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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MAGGIO 2017

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aggiornamento al 31.05.2017

aggiornamento al 18.05.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.05.2017

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S.U.A.P. in variante al vigente P.G.T..
R.U.P. e consiglieri comunali prestate attenzione, molta attenzione: si maneggia "dinamite"!!

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Il fresato d’asfalto è da considerarsi sottoprodotto laddove utilizzato in quantità ragionevoli e non eccessive quale materiale di continuo impiego per alimentare un impianto di produzione di asfalto, non rientrando –quindi– nella classificazione impeditiva del c.d. piano provinciale dei rifiuti, che può considerare il fresato d’asfalto come rifiuto solo laddove collocato in quantità tali da determinare la formazione di una vera e propria discarica.
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Il parere favorevole di Valutazione Ambientale Strategica reso dalla conferenza di servizi in sede di adozione del progetto edilizio di ampliamento edificatorio produttivo con formazione di impianti di produzione di asfalto e calcestruzzo in variante al piano urbanistico generale con la procedura dello Sportello Unico-SUAP, laddove anche ricognitivo di tutti i pareri ambientali istruttori favorevoli resi dai vari enti coinvolti nel procedimento (ASL, ARPA, Vigili del Fuoco etc.) costituisce un vincolo procedimentale per il consiglio comunale chiamato ad assumere la delibera finale di approvazione del progetto stesso, impedendo la possibilità di un legittimo diniego di approvazione finale.
La Valutazione Ambientale Strategica è fase procedurale complessa che deve precedere l’approvazione del progetto edilizio in variante tramite la procedura di Sportello Unico SUAP, per cui le valutazioni istruttorie che vengono compiute nella fase istruttoria ed il giudizio ambientale positivo finale reso dall’autorità competente consumano per questi aspetti il potere di valutazione discrezionale assegnato al consiglio comunale, in ciò innovando radicalmente rispetto alla risalente giurisprudenza che riteneva permanesse ampia e totale discrezionalità in capo al Consiglio Comunale per l’approvazione o meno dei procedimenti di Sportello Unico nella fase finale, questa giurisprudenza –invero– si riferisce a casistiche relative a procedimenti anteriori all’entrata in vigore della normativa in tema di Valutazione Ambientale Strategica, in cui il giudizio ambientale veniva reso dal Consiglio Comunale solo nella fase finale del procedimento.
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L’illegittimo ed illecito arresto di un procedimento di approvazione di un progetto di ampliamento produttivo in variante al piano regolatore generale motivato solo per ragioni di tipo politico, ossia per un ripensamento insorto nell’amministrazione comunale nella fase finale approvativa in relazione a manifestazioni pubbliche di segno contrario provenienti da un comitato ambientalista nell’imminenza del rinnovo elettorale delle cariche comunali, determina l’annullamento giudiziale dell’atto di diniego e l’obbligo di risarcimento del danno per l’ingiusto blocco all’ampliamento dell’attività produttiva.
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Il tecnico comunale estensore –quale autorità competente VAS– di un motivato parere favorevole ambientale rispetto al progetto di ampliamento produttivo mediante le procedure di Sportello Unico SUAP incorre nel vizio di eccesso di potere per contraddittorietà manifesta laddove sottoscriva solo in seguito ma a breve distanza temporale nella fase finale del procedimento, dopo l’adozione del SUAP da parte del Consiglio Comunale, una relazione esprimente parere negativo ambientale ed urbanistico rispetto al medesimo intervento nonché redigendo bozza di delibera di diniego poi illegittimamente approvata dal Consiglio Comunale.
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Laddove, annullato dal giudice amministrativo, il diniego di ampliamento produttivo mediante la procedura di Sportello Unico SUAP sopravvenga una condizione di difficoltà economica dell’imprenditore proponente, tale da condurlo alla presentazione di una proposta di concordato liquidatorio, viene meno il presupposto legale (ossia l’esistenza di una impresa attiva che necessità di spazi ulteriori per il ciclo produttivo) che giustifichi il rilascio del permesso edilizio richiesto tramite la procedura SUAP, per cui deve essere rigettato il ricorso per ottemperanza proposto dal liquidatore giudiziale della società in concordato preventivo.
