigillatura idoneo (o
comunque l’ha ritenuto tale la commissione,
nell’esercizio non irragionevole dei suoi
poteri discrezionali).
Diversamente le offerte escluse erano
contenute in plichi privi di qualsiasi forma
di sigillatura (secondo la ricostruzione
operata in punto di fatto degli stessi
ricorrenti), ma soltanto incollati, non
potendosi certo ritenere equivalenti i
termini chiusura e sigillatura.
Priva di rilevanza è poi la circostanza che
sui lembi di tali plichi fossero state
apposte le firme dei concorrenti,
costituendo questo un ulteriore garanzia che
si aggiunge e non sostituisce quella
assicurata dalla loro sigillatura, sulla
base della espressa indicazione degli atti
di gara.
---------------
Con ricorso notificato in data 06.08.2007, e
depositato il successivo 7 agosto, i
ricorrenti hanno impugnato il verbale
indicato in epigrafe, articolando le censure
di: Violazione e falsa applicazione della
lex specialis – Violazione e falsa
applicazione dell’art. 75 del R.D.
23.05.1924 n. 827 – Eccesso di potere per
disparità di trattamento.
Rilevano in via preliminare i ricorrenti
che, nella gara che ha avuto ad oggetto
l’appalto per cui è causa, se le offerte
indicate ai nn. 8 e 10 non fossero state
escluse, sarebbe cambiata la media delle
offerte ammesse e loro sarebbero divenuti
gli aggiudicatari dell’appalto.
Deducono inoltre che l’esclusione di tali
offerte sarebbe illegittima in quanto la
mancanza del sigillo di ceralacca per la
chiusura delle buste contenenti le offerte
non costituisce legittimo motivo di
esclusione dalla gara, come affermato dalla
giurisprudenza che si è pronunziata in
merito; inoltre l’operato della commissione
di gara sarebbe intrinsecamente
contraddittorio, poiché ha ammesso alla gara
le offerte pervenute in buste non
formalmente sigillate, col timbro di
ceralacca, ma sigillate con nastro adesivo.
...
Il ricorso è infondato, alla stregua di
quanto verrà precisato.
In via preliminare il collegio non ritiene
di dover disporre l’istruttoria richiesta da
parte ricorrente, in considerazione delle
censure articolate e della ricostruzione in
punto di fatto operata in ricorso.
In particolare in ricorso viene affermato
che le offerte escluse “non erano aperte,
erano pure incollate sui lembi di chiusura
sui quali, peraltro, erano apposte le
sottoscrizioni dei ricorrenti”, e tale
ricostruzione non ha costituito oggetto di
contestazione da parte del comune di
Palermo.
Dati pertanto per acquisiti i presupposti in
fatto da cui muove l’odierna controversia,
il suo punto dirimente è stabilire se avere
incollato la busta contenente l’offerta ed
apposto, sui lembi, le sottoscrizioni dei
concorrenti integri il requisito richiesto,
a pena di esclusione, per la partecipazione
alla gara per cui è causa e cioè la
presentazione dei plichi “idoneamente
sigillati, controfirmati sui lembi di
chiusura”.
Posta nei suoi corretti termini, la tesi
articolata dai ricorrenti è priva di
fondamento.
In linea con la giurisprudenza che si è
pronunziata in merito, gli atti della gara
per cui è causa non hanno specificato le
modalità attraverso le quali sarebbero
dovuti essere sigillati i plichi contenenti
le offerta, ma hanno richiesto
esclusivamente che tali modalità fossero
idonee.
Ciò considerato, proprio nell’ottica non
formalistica indicata dagli stessi atti di
gara, l’apposizione del nastro adesivo può
ritenersi un modo di sigillatura idoneo (o
comunque l’ha ritenuto tale la commissione,
nell’esercizio non irragionevole dei suoi
poteri discrezionali).
Diversamente le offerte escluse erano
contenute in plichi privi di qualsiasi forma
di sigillatura (secondo la ricostruzione
operata in punto di fatto degli stessi
ricorrenti), ma soltanto incollati, non
potendosi certo ritenere equivalenti i
termini chiusura e sigillatura.
Priva di rilevanza è poi la circostanza che
sui lembi di tali plichi fossero state
apposte le firme dei concorrenti,
costituendo questo un ulteriore garanzia che
si aggiunge e non sostituisce quella
assicurata dalla loro sigillatura, sulla
base della espressa indicazione degli atti
di gara.
Ciò considerato le determinazioni assunte
dalla commissione di gara, contestate dai
ricorrenti, risultano legittime e non
contraddittorie, sottraendosi alle censure
da costoro articolate.
In conclusione il ricorso è infondato e deve
essere respinto (TAR Sicilia-Palermo, Sez.
III,
sentenza 18.04.2017 n. 1069 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Decorrenza del termine per impugnare l’ammissione alla gara
se non sono state rispettate le forme di pubblicità sul
portale della stazione appaltante.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione –
Impugnazione – Motivi avverso l’ammissione
dell’aggiudicatario – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. –
Irricevibilità.
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione di
altro concorrente – Impugnazione – Termine – Mancato
rispetto forme di pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del
2016 – Irrilevanza in caso di conoscenza aliunde.
●
Ai sensi del comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a.,
aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è
irricevibile il ricorso proposto avverso l’aggiudicazione di
una gara pubblica nel quale si sollevano censure contro il
provvedimento di ammissione dell’aggiudicatario che, come
tali, avrebbero dovuto essere tempestivamente proposte entro
il termine previsto dal citato comma 2-bis (1).
●
Ai fini della tempestività del ricorso proposto
avverso l’ammissione di altro concorrente ad una gara non
rileva che la stazione appaltante non abbia provveduto alla
pubblicazione del provvedimento di ammissione alla gara dei
concorrenti con le modalità previste dall’art. 29, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 sul profilo del committente, nella sezione
"Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle
disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33, trovando in
ogni caso applicazione il principio secondo cui in difetto
della formale comunicazione dell'atto e nel caso in cui il
ricorrente viene ad aver contezza dell'atto prima della sua
comunicazione formale, il termine di impugnazione decorre
dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto stesso purché
siano percepibili quei profili che ne rendono evidente
l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica
dell'interessato (2).
---------------
(1)
Tar Napoli, sez. VIII, 02.02.2017, n. 696,
Tar Lazio, sez. I, 04.04.2017, n. 4190.
(2)
Cons. St., sez. III, 17.03.2017, n. 1212; id.,
sez. IV, 19.08.2016, n. 3645 (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 18.04.2017 n. 582 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
ritenuto che:
- in linea di principio,
quando il ricorso incidentale è
finalizzato a contestare la legittimazione del ricorso
principale -ossia il c.d. ricorso incidentale escludente o
paralizzante, essendo dedotte censure relative
all'accertamento dei requisiti soggettivi di partecipazione
alla gara del ricorrente principale o dei requisiti
oggettivi della sua offerta,- il suo esame deve
necessariamente assumere carattere pregiudiziale
(TAR
Toscana, Sez. I, 14.10.2016, n. 1460, Cons. Stato, ad. plen. n. 4/2011);
- tuttavia,
nel caso di palese infondatezza, irricevibilità,
inammissibilità o improcedibilità del ricorso principale, il
Giudice può, per ragioni di economia processuale, esaminarlo
in via prioritaria e ciò in quanto l’accoglimento del
ricorso incidentale dell'aggiudicatario non può comportare
il rigetto del ricorso di un offerente escluso nell'ipotesi
in cui la legittimità dell'offerta di entrambi gli operatori
venga contestata nell'ambito del medesimo procedimento,
atteso che ciascuno dei concorrenti può far valere un
analogo interesse legittimo all'esclusione dell'offerta
degli altri al fine di far constatare l'impossibilità di
procedere alla scelta di un'offerta regolare, con
l’eventuale necessità di ripetizione della gara
(Corte di
Giustizia - 05.04.2016, n. 689, causa C-689/13);
- da quanto sopra segue che
la “dequotazione del
tradizionale tema, affrontato ex professo dall’Adunanza
Plenaria n. 9/2014 proprio sulla rima di tale verifica,
dell'inversione dell'ordine di esame del ricorso incidentale
escludente e di quello principale, potendo in conseguenza
essere ristabilito l'ordine prioritario di esame del ricorso
principale non soltanto per il caso di una sua manifesta
infondatezza, ma anche in tutte le ipotesi, come quella oggi
in discussione, nelle quali risulti applicabile il principio
di marca europea più sopra richiamato"
(Cons. Stato, sez. III, 26.08.2016 n. 3708; TAR Emilia-Romagna, Bologna,
sez. II, 06.12.2016 n. 1012; TAR Lazio, sez. III, 30.06.2016 n. 7532)
- nel caso all’esame, come fatto cenno, il ricorso
incidentale è volto proprio a contestare l’ammissione alla
gara del RTI ricorrente di cui viene rilevata l’assenza di
alcuni requisiti di ammissione nonché, invia subordinata,
del bando di gara;
- tuttavia, l’irricevibilità e l’infondatezza del ricorso
principale per le accennate ragioni di economia processuale
impongono in via prioritaria il suo esame;
rilevato che:
- le censure di cui al primo motivo sono volte a contestare
la mancanza, in capo al RTI aggiudicatario, dei requisiti di
partecipazione avuto riguardo alla circostanza che il
mandatario non sarebbe in possesso del requisito
professionale richiesto dalla legge di gara, ossia la laurea
specialistica in ingegneria civile;
-
l’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. dispone che “Il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della
valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta
giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante” e “l'omessa
impugnazione preclude la facoltà di far valere
l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure
di affidamento, anche con ricorso incidentale”;
-
la norma in parola non pone dubbi interpretativi
conseguendone l’irricevibilità del ricorso proposto avverso
l’aggiudicazione nel quale si sollevano censure contro il
provvedimento di ammissione dell’aggiudicatario che, come
tali, avrebbero dovuto essere tempestivamente proposte entro
il termine di cui all’art. 120, comma 2-bis c.p.a.
(TAR
Campania, sez. VIII, 02.02.2017, n. 696, TAR Lazio,
sez. I, 04.04.2017, n. 4190);
- non può convenirsi con la tesi di parte ricorrente secondo
cui il ricorso sarebbe tempestivo non avendo la stazione
appaltante provveduto alla pubblicazione del provvedimento
di ammissione alla gara dei concorrenti con le modalità
previste dall’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 sul profilo del
committente, nella sezione "Amministrazione trasparente",
con l'applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
- invero, anche a prescindere dalla pubblicazione del
provvedimento de quo con le modalità di cui al citato art.
29 (che controparte contesta essere avvenuto) non può
esservi dubbio che parte ricorrente ne fosse a conoscenza,
dal momento che la stazione appaltante aveva provveduto ad
informarla in data 27.10.2016 con comunicazione e-mail,
allegando il verbale della seduta pubblica appena conclusa
recante i punteggi conseguiti da ciascun operatore economico
e dunque anche l’ammissione alla gara degli RTP
partecipanti;
- in ogni caso in data 17.11.2016 la ricorrente contestava
all’Amministrazione l’ammissione alla gara del RTP primo
classificato mostrando così la piena conoscenza
dell’ammissione alla gara del RTP Gh.;
-
la vigenza dell’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 non reca motivi
per discostarsi, anche nella materia della contrattualistica
pubblica, dal consolidato principio per cui in difetto della
formale comunicazione dell'atto e nel caso in cui il
ricorrente viene ad aver contezza dell'atto prima della sua
comunicazione formale, il termine di impugnazione decorre
dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto purché siano
percepibili quei profili che ne rendono evidente l'immediata
e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato
(tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 17.03.2017 n. 1212;
id., sez. IV, 19.08.2016 n. 3645;
- per conseguenza il ricorso proposto solo in data 24.02.2017 deve per tale profilo dichiararsi
irricevibile;
considerato che:
- parte ricorrente propone un secondo ordine di censure
finalizzate all’esclusione del Raggruppamento aggiudicatario
in quanto la lettura della sua offerta tecnica dimostrerebbe
la conoscenza di informazioni riservate che gli avrebbero
consentito, violando palesemente la par condicio, di
approntare un’offerta cui per tale motivo sarebbe stato
attribuito un punteggio migliore;
- in particolare dalla “relazione tecnico-illustrativa sulle
modalità di svolgimento delle prestazioni”, sarebbe
evincibile che il controinteressato era stato posto a
conoscenza degli elaborati dell’offerta tecnica e
dell’offerta migliorativa presentati, dall’aggiudicatario
provvisorio, nella gara per l’esecuzione dei lavori di
realizzazione dell’impianto di teleriscaldamento, svoltasi
parallelamente ed aggiudicata solo il 16.01.2017, in
relazione ai quali è stata svolta la gara di cui si
controverte per la direzione dei predetti lavori;
- la circostanza ora narrata è ammessa dalla stessa
amministrazione quando (pag. 16 della prima memoria) si
afferma che “il Geom. An.De., in qualità di soggetto
autorizzato dall’operatore economico aggiudicatario
dell’appalto di opere, ha concesso all’odierno controinteressato di prendere visione ed estrarre copia
degli elaborati presentati per la partecipazione alla gara
relativa all’esecuzione del teleriscaldamento del Comune di
Chiusdino”;
- contrariamente all’assunto del Comune secondo cui quegli
atti sarebbero stati ormai pubblici, in realtà, ai sensi
dell’art. 53, co. 3, d.lgs. n. 50/2016, “gli atti di cui al
comma 2”, ossia le offerte delle procedure di affidamento e
di esecuzione dei contratti pubblici “non possono essere
comunicati a terzi o resi in qualsiasi altro modo noti” fino
al momento dell’aggiudicazione che, nel caso di specie è
avvenuta, come già anticipato, il 16.01.2017, cioè dopo
la scadenza del termine di presentazione delle offerte della
gara di cui si controverte;
osservato che:
- tuttavia, dall’esame degli atti di causa emerge, per un
verso, che la Commissione di gara non ha tenuto conto in
alcun modo nella valutazione dell’offerta tecnica delle
informazioni irritualmente acquisite dal RTI Gh. e, per
altro verso, che il disciplinare di gara non consentiva di
acquisire alcun particolare vantaggio dalla conoscenza
dell’offerta dell’impresa che si è aggiudicato l’appalto di
lavori e, quindi, alcun punteggio ulteriore appare essere
stato attribuito alle migliorie o alla particolare
conoscenza del progetto dell’ATI aggiudicataria;
- in ogni caso posto che, per il criterio “Concrete modalità
di espletamento del servizio”, è stato attribuito alla
controparte il punteggio massimo previsto dal disciplinare
(15 punti), solo ipotizzando l’assegnazione di un punteggio
pari o inferiore a 2 la censura supererebbe la prova di
resistenza in ordine all’interesse a dedurla giacché la
differenza di punteggio tra i due concorrenti è risultata, a
conclusione della gara, superiore a 13 punti, seguendone che
la doglianza si palesa meramente dubitativa e non
adeguatamente provata quanto al profilo dell’interesse alla
sua allegazione;
considerato che:
- con il terzo motivo parte ricorrente lamenta che la
commissione avrebbe sopravvalutato l’offerta
dell’aggiudicataria sia in ordine all’elemento B) “Approccio
metodologico” che all’elemento C) “Gruppo di lavoro,
organizzazione e qualifica del personale effettivamente
utilizzato nell’appalto” che, infine, in ordine all’elemento
D) “Concrete modalità di espletamento del servizio” non
avrebbe potuto essere attribuito alcun punteggio essendo il controinteressato venuto in possesso di notizie ulteriori e
diverse da quelle degli altri candidati;
-
nelle gare pubbliche le valutazioni operate dalle
commissioni giudicanti in ordine alle offerte tecniche
presentate dalle imprese concorrenti, in quanto espressione
di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano
manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli,
arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e
manifesto travisamento dei fatti
(ex multis, Cons. St., sez.
V, 26.03.2014, n. 1468);
- nella fattispecie parte ricorrente si limita a
contrapporre alle valutazioni della Commissione giudicatrice
il proprio convincimento soggettivo circa la maggiore
meritevolezza della sua offerta tecnica rispetto a quella
dell’aggiudicatario e, dunque, articola censure che si
svolgono nel campo della mera opinabilità di tali
apprezzamenti;
-
non è "sufficiente che la determinazione assunta sia, sul
piano del metodo e del procedimento seguito, meramente
opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può
sostituire -in attuazione del principio costituzionale di
separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle
effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di
regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione
delle offerte"
(Cons. Stato, V, 28.10.2015, n. 4942,
id., sez. V, 26.05.2015, n. 2615). |
APPALTI: Il
DGUE è un modello autodichiarativo introdotto dal nuovo
codice appalti (art. 85), volto a semplificare e ridurre gli
oneri amministrativi che gravano sugli operatori economici,
ma anche sugli enti aggiudicatori, che infatti sono tenuti
ad accettarlo (v. comma 1 dell’art. 85), ma il suo mancato
utilizzo non è previsto come causa di esclusione, a tal fine
rilevando, ai sensi e nei limiti dell’art. 80, solo il
contenuto delle dichiarazioni in esso riportate.
---------------
3.1. Con la seconda censura la ricorrente afferma che Se.
dovesse essere esclusa perché non si era avvalsa del DGUE.
La censura è destituita di fondamento.
Il DGUE è un modello autodichiarativo introdotto dal nuovo
codice appalti (art. 85), volto a semplificare e ridurre gli
oneri amministrativi che gravano sugli operatori economici,
ma anche sugli enti aggiudicatori, che infatti sono tenuti
ad accettarlo (v. comma 1 dell’art. 85), ma il suo mancato
utilizzo non è previsto come causa di esclusione, a tal fine
rilevando, ai sensi e nei limiti dell’art. 80, solo il
contenuto delle dichiarazioni in esso riportate.
La Se. ha presentato tutte le dichiarazioni e i documenti
richiesti, sicché non vi era ragione di escluderla per il
mancato utilizzo di un certo modello, peraltro ancora in
fase di sperimentazione (v. circolare del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti 18.07.2016, n. 3)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 14.04.2017 n. 1025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Presupposti per l'applicazione del rito superaccelerato.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito
superaccelerato ex comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a. –
Presupposto - Netta distinzione tra fase di ammissione o di
esclusione e fase di aggiudicazione.
Il rito cd. “specialissimo” o “super
speciale”, previsto al comma 6-bis dell’art. 120 c.p.a. per
l’impugnazione dei provvedimenti contemplati dal precedente
comma 2-bis, si applica solo nei casi in cui vi sia una
netta distinzione tra fase di ammissione/esclusione e fase
di aggiudicazione (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che nei casi in cui, invece, la suddetta
distinzione non è ravvisabile, “le esigenze di rapida
costituzione di certezze giuridiche poi incontestabili dai
protagonisti della gara divengono attuali solo nel momento
in cui il procedimento è giunto alla fase di aggiudicazione
definitiva, soggetta all’usuale rito, pur speciale,
disciplinato dai restanti commi dell’art. 120 c.p.a.”.
In termini,
Cons. St., ord., sez. V, 14.03.2017, n. 1059,
secondo cui “la novella all’art. 120 disegna per le gare
pubbliche un nuovo modello complessivo di contenzioso a
duplice sequenza, disgiunto per fasi successive del
procedimento di gara, dove la raggiunta certezza preventiva
circa la res controversa della prima è immaginata come
presupposto di sicurezza della seconda”.
In difetto della contestuale ricorrenza di tutti i
presupposti per la concreta applicazione della prescrizione
processuale relativa al cd. rito superaccelerato, deve
ritenersi che la medesima si riveli inattuabile, per la
mancanza del presupposto logico della sua operatività e cioè
un sistema a duplice sequenza, “disgiunto per fasi
successive del procedimento di gara”.
A tali dirimenti considerazioni si aggiunge quella per cui i
dubbi circa l’applicazione delle nuove regole processuali
debbono “essere risolti preferendo l’opzione ermeneutica
meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa (e,
quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali
espressi dagli artt. 24 e 113)” (Cons. St., sez. III,
25.11.2016, n. 4994) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 14.04.2017 n. 394
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sentenza
della Corte costituzionale. Salvi i limiti agli interventi
di nuova edificazione.
Vincoli
edilizi. Con la
sentenza 13.04.2017 n. 84
la Consulta ha salvato il Testo unico dell'edilizia nella
parte in cui prevede limiti agli interventi di nuova
edificazione fuori del perimetro dei centri abitati nei
comuni sprovvisti di strumenti urbanistici.
In particolare le norme del T.u. Edilizia fanno salva
l'applicabilità delle leggi regionali unicamente se queste
prevedano limiti più restrittivi e stabiliscono che,
comunque, nel caso di interventi a destinazione produttiva,
si applica, in aggiunta al limite relativo alla superficie
coperta (un decimo dell'area di proprietà), anche il limite
della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro
quadrato.
Nel caso specifico la proprietaria di un terreno aveva
chiesto il permesso di costruire un edificio, da adibire ad
attività artigianali. La richiesta era stata rigettata dal
comune, con la motivazione che la volumetria prevista in
progetto eccedeva largamente quella realizzabile in base
alla norma denunciata. La Consulta ha dato, in sostanza,
torto all'interessata, salvando, appunto, le disposizioni
restrittive (articolo ItaliaOggi del 14.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Consulta si pronuncia sui limiti agli interventi di nuova
edificazione a destinazione produttiva, fuori dei centri
abitati sprovvisti di strumenti urbanistici.
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Edilizia e urbanistica – Interventi di nuova edificazione
a destinazione produttiva in assenza di pianificazione
urbanistica – Limiti – Questione infondata di
costituzionalità
Sono infondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b),
del decreto legislativo 06.06.2001, n. 378, recante
«Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)»,
trasfuso nell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, recante il «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia
(Testo A)», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41,
primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo
comma, della Costituzione nella parte in cui, nel prevedere
limiti agli interventi di nuova edificazione fuori del
perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti di
strumenti urbanistici:
a) fanno salva l’applicabilità delle leggi regionali
unicamente ove queste prevedano limiti «più restrittivi»;
b) stabiliscono che, «comunque», nel caso di interventi a
destinazione produttiva, si applica –in aggiunta al limite
relativo alla superficie coperta (un decimo dell’area di
proprietà)– anche il limite della densità massima fondiaria
di 0,03 metri cubi per metro quadrato.
---------------
(1) I.- Con la
sentenza n. 84 del 2017, la Corte costituzionale ha ritenuto
infondate, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42,
secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo comma, della
Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale di
cui alla massima.
La questione è sorta nell’ambito di un giudizio in cui la
richiesta di rilascio del permesso di costruire un edificio,
da adibire ad attività artigianali, era stata respinta dal
Comune, con la motivazione che la volumetria prevista in
progetto eccedeva largamente quella realizzabile su detto
fondo in base alla norma denunciata. Il fondo in questione
risultava, infatti, inserito dal vigente piano regolatore
generale del Comune in «zona F1, Zone di uso pubblico».
Essendo decorsi cinque anni dall’approvazione del piano, le
relative prescrizioni avevano perso efficacia, con la
conseguenza che la predetta zona F1 era divenuta “zona
bianca”. Essa risultava, quindi, soggetta alle
previsioni dell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. n.
380 del 2001, ove si stabilisce che «Salvi i più
restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel
rispetto delle norme previste dal decreto legislativo
29.10.1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti
urbanistici sono consentiti: […] b) fuori dal perimetro dei
centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel
limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi
per metro quadro; in caso di interventi a destinazione
produttiva, la superficie coperta non può comunque superare
un decimo dell’area di proprietà».
Il Tar per la Campania, ritenendo di non poter superare il
contrasto in via interpretativa, con ordinanza del
14.09.2015 ha sollevato questione di legittimità
costituzionale della norma, sia nella parte in cui fa salvi
i limiti stabiliti dalle leggi regionali solo se «più
restrittivi», sia nella parte in cui sottopone gli
interventi a destinazione produttiva al limite di densità
fondiaria, in aggiunta a quello di copertura.
In particolare ha dedotto quanto segue:
a) la violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso
di delega per avere il legislatore delegato introdotto una
disposizione innovativa rispetto a quella dell’art. 4,
ultimo comma, della legge 28.01.1977, n. 10 (che poneva le
due condizioni in via alternativa, riferendo la prima
all’edilizia residenziale, e la seconda alla edificazione a
fini produttivi) laddove l’art. 7 della legge 08.03.1999, n.
50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti
procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998)
ha affidato al Governo la redazione di testi unici delle
norme legislative e regolamentari in una serie di materie
–tra cui l’edilizia– con la finalità di coordinare le
disposizioni vigenti, apportando eventuali modifiche solo se
strettamente necessarie a garantire la coerenza logica e
sistematica della normativa. Anche il tenore della clausola
di cedevolezza sarebbe stato modificato dall’art. 9 del
d.P.R. n. 380 del 2001, il quale fa salva, non qualsiasi
diversa normativa regionale (come previsto dall’art. 4,
ultimo comma, della legge n. 10 del 1977), ma solo i limiti
più restrittivi da questa previsti;
b) la clausola di cedevolezza si porrebbe in contrasto anche con
l’art. 117, terzo comma, Cost., comprimendo la potestà
legislativa delle Regioni in ordine al «governo del
territorio», materia di competenza concorrente nella
quale la legislazione dello Stato deve limitarsi alla
determinazione dei principi fondamentali, ciò in quanto la
regola del doppio limite, posta dal legislatore statale,
sarebbe norma di dettaglio;
c) la disposizione impugnata violerebbe il principio di
ragionevolezza (art. 3 Cost.) e quello di libera iniziativa
economica privata di cui all’art. 41 Cost. in quanto
l’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di
superficie penalizzerebbe oltre misura l’attività di
produzione e di scambio di beni e servizi, richiedendo la
disponibilità di un’area molto estesa per la costruzione di
edifici utili ai fini dello svolgimento di una qualsiasi
attività economica;
d) sussisterebbe infine la violazione dell’art. 42, secondo e terzo
comma, Cost., a fronte della significativa limitazione posta
dal doppio limite all’edificabilità, introdotto dal
legislatore statale con la norma in questione, in luogo
della meno gravosa applicazione degli standard relativi alle
“zone bianche” contemplati dall’art. 4, ultimo comma,
della legge n. 10 del 1977.
II.- La Corte costituzionale -dopo aver condiviso
l’interpretazione prospettata dal giudice remittente nel
senso della necessaria applicazione cumulativa dei due
limiti in questione (superficiario e volumetrico per gli
interventi a destinazione produttiva), in linea con il
diritto vivente (in particolare Cons. Stato, sez. IV,
12.03.2010, n. 1461, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 449,
con nota di INVERNIZZI, secondo cui <<è legittimo il
diniego del permesso di costruire, richiesto per la
realizzazione di un insediamento produttivo ricadente in
«zona bianca» e fuori dal perimetro del centro abitato, che
non rispetti il doppio limite previsto dall’art. 9, 1º
comma, lett. b), d.p.r. 06.06.2001 n. 380, riferito sia alla
soglia di cubatura consentita, sia alla misura massima della
superficie coperta realizzabile>>; 05.02.2009, n. 679 in
Giurisdiz. amm., 2009, IV, 205, con nota di STELLATO,
secondo cui <<l’art. 9, 1º comma, lett. b) d.p.r.
06.06.2001 n. 380, recante la disciplina degli interventi
edilizi a destinazione produttiva al di fuori dei centri
abitati in caso di assenza di pianificazione urbanistica,
deve essere interpretato nel senso della necessità e
concorrenza di entrambi i limiti (superficie coperta e
densità massima fondiaria) previsti dalla norma; pertanto, è
legittimo il diniego di permesso di costruire qualora
l’intervento edilizio a scopi produttivi ricadente in zona
bianca non rispetti sia il limite della densità fondiaria
massima di zero virgola zero tre mc su metro quadrato, sia
il limite di un decimo della superficie coperta rispetto
all’area di proprietà del richiedente il titolo edilizio>>-
ha ritenuto le questioni non fondate sulla scorta delle
seguenti considerazioni:
e) l’inequivoca estensione ai complessi produttivi del limite
volumetrico, operata dal legislatore delegato, trova
giustificazione nell’esigenza di garantire la «coerenza
logica e sistematica» della normativa considerata, in
accordo con la direttiva del legislatore delegante,
considerato che l’applicazione del solo limite di superficie
coperta risultava incoerente con la ratio della
previsione di standard di edificabilità nelle “zone
bianche” (quella cioè di assicurare una edificabilità
significativamente ridotta per non svuotare del tutto lo
ius aedificandi senza pregiudicare al contempo i valori
–di rilievo costituzionale– coinvolti dalla regolamentazione
urbanistica), in quanto si risolveva, nel consentire
un’attività edificatoria sostanzialmente senza limiti,
tramite lo sviluppo in verticale dei fabbricati;
f) la previsione di limiti invalicabili all’edificazione nelle “zone
bianche”, per la finalità ad essa sottesa, ha le
caratteristiche intrinseche del principio fondamentale della
legislazione statale in materia di governo del territorio,
coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali il
paesaggio, l’ambiente e i beni culturali ed è coerente con
la direttrice di delega del promovimento della coerenza
logico-sistematica della disciplina, non pienamente
evincibile dalla previgente disciplina che affermava la
cedevolezza della più rigorosa disciplina statale rispetto a
norme regionali più favorevoli alla tutela delle facoltà
edificatorie ma suscettibili di recare pregiudizio a primari
interessi costituzionali;
g) la norma censurata –nonostante la puntuale quantificazione dei
limiti di cubatura e di superficie in essa contenuta– non
può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo
piuttosto un principio fondamentale della materia in quanto
finalizzata ad impedire, tramite l’applicazione di standard
legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti
urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato
(futuro) governo del territorio e di determinare la totale
consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di
chiaro rilievo costituzionale; in quanto norma di principio
deve ritenersi legittimamente posta dal legislatore statale
nella materia di legislazione concorrente del governo del
territorio cui afferiscono l’urbanistica e l’edilizia;
h) quanto alla pretesa irragionevolezza degli effetti derivanti
dall’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di
superficie che penalizzerebbero oltre misura le attività
produttive occorrendo allo scopo la disponibilità di aree
molto estese, l’inconveniente che il giudice a quo lamenta
rientra nella logica della disciplina di cui si discute, che
è quella di riconoscere al privato –fin tanto che non
intervenga la pianificazione dell’area– facoltà edificatorie
significativamente compresse, proprio per non compromettere
l’esercizio di quella funzione;
i) la disciplina dei limiti di edificabilità nelle “zone bianche”
non incide affatto sulla libertà di iniziativa economica
privata, la quale non deve essere necessariamente garantita
–per imperativo costituzionale– consentendo al privato di
realizzare opifici su terreni non coperti dalla
pianificazione urbanistica;
j) quanto, infine, alla denunciata violazione della garanzia
costituzionale del diritto di proprietà, la Corte reputa
inconferente, rispetto al petitum, il richiamo alla
propria giurisprudenza operato dall’ordinanza di rimessione
in materia di vincoli di inedificabilità preordinati
all’espropriazione o a contenuto sostanzialmente
espropriativo, non venendo nel caso di specie in rilievo un
problema di termine massimo di durata del regime delle “zone
bianche” e di conseguente necessità di prevedere un
indennizzo.
III.- Tutte le q.l.c. esaminate dalla Corte nella sentenza
in commento erano state nella sostanza esaminate e
dichiarate manifestamente infondate da Cons. Stato, sez. IV
n. 1461 del 2010 cit., con argomenti che sono stati, in
alcuni casi, testualmente ripresi dalla Consulta.
Per completezza si segnala:
k) sulla natura del t.u. edilizia, sull’eccesso di delega da cui
sarebbe affetto, sui rapporti Stato e Regioni in materia di
governo del territorio, nonché sulla individuazione dei
principi fondamentali all’interno del t.u. ed. (oltre ai
precedenti citati nella sentenza in commento), cfr.:
I) Cons. Stato, Ad. plen., 07.04.2008, n. 2, in Urbanistica
e appalti, 2008, 745, con nota di BASSANI, e Giust. amm.,
2008, fasc. 2, 181 (m), con nota di ARDANESE;
II) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 in Riv. giur. edilizia,
2016, I, 8, n. STRAZZA e Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota
di VIPIANA PERPETUA;
III)
Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (oggetto della
NEWS US in data 18.07.2016 cui si rinvia per ogni
ulteriore approfondimento);
IV) A. RUSSO; e S. AMOROSINO, in Testo unico dell’edilizia,
a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano, 2015, 3 ss. e 25
ss.;
l) sull’art. 9 t.u. edil., v. R. INVERNIZZI, in Testo unico
dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano,
2015, 259 ss., ivi ogni ulteriore riferimento di dottrina e
giurisprudenza;
m) sulla mancata pianificazione attuativa in caso di
decadenza di precedenti vincoli, cfr. Cons. Stato, sez. IV,
10.06.2010, n. 3699 in Foro it., 2010, III, 484 con nota di
CARLOTTI (Corte
Costituzionale,
sentenza 13.04.2017 n. 84
- commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Anche per i locali accessori bisogna
rispettare le distanze di costruzioni tra
edifici.
Anche se è vero che i
locali accessori non necessitano dello
stesso grado di illuminazione ed areazione
dei quelli abitati, non è possibile
consentire la realizzazione di una parete a
distanza inferiore a 10 m. dalla parete
finestrata che significherebbe limitare
indebitamente le possibilità di
trasformazione dell’immobile limitrofo.
---------------
Il terzo motivo è ugualmente da respingere
in quanto l’art. 9 del D.M. 1444 del 1968
prevede che le pareti finestrate debbano
godere di una fascia libera di rispetto di
almeno 10 m. senza in alcun modo delimitare
la natura dei locali ai quali esse
garantiscono luce ed aria. Nessuna rilevanza
possono avere eventuali difformi previsioni
dei regolamenti locali, posto che, come è
noto, la disciplina dettata dal menzionato
articolo è inderogabile ed auto applicativa
(Cass. 14953/2011).
Né interpretazioni riduttive possono essere
ricavate dalla ratio
igienico-sanitaria della norma, posto che
anche se è vero che i locali accessori non
necessitano dello stesso grado di
illuminazione ed areazione dei quelli
abitati, il carattere accessorio non è
necessariamente destinato a permanere nel
tempo, sempre essendo possibili interventi
di ristrutturazione che modifichino la
composizione interna dell’edificio.
Sicché, in tale ipotesi, consentire la
realizzazione di una parete a distanza
inferiore a 10 m. dalla parete finestrata
significherebbe limitare indebitamente le
possibilità di trasformazione dell’immobile
limitrofo.
La circostanza che uno dei due edifici
soggetti all’obbligo di distanza sia abusivo
potrebbe assumere rilevanza allorché la
violazione edilizia interessi l’intera
costruzione o quantomeno il lato finestrato
o fronteggiante la finestra.
Nel caso di specie, invece, il ricorrente
afferma che la parete interessata sarebbe
stata oggetto di una abusiva sopraelevazione
senza tuttavia specificare se la finestra si
trovi nella parte legittima della parete o
in quella asseritamente realizzata senza
titolo
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.04.2017 n. 558 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Contenuto della comunicazione di avvio del procedimento e
motivazione dell’annullamento d’ufficio.
---------------
●
Procedimento amministrativo – Comunicazione di avvio –
Contenuto - motivi del provvedimento finale – Esclusione.
●
Annullamento
d’ufficio e revoca – Motivazione – Mero riferimento a motivi
di interesse pubblico – Sufficienza – Fattispecie in tema di
locazione di immobili comunali.