Pur sopravvenuta la condizione di liquidazione concordataria dell’impresa che impedisce il rilascio del permesso edilizio in variante in ottemperanza della sentenza del giudice amministrativo che abbia annullato il diniego opposto dal consiglio comunale, l’amministrazione comunale è comunque tenuta a risarcire all’imprenditore (e nel caso alla procedura liquidatoria concordataria gestita dal Tribunale Fallimentare) tutti i danni subiti per diniego ingiustamente ed illegittimamente provocati.
Il risarcimento dei danni conseguenti ad illegittimo diniego di approvazione di progetto edilizio in variante al piano regolatore comunale mediante la procedura SUAP deve comprendere:
   a) il ristoro di tutte le spese vive sopportate, compreso le spese per progetti e consulenze varie;
   b) la differenza di valore immobiliare tra l’area destinata ad uso produttivo (come sarebbe stato nel caso di approvazione del SUAP) e l’area rimasta nella destinazione agricola;
   c) i mancati utili conseguenti all’illecito impedimento all’avvio dell’iniziativa imprenditoriale, anche in relazione al possibile fatturato venuto meno ed agli appalti non conseguiti, con applicazione –rispetto al totale determinato- di parametri riduttivi equitativi riferiti alla c.d. “perdita di chanche” (nel caso l’amministrazione comunale di Arcore è stata condannata a pagare 600.000,00 € complessivi al Tribunale Fallimentare di Bergamo).
---------------

... per la riforma della sentenza 09.04.2015 n. 898 del TAR per la LOMBARDIA – Sede di MILANO - SEZIONE II, resa tra le parti, concernente archiviazione di domanda di Suap. Risarcimento dei danni.
...
1. Con la sentenza n. 898 del 09.04.2015, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), pronunciando sul ricorso proposto dalla società Do. f.lli s.a.s. (d’ora in poi Do.) in liquidazione e in concordato preventivo, dichiarava inammissibile la domanda per ottenere l’ottemperanza al giudicato formatosi a seguito della sentenza n. 2182 del 10.08.2012, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 4151 del 21.05.2013, e in parte dichiarava irricevibile e in parte respingeva la domanda di annullamento proposta avverso la deliberazione del Consiglio comunale di Arcore n. 3 del 03.02.2014, e contro il nuovo Piano di governo del territorio del Comune, approvato con deliberazione di C.C. n. 18 del 27.05.2013, ed il nuovo Piano di coordinamento della Provincia di Monza e Brianza, approvato con deliberazione di C.P. n. 16 del 10.7.2013; il Tar respingeva, inoltre, la domanda di condanna del Comune di Arcore al risarcimento dei danni.
1.1. La predetta sentenza esponeva in fatto quanto segue.
La società Do. f.lli s.a.s., operante nel campo dell’estrazione di materiali inerti naturali e della fornitura di calcestruzzi nel settore dei lavori pubblici, era proprietaria di un impianto di produzione di asfalto e di produzione di calcestruzzo, sito nel territorio del Comune di Vimercate. A seguito dell’approvazione del progetto per la realizzazione dell’Autostrada Pedemontana, il cui tracciato interseca il predetto impianto, la stessa società ha dovuto avviare un iter per lo spostamento di quest’ultimo, acquisendo una nuova area in Comune di Arcore, destinata a zona agricola.
In data 03.08.2009, ha presentato istanza per la realizzazione del nuovo insediamento produttivo ed il Comune, con deliberazione n. 200 del 09.12.2009, valutata l’assenza di zone adeguate per il complesso produttivo in base allo strumento urbanistico, ha giudicato procedibile l’istanza ai sensi dell’art. 5 del DPR n. 447 del 1998, ai fini della variazione dello strumento urbanistico. Il progetto veniva sottoposto alla procedura di VAS che, dopo l’acquisizione dei pareri favorevoli delle autorità coinvolte in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza, si concludeva con provvedimento favorevole del 14.05.2010 circa la compatibilità ambientale del SUAP a condizione del rispetto delle prescrizioni ed indicazioni del parere motivato.
Per l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto e dell’attività, la Provincia Monza e Brianza giudicava non necessario l’espletamento della procedura di V.I.A. regionale. Il Sindaco, con nota 11.12.2009, nel comunicare all’impresa il buon esito della prima conferenza di servizi per la valutazione strategica ambientale del SUAP, la invitava a provvedere al versamento in conto anticipazione degli oneri di urbanizzazione per euro 150.000. La Conferenza di servizi si concludeva il 25.01.2011 con valutazione positiva del progetto per la realizzazione del nuovo insediamento industriale, con varie prescrizioni.
La Provincia di Monza e Brianza, con nota del 27.01.2011, nel dare atto del parere favorevole espresso dal proprio rappresentante in sede di conferenza di servizi, segnalava, tuttavia, sotto il profilo ambientale, l’incompatibilità dell’attività di trattamento di rifiuti con il Piano provinciale dei rifiuti e, considerato che il progetto comprendeva l’attività di fresa d’asfalto, da considerarsi alla stregua di un rifiuto, diffidava, in quanto titolare della funzione ambientale, il Comune di Arcore dall’autorizzare tale attività. Il Comune di Arcore, con deliberazione n. 35 del 21.07.2011, richiamando il contenuto della Relazione allegata alla delibera, respingeva l’istanza.
La società Do. ha impugnato dinanzi a questo TAR l’atto negativo comunale nonché il parere parzialmente negativo espresso dalla Provincia Monza e Brianza nella parte in cui ritiene incompatibile con il PPGR il progetto di impianto per l’impiego di fresato di asfalto. Il TAR, con sentenza n. 2182 del 10.08.2012, ha accolto il ricorso. La sentenza è stata confermata dal Consiglio di Stato in sede di giudizio di appello (sent. n. 4151 del 06.08.2013). La ricorrente, in data 17.09.2013, ha protocollato una nota con cui ha chiesto al Comune di Arcore di dare esecuzione alla pronuncia del TAR, ormai passata in giudicato. L’amministrazione ha dato riscontro all’istanza con nota del 30.09.2013.
In tale atto, l’Amministrazione comunica che, per dare nuovo impulso al procedimento di SUAP, sarebbe stato necessario che la ricorrente avesse provveduto al deposito di un nuovo atto unilaterale d’obbligo e di una nuova bozza di convenzione; precisando che, siccome la stessa ricorrente aveva nel frattempo presentato al Tribunale di Bergamo istanza per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, tali atti avrebbero dovuto essere preventivamente autorizzati dagli organi della procedura. A questa nota, ha fatto seguito la deliberazione di Consiglio Comunale n. 3 del 03.02.2014, con cui il Comune di Arcore ha deciso di archiviare definitivamente la procedura di SUAP avviata dalla ricorrente….
”.
2. Avverso la prefata sentenza la Do. F.lli s.a.s. in liquidazione ed in concordato preventivo ha proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato, chiedendone l’annullamento e l’integrale riforma.
...
1. Viene alla decisione del Collegio l’ultimo segmento della causa suindicata che vede opposta l’appellante Do. F.lli s.a.s. in liquidazione ed in concordato preventivo alle amministrazioni intimate.
1.1. Preliminarmente il Collegio fa presente che a mente del combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e 101, co. 1, c.p.a., farà esclusivo riferimento ai mezzi di gravame posti a sostegno dei ricorsi in appello, senza tenere conto di ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive successivamente depositate, in quanto intempestive, violative del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e della natura puramente illustrativa delle comparse conclusionali (cfr. ex plurimis Cons. Stato Sez. V, n. 5865 del 2015); del pari, in via preliminare, si osserva che la causa appare sufficientemente istruita per cui non appare necessario disporre alcun incombente istruttorio.
1.2. Come rilevato nella parte in fatto del presente elaborato, mercé la sentenza non definitiva n. 5158/2015 è stata esclusa la fondatezza di tutti i primi quattro motivi di appello diretti a censurare la prefata sentenza del Tar n. 898/15 nella parte in cui questa aveva dichiarato inammissibile la domanda per ottenere l’ottemperanza al giudicato ed aveva dichiarato in parte irricevibile ed in parte infondata (respingendola) la domanda di annullamento dei nuovi atti pianificatori medio tempore emessi dalle amministrazioni intimate.
1.2. La sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha invece parzialmente accolto il quinto motivo di appello, ha indicato i “versanti” di danno risarcibile, escludendo immediatamente invece la debenza del risarcimento richiesto con riguardo ad alcune “voci” di danno, pur causalmente ricollegabili al “primo” diniego, ed ha disposto una consulenza tecnica su tale aspetto da determinarsi.
1.3. Va quindi premesso che costituiscono statuizioni rigiudicate quelle contenute nella sentenza non definitiva n. 5158/2015 mediante le quali la Sezione ha perimetrato quali fossero i profili di danno risarcibili: tutti gli argomenti critici volti a rimettere in discussione gli approdi ivi raggiunti (si veda in proposito la prima parte della memoria depositata in data 13.12.2016 dalla appellante società Do. f.lli s.a.s.) sono pertanto inammissibili.