●
Comunicazione d’avvio del procedimento è solo una
comunicazione d’avvio, non deve già contenere i motivi del
provvedimento finale (1)
●
Nel caso di annullamento d’ufficio della
assegnazione in locazione di immobile comunale, l’interesse
patrimoniale sotteso dalla determinazione dell’ente,
finalizzata all’adeguamento del canone di locazione ai
parametri di legge, costituisce ex se, senza necessità di
ulteriori dissertazioni argomentative, una valida
attestazione della sussistenza dell’interesse pubblico
prevalente ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n.
241; l’interesse dell’amministrazione al ripristino della
legalità con riguardo ad un profilo di particolare rilevanza
pubblica, e cioè l’utilizzazione del patrimonio immobiliare
secondo modalità remunerative per le casse comunali, ben può
ritenersi prevalente rispetto all’interesse dell’occupante a
permanere nell’immobile in questione nel quale opera
stabilmente da anni sulla base di un contratto di locazione
(2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar, richiamando
precedenti sul punto (Tar
Brescia 18.02.2011, n. 314;
Tar Napoli, sez. I, 25.09.2013, n. 4414) che il
precetto contenuto nell’art. 8, l. 07.08.1990, n. 241
–secondo il quale la comunicazione di avvio del procedimento
deve indicare l’oggetto del procedimento promosso– si deve
intendere sufficientemente rispettato quando venga indicata
la questione che sarà esaminata dall’amministrazione con
l’apporto collaborativo e difensivo del privato, senza la
necessità di una dettagliata specificazione delle ragioni
poste a fondamento del procedimento attivato; difatti, la
ratio della norma è di consentire la partecipazione
dell’interessato al procedimento ed è nell’ambito di esso
che questi può esercitare il diritto di difesa, dovendo la
motivazione specifica della decisione amministrativa essere
piuttosto contenuta nel provvedimento finale adottato
all’esito del contraddittorio endoprocedimentale con il
privato.
(2) Il Tar ha altresì richiamato la normativa che regola la materia
della locazione di immobili pubblici, id est l’art.
32, comma 8, l. 23.12.1994, n. 724 e l’art. 32, comma 8,
07.12.2000, n. 383, dalla quale si evince che la regola
generale è quella della locazione degli immobili facenti
parte del patrimonio comunale ad un valore comunque non
inferiore a quello di mercato, con facoltà di deroga –con
concessione addirittura in comodato- per il caso di
perseguimento di scopi promozione sociale.
E’ dunque evidente che laddove l’ente comunale non ritenga
di esercitare le anzidette facoltà, in relazione alle quali
la decisione dell’amministrazione è connotata da ampia
discrezionalità insindacabile come noto in sede
giurisdizionale, deve trovare applicazione la regola
generale di concessione in locazione al prezzo di mercato.
Sul punto v., in senso contrario, anche
Tar Sardegna, sez. I, 07.02.2017, n. 92 (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 12.04.2017 n. 255
- commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA -
URBANISTICA:
Impugnazione del Piano urbanistico comunale e permesso di
costruire per realizzare manufatti precari.
---------------
●
Urbanistica – Pianificazione - Piano urbanistico comunale –
Entrata in vigore – Individuazione – Conseguenza ai fini
della tempestività della sua impugnazione.
●
Edilizia -
Permesso di costruzione – Manufatto precario –
Individuazione.
●
Il piano urbanistico comunale entra in vigore il
giorno della pubblicazione del provvedimento di approvazione
definitiva nel Bollettino Ufficiale (nella specie, della
Regione Autonoma della Sardegna, che ha previsto tale
adempimento con l’art. 20, comma 8, l. reg. n. 45 del 1989);
tale forma di pubblicità, obbligatoria e non facoltativa,
realizza la forma legale tipica di conoscenza di tale atto
cui va ricollegata la decorrenza del termine per
l'impugnazione delle disposizioni dirette a regolamentare
l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi
che in via immediata (come le norme di c.d. zonizzazione, la
destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici,
la localizzazione di opere pubbliche o di interesse
collettivo) stabiliscono le potenzialità edificatorie della
porzione di territorio interessata.
●
Il carattere di precarietà di una costruzione, ai
fini della esenzione dal permesso di costruire, non va
desunto dalla possibile facile e rapida amovibilità
dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo
ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia
destinata a soddisfare una necessità contingente ed essere
poi prontamente rimossa; rientrano in tale nozione le opere
destinate a soddisfare una necessità imprenditoriale
contingente per essere poi prontamente ed integralmente
rimosse; né tale connotazione può ritenersi preclusa dalla
c.d. stagionalità (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar come la giurisprudenza abbia avuto modo
di affermare al riguardo che, ai fini dell'esenzione del
permesso di costruire, l'opera deve essere destinata ad un
uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e
sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si
tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non
infisso al suolo (Cass. pen., sez. III, 21.06.2011, n.
34763); si sostiene cioè che non implica precarietà
dell'opera e richiede, pertanto, il permesso di costruire,
il manufatto di carattere stagionale ossia la struttura
utilizzata annualmente per soddisfare bisogni ricorrenti e
non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua
funzione (in termini Cass. pen., sez. III, 21.06.2011, n.
34763; Cons. St., sez. IV, 22.12.2007, n. 6615) (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 12.04.2017 n. 254
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EDILIZIA PRIVATA: Suolo
comune: dubbi sulla proprietà della costruzione. Rinvio alle
Sezioni unite. Pro quota o di chi edifica.
C’è contrasto in
Cassazione sul punto se la costruzione eseguita sul suolo
comune appartenga pro-quota, ai comproprietari dell’area;
oppure se appartenga al solo proprietario costruttore.
Al
cospetto di questa incertezza, la Sez. II civile
della Suprema corte, dovendosi nuovamente occupare della
questione, con
ordinanza
interlocutoria 11.04.2017 n. 9316, ha
trasmesso gli atti al primo presidente, affinché valuti la
rimessione della causa alle Sezioni unite.
In difformità rispetto a decisioni precedenti, un più
recente orientamento della Cassazione (che l’ordinanza
invita a rimeditare) ha affermato che il principio di
“accessione” (articolo 934 del Codice civile, in base al
quale quanto edificato sul suolo appartiene al proprietario
del suolo) si riferirebbe solo alle costruzioni su terreno
altrui.
Secondo questo orientamento alle costruzioni eseguite da uno
dei comproprietari su terreno comune non si applicherebbe la
disciplina dell’accessione (cioè l’estensione del diritto di
proprietà del suolo a quanto edificato sul suolo stesso), ma
quella in materia di comunione, con la conseguenza che la
comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini
non costruttori solo se sia stata realizzata nel rispetto
delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle
cose comuni. Con la conseguenza, ad esempio, che le opere
abusivamente edificate non possono considerarsi beni
condominiali per accessione, ma devono considerarsi
appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti
nella sua esclusiva sfera giuridica (Cassazione 4120/2001 e
7523/2007).
Secondo l’ordinanza questa tesi dunque «desta perplessità»,
rispetto all’altra opinione, tradizionalmente sostenuta in
Cassazione (sentenze n. 1297/1973, 3479/1978, 11120/1997),
secondo la quale, per il principio di accessione, la
costruzione su suolo comune è anch’essa comune, mano a mano
che si innalza, salvo contrario accordo scritto tra i
comproprietari del suolo.
A quest’ultima impostazione consegue ad esempio che:
-
la costruzione eseguita su area in comproprietà da parte di
uno dei condomini ricade in comunione pro-indiviso a favore
di tutti i comproprietari secondo quote ideali proporzionate
alle quote di proprietà dell’area stessa, salvo che non si
sia costituito nei modi e nelle forme di legge un altro
diritto reale (ad esempio, un diritto di superficie) a
favore del costruttore-condomino;
-
la costruzione eseguita dal comproprietario, sul suolo
comune, diviene, per accessione, di proprietà comune agli
altri comproprietari del suolo, restando esclusa
l’applicabilità delle norme di cui agli articoli 936 e
seguenti del codice civile, che riguardano la diversa
ipotesi di opere eseguite da un terzo;
-
il principio dell’accessione, di cui all’articolo 934 del
Codice civile implica che, quando il suolo è comune, ricade
nella comunione anche l’edificio costruito su di esso,
tranne che i comproprietari del suolo medesimo abbiano
provveduto con atto scritto alla determinazione reciproca
del loro diritto sulle singole porzioni del costruendo
edificio, destinato a diventare, a costruzione ultimata, di
rispettiva proprietà esclusiva (articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2017).
---------------
MASSIMA
1. - In ordine al secondo motivo di ricorso, va premesso che
la
Corte d'appello -nel confermare la statuizione con cui il
Tribunale ha
riconosciuto in capo alla committente Cà D'Oro 3, che ha
pagato il
corrispettivo della realizzazione di quanto realizzato nel
sottosuolo del
terreno in comunione ordinaria, l'acquisto a titolo
originario della proprietà
esclusiva dei locali ai piani primo e secondo interrato- ha
fatto
applicazione del principio secondo cui alle costruzioni
eseguite da uno
dei comproprietari su terreno comune non si applica la
disciplina
sull'accessione contenuta nell'art. 934 cod. civ., che si
riferisce solo
alle costruzioni su terreno altrui, ma quella in materia di
comunione,
con la conseguenza che la comproprietà della nuova
costruzione opera
a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia
realizzata in
conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle
norme sui limiti
del comproprietario all'uso delle cose comuni, le opere
abusivamente
create non potendo considerarsi beni condominiali per
accessione.
2. - Il motivo di ricorso consente di evidenziare un
contrasto diacronico
nella giurisprudenza di questa Corte.
2.1. - Un primo orientamento sottolinea che per il principio
dell'accessione (art. 934 cod. civ.) la costruzione su suolo
comune è
anch'essa comune, mano a mano che si innalza, salvo
contrario accordo
scritto, ad substantiam (art. 1350 cod. civ.); pertanto, per
l'attribuzione,
in proprietà esclusiva, ai contitolari dell'area comune, dei
singoli piani che compongono la costruzione, sono inidonei
sia il corrispondente
possesso esclusivo del piano, sia il relativo accordo
verbale,
sia il proporzionale diverso contributo alle spese (Cass.,
Sez. II, 11.11.1997, n. 11120).
In quest'ordine di idee, si è affermato che:
-
la costruzione eseguita su area in comproprietà da parte di
uno
dei condomini ricade in comunione pro indiviso a favore di
tutti i
comproprietari secondo quote ideali proporzionate alle quote
di
proprietà dell'area stessa, salvo che non si sia costituito
nei
modi e nelle forme di legge un altro diritto reale a favore
del
costruttore-condomino (Cass., Sez. I, 12.05.1973, n.
1297);
-
la costruzione eseguita dal comproprietario, sul suolo
comune, diviene, per accessione, di proprietà comune agli altri
comproprietari
del suolo, restando esclusa l'applicabilità degli artt. 936
e ss. cod. civ., che riguardano la diversa ipotesi di opere
eseguite
da un terzo (Cass., Sez. II, 11.07.1978, n. 3479);
-
il principio dell'accessione di cui all'art 934 cod. civ.
implica che,
quando il suolo è comune, ricada nella comunione anche
l'edificio costruito su di esso, tranne che i comproprietari
del
suolo medesimo abbiano provveduto con atto scritto alla
determinazione
reciproca del loro diritto sulle singole porzioni del
costruendo edificio, destinato a diventare, a costruzione
ultimata, di rispettiva proprietà esclusiva (Cass., Sez. II,
10.11.1980, n. 6034).
2.2. - Un altro e più recente orientamento ha invece
affermato
che la disciplina sull'accessione, contenuta nell'art. 934
cod. civ., si
riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui: alle
costruzioni eseguite
da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica
tale
disciplina, ma quella in materia di comunione, con la
conseguenza
che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei
condomini
non costruttori solo se essa sia stata realizzata in
conformità di detta
disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del
comproprietario
all'uso delle cose comuni, cosicché le opere abusivamente
create
non possono considerarsi beni condominiali per accessione ma
vanno
considerate appartenenti al comproprietario costruttore e
rientranti
nella sua esclusiva sfera giuridica (Cass., Sez. II, 22.03.2001, n.
4120; Cass., Sez. II, 27.03.2007, n. 7523).
3. - Ritiene il Collegio che il più recente orientamento -che non è
rimasto esente da critiche sollevate in dottrina- meriti di
essere rimeditato
nella sua portata, destando perplessità che l'edificazione
sull'area comune da parte di uno solo dei comunisti in
violazione degli
artt. 1102 e ss. cod. civ., riceva il beneficio
dell'assegnazione della
proprietà esclusiva della costruzione, difficilmente
inquadrabile in uno
dei modi di acquisto stabiliti dall'art. 922 cod. civ..
Si tratterebbe semmai di tracciare una linea interpretativa
in grado
di coniugare la disciplina dell'accessione e della
comunione, facendo
convivere l'espansione oggettiva della comproprietà in caso
di inaedificatio ad opera di uno dei comunisti (salvo che non
si sia costituito
nei modi e nelle forme di legge un altro diritto reale a
favore del
comproprietario costruttore) con la facoltà del
comproprietario non
costruttore di pretendere la demolizione della costruzione
quando sia stata realizzata dall'altro comunista in
violazione dei limiti posti
dall'art. 1102 cod. civ. al godimento della cosa comune.
4. - Poiché la questione della sorte della costruzione
realizzata su
un fondo in comunione ordinaria tra il costruttore e un
terzo e, in
quest'ambito, dei modi attraverso i quali può riconoscersi
in favore
del comproprietario costruttore la proprietà esclusiva del
manufatto
edificato sul suolo comune, intercetta orientamenti
giurisprudenziali
non convergenti ed investe un tema di notevole impatto
pratico anche
sotto il profilo della circolazione della proprietà
immobiliare, il Collegio
ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per
l'eventuale
assegnazione alle Sezioni Unite. |
URBANISTICA: La
controversia attinente al rispetto di un
dovere scaturito da una clausola di una convenzione inerente
a un piano di lottizzazione urbanistica deve essere devoluta
al giudice ordinario, trattandosi di questione relativa
all'esercizio di diritti reali, che non coinvolgono
l'esercizio di pubblici poteri, ma investono meri
comportamenti dell'amministrazione comunale, non contemplati
dal vigente art. 133 cod. proc. amm..
---------------
Considerato che:
-
viene in considerazione una controversia attinente al
rispetto di un
dovere scaturito da una clausola di una convenzione inerente
a un
piano di lottizzazione urbanistica, con la quale, a fronte
della cessione
a titolo gratuito di alcune aree destinate a verde pubblico
da parte
degli originari proprietari, "viene costituita, secondo le
norme del Codice
civile, servitù "non aedificandi" a carico di detto terreno
ed a favore
della residua proprietà Sp. o aventi causa
sopradescritta
nelle premesse; detta servitù non comprende le strutture
necessarie
per lo svolgimento di manifestazioni, la cui altezza massima
non dovrà
superare mt 3,50 dal piano di marciapiede del lungolago";
-
la tesi secondo cui andrebbe dichiarata la giurisdizione del
giudice
amministrativo in quanto la domanda proposta dagli attori
sarebbe
volta "ad accertare l'inadempimento, da parte della p.a., di
obbligo
concepito (e pattuito) come strumentale rispetto al
perfezionamento
e all'esecuzione del rapporto di lottizzazione", impinge
contro la natura reale del diritto fatto valere nel presente
giudizio, che, benché scaturito
dall'esecuzione della convenzione, sin dalla sua
costituzione
configura, per la sua intrinseca caratteristica di valenza
erga omnes,
una fonte autonoma di rapporti giuridici, ai quali va
ricondotta
l'azione proposta dagli attori e dagli intervenuti,
sostanzialmente fondata
sulle forme di tutela previste dall'art. 1079 cod. civ.;
-
in altri termini, la nascita di un diritto reale, il quale,
com'è noto,
comporta la facoltà di godere del bene in maniera diretta,
cui corrisponde
un dovere di soggezione degli altri consociati, e non
richiede,
come avviene per i rapporti di natura obbligatoria, la
cooperazione altrui,
determina il superamento dei limiti di efficacia della
convenzione
(anche sotto il profilo soggettivo, tanto che nella specie
agiscono gli
aventi causa degli originari proprietari del terreno, in
quanto proprietari
del fondo dominante, e non quali parti della convenzione
medesima),
dalla quale, al di là del momento genetico, il diritto
assoluto
"in re aliena" totalmente prescinde, trovando
nell'ordinamento specifiche
e proprie forme di tutela;
-
la tesi secondo cui, ai sensi della legge 07.08.1990, n.
241,
dell'art. 11, comma 5, applicabile ratione temporis (non
dissimile, per
altro, dal vigente art. 133, comma 1, lett. a.2, del vigente
cod. proc.
amm.), è devoluta al giudice amministrativo la giurisdizione
esclusiva
in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli
accordi
sostitutivi dei provvedimenti finali dei progetti di
lottizzazione, confligge
con la natura assoluta del diritto esercitato nella
presente vicenda,
non potendosi dubitare, sulla base del chiaro tenore del
comma
2 di detta disposizione (secondo cui agli accordi in
questione "si
applicano, ove non diversamente previsto, i principi del
codice civile
in materia di obbligazioni e contratti in quanto
compatibili"), del carattere
obbligatorio della materia riservata alla giurisdizione
esclusiva
del giudice amministrativo;
-
non può poi omettersi di rilevare che, secondo un principio
consolidato, l'elemento fondante della giurisdizione
amministrativa,
anche nell'ipotesi in cui sia attribuita in via esclusiva, è
costituito
dall'azione dell'amministrazione attraverso l'esercizio di
pubblici poteri
(Corte cost., nn. 179 del 2016; 191 del 2006 e 204 del
2004), nella
specie non ravvisabile, posto che alla prospettata
violazione della
servitù di non edificare non risulta collegabile alcun
provvedimento
che in qualche modo incida, revocandola in tutto o in parte,
sulla
suddetta convenzione, con la conseguenza che nella specie il
Comune
agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza
esercitare,
neppure mediatamente, pubblici poteri (Cass., Sez. U, 13.06.2012, n. 9592; Cass., Sez. U, 23.02.2010, n. 4319);
-
in relazione alle azioni proposte dal privato nei confronti
della P.A. in
materia di servitù prediali, la giurisdizione del giudice
ordinario, oltre
che dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U, 17.03.2010, n. 6406; Cass., Sez. U, 13.12.1993, n. 12267), è
riconosciuta dalla stessa giurisprudenza amministrativa
(cfr. Cons.
Stato, 20.08.2013, n. 4179);
-
che, pertanto, deve dichiararsi la giurisdizione del giudice
ordinario, al
quale si rimette la liquidazione delle spese del presente
regolamento
(Corte di cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 11.04.2017 n. 9284). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia la compatibilità alla disciplina
comunitaria della normativa nazionale sugli accordi quadro.
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Contatti della Pubblica amministrazione – Accordi quadro
– Artt. 59, commi 2, 3 e 4, d.lgs. n. 163 del 2006 e 54,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Prestazioni chieste da
amministrazioni non firmatarie dell’accordo quadro –
Quantità della prestazione – Compatibilità con la disciplina
comunitaria – rimessione alla Corte di Giustizia Ue.
Devono essere rimesse alla Corte di
Giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE,
le questioni pregiudiziali:
1) se gli artt. 2, comma 5, e 32 della direttiva 2004/18/UE e
l’art. 33 della direttiva 2014/24/UE possano essere
interpretati nel senso di consentire la stipulazione di un
accordo quadro in cui: un’amministrazione aggiudicatrice
agisca per essa stessa e per altre amministrazioni
aggiudicatrici specificamente indicate, le quali però non
partecipino direttamente alla sottoscrizione dell’accordo
quadro stesso; non sia determinata la quantità delle
prestazioni che potranno essere richieste dalle
amministrazioni aggiudicatrici non firmatarie all’atto della
conclusione da parte loro degli accordi successivi previsti
dall’accordo quadro medesimo;
2) nel caso in cui la risposta al quesito sub 1) fosse negativa, se
gli artt. 2, comma 5, e 32 della direttiva 2004/18/UE e
l’art. 33 della direttiva 2014/24/UE possano essere
interpretati nel senso di consentire la stipulazione di un
accordo quadro in cui: un’amministrazione aggiudicatrice
agisca per essa stessa e per altre amministrazioni
aggiudicatrici specificamente indicate, le quali però non
partecipino direttamente alla sottoscrizione dell’accordo
quadro stesso; la quantità delle prestazioni che potranno
essere richieste dalle amministrazioni aggiudicatrici non
firmatarie all’atto della conclusione da parte loro degli
accordi successivi previsti dall’accordo quadro medesimo sia
determinata mediante il riferimento al loro ordinario
fabbisogno (1).
---------------
(1) La Sezione VI ha giudicato su due distinti appelli proposti
contro un'unica sentenza, che ha deciso i ricorsi riuniti
contro un unico provvedimento
Il provvedimento di primo grado impugnato è l'atto con il
quale un'azienda, compresa nell'elenco allegato agli atti
della gara originaria, aderisce al contratto già stipulato,
ovvero stipula per sé senza una nuova gara, negoziando le
quantità al momento dell'adesione.
Il primo ricorso in appello è stato proposto dell'Antitrust
in sede di legittimazione straordinaria. Il secondo da un
imprenditore del settore, il gestore uscente, che vuole una
nuova gara.
La Sezione si è posta innanzitutto il problema di
qualificare la fattispecie. L'ipotesi, appunto, è quella di
un accordo quadro concluso per sé, da parte della prima
stipulante, e in rappresentanza delle aziende dell'elenco.
Ha chiarito che il rapporto fra la prima stipulante e queste
ultime é irrilevante verso l'esterno: potrebbe esserci una
procura a monte, ma se non ci fosse la successiva adesione
varrebbe ratifica, equivalente a una procura originaria
perché un appalto da eseguire in futuro non pone problemi di
retroattività.
In base a tale qualificazione giuridica, la Sezione si è
chiesta se l'oggetto del contratto concluso all'atto
dell'adesione debba essere determinato da subito in tutti i
suoi elementi - sia sotto l’aspetto soggettivo, con
indicazione in modo specifico degli enti che se ne
potrebbero avvalere, sia sotto l’aspetto oggettivo, nel
senso di prevedere il “valore economico” della
possibile estensione, anche nei termini di un importo
massimo (Cons.
St., sez. V, 11.02.2014, n. 664; id.,
sez. III, 04.02.2016, n. 442 e
20.10.2016 n. 4387), - oppure possa essere non
determinato, o solo determinabile, quanto alle quantità da
fornire.
Il diritto civile consente tutte queste soluzioni: l'oggetto
del contratto pacificamente può essere determinabile, ma
sarebbe valido anche un contratto in cui la quantità della
prestazione non è determinata affatto, mentre lo sono i
prezzi. In questo caso, infatti, l'accordo quadro avrebbe
per oggetto la messa a disposizione di servizi a un dato
prezzo, per la quantità richiesta al momento.
Il problema invece è dato dalle norme di settore,
sull'obbligo di gara, che ove il contratto dell'aderente non
sia già previsto per intero nell'accordo quadro, viene
derogato.
La Sezione ha ritenuto che la deroga potrebbe essere
contenuta nella norma sull'accordo quadro (artt. 59, commi
2, 3 e 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e 54, d.lgs. 18.04.2016,
n. 50) ed ha formulato due quesiti alla Corte.
Il primo, ove assentito, porterebbe alla validità
dell'adesione nell'ipotesi massima, in cui la quantità non è
proprio determinata. Il secondo, prospettato in subordine,
rinvia ad un accordo quadro ove la quantità è determinabile
con riguardo al parametro indicato, comunque assai elastico
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
ordinanza 11.04.2017 n. 1690
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
Agevolazione pubbliche ad impresa in concordato preventivo
omologato.
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Contributi e finanziamenti – Esclusione – Impresa in
concordato preventivo omologato – Legittimità.
E’ legittima l’esclusione di una
impresa in concordato preventivo omologato dalla procedura
finalizzata all’elargizione di agevolazioni pubbliche (1).
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(1)
Il Tar ha preliminarmente ricordato che la normativa
comunitaria in materia di aiuti di stato di cui ai
regolamenti della Commissione UE n. 651 e n. 702 del 2014
definisce in difficoltà una impresa oggetto di procedura
concorsuale per insolvenza o che soddisfi le condizioni
previste dal diritto nazionale per l’apertura nei suoi
confronti di una tale procedura su richiesta dei creditori.
Il Tribunale ha quindi escluso che si possano utilmente
invocare le disposizioni che consentono la partecipazione a
procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici delle
imprese in concordato preventivo con continuità aziendale,
proponendone una lettura e applicazione per analogia. Le
norme di cui agli artt. 80, comma 5, lett. b), e 110, commi
3, 4 e 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e dell’art. 186-bis,
comma 5, r.d. 16.03.1942, n. 267, recanti il puntuale
riferimento al concordato con continuità aziendale,
costituiscono, infatti, una disciplina speciale, che, pur
evidenziando il favor riservato dal legislatore verso
l’istituto del concordato con continuità aziendale (che può
permettere alle imprese in difficoltà di superare la fase di
crisi e di soddisfare i diritti dei creditori, tra l’altro,
anche e proprio attraverso i flussi generati dalla
prosecuzione dell’attività aziendale), si pone in deroga a
regole di principio e non consente di essere utilizzata
quale canone ermeneutico per l’applicazione di disposizioni
concernenti il settore generale delle agevolazioni alle
imprese
Ha infine concluso il Tar che riconoscere il diritto alle
agevolazioni significherebbe consentire il raggiungimento
della finalità del concordato (e così il soddisfacimento dei
creditori) mediante risorse pubbliche, con ciò distorcendo
la ratio sia del concordato stesso, teso al
raggiungimento dell’equilibrio dell’impresa con le sue
forze, sia del beneficio economico richiesto, funzionale
all’espansione della nuova imprenditoria e al sostegno
dell’economia (TRGA
Trentino Anto Adige-Trento,
sentenza 10.04.2017 n. 127
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rimborso spese legali sostenute da impiegato assolto in sede
penale.
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Pubblico impiego privatizzato – Spese legali – Rimborso –
Presupposti – Art. 18, d.l. n. 67 del 1997 – Giudizi
promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi con
l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi
istituzionali – Necessità – Assoluzione in sede penale –
Irrilevanza ex se – Fattispecie.
E’ legittimo il diniego di rimborso
delle spese legali, ex art. 18, d.l. 25.03.1997, n. 67,
sostenute da un assistente di polizia giudiziaria,
sottoposto a procedimento penale, e poi assolto, per i reati
di cui agli artt. 323 (abuso d’ufficio) e 340 (interruzione
di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di
pubblica necessità) c.p. e all’art. 72 (abbandono del posto
di servizio), l. 01.04.981, n. 121 -perché disattendendo le
disposizioni e la prassi vigente e senza autorizzazione, si
era recato in una sezione diversa da quella di assegnazione
intrattenendosi a colloquiare con detenuti- non dipendendo i
fatti che hanno portato a giudizio il ricorrente in diretta
connessione con i fini dell’amministrazione e non essendo
quindi dato riscontrare l’imprescindibile presupposto
(giudizi promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi
con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di
obblighi istituzionali) che, oltre all’assenza di
responsabilità definita con sentenza o provvedimento,
condiziona il riconoscimento del rimborso delle spese legali
ai dipendenti secondo le norme più volte richiamate (1).
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(1)
Ha preliminarmente ricordato il Tar che l’art. 18, d.l.
25.03.1997, n. 67, convertito nella l. 23.05.1997, n. 135,
subordina il rimborso delle spese legali a favore di
dipendenti di amministrazioni statali coinvolti in giudizi
per responsabilità civile, penale e amministrativa, non solo
all’esclusione della loro responsabilità ma, altresì, alla
circostanza che i predetti giudizi siano promossi in
conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del
servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali.
Il rimborso di cui trattasi assolve, infatti, la funzione di
ripristinare la situazione di esposizione economica del
dipendente ingiustamente coinvolto in procedimenti
giudiziari, addossando l’onere relativo all’amministrazione
di appartenenza, implicitamente ma coerentemente
riconoscendo l’immedesimazione tra l’azione del dipendente e
la funzione dell’ente di appartenenza.
Perciò, l’interpretazione rigorosa dell’inciso “in
conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del
servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali”,
comporta che l’assunzione a carico dell’amministrazione dei
costi di difesa sconta la riconducibilità dei fatti
nell’ambito puntuale dei doveri di istituto propri del
dipendente. La mera prestazione lavorativa, pertanto, non
rileva sufficientemente alla luce delle finalità del sistema
che implica, viceversa, che i fatti e i comportamenti
denotino una comunione degli interessi perseguiti dal
dipendente e dall’amministrazione di appartenenza (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 10.04.2017 n. 126
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gara,
il Rup non può fare il commissario.
Se ha svolto ruoli per lo stesso concorso.
Il responsabile del procedimento che ha svolto funzioni
tecniche e amministrative in una gara non può svolgere anche
il ruolo di commissario di gara.
È quanto ha affermato il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la
sentenza 06.04.2017 n. 603
concernente la compatibilità del ruolo di commissario di
gara assunto da un responsabile del procedimento.
I giudici partono dalla presa in esame della giurisprudenza
sviluppatasi sulla materia precisando che, ai sensi
dell'art. 84, comma 4, del vecchio codice appalti nelle gare
pubbliche i commissari diversi dal presidente non devono
aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o
incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto
del cui affidamento si tratta. L'obiettivo della
disposizione è quello di assicurare due concorrenti ma
distinti valori: quello dell'imparzialità e quello
dell'oggettività.
In altre parole, l'articolo 84 ha lo scopo di prevenire il
pericolo concreto di possibili effetti discorsivi e
favoritismi prodotti dalla partecipazione alle commissioni
giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano
emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano
intervenuti a diverso titolo nella procedura di gara
definendo i contenuti e le regole della procedura.
Nella fattispecie sottoposta all'attenzione dei giudici la
sentenza evidenzia che il Rup (Responsabile unico del
procedimento) ha svolto le funzioni di responsabile del
procedimento, e che in tale veste, ha predisposto e
approvato gli atti di gara (determina a contrarre, bando e
capitolato, tutti approvati con determinazione a
contrattare).
Inoltre, lo stesso Rup ha curato tutti gli
adempimenti amministrativi di sua competenza, adottando la
determinazione di approvazione dei verbali di gara e di
aggiudicazione definitiva e ha prontamente adottato e
sottoscritto il verbale di consegna del servizio in via
d'urgenza e sotto riserva di legge.
In conclusione, quindi, per i giudici la predisposizione di
alcuni atti della procedura di gara non costituisce
un'operazione di natura meramente formale, ma implica,
necessariamente, un'analisi degli stessi, una positiva
valutazione e, attraverso la formalizzazione, una piena
condivisione
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: E'
illegittimo che il RUP sia anche membro della commissione di
gara.
La giurisprudenza è unanime nel ritenere che, ai sensi
dell’art. 84 comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nelle gare
pubbliche i commissari diversi dal Presidente non devono
aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o
incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto
del cui affidamento si tratta.
Tale prescrizione mira ad assicurare due concorrenti ma
distinti valori: quello dell'imparzialità e quello
dell'oggettività.
In sostanza, l’art. 84 citato è volto a prevenire il
pericolo concreto di possibili effetti discorsivi e
favoritismi prodotti dalla partecipazione alle commissioni
giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano
emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano
intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale
definendo i contenuti e le regole della procedura.
-----------------
... Per l'annullamento, previa idonea tutela cautelare,
della determinazione n. 3 del 18.03.2016 della Centrale
Unica di Committenza “Sersale – Cropani – Zagarise –
Sellia Marina”, recante ad oggetto “Nomina della
commissione di gara per il servizio di supporto agli uffici”;
...
3. Parte ricorrente impugna i provvedimento per
l’illegittima composizione della commissione di gara di cui
è stata nominata componente, con funzioni diverse da quelle
di Presidente, il responsabile del procedimento e del
settore amministrativo e tributi del Comune di Cropani,
dott.ssa Gi.Fe..
Questo principale motivo ha natura assorbente in rapporto
alle argomentazioni delle parti; infatti, la giurisprudenza
è unanime nel ritenere che, ai sensi dell’art. 84, comma 4,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nelle gare pubbliche i commissari
diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono
svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta.
Tale prescrizione mira ad assicurare due concorrenti ma
distinti valori: quello dell'imparzialità e quello
dell'oggettività (cfr. Tar Lecce, sez. II, sentenza n.
93/2017 del 23.01.2017; Tar Lecce, sez. II, sentenza n. 1040
del 27.06.2016).
In sostanza, l’art. 84 citato è volto a prevenire il
pericolo concreto di possibili effetti discorsivi e
favoritismi prodotti dalla partecipazione alle commissioni
giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano
emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano
intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale
definendo i contenuti e le regole della procedura (cfr. Tar
Latina, sez. I, 13.04.2016, n. 226; Cons. St. n. 3352/2015).
Nel caso in esame, è incontestato che la dott.ssa Fe. ha
svolto le funzioni di responsabile del procedimento, e che
in tale veste, ha predisposto e approvato gli atti di gara
(determina a contrarre, bando e capitolato, tutti approvati
con determinazione n. 19 del 26.02.2016), ha curato tutti
gli adempimenti amministrativi di sua competenza e da ultimo
ha adottato la determinazione n. 8 del 06.02.2017 di
approvazione dei verbali di gara e di aggiudicazione
definitiva e ha prontamente adottato e sottoscritto il
verbale di consegna del servizio in via d’urgenza e sotto
riserva di legge di cui al prot. n. 1063 dell’08.02.2017.
L’aver predisposto alcuni atti della procedura di gara non
costituisce un’operazione di natura meramente formale ma
implica, necessariamente, un’analisi degli stessi, una
positiva valutazione e –attraverso la formalizzazione– una
piena condivisione.
In sostanza, la dott.ssa Fe. ha effettuato una «funzione
o incarico tecnico o amministrativo relativamente al
contratto del cui affidamento si tratta» il cui
svolgimento è precluso ai componenti la Commissione
giudicatrice che, pertanto, nel caso concreto, risulta
viziata nella sua composizione.
Pertanto, vi è senz’altro violazione del citato art. 84 e
tale violazione è idonea a determinare l’annullamento dei
provvedimenti impugnati. Il fatto che la gara rientri in una
delle categorie escluse dall’applicazione del Codice degli
appalti non incide sull’esito della controversia, in quanto
la disposizione costituisce espressione dei principi di
imparzialità e oggettività ed è quindi applicabile anche ai
contratti esclusi ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. 163/2006.
Ne discende che il ricorso deve trovare accoglimento
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 06.04.2017 n. 603 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Termine per impugnare l’ammissione di altro concorrente se è
mancata la pubblicità sul profilo del committente.
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Processo
amministrativo – Rito appalti – Ammissione altro concorrente
– Omessa pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Conseguenza.
Qualora siano mancate le forme di
pubblicità sul profilo del committente, nella sezione
trasparenza, previste dall’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, il termine di trenta giorni previsto dall’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. per l’impugnazione dell’ammissione di
altro concorrente comincia a decorrere solo dalla data di
invio della Pec che comunica l’avvenuto affidamento
dell’appalto, con conseguente applicazione del rito appalti
ordinario in luogo di quello superaccelerato (1).
---------------
(1) Il Tar ha ricordato come tale conclusione sia conforme ai
principi più volte ribaditi in ambito comunitario (Corte
giust. comm. ue 26.11.2015, C-166/14 e 08.05.2014, C-161/13)
che evidenziano la violazione del principio di effettività
laddove la normativa nazionale obbliga alla proposizione di
determinati ricorsi senza consentire una previa completa
conoscenza degli atti (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 05.04.2017 n. 340
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
13.2. - Per tutto quanto rilevato, il Collegio ritiene
che, nel caso di specie, essendo mancata la
pubblicazione sul profilo del committente, soltanto dalla
data di invio della pec decorra il termine dei trenta giorni
previsto per l’impugnativa dell’unico provvedimento che ha
reso noto l’elenco delle ditte ammesse e di quella risultata
aggiudicataria.
In tal senso depone quanto da ultimo ribadito dal Consiglio
di Stato (sez. Cons. Sato, sez. III, sent. 4994 del
25.11.2016, richiamata anche dal ricorrente e riferita
all’applicazione dell’art. 120, comma 6-bis, c.p.a,
introdotto dall’art. 204 D.Lgs. n. 50 del 2016, seppure con
riferimento al diverso profilo del regime temporale di
applicazione delle nuove regole processuali) ai sensi del
quale “in difetto del (contestuale) funzionamento delle
regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei
provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata
impugnazione –che devono, perciò, intendersi legate da un
vincolo funzionale inscindibile- la relativa prescrizione
processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza
del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la
predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la
tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto
del provvedimento da gravare nel ristretto termine di
decadenza ivi stabilito” e che i dubbi circa
l’applicazione delle nuove regole processuali debbono “essere
risolti preferendo l’opzione ermeneutica meno sfavorevole
per l’esercizio del diritto di difesa (e, quindi,
maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi
dagli artt. 24 e 113)”.
Tale orientamento, del resto, risulta conforme ai principi
più volte ribaditi in ambito comunitario (il riferimento è
alle più recenti sentenze della Corte di Giustizia
26.11.2015, C-166/14 e 08.05.2014, C-161/13 che evidenziano
la violazione del principio di effettività laddove la
normativa nazionale obbliga alla proposizione di determinati
ricorsi senza consentire una previa completa conoscenza
degli atti). |
APPALTI:
Termine per impugnare gli atti di gara.
---------------
●
Processo amministrativo – Atto impugnabile – Comunicazione
inizio procedimento annullamento in autotutela atti di gara
– Omessa tempestiva impugnazione provvedimento definitivo di
annullamento – Improcedibilità del ricorso.
●
Processo
amministrativo – Rito appalti – Termine dimidiato
impugnazione atti di gara – Dies a quo – Art. 29, d.lgs. n.
50 del 2016 – Dalla pubblicazione degli atti sul profilo del
committente.
●
E’ improcedibile il ricorso proposto contro
l’atto con il quale la stazione appaltante ha comunicato
l’intenzione di procedere in autotutela all’annullamento
della gara (per un'incongruenza fra quanto richiesto
nell'avviso di manifestazione di interesse e quanto poi
esplicitato negli elaborati di gara, tale da comportare un
restringimento della platea dei possibili concorrenti) prima
di disporre l’aggiudicazione provvisoria, ove non sia stata
poi impugnata tempestivamente lo stesso provvedimento di
annullamento d’ufficio (1).
●
Ai sensi dell’art. 120, comma 5, c.p.a., il
termine dimidiato per impugnare gli atti di gara decorre,
per le gare alle quali si applica il nuovo codice dei
contratti pubblici (approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50),
dalla pubblicazione di tali atti, con le modalità previste
dall’art. 29, sul profilo del committente, nella sezione
"Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle
disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33, senza che
quindi possa rilevare, al fine di far slittare in avanti il
dies a quo del termine per l’impugnazione, il deposito in
giudizio degli atti di gara da parte dell’Amministrazione
resistente (2).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che gli atti endoprocedimentali sono
impugnabili in via autonoma, in quanto la lesione della
sfera giuridica del destinatario è di regola imputabile solo
all'atto che conclude il procedimento. Peraltro, è
ammissibile l’impugnazione anticipata di tali atti in via
meramente eccezionale solo nei casi in cui, in ragione della
natura vincolata, gli stessi siano idonei a conformare in
maniera netta la determinazione conclusiva del procedimento,
ovvero, quando questi spieghino in via diretta ed immediata
una autonoma portata pregiudizievole della sfera giuridica
dei destinatari.
Peraltro, ancorché possa ammettersi l'immediata
impugnabilità degli atti preparatori immediatamente lesivi,
allo scopo di garantire un'immediata tutela giurisdizionale,
anche cautelare, tuttavia tale possibilità di immediata
impugnazione dell'atto lesivo non può certo tradursi in un
esonero dal dovere di impugnare anche l'atto finale.
Se, infatti, l'anticipazione della tutela di impugnazione
costituisce un ampliamento degli strumenti di tutela degli
interessati, attraverso la deroga alla regola generale
secondo cui va impugnato solo l'atto finale e conclusivo del
procedimento, ciò non esime gli interessati dal far valere
anche contro il provvedimento che conclude il procedimento i
vizi già sollevati avverso gli atti preparatori, ancorché in
via derivata; diversamente, in assenza di impugnativa del
provvedimento finale, questi si consoliderà nei suoi effetti
e diverrà inoppugnabile.
(2) Ha chiarito il Tar che è onere del concorrente, tanto più in
pendenza di un contenzioso, verificare sul profilo del
committente la pubblicazione degli atti di gara. Tale onere
risultava nella specie rafforzato dalla pendenza del
contenzioso e dall’avviso (gravato con l’atto introduttivo
del giudizio) che sarebbe stato adottato l’atto definitivo
di annullamento d’ufficio della gara, già preannunciato con
l’atto oggetto del ricorso introduttivo, revoca poi
puntualmente adottata e pubblicata in applicazione delle
regole di trasparenza degli atti relativi alle procedure di
affidamento previste ora dal nuovo codice dei contratti (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 04.04.2017 n. 4190
- commento tratto da e link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: Obbligo
di provvedere su istanza che riguarda materia oggetto di
contenzioso.
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Silenzio della P.A. – Obbligo di provvedere – Istanza su
questione oggetto di ricorso straordinario al Capo dello
Stato – Non sussiste.
La pendenza di un ricorso
straordinario al Capo dello Stato legittima
l’Amministrazione a non rispondere ad un’istanza del
ricorrente, non essendo configurabile un obbligo di
provvedere allorquando l'istanza riguardi materia oggetto di
contenzioso, amministrativo o giudiziario, pendente fra
l’amministrazione e lo stesso istante (1).
---------------
(1)
Cons. St., sez. V, 22.10.2012, n. 5404.
Ha chiarito il Tar che diversamente opinando si avrebbe
–attraverso la proposizione del giudizio contro il silenzio–
la surrettizia introduzione di una lite avente oggetto
sovrapponibile a quello del contenzioso già pendente,
situazione inammissibile alla stregua dei principi generali
sulla litispendenza, oltre che, nella specie, del già
richiamato principio di separazione e autonomia fra ricorso
straordinario e ricorso giurisdizionale: separazione e
autonomia che sarebbero certamente violate se, come chiesto
dal ricorrente, il giudice accertasse la spettanza del bene
della vita che costituisce l’oggetto sostanziale della
pretesa già azionata con il ricorso straordinario (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 04.04.2017 n. 518 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
La prospettazione è infondata.
2.1.
In virtù del principio di alternatività fra ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica e ricorso
giurisdizionale, il provvedimento pregiudizievole può essere
impugnato dinanzi all’una o all’altra sede cui l’ordinamento
affida la decisione della controversia, a discrezione
dell’interessato.
Laddove al primo provvedimento, impugnato,
ne faccia seguito un altro, consequenziale e parimenti
lesivo, ancora una volta compete all’interessato scegliere
se e in quale sede proporre una nuova impugnativa, senza
peraltro essere condizionato dalla scelta operata in
precedenza. Ne discende che le impugnative di atti fra loro
in rapporto di presupposizione/consequenzialità ben possono
pendere contestualmente in sedi differenti (giustiziale
straordinaria per l’uno, giurisdizionale per l’altro, e
viceversa).
Nella specie, in costanza del ricorso straordinario già
proposto avverso il provvedimento che ne aveva disposto
l’esclusione dal corso di specializzazione per incursori, il
ricorrente ha chiesto ed ottenuto dinanzi al TAR
l’annullamento della sanzione disciplinare, che
dell’esclusione rappresentava il presupposto. Nondimeno, nel
rispetto della reciproca autonomia delle sedi di
impugnazione, il TAR nell’annullare la sanzione non si è in
alcun modo pronunciato sulla legittimità della successiva
esclusione dal corso, trattandosi di valutazione riservata
al Consiglio di Stato e al Presidente della Repubblica
investiti del ricorso straordinario.
La pendenza del ricorso straordinario avverso l’esclusione
dal corso legittima
poi, per quanto attiene al presente
giudizio,
il silenzio serbato dall’amministrazione
resistente sulle istanze di rilascio del brevetto
provenienti dall’interessato, non essendo configurabile un
obbligo di provvedere allorquando l'istanza riguardi materia
oggetto di contenzioso giudiziario pendente fra
l’amministrazione e lo stesso istante
(cfr. Cons. Stato,
sez. V, 22.10.2012, n. 5404).
Diversamente, si avrebbe –attraverso la proposizione del
giudizio contro il silenzio– la surrettizia introduzione di
una lite avente oggetto sovrapponibile a quello del
contenzioso già pendente, situazione inammissibile alla
stregua dei principi generali sulla litispendenza, oltre
che, nella specie, del già richiamato principio di
separazione e autonomia fra ricorso straordinario e ricorso
giurisdizionale: separazione e autonomia che sarebbero
certamente violate se, come chiesto dal ricorrente, il
giudice accertasse la spettanza del bene della vita
(l’attribuzione della qualifica di incursore) che
costituisce l’oggetto sostanziale della pretesa già azionata
con il ricorso straordinario. |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizi, l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi
di natura indiziaria:
- piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo,
interesse specifico ad edificare la nuova costruzione,
rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il proprietario;
- eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante
l'effettuazione dei lavori;
- lo svolgimento di attività di materiale vigilanza
sull'esecuzione dei lavori;
- la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in
sanatoria;
- il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in
definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti,
positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi
integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione,
anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente
pure la destinazione finale della stessa.
---------------
Costituisce ius receptum, il principio secondo cui,
in tema di reati edilizi, l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi
di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di
fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova
costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra
l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale
presenza "in loco" di quest'ultimo durante
l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di
materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta
di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime
patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva,
di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o
negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della
colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale,
all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la
destinazione finale della stessa (Sez. 3, 27.09.2000, n.
10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi; 10.08.2001, n.
31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004,
n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005,
n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005,
n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013, Rv. 257676;
Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv.261522) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
03.04.2017 n. 16544). |
EDILIZIA PRIVATA: Aree
colpite da sisma - Realizzazione di alloggio abitativo
antisismico - Disciplina emergenziale - Rispetto del
principio di legalità - Abuso di ufficio - Art. 97
Costituzione - Fattispecie: ottenimento illeciti benefici
preclusi nelle situazioni ordinarie.
La normativa emergenziale non rende legibus solutus
chi deve fare fronte ad eventi così devastanti per la
collettività e non affranca alcuno dal rispetto del
principio di legalità, che anzi deve maggiormente e
soprattutto in questi casi, così dirompenti e distruttivi
per la vita delle popolazioni colpite, costituire l'essenza
dell'attività amministrativa, secondo il paradigma
costituzionale declinato dall'articolo 97 della
Costituzione, in maniera da evitare che tali disastri si
risolvano in favoritismi assicurati a soggetti che alcun
danno dal sisma abbiano subito e che, approfittando invece
della situazione emergenziale, mirino ad ottenere illeciti
benefici a loro preclusi nelle situazioni ordinarie
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni edilizie e illecito edilizio
- Garanzia circa la regolare esecuzione dei lavori -
Responsabilità del direttore dei lavori - Esclusione della
responsabilità - Ottemperanza all'obbligo di comunicazione e
rinuncia tempestiva all'incarico - Artt. 11, 12, 29 e 44
d.p.r. n. 380/2001.
In tema di costruzioni edilizie abusive, il direttore dei
lavori ha una posizione di garanzia circa la regolare
esecuzione dei lavori, con la conseguente responsabilità per
le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare
esente soltanto ottemperando agli obblighi di comunicazione
e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma
secondo, d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il recesso dalla
direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia
intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia
evidenziato in via obiettiva, ovvero non appena avuta
conoscenza che le direttive impartite erano state disattese
o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005, Scimone)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio - Macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto - Accertamento dell'accordo
collusivo - Esclusione - Prova del dolo intenzionale - Art.
323 codice penale.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta
anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto
l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si
intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio
ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente
quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa
(Cass. Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta).
Abuso d'ufficio - Concorso nel reato di
estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio -
Configurabilità - Compartecipazione all'attività criminosa
del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico
servizio - Responsabilità dell'extraneus per concorso nel
reato proprio.
Anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico
servizio possono concorrere nel reato di abuso d'ufficio,
quando vi sia compartecipazione di questi all'attività
criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di
pubblico servizio (Sez. 6, n. 2140 del 25/05/1995, Tontol),
in quanto per la configurabilità della responsabilità dell'extraneus
per concorso nel reato proprio, è sufficiente, da un lato,
la cooperazione materiale ovvero, come nel caso in esame, la
determinazione o l'istigazione a commettere il reato, ed è
indispensabile, dall'altro, che l'intraneo, esecutore
materiale del delitto di abuso d'ufficio, sia riconosciuto
responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua
punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause
personali di esclusione della responsabilità (Sez. 6, n.
40303 del 08/07/2014, Zappia)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI
- Materiali provenienti da demolizione - Deposito temporaneo
- Luogo di produzione rilevante - Disponibilità dell'impresa
produttrice funzionalmente collegato al luogo di produzione
- Requisiti minimi e condizioni di sicurezza - Fattispecie -
Artt. 183 e 256, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, per luogo di produzione rilevante ai
fini della nozione di deposito temporaneo, ai sensi
dell'art. 183, comma 1, lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006,
deve intendersi quello in cui i rifiuti sono prodotti,
ovvero che si trovi nella disponibilità dell'impresa
produttrice e nel quale gli stessi sono depositati, purché
funzionalmente collegato al luogo di produzione e dotato dei
necessari presidi di sicurezza.
Nella specie non ravvisabili, in considerazione sia della
diversa titolarità dell'area di produzione e dell'area di
deposito (essendo irrilevante al riguardo la riferibilità
delle due società proprietarie del cantiere e del luogo di
deposito alla medesima persona fisica), sia della
insussistenza di un collegamento funzionale tra l'area di
produzione dei rifiuti e quella di deposito (non ravvisabile
nella sola difficoltà di eseguire il trasporto dei rifiuti
dal luogo di produzione, che non determina un nesso
derivante dalla attività a seguito della quale sono stati
prodotti i rifiuti); proprio sulla base della ricostruzione
compiuta dal ricorrente il deposito in esame risulta privo
delle caratteristiche di deposito temporaneo, non essendo
stato chiarito il titolo in base al quale esso sia nella
disponibilità dell'impresa produttrice, e non essendo tale
luogo funzionalmente, cioè sulla base di un collegamento con
l'attività produttiva, legato a quello di produzione dei
rifiuti, con la conseguenza che risultano evidentemente
insussistenti i presupposti per poter ravvisare un deposito
temporaneo di rifiuti.
RIFIUTI - Nozione di deposito
controllato o temporaneo - Raggruppamento di rifiuti nel
luogo in cui sono stati prodotti - Requisiti normativi -
Assenza anche di uno dei requisiti normativi -
Qualificazione a deposito preliminare, messa in riserva o
abbandono di rifiuti.
Per deposito controllato o temporaneo si intende ogni
raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta,
nel luogo in cui sono stati prodotti, nel rispetto delle
condizioni dettate dall'art. 183, comma 1, lett. bb), d.lgs.
n. 152 del 2006 (secondo cui costituisce deposito temporaneo
"il raggruppamento dei rifiuti e il deposito preliminare
alla raccolta ai fini del trasporto di detti rifiuti in un
impianto di trattamento, effettuati, prima della raccolta,
nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, da intendersi
quale l'intera area in cui si svolge l'attività che ha
determinato la produzione dei rifiuti o, per gli
imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del codice
civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica
della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari,
di cui gli stessi sono soci, alle seguenti condizioni:
1) i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui
al regolamento (CE) 850/2004, e successive modificazioni,
devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche
che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti
contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al
suddetto regolamento;
2) i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di
recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti
modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti:
con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle
quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in
deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui
al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni
caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il
predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può
avere durata superiore ad un anno;
3) il "deposito temporaneo" deve essere effettuato per categorie
omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme
tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto
delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze
pericolose in essi contenute;
4) devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio
e l'etichettatura delle sostanze pericolose;
5) per alcune categorie di individuate con decreto del Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di
concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono
fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo"):
ne consegue che, in difetto anche di uno dei requisiti
normativi, il deposito non può ritenersi temporaneo (cfr.
Sez. 3, n. 38676 del 20/05/2014, Rodolfi), ma deve essere
qualificato, a seconda dei casi, come "deposito
preliminare" (se il collocamento di rifiuti è prodromico
ad un'operazione di smaltimento), come "messa in riserva"
(se il materiale è in attesa di un'operazione di recupero),
come "abbandono" (quando i rifiuti non sono destinati
ad operazioni di smaltimento o recupero) o come "discarica
abusiva" (nell'ipotesi di abbandono reiterato nel tempo
e rilevante in termini spaziali e quantitativi)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza
31.03.2017 n. 16441 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Permesso
di costruire rilasciato dal dirigente o responsabile dello
sportello unico - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di
ufficio - Configurabilità del reato di abuso di ufficio.
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI
- Effettiva estensione dell'area boscata - Area sottoposta a
vincolo - False attestazioni del tecnico progettista - Art.
142, comma 1, lett. g), d.lgs. 42/2004 - Art. 13, 44, lett.
b), d.P.R. 380/2001.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato
dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel
rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti
urbanistici" integra il requisito della violazione di
legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di
abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo;
conf., Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino).
Fattispecie: in relazione ai reati di cui agli artt. 323
cod. pen. (per avere rilasciato un permesso di costruire,
mediante il quale era stata assentita la costruzione di un
nuovo fabbricato, illegittimo per violazione di legge) e 44,
lett. b), d.P.R. 380/2001 (per avere concorso con il
proprietario del fondo alla realizzazione di scavi di
fondazione con platea in cemento e movimentazione terra,
sulla base di permesso di costruire illegittimo), e con
riferimento al tecnico progettista e redattore di una
relazione tecnico progettuale, contenente false attestazioni
circa l'effettiva estensione dell'area boscata di un fondo
in relazione al quale era stato chiesto il rilascio di
permesso di costruire, in relazione al reato di cui all'art.
481, comma 2, cod. pen.
(Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16436
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Residui da demolizione
- Ambito di classificazione - Limiti alla
riconducibili alle categorie delle materie
prime secondarie o dei sottoprodotti -
Giurisprudenza.
I residui da demolizione non sono
riconducibili alle categorie delle materie
prime secondarie o dei sottoprodotti, quando
non sono destinati, fin dalla loro
produzione, all'integrale riutilizzo senza
trasformazioni preliminari o compromissione
della qualità ambientale (ex multis,
Cass. Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep.
2015). Fattispecie: realizzazione di una
discarica abusiva per lo smaltimento di
materiale proveniente da demolizione di un
capannone.
RIFIUTI - Materiali
provenienti da demolizione - Nozione di
processo di produzione - Distinzione tra
rifiuti e sottoprodotti - Presupposti
normativi e onere della prova - Artt. 183,
184-bis e 256, c. 1, lett. a), d.lgs. n.
152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato
previsto dall'art. 256, commi 1-3, del
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali
provenienti da demolizione debbono essere
qualificati come rifiuti, in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono,
salvo che l'interessato non fornisca la
prova della sussistenza dei presupposti
previsti dalla legge per l'applicazione di
un regime giuridico più favorevole, quale
quello relativo al "deposito temporaneo"
o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n.
29084 del 14/05/2015).
E ciò perché l'attività di demolizione di un
edificio non può ordinariamente essere
definita un "processo di produzione"
quale quello indicato dall'art. 184-bis,
comma 1, lettera a), del d.lgs. 152 del
2006; con la conseguenza che i materiali che
ne derivano vanno qualificati come rifiuti e
non come sottoprodotti (Cass., Sez. 3, n.
33028 del 01/07/2015; Sez. 3, n. 42342 del
09/07/2013).
CODICE DELL'AMBIENTE -
RIFIUTI - Nozione di deposito temporaneo -
Condizioni per lo stoccaggio.
In tema di rifiuti, rientra nella nozione di
deposito temporaneo, esclusivamente, lo
stoccaggio effettuato in presenza delle
condizioni di qualità, di tempo, di
quantità, di organizzazione tipologica e di
rispetto delle norme tecniche richieste ai
sensi dell'art. 183, comma primo, lett. m)
(ora lettera bb), del d.lgs. n. 152 del 2006
(Sez. 3, n. 47991 del 24/09/2015) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16431 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
decadenza del permesso di costruire è un provvedimento
tipico che può legittimamente essere emanato soltanto in
presenza delle due ipotesi tassativamente disciplinate
dall'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, ossia nel caso di
inutile decorso dei termini stabiliti dalla legge per
l'inizio e la fine dei lavori, ovvero qualora sopravvengano
previsioni urbanistiche contrastanti con il permesso
rilasciato, purché i lavori non siano iniziati.
Ne deriva che non è consentito all'amministrazione comunale
determinare autonomamente ulteriori cause di decadenza
automatica del permesso di costruire.
---------------
Ed invero occorre innanzitutto evidenziare che il Comune di
Castel Volturno si è pronunciato sulla decadenza dei
permessi di costruire in esecuzione di quanto disposto da
questa Sezione con sentenza n. 3011 del 15.06.2016 in ordine
alla sussistenza dell’obbligo di provvedere sulla
argomentata istanza di accertamento della decadenza dei
permessi di costruire n. 212/06 e n. 143/08, contenuta nelle
diffide sopra richiamate presentate da parte ricorrente.
Al riguardo si osserva che, alla luce del chiaro tenore
della suddetta disposizione normativa e della prevalente
giurisprudenza dalla quale il Collegio non ha motivo di
discostarsi, la decadenza del permesso di costruire è un
provvedimento tipico che può legittimamente essere emanato
soltanto in presenza delle due ipotesi tassativamente
disciplinate dall'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, ossia nel
caso di inutile decorso dei termini stabiliti dalla legge
per l'inizio e la fine dei lavori, ovvero qualora
sopravvengano previsioni urbanistiche contrastanti con il
permesso rilasciato, purché i lavori non siano iniziati; ne
deriva che non è consentito all'amministrazione comunale
determinare autonomamente ulteriori cause di decadenza
automatica del permesso di costruire (cfr. ex multis
TAR Napoli, Sez. II, 02.11.2016, n. 5026, Consiglio di
Stato, Sez. III, 04.04.2013 n. 1870; TAR Puglia Bari, Sez.
III, 14.01.2009 n. 33)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 29.03.2017 n. 1721 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto.
---------------
Deve altresì
ritenersi infondato il secondo motivo di ricorso con il
quale parte ricorrente lamenta la mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento da parte del Comune di Castel
Volturno.
Al riguardo va rilevato che, secondo il costante indirizzo
giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha ragione di
discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto (cfr. ex multis TAR Napoli,
Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538, 07.01.2015 n. 44;
Consiglio di Stato, VI Sezione, 08.05.2014, n. 2363 e 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, Sezione IV, 23.01.2012, n. 282, 10.08.2011, n. 4764, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 29.03.2017 n. 1721 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Inammissibili le azioni di accertamento dei giudizi proposti
avverso le procedura di gara pubblica.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Accertamento
insufficienza economica dell’offerta della controinteressata
– Azione di accertamento – Inammissibilità – Ratio.
E' inammissibile il ricorso con il
quale è contestata la sufficienza economica dell’offerta
presentata dalla controinteressata, già esclusa dalla
procedura ma per il solo rilievo della non distinguibilità
dei costi di sicurezza aziendale, finendo così per proporre
un’azione di accertamento da parte del giudice in ordine
all'adeguatezza dell'offerta stessa, in assenza di espressa
pronuncia sul punto della commissione di gara, mentre la
normativa contempla nei ricorsi proposti avverso gli atti di
gara pubblica solo azioni di tipo impugnatorio, volte
all’annullamento degli atti della procedura ad evidenza
pubblica (1).
---------------
(1)
Soffermandosi sull’esclusione del concorrente dalla gara per
la non distinguibilità dei costi di sicurezza aziendale, il
Tar ha ricordato che la Corte di Giustizia dell’Unione
Europea si è pronunciata con ordinanza 10.11.2016, n. 697,
riconoscendo l’illegittimità dell’esclusione di offerte
economiche dalle procedure di affidamento di appalti
pubblici disposta per la sola ragione dell’omesso scorporo
degli oneri di sicurezza aziendale, senza consentire che in
sede istruttoria i costi della sicurezza possano essere
specificamente distinti.
Ad avviso dei Giudici comunitari “il
principio della parità di trattamento e l’obbligo di
trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18, devono
essere interpretati nel senso che(essi) ostano
all’esclusione di un offerente dalla procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito
dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo
di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per
la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è
sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non
risulta espressamente dai documenti di gara o dalla
normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di
tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con
l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le
lacune presenti in tali documenti. I principi della parità
di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere
interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere
a un tale offerente la possibilità di adempiere detto
obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione
aggiudicatrice” (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.03.2017 n. 675
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia la legittimazione ad impugnare
l'aggiudicazione da parte dell'operatore economico che non
ha partecipato alla gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti - Legittimazione a
ricorrere – Mancata presentazione della domanda di
partecipazione alla gara – Impugnazione dell’aggiudicazione
- Difetto di legittimazione – Rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia ue la questione se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e
l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE,
avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la
possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara
ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda
di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda
giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura,
derivando dalla disciplina della gara un’altissima
probabilità di non conseguire l’aggiudicazione (1).
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(1)
Ha chiarito il Tar che la giurisprudenza dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato (25.02.2014,
n. 9) afferma che, con riferimento alle
controversie aventi ad oggetto gare di appalto, sia
legittimato a proporre il ricorso esclusivamente l’operatore
economico che abbia partecipato alla procedura oggetto di
contestazione, giacché solo in tale ipotesi il ricorrente
sarebbe titolare di una situazione differenziata e dunque
meritevole di tutela. A tale regola generale fanno eccezione
talune ipotesi tra le quali, per quel che rileva nel caso in
esame, l’eventualità in cui il ricorrente contesti in radice
la procedura di gara, atteso che, in tale caso, “la
mancata partecipazione alla gara, ostativa all’ammissibilità
del ricorso, è del tutto equiparabile alla situazione di chi
ne sia stato legittimamente escluso" (v. anche
Cons. St., sez. IV, 20.04.2016, n. 1560).
La sentenza della Corte costituzionale 22.11.2016 n. 245
propone un’interpretazione del requisito processuale
dell’interesse ad agire tale per cui sarebbe inammissibile
il ricorso proposto dalla impresa che non ha partecipato
alla gara quando non sarebbe assolutamente certo ma soltanto
altamente probabile che, per effetto della strutturazione
della gara (ad esempio dimensione dei lotti) ovvero per
effetto della normativa di gara l’impresa stessa non
potrebbe conseguire l’aggiudicazione.
Sul punto v anche
Cons. St., sez. IV 06.02.2017, n. 481 e id.,
sez. III, 03.02.2017, n. 474, onde il
consolidarsi di un’interpretazione che può preludere alla
formazione del diritto vivente nel senso, restrittivo della
possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale,
stabilito dalla pronuncia della Corte costituzionale
italiana. Evidenti appaiono le conseguenze sull’effettività
della tutela del diritto alla concorrenza di tale ultimo
orientamento.
La possibilità di accedere alla tutela
giurisdizionale sarebbe condizionata alla partecipazione
alla gara, partecipazione che comporta di per sé rilevanti
oneri, e ciò anche nel caso in cui l’impresa intendesse
contestarne la legittimità per essere la gara stessa
eccessivamente restrittiva della concorrenza, partecipazione
che si renderebbe del tutto inutile dal momento che le
chances di aggiudicazione sarebbero, fin dall’inizio,
inesistenti o estremamente limitate (TAR
Liguria, Sez. II,
ordinanza 29.03.2017 n. 263
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Accesso
agli atti anche se il termine è spirato.
Il Tar del Lazio interviene in materia di gare
d'appalto.
Nella gara d'appalto si può chiedere l'accesso ai documenti
sui requisiti soggettivi anche se è spirato il termine per
impugnare l'ammissione dell'aggiudicataria provvisoria.
Lo ha sancito il TAR Lazio-Roma, Sez. III, con la
sentenza 28.03.2017 n. 3971.
La seconda classificata non aveva potuto visionare il
carteggio dei verbali e delle offerte. L'accesso era stato
in parte differito (offerte economiche e tecniche) fino
all'aggiudicazione definitiva e in parte definitivamente
negato (busta A), in assenza del ricorso entro il termine
(30 giorni) del rito superaccelerato. Il collegio ha
bacchettato la p.a. valutando insufficiente il fatto che non
fosse stata presentata l'impugnativa, anche perché non era
precluso all' interessato di rivolgersi all'Anac per
ottenere un parere di regolarità.
I giudici hanno quindi
rifiutato l'idea che «l'accesso alla documentazione
amministrativa presentata in sede di gara goda di un regime
diversificato in ragione del trascorrere del tempo nel senso
cioè che, all'inizio, è accessibile mentre, una volta
scaduto il termine di cui all'art. 120, comma 2-bis, del cpa,
diventa non più ostensibile fino a quando non sia stato
adottato il provvedimento definitivo di aggiudicazione».
Quindi l'operatore economico può accedere alla busta A già
nella fase iniziale della procedura selettiva (senza
attendere cioè quella finale di aggiudicazione), mentre il
differimento previsto dall'art. 53, comma 2, lett. c), dlgs
n. 50 del 2016 è oramai limitato alle buste della proposta
che contengono le offerte tecniche e economiche
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2017).
---------------
MASSIMA
2. Ciò premesso in punto di fatto, va anzitutto chiarito
che, da quanto emerge dalla documentazione depositata in
giudizio, il Ministero resistente, da un lato (con la nota
del 22.12.2016), ha negato l’accesso alla documentazione
amministrativa (busta A) della società controinteressata
(necessaria per verificare il possesso dei requisiti
soggettivi per l’ammissione in gara) e, dall’altro (con nota
del 02.12.2016), con riferimento alla richiesta di prendere
visione dell’offerta tecnica ed economica
dell’aggiudicataria, ne ha differito l’ostensione al momento
dell’adozione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva, come dispone l’art. 53, comma 2, lett. c), del
D.lgs. n. 50 del 2016.
2.1 Ora, partendo dal diniego opposto dall’amministrazione
aggiudicatrice con riferimento alla documentazione
amministrativa della controinteressata, va osservato che
il Ministero resistente ha motivato il diniego in ragione
del fatto che erano spirati i termini previsti dall’art.
120, comma 2-bis, del CPA (d.lgs. n. 104 del 2010) per
proporre ricorso giurisdizionale avverso l’ammissione in
gara dell’aggiudicatario.
Al riguardo,
ritiene il Collegio che tale ragione non sia sufficiente a
giustificare il diniego opposto con la nota del 22.12.2016,
non essendo condivisibile l’assunto del Ministero resistente
secondo cui l’accesso alla documentazione amministrativa è
consentito solo fino a quando non sia spirato il termine per
proporre ricorso giurisdizionale ai sensi dell’art. 120,
comma 2-bis, del CPA e che, una volta spirato, si ricadrebbe
nei limiti di cui all’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs.
n. 50 del 2016 (secondo cui l’accesso alle offerte degli
altri concorrenti, compresa la busta A, è differito fino al
momento dell’aggiudicazione).
Ora,
seguendo il ragionamento della stazione appaltante, si
arriverebbe al paradosso che l’accesso alla documentazione
amministrativa presentata in sede di gara goda di un regime
diversificato in ragione del trascorrere del tempo nel senso
cioè che, all’inizio, è accessibile mentre, una volta
scaduto il termine di cui all’art. 120, comma 2-bis, del CPA,
diventa non più ostensibile fino a quando non sia stato
adottato il provvedimento definitivo di aggiudicazione della
gara.
Una tale interpretazione sconta un profilo di
irragionevolezza che non la rende condivisibile, in
particolare se rapportato alle esigenze tipiche del diritto
di accesso che costituisce, come noto, applicazione del più
generale principio di trasparenza, di derivazione
costituzionale.
Del resto,
la richiesta di accedere alla documentazione amministrativa,
anche in questa fase di aggiudicazione provvisoria (recte:
proposta di aggiudicazione, ex artt. 32 e 33 del d.lgs. n.
50 del 2016), non è subordinata alla sola tutela
giurisdizionale in quanto proprio il fatto di aver
partecipato alla gara costituisce un motivo valido per
giustificare l’accesso a tale documentazione contenuta
normalmente nella busta A e che costituisce una fase
prodromica alla valutazione vera e propria dell’offerta
presentata in sede di gara, funzionale all’individuazione
del migliore offerente al quale aggiudicare l’appalto;
in altre parole,
la parte relativa alla valutazione dei requisiti soggettivi
dei concorrenti non giustifica, proprio alla luce della
nuova normativa in materia di contratti pubblici di cui al
d.lgs. n. 50 del 2016 (che impone –come noto- l’impugnazione
immediata delle ammissioni e delle esclusioni dalla gara,
pena l’inammissibilità dell’azione), alcuna esigenza di
differimento delle richieste di accesso a tale
documentazione, al contrario di quanto avviene nella fase di
valutazione delle offerte laddove l’esigenza di differire
l’accesso trova la propria giustificazione nell’intento di
non rallentare e non “influenzare” l’attività della
commissione.
Non va poi sottaciuto, come rappresentato anche da parte
ricorrente, che l’art. 211, comma 2, del d.lgs. n. 50 del
2016 attribuisce all’ANAC poteri tali da sindacare, in ogni
momento (quantomeno fino alla fase di inizio dell’esecuzione
del contratto di appalto), la legittimità della gara anche
relativamente alla fase di ammissione dei concorrenti alla
procedura di evidenza pubblica, il che non esclude che
l’istante, anche in relazione a tale possibilità prevista
dalla norma citata, continui a mantenere un interesse
concreto ad accedere alla documentazione comprovante i
requisiti soggettivi degli ammessi alla gara di che trattasi
anche una volta spirato il termine di proposizione
dell’azione giurisdizionale di cui al c.d. “rito
superaccelerato” (cit. art. 120, comma 2-bis, del CPA).
Del resto, come detto, è proprio il (nuovo) regime
diversificato di impugnazione previsto dal citato art. 120,
comma 2-bis, del CPA, introdotto nel 2016, che impone una
tale interpretazione nel senso cioè che l’operatore
economico possa accedere alla busta A già nella fase
iniziale della procedura selettiva (senza attendere cioè
quella finale di aggiudicazione, come era previsto nel
vecchio regime di cui al D.lgs. n. 163 del 2006) e che il
differimento previsto dall’art. 53, comma 2, lett. c), del
D.lgs. n. 50 del 2016 sia ormai limitato alle buste della
proposta che contengono le offerte tecniche e economiche.
2.2 Né può essere condivisa l’opposizione all’accesso
formulata dal raggruppamento controinteressato in quanto
quest’ultimo non ha chiarito quali segreti commerciali
sarebbero lesi dal rendere noti alla ricorrente i nominativi
ed i dati identificativi dei soggetti terzi indicati
dall’aggiudicataria a supporto del possesso dei requisiti di
gara; in effetti, la parte controinteressata opera un
generico riferimento a segreti commerciali di cui non è dato
conoscere la consistenza, il che impedisce al Collegio di
operare una valutazione basata su dati concreti e
verificabili.