1.4. Posto però che entrambe le parti processuali hanno insistentemente tentato (in ultimo con le memorie depositate successivamente al deposito della relazione di consulenza tecnica ed in sede di discussione alla odierna pubblica udienza) di rimettere in discussione profili contenziosi già decisi con statuizione rigiudicata, si ritiene in proposito di specificare che:
   a) la più volte citata sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha espressamente affermato che “in tale situazione, pertanto, permane la illegittimità delle ragioni ostative poste a base dello stesso e, dunque, la violazione del legittimo affidamento maturatosi in capo al privato.
I contenuti del giudicato e le argomentazioni poste a sostegno dello stesso –come sopra diffusamente richiamate– rivelano, pertanto, in assenza di una rinnovata valutazione sulle ragioni del primo diniego da parte del soggetto titolare della potestà pianificatoria, la sussistenza di profili di responsabilità in capo al Comune
”;
   a1) consegue da ciò che tutti gli argomenti dell’Amministrazione comunale tesi a dimostrare che (a cagione della mancata disponibilità pregressa degli impianti di Vimercate) tale affidamento non sussistesse, e tutti gli argomenti critici tesi a dimostrare che giammai l’appellante avrebbe potuto ottenere il bene della vita e che, pertanto, nessun risarcimento era dovuto, possono rilevare in punto (unicamente) di quantificazione dell’importo risarcitorio, ma non possono incidere sulla attribuibilità del medesimo e ove a ciò finalizzati devono essere dichiarati inammissibili;
   b) la società Do. F.lli s.a.s. ha eccepito l’integrale inammissibilità di tali argomenti critici (in quanto “nuovi” ed impingenti sull’an della realizzabilità dell’intervento, il che integrava cosa giudicata) ma -nei limiti prima indicati– la eccezione non è accoglibile in quanto:
      I) è ben vero che il comune avrebbe potuto prospettare dette “difficoltà realizzative dell’intervento” –prospettandole quali cause ostative alla realizzazione del medesimo in sede di rieffusione del potere- perché, come è noto, la sentenza demolitoria non le precludeva di ripronunciarsi su tutti gli aspetti della controversa vicenda una seconda volta (tra le tante, (Cons. Stato, Sez. IV, 06.10.2014, n. 4987);
      II) ciò non ha fatto, e quindi in chiave di dimostrazione della inassentibilità dell’intervento edificatorio auspicato dalla società Do. F.lli s.a.s. v’è una preclusione;
      III) pur tuttavia, la detta preclusione non impedisce al comune comunque di dedurre dette circostanze, che assumono rilievo in sede (ormai, soltanto) di quantificazione del risarcimento, laddove esse –in tali limiti- possono essere liberamente apprezzate dal giudice (come meglio si vedrà di qui a poco, allorché si chiarirà che la pretesa della società Do. ha mera consistenza di chance);
   c) quanto alla insistita contestazione da parte del Comune di Arcore (anche in sede di discussione all’odierna udienza pubblica) dell’affidamento ingeneratosi sulla società, per rilevarne la inammissibilità in quanto impingente su una tematica coperta dal giudicato è sufficiente riportare due brevi stralci della più volte menzionata sentenza non definitiva che così ha statuito:” gli argomenti portati a sostegno della determinazione reiettiva risultano illegittimi e non sufficienti a fondare il disposto rigetto. Ciò in considerazione della loro inidoneità a superare le risultanze del procedimento fino a quel momento svolto (favorevoli ad una conclusione positiva dello stesso) e ponendosi, dunque, con le stesse in ingiustificata contraddizione, con lesione del legittimo e rilevante affidamento in proposito maturatosi in capo al privato.”; “ln tale situazione, pertanto, permane la illegittimità delle ragioni ostative poste a base dello stesso e, dunque, la violazione del legittimo affidamento maturatosi in capo al privato.”;
   d) di converso, (e con più specifico riferimento agli argomenti prospettati dalla società Do. F.lli s.a.s. e ribaditi in sede di discussione all’odierna udienza pubblica) la medesima sentenza non definitiva n. 5158/2015 ha espressamente affermato che:
      I) “il maggior onere finanziario (maggior costo) per la realizzazione del complesso produttivo non è dovuto”;
      II) “neppure deve essere risarcito il danno finanziario per crisi di liquidità connessa ai maggiori costi di approvvigionamento dell’appalto”;
      III) “dagli atti di causa non emerge la prova della sussistenza di un nesso causale tra tale pretesa voce di danno, la sottoposizione di Do. a procedura di concordato preventivo ed il diniego a suo tempo opposto dal Comune di Arcore;”
   d1) consegue da ciò che non sono ammissibili le argomentazioni della parte privata nella parte in cui tentano di sollecitare un ulteriore giudizio su tali profili che, infatti, non verranno dal Collegio esaminati, in quanto coperti dal giudicato “interno” formatosi.