2.3 In ragione di quanto sopra, il ricorso deve essere in
questa parte accolto e, pertanto, va ordinato
all’amministrazione resistente di consentire alla ricorrente
l’accesso alla documentazione amministrativa (busta A)
presentata in sede di gara dalla parte controinteressata,
entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione in via
amministrativa della presente sentenza ovvero dalla
notifica, se antecedente.
3. L’istanza va invece respinta con riferimento alla
richiesta di accedere all’offerta tecnica ed economica della
controinteressata, condividendo il Collegio il riferimento
operato dalla stazione appaltante alla preclusione contenuta
nell’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016
(riguardanti le ipotesi di differimento).
Al riguardo, deve convenirsi con la prospettazione del
Ministero resistente secondo cui
il riferimento all’aggiudicazione ivi contenuto per
giustificare il differimento dell’accesso alle offerte dei
candidati deve intendersi al provvedimento definitivo
adottato dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 32,
comma 5, del d.lgs n. 50 del 2016.
Ora,
posto che, allo stato, la gara risulta ancora nella fase di
aggiudicazione provvisoria (recte: proposta di
aggiudicazione), il differimento opposto dalla stazione
appaltante con nota del 02.12.2016 (nella parte in cui si
riferisce alla richiesta della ricorrente di accedere
all’offerta tecnica ed economica del RTI controinteressato)
risulta giustificato dalla previsione contenuta nel citato
art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016; resta
fermo che, una volta intervenuto il provvedimento di
aggiudicazione, l’amministrazione dovrà consentire alla
ricorrente l’accesso alla restante documentazione richiesta
con l’istanza del 29.11.2016.
4. In conclusione, il ricorso deve essere accolto in parte,
ordinando all’amministrazione resistente di consentire alla
ricorrente l’accesso alla documentazione amministrativa
(busta A) presentata in sede di gara dalla parte
controinteressata, entro il termine di 30 giorni dalla
comunicazione in via amministrativa della presente sentenza
ovvero dalla notifica, se antecedente. |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazione della disciplina
antisisimica - Violazioni di natura formale
e sostanziale - Potere-dovere da parte del
giudice penale di ordinare la demolizione -
Artt. 24, 25, 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95 e
98 D.P.R. n. 380/2001 - RISARCIMENTO DEL
DANNO - Quantificazione del danno patito
dalla parte civile - Prova dell'esistenza di
un danno e del pregiudizio risarcibile.
In tema di disciplina delle costruzioni in
zona sismica, il potere-dovere da parte del
giudice penale di ordinare ai sensi
dell'art. 98, comma 3, del D.P.R. 380/2001
la demolizione dell'immobile in caso di
condanna per i reati previsti dalla stessa
legge ricorre soltanto nelle ipotesi delle
violazioni cd. "sostanziali",
ovverossia per la inosservanza delle norme
tecniche, e non invece per le violazioni
meramente formali, quali quelle contestate
nella fattispecie in esame (v. Sez. 3,
19.12.2003, n. 48685, Munafò; idem
03.07.2007 n. 37322, Borgia e altro; idem
07.11.2013 n. 6371, De Cesare).
Inoltre, con riferimento al tema della
quantificazione del danno patito dalla parte
civile costituita in materia di reati
edilizio-urbanistici, occorre fornire la
prova dell'esistenza di un danno e la
dimostrazione delle conseguenze dannose che
diano luogo a fattispecie di pregiudizio
risarcibile (Sez. 3, 23.05.1997 n. 6875,
Ciotti e altri).
Costruzioni in zona
sismica - Denuncia al competente ufficio -
Necessità - Presentazione di un progetto
redatto da tecnico abilitato - Direzione dei
lavori - Professionista abilitato -
Configurabilità dei reati di cui all'art. 95
del d.P.R. n. 380/2001.
In tema di costruzioni in zona sismica,
integra la contravvenzione di cui all'art.
95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 qualsiasi
intervento edilizio, con la sola eccezione
di quelli di semplice manutenzione
ordinaria, effettuato in zona sismica,
comportante o meno l'esecuzione di opere in
conglomerato cementizio armato, in grado di
esporre a pericolo la pubblica incolumità
che non sia preceduto dalla previa denuncia
al competente ufficio con presentazione di
un progetto redatto da tecnico abilitato, o
per il quale non sia stato rilasciato il
titolo abilitativo, i cui lavori non siano
stati svolti sotto la direzione di
professionista abilitato (in termini tra le
tante, Sez. 3, 08.10.2008 n. 46081, Sansone,
Rv. 241783; idem, 17.09.2014 n. 48005,
Gulizzi e altro, Rv. 261155; idem 14.01.2015
n. 19185, Garofano, Rv. 263376) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.03.2017 n. 14807 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
2135 del cod. civ. ricomprende nell’attività
dell’imprenditore agricolo “l’allevamento di
animali”, ciò a seguito della novella di cui
al d.lgs. n. 228 del 2001, che ha sostituito
la precedente previsione riferita
“all’allevamento del bestiame”.
Tale modificazione testuale è stata
interpretata dalla giurisprudenza come
comportante un ampliamento dei confini
dell’attività agricola, superando l’idea
originaria secondo cui rientrava in
agricoltura solo l’allevamento di animali
destinati all’alimentazione o ai lavori
agricoli e comunque legati al fattore
produttivo della terra, e giungendo invece a
comprendere nell’agricoltura le attività
comunque correlate al ciclo vitale di
animali, compreso l’allevamento di cavalli
da corsa.
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L’art. 2135 del cod. civ. ricomprende
nell’attività dell’imprenditore agricolo “l’allevamento
di animali”, ciò a seguito della novella
di cui al d.lgs. n. 228 del 2001, che ha
sostituito la precedente previsione riferita
“all’allevamento del bestiame”; tale
modificazione testuale è stata interpretata
dalla giurisprudenza come comportante un
ampliamento dei confini dell’attività
agricola, superando l’idea originaria
secondo cui rientrava in agricoltura solo
l’allevamento di animali destinati
all’alimentazione o ai lavori agricoli e
comunque legati al fattore produttivo della
terra, e giungendo invece a comprendere
nell’agricoltura le attività comunque
correlate al ciclo vitale di animali,
compreso l’allevamento di cavalli da corsa
(TAR Bologna, sez. 1^, n. 968 del 2015; TAR
Perugia, sez. 1^, n. 96 del 2014; TAR
Torino, sez. 1^, n. 1241 del 2014; TAR
Campobasso, sez. 1^, n. 503 del 2013; Cass.
n. 24495/2010).
Alla luce della richiamata evoluzione
normativa non si comprendono le ragioni per
le quali l’allevamento di cavalli ad uso
maneggio non possa rientrare nel concetto di
allevamento, compreso nell’agricoltura, di
cui all’art. 25 del Piano di Gestione (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 27.03.2017 n. 463 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Abbandono o deposito di
rifiuti da parte di terzi - Proprietario del
terreno - Mancata partecipazione al reato -
Assenza di contributo materiale o morale
nell'illecita gestione dei rifiuti -
Responsabilità di posizione - Esclusione -
Natura di reati permanenti e condotta
concorsuale mediante condotta omissiva -
Art. 256 decreto legislativo 03.04.2006 n.
152.
Il proprietario del terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in
modo incontrollato non possa andare incontro
a una responsabilità di posizione, in
difetto di elementi di diretta
partecipazione al reato o di un contributo
materiale o morale nell'illecita gestione
dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di
discarica non autorizzata e stoccaggio di
rifiuti tossici e nocivi senza
autorizzazione hanno natura di reati
permanenti, che possono realizzarsi soltanto
in forma commissiva; ne consegue che essi
non possono consistere nel mero mantenimento
della discarica o dello stoccaggio da altri
realizzati, pur in assenza di qualsiasi
partecipazione attiva e in base alla sola
consapevolezza della loro esistenza (Sez. U,
n. 12753 del 05/10/1994, Zaccarelli), salvo
che risulti integrata una condotta
concorsuale mediante condotta omissiva, nei
casi in cui il soggetto aveva l'obbligo
giuridico di impedire la realizzazione od il
mantenimento dell'evento lesivo (Sez. F, n.
44274 del 13/08/2004, Preziosi).
Gestione illecita di rifiuti -
Proprietario di un terreno estraneo al reato
- Inconfigurabilità della forma omissiva per
il reato di cui all'art. 256, c. 2, d. l.vo
n. 152/2006.
In materia di rifiuti, non è configurabile
in forma omissiva il reato di cui all'art.
256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006,
nei confronti del proprietario di un terreno
sul quale terzi abbiano abbandonato o
depositato rifiuti in modo incontrollato,
anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale
responsabilità sussiste solo in presenza di
un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento
lesivo, che il proprietario può assumere
solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997
del 07/10/2015, Cucinella).
Riesame del sequestro probatorio
- Sindacato del giudice - Limiti -
Fattispecie: Decreto di convalida del
sequestro di polizia giudiziaria emesso dal
pubblico ministero con riferimento al reato
previsto dall'articolo 256, c. 3, d. L.vo n.
152/2006.
in sede di riesame del sequestro probatorio,
il tribunale è chiamato a verificare
l'astratta configurabilità del reato
ipotizzato, valutando il "fumus commissi
delicti" in relazione alla congruità
degli elementi rappresentati, non già nella
prospettiva di un giudizio di merito sulla
concreta fondatezza dell'accusa, bensì con
esclusivo riferimento alla idoneità degli
elementi, su cui si fonda la notizia di
reato, a rendere utile l'espletamento di
ulteriori indagini per acquisire prove certe
o ulteriori del fatto, non altrimenti
esperibili senza la sottrazione del bene
all'indagato o il trasferimento di esso
nella disponibilità dell'autorità
giudiziaria (Sez. 3, n. 15254 del
10/03/2015, Previtero) sicché, in materia di
riesame del vincolo probatorio, il sindacato
del giudice non può investire la concreta
fondatezza dell'accusa, ma è circoscritto
alla verifica dell'astratta possibilità dì
sussumere il fatto in una determinata
ipotesi di reato e al controllo circa la
qualificazione dell'oggetto sequestrato come
corpus delicti e, quindi,
all'esistenza di una relazione di
immediatezza tra il bene stesso e l'illecito
penale (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 24.03.2017 n. 14503 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Conservazione?
Non all'infinito. Consiglio di stato
sui documenti p.a..
I documenti amministrativi non possono essere conservati
all'infinito: pertanto l'Amministrazione può stabilire un
tempo massimo di detenzione prima dello loro distruzione.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 24.03.2017 n. 1332.
La vicenda riguardava il diniego parziale di accesso alle
prove di certificazione del livello di conoscenza di una
lingua straniera, in quanto una parte della documentazione
richiesta era stata mantenuta «in vita» per un periodo
limitato. Il Tar aveva dato ragione al pubblico dipendente
ma l'Amministrazione ha appellato.
Il collegio ha in primo
luogo stabilito che anche nel caso di una procedura solo idoneativa si applica la disciplina di settore. In secondo
luogo il diritto di accesso va contemperato con le esigenze
di buon andamento ed efficienza della stessa azione
amministrativa.
Quindi la p.a. può disciplinare il tempo
massimo di messa a disposizione dei documenti, purché di
tali disposizioni siano informati gli interessati e la
decorrenza sia ancorata a data certa. Lo stesso regolamento
sull'accesso prevede che la visione o l'estrazione di copie
sia possibile sul presupposto dell'esistenza materiale dei
documenti al momento della richiesta. Nonostante il
progredire delle potenzialità tecnologiche non è perciò
immaginabile una generale e sconfinata conservazione di ogni
documento amministrativo, a meno che non si tratti di
carteggi a valenza storica o segreti.
In conclusione è
legittima la temporalizzazione della disponibilità dei
documenti, una volta che il procedimento si sia concluso
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2017).
---------------
MASSIMA
5.1. A favore della prima censura vi è innanzitutto la
considerazione che il diritto di accesso va
contemperato con le esigenze di buon andamento ed efficienza
della stessa azione amministrativa.
E’ vero che il diritto di accesso costituisce il precipitato
del principio di trasparenza, oramai entrato a far parte dei
principi generali che regolano l’azione amministrativa
accanto a quelli di legalità e imparzialità. E’ vero che il
diritto di accesso attua quello di trasparenza e che, a
garanzia di questo, per evitarne la frustrazione, è posto
l’obbligo dell’Amministrazione, cui i documenti richiesti
ineriscono per via delle proprie competenze, di detenere i
documenti o di costituire la detenzione della relativa
documentazione o, comunque, di svolgere ogni azione idonea a
reperirla (salva la motivata esplicitazione
dell’impossibilità di utilmente provvedere).
Ma, non può negarsi che tutti i principi che regolano
l’azione amministrativa siano finalizzati all’obiettivo del
buon andamento e dell’efficienza dell’amministrazione per
garantirne l’efficacia.
Ritiene il
Collegio che, in nome di tale
contemperamento, sia configurabile un potere
dell’Amministrazione di disciplinare il tempo massimo di
detenzione dei documenti a condizione che di tali
disposizioni siano informati gli interessati e che la
decorrenza del tempo massimo sia ancorata a data certa.
5.1.1. Il dato letterale da cui prendere le mosse si
rinviene proprio nell’art. 2, comma 2, del regolamento, che
disciplina le modalità di esercizio del diritto di accesso
ai documenti (d.P.R. n. 184 del 2006, emanato in attuazione
dell’art. 23 della l. n. 15 del 2005), secondo il quale, <<Il
diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti
amministrativi materialmente esistenti al momento della
richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica
amministrazione…>>.
La disposizione regolamentare trova la propria base
legislativa nella previsione (art. 22, comma 6, della legge
n. 241 del 1990) che <<il diritto di accesso è
esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha
l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si
chiede di accedere>>. Allora, è la stessa legge che prevede
astrattamente un termine all’obbligo di detenere i
documenti.
Inoltre, diversi elementi inducono a
ritenere sostenibile, al di là del mero dato letterale, una
interpretazione che consenta la distruzione del documento
dopo un certo periodo.
5.1.2. L’esigenza esiste, atteso che
–nonostante il progredire delle potenzialità tecnologiche–
non è immaginabile una generale conservazione tendente
all’infinito di ogni documento amministrativo. Una
conservazione, quindi, che prescinda dalle tematiche
collegate, e qui non rilevanti, dei documenti a valenza
storica e dai documenti segreti.
E’ sufficiente considerare che i termini
decadenziali per l’accesso alla tutela giurisdizionale
avverso le determinazioni e il silenzio sulle istanze di
accesso ai documenti (art. 116 c.p.a.) pongono una
limitazione temporale a valle, mentre resta completamente
libero il termine a monte, affidato unicamente alla perdita
fattuale dell’interesse per le vicende naturali del corso
della vita.
Tanto più che, secondo la giurisprudenza consolidata (CdS,
VI n. 3147 del 2009), il diritto di
accesso, come interesse ad un bene della vita autonomo, deve
essere accordato anche se l’interessato non può più (oltre
che se non può ancora) agire in sede giurisdizionale. Con la
conseguenza che non funziona come delimitazione temporale a
monte il termine per l’impugnazione dell’atto lesivo cui il
documento richiesto possa riferirsi, collegato al momento di
acquisto di efficacia dello stesso (art. 29 c.p.a., art.
21-bis, della legge n. 241 del 1990).
L’esigenza
suddetta si coniuga con l’interesse dell’Amministrazione ad
efficientare l’utilizzo delle risorse materiali ed umane che
ha a disposizione, il quale non è cosa diversa
dall’interesse generale alla celerità dell’azione
amministrativa, comune al privato e all’amministrazione,
atteso che il miglior utilizzo delle prime quantomeno
concorre ad assicurare la realizzazione della seconda.
5.1.3. Il legislatore
si è dimostrato non insensibile a tali tematiche laddove:
a) ha considerato il potere di differire l’accesso
se l’immediata ostensione possa turbare il regolare
svolgimento dell’azione amministrativa, oppure, quale
extrema ratio, di rifiutarlo espressamente; fermo
restando che rifiuto, differimento e limitazione devono
essere specificamente motivati
(art. 25, comma 3, l. n. 241 del 1990);
b) ha previsto che la pubblica amministrazione non
è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di
soddisfare le richieste di accesso
(lo stesso articolo 2 del regolamento in argomento).
5.1.4. Peraltro, la stessa previsione del termine
decadenziale per l’esercizio dell’azione giurisdizionale è
stata ritenuta compatibile con la posizione soggettiva
tutelata -strumentale e funzionale al bene della vita finale
che l’istante intende tutelare- anche in nome della esigenza
di stabilità e certezza, caratterizzante i rapporti
amministrativi (CdS A.P. nn. 6 e 7 del 2006). Queste stesse
esigenze possono concorrere a fondare una interpretazione
che consenta la delimitazione temporale della disponibilità
dei documenti per l’accesso.
5.1.5. L’interpretazione sostenuta non trova ostacolo nello
stesso art. 2, comma 2 cit., laddove, a proposito
dell’autorità competente cui indirizzare la richiesta, si
dice <<… nei confronti dell'autorità competente a formare
l'atto conclusivo o a detenerlo stabilmente.>>.
La suddetta norma, in linea con l’art. 22 della legge n. 241
del 1990, indica i soggetti in direzione dei quali può
essere esercitato il diritto di accesso, specificando che
può trattarsi <<dell'autorità competente a formare l'atto
conclusivo>>, ossia deputata a concludere il
procedimento amministrativo con l’adozione del relativo
provvedimento, ovvero dell’autorità competente a <<detenerlo
stabilmente>>, ossia non in via provvisoria, e che può
coincidere con la prima.
All’evidenza, il termine <<stabilmente> è
contrapposto a <<in via provvisoria>> e si riferisce
alla detenzione con riferimento al corso del procedimento e
alle diverse amministrazioni che possono essere coinvolte,
ai fini della individuazione dell’amministrazione cui le
richieste possono essere indirizzate.
5.1.6. La temporalizzazione della
detenzione dei documenti, una volta che il procedimento si
sia concluso, non trova ostacolo neanche nell’esigenza,
posta dall’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, di
garantire comunque l’accesso ai documenti la cui conoscenza
sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici. Infatti, per assicurare l’effettività della
garanzia non vi è bisogno di una disponibilità a tempo
indeterminato, prestandosi ad essere idonea la concreta
possibilità di accesso per un tempo ragionevolmente
determinato.
5.1.7. Infine, ostacoli non derivano neanche dalla pregressa
giurisprudenza di questo Consiglio. In alcune rilevanti
pronunce (CdS, sez. IV, n. 1312 del 2013; sez. VI n. 3743
del 2015) l’affermazione dell’obbligo di detenzione per
evitare la frustrazione del diritto di accesso mediante il
diniego fondato sul mancato possesso dei documenti, anche
quando si utilizzano espressioni generalizzanti, quali <<assenza
per qualsivoglia ragione>> (CdS, sez. IV, n. 2379 del
2014), si collega sempre alla riconducibilità della
detenzione ad una determinata amministrazione e alla
individuazione della amministrazione su cui grava l’obbligo
di detenere, nell’ambito del procedimento. Mai alla
regolazione temporale del tempo di detenzione dei documenti
dopo la conclusione del procedimento.
5.2. Come prima accennato, la ritenuta
legittimità della regolamentazione temporale della
disponibilità dei documenti per consentirne l’accesso deve
completarsi, proprio per evitare la frustrazione del
diritto, con l’ancoraggio del tempo stabilito a termini di
decorrenza certi e con la preventiva informazione in ordine
agli stessi.
Requisiti che, nella specie, risultano soddisfatti. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Responsabilità
perimetrata. Contestabile solo la violazione del dovere di
diligenza. AVVOCATI/ La Corte di cassazione si è
recentemente soffermata su un tema caldo.
Responsabilità professionale dell'avvocato: solo la
violazione del dovere di diligenza sarà contestabile.
La
Corte di Cassazione si è recentemente soffermata sul tema
della responsabilità dell'avvocato, e quanto emerge dalle
ultime pronunce va a confermare che, sebbene ci sia una
differenza tra procura alle liti e contratto di patrocinio e
che sebbene l'avvocato sia chiamato a porre in atto tutte le
strategie per giungere ad un risultato favorevole al
cliente, resta immutato che la responsabilità professionale
dell'avvocato rappresenti una obbligazione di mezzi e non di
risultato, pertanto solo la violazione del dovere di
diligenza sarà contestabile.
Contratto di patrocinio e procura alle
liti. I giudici
della Corte di Cassazione, Sez. III civile, con
sentenza 23.03.2017 n. 7410 si sono espressi in ordine alla
interpretazione del contratto di mandato professionale,
nonché alla distribuzione dell'onere probatorio fra clienti
e avvocato circa l'esistenza (od inesistenza od estinzione)
di un tale mandato professionale per la tutela giudiziale
anche davanti alla Corte di cassazione.
Secondo i giudici di
piazza Cavour in tema di attività professionale svolta da
avvocati risulta essere fondamentale la differenza che corre
tra contratto di patrocinio e procura alle liti, poiché,
mentre quest'ultima è un negozio unilaterale col quale il
difensore viene investito del potere di rappresentare la
parte in giudizio, il contratto di patrocinio è un negozio
bilaterale col quale il professionista viene incaricato di
svolgere la sua opera secondo lo schema del mandato.
Pertanto, tale assunto avrà le seguenti conseguenze: non si
può escludere che il rilascio di una procura alle liti
assolva all'onere di forma eventualmente richiesto per il
contratto e, al contempo, ne fornisca la prova. Però, di
norma, ai fini della conclusione del contratto di
patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura
ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento
dell'attività processuale, e non è richiesta la forma
scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di
forma.
Ed inoltre a parere degli Ermellini non rileverà
neppure, ai fini della conclusione del contratto di
patrocinio, il versamento, anticipato o durante lo
svolgimento del rapporto professionale, di un fondo spese o
di un anticipo sul compenso, sia perché il mandato può
essere anche gratuito, sia perché, in caso di mandato
oneroso, il compenso e l'eventuale rimborso delle spese
sostenute possono essere richiesti dal professionista
durante lo svolgimento del rapporto o al termine dello
stesso.
Sulla diligenza professionale.
In altra recente pronuncia i giudici (Sez. II civile,
sentenza 22.03.2017 n. 7309) hanno evidenziato come
l'avvocato nella prestazione dell'attività professionale,
sarà sempre obbligato a usare la diligenza del buon padre di
famiglia e la violazione di tale dovere comporta
inadempimento contrattuale e, la perdita del diritto al
compenso.
Gli stessi giudici hanno però evidenziato come
l'eccezione d'inadempimento potrà essere opposta dal cliente
all'avvocato che abbia violato l'obbligo di diligenza
professionale a patto che la negligenza sia stata tale da
incidere sugli interessi del cliente, non potendo il
professionista garantire l'esito comunque favorevole
auspicato dal cliente, ed essendo contrario a buona fede
l'esercizio del potere di autotutela ove non sia
pregiudicata la «chance» di vittoria in giudizio.
Pertanto,
legittimamente il cliente potrà rifiutare di corrispondere
il compenso all'avvocato quando costui abbia espletato il
proprio mandato incorrendo in omissioni dell'attività
difensiva che, sia pur sulla base di criteri necessariamente
probabilistici, risultino tali da aver impedito di
conseguire un esito della lite altrimenti ottenibile.
E
inoltre, in ossequio anche a un ormai consolidato
orientamento dettato dalla giurisprudenza, la responsabilità
professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi
e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di
diligenza, per il quale trova applicazione quello della
diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art.
1176, secondo comma, cod. civ., da commisurare alla natura
dell'attività esercitata.
Inoltre, non potendo il
professionista garantire l'esito comunque favorevole
auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue
omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di
criteri necessariamente probabilistici, si accerti che,
senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato
conseguito, secondo un'indagine istituzionalmente riservata
al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità
se adeguatamente motivata e immune da vizi logici e
giuridici.
Obbligazioni inerenti all'esercizio
dell'attività professionale.
Infine, la stessa Cassazione (Sez. III civile,
sentenza
14.02.2017 n. 3765) ha osservato come la diligenza
professionale dell'avvocato lo dovrebbe indurre a compiere
gli atti interruttivi della prescrizione in rapporto al
termine più breve di questa, infatti le obbligazioni
inerenti all'esercizio dell'attività professionale sono, di
regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto
il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a
prestare la propria opera per raggiungere il risultato
desiderato ma non a conseguirlo.
Pertanto, ai fini del
giudizio di responsabilità nei confronti del professionista,
rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in
relazione al parametro della diligenza fissato dall'art.
1176, secondo comma, cod. civ., che è quello della diligenza
del professionista di media attenzione e preparazione.
Quindi rientrerà nella ordinaria diligenza dell'avvocato il
compimento di atti interruttivi della prescrizione del
diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono
speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla
particolare situazione di fatto, che va liberamente
apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il
calcolo del termine. Non ricorre tale ipotesi nel caso in
cui l'incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in
base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso,
a causa dell'incertezza della norma giuridica da applicare
al caso concreto
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2017). |
APPALTI:
Limiti esterni della giurisdizione amministrativa in caso di
declaratoria di inefficacia del contratto di appalto
conseguente ad annullamento dell’aggiudicazione per vizi
comportanti la rinnovazione della gara.
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Giustizia amministrativa – Consiglio di Stato – Sentenza
– Declaratoria di inefficacia del contratto di appalto in
presenza di vizi comportanti la rinnovazione della gara –
Eccesso di potere giurisdizionale – Inconfigurabilità
Non sussiste violazione dei limiti
esterni della giurisdizione amministrativa in caso di
declaratoria di inefficacia del contratto di appalto ai
sensi dell’art. 122 cod. proc. amm., conseguente ad
annullamento dell’aggiudicazione per vizi comportanti la
rinnovazione della gara (1).
---------------
(1)
I.- La pronuncia è stata resa dalle Sezioni unite della
Corte di cassazione in sede di ricorso avverso la sentenza
del Consiglio di Stato n. 2157 del 27.04.2015 che, in
riforma della statuizione di primo grado, ha accolto il
ricorso promosso da un’impresa, in materia di affidamento di
un appalto pubblico di servizi, volto a far accertare la
illegittimità dell’operato della commissione di gara per
avere integrato i criteri di valutazione delle offerte dopo
averle prese in considerazione. Annullata l’aggiudicazione,
il Consiglio di Stato disponeva altresì la perdita di
efficacia del contratto, ai sensi dell’art. 122 cod. proc.
amm., essendovi sul punto domanda espressa della parte
ricorrente.
L’impresa soccombente in appello ricorreva per cassazione
per l’annullamento della sentenza denunciando eccesso di
potere giurisdizionale per avere il Consiglio di Stato
privato di effetti il contratto in un’ipotesi in cui
siffatta decisione, stando al disposto letterale di cui
all’art. 122, sarebbe stata invece riservata alla stazione
appaltante, comportando il vizio accertato non il subentro
di altro concorrente bensì la rinnovazione della gara.
Pacifica essendo, nella fattispecie controversa, la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi
dell'art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, cod. proc. amm.,
l’impresa ricorrente per cassazione sosteneva che la
dichiarazione di inefficacia del contratto, a seguito di
annullamento dell'aggiudicazione, sarebbe soggetta ai limiti
previsti dall'art. 122 dello stesso codice, i quali, al di
fuori dei casi di violazioni gravi, di cui all'art. 121 del
codice, abiliterebbero il giudice amministrativo, quando
annulla l'aggiudicazione, a dichiarare l'inefficacia del
contratto soltanto nei casi in cui il vizio rilevato non
comporti la rinnovazione della gara e poiché invece nel caso
di specie il vizio accertato implicava proprio una siffatta
rinnovazione, il Consiglio di Stato sarebbe incorso in una
illegittima invasione della sfera di merito della pubblica
amministrazione, alla cui scelta sarebbe stato rimesso di
mantenere il contratto, nel pubblico interesse alla
prosecuzione del servizio, ovvero di procedere alla sua
risoluzione.
II.- Le Sezioni unite non accedono a tale prospettazione escludendo
la sussistenza del dedotto eccesso di potere giurisdizionale
sulla scorta delle seguenti motivazioni:
a) premesso che affinché si configuri il vizio di eccesso di
potere giurisdizionale da parte del giudice amministrativo
sotto la specie dell'esercizio di una attività decisoria
implicante l'adozione di una statuizione corrispondente ad
un'attività provvedimentale, il cui compimento l'ordinamento
riserva all'amministrazione, è necessario che quella
statuizione abbia un contenuto corrispondente a quello del
potere riservato alla pubblica amministrazione, si osserva
che nel caso di specie non sussiste alcun potere
amministrativo di declaratoria di inefficacia del contratto
pubblico, attribuito all'amministrazione, né nell’ambito
della disciplina del D.Lgs. n. 163 del 2006 né nel sistema
di cui al d.lgs. n. 50/2016; si aggiunge che anche a voler
prospettare l’esistenza di un potere di scioglimento
unilaterale del contratto da parte della stazione
appaltante, tale potere involgerebbe un rapporto paritetico
sicché la prospettata usurpazione di potere dovrebbe
configurarsi non rispetto ad un potere riservato alla p.a.
quanto rispetto al giudice ordinario, questione tuttavia non
dedotta nel caso di specie;
b) il precedente rappresentato da Cons. Stato, sez. IV, n.
140 del 2015 (che ha escluso in simili ipotesi il potere del
giudice di privare di effetti il contratto), è stato
successivamente superato da una serie di sentenze -dalla n.
1126 alla n. 1137 del 2016 della IV sezione- che, in linea
con l'esegesi dell'art. 122 fornita con la decisione n. 13
del 2011 dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,
hanno affermato il principio per cui laddove debba essere
rinnovata l'intera gara ciò implichi la potestà del giudice
di caducare l'atto negoziale medio tempore stipulato;
c) l’interpretazione letterale dell’art. 122 prospettata
dalla ricorrente non viene condivisa stante:
I) la portata
generale del potere di privare il contratto degli effetti
prevista dall’art. 122 rispetto alle fattispecie speciali di
cui agli artt. 121 e 123, comma 3, in tutti i casi in cui il
giudice annulla l’aggiudicazione definitiva;
II) la
possibilità –comunque ritenuta preferibile- di interpretare
l’art. 122 nel senso che sia nel caso in cui debba
rinnovarsi la gara, sia nel caso contrario, il potere di
privare il contratto degli effetti sia soggetto sempre e
comunque alla valutazione "degli interessi delle parti,
dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire
l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato
di esecuzione del contratto", mentre nel solo caso in
cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di
rinnovare la gara e la domanda di subentro sia stata
proposta, il detto potere sia soggetto, oltre che a quelle
stesse valutazioni, a quella della possibilità di subentrare
nel contratto e della proposizione della domanda di
subentrare in esso;
d) la tesi che propone di leggere la norma nel senso che il
potere di dichiarare l’inefficacia del contratto non trovi
applicazione nel caso in cui l'annullamento
dell'aggiudicazione presenti profili tali da implicare che
si debba rinnovare la gara e che sia riservato alla pubblica
amministrazione di decidere della sorte del contratto, si
presenta del tutto ingiustificata ed anche priva di
ragionevolezza in quanto comporterebbe che sia lasciato il
potere di scelta all'amministrazione nel caso più grave e le
sia negato in quelli meno gravi.
III.- La sentenza in rassegna si segnala in quanto interviene, a
quanto consta, per la prima volta, sulla esegesi degli artt.
121, 122 e 123 c.p.a. puntualizzando in quali casi ed a
quali condizioni il G.A. dichiara inefficace il contratto, e
tenendo presente anche il nuovo codice degli appalti.
L’interpretazione accolta dalle Sezioni unite avvalora
l’indirizzo espresso dalla IV sezione del Consiglio di Stato
con le sentenze dalla n. 1125 alla 1137 del 21.03.2016 (la
prima commentata, in Contratti Stato e enti pubbl., 2016,
fasc. 2, 45, con nota di SINIGAGLIA), in linea con Cons.
Stato, Ad. plen., 28.07.2011, n. 13, in Foro it., 2012, III,
13, con nota di D’ANGELO; e Giur. it., 2012, 707 (m), con
nota di PAOLANTONIO, secondo cui non è applicabile l’art.
122 cod. proc. amm. sull’inefficacia del contratto nei casi
di violazioni non gravi se il vizio dell’aggiudicazione
comporti l’obbligo di rinnovare la gara; pertanto, va
confermata la sentenza di primo grado che, accertata la
necessità di rinnovare la procedura, abbia annullato il
contratto senza esporre le ragioni idonee ad escludere che
il contratto stipulato potesse conservare efficacia.
Ne segue che alle ipotesi di inefficacia automatica di cui
all’art. 121, conseguenti alle violazioni gravi ivi
tipizzate, dovrebbe aggiungersi il caso in cui il vizio
dell’aggiudicazione comporti l’obbligo di rinnovare la
procedura: in tale circostanza infatti secondo l’Adunanza
Plenaria il giudice non sarebbe tenuto ad effettuare
l’apprezzamento previsto dall’art. 122 cod. proc. amm., ma
dovrebbe sempre disporre l’inefficacia del contratto.
Sulla c.d. «inefficacia flessibile» nell’attuale
disciplina, si veda altresì LIPARI, Il recepimento della
«direttiva ricorsi»: il nuovo processo super-accelerato in
materia di appalti e l’inefficacia «flessibile» del
contratto, in www.giustamm.it.
IV.- Sulla medesima problematica si segnalano altresì:
e) Cons. Stato, Sez. V, 30.11.2015, n. 5404 relativa al
connesso tema del subingresso a seguito del giudicato di
annullamento dell’aggiudicazione, ex artt. 122 c.p.a. e 140
d.lgs. n. 163/2006, dove si affronta il tema della
qualificazione del subingresso in termini di successione nel
medesimo rapporto o di novazione soggettiva;
f) Cons. Stato, Sez. IV, 20.04.2016, n. 1559 relativa alla
insussistenza dell’obbligo per la stazione appaltante, a
seguito di giudicato di annullamento di un’aggiudicazione,
di stipulare col secondo classificato;
g) per ulteriori approfondimenti sul punto della caducazione
del contratto si veda DE NICTOLIS; Codice del processo
amministrativo commentato, III ed., Milano, 2015, 2087 ss (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 22.03.2017 n. 7295
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Suap,
no al diniego del permesso per rischi
ambientali. Tar sull'urbanistica.
Impossibile negare all'azienda il permesso
di costruire sulla base di rischi ambientali
e sanitari. Si configura lo sviamento di
potere nel diniego dello sportello unico che
blocca il progetto della raffineria
pronunciandosi non sulla compatibilità
edilizia ma su profili che non gli
competono.
È illegittimo il no del comune al permesso
di costruire chiesto dall'azienda perché lo
sportello unico per le attività produttive
lo motiva sulla base di rischi ambientali e
sanitari che esulano dalla sua competenza:
l'attività dell'amministrazione pubblica,
infatti, risulta vincolata e lo Suap non
pone a fondamento del diniego la valutazione
di compatibilità edilizia dell'opera che
invece gli compete.
Lo stabilisce la
sentenza
21.03.2017 n. 469, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso dell'azienda petrolifera:
la realizzazione delle opere on-shore della
raffineria risulta già oggetto di richiesta
di autorizzazione unica. Il progetto della
società ha suscitato polemiche per i
pericoli connessi alle emissioni di vapori e
il consiglio comunale vuole garanzie precise
di tutela dell'ecosistema. Ma il punto è che
lo Suap nel negare il titolo edilizio
all'impresa va oltre i suoi poteri perché
non compie alcuna valutazione urbanistica
sui profili dell'opera: si sofferma invece
sugli aspetti sanitari che sono estranei
alle sue attribuzioni.
Il comune ha già espresso le sue
considerazioni sui rischi per l'ambiente e
la salute delle persone nell'ambito di un
procedimento amministrativo di altra natura
e ha partecipato agli iter durante i quali
si sono pronunciati gli altri enti
competenti
(articolo ItaliaOggi
del 26.04.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
In particolare, la ricorrente sostiene
che il provvedimento impugnato sarebbe
illegittimo per sviamento di potere, in
quanto finalizzato a paralizzare ogni
iniziativa della Società, in relazione al
progetto Tempa Rossa, esclusivamente sulla
base di un atto di indirizzo politico e di
considerazioni relative a profili non
pertinenti con il procedimento
amministrativo di cui trattasi.
La censura è fondata.
Secondo questo collegio, infatti,
con il provvedimento impugnato
l’Amministrazione ha respinto l'istanza al
rilascio del titolo edilizio con riferimento
a valutazioni e considerazioni del tutto
ultronee e non riconducibili al corretto
esercizio del potere del SUAP in materia di
scelte urbanistico-edilizie.
Come già affermato in sede cautelare,
infatti,
l'Amministrazione comunale, negli atti
impugnati, non riporta alcuna valutazione in
ordine alla compatibilità sul piano
edilizio-urbanistico dell'intervento
relativo alle opere on-shore del progetto di
adeguamento della raffineria di Taranto,
ponendo a fondamento delle proprie scelte
valutazioni estranee alla sfera di
attribuzione che le spetta limitandosi ad
affermare che risulterebbero ancora “irrisolti
i profili di criticità relativi in
particolare alla valutazione di incidente
sanitario, all’incremento di emissioni di
VOC, relativamente all’installazione di
impianti di recupero vapori, e del rischio
di incidenti rilevanti”.
Si ritiene, quindi, che il Comune di Taranto
abbia formulato valutazioni in materia
ambientale e sanitaria nell’ambito di un
procedimento amministrativo di altra natura
e, per di più, esprimendo pareri che si
vanno a sovrapporre a quelli già espressi da
parte delle Amministrazioni competenti
all'esito di procedimenti in cui il Comune è
stato comunque messo in grado di
partecipare.
Le valutazioni espresse dal Comune
resistente nell’ambito del procedimento in
materia edilizia non sono riconducibili al
corretto esercizio del potere attribuito
dalla norma considerato che nella materia
predetta, l'attività della P.A. è del tutto
vincolata, nel senso che essa può
legittimamente negare il titolo abilitativo
richiesto solo in quanto contrastante con la
specifica normativa di settore e non con
valutazioni attinenti a profili di diversa
materia.
Per i motivi predetti, assorbita ogni altra
censura, il ricorso deve essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire illegittimo
- Atto abilitativo improduttivo di validi
effetti - Provvedimenti amministrativi di
sanatoria o condono - Verifiche e poteri del
giudice penale - Valutazione in ordine alla
sussistenza del reato - Giurisprudenza -
Artt. 12, 36, 44, d.P.R. 380/2001.
Nell'individuare quelle situazioni di
illegittimità che rendono l'atto abilitativo
improduttivo di validi effetti, non può che
farsi riferimento alle finalità della
disciplina urbanistica ed ai presupposti per
il rilascio del permesso di costruire, che
l'art. 12 del d.P.R. 380/2001 individua, tra
l'altro, nella conformità alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente.
Ne consegue che, in disparte l'ipotesi
dell'illiceità del provvedimento, la
illegittimità rilevante per il giudice
penale non può che essere quella derivante
dalla non conformità del titolo abilitativo
alla normativa che ne regola l'emanazione o
alle disposizioni normative di settore,
dovendosi, al contrario, radicalmente
escludersi la possibilità che il mero dato
formale dell'esistenza del permesso di
costruire possa precludere al giudice penale
ogni valutazione in ordine alla sussistenza
del reato.
A conclusioni analoghe la giurisprudenza è
pervenuta anche per ciò che concerne i
provvedimenti amministrativi di sanatoria o
condono, osservando come il mancato effetto
estintivo non sia riconducibile ad una
valutazione di illegittimità del
provvedimento cui consegua la
disapplicazione dello stesso, ma alla
verifica della inesistenza dei presupposti
di fatto e di diritto dell'estinzione del
reato in sede di esercizio del doveroso
sindacato della legittimità del fatto
estintivo, incidente sulla fattispecie
tipica penale (Sez. 3, n. 23080 del
16/04/2008, Proietti; conf. Sez. 3, n. 26144
del 22/04/2008, Papa; Sez. 3, n. 12869 del
05/02/2009, Fulginiti; Sez. 3, n. 27948 del
10/06/2009, Sabbatini; Sez. III n. 31479,
29/07/2008).
Titolo abilitativo
edilizio illegittimo - Macroscopica
illegittimità del provvedimento
amministrativo e profili assolutamente
eclatanti di illegalità - Poteri del giudice
penale - Limite nei provvedimenti
giurisdizionali del giudice amministrativo
passati in giudicato - Giurisprudenza - Artt.
12, 36, 44, d.P.R. 380/2001.
L'attività svolta dal giudice in presenza di
un titolo abilitativo edilizio illegittimo
consiste nel valutare la sussistenza
dell'elemento normativo della fattispecie e
non nel disapplicare l'atto amministrativo o
effettuare comunque valutazioni proprie
della P.A. (Sez. U. n. 5115 del 28/11/2001
(dep. 2002), Salvini).
Sicché, la "macroscopica illegittimità"
del provvedimento amministrativo non è
condizione essenziale per la configurabilità
di un'ipotesi di reato ex art. 44 d.P.R.
3890/2001, mentre, (a prescindere da
eventuali collusioni dolose con organi
dell'amministrazione) l'accertata esistenza
di profili assolutamente eclatanti di
illegalità costituisce un significativo
indice di riscontro dell'elemento soggettivo
della contravvenzione contestata anche
riguardo all'apprezzamento della colpa (Sez.
3, n. 21487 del 21/03/2006, P.M. in proc.
Tantillo e altro), pertanto, la non
conformità dell'atto amministrativo alla
normativa che ne regola l'emanazione, alle
disposizioni legislative statali e regionali
in materia urbanistico edilizia ed alle
previsioni degli strumenti urbanistici può
essere rilevata non soltanto se l'atto
medesimo sia illecito, cioè frutto di
attività criminosa ed a prescindere da
eventuali collusioni dolose del soggetto
privato interessato con organi
dell'amministrazione, ma anche nelle ipotesi
in cui l'emanazione dell'atto sia
espressamente vietata in mancanza delle
condizioni previste dalla legge, o in quella
di mancato rispetto delle norme che regolano
l'esercizio del potere (Sez. 3, n. 40425 del
28/09/2006, Consiglio).
Anche le pronunce successive sono pervenute
a conclusioni analoghe (v., ad es., Sez. 3,
n. 41620 del 02/10/2007, Emelino; Sez. 3, n.
28225 del 09/05/2008, Di Stefano; Sez. 3, n.
35389 del 27/06/2008, Gallo, non massimata;
Sez. 3, n. 9177 del 13/01/2009, Corvino;
Sez. 3, n. 14504 del 20/01/2009,
Sansebastiano e altri; Sez. 3, n. 34809 del
02/07/2009, Giombini e altro; Sez. 3, n.
35391 del 14/07/2010, Di Domenico; Sez. 3,
n. 28545 del 16/2/2012, Cinti; Sez. 3, n.
37847 del 14/05/2013, Sorini; Sez. 3, n.
36366 del 16/06/201 5, Faiola) chiarendo,
altresì, che il potere del giudice penale di
accertare la conformità alla legge ed agli
strumenti urbanistici di una costruzione
edilizia trova un limite nei provvedimenti
giurisdizionali del giudice amministrativo
passati in giudicato che abbiano
espressamente affermato la legittimità della
concessione o della autorizzazione edilizia
ed il conseguente diritto del cittadino alla
realizzazione dell'opera (Sez. 3, n. 1894
del 14/12/2006 (dep. 2007), P.M. in proc.
Bruno e altro; Sez. 3, n. 39707 del
05/06/2003, Lubrano di Scorpianello) e che
anche nell'accertare che per un determinato
intervento occorre il permesso di costruire,
in luogo del diverso titolo ritenuto
sufficiente dall'amministrazione, il giudice
penale non esercita alcun sindacato
sull'attività della pubblica amministrazione
medesima (Sez. 3, n. 19076 del 24/03/2009,
Piparo) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 15.03.2017 n. 12389 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di strutture
galleggianti - Permesso di costruire -
Necessità - Strutture stabilmente installate
- Artt. art. 3, 5, 10, 35 e 44 d.P.R. n.
380/2001.
Per la realizzazione di strutture
galleggianti stabilmente ancorate alle
sponde di un fiume ed utilizzate come
abitazioni, ambienti di lavoro ovvero di
ristorazione, ritrovi, depositi, magazzini e
simili e, quindi, non destinate a soddisfare
esigenze meramente temporanee, è necessario
il permesso di costruire.
Specificando come la rilevanza urbanistica
sia evidenziata dalla sua destinazione
durevole e dalla sua funzione di
insediamento nel territorio con carattere di
stabilità, (in giurisprudenza Cass. Sez. 3,
n. 354 del 25/01/2000, Carrodano; Sez. 1, n.
8920 del 20/11/2000 (dep. 2001 ), Fusaro e
altri; Sez. 3, n. 21413 del 03/03/2010,
Parisi e altri; Sez. 3, n. 7047 del
04/12/2014 (dep. 2015), Gaietto).
Strutture galleggianti - I
fondali subacquei costituiscono suolo -
Significato del verbo installare -
Giurisprudenza.
La collocazione in uno spazio fluviale di
una imbarcazione va qualificata come
realizzazione di una nuova costruzione, per
la cui legittimità è necessario il previo
rilascio del permesso di costruire,
rilevando che anche i fondali subacquei
costituiscono suolo, in questo caso
demaniale e che pertanto le strutture su di
esso stabilmente installate sono per ciò
stesso "strutturalmente"
assoggettabili al regime di cui agli artt.
3, 10 e 35 del testo unico sull'edilizia,
ciò in quanto il verbo installare significa,
"sistemare stabilmente in un luogo"
e, quindi, si riferisce anche ad impianti
fissi collocati in uno spazio acquatico e
non solo terrestre, tanto che anche nel
linguaggio comune e tecnico si parla di
installazione di piattaforme, banchine,
pontili, cioè classiche strutture in
ambiente marino, lacuale o fluviale (cfr.
Cons. Stato, sez. IV n. 4673 del 23/07/2009
e Sez. IV n. 2636 del 06/05/2010).
Condotta colposa del reato di
costruzione edilizia abusiva -
Inottemperanza all'obbligo di informarsi
sulle possibilità edificatorie -
Inevitabilità dell'errore.
La condotta colposa del reato di costruzione
edilizia abusiva può consistere
nell'inottemperanza all'obbligo di
informarsi sulle possibilità edificatorie
concesse dagli strumenti urbanistici
vigenti, da assolversi anche tramite
incarico a tecnici qualificati e che non
rientra nell'ipotesi di ignoranza
inevitabile l'erronea convinzione che un
determinato intervento non necessiti di
specifico titolo abilitativo (Sez. 3, n.
6968 del 02/05/1988, Rurali).
Più in generale, si è precisato che
l'inevitabilità dell'errore sulla legge
penale non si configura quando l'agente
svolge una attività in uno specifico settore
rispetto al quale ha il dovere di informarsi
con diligenza sulla normativa esistente (Sez.
5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv.
240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/01/1996,
Lombardi, Rv. 205384) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 15.03.2017 n. 12387 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Urbanistica. Realizzazione di strutture galleggianti.
Per la realizzazione di strutture galleggianti stabilmente
ancorate alle sponde di un fiume ed utilizzate come
abitazioni, ambienti di lavoro ovvero di ristorazione,
ritrovi, depositi, magazzini e simili e, quindi, non
destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, è
necessario il permesso di costruire.
-----------------
5. Il secondo e terzo motivo di ricorso,
afferenti entrambi alla necessità o meno del permesso di
costruire per la realizzazione degli intervento oggetto di
contestazione, possono essere trattati congiuntamente.
Occorre osservare, in primo luogo, che il ricorso contiene
plurimi riferimenti ad atti e documenti acquisiti nel corso
del procedimento ai quali, come è noto, questa Corte non ha
accesso e che, pertanto, non potranno essere oggetto di
disamina in questa sede.
Va altresì rilevato come la questione inerente il titolo
abilitativo sia stata già affrontata e risolta da questa
Corte in una precedente pronuncia (Sez. 3, n. 37718 del
11/10/2006, Preziosi, non massimata) decidendo un ricorso
avverso l'ordinanza con la quale il Tribunale del riesame
aveva confermato il decreto di sequestro preventivo
dell'edificio realizzato dall'odierno ricorrente.
Si osservava, in quel contesto, che le opere richiedevano,
per la loro realizzazione, il permesso di costruire,
specificando come la sua rilevanza urbanistica fosse
evidenziata dalla sua destinazione durevole a una funzione
di insediamento nel territorio con carattere di stabilità,
richiamando, a tale proposito, precedenti pronunce aventi ad
oggetto situazioni analoghe, concernenti la realizzazione di
pontili galleggianti (Sez. 3, n. 354 del 25/01/2000,
Carrodano, Rv. 21768601; Sez. 1, n. 8920 del 20/11/2000
(dep. 2001), Fusaro e altri, Rv. 21822001), alle quali hanno
peraltro fatto seguito altre del medesimo tenore (Sez. 3, n.
21413 del 03/03/2010, Parisi e altri, Rv. 24930401; Sez. 3,
n. 7047 del 04/12/2014 (dep. 2015), Gaiotto, Rv. 26263101).
Nell'occasione si escludeva, inoltre, ogni rilievo al fatto
che dalla competente autorità era stato rilasciato il titolo
concessorio di occupazione di specchio acqueo e ciò
considerando che il permesso di costruire ha diversa entità,
portata e finalità, dando altresì atto del fatto che i
giudici del riesame avevano posto in evidenza come in una
nota della Direzione Abusivismo Edilizio del comune di Roma,
nel descrivere l'opera edilizia, venisse precisato che
l'edificazione era avvenuta in assenza del permesso di
costruire, nella specie ritenuto necessario, rilevando anche
come dovesse, quindi, ritenersi violato l'art. 44, lett. c),
d.P.R. 380/2001, trattandosi di intervento realizzato sul
fiume Tevere.
Dandosi infine atto del contenuto delle memorie difensive
depositate, veniva altresì ritenuto irrilevante, ai fini
della configurabilità dell'illecito edilizio, il rilevo
secondo il quale "il PRG non prevede alcuna zonizzazione
del fiume Tevere e le relative norme tecniche di attuazione
non contengono disposizioni edilizie sulle grandezze o sulle
destinazioni d'uso ammesse in tale porzione di territorio"
e quello secondo cui "il PRG adottato nel 2006 individua
il fiume Tevere come Ambito di programmazione strategico e
nell'elaborato n. 14, comma 2, è prevista la necessità di
predisporre programmi per localizzare e regolamentare nuove
attività da svolgere direttamente sul fiume, su strutture
galleggianti che potrebbero essere dedicate a svago, ristoro
e cultura, come parti di un sistema coerente teso a legare
le due differenti quote urbane", rilevandosi, da un
lato, il contenuto meramente programmatico della previsione
e, dall'altro, l'impossibilità, anche per le norme di
pianificazione comunale, di incidere sulla normazione
nazionale, ribadendo che l'opera realizzata richiedeva il
permesso di costruire, pur tralasciando di esaminare la
questione concernente l'elemento soggettivo del reato, in
quanto estranea a quel giudizio.
6. Le medesime questioni sono state riproposte, nella
sostanza, nei motivi di appello e nuovamente prospettate nei
motivi di ricorso in esame.
Ciò posto, ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per
discostarsi da quanto in precedenza affermato, seppure nel
diverso ambito del giudizio cautelare e che le
considerazioni svolte sul punto dalla Corte territoriale
siano giuridicamente corrette ed assistite da adeguata
motivazione.
Il ricorrente analizza, nel dettaglio, tutta una serie di
disposizioni e di atti amministrativi che ritiene
evidentemente sufficienti per la realizzazione delle opere,
ma così non è.
Si tratta, come correttamente ha rilevato la Corte di
appello, di atti e provvedimenti aventi finalità diverse.
Segnatamente, come si ricava dalla sentenza impugnata e dal
ricorso, la determinazione della Regione Lazio (B1673 del
03/05/2005) riguarda l'occupazione temporanea (fino al
31/12/2007) di specchi acquei del fiume Tevere per mq 284,
di cui 262 coperti "allo scopo di mantenervi degli
edifici galleggianti adibiti a bar e cure elioterapiche".
Il provvedimento dell'A.R.D.I.S. (del 13/12/2002)
autorizzava "ai soli fini idraulici e senza esonero dal
richiedere ogni altra licenza o permesso previsto dalle
norme vigenti" la ricostruzione di una struttura
galleggiante, simile alla preesistente, consistente in un
edifico "ad un unico piano con locale bar, sala
fisioterapica ed alloggio custode, nonché solarium sul tetto".
La seconda autorizzazione (dell'ottobre 2003) di variante al
progetto per la realizzazione di un secondo piano
dell'edificio "destinato ad uso bar e cure elioterapiche",
veniva rilasciata "al fine della salvaguardia delle opere
e pertinenze idrauliche", con specifica indicazione
dell'onere di acquisire, prima dell'inizio dei lavori, "anche
tutte le altre autorizzazioni, pareri o assensi previsto
dalla normativa vigente".
Il parere tecnico sanitario dell'AUSL RM/E (del 07/12/2005)
veniva rilasciato "fatto salvo il rispetto della
normativa edilizio urbanistica".
7. A fronte di ciò, si rileva, nella sentenza impugnata, che
il sopralluogo effettuato dalla polizia giudiziaria
evidenziava la presenza di otto appartamenti e la modifica
dell'originaria destinazione d'uso, da ricreativa ad
abitativa.
Quanto alla normativa citata in ricorso, si rileva che la
legge 06.05.1906, n. 200 disciplina la navigazione del
Tevere fra Roma ed il mare, così come il regolamento per
l'esecuzione, contenuto nel R.D. 10.08.1934, n. 1452 e che,
pur considerando anche l'esecuzione di opere, prendono
entrambi in considerazione gli aspetti prettamente
concernenti la navigazione ed il regime del fiume e delle
sue sponde.
Tutti gli atti autorizzativi in precedenza menzionati, per
ciò che si ricava dai loro contenuti, richiamati nella
sentenza impugnata, attengono ad aspetti prettamente
idraulici e fanno comunque salve le altre disposizioni
vigenti.
Esse, inoltre, riguardano una struttura del tutto diversa da
quella effettivamente realizzata, che consta, come si è
detto, anche di appartamenti ed ha, dunque, destinazione
residenziale.
È pertanto del tutto destituita di fondamento l'affermazione
del ricorrente, secondo il quale le opere realizzate
sarebbero autonomamente disciplinate per ciò che concerne il
profilo urbanistico.
8.
Quanto alla necessità del permesso di costruire, va
ribadito quanto evidenziato nella sentenza emessa da questa
Sezione nell'ambito del giudizio cautelare, rilevando come,
in ogni caso, le caratteristiche del manufatto lo
qualificano come intervento di nuova costruzione ai sensi
del d.P.R. 380/2001, in quanto comportante una
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e
rientrante tra le opere definite, a titolo esemplificativo,
dall'art. 3, comma 1, lett. e5 e, segnatamente, tra le
strutture o imbarcazioni utilizzate come abitazioni,
ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e
simili, non dirette a soddisfare esigenze meramente
temporanee.
Va altresì osservato come la necessità del
permesso di costruire per le strutture galleggianti
insistenti sul fiume Tevere sia stata più volte
riconosciuta, dalla giurisprudenza amministrativa, con
riferimento a casi analoghi, come peraltro ricordato nella
sentenza impugnata, stabilendo che la collocazione in uno
spazio fluviale di una imbarcazione va qualificata come
realizzazione di una nuova costruzione, per la cui
legittimità è necessario il previo rilascio del permesso di
costruire, rilevando che anche i fondali subacquei
costituiscono suolo, in questo caso demaniale e che pertanto
le strutture su di esso stabilmente installate sono per ciò
stesso "strutturalmente" assoggettabili al regime di
cui agli artt. 3, 10 e 35 del testo unico sull'edilizia, ciò
in quanto il verbo installare significa, "sistemare
stabilmente in un luogo" e, quindi, si riferisce anche
ad impianti fissi collocati in uno spazio acquatico e non
solo terrestre, tanto che anche nel linguaggio comune e
tecnico si parla di installazione di piattaforme, banchine,
pontili, cioè classiche strutture in ambiente marino,
lacuale o fluviale
(cfr. Cons. Stato, sez. IV n. 4673 del 23/07/2009 e Sez. IV
n. 2636 del 06/05/2010).
9. Va conseguentemente affermato che per la
realizzazione di strutture galleggianti stabilmente ancorate
alle sponde di un fiume ed utilizzate come abitazioni,
ambienti di lavoro ovvero di ristorazione, ritrovi,
depositi, magazzini e simili e, quindi, non destinate a
soddisfare esigenze meramente temporanee, è necessario il
permesso di costruire.
A tali conclusioni è motivatamente pervenuta anche la Corte
territoriale, sicché la sentenza impugnata risulta, sul
punto, del tutto immune da censure.
11. Per ciò che riguarda, infine, il quarto motivo di
ricorso, va richiamato quanto già evidenziato dalla
giurisprudenza di questa Corte in materia di ignoranza o
erronea interpretazione della legge urbanistica.
Si è rilevato (Sez. 3, n. 11045 del 18/02/2015, De Santis e
altro, Rv. 26328801) come questa Corte abbia specificato
(Sez. 3, n. 23998 del 12/05/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv.
250608) che la condotta colposa del reato
di costruzione edilizia abusiva può consistere
nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle
possibilità edificatorie concesse dagli strumenti
urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a
tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di
ignoranza inevitabile l'erronea convinzione che un
determinato intervento non necessiti di specifico titolo
abilitativo (Sez.
3, n. 6968 del 02/05/1988, Rurali, Rv. 178593).
Più in generale, si è precisato che
l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si
configura quando l'agente svolge una attività in uno
specifico settore rispetto al quale ha il dovere di
informarsi con diligenza sulla normativa esistente
(Sez. 5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez.
3, n. 1797 del 16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384).
12. Nel caso in esame incombeva, pertanto, in capo
all'imputato, uno specifico onere di informazione, non
superabile per il fatto del rilascio di altri atti
autorizzatori, i quali, come si è visto, avevano finalità
diverse e facevano comunque salva la necessità di altri
titoli abilitativi, senza contare che gli stessi
riguardavano opere del tutto diverse da quelle poi
effettivamente realizzate, aventi anche diversa destinazione
d'uso come accertato dai giudici del merito.
Anche in questo caso la Corte territoriale ha fornito
adeguata motivazione, conforme ai principi ricordati,
richiamando il contenuto degli atti amministrativi e ponendo
in evidenza come l'imputato, architetto ed imprenditore, non
poteva equivocarne il significato ed osservando, altresì,
che questi non risultava aver comunque interloquito con i
competenti ufficio comunali al fine di assolvere all'onere
di informazione su di lui incombente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2017 n. 12387). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Concorso nel reato di
gestione di discarica abusiva (Sindaco e
capo pro tempore dell'ufficio tecnico del
Comune) - Trasformazione con condotta
omissiva dell'area di raccolta e "stazione
di trasferenza" in discarica.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Culpa in
vigilando - Individuazioni delle
responsabilità - Art. 6, c. 1, lett. e), L.
n. 210/2008.
La gestione di una discarica abusiva può
comportare il concorso di contributi attivi
o passivi da parte di più soggetti,
concorrenti tra loro oppure agenti in un
quadro di cooperazione colposa, venendo
tutti tali soggetti chiamati a rispondere
per gli apporti dati alla realizzazione del
reato.
Escluso che, la responsabilità del Sindaco
possa per ciò solo comportare la esclusione
di concorrenti profili di responsabilità in
capo al dirigente dell'ufficio tecnico
comunale, ognuno di essi dovendo rispondere
in dipendenza dei compiti rientranti nelle
rispettive attribuzioni.
Fattispecie: Realizzazione e gestione, in
qualità di Sindaco del Comune di Ustica e in
qualità di capo pro tempore dell'ufficio
tecnico del Comune, una discarica non
autorizzata di rifiuti speciali pericolosi e
non pericolosi, omettendo di avviare i
rifiuti ad impianti di recupero e
smaltimento (dando luogo ad un incendio
controllato da quattro operai dipendenti del
Comune).
RIFIUTI - Concetto ampio di
"gestione" di una discarica abusiva -
Soggetti che possono concorrere a titolo di
dolo o colpa - Responsabili di imprese che
smaltiscono rifiuti propri, i responsabili
di imprese che smaltiscono rifiuti di terzi,
i trasportatori, i proprietari dell'area
interessati, e i pubblici amministratori.
Il concetto di "gestione" di una
discarica abusiva, già previsto dall'art. 25
del d.P.R. 10.09.1982, n. 915 e
successivamente recepito dall'art. 256,
comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 e, da
ultimo, per quanto qui di rilievo, dall'art.
6, comma 1, lett. e), del d.l. n. 172 del
2008, convertito in L. n. 210 del 2008, deve
essere inteso in senso ampio; nello stesso
deve infatti includersi qualsiasi
contributo, sia attivo che passivo, diretto
a realizzare od anche semplicemente a
tollerare e mantenere il grave stato del
fatto-reato, strutturalmente permanente.
Sicché più soggetti possono concorrere, a
titolo di dolo o colpa, nella "gestione"
di una discarica abusiva, quali i
responsabili di imprese che smaltiscono
rifiuti propri, i responsabili di imprese
che smaltiscono rifiuti di terzi, i
trasportatori, i proprietari dell'area
interessati, nonché, per quel che rileva
nella specie, i pubblici amministratori (Sez.
3, n. 163 del 04/11/1994, dep. 13/01/1995,
Zagni) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 14.03.2017 n. 12159 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività edilizia oggetto di
ordinanza di sospensione sebbene non
necessiti del previo rilascio del permesso
di costruire - Prosecuzione dei lavori
nonostante l'ordine di immediata sospensione
- Artt. 27, 37, 44, 93 e 95 DPR 380/2001.
In tema di reati edilizi, la contravvenzione
consistente nella prosecuzione dei lavori
nonostante l'ordine di immediata sospensione
adottato dal Sindaco ex art. 4, comma 3, L.
28/02/1985 n. 47 (oggi adottato dal
dirigente o responsabile dell'Ufficio
comunale competente ex art. 27, comma 3, del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380) è configurabile
anche nel caso in cui l'attività edilizia
oggetto dell'ordinanza di sospensione non
necessiti del previo rilascio del permesso
di costruire, in quanto la norma
sanzionatoria mira a punire il comportamento
di chiunque contrasti l'intervento cautelare
della P.A..
Attività incompatibili con le
esigenze di tutela dell'assetto del
territorio - Esercizio del potere di
autotutela - Ordine amministrativo di
sospensione dei lavori - Reato ha carattere
plurioffensivo - Sindacato del giudice
penale - Poteri e limiti.
L'ordine amministrativo di sospensione dei
lavori non si correla soltanto alle opere
soggette a concessione edilizia (oggi
permesso di costruire) ma ben può inerire a
tutte le attività incompatibili con le
esigenze di tutela dell'assetto del
territorio.
Pertanto, nel caso in cui sia stato
contestato all'imputato di avere dato corso
a lavori edilizi in assenza di concessione e
di aver proseguito tali lavori malgrado
l'intervenuta ordinanza di sospensione,
qualora il giudice abbia ritenuto che
l'esecuzione di quei lavori, non essendo
assoggettata al regime concessorio, non è
prevista dalla legge come reato, non
altrettanto può affermarsi relativamente
alla prosecuzione dei lavori nonostante
l'ordine di sospensione.
Il reato ha carattere plurioffensivo, in
quanto l'interesse protetto dalla norma
incriminatrice, in uno con quello del
regolare assetto del territorio, insito nel
provvedimento preso ed in tutta la
disciplina urbanistica, è quello specifico
del rispetto delle prescrizioni adottate
dalla pubblica amministrazione
nell'esercizio del potere di autotutela. Il
giudice penale non può sindacare il merito
del provvedimento comunale di sospensione
dei lavori, bensì solo la sua legittimità,
con riferimento alla classica tripartizione
delle ipotesi di illegittimità dell'atto
amministrativo.
La "ratio" è quella del rispetto dei
provvedimenti cautelari adottati dalla P.A.
nell'esercizio del potere di autotutela e
non può essere fatta alcuna distinzione a
seconda che le opere vengano realizzate in
assenza di permesso di costruire o di DIA o
SCIA, ovvero in difformità dalle stesse.
Ordine di sospensione dei lavori
edilizi abusivi - Prosecuzione delle opere
edilizie - Configurabilità del reato di cui
all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n.
380/2001.
L'ordine di sospensione dei lavori edilizi
abusivi, disposto dall'autorità comunale ex
art. 27 d.P.R n. 380 di 2001, ha effetto
sino alla emanazione dei provvedimenti
definitivi, indipendentemente dallo scadere
del termine di giorni quarantacinque fissato
nel citato art. 27, trattandosi di un
termine ordinatorio che ha il solo scopo di
sollecitare la P.A. all'adozione dei
provvedimenti definitivi (sez. 3 n. 12278
del 21/03/2007, Rosafio).
Ne consegue che la prosecuzione delle opere
edilizie, attuata durante il periodo di
vigenza dell'ordinanza comunale di
sospensione dei lavori, integri la
fattispecie di reato di cui all'art. 44,
comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001,
indipendentemente dalla successiva
decorrenza del termine di efficacia
dell'ordinanza medesima (Sez. 3 n. 28132 del
12/02/2013, Cinque; sez. 3, n. 41884 del
09/10/2008, Civita) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 10.03.2017 n. 11568 -
link a www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Sottotetto
comune quando serve all’uso del condominio. Diritto di
proprietà. Gli spazi sopra l’ultimo piano.
I giudici hanno dibattuto e sono
stati chiamati più volte a decidere a chi appartenesse il
sottotetto in condominio: è una parte comune dell’edificio
condominiale che rientra in quei beni, seppur senza farne
espressa menzione, indicati nell’articolo 1117 del Codice
civile, oppure è di proprietà del proprietario
dell’appartamento dell’ultimo piano?
La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con
ordinanza 10.03.2017 n. 6314
(relatore Antonio Scarpa) affronta ancora una volta questa
tematica. Un condòmino aveva proposto ricorso contro la
sentenza della Corte d’appello di Firenze che, in parziale
riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Pisa, aveva
rigettato la sua richiesta di rivendica di due locali
sottotetto al terzo e ultimo piano del condominio.
La Corte di Firenze, in particolare, affermava che le due
soffitte avessero una specifica destinazione pertinenziale
al servizio del terzo piano, e non una destinazione comune a
servizio dell’edificio condominiale e, quindi, non
rientravano tra i beni di cui all’articolo 1117 del Codice
civile.
I giudici della Cassazione, partendo da questo assunto,
ricostruiscono la vicenda.
Il condominio, così come regolato dagli articoli 1117 del
Codice civile e seguenti, viene a strutturarsi dal momento
in cui si opera il frazionamento della proprietà di un
edificio, a seguito del trasferimento della prima unità
immobiliare suscettibile di separata utilizzazione
dall’originario unico proprietario ad un altro soggetto. Da
questo momento inizia a operare la presunzione legale
(articolo 1117) di comunione “pro indiviso” di tutte quelle
parti dell’edificio che per ubicazione e/o struttura, sono
destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze del
condominio, salvo che dal titolo, ovvero dall’atto di
trasferimento immobiliare, non risulti una chiara e
manifesta volontà di riservare al condomino la proprietà di
alcune di queste parti.
Le soffitte/sottotetti sono beni non espressamente indicati
nell’elenco esemplificativo contenuto nell’articolo 1117 del
Codice civile.
La Cassazione, secondo un consolidato indirizzo, reputa i
sottotetti di proprietà comune quando sono destinati, per le
loro caratteristiche funzionali e strutturali, all’uso
comune (si veda anche l’articolo sul Sole 24 Ore del 03.01.2017, dove si illustra la sentenza della Cassazione
23902/2016). Se, invece, il sottotetto assolva all’esclusiva
funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e
dall’umidità, l’appartamento dell’ultimo piano e non abbia
dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne
l’uso come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di
tale appartamento.
La proprietà del sottotetto si determina, dunque, in base al
titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è
destinato in concreto.
Nel caso in esame la Cassazione ha rigettato il ricorso,
avendo la Corte d’appello di Firenze accertato, con
apprezzamento di fatto, insindacabile in Cassazione, che i
due sottotetti sono di pertinenza dell’appartamento del
terzo piano (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2017).
---------------
MASSIMA
La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e
seguenti del Codice Civile, si attua sin dal momento in cui
si
opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a
seguito
del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile
di
separata utilizzazione dall'originario unico proprietario ad
altro
soggetto.
Secondo le emergenze documentali del giudizio, il
Condominio di Via ..., 37, Pisa, deve intendersi
sorto
con l'atto di frazionamento dell'iniziale unica proprietà
Ma.
in data 29.11.1989. Originatasi a tale data la
situazione
di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva
intendersi
operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di
comunione
"pro indiviso" di tutte quelle parti del complesso che, per
ubicazione e struttura, fossero -in tale momento
costitutivo
del condominio- destinate all'uso comune o a soddisfare
esigenze generali e fondamentali del condominio stesso,
salvo
che dal titolo del 29.11.1989 non risultasse, in
contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare
esclusivamente alla venditrice o ad alcuno dei condomini la
proprietà di dette parti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766
del
18/12/2014).
L'art. 1117 c.c. attribuisce, invero, ai
titolari
delle singole unità immobiliari dell'edificio la
comproprietà di beni, impianti e servizi -indicati
espressamente o per
"relationem"- in estrinsecazione del principio "accessorium
sequitur principale", per propagazione ad essi dell'effetto
traslativo delle proprietà solitarie, in quanto necessari
all'uso
comune, ovvero destinati ad esso, se manca o non dispone
diversamente il relativo titolo traslativo.
Nella specie, si controverte ancora di soffitte-sottotetto e
di un
gabinetto posto tra il secondo ed il terzo piano
dell'edificio. Si
tratta di beni tutti non espressamente nominati nell'elenco
esemplificativo contenuto nell'art. 1117 c.c. (formulazione
applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche
introdotte dalla legge 11.12.2012, n. 220).
Secondo consolidata interpretazione di questa Corte,
sono
comunque oggetto di proprietà comune dei proprietari delle
singole unità immobiliari dell'edificio, agli effetti
dell'art. 1117
c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con
modifica, in parte qua, di natura interpretativa, dalla
legge 11.12.2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le
caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune
(Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 6143 del 30/03/2016; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 8968 del 20/06/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n.
7764 del 20/07/1999).
Altrimenti, ove non sia evincibile il
collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà
supposto dall'art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la
destinazione
all'uso comune o all'esercizio di un servizio di interesse
comune, giacché lo stesso sottotetto assolva all'esclusiva
funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e
dall'umidità l'appartamento dell'ultimo piano, e non abbia
dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne
l'utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato
pertinenza di tale appartamento.