2. Ciò premesso, la relazione del Ctu nominato ha fornito partita risposta ai quattro quesiti descritti nella sentenza non definitiva n. 5158/2015, in particolare evidenziando che:
   a) quanto alle spese sostenute dalla originaria ricorrente (primo quesito), esse potevano essere così individuate:
      I) per le spese ed i costi di procedura, non recuperabili, è stato quantificato un importo “certo” pari ad Euro 326.343,55 e presumibile, pari ad Euro 339.021,69 (pag. 24 CTU);
      II) per ciò che concerneva l’acquisto del terreno ove avrebbe dovuto erigersi l’impianto, tenuto presente che il medesimo fu acquistato per un importo pari ad Euro 298.000//00 e che la servitù in favore del detto fondo fu acquistata successivamente (nel 2009) per un importo pari ad Euro 85.000//00 è stato computato il valore attuale, sia considerandolo agricolo (€ 152.664,00) che edificabile (€ 1.1272.200,00) con l’avvertenza che non sussistevano atti programmatori tali da fare desumere che lo stesso avesse assunto caratteristica di area edificabile con destinazione produttiva (pag. 25 dell’elaborato di Ctu); inoltre, il valore è stato distinto, facendo riferimento sia all’ipotesi di alienazione con recupero della servitù, che nell’ipotesi di alienazione senza recupero della servitù (e ciò sia con riferimento al valore del suolo quale edificabile, che con riguardo al valore del suolo quale agricolo); il computo finale contenuto nell’elaborato di verificazione è stato pertanto pari (nell’ipotesi di terreno agricolo) ad una minusvalenza di € 230.336,00 (corrispondente ad € 145.336,00 qual diminuzione del fondo, ed € 85.000,00 corrispondenti alla servitù ove considerata irrecuperabile) ovvero di € 145.336,00 (scomputati € 85.000,00 corrispondenti alla servitù ove considerata recuperabile); mentre, nell’ipotesi di terreno considerato edificabile sarebbe stata riscontrabile una plusvalenza pari ad € 889.200,00 (laddove il valore di € 85.000,00 corrispondente alla servitù venisse considerato irrecuperabile) ovvero pari ad € 974.200,00 (laddove il valore di € 85.000,00 corrispondente alla servitù venisse considerato recuperabile);
   b) quanto al secondo quesito -con il quale, in sostanza si chiedeva di quantificare con riferimento al periodo dal 21.07.2011 al 24.05.2013 (id est: la voce di “danno” discendente dagli acquisti di asfalto che la originaria ricorrente era stata costretta a sostenere (rispetto ai risparmi che ne sarebbero discesi laddove l’impianto fosse stato autorizzato e la stessa avesse ivi potuto produrre in proprio l’asfalto) e quella discendente dalla mancata vendita del surplus di asfalto eventualmente prodotto- la relazione ha esaminato la questione alle pagg. 25-43 dell’elaborato, pervenendo ad una quantificazione valoriale pari ad euro 216.900,00, quanto al maggior costo subito per l’acquisto dell’asfalto che essa era stata costretta ad effettuare (piuttosto che produrlo in proprio), e pari ad euro 313.000 quanto ai guadagni che essa avrebbe potuto ritrarre dalla vendita dell’asfalto: tale dato è stato calcolato previa sottrazione dell’arco temporale di nove mesi (quantificato quale arco temporale necessario per ottenere la variante) e, quindi, calcolando 13 mesi di attività effettiva;
   c) quanto al terzo quesito con il quale, in sostanza si chiedeva di quantificare con riferimento al periodo dal 21.07.2011 al 24.05.2013, la voce di “danno” (in termini di mancato guadagno) derivante dalla presumibile vendita di calcestruzzo prodotto nell’impianto medesimo, la relazione ha esaminato la questione alle pagg. 43-47 dell’elaborato, pervenendo ad una determinazione secondo cui il mancato margine sarebbe ricompreso tra Euro 699.400,00 (e quindi 16,14 € per metro cubo facendo riferimento ad un volume di attività “normale” per la società Do., pari a 40.000 metri cubi annui) ed Euro 1.213.729,16 (e quindi 17,23 € per metro cubo facendo riferimento ad un volume di attività “ideale” per la società Do., pari a 65.000 metri cubi annui);