La proprietà del sottotetto
si determina, dunque, in base al titolo e, in mancanza, in
base
alla funzione cui esso è destinato in concreto: nel caso in
esame, la Corte di Appello di Firenze, con apprezzamento di
fatto spettante in via esclusiva al giudice del merito, ha
accertato che i locali sottotetto fossero posti in
destinazione
pertinenziale a servizio del terzo piano e sottratti all'uso
comune. |
COMPETENZE PROGETTUALI: Opere
artistiche, interventi aperti anche agli ingegneri.
Interventi su opere artistiche aperti agli ingegneri.
Secondo una sentenza del Tar Puglia, infatti, non è
riservata agli architetti la possibilità di intervento in
tema di opere ritenute di rilevante carattere storico e
artistico.
È quanto emerge dalla
sentenza
10.03.2017 n. 411, I Sez., TAR Puglia-Lecce, che ha
annullato l'avviso pubblico bandito dal comune di Martano,
in provincia di Legge, per realizzare un'indagine di mercato
per l'affidamento di servizi professionali di
riqualificazione del centro storico, riservata ai soli
architetti.
Lo ha reso noto il Consiglio nazionale degli ingegneri, con
la circolare n. 35 dove è allegata la sentenza. In
particolare, l'Ordine degli ingegneri di Legge aveva
impugnato l'avviso pubblico bandito dal comune nella parte
in cui era indicato quale requisito di idoneità l'iscrizione
nell'albo degli architetti, sostenendo la sua illegittimità
perché immotivatamente limitativo della facoltà, per gli
ingegneri, di concorrere per la successiva aggiudicazione.
Secondo i giudici, in particolare, nel caso di specie le
autorità competenti hanno definito nei minimi dettagli i
profili di tutela dell'opera e il modo di esercizio
dell'opera, per cui «l'attività oggetto di gara si
risolve in una mera ingegnerizzazione del progetto stesso,
con conseguente esclusione di scelte che fuoriescano dalla
ordinaria competenza di un ingegnere»
(articolo ItaliaOggi del 04.04.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Niente
sospensione per il sindaco. Reati contro la Pa. La misura
non è applicabile nel caso di uffici ricoperti per diretta
investitura popolare.
Non ci sono margini. La sospensione
dalla funzione di sindaco non è possibile. Neppure dopo la
legge Severino e la ancora più recente riforma dei reati
contro la pubblica amministrazione. Il Codice penale parla
chiaro e vieta l’applicazione della misura per tutti gli
«uffici elettivi ricoperti per diretta investitura
popolare».
Lo chiarisce, con
una punta di rammarico, una Corte di Cassazione -Sez. VI
penale- che, con la
sentenza 06.03.2017
n. 10940, ha annullato l’ordinanza del giudice del
riesame di Bari che aveva invece sospeso dall’esercizio
delle funzioni di sindaco un politico al quale erano
contestati i reati di induzione indebita e violenza privata.
La Cassazione mette in evidenza come la disposizione,
articolo 289, comma 3, del Codice di procedura penale, sia
estremamente stringente e, nello stesso, tempo, abbia
sollevato nella dottrina un dibattito acceso. Si introduce
infatti una sorta di immunità o esenzione dalla misura
interdittiva proprio in un settore come quello dei delitti
contro la Pa dove, più di altri forse, l’applicazione della
sospensione potrebbe avere un’efficacia importante.
A volere tacere dell’incoerenza di un sistema che ammette
nei confronti dei titolari di uffici elettivi ricoperti per
diretta investitura popolare forme di restrizione della
liberta personale anche detentive e, nello stesso tempo,
lascia in vigore una sorta di “scudo” da
provvedimenti interdittivi.
Certo, la Cassazione si è mossa per un bilanciamento tra
rispetto della volontà legislativa e tutela del principio di
uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La norma del
Codice non può cioè essere interpretata, avverte la
sentenza, come una sorta di salvacondotto cautelare. E
tuttavia la disposizione è passata indenne attraverso i due
principali interventi di riforma che hanno investito la
materia in questi anni: la legge Severino e la legge n. 47
del 2015.
Il riesame di Bari, dopo aver valutato l’esistenza degli
indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, ha
ritenuto sufficiente applicare una misura interdittiva al
posto di quella più pesante, detentiva, chiesta dal pm. Ha
cioè applicato la sospensione, ritenendo che le condotte
delittuose poste in essere, secondo il quadro accusatorio,
fossero legate in maniera indissolubile all’esercizio della
funzione.
Un errore che non può non essere corretto e che porta
all’annullamento dell’ordinanza, anche perché il divieto ha
una portata ampia e si estende anche ai casi in cui la
sospensione è adottata al posto di un’altra misura
coercitiva precedentemente adottata (articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2017). |
VARI: Testamento
a mano guidata ko. L'intervento di un'altra persona esclude
l'autografia. CASSAZIONE/ Gli Ermellini confermano quanto
affermato dalla Corte distrettuale.
Nullità del testamento redatto con «mano guidata»: è quanto
affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 06.03.2017 n. 5505.
Il caso su cui è intervenuto il Supremo consesso aveva ad
oggetto la nullità di un testamento olografo dichiarata a
seguito di domanda giudiziale proposta dalle sorelle del de cuius, le quali, in sede di merito, avevano lamentato il
forte tremolio delle mani del fratello e la conseguente
impossibilità di scrivere da solo. Avverso tale decisione il
coniuge superstite ricorre per cassazione, censurando
l'erroneità delle affermazioni dei giudici del merito e
l'omessa disamina della permanenza, alla data di redazione
del testamento, della capacità di scrivere del testatore.
Di
parere contrario sono stati gli ermellini, i quali, a
conferma di quanto detto dalla Corte distrettuale, hanno
definito puntuali le indicazioni fornite nella sentenza di
appello e ricordato come, per la redazione di un testamento
olografo, l'intervento da parte di una terza persona quale
aiuto e guida della mano del testatore «di per sé, escluda
il requisito dell'autografia di tale testamento,
indispensabile per la validità del testamento olografo, a
nulla rilevando l'eventuale corrispondenza del contenuto
della scheda alla volontà del testatore».
Così argomentando hanno quindi rigettato il ricorso,
condannato la ricorrente alle spese di giudizio e chiarito,
nelle motivazioni, che deve ritenersi «decisamente più
corrispondente alla ratio della norma la soluzione che
perviene alla nullità per difetto di olografia per ogni
ipotesi di intervento del terzo che guidi la mano del
testatore, trattandosi di condotta che appare in ogni caso
idonea ad alterare la personalità e l'abitualità del gesto
scrittorio, requisiti indispensabili perché possa parlarsi
di autografia, laddove la diversa soluzione ( )
condizionerebbe l'accertamento della validità o meno del
testamento alla verifica di ulteriori circostanze, quali
l'effettiva finalità dell'aiuto del terzo, ovvero la
verifica della corrispondenza effettiva del testo scritto
alla volontà dell'adiuvato, che minerebbero in maniera
evidente le finalità di chiarezza e semplificazione che sono
alla base del testamento olografo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’autodromo
rumoroso paga i danni al «B&B». Tribunale di Firenze. Senza
precedente.
Non sarà dimenticata
la
sentenza 06.03.2017 n. 721
del TRIBUNALE di Firenze, Sez. II civile, con il quale ha
creato un precedente giurisprudenziale disponendo per la
prima volta, nel nostro Paese, la condanna di un autodromo
per immissioni rumorose. Di fatto, anticipando in parte la
più restrittive norme sul rumore contenute nei decreti
legislativi 41 e 42 (pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale»
del 4 aprile e in vigore dal 19), che riordinano le norme in
materia di tutela dell’ambiente, in particolare
sull’inquinamento acustico.
Nel caso in questione, a chiedere risarcimento sono stati i
componenti di una famiglia residente in una villa adibita,
anche a Bed & Breakfast, nelle vicinanze dell’autodromo.
Il Tribunale di Firenze, ha dapprima accertato il
superamento delle soglie di tollerabilità delle immissioni
acustiche verificatisi in concomitanza di alcuni degli
eventi motoristici che si svolgono nell’impianto. In
seguito, ha disposto la condanna della società, che gestisce
l’autodromo, a indennizzare gli attori per la sofferenza
subita a causa dei rumori.
Le esorbitanti pretese economiche avanzate, in sede di
domanda giudiziale, dalla famiglia residente nel B&B non
hanno però trovato completa attuazione. Il giudice, infatti,
ha ridimensionato molto le pretese. Questo, in ragione di
un’importante circostanza. Se da un lato gli attori hanno
affermato di essere impossibilitati a svolgere in maniera
serena le loro attività quotidiane, dall’altro è anche vero
che la compromissione della normale qualità della vita deve
essere contemperata con il vantaggio che agli stessi deriva
dall’attività commerciale svolta attraverso il B&B.
L’alloggio, infatti, risulta notevolmente favorito dalla
vicinanza dell’autodromo, che lo rende la sede preferita da
molti appassionati di motori che decidono di recarsi in zona
per assistere alle gare. La presenza di eventi motoristici
è, oltretutto, uno degli aspetti presenti negli elementi
pubblicitari promossi dagli attori, per la visibilità
commerciale dello stesso B&B, come il proprio sito web.
Inoltre, l’attività ha avuto origine in un periodo temporale
posteriore a quello della costruzione dell’impianto, per cui
i componenti la famiglia erano a conoscenza dell’attività
motoristica che si sarebbe svolta nell’autodromo.
Il superamento del limite consentito dalla normativa delle
immissioni acustiche ha portato alla decisione di
corrispondere ai componenti della famiglia un equo
indennizzo. Tuttavia, il Tribunale ha comunque affermato che
«la giurisprudenza è unanime nel ritenere che un’immissione
intollerabile, ma non illecita, faccia sorgere il diritto a
un indennizzo, e ciò attraverso l’applicazione analogica
della disciplina, caratterizzata da identica ratio, di altre
fattispecie, in ragione della valorizzazione del nesso tra
limitazione al contenuto del diritto e rispondenza
dell’attività immissiva all’interesse generale».
Del resto, «l’indennizzo rappresenta una prestazione
patrimoniale che vale a compensare un soggetto a seguito di
un pregiudizio patito che, però, non consegue ad un
illecito, con il diverso fine di equilibrare una situazione
che solo potenzialmente rischierebbe di diventare ingiusta»
.
A ciascun membro della famiglia spetta, quindi, un
indennizzo annuo di 5mila euro per l’assordante rumore
prodotto durante gli eventi motoristici che si svolgono, nel
corso dell’anno, nell’autodromo in questione, oltre al
pagamento delle spese legali, quantificate in 7mila euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Uffici
disciplinari con un solo componente. Pubblico impiego. Non è
richiesta una struttura collegiale e il procedimento può
essere gestito dal dirigente dello stesso settore del
dipendente.
Nel pubblico impiego l’ufficio per i
procedimenti disciplinari può essere composto in modo
monocratico e può farne parte il dirigente del settore in
cui svolge la sua attività il dipendente oggetto del
procedimento. Gli enti devono però necessariamente garantire
che esso sia autonomo e distinto dalle altre strutture.
Inoltre il termine imperativo di conclusione del
procedimento disciplinare deve essere calcolato rispetto
alla data di irrogazione della sanzione e non alla sua
comunicazione e l’ente può assumere le risultanze di fatto
del procedimento penale che ha interessato il dipendente per
lo stesso fatto.
Possono essere così sintetizzate le principali indicazioni
contenute nella
sentenza 02.03.2017 n.
5317 della Corte di Cassazione - Sez. lavoro.
Tali principi sono importanti sia perché sottolineano gli
spazi assai ampi di autonomia delle singole amministrazioni,
sia alla luce delle disposizioni contenute nello schema di
decreto legislativo di riforma del pubblico impiego,
approvato in via preliminare dal governo settimana scorsa,
che amplia il ruolo dell’ufficio procedimenti disciplinari
assegnandogli la competenza alla adozione di tutti i
provvedimenti disciplinari e non più solamente di quelli di
maggiore gravità.
In primo luogo, la sentenza stabilisce che le
amministrazioni pubbliche devono istituire l’ufficio per i
procedimenti disciplinari ma che non sono richieste né
specifiche formalità né che tale ufficio debba
necessariamente essere costituito in modo collegiale: si può
benissimo avere un ufficio costituito da un solo componente.
Occorre inoltre considerare che le attività istruttorie
possono essere svolte dal personale assegnato a tale ufficio
per lo svolgimento delle necessarie attività di supporto.
Un ulteriore elemento centrale della sentenza è lo stabilire
che il dirigente del settore in cui il dipendente
destinatario del procedimento svolge la sua attività può far
parte dell’ufficio per i procedimenti disciplinari. In tal
caso non viene violato il vincolo della terzietà di tale
ufficio, vincolo che costituisce un presupposto
indispensabile per la legittimità della sua composizione.
La terzietà impone solamente che vi sia una distinzione tra
questo ufficio e la struttura in cui il dipendente è
utilizzato: nel rispetto di tale obbligo l’ente è dotato di
una ampia autonomia operativa. Non si deve infatti
dimenticare che siamo nell’ambito di una attribuzione
comunque spettante al datore di lavoro, il che rende
peculiari i principi posti a base dei procedimenti
disciplinari e ne sottolinea l’autonomia organizzativa
Viene inoltre chiarito che la mancata comunicazione da parte
del dirigente al dipendente della trasmissione degli atti
all’ufficio per i procedimenti disciplinari non determina un
vizio di legittimità del procedimento: la comunicazione ha
una funzione meramente informativa e, comunque, l’ufficio
per i procedimenti disciplinari si può attivare anche senza
la trasmissione degli atti da parte del dirigente del
settore.
Il termine imperativo di conclusione del procedimento
disciplinare, che ricordiamo essere di 120 giorni nei casi
più gravi, non si calcola dalla data di comunicazione dello
stesso al dipendente, ma dalla data in cui il provvedimento
viene adottato.
La sentenza ribadisce, infine, che l’ente può assumere le
circostanze di fatto che sono state acclarate nel
procedimento penale che si è svolto sullo stesso fatto, ivi
comprese le intercettazioni telefoniche e le perizie
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Stop
alla pubblicazione dei redditi.
Pubbliche amministrazioni. Il Tar Lazio ha sospeso la
diffusione dei dati di dirigenti e familiari.
Il decreto
legislativo 33/2013, come rimaneggiato a seguito del decreto
legislativo 97/2016, riceve, a pochi mesi di distanza dalla
sentenza del Consiglio di Stato 3631/2016, un ulteriore
colpo inferto, questa volta, dal Tar Lazio-Roma, Sez. I-quater,
con l’ordinanza
02.03.2017 n. 1030.
La vicenda è semplice: alcuni funzionari dipendenti del
Garante per la protezione dei dati personali si sono opposti
alla pubblicazione dei loro dati reddituali prevista dalle
disposizioni del nuovo articolo 14, comma 1-bis, del Dlgs
33/2013, il quale richiede che le pubbliche amministrazioni
pubblichino i redditi dei titolari di incarichi
dirigenziali, nonché del coniuge non separato e dei parenti
entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano.
Va
data evidenza dell’eventuale mancato consenso. Nell’opporsi
alla pubblicazione hanno richiamato alcune pronunce dello
stesso Garante della privacy il quale dal canto suo,
costituendosi in giudizio, dimentico dei suoi precedenti ha
stretto la mano ad Anac, citandone i provvedimenti a
supporto della massima trasparenza nella pubblicazione dei
redditi dei titolari di incarichi dirigenziali.
Al Tar Lazio è stato chiesto l’annullamento, previa
sospensione dell’efficacia, di una serie di note del
segretario generale del Garante della privacy, di ogni atto
presupposto, conseguente o comunque connesso, eventualmente
previa disapplicazione dell’articolo 14, comma 1-bis, del
Dlgs 33/2013, ovvero, ove necessario, per la rimessione alla
Corte Ue, alla Corte costituzionale della questione in
ordine alla compatibilità delle disposizioni con la
normativa
Il Tar ha rilevato, in particolare, «la consistenza delle
questioni di costituzionalità e di compatibilità con le
norme di diritto comunitario sollevate in ricorso» e ha
valutato «l’irreparabilità del danno paventato dai
ricorrenti, discendente dalla pubblicazione online, anche
temporanea, dei dati per cui è causa, da cui l’esigenza di
salvaguardare la res adhuc integra nelle more della
decisione del merito della controversia» e quindi ha
ritenuto sussistenti i presupposti per la concessione della
richiesta cautelare.
La norma oggetto di censura da parte del Tar è applicabile
anche agli enti locali e l’ordinanza rischia di sollevare
una reazione a catena da parte di tutti quelli toccati dagli
obblighi di pubblicazione in base all’articolo 14.
Apparirebbe opportuna, pertanto, una modifica della norma,
così come ben potrebbe Anac, tenendo conto dell’ordinanza e
in attesa della decisione definitiva, suggerire nelle linee
guida concernenti l’articolo 14 (di cui si attende la
pubblicazione) delle indicazioni in grado di contemperare i
contrapposti interessi di chi è tenuto a pubblicare quelle
informazioni e di chi, per contro, vedrebbe pubblicati i
dati propri e degli altri soggetti
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzione
libera quando il soppalco è solo un ripostiglio.
Consiglio di Stato. Permesso se c’è
fruibilità.
Soppalchi liberi
purché non fruibili ma meri ripostigli: lo sottolinea il
Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 02.03.2017 n. 985.
È necessario, invece, un permesso di costruire per i
soppalchi non modesti, che aumentino la superficie
dell’immobile in modo significativo. Il soppalco deve essere
uno spazio aggiuntivo la cui consistenza va apprezzata caso
per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto
che non deve apparire ristrutturato (articolo 3 comma 1, Dpr
380/2001), e quindi non deve generare un incremento delle
superfici dell’immobile e del carico urbanistico (Cds
sentenza 4468/2014).
Non è invece richiesto il permesso di costruire per
interventi minori, quando cioè il soppalco sia tale da non
incrementare la superficie dell’immobile, ad esempio quando
la struttura non sia suscettibile di utilizzo come stanza di
soggiorno. Nel caso esaminato, il Comune di Roma aveva
emesso un’ordinanza di demolizione che i giudici hanno
annullato perché l’intervento generava, al livello
inferiore, un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza
interna modesta (mt. 1,50), tale da renderlo assolutamente
non fruibile alle persone: si trattava di un ripostiglio.
Al livello superiore, vi erano invece due finestre, la
superficie era di circa 20 mq, con attacchi per impianti
idrici ed elettrici. La necessità di un titolo edilizio
riemerge quando il soppalco realizzato abbia superficie di
20 mq. e sia posto a mt. 1,98 dal soffitto, ampliando in
maniera significativa la superficie calpestabile di un
immobile destinato ad attività commerciale, creando autonomi
spazi: in questo caso, l’intervento è stato qualificato di
ristrutturazione edilizia, con aggravio del carico
urbanistico (sentenza 4468/2014).
Per gli edifici produttivi, alcune regioni (quali il
Piemonte) hanno reso elastica, nei loro “piani casa”,
la possibilità di realizzare soppalchi, estendendo principi
di libera utilizzazione (attraverso il cambio di
destinazione) all’interno della stessa categoria di immobili
a destinazione produttiva.
Tornando alle ipotesi residenziali, anche nel caso di
soppalco realizzato all’interno di una abitazione con
putrelles di ferro della superficie di oltre 100 mq. è
necessario un permesso di costruire, non bastando la
presentazione di una Dia: la sanzione per abusività è la
demolizione.
Più in dettaglio, se l’immobile è vincolato, è necessario
anche il nulla-osta della Soprintendenza qualora il soppalco
riguardi di un vano soggiorno, per una superficie pari alla
metà dell’ alloggio: il provvedimento dell’autorità è
necessario anche se la struttura può apparire come mero
arredo interno, all’occorrenza eliminabile. Dimensioni e
materiali, hanno quindi rilievo ai fini delle normative
edilizie, e si sommano ad eventuali previsioni per
caratteristiche locali, ad esempio di tipo antisismico
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2017).
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MASSIMA
2. In base ad un rilievo logico, prima che giuridico,
la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello
spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di
solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un
solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata
caso per caso, in relazione alle caratteristiche del
manufatto.
3. In linea di principio, sarà necessario
il permesso di costruire quando il soppalco sia di
dimensioni non modeste e comporti una sostanziale
ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi
dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con
incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva
ulteriore carico urbanistico:
così per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi
minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è
richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la
superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando
esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di
soggiorno.
4. Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di
specie, in cui, come detto in narrativa, lo spazio
realizzato con il soppalco è un vano chiuso, senza finestre
o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo
assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona
sostanza, di un ripostiglio.
5. Quanto sopra è sufficiente per affermare l’illegittimità
dell’ordinanza di demolizione impugnata, che va annullata,
in riforma della sentenza di primo grado, perché fondata, in
sintesi, su un presupposto non corretto.
6. Va invece assorbito il secondo motivo, che si fonda sul
rapporto fra l’ordinanza impugnata ed un fatto ulteriore, la
presentazione in un momento successivo della DIA. E’
evidente infatti che, annullata l’ordinanza stessa, la
possibilità che rispetto alla demolizione da essa ordinata
si sia prodotta una sanatoria è priva di rilievo.
Spetterà invece all’amministrazione, nel prosieguo della
propria attività, valutare se l’opera compiuta integri un
diverso e minore tipo di abuso, e in caso affermativo se
esso sia stato sanato dalla DIA in questione. Ciò però
rientra nel futuro esercizio di poteri amministrativi, sui
quali il Giudice non può pronunciare. |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Già
con la legge urbanistica n. 1142 del 1950, l’art. 31, c. 9,
si stabiliva che chiunque può prendere visione presso gli
uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti
di progetto così riconoscendosi una posizione qualificata e
differenziata in favore dei proprietari di immobili siti
nella zona in cui la costruzione è permessa a coloro che si
trovano in una situazione di stabile collegamento con la
stessa.
Parallelamente oggi l’art. 20, c. 6, del T.U. n. 380 del
2001, come inteso dalla giurisprudenza vigente, assicura a
qualsiasi soggetto interessato (termine da intendersi non
come sinonimo di un’azione popolare ma con riferimento ai
proprietari di immobili siti nella zona in cui la
costruzione è permessa ed a coloro che si trovano in una
situazione di stabile collegamento con la stessa) la
possibilità di visionare gli atti del procedimento di
rilascio di un permesso di costruire, in ragione del
controllo diffuso sull'attività edilizia, che il legislatore
ha inteso garantire ed atteso che in subiecta materia non
può essere affermata l'esistenza di un diritto alla
riservatezza in capo ai controinteressati, sicché nel caso
di specie non trova applicazione la norma dell’art. 3 del
d.P.R. n. 184 del 2006.
In sostanza, rispetto all’ostensione di un permesso di
costruire o di altri titoli legittimanti l’esecuzione di
interventi in edilizia, deve ritenersi pacifico e radicato
in giurisprudenza il principio secondo il quale la
sussistenza del requisito della vicinitas tra la proprietà
dell'istante e quella del controinteressato fanno sì che
debba riconoscersi la sussistenza in capo al ricorrente
dell'interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento del quale è stato chiesto l'accesso, cosicché la
legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve
ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il
provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano
dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o
indiretti anche nei suoi confronti.
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L’interesse attuale che presiede alla richiesta di accesso
non corrisponde necessariamente all’interesse ad agire in
giudizio per la tutela immediata della posizione sottostante
la richiesta. Il diritto di accesso non è inscindibilmente
collegato alla difesa in giudizio della situazione
sottostante, ma ha una valenza autonoma non dipendente dalla
sorte della lite per la quale o in vista della quale è
esercitato.
Il principio dell’autonomia della tutela del diritto di
accesso rispetto alla situazione giuridica sottostante
comporta che la richiesta ostensiva è da ritenersi
esperibile anche laddove sia decorso il termine utile per
l’impugnazione dell’atto ritenuto lesivo, considerato che
l’intento conoscitivo e difensivo non implica
necessariamente il proposito di produrre un ricorso per
l’annullamento dell’atto, ben potendo azionarsi altri rimedi
anche giustiziali, a tutela delle proprie posizioni
soggettive vulnerate, ivi incluse eventuali azioni di
risarcimento del danno oppure la costituzione di parte
civile nel caso di procedimenti penali.
Inoltre l’ostensibilità degli atti non può intendersi
preclusa dalla pendenza di un giudizio, amministrativo o
civile, nel corso del quale possa essere disposta
l’acquisizione degli atti richiesti, dal momento che, si
ribadisce, il diritto di accesso sussiste e va riconosciuto
come posizione autonoma, tutelata indipendentemente dalla
pendenza di un procedimento giurisdizionale.
---------------
Del pari è irrilevante la questione se i documenti di cui si
chiede l’ostensione siano determinanti o meno ai fini della
decisione nel processo pendente, in quanto la norma che
regola il diritto di accesso non collega il soddisfacimento
di quest’ultimo alla soluzione nel merito delle vicende
connesse, ma impone soltanto l’esistenza di un collegamento
tra la richiesta di accesso ed un interesse giuridicamente
rilevante del richiedente meritevole di tutela.
Di qui consegue che resta preclusa all’amministrazione adita
in sede di accesso ogni eventuale previa delibazione sulla
fondatezza e meritevolezza della situazione soggettiva
sottostante, sicché irrilevante si appalesa l’eccezione che
si fonda sull’intervenuto annullamento in autotutela di uno
dei titoli edilizi oggetto di ostensione.
---------------
Analogamente inconferente si appalesa la circostanza
relativa alla risalenza nel tempo delle concessioni edilizie
oggetto di ostensione, dal momento che la legge non pone
alcun termine di durata all’esercizio del diritto di
accesso, stabilendo che esso è esercitabile “fino a quanto
la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i
documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere”
(cfr art. 22, comma 6, della legge n. 241/1990).
---------------
Neppure può considerarsi fondata la questione eccepita e non
comprovata circa la previa conoscenza degli atti oggetto di
ostensione da parte del ricorrente per averli visionati nel
giudizio civile in corso dato che, anche a voler ammettere
che parte ricorrente dia venuta in possesso degli atti
richiesti, è stato evidenziato che le amministrazioni
agiscono in via procedimentalizzata ed hanno l’onere di
conservare copia degli atti inoltrati al privato, che
potrebbe non esserne più in possesso per svariate ragioni
(disordine, perdita del documento, malconservazione,
trasloco, furto etc.).
Il privato che non è più in possesso di un atto –che pur
doveva diligentemente conservare– non può essere mutilato
nella propria difesa, a cagione di tale accadimento: ritrae
dallo stesso una “sanzione” endemica (paga, infatti, il
rilascio della copia) ma ha il diritto comunque ad ottenerne
copia.
---------------
2. Il ricorso è fondato e merita accoglimento nei termini
che di seguito si vanno ad esporre.
Il ricorrente è proprietario di un fabbricato sito nel
Comune di Durazzano alla via ... n. 26 posto a confine con
una struttura alberghiera di pertinenza della
controinteressata società La Si. s.n.c., con la quale è in
corso un contenzioso civile per il rispetto delle distanze
culminato da ultimo nella sentenza n. 493/2015, allegata in
copia agli atti, con cui la Corte d’Appello di Napoli
ordinava alla s.n.c. La Si. di arretrare il proprio corpo di
fabbrica edificato sulla p.lla. n. 611 del fg. 8 fino alla
distanza di metri dieci dai fabbricati di parte appellata
ossia dell’odierno ricorrente.
Nel giudizio risulta impugnato il provvedimento prot. n.
2602 del 24.05.2016 con cui il Comune di Durazzano,
accogliendo l’opposizione formulata dalla società
controinteressata, respingeva l’istanza di accesso alla
copia integrale delle c.c.e.e. n. 12/1990 e n. 6/2001 e
relativi allegati inoltrata dal ricorrente, motivando il
diniego sull’assenza di un interesse attuale all’ostensione
degli atti richiesti trattandosi di titoli abilitativi
risalenti nel tempo, e per l’assenza di alcuna concreta
utilità trattandosi di provvedimenti che hanno formato
oggetto del giudizio civile allo stato concluso con sentenza
della Corte di Appello di Napoli oggetto di ricorso innanzi
alla Suprema Corte di Cassazione.
2.1. Ciò posto, va innanzitutto premesso, che la domanda di
accesso in esame riguarda atti che, per la loro diretta
inerenza a provvedimenti amministrativi pubblici, non
possono essere in alcun modo sottratti all'accesso. Ed
infatti già con la legge urbanistica n. 1142 del 1950,
l’art. 31, c. 9, si stabiliva che chiunque può prendere
visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e
dei relativi atti di progetto così riconoscendosi una
posizione qualificata e differenziata in favore dei
proprietari di immobili siti nella zona in cui la
costruzione è permessa a coloro che si trovano in una
situazione di stabile collegamento con la stessa.
Parallelamente oggi l’art. 20, c. 6, del T.U. n. 380 del
2001, come inteso dalla giurisprudenza vigente, assicura a
qualsiasi soggetto interessato (termine da intendersi non
come sinonimo di un’azione popolare ma, come sopra chiarito,
con riferimento ai proprietari di immobili siti nella zona
in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano
in una situazione di stabile collegamento con la stessa) la
possibilità di visionare gli atti del procedimento di
rilascio di un permesso di costruire, in ragione del
controllo diffuso sull'attività edilizia, che il legislatore
ha inteso garantire ed atteso che in subiecta materia
non può essere affermata l'esistenza di un diritto alla
riservatezza in capo ai controinteressati (cfr. Cons. St. n.
9158 del 2013), sicché nel caso di specie non trova
applicazione la norma dell’art. 3 del d.P.R. n. 184 del
2006.
In sostanza, rispetto all’ostensione di un permesso di
costruire o di altri titoli legittimanti l’esecuzione di
interventi in edilizia, deve ritenersi pacifico e radicato
in giurisprudenza il principio secondo il quale la
sussistenza del requisito della vicinitas tra la
proprietà dell'istante e quella del controinteressato fanno
sì che debba riconoscersi la sussistenza in capo al
ricorrente dell'interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento del quale è stato chiesto l'accesso,
cosicché la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti.
2.2 Per quanto concerne il profilo relativo alla dedotta
carenza del requisito dell’attualità dell’interesse fatto
valere, è il caso di evidenziare, innanzitutto, che
l’interesse attuale che presiede alla richiesta di accesso
non corrisponde necessariamente all’interesse ad agire in
giudizio per la tutela immediata della posizione sottostante
la richiesta. Il diritto di accesso non è inscindibilmente
collegato alla difesa in giudizio della situazione
sottostante, ma ha una valenza autonoma non dipendente dalla
sorte della lite per la quale o in vista della quale è
esercitato.
Il principio dell’autonomia della tutela del diritto di
accesso rispetto alla situazione giuridica sottostante
comporta che la richiesta ostensiva è da ritenersi
esperibile anche laddove sia decorso il termine utile per
l’impugnazione dell’atto ritenuto lesivo, considerato che
l’intento conoscitivo e difensivo non implica
necessariamente il proposito di produrre un ricorso per
l’annullamento dell’atto, ben potendo azionarsi altri rimedi
anche giustiziali, a tutela delle proprie posizioni
soggettive vulnerate, ivi incluse eventuali azioni di
risarcimento del danno oppure la costituzione di parte
civile nel caso di procedimenti penali.
2.3 Inoltre l’ostensibilità degli atti non può intendersi
preclusa dalla pendenza di un giudizio, amministrativo o
civile, nel corso del quale possa essere disposta
l’acquisizione degli atti richiesti, dal momento che, si
ribadisce, il diritto di accesso sussiste e va riconosciuto
come posizione autonoma, tutelata indipendentemente dalla
pendenza di un procedimento giurisdizionale.
2.4 Del pari è irrilevante la questione se i documenti di
cui si chiede l’ostensione siano determinanti o meno ai fini
della decisione nel processo pendente, in quanto la norma
che regola il diritto di accesso non collega il
soddisfacimento di quest’ultimo alla soluzione nel merito
delle vicende connesse, ma impone soltanto l’esistenza di un
collegamento tra la richiesta di accesso ed un interesse
giuridicamente rilevante del richiedente meritevole di
tutela.
Di qui consegue che resta preclusa all’amministrazione adita
in sede di accesso ogni eventuale previa delibazione sulla
fondatezza e meritevolezza della situazione soggettiva
sottostante, sicché irrilevante si appalesa l’eccezione che
si fonda sull’intervenuto annullamento in autotutela di uno
dei titoli edilizi oggetto di ostensione.
2.5 Analogamente inconferente si appalesa la circostanza
relativa alla risalenza nel tempo delle concessioni edilizie
oggetto di ostensione, dal momento che la legge non pone
alcun termine di durata all’esercizio del diritto di
accesso, stabilendo che esso è esercitabile “fino a
quanto la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere
i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere”
(cfr art. 22, comma 6, della legge n. 241/1990).
2.6 Neppure può considerarsi fondata la questione eccepita e
non comprovata circa la previa conoscenza degli atti oggetto
di ostensione da parte del ricorrente per averli visionati
nel giudizio civile in corso dato che, anche a voler
ammettere che parte ricorrente dia venuta in possesso degli
atti richiesti, è stato evidenziato (cfr. Cons. Stato Sez.
IV, n. 1705 del 31.03.2015) che le amministrazioni agiscono
in via procedimentalizzata ed hanno l’onere di conservare
copia degli atti inoltrati al privato, che potrebbe non
esserne più in possesso per svariate ragioni (disordine,
perdita del documento, malconservazione, trasloco, furto
etc.).
Il privato che non è più in possesso di un atto –che pur
doveva diligentemente conservare– non può essere mutilato
nella propria difesa, a cagione di tale accadimento: ritrae
dallo stesso una “sanzione” endemica (paga, infatti,
il rilascio della copia) ma ha il diritto comunque ad
ottenerne copia (arg. anche ex Cass. civ. Sez. VI - 5, Ord.,
30.07.2013, n. 18252 in punto di necessità per le
Amministrazioni di “provare” ciò che hanno comunicato
al privato).
In definitiva per le ragioni esposte il ricorso merita
accoglimento con conseguente annullamento del diniego
impugnato ordinandosi all’amministrazione intimata di
consentire la richiesta ostensione e di rilasciare nel
termine di cui al dispositivo copia degli atti oggetto di
richiesta di accesso.
Le spese processuali unitamente al rimborso del contributo
unificato (da corrispondersi quest’ultimo al passaggio in
giudicato della decisione) gravano sulle parti intimate
soccombenti, ciascuna per metà, e vanno corrisposte nella
misura liquidata in dispositivo, con distrazione in favore
del procuratore dichiaratosi antistatario.
Va respinta la domanda di condanna delle parti intimate al
risarcimento del danno per responsabilità aggravata ex art.
96, comma 3, c.p.c. dato che, per giurisprudenza pacifica,
essa si sostanzia in una forma di danno punitivo teso a
scoraggiare l'abuso del processo e a preservare la
funzionalità del “sistema giustizia” censurando
iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie,
sicché il presupposto per l'applicabilità della norma è la
presenza, in capo al destinatario della condanna, della mala
fede o della colpa grave previsti per la lite temeraria dal
citato art. 96 c.p.c., ma tali presupposti nel caso in esame
risultano insussistenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 01.03.2017 n. 1183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comune paga metà dei danni.
L'impresa non può affidarsi alla p.a. se
l'errore è evitabile. La Cassazione si
pronuncia sulle responsabilità in merito a
un permesso edilizio illegittimo.
Paga solo metà dei danni il comune che
rilascia un permesso di costruire
illegittimo. Chi l'ha chiesto è correo al
50% e non può rivalersi interamente sugli
uffici municipali dei danni che ha
contribuito a fare a se stesso. Chi chiede
un permesso deve stare all'erta e aiutare
l'amministrazione a non sbagliare.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione -
Sez. I civile (sentenza
28.02.2017 n. 5063), ripartendo le
responsabilità tra chi chiede e chi adotta
il titolo edilizio.