   d) quanto infine al quarto quesito, la relazione del Ctu la relazione ha esposto i dati raccolti alle pagg. 47-49 dell’elaborato ed ha fatto presente che nel 2009 l’impianto di Vimercate della Co. srl (e da questa acquistato nel 2006 dalla società Ca. s.r.l.) venne venduto ad una società libica (l’impianto venne poi smantellato nel 2010), per cui a partire da tale data di avvenuta cessione, nel 2009 l’appellante non poteva vantare alcun rapporto negoziale privilegiato con il detto impianto,
2.1. Con nota allegata alla relazione e versata in atti, l’Ing. Ba. ha proposto una serie di osservazioni alle conclusioni del C.t.u., in particolare deducendo che:
   a) già nell’agosto 2009 (epoca in cui venne depositata l’istanza al Comune di Arcore) la società appellante non era più proprietaria degli impianti ubicati in Vimercate (nel 2006 l’azienda Cantù aveva ceduto i rami di azienda per la produzione del conglomerato bituminoso ed il calcestruzzo alla Co., come peraltro colto dal C.t.u. al paragrafo 3.2. della relazione) l’affermazione contenuta al paragrafo 3.1.1., pag 10, della relazione, ove si sosteneva che l’appellante utilizzava, nel periodo di interesse, impianti di proprietà in Vimercate, era in contraddizione con il paragrafo 3.2. della relazione di consulenza tecnica;
   b) la tesi esposta a pag. 10 della relazione, secondo la quale il progetto di Arcore era finalizzato ad una strategia di integrazione verticale dell’appellante, era apodittica e sfornita di evidenze probatorie;
   c) quanto al paragrafo 4.1. della relazione, non erano documentati il merito e la congruità delle spese di progettazione sostenute;
   d) quanto al paragrafo 4.2.1. della relazione, la Conferenza di servizi si tenne il 25.01.2011 ma a quella data il progetto non era cantierabile: i tempi di realizzazione del progetto, quindi, erano ben superiori ai sette mesi stimati dalla relazione di consulenza tecnica;
   e) ciò anche considerato che il progetto era sprovvisto di alcune autorizzazioni indispensabili a realizzare e mettere in esercizio l’impianto.
3. Ciò premesso, ritiene il Collegio che il punto di partenza dal quale occorre muovere è quello per cui, -come accertato nella sentenza parziale regiudicata n. 5158/2015- “i contenuti del giudicato e le argomentazioni poste a sostegno dello stesso –come sopra diffusamente richiamate– rivelano, pertanto, in assenza di una rinnovata valutazione sulle ragioni del primo diniego da parte del soggetto titolare della potestà pianificatoria, la sussistenza di profili di responsabilità in capo al Comune.
La illegittimità dei motivi di reiezione della variante lasciano, dunque, supporre (ripetesi, in assenza di rinnovata valutazione su di essi) che il bene della vita sperato da Do. sarebbe stato conseguito, non ostandovi le ragioni concretamente espresse nella delibera n. 35/2011, in ragione della loro illegittimità ed in considerazione delle risultanze del procedimento SUAP così come fino a quel momento svoltosi
.”.
3.1. Risultano pertanto incontrovertibili due circostanze:
   a) l’an della responsabilità del comune;
   b) la necessità di pervenire ad una valutazione di tipo equitativo fondata sul dato probabilistico del “presumibile” conseguimento da parte dell’appellante del bene della vita cui essa aspirava.
3.2. Sulla scorta di tale considerazione, è anzitutto inaccoglibile la pretesa della società Do. di vedersi liquidati, per intero, i valori determinati nella relazione di consulenza.
3.3. La impostazione della sentenza non definitiva n. 5158/2015 non è stata questa (argomentando diversamente non vi sarebbe logica nella minuta ed analitica strutturazione dei quesiti n. 2 e n. 3 disposta dalla sentenza medesima) e l’esito della consulenza non consente neppure di ritenere plausibile la pretesa della società Do..
3.4. Invero, dalla analitica relazione del C.T.U., e dalle difese del comune, emerge, quale dato incontrovertibile che, ferma la illegittimità del diniego opposto dal comune (così, si ripete, la sentenza suddetta: “il Comune di Arcore ha illegittimamente denegato, con la prima delibera di Consiglio Comunale n. 35/2011, l’approvazione della variante urbanistica SUAP richiesta dalla Do.”) comunque il progetto presentato non era “completo” (nel senso di munito di tutte le autorizzazioni provenienti da tutti gli Enti deputati a rilasciarli) e soprattutto le caratteristiche dell’impianto progettato, e delle opere ancora da eseguirsi (ed autorizzazioni da conseguire) non possono indurre a ritenere certa la costruzione del medesimo.
3.5. Alla stregua delle superiori considerazioni, tenuto conto del disposto dell’art. 1226 del codice civile, pacificamente applicabile alla quantificazione risarcitoria resa dal Giudice amministrativo, tenuto conto che nulla può imputarsi a parte appellante in termini di concorso colposo ex art. 1227 c.c. (peraltro il Comune non ha neppure formulato tale domanda, si veda Cassazione civile, sez. III, 27/07/2015, n. 15750) e considerata la circostanza che l’impresa che aspirava a realizzare l’impianto è stata posta in liquidazione non a cagione delle vicissitudini relative all’impianto per cui è causa, il Collegio ritiene di ravvisare una chance di realizzazione dell’impianto (pari alla misura del 50% di probabilità: vedasi Consiglio di Stato, sez. V, 25/02/2016, n. 762 Consiglio di Stato, sez. V, 30/06/2015, n. 3249) e tale argomento ricomprende ed assorbe tutte le considerazioni (ed i dubbi) dell’amministrazione comunale in ordine alla tempistica di realizzazione dell’impianto ed all’an della realizzabilità del medesimo.
3.5.1. Invero sulla circostanza che non era certa la realizzazione effettiva dell’impianto, non pare potersi controvertere; si è già chiarito che tali argomenti dedotti dal comune non possono essere esplorati in chiave preclusiva della concedibilità del risarcimento; la tesi della società secondo la quale trattandosi di procedimento demandato alla valutazione in sede di Suap il Comune ha artatamente enfatizzato i possibili ostacoli alla realizzabilità dell’impianto, (sintetizzati nell’ultima pagine delle osservazioni alla relazione del Ctu redatte dall’Ingegnere Ba. e datata 20.05.2016) è apoditttica ed indimostrata: tali elementi concorrono a far quantificare nella misura di una chance del 50% la posizione della società.
3.6. Quanto ai restanti argomenti critici, una volta quantificata nei termini di cui sopra la consistenza della posizione della ditta Do., il Collegio ritiene che nessuna delle minuziose critiche che investono l’elaborato di Ctu sia accoglibile, essendo stata in detta sede vagliata dal Ctu ogni perplessità prospettata dalle contrapposte parti processuali, e ritenendosi l’approdo raggiunto dal Ctu –che il Collegio condivide e fa proprio- compito, completo, ed immune da contraddizioni.
4. Alla stregua delle superiori considerazioni, il Comune deve essere condannato a corrispondere in favore della società odierna appellata un risarcimento che coincide con le somme che via via si elencano:
   a) quanto al quesito n. 1:
      I) considerato il terreno quale agricolo (questione, questa sulla quale non residua dubbio alcuno) una somma pari ad Euro 145.336,00 in considerazione della circostanza che la servitù acquistata non appare irrecuperabile in alcun modo: a tale cifra va sommata quella pari ad Euro 107. 671, 97 (spese non recuperabili) per un totale di Euro 243.007,97, dato, questo, cui va sommato il costo di progettazione degli impianti (Euro 211.311,00 cui vanno sommati Euro 7.360,50 per un parziale pari ad Euro 218.671,50).
4.1. Il Comune, quindi, dovrà versare alla Società la cifra di Euro 461.679,47.
4.2. A tale somma, va aggiunta una percentuale delle cifre quantificate dal Ctu in risposta ai quesiti nn. 2 e 3.
4.2.1. Si rammenta, in proposito, che dette cifre erano state così determinate:
   a) quanto al quesito n. 2 (valutazione del Ctu di cui alla pag. 43 dell’elaborato di consulenza tecnica):
      I) Euro 216.900,00 a titolo di maggiore costo;
      II) Euro 313.300,00 a titolo di mancato guadagno;
   b) quanto al quesito n. 3, (valutazione minimale del Ctu di cui alla pag. 43 dell’elaborato di consulenza tecnica), il mancato margine era stato quantificato nella misura di € 699.400,00.