Nel caso specifico una snc edilizia ha
chiesto il risarcimento del danno subito a
seguito dell'annullamento di concessioni
edilizie, pronunciato dal Tar su ricorso dei
proprietari confinanti, e del ritardo che ne
era derivato al programma costruttivo. In
primo grado il tribunale decise che le
responsabilità erano da dividere tra società
che ha chiesto la concessione edilizia e il
comune che l'ha rilasciata. Anche la Corte
d'appello ha considerato corretta la
ripartizione delle responsabilità. Chi
chiede un permesso edilizio deve farsi
carico di controllare la normativa edilizia
e il piano regolatore e non può considerarsi
esonerato da ogni obbligo di diligenza se
sopraggiunge l'avallo dell'amministrazione
con il suo permesso.
La parte essenziale della sentenza è quella
in cui la Corte di cassazione sostiene che i
danni da permesso edilizio annullato non
possono essere addebitati a responsabilità
esclusiva dell'amministrazione. Anche nei
rapporti tra impresa e ufficio edilizio
valgono i principi del codice civile: se
viene accertato che i danni sono collegati
anche al fatto dello stesso danneggiato va
applicato l'articolo 1227, comma 1, codice
civile, che impone la diminuzione del
risarcimento. Nel caso specifico è vero che
il comune ha attestato che l'area era
edificabile, ma bisogna tener conto
dell'incidenza degli spazi riservati a
infrastrutture e servizi di interesse
generale, secondo le prescrizioni dello
strumento urbanistico attuativo,
prescrizioni che il proprietario non può non
rispettare.
La sentenza è di notevole importanza, perché
impone al cittadino/impresa di non riporre
fiducia nell'atto dell'amministrazione,
quando sia riscontrabile un errore della
p.a. stessa. Se l'errore era riconoscibile
dal cittadino/impresa, allora questi avevano
l'obbligo di farlo presente all'ente
incappato in uno sbaglio. E così se un terzo
riesce a fare azzerare l'atto amministrativo
che accoglie l'istanza del
cittadino/impresa, questi ultimi devono
darsi da fare e dimostrare che hanno fatto
affidamento sulle determinazione dell'ente
pubblico e che non ci sono stati errori da
loro evitabili con un surplus di attenzione.
Letto in positivo, il cittadino/impresa ha
un dovere generale di soccorso nei confronti
dell'amministrazione, affinché non commetta
illegittimità. Se però l'affidamento del
cittadino/impresa è incolpevole, allora la
pubblica amministrazione dovrà risarcire i
danni per intero
(articolo ItaliaOggi
del 26.04.2017).
---------------
MASSIMA
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
La S.n.c. L'Ed. di Ca.Vi.
convenne in giudizio
innanzi al Tribunale di Reggio Emilia
l'omonimo Comune per
sentirlo condannare al risarcimento del
danno subito a seguito
dell'annullamento di concessioni edilizie,
pronunciato dal giudice
amministrativo su ricorso dei proprietari
confinanti, e del ritardo
che ne era derivato al programma
costruttivo.
Il Tribunale adito,
nel contraddittorio con l'Ente convenuto e
con i predetti
confinanti, dallo stesso chiamati in
garanzia, in parziale
accoglimento della domanda, ritenne
sussistente la responsabilità
del Comune e ravvisò il concorso di colpa
dell'attrice nella
misura del 50%, condannando il Comune al
pagamento della
residua metà, liquidata in via equitativa.
Tale sentenza, che
rigettò la domanda di rivalsa proposta
dell'Ente, fu confermata
dalla Corte d'appello di Bologna, con la
sentenza indicata in
epigrafe, che, dopo aver dato atto della
mancata impugnazione
del capo relativo ai chiamati, ritenne, per
quanto d'interesse che:
a) il comportamento della Società era
censurabile al pari di quello
del Comune, sicché era corretta la
ripartizione di responsabilità in
ragione del 50%, in quanto, da una parte, la
stessa avrebbe dovuto
esser consapevole dei limiti imposti dagli
strumenti urbanistici
che imponevano, per le strade interne a
servizio del sistema
insediativo/ l'adozione di due corsie di
marcia di specifiche
dimensione che, nella specie, non
esistevano, e dall'altra aveva tentato di
aggirare di aggirare l'ostacolo mediante la
c.d.
monetizzazione dei parcheggi, in ciò
agevolata dal Comune;
b) la
determinazione del quantum era corretta, non
potendo esser
recepito in toto il conteggio predisposto
dalla Società, che
conteneva una mera elencazione di spese non
verificabili, e
dovendo il ritardo ascriversi anche alla
stessa, che aveva insistito
nel progetto non conforme alle previsioni
urbanistiche; non
potendo, poi, riconoscersi il minore utile
d'impresa, perché
fondato su dati opinabili e su un calcolo di
parte, laddove
l'espletamento di una CTU era poco
opportuno, tenuto conto del
decorso del tempo.
Per la cassazione della sentenza, la Società
Edilizia ha
proposto ricorso, con sette mezzi, ai quali
il Comune di Reggio
Emilia nonché Iv.lo. e consorti hanno
resistito con
controricorso. An.Pe. non ha
svolto difese. La ricorrente
e i confinanti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L'eccezione di nullità della notifica del
ricorso va rigettata,
essendo stata ogni dedotta invalidità sanata
con la costituzione in
giudizio dei chiamati, in riferimento ai
quali, peraltro, è ormai
definitiva la statuizione di assoluzione
dalla chiamata in garanzia
e dovendo il ricorso ritenersi notificato,
solo, ai fini formali del
contraddittorio processuale.
2. Col primo motivo, si deduce la violazione
e falsa
applicazione degli artt. 2043 e 2056 cc., 116 cpc, "in relazione all'art. 31 della L n.
1150 del 1942 e 10 del 1977 sul rilascio dei
titoli per costruire in conformità al
certificato di destinazione
urbanistica previsto dall'art. 18, co 3,
della L n. 47/1985". La Corte
territoriale, lamenta la ricorrente, ha
affermato la sua
responsabilità, senza considerare la natura
oppositiva della sua
pretesa, desumibile dall'esistenza del
titolo edilizio, che era stato
annullato dal giudice amministrativo per
errori a lei non
imputabili, essendo la concessione edilizia
coerente alle
caratteristiche del lotto.
3. Col secondo motivo, si deduce la
violazione dell'art. 2043
in relazione all'art. 1227 ed all'art. 18,
co. 3, della L. n. 47/1985, per
avere la Corte territoriale riconosciuto la
rilevanza causale del
comportamento della danneggiata, che aveva
costruito in
attuazione del certificato di destinazione
urbanistica, mentre
spettava al Comune di dotare la zona con
adeguata rete stradale e
subordinare eventualmente l'edificabilità in
funzione di tale
pianificazione.
4. Col terzo motivo, la ricorrente lamenta
la violazione degli
artt. 2043 cc., 50 cp, 1326, 1338 e 1227 cc,
ed afferma che la
richiesta di rilascio di concessione
edilizia -che non integra una
proposta contrattuale sicché ad essa non
sono applicabili i relativi
principi- è conforme al certificato di
destinazione urbanistica,
sicché l'eventuale successivo annullamento è
imputabile solo al
Comune.
5. Col quarto motivo, la ricorrente deduce
la violazione degli
artt. 1337 e 1175 cc, in relazione agli
artt. 1 e 6 della 1 n. 241 del
1990 e lamenta esservi stata la lesione
dell'affidamento generato
dal rilascio di un provvedimento
apparentemente legittimo,che la
aveva indotta a sostenere spese nel
ragionevole convincimento di
poter edificare tempestivamente.
6. Col quinto motivo, si lamenta la
violazione degli artt. 6
della L n. 241 del 1990 e 4 della L n. 493
del 1993, per essere
stato affermato il suo concorso nella
produzione del danno, in
assenza di responsabilità del progettista
dell'impresa, competendo
ai tecnici comunali di valutare la
conformità del progetto alle
prescrizioni urbanistico-edilizie.
7. Col sesto motivo, si deduce la violazione
degli artt. 1223,
1226, 1227, 2043, 2056, 2697, 2728 cc 115 e
115 cpc, per errata
valutazione della percentuale di colpa e
delle voci risarcibili. La
somma a carico del Comune avrebbe dovuto
esser determinata in
ragione della differenza tra le spese
sostenute alla ripresa dei
lavori rispetto a quelle che sarebbero state
sopportate se le
costruzioni fossero state completate "senza
l'ostacolo (per 42
mesi) rappresentato dall'annullamento
(illegittimo) della licenza",
oltre che dell'utile non tempestivamente
percepito. La Corte
d'appello, prosegue la ricorrente, ha
liquidato il danno senza
spiegare perché non lo ha determinato
secondo le documentate
affermazioni del consulente che
riproducevano le dovute voci,
laddove avrebbe potuto negare il
risarcimento solo nella misura in cui si
fosse ritenuto che la perdita avrebbe potuto
essere evitata
con l'uso dell'ordinaria diligenza.
8. Col settimo motivo, si lamenta la
violazione degli artt.
1226, 2056, 1223, 1226 cc. Il ricorso alla
valutazione equitativa
non esonera il giudice dal dovere di dar
conto dei criteri tenuti in
considerazione per la concreta
determinazione del danno, ed, al
riguardo, la motivazione della sentenza era
apodittica e
contraddittoria.
9. I primi sei motivi, da valutare
congiuntamente perché
relativi alla medesima statuizione,
riassunta al punto a) di parte
narrativa, sono infondati.
10. Premesso che la responsabilità
dell'Amministrazione
Comunale è ormai irrevocabile per averla
affermata la sentenza
d'appello e non averla contestata l'Ente
soccombente, occorre
osservare che la circostanza che la
ricorrente godesse di un
interesse oppositivo nei confronti della pA
(essendo portatrice,
quale titolare di due concessioni edilizie,
di una situazione di
vantaggio entrata a fare parte della sua
sfera giuridica, cfr. Cass.
n. 2705 del 2005; n. 21170 del 2011)
non
comporta tout court che
i danni prodotti all'interesse alla
conservazione di siffatta
situazione giuridica siano da addebitare a
responsabilità esclusiva
dell'Amministrazione. Ed, infatti,
quando,
come in ogni altra
ipotesi risarcitoria, venga accertato che i
danni stessi siano
collegati causalmente anche al fatto dello
stesso danneggiato
ricorre l'ipotesi del fatto colposo del
creditore che abbia concorso al verificarsi
dell'evento dannoso e va applicata la
disposizione di
cui all'art. 1227, co. 1, cc (in tema
d'inadempimento delle
obbligazioni), richiamata dall'art. 2056 cc
(in materia di
responsabilità aquiliana), che impone la
diminuzione del
risarcimento, secondo la gravità della colpa
ascrivibile al
creditore o al danneggiato.
11. L'accertamento in tal senso compiuto da
giudice del
merito non viola affatto la norma di cui
all'art. 18, co. 3, della L.
n. 47 del 1985 (vigente all'epoca -1988 e
1993- delle concessioni,
poi annullate dal giudice amministrativo), a
cui si riducono in
sostanza le censure della ricorrente sopra
riassunte, tenuto conto
che tale certificato attesta, bensì,
l'inclusione di un suolo in una
determinata zona del territorio comunale e
ne certifica il carattere
edificatorio o meno, ma non esaurisce le
condizioni previste
dall'ordinamento per il rilascio della
concessione edilizia, che
devono tener conto dell'incidenza degli
spazi riservati ad
infrastrutture e servizi di interesse
generale, secondo le
prescrizioni dello strumento urbanistico
attuativo, prescrizioni
che, a sua volta, proprio come affermato
dalla Corte del merito, il
proprietario non può non rispettare nel
formulare istanza di
concessione edilizia, né può aggirare
presentando varianti,
diversamente esponendosi al rischio di
vederla annullata, come
poi è avvenuto.
12. A tanto, va aggiunto che la percentuale
del concorso di
colpa della Società, accertata in egual
misura tra le parti (e non in termini contrattualistici di proposta-accettazione),
costituisce una
tipica valutazione di merito, incensurabile
in questa sede di
legittimità.
13. Il settimo motivo, che pur formulato
come violazione
delle disposizione in tema di risarcimento
del danno, maschera, in
realtà, una censura avverso la motivazione
della sentenza, è
inammissibile. L'art. 360, 1° co., n. 5 cpc,
nel testo applicabile ratione temporis (la sentenza stata
pubblicata il 19.06.2013), ha,
infatti, ridotto il controllo di legittimità
sulla motivazione al
minimo costituzionale (mancanza assoluta di
motivi sotto
l'aspetto materiale e grafico; motivazione
apparente; contrasto
irriducibile tra affermazioni
inconciliabili; motivazione perplessa
ed obiettivamente incomprensibile), a
prescindere, beninteso, dal
confronto con le risultanze processuali, non
integrando l'omesso
esame di elementi istruttori di per sé vizio
di omesso esame di un
fatto decisivo, se il fatto rilevante in
causa sia stato comunque
preso in considerazione dal giudice (come
nella specie) ancorché
la sentenza non abbia, in tesi, dato conto
di tutte le risultanze
probatorie (cfr. Cass. SU n. 8053 del 2014).
14. Il ricorso va rigettato, e la ricorrente
va condannata al
pagamento delle spese sopportate dal Comune,
che si liquidano
come da dispositivo, mentre le spese
sostenute da Ivana lotti e
consorti vanno poste a carico del Comune, la
cui pretesa è stata
dichiarata ingiustificata (cfr. Cass. n.
7401 del 2016 e sentenze ivi
citate) e si liquidano come da dispositivo. |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
linea generale, il fisiologico e preferibile
esito della notificazione è quello c.d. “a
mani proprie”, che si verifica quando l'atto
è ricevuto dal destinatario in persona.
Poiché scopo della notificazione è quello di
provocare la conoscenza legale dell'atto in
capo ad un determinato soggetto, la forma
ideale è rappresentata dalla consegna della
copia direttamente nelle sue mani, con
conseguente coincidenza tra il destinatario
e il consegnatario dell’atto: ai sensi
dell’art. 138 del cpc, l'ufficiale
giudiziario può sempre eseguire la notifica
“mediante consegna della copia nelle mani
proprie del destinatario, ovunque lo trovi
nell'ambito della circoscrizione
dell'ufficio giudiziario al quale è
addetto”.
Ciò rende irrilevante l'indagine sulla
residenza, domicilio o dimora, del medesimo,
mentre l'identità personale tra
consegnatario dell'atto e destinatario
indicato è desumibile dalle dichiarazioni
rese dal pubblico ufficiale.
---------------
Anche nel processo amministrativo la regola
generale per la notificazione alle persone
fisiche è la consegna a mani proprie:
infatti, ai sensi degli artt. 138 e 139 cpc,
in materia di notifica di atti ai fini
dell’acquisizione della loro piena
conoscenza in capo ai destinatari e del
conseguente consolidamento dei relativi
effetti anche in relazione alla azionabilità
delle previste misure di tutela, le regole
generali impongono, secondo un criterio di
successione preferenziale, la necessità
della notifica a mani proprie.
Quando la notificazione avviene nella forma
ordinaria, con la consegna dell’atto a mani
del destinatario (o di altro soggetto
abilitato), la relazione di notifica viene
redatta contestualmente. Nella relata di
notifica devono essere “certificate” tutte
le operazioni compiute nell'esecuzione della
notificazione e in particolare, ai sensi
dell’art. 148 del cpc, sono indicati la
persona alla quale è consegnata la copia e
le sue qualità, nonché il luogo della
consegna.
---------------
1. Con riguardo al ricorso r.g. 1117/2009,
il Comune ne ha eccepito l’inammissibilità
per tardività, poiché sussiste la prova
dell’avvenuta notifica del diniego di
compatibilità paesaggistica in data
17/04/2008 (doc. 3) per cui la presentazione
del ricorso straordinario (il 23/07/2009) è
avvenuta oltre i termini di legge.
L’eccezione è fondata.
1.1 Osserva il Collegio in linea generale
che il fisiologico e preferibile esito della
notificazione è quello c.d. “a mani
proprie”, che si verifica quando l'atto
è ricevuto dal destinatario in persona.
Poiché scopo della notificazione è quello di
provocare la conoscenza legale dell'atto in
capo ad un determinato soggetto, la forma
ideale è rappresentata dalla consegna della
copia direttamente nelle sue mani, con
conseguente coincidenza tra il destinatario
e il consegnatario dell’atto: ai sensi
dell’art. 138 del cpc, l'ufficiale
giudiziario può sempre eseguire la notifica
“mediante consegna della copia nelle mani
proprie del destinatario, ovunque lo trovi
nell'ambito della circoscrizione
dell'ufficio giudiziario al quale è addetto”.
Ciò rende irrilevante l'indagine sulla
residenza, domicilio o dimora, del medesimo,
mentre l'identità personale tra
consegnatario dell'atto e destinatario
indicato è desumibile dalle dichiarazioni
rese dal pubblico ufficiale.
1.2 Occorre sottolineare, in particolare,
che anche nel processo amministrativo la
regola generale per la notificazione alle
persone fisiche è la consegna a mani proprie
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. II –
15/01/2015 n. 245, che risulta appellata;
Consiglio di Stato, sez. IV – 16/07/2014 n.
3735): infatti, ai sensi degli artt. 138 e
139 cpc, in materia di notifica di atti ai
fini dell’acquisizione della loro piena
conoscenza in capo ai destinatari e del
conseguente consolidamento dei relativi
effetti anche in relazione alla azionabilità
delle previste misure di tutela, le regole
generali impongono, secondo un criterio di
successione preferenziale, la necessità
della notifica a mani proprie (TAR Lazio
Roma, sez. II-bis – 07/02/2017 n. 2054).
1.3 Quando la notificazione avviene nella
forma ordinaria, con la consegna dell’atto a
mani del destinatario (o di altro soggetto
abilitato), la relazione di notifica viene
redatta contestualmente (Corte di
Cassazione, sez. V civile 12/12/2014 n.
26175). Nella relata di notifica devono
essere “certificate” tutte le
operazioni compiute nell'esecuzione della
notificazione e in particolare, ai sensi
dell’art. 148 del cpc, sono indicati la
persona alla quale è consegnata la copia e
le sue qualità, nonché il luogo della
consegna (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.02.2017 n. 273 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sottotetti,
altezza discriminante. Lottizzazione da rifare: è mansarda
l'area calpestabile. Il Tar Molise
ha bloccato l'edificio perché va oltre la soglia di distanza
dal suolo.
Stop all'edificio perché va oltre la soglia massima di
distanza dal suolo prevista dal piano di lottizzazione. E la
colpa è del sottotetto che non costituisce una vera e
propria mansarda ma ben potrebbe diventarlo: nel suo punto
più alto arriva a un metro e ottanta centimetri e dunque
costituisce un'area calpestabile e praticabile per i futuri
condomini. Al proprietario dell'immobile non resta che
rielaborare per intero la proposta di lottizzazione.
È quanto emerge dalla
sentenza
24.02.2017 n. 76,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Molise, che, quindi,
ha bocciato il ricorso del proprietario.
Non sussiste alcuna violazione del piano di lottizzazione
dell'area da parte dell'ente perché è dal progetto del
privato che viene fuori un fabbricato troppo alto. E ciò
perché nel calcolo il comune considera anche i sottotetti,
che pure non sono adibiti a uso abitativo.
I locali, invero,
non possono essere reputati meri volumi tecnici perché
potenzialmente possono essere utilizzati anche come
mansarda: il sottotetto, in questo caso, non serve dunque
soltanto a isolare le unità immobiliari sottostanti alla
copertura del fabbricato e non risulta avere una vocazione
esclusiva alla buona funzionalità dell'edificio, ma può
essere sfruttato a fini abitativi.
Va detto poi che è lo
stesso progetto a indicare i locali come destinati a
lavanderie e stenditoi, senza dimenticare che le aree hanno
aperture verso l'esterno. Insomma: il proprietario avrebbe
dovuto dimostrare l'errore di calcolo degli uffici comunali
e produrre una perizia di parte o almeno chiedere la
consulenza tecnica d'ufficio.
Spesso, i volumi tecnici, o presunti tali, alimentano il
contenzioso amministrativo. Non basta per esempio Google
Earth a bloccare i lavori di recupero del sottotetto.
Il niet di comune e soprintendenza all'autorizzazione
paesistica scatta per le tasche di copertura dell'edificio,
giudicate antiestetiche e visibilissime a chi guarda
immagini satellitari e si collega a internet per esplorare i
luoghi. Le strutture si rendono necessarie per dare aria e
luce ai locali. E il fatto che ora grazie al web le
costruzioni possono essere guardate anche dall'alto non
impone di per sé un vincolo di immodificabilità rafforzato.
È quanto emerge dall'ordinanza
04.04.2016 n. 270, pubblicata dalla
I Sez. del TAR
Lombardia-Brescia.
Accolta la domanda cautelare del responsabile dei
lavori. È vero: c'è ragione di credere che la visione
satellitare diventerà nel prossimo futuro la principale
forma di fruizione delle bellezze paesistiche, dal momento
che cresce ogni giorno il numero di persone in grado di
accedere alle immagini via internet da ogni parte del mondo.
Ma anche in questo caso è necessario individuare una scala
alla quale collegare il giudizio paesistico, che è sempre
riferito a un insieme complesso e non a singoli dettagli
messi in primo piano. E nella specie la presenza di tasche
nelle coperture di quasi la metà degli edifici che
compongono l'isolato permette comunque di apprezzare il
pregio architettonico della zona: non sembra quindi
ragionevole ritenere che le due nuove aperture a tasca
progettate possano alterare l'equilibrio generale dell'area.
Attenzione, però:
se il vano tecnico diventa casa, il comune deve mostrare
l'agibilità al vicino che vuol fare causa. Dopo la lite
sull'appartamento all'ultimo piano, nonostante la sanatoria,
l'ente non può negare le carte sulla conclusione dell'iter
al condomino perché deve preparare la difesa in tribunale.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.05.2016 n. 898, pubblicata dal TAR
Puglia-Lecce, Sez. II.
L'ufficio comunale resta in silenzio rispetto all'istanza
del vicino. E sbaglia perché fra i condomini pendono ben due
cause e quello del piano di sotto ha diritto a ottenere i
documenti per preparare la difesa in giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Come
ripetutamente affermato in giurisprudenza, i provvedimenti
di autotutela costituiscono, anche nella materia edilizia,
manifestazioni dell’esercizio di una potestà discrezionale
e, pertanto, impongono di regola –ossia, fatte salve rare
eccezioni connotate dall’esistenza di evidenti esigenze di
rispetto di principi fondamentali dell’ordinamento– che
l’Amministrazione dia sufficientemente conto dell’avvenuta
comparazione tra l’interesse pubblico all’annullamento e
quello del privato alla conservazione dell’atto illegittimo
o, ancora, rappresenti adeguatamente la sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello
status quo ante, tanto più nei casi in cui la posizione del
destinatario possa essere considerata oramai consolidata a
causa del tempo trascorso, con connessa insorgenza di uno
stato di affidamento in capo all’interessato.
---------------
Costituisce poi, principio assolutamente generale quello
secondo cui ogni provvedimento amministrativo deve essere
motivato, ossia deve porre il destinatario nella piena
condizione di comprendere i presupposti di fatto e le
ragioni di diritto che hanno condotto all’adozione di esso.
Ciò detto, non può non prendersi atto che, per quanto
attiene all’aspetto in trattazione, i provvedimenti
impugnati risultano assolutamente carenti, atteso che –pur
essendo stati adottati in autotutela e, per quanto riguarda
la nota del 13.09.2016, anche a notevole distanza di tempo
dall’adozione del provvedimento autoannullato– si basano
esclusivamente sulla generica affermazione che l’intervento
“risulta in contrasto con la normativa vigente, in quanto
esclusa dal campo di applicazione della L.R. 21/2009 s.m.i.”.
---------------
Considerato che:
- con l’atto introduttivo del presente giudizio, notificato
in data 18.11.2016 e depositato il successivo 12.12.2016, la ricorrente impugna le note con cui, in
date 13 e 15.09.2016, Roma Capitale ha considerato
prive di titolo DIA in precedenza presentate –precisamente,
in data 23.02.2010 e relative varianti risalenti al 25.05.2010 e
09.08.2011, nonché in data 05.04.2016-
e, quindi, annullato il “il titolo edilizio presentato”,
dando, peraltro, evidenza dell’avvio del procedimento “per
la repressione degli abusi edilizi”, nonché la D.D. n. 2764
del 19.09.2016, notificata il 04.11.2016, di
immediata sospensione dei lavori, chiedendone
l’annullamento;
- a tali fini la ricorrente -in sintesi- denuncia la
violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990,
così come modificato dall’art. 6 della legge n. 124 del
2015, per palese esercizio del potere di annullamento in
autotutela ben oltre il termine di 18 mesi all’uopo fissato,
e si duole, in via subordinata, del vizio di difetto di
motivazione anche per mancata esplicitazione da parte
dell’Amministrazione delle ragioni di pubblico interesse
poste alla base delle decisioni adottate e, ancora, della
mancata considerazione della già avvenuta ultimazione delle
opere;
- con atto depositato in data 27.12.2016 si è
costituita Roma Capitale, la quale –nel prosieguo e
precisamente in data 13.01.2017, ha prodotto documenti;
- alla camera di consiglio del 18.01.2017 -previa
verifica della completezza dell’istruttoria e del
contraddittorio e sentite le parti sul punto, ai sensi
dell’art. 60 del c.pr.amm.– il ricorso è stato trattenuto
in decisione;
Ritenuto che, per quanto attiene all’impugnativa della
determinazione n. 2764 del 19.09.2016 di sospensione
dei lavori, il ricorso debba essere dichiarato improcedibile,
atteso che il provvedimento di cui si discute –seppure
pienamente operante alla data di notificazione dell’atto
introduttivo del presente giudizio (stante la risalenza
della notificazione della determinazione in questione alla
data del 04.11.2016)– è divenuto privo di ogni effetto
giuridico in ragione dell’intervenuta maturazione del
termine di 45 giorni previsto dall’art. 27 del D.P.R. n. 380
del 2001;
Ritenuto che, in relazione agli ulteriori provvedimenti
impugnati, la censura afferente il vizio di difetto di
motivazione sia meritevole di positivo riscontro, tenuto
conto che:
- come ripetutamente affermato in giurisprudenza, i
provvedimenti di autotutela costituiscono, anche nella
materia edilizia, manifestazioni dell’esercizio di una
potestà discrezionale e, pertanto, impongono di regola –ossia, fatte salve rare eccezioni connotate dall’esistenza
di evidenti esigenze di rispetto di principi fondamentali
dell’ordinamento (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 09.05.2016, n. 152)– che l’Amministrazione dia
sufficientemente conto dell’avvenuta comparazione tra
l’interesse pubblico all’annullamento e quello del privato
alla conservazione dell’atto illegittimo o, ancora,
rappresenti adeguatamente la sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo
ante, tanto più nei casi in cui la posizione del
destinatario possa essere considerata oramai consolidata a
causa del tempo trascorso, con connessa insorgenza di uno
stato di affidamento in capo all’interessato (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 28.06.2016, n. 2902; TAR
Puglia, Lecce, Sez. III, 18.01.2017, n. 77; TAR
Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.01.2017, n. 65);
- costituisce poi, principio assolutamente generale -come
dapprima statuito in ambito giurisprudenziale e, in seguito,
formalmente riconosciuto dal legislatore con l’art. 3 della
legge n. 241 del 1990– quello secondo cui ogni
provvedimento amministrativo deve essere motivato, ossia
deve porre il destinatario nella piena condizione di
comprendere i presupposti di fatto e le ragioni di diritto
che hanno condotto all’adozione di esso (Cons. Giust. Amm.
Sic., 05.05.2016, n. 126);
- ciò detto, non può non prendersi atto che, per quanto
attiene all’aspetto in trattazione, i provvedimenti
impugnati risultano assolutamente carenti, atteso che –pur
essendo stati adottati in autotutela e, per quanto riguarda
la nota del 13.09.2016, anche a notevole distanza di
tempo dall’adozione del provvedimento autoannullato– si
basano esclusivamente sulla generica affermazione che
l’intervento “risulta in contrasto con la normativa vigente,
in quanto esclusa dal campo di applicazione della L.R.
21/2009 s.m.i.”, aggiungendo –per mera completezza– che
non vale a sopperire a tale carenza quanto riportato nella
nota del 21.06.2016, prodotta agli atti
dall’Amministrazione, non solo perché redatta dal Geom. En.Za. in veste di “tecnico ausiliario di P.G.” ma anche
e, anzi, primariamente in ragione del rilievo che la stessa
nota –pur se citata nella comunicazione di avvio del
procedimento– non è richiamata nelle note impugnate e,
comunque, ragionevolmente riporta valutazioni afferenti
esclusivamente alla conformità o meno degli interventi alla
normativa vigente, senza riferimento alcuno a profili
attinenti all’interesse pubblico;
Ritenuto che quanto in precedenza riportato sia sufficiente
per l’accoglimento dell’impugnativa proposto avverso le note
del 13 e 15.09.2016, con assorbimento delle ulteriori
censure formulate;
Ritenuto che, per le ragioni illustrate il ricorso in parte
vada dichiarato improcedibile e in parte vada accolto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 23.02.2017 n. 2809 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
legittimazione dei soggetti terzi, non direttamente
destinatari del provvedimento, è riconosciuta in base al
criterio cosiddetto della <<vicinitas>>, ovvero in caso di
stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente
e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi
comportino contra legem un’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio.
Non è pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti
il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché
il danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione
della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non
conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide
se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio
urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo
del territorio, a cui fanno necessario riferimento i
titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati
comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi.
Si considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di
chi, come i ricorrenti, proprietari di un immobile
confinante a quello oggetto dell’intervento contestato, ha
interesse a che il vicino edifichi regolarmente anche in
presenza di una lesione potenziale o eventuale.
---------------
Per pacifica giurisprudenza la legittimazione dei soggetti
terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è
riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <<vicinitas>>,
ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra
l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori,
quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione
del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.
Non è
pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti il
pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il
danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione
della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non
conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide
se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio
urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo
del territorio, a cui fanno necessario riferimento i
titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati
comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi.
Si
considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di chi,
come i ricorrenti, proprietari di un immobile confinante a
quello oggetto dell’intervento contestato, ha interesse a
che il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una
lesione potenziale o eventuale (tra le tante: Consiglio di
Stato sez. VI 21.03.2016 n. 1156; Consiglio di Stato sez. VI 09.05.2016
n. 1861)
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 23.02.2017 n. 109 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per poter applicare la regola della distanza
minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968
n. 1444 e richiamata dalle norme tecniche di attuazione del
Comune (art. 1.6.4 che a sua volta riferisce il computo
della distanza alle “pareti finestrate”) è necessaria
l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui
almeno una deve essere finestrata.
E ciò si desume inequivocabilmente dal disposto normativo
che si riferisce testualmente alla distanza minima assoluta
“tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
---------------
7.- Passando
all’esame del ricorso nel merito, con il primo motivo di
ricorso è dedotta la violazione dell’art. 2.7.5, comma 4,
delle N.T.A., che, per le zone F4 (aree per spazi pubblici
attrezzati a parco), ove rientra il parco degli eucalipti,
le destinazioni d’uso ammesse sono, tra le altre, “le
attrezzature complementari e di supporto”, purché però la
distanza di tali strutture dai confini sia pari almeno a 5
metri”, requisito che, però, nel caso di specie non
risulterebbe rispettato perché il basamento del chiosco,
sporgente di un metro rispetto al limite della parete
finestrata di nuova realizzazione, sarebbe posizionato ad
una distanza di metri 4,18 (4,10 come risulta dalla perizia
di parte dell’ing. Si.Ma.) rispetto al confine. La
parete finestrata del chiosco, invece, sarebbe collocata ad
una distanza di metri 9, 05 dell’edificio dei ricorrenti.
E’ inoltre dedotta la violazione dell’art. 9 del d.m.
1444/1968, riprodotto nelle N.T.A. (art. 1.6.4, comma 2) del
Comune di Giulianova, che impone che gli edifici di nuova
costruzione vadano costruiti ad una distanza di 10 metri.
7.1.- Il motivo è infondato.
La tesi di parte ricorrente muove dall’erroneo presupposto
che la distanza minima dal confine andava calcolata con
riferimento al limite esterno della pedana.
Invero, per poter applicare la regola della distanza minima
di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n.
1444 e richiamata dalle norme tecniche di attuazione del
Comune di Giulianova (art. 1.6.4 che a sua volta riferisce
il computo della distanza alle “pareti finestrate”) è
necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono,
di cui almeno una deve essere finestrata (Consiglio di Stato
sez. IV 31.03.2015 n. 1670; Conferma TAR Calabria,
Catanzaro, Sez. I, n. 1462/2014). E ciò si desume
inequivocabilmente dal disposto normativo che si riferisce
testualmente alla distanza minima assoluta “tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti”.
7.1.1.- Nella specie, non potendo configurare il basamento
come una “parete finestrata” il rispetto della distanza
minima tra costruzioni andava quindi verificato non con
riferimento alla piattaforma del chiosco, ma con riferimento
alla parete del chiosco, rispetto alla quale, come si desume
dallo schema grafico allegato alla stessa relazione tecnica
di parte ricorrente redatta dall’ing. Si.Ma., era
rispettata la distanza minima di 10 metri tra pareti
finestrate
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 23.02.2017 n. 109 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Varchi
nel muro, limiti precisi. Ma va fatta attenzione al «pari
uso» degli altri condòmini e al decoro.
Parti comuni. La Cassazione detta le regole per l’apertura
di un passaggio diretto a un appartamento.
L’apertura di varchi o porte nel
muro comune non costituisce, in linea di massima, abuso
della cosa comune. Ogni condomino ha diritto di apportare le
modifiche che gli consentono un’utilità supplementare
rispetto agli altri condòmini.
Tale facoltà è concessa a condizione che non venga impedito
il concorrente utilizzo del bene comune, che non ne sia
alterata la naturale destinazione e che non venga
pregiudicata la stabilità e il decoro dell’edificio
condominiale.
Pertanto, l’apertura di un varco nel muro perimetrale che
consenta l’accesso alla proprietà esclusiva di uno dei
condòmini o realizzazione di porte (in questo caso la
trasformazione da finestra in porta-finestra) o cancelli non
costituisce, normalmente, un utilizzo improprio della cosa
comune, atteso che non pregiudica la possibilità degli altri
condòmini di farne parimenti uso, ferma restando la naturale
destinazione del muro perimetrale, la solidità dell’edificio
ed il suo decoro.
Questo il senso della
sentenza
21.02.2017 n. 4437 della Corte di Cassazione - Sez.
II civile (relatore Alberto Giusti).
Alla sentenza si è arrivati dopo un contenzioso in cui altri
condòmini lamentavano pregiudizio per la stabilità e il
decoro dello stabile, oltre all’illegittima appropriazione
di parte del muro perimetrale.
Le osservazioni della Cassazione riguardano soprattutto una
serie di principi che chiariscono aspetti controversi.
Anzitutto, la Suprema Corte dice che «secondo la
giurisprudenza di questa Corte (...), in tema di condominio,
il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale
comune di un edificio legittima il singolo condomino ad
apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le
modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in
comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a
quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere
anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai
locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non
impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio
dell’uso del muro -ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo
e misura analoghi- e di non alterarne la normale
destinazione e sempre che tali modificazioni non
pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del
fabbricato condominiale».