4.2.2. Ora, appare evidente che a fronte di una possibilità realizzativa indicata nel 50% risulti viepiù ipotetica la effettiva conseguibilità delle somme in ultimo indicate, posto che su di esse incide innanzitutto un dato incerto, rappresentato dall’effettivo rispetto della tempistica di conseguimento delle autorizzazioni, ed altresì un dato se possibile ancor più aleatorio, rappresentato dalla sussistenza di una attività produttiva ed a regime ininterrotta, senza flessioni ascrivibili a guasti, malfunzionamenti, senza cali di alcun genere della domanda, di forniture etc.
E’ noto, che per parte della giurisprudenza, addirittura, non sarebbe mai consentita, alcuna liquidazione del c.d. “interesse positivo” nell’ipotesi di chance (ex aliis Consiglio di Stato, sez. VI, 01/02/2013, n. 633).
4.2.3. Ritiene il Collegio che, bilanciate in sede di valutazione equitativa ex art. 1226 cc tutte queste circostanze –e tenuto conto anche del fatto che la domanda originaria della ditta appellante conteneva una non irrilevante imprecisione in quanto se è vero che la stessa aveva una qualche disponibilità dell’impianto di Vimercate, con conseguente possibilità di godere di condizioni favorevoli, non ne era proprietaria- la percentuale delle somme indicate in risposta ai quesiti nn. 2 e 3 del Ctu vada determinata nella misura del 10% dei valori in essi indicati.
4.2.4. Alla cifra concernente le “spese” ed il deprezzamento dell’immobile, e pari ad Euro 461.679,47 si dovranno sommare pertanto le seguenti voci:
- Euro 21.690,00 (il 10% di Euro 216.900,00); Euro 31.300,00 (il 10% di Euro 313.300,00); Euro 69.940,00 (il 10% di Euro 699.400,00) il che conduce ad una somma parziale pari ad Euro 122.930,00 che, sommata ad Euro 461.679,47 porta alla cifra finale da liquidare, che è quindi pari ad Euro 584.609,47.
Sul quantum di danno accertato per la perdita di chance, trattandosi di un debito di valore, spetta anche la rivalutazione monetaria da calcolarsi sino alla pubblicazione della presente sentenza. A decorrere da tale momento, in conseguenza della liquidazione giudiziale, il debito di valore si trasforma in debito di valuta e spettano quindi solo gli interessi nella misura legale sino all'effettivo soddisfo (Consiglio Stato, sez. VI, 23.07.2009 n. 4628).
5. Conclusivamente, in parziale accoglimento dell’appello, ed in parziale riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado deve essere parzialmente accolto, e pertanto il comune di Arcore deve essere condannato al pagamento in favore della parte appellante della somma complessiva di Euro € 584.609,47, oltre ad accessori come sopra indicati.
5.1. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663).
5.2. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
6. Deve procedersi alla liquidazione del compenso complessivo (onorario e spese) spettante al consulente tecnico d'ufficio, che ne ha fatto espressa richiesta con due apposite note, rispettivamente in data 05.09.2016 e 18.01.2017 rimettendone la determinazione all'apprezzamento del giudice: in particolare, è stata richiesta la liquidazione di euro 445,00 a titolo di spese, e di Euro 22.200,00 complessivi (ivi calcolando anche l’importo di Euro 6.000,00 anticipato e posto provvisoriamente posto a carico dell’appellante nella sentenza non definitiva n. 5158 del 12.11.2015) di cui 14.400,00 in favore dalla CTU prof. Ar., e 7.800,00 in favore del collaboratore di questa, Prof. Pi..
L’importo residuo da liquidare, quindi, sarebbe pari ad Euro 16.200,00.
6.1. Tenuto conto anche della complessità dell’accertamento ritiene il Collegio che esso possa essere complessivamente contenuto (ivi comprese le spese, cioè) nella misura di Euro ventimila (€ 20.000,00) il che, detratto l’anticipo già erogato, implica che debbano corrispondersi restanti Euro 14.000,00.
6.2.. L'onorario spettante al consulente tecnico d'ufficio e le spese da questi sostenute da intendersi comprensivo dell'anticipo pari a Euro 6.000,00 provvisoriamente posto a carico dell’appellante nella sentenza non definitiva n. 