Con l’importante precisazione per cui «l’apertura di varchi
e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente
fra le parti comuni dell’edificio condominiale, eseguite da
uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all’unità
immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di
massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i
diritti degli altri condomini, non comportando per costoro
una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro
stesso ai sensi dell’art. 1102, primo comma cod. civ., e
rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione
del muro si correli non già alla necessità di ovviare ad una interclusione dell’unità immobiliare al cui servizio il
detto accesso è stato creato, ma all’intento di conseguire
una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte
del suo proprietario».
Nel caso specifico è stato accertato come l’ampliamento
della varco esistente, trasformato da finestra in porta
carraia, ha costituito un mero uso più intenso della cosa
comune che non impedisce agli altri comproprietari il
concorrente utilizzo, e ciò in assenza di significativa
alterazione del decoro. Anche alla luce del fatto per cui
autore delle opere era il solo condomino che effettivamente
poteva utilizzare più intensamente il muro perimetrale,
essendo il proprietario esclusivo del vano prospiciente
l’originaria finestra (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2017).
----------------
MASSIMA
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante,
Cass.,
Sez. II, 25.09.1991, n. 10008; Cass., Sez. II, 26.01.1987, n. 703; Cass., Sez. II, 27.10.2003, n.
16097; Cass., Sez.
VI-2, 14.11.2014, n. 24295), in tema di condominio, il
principio
della comproprietà dell'intero muro perimetrale comune di un
edificio
legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche
se
muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di
trarre, dal
bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto
a quella
goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche
all'apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di
sua proprietà
esclusiva), a condizione di non impedire agli altri
condomini la prosecuzione
dell'esercizio dell'uso del muro -ovvero la facoltà di
utilizzarlo
in modo e misura analoghi- e di non alterarne la normale
destinazione
e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la
stabilità ed
il decoro architettonico del fabbricato condominiale.
Si è anche precisato (Cass., Sez. II, 29.04.1994, n.
4155;
Cass., Sez. II, 26.03.2002, n. 4314) che l'apertura di
varchi e
l'installazione di porte o cancellate in un muro ricadente
fra le parti
comuni dell'edificio condominiale, eseguite da uno dei
condomini per
creare un nuovo ingresso all'unità immobiliare di sua
proprietà esclusiva,
non integrano, di massima, abuso della cosa comune
suscettibile
di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando
per costoro
una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro
stesso ai sensi
dell'art. 1102, primo comma cod. civ., e rimanendo
irrilevante la circostanza
che tale utilizzazione del muro si correli non già alla
necessità
di ovviare ad una interclusione dell'unità immobiliare al
cui servizio
il detto accesso è stato creato, ma all'intento di
conseguire una più
comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo
proprietario.
Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle
singole unità
immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad
esse
corrispondenti, sempre che l'esercizio di tale facoltà,
disciplinata dagli
artt. 1102 e 1122 cod. civ., non pregiudichi la stabilità e
il decoro architettonico
del fabbricato. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
agli atti, il diniego costa. Il no sanzionato con il
risarcimento anche dei danni erariali.
Il Tar Toscana: il candidato deve poter visionare le
correzioni prima della fine del concorso.
Rischia grosso l'ufficio scolastico regionale se nega al
prof bocciato agli scritti del concorso a cattedra l'accesso
ai suoi elaborati realizzati nella prova e alla relativa
scheda di valutazione. Anche se l'ex provveditorato adempie
in corso di causa al deposito dei documenti, il Miur è
condannato a pagare le spese di lite e la pronuncia viene
trasmessa alla Procura regionale della Corte dei conti: il
danno erariale era «agevolmente evitabile» se solo l'ufficio
avesse dato ingresso all'istanza del candidato. E ciò perché
«l'accesso» dei cittadini agli atti «è la regola» per la
pubblica amministrazione e «il rifiuto l'eccezione».
È quanto emerge dalla
sentenza
10.02.2017 n. 200,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
«Inspiegabile» il rifiuto opposto dall'amministrazione
scolastica alla richiesta del prof: è una circolare emessa
dallo stesso Miur il 18.05.2016 a specificare che il
candidato a procedimento in corso può ottenere l'accesso
alle sue prove corrette e alle griglie di valutazione,
mentre deve aspettare la fine del concorso per ottenere atti
relativi ad altri concorrenti. Né il docente chiede
l'ostensione di documenti che contengono «informazioni di
carattere psico-attitudinale» relativi a terzi, ciò che
giustificherebbe il rifiuto opposto dall'ex provveditorato.
La trasparenza sulle procedure amministrative va garantita a
chi ha un interesse specifico e concreto da tutelare anche
se non ha ancora promosso un'iniziativa giudiziaria in
merito.
L'ostensione dei documenti deve essere concessa quando
risulta strumentale a ogni forma di tutela, sia giudiziale
sia stragiudiziale: il diniego può scattare soltanto per
esigenze di riservatezza, mentre il cittadino può ottenere
la tutela anche soltanto al fine di «conoscere per
deliberare», cioè rendersi conto se è il caso o meno di
rivolgersi al giudice.
Si tratta, scrive il giudice, di «regole semplici e
fondamentali»: se funzionari e dirigenti le
applicassero, si eviterebbe «una cospicua mole di inutile
contenzioso», visto che c'è una «giurisprudenza
ventennale» a favore dell'accesso agli atti. In «ogni
vera democrazia», conclude la sentenza, la burocrazia
deve essere «al servizio del cittadino» e «non di
se stessa, secondo una logica perversa di autoreferenzialità».
Ora la parola passa alla Corte dei conti, che dovrà indagare
sull'operato degli uffici scolastici
(articolo ItaliaOggi del 04.04.2017).
---------------
MASSIMA
6 - Il consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa è nel senso che "in virtù
dell’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990, va garantito ai
richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici, senza che da parte
dell’Amministrazione possa legittimamente sindacarsi la
fondatezza ovvero la pertinenza delle azioni che
l’interessato intenda intraprendere; sicché, sotto tale
profilo, è sufficiente che l’istante fornisca elementi
idonei a dimostrare in maniera chiara e concreta la
sussistenza di un tale astratto interesse che ricolleghi
comunque la domanda d’accesso ai documenti richiesti;
inoltre, una volta che l’istante abbia dimostrato il proprio
interesse, è illegittimo il divieto di estrarre copia e la
limitazione dell’accesso alla sola visione degli atti, che
spesso non è sufficiente a consentire la tutela in sede
giurisdizionale dei propri interessi”
(cfr., fra le tantissime, Consiglio di Stato, Sez. IV,
26.08.2014, n. 4286; TAR Torino, Sez. II, 29.08.2014, n.
1458).
7 -
Ai sensi del citato art. 24, quindi, l’accesso va in ogni
caso garantito qualora sia strumentale e funzionale a
qualunque forma di tutela, sia giudiziale che
stragiudiziale, anche prima e indipendentemente
dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale. Pertanto,
l’interesse all’accesso va valutato in astratto, senza che
possa essere operato, con riferimento al caso specifico,
alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza, plausibilità
o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati
potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti
acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione alla
pretesa sostanziale sottostante
(tra le tante e per tutte: TAR Catania sez. VI, 12.05.2016,
n. 1285).
8 - In linea di principio, dunque,
l’amministrazione detentrice dei documenti amministrativi,
purché direttamente riferibili alla tutela –anche di
carattere conoscitivo, preventivo e valutativo da parte del
richiedente, di un interesse personale e concreto- non può
limitare il diritto di accesso se non per motivate esigenze
di riservatezza
(Tar Lazio, Roma, Sez. III, 05.11.2009 n. 10838).
9 – Si tratta di acquisizioni consolidate ed ormai note (o
almeno dovrebbero esserlo secondo criteri di perizia ed
intelligenza) dopo quasi un ventennio di esperienze e
affermazioni giurisprudenziali, che qui è inutile ripetere e
dalle quali emerge un principio di fondo che dovrebbe
guidare tutti i funzionari e dirigenti pubblici, la cui
osservanza eviterebbe una mole cospicua di inutile
contenzioso, come quello presente.
Tale principio può sintetizzarsi in ciò:
l’accesso è la regola ed il rifiuto è l’eccezione, da
dimostrare sempre e comunque con chiara, esauriente e
convincente motivazione. Corollario di tale regole è che il
silenzio serbato su istanze d’accesso è ipotesi ancor più
eccezionale, da circoscrivere in ambiti limitatissimi di
domande palesemente pretestuose, incerte, vaghe, emulative.
10 –
Si tratta di regole semplici e fondamentali, ispirate,
secondo l’ormai noto insegnamento dei giudici
amministrativi, a valori fondanti di qualsiasi vera
democrazia in cui la burocrazia è al servizio del cittadino
e non di se stessa, secondo una logica perversa di
autoreferenzialità in base alla quale il cittadine è suddito
e non referente dell’azione amministrativa.
11 - Nella specie la citata regola è stata inspiegabilmente
e slealmente violata dall’amministrazione scolastica con un
silenzio tanto più inspiegabile a fronte dell’oggetto della
richiesta, riguardante esclusivamente gli elaborati del solo
richiedente e non quelli di altri: vicenda per la quale le
stesse norme interne dell’amministrazione prevedevano
l’immediata accessibilità.
Infatti, in base alla circolare dello stesso Ministero del
18.05.2016, singolarmente richiamata dal medesimo USR
Toscana nella comunicazione/Avviso del 04.08.2016 (doc. 8
deposito ricorrente), l’accesso relativo agli “elaborati
ed alle schede di valutazione è consentito in relazione alla
conclusione delle varie fasi del procedimento… Fino a quando
il procedimento non sia concluso, l’accesso è limitato ai
soli atti che riguardino direttamente il richiedente, con
esclusione degli atti relativi ad altri concorrenti”.
La violazione del principio di correttezza e lealtà, nonché
la sussistenza degli elementi, costitutivi della colpa, di
negligenza, imprudenza e imperizia non è certo affievolita
dall’accoglimento tardivo della richiesta in corso di causa,
il quale anzi evidenzia ancor di più l’intollerabile
superficialità dell’azione amministrativa e del suo autore,
il quale ha costretto senza ragione alcuna un cittadino a
sopportare i costi di un processo per potersi vedere
riconosciute le proprie ragioni, che un qualsiasi
funzionario appena dotato di intelligenza ed umanità avrebbe
subito compreso e soddisfatto.
12 – E’ per quanto detto che la richiesta di domanda alla
condanna alle spese formulata dalla difesa del ricorrente va
accolta nella misura coerente anche con il grado della colpa
della parte soccombente virtualmente e per le stesse esposte
ragioni
il Collegio invia copia della presente sentenza alla Procura
Regionale Toscana della Corte dei Conti in conseguenza del
ben prevedibile (art. 26 c.p.a.) ed agevolmente evitabile
danno erariale per condanna alle spese che il comportamento
dell’amministrazione scolastica ha recato alla finanza
pubblica.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse.
Condanna le amministrazioni resistenti, in solido, al
pagamento di spese ed onorari del presente giudizio, che
liquida in complessivi euro cinquemila, oltre accessori di
legge.
Manda alla Segreteria perché invii copia della presente
sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei
Conti. |
TRIBUTI: È
nulla la cartella notificata via Pec con l’allegato in
«.pdf». Equitalia. Il caso in cui il destinatario contesta
la genuinità del documento privo di firma digitale.
Alla vigilia dell’entrata in vigore
della norma che, dal prossimo 1° luglio, consentirà anche
alle Entrate di notificare gli accertamenti via Pec
(articolo 7-quater, Dl 193/2016), prendono forma le prime
pronunce sulle notifiche da parte di Equitalia che –già da
tempo– utilizza la modalità telematica.
L’ultima, in ordine
di tempo, è la
sentenza 03.02.2017 n.
1023/1/2017 della Ctp Milano (presidente Roggero,
relatore Donvito).
Il nodo della vicenda riguarda l’estensione del file
allegato alla Pec, un semplice «.pdf» e non un «.p7m», che
rappresenta l’equivalente del primo, ma firmato
digitalmente. La società ricorrente contestava la genuinità
del documento informatico previsto dall’articolo 20, comma
1, Dlgs 82/2005 e la sua conformità all’originale, come -in
un certo senso- accade quando si contesta la conformità
all’originale della copia consegnata dal messo.
Dopo aver passato in rassegna la normativa (articolo 26 Dpr
602/1973, articoli 20 e 71 Dlgs 82/2005, Dpcm 22.02.2013),
la Ctp ha escluso che il semplice «.pdf» possa soddisfare i
requisiti di integrità dell’allegato, dichiarando
l’invalidità della notifica e, conseguentemente,
l’illegittimità della cartella.
La questione ruota intorno all’articolo 149-bis del Codice
di procedura civile (Cpc), il quale prevede l’utilizzo della
firma digitale da parte dell’ufficiale giudiziario che si
avvalga della Pec. Nella sua precedente versione (diversa da
quella attuale, entrata in vigore il 03.12.2016), l’articolo
26 non prevedeva l’utilizzo della firma digitale da parte
dell’ufficiale giudiziario che si avvalesse della Pec. Fino
al 3 dicembre scorso, dunque, l’articolo 26 sulla
riscossione ha sempre escluso l’applicabilità di questa
norma, senza prevedere l’obbligo di apposizione della firma
digitale da parte dell’agente della riscossione. Così come
non era prevista nella versione introdotta dal Dlgs
159/2015, relativamente alle notifiche successive al
01.06.2016.
A far data dal 3 dicembre, però, l’inciso che escludeva
l’applicazione dell’articolo 149-bis Cpc è venuto meno: da
quel momento l’agente della riscossione è sempre tenuto ad
apporre la propria firma digitale, inviando un file con
estensione «.p7m» e non più un semplice «.pdf».
La questione relativa alla mancata apposizione della firma
digitale dev’essere valutata alla stregua di una ipotesi di
inesistenza stessa della notifica (e non di mera nullità,
come tale sanabile dalla proposizione del ricorso). In
quest’ottica, in futuro si potrebbe assistere alla
riproposizione, nel moderno contesto della notifica a mezzo
Pec, di una problematica antica, che la Cassazione ha
risolto stabilendo la necessità, in caso di contestazione,
della produzione dell’originale nell’ipotesi di notifica a
mezzo ufficiale giudiziario (da ultimo, sentenza
23046/2016).
In questi casi si potrebbe anche valutare una verifica
tecnica sulla conformità del «.pdf» al documento originale:
la libera valutazione in giudizio “rafforzata” (contenuta
nell’articolo 20, comma 1-bis, Dlgs 82/2005, richiamato dai
giudici di Milano) indurrebbe a utilizzare una consulenza
tecnica. È quanto accaduto, ad esempio, in una precedente
vicenda di qualche giorno fa, su iniziativa di parte (Ctp
Savona 100 e 101/1/2017) (articolo Il Sole 24 Ore del 06.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: No
a licenze per chiudere la strada.
Per installare una sbarra sulla strada
privata chiusa al pubblico passaggio non
servono licenze edilizie. E neppure
particolari autorizzazioni specialmente se
l'installazione risulta molto datata.
Lo ha chiarito il Tar Umbria, sez. I, con la
sentenza 02.02.2017 n.
120.
Un comune ha ordinato la rimozione di due
cartelli e di una sbarra indicante la
proprietà privata posizionati in una strada
vicinale chiusa al transito. Contro questa
decisione gli interessati hanno proposto
ricorso al Tar che ha annullato la
determinazione comunale. La strada privata
oggetto dell'intervento risulta chiusa al
pubblico passaggio con una sbarra
posizionata da tempo, specifica la sentenza.
A prescindere da un recente possibile
vincolo paesaggistico sulla zona, prosegue
la sentenza, questo tipo di installazione
non richiede alcuna licenza edilizia essendo
classificabile come un intervento di
manutenzione ordinaria per il quale non è
richiesto alcun titolo abilitativo
(articolo ItaliaOggi
del 26.04.2017).
---------------
MASSIMA
1. Con il presente gravame viene in
contestazione la legittimità del
provvedimento con il quale è stata ordinato
al ricorrente la rimozione dei manufatti
abusivi ivi specificati.
2. Con il primo motivo, parte ricorrente
lamenta che il provvedimento impugnato
sarebbe illegittimo per carenza di
motivazione e contraddittorietà
dell’istruttoria condotta
dall’amministrazione comunale, in quanto le
opere di cui è stata ordinata la demolizione
sarebbero state realizzate prima del 1954,
ossia prima dell’apposizione vincolo
paesaggistico asseritamente violato.
2.1. Il motivo è fondato.
2.2. Dalla documentazione versata in atti e,
in particolare, dalla relazione prodotta
dall’Ufficio Servizi Operativi del Comune
resistente (cfr., nota del 28.05.2015, prot.
n. 28/2015 U.S.O) -peraltro non citata nelle
premesse del provvedimento impugnato-
risulta infatti che la strada in argomento,
“è chiusa con una sbarra da tempo
immemorabile” ed appare “utilizzata
esclusivamente ad uso privato”.
2.3. Ciò conduce a ritenere inattendibile
l’affermazione contenuta nel provvedimento
impugnato secondo cui “la strada era
libera da impedimenti al libero transito
almeno dall’inizio degli anni 80”,
trattandosi peraltro di determinazione alla
quale l’amministrazione è giunta sulla
scorta “di sommarie informazioni
acquisite da tre persone” (cfr., verbale
di polizia municipale in data 11.09.2015),
che sul punto risultano contraddette da
dichiarazioni prodotte da altri soggetti,
concludenti, al contrario, per la presenza
della sbarra in contestazione fin “dagli
inizi degli anni 50” (cfr.,
dichiarazione di cui al doc n. 6 di parte
ricorrente, acquisita agli atti del Comune
di Assisi in data 03.02.2015).
2.4. Deve pertanto confermarsi, ad avviso
del Collegio, la sussistenza del dedotto
vizio di contraddittorietà dell’istruttoria,
risultando invero inequivocabile la mancata
ponderazione di tutte le risultanze
probatorie istruttorie in possesso
dell’amministrazione resistente, la quale ha
trascurato di verificare mediante
accertamenti attendibili e non
contradditori, in merito all’apposizione
della sbarra in questione nonché dei
relativi cartelli di segnalazione di
proprietà privata, dopo l’apposizione del
vincolo paesaggistico del quale è stata
contestata la violazione.
2.5. Occorre peraltro aggiungere che, a
prescindere dal menzionato vincolo
paesaggistico,
l’installazione di una sbarra metallica a
delimitazione della proprietà privata è
intervento che, “per la sua entità e
tipologia, deve ricondursi in quelli di
<<manutenzione ordinaria>> per i quali non è
richiesto alcun titolo abilitativo”
(cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI,
20.11.2013, 5513, idem, sez. VI, 07.08.2015,
n. 3898), per il che risulta parimenti
sconfessata, sotto questo ulteriore profilo,
la dedotta assenza dei necessari titoli
abilitativi, anche con riferimento alla
asserita sostituzione della sbarra stessa.
3. Tanto basta a disporre l’accoglimento del
gravame con assorbimento delle altre censure
dedotte. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Consiglio
nazionale forense doc. Poteri su legittimità costituzionale
a disapplicazione atti. Le sezioni unite della Cassazione
hanno definito il perimetro di competenza del Cnf.
Se, alla luce anche della giurisprudenza della Corte
costituzionale, il Consiglio nazionale forense può sollevare
questioni di legittimità costituzionale, potrà altresì a
maggior ragione, disapplicare atti amministrativi
nell'esercizio della propria funzione giurisdizionale.
Lo hanno evidenziato le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con
la recentissima
sentenza 31.01.2017
n. 2481.
Peraltro, come sottolineato dalle stesse sezioni unite
l'illegittimità di un atto amministrativo presupposto può,
di regola, essere fatta valere sia in via autonoma, mediante
impugnativa principaliter davanti al giudice amministrativo,
e sia in via incidentale, sollecitandone la disapplicazione
da parte del giudice ordinario nella controversia su diritti
soggettivi pregiudicati da atti o provvedimenti
consequenziali.
I due rimedi, cioè, possono in astratto
concorrere, ovviamente con le limitazioni derivanti dalla
pregiudizialità del processo amministrativo e dalla
formazione del giudicato amministrativo sull'atto a
contenuto generale, posto che l'annullamento di un atto
regolamentare o di contenuto generale opera con efficacia
«erga omnes». In una sentenza dello scorso anno, invece, il
Consiglio di stato (sez. VI, 22/03/2016, n. 1164) si è
interrogato sul fatto se il Consiglio nazionale forense
fosse una «amministrazione pubblica» che adotta «atti
amministrativi» lesivi della concorrenza ovvero un'«associazione di imprese» che potrebbe adottare «decisioni»
lesive della concorrenza.
La giurisprudenza dello stesso
Consiglio di stato ha già avuto modo di affermare che:
«L'ordinamento si è ormai orientato verso una nozione
funzionale e cangiante di ente pubblico», con la conseguenza
che si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso
soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini
e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad
altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi
normativi di natura privatistica.
Questa nozione
«funzionale» di ente pubblico, si è sottolineato, «ci
insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per
tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è
sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell'istituto o
del regime normativo che deve essere applicato e della ratio
ad esso sottesa».
La conseguenza che ne deriva è «che è del
tutto normale, per così dire «fisiologico», che ciò che a
certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo
ad altri fini, rispetto all'applicazione di altri istituti
che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali»
(in questo senso, Cons. stato, sez. VI, 26.05.2015, n. 2660)
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Invio
via Pec, serve la doppia ricevuta.
La ctp di Roma sulla avvenuta consegna.
Ricevute di «accettazione» e di «avvenuta consegna»
indispensabili per provare la rituale notificazione della
cartella via Pec. In tema di notificazione a mezzo Pec delle
cartelle di pagamento, qualora il contribuente eccepisca in
giudizio la illegittimità della procedura ex positivo iure
prevista, l'ente riscossore dovrà versare agli atti del
processo, copie conformi agli originali delle ricevute di
«accettazione» e di «avvenuta consegna» del messaggio
contenente l'atto notificando, pena l'accoglimento del
ricorso del ricorrente.
Questo, in nuce, il principio sancito dalla Ctp di
Roma,
sentenza 26.01.2017 n.
1715/13/2017.
Nella fattispecie oggetto del decisum in commento, il
ricorrente chiedeva l'annullamento di una intimazione di
pagamento, per omessa rituale notificazione delle
prodromiche cartelle. Indi, si costituiva in giudizio
l'agente, producendo documentazione che i giudici ritenevano
insufficiente e, ad ogni modo, inadeguata al fine di
comprovare la ritualità della notificazione. I decidenti di
prime cure, muovendo dalle disposizioni normative in vigore,
rammentano le imprescindibili fasi della notificazione
tramite Pec:
i) invio telematico del messaggio con allegato l'atto da
notificare, cui consegue, ex artt. 3 e 6, dpr n. 68/2005, la
consegna dello stesso al proprio gestore del servizio Pec,
il quale rilascerà la «ricevuta di accettazione», unico
documento comprovante l'avvenuta spedizione del
provvedimento, assumendo il medesimo valore probatorio
proprio della «ricevuta di spedizione» nelle notifiche a
mezzo posta;
ii) trasmissione del messaggio al destinatario, cui consegue, in
caso di esito positivo, l'invio al notificante di una
«ricevuta di avvenuta consegna», solo documento idoneo a
certificare la data e l'ora esatta di avvenuto recapito,
nonché ad assicurare l'integrità della trasmissione, il
tutto con valore legale garantito dall'apposizione della
firma digitale, ex art. 24, dlgs n. 82/2005, purché sulla
base di apposito certificato qualificato in corso di
validità.
Pertanto, de iure condito, qualora il contribuente
impugni un atto riscossivo contestando la mancata
notificazione dell'atto presupposto, parte resistente dovrà
produrre in giudizio, pena l'accoglimento del ricorso, sia
le ricevute de quibus, sia il certificato
legittimante l'apposizione della firma digitale da parte del
gestore del servizio Pec.
Parimenti, merita condivisione la censura della Curia,
laddove afferma che le mere stampe cartacee delle prefate
ricevute, qualora sprovviste di «attestazione di conformità»
apposta da pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi
dell'art. 23, dlgs n. 82/2005, saranno prive della valenza
probatoria invero propria degli originali in formato
digitale, perciò valutabili alla stregua di «semplici fogli
di carta dei quali non è possibile in alcun modo riconoscere
l'origine», in quanto le stesse «ben potrebbero esser
artatamente create attraverso programmi di redazione di
testo oppure di fotoritocco»
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il parere postumo non «salva» l’abuso.
Le costruzioni edilizie realizzate in zone sismiche in
assenza dell’autorizzazione da parte dell’Ufficio del genio
civile competente integrano sempre il reato di abuso
edilizio, anche in caso di successivo rilascio da parte
dell’ente del parere favorevole che attesti la rispondenza
della costruzione alla normativa antisismica. Il rilascio
postumo del parere, infatti, non elide l’antigiuridicità
penale della condotta.
Così ha disposto la
Corte d’appello di Palermo, Sez. IV penale, sentenza
12.01.2017 n. 59 (articolo
Il Sole 24 Ore del 06.04.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: I
consiglieri comunali, in quanto tali, non sono di regola
legittimati ad agire contro l’Amministrazione di
appartenenza dato che il giudizio amministrativo non è di
norma aperto alle controversie tra organi o componenti di
organi dello stesso ente ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri, pertanto, può
ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti
incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei
medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere, dovendosi escludere
che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di
una deliberazione (che di per sé può produrre un atto
illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o
direttamente lesi dal medesimo), si traduca in una
automatica lesione dello ius ad officium.
Si è dunque ritenuto che vi sia legittimazione al ricorso
solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti profili: a)
erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare; b)
violazione dell’ordine del giorno, c) inosservanza del
deposito della documentazione necessaria per poter
liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in
generale, preclusione in tutto o in parte dell’esercizio
delle funzioni relative all’incarico rivestito.
---------------
In tale ipotesi rientra, dunque, senz’altro, il ricorso in
trattazione, che ha per oggetto la lamentata violazione di
norme procedurali concernenti il termine per il deposito
della documentazione necessaria ai consiglieri per poter
liberamente e consapevolmente concorrere all’adozione
dell’atto deliberativo, inosservanza che ha indubbiamente
comportato un’illegittima compressione delle prerogative
istituzionali del ricorrente con specifico riferimento
all’impossibilità di esercitare cognita causa il suo mandato
elettivo.
---------------
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale,
condiviso in termini generali dal Collegio, i consiglieri
comunali, in quanto tali, non sono di regola legittimati ad
agire contro l’Amministrazione di appartenenza dato che il
giudizio amministrativo non è di norma aperto alle
controversie tra organi o componenti di organi dello stesso
ente ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri, pertanto, può
ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti
incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei
medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere, dovendosi escludere
che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di
una deliberazione (che di per sé può produrre un atto
illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o
direttamente lesi dal medesimo), si traduca in una
automatica lesione dello ius ad officium (cfr. ex
multis Cons. Stato, IV, 02.10.2012, n. 5184; V,
15.12.2005 n. 7122).
Si è dunque ritenuto (Cons. Stato, Sez. VI, n. 593 del
07.02.2014), con argomentazioni condivise dal Collegio, che
vi sia legittimazione al ricorso solo quando i vizi dedotti
attengano ai seguenti profili: a) erronee modalità di
convocazione dell’organo consiliare; b) violazione
dell’ordine del giorno, c) inosservanza del deposito della
documentazione necessaria per poter liberamente e
consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione
in tutto o in parte dell’esercizio delle funzioni relative
all’incarico rivestito.
In tale ipotesi rientra, dunque, senz’altro, il ricorso in
trattazione, che ha per oggetto la lamentata violazione di
norme procedurali concernenti il termine per il deposito
della documentazione necessaria ai consiglieri per poter
liberamente e consapevolmente concorrere all’adozione
dell’atto deliberativo, inosservanza che ha indubbiamente
comportato un’illegittima compressione delle prerogative
istituzionali del ricorrente con specifico riferimento
all’impossibilità di esercitare cognita causa il suo mandato
elettivo (in termini: TAR Campania, Napoli, n. 3374 del
25.06.2015)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 02.05.2016 n. 387 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Finestre,
il Comune non può cambiare idea. Permessi edilizi.
L’amministrazione deve verificare l’interesse prevalente in
caso di richieste «concorrenti».
Non è legittimo il comportamento del Comune che prima
autorizza il singolo condòmino ad aprire una finestra sulla
pubblica via e, dopo l’esecuzione dei lavori, annulla
l’autorizzazione concessa per l’esistenza di una precedente
richiesta (mai resa nota) di altro condominio volta a
ottenere l’autorizzazione per l’installazione di una
piattaforma elevatrice in base alla legge 13/1989.
Questo il principio affermato nella
sentenza
02.05.2016 n. 386 del TAR Sardegna - Sez. II.
Il caso nasceva quando un condòmino richiedeva al Comune il
permesso di aprire una finestra al piano terra e primo sulla
facciata -lato strada- del caseggiato. L’amministrazione
comunale non si opponeva al progetto e i lavori venivano
realizzati.
Dopo circa un anno, però, il Comune faceva marcia indietro e
annullava il permesso concesso perché si rendeva conto
dell’incompatibilità tra l’apertura della finestra e la
richiesta di autorizzazione, antecedentemente presentata da
altro condòmino dello stesso caseggiato, per
l’installazione, sul medesimo prospetto, di un ascensore con
i requisiti previsti dalla legge 13/1989 sulla disabilità.
Il comportamento dell’autorità comunale suscitava la
reazione del partecipante al condominio che aveva già
realizzato i lavori consentiti. Il Tar, esaminata la
situazione, ha dato ragione al ricorrente, sottolineando, in
primo luogo, come la decisione di annullare in autotutela un
provvedimento amministrativo debba essere assunto solo entro
un termine ragionevole (nella specie era trascorso oltre un
anno), se non per valide ed esplicite ragioni di interesse
pubblico. Che nel caso di specie non esistevano.
In ogni caso, l’autorità comunale avrebbe dovuto procedere
ad un accurato esame degli interessi in gioco per verificare
la praticabilità di soluzioni alternative tecnicamente
realizzabili che consentissero la coesistenza dei due
interventi edilizi richieste dai condomini
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2017).
---------------
MASSIMA
La questione all’esame del Collegio attiene alla
verifica della legittimità dell’atto di annullamento in
autotutela dell’autorizzazione implicita conseguente alla
DIA presentata dall’odierno ricorrente per la realizzazione
di una finestra nell’immobile di sua proprietà sito in
Cagliari, via ... 1/3 senza tempestiva adozione –da parte
del Comune di Cagliari- di provvedimenti inibitori .
Come precisato nell’atto comunale di annullamento, infatti,
tale intervento edilizio risulta incompatibile con la
richiesta di autorizzazione edilizia presentata dalle
controinteressate –antecedentemente alla presentazione della
DIA- per la realizzazione di una piattaforma elevatrice ex
L. n. 13/1989.
Il ricorso è fondato.
Ai sensi dell'art. 21-nonies della l. n.
241 del 1990, l'annullamento in autotutela presuppone oltre
all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di
interesse pubblico.
Alla stregua di tale previsione normativa, che ha peraltro
codificato il consolidato orientamento già precedentemente
espresso dalla giurisprudenza amministrativa, infatti,
l'annullamento del provvedimento amministrativo richiede,
oltre all'illegittimità dell'atto, anche la sussistenza
dell'interesse pubblico alla sua rimozione.
Quest'ultimo, dunque, deve trovare adeguata evidenziazione
mediante un'idonea motivazione che dia conto della
ponderazione degli interessi in gioco.
Inoltre il provvedimento deve intervenire entro un termine
ragionevole e previa valutazione degli interessi dei
destinatari dell'atto da rimuovere
(cfr. Cons. stato, V, n. 1946 del 07.04.2010).
Nel caso di specie è incontestato che a seguito della
presentazione della DIA (avvenuta il 21.12.2012), per circa
un anno, non è intervenuto alcun provvedimento inibitorio da
parte del Comune di Cagliari, con la conseguenza che gli
odierni ricorrenti hanno realizzato l’intervento proposto
consistente, come detto, nell’apertura di una finestre sul
prospetto dell’immobile affacciato sulla via ... n. 3.
Il conseguimento del titolo edilizio ha dunque consolidato
in capo ai signori La./Sp. una posizione qualificata di
interesse alla conservazione dell’atto tacito di assenso,
suscettibile di essere rimossa soltanto in caso di accertata
sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies della
legge n. 241/1990.
Il procedimento di autotutela avviato con la comunicazione
del 05.12.2013, dunque, si sarebbe dovuto svolgere nel solco
di un rigoroso rispetto dell’affidamento suscitato nei
ricorrenti al mantenimento del loro manufatto.
Come richiesto da questi ultimi in sede procedimentale,
dunque, la prima verifica da svolgere al fine di evitare
l’insorgere di un contenzioso tra i titolari di due titoli
edilizi tra loro incompatibili era quella di accertare la
praticabilità di soluzioni alternative tecnicamente
realizzabili al fine di consentire la coesistenza dei due
interventi edilizi per cui è causa.
E ciò anche tenuto conto che il procedimento avviato dalle
sig.re De. per la realizzazione dell’elevatore risaliva alla
presentazione dell’istanza in data 16.06.2010, ben
antecedente, dunque, alla presentazione della DIA., è stato
completato dall’ufficio comunale solo col provvedimento
autorizzativo n. 114/2014 (oggetto dell’impugnazione
aggiuntiva).
Ebbene, come già rilevato dal Tribunale in sede cautelare
tale accertamento è per contro mancato “…non avendo il
Comune -nel concedere alle controinteressate il titolo
richiesto- verificato (e, tanto meno, tenuto conto della)
possibilità di realizzare l’ascensore in un punto diverso da
quello proposto (punto che, peraltro, neppure era stato
specificato nella pregressa deliberazione condominiale di
autorizzazione), così da non pregiudicare inutilmente
l’apertura della nuova finestra di interesse dei ricorrenti…”
(TAR Sardegna, ord. N. 79 del 15.04.2015).
Il Comune di Cagliari, cioè, è sostanzialmente intervenuto
con un atto autoritativo nel pieno di una questione
civilistica tra condomini esercitando illegittimamente un
potere autoritativo, sia perché fondato su ben altri
presupposti rispetto a quelli indicati nell’atto impugnato e
sia perché adottato in assenza di uno specifico interesse
pubblico all’esercizio del potere di autotutela.
Peraltro la finalità di eliminare le barriere
architettoniche, a vantaggio dell’interesse dei contro
interessati, viene prospettata in termini del tutto generici
e senza che sia stato esternato né il compimento di un
effettivo accertamento della sussistenza di una siffatta
esigenza, né un’adeguata ponderazione discrezionale sugli
ulteriori interessi privati rilevanti nella fattispecie,
nella quale, come detto, si era in presenza del titolo
edilizio di un terzo del quale non poteva non tenersi conto
in sede di definizione dell’istanza presentata dalla sig.re
De..
L’anzidetta carenza di istruttoria comporta, quindi,
l’accoglimento del ricorso sotto tale assorbente profilo,
con annullamento dei provvedimenti impugnati.
Eventuali ulteriori determinazioni dell’amministrazione
comunale dovranno quindi essere precedute da una puntuale
verificazione dello stato dei luoghi al fine di individuare,
tenuto conto dell’assetto della proprietà dell’area
condominiale esistente al momento dell’adozione del
provvedimento di autotutela, possibili soluzioni alternative
alla localizzazione dell’elevatore in posizione compatibile
con il diritto dei ricorrenti al mantenimento della finestra
realizzata. |
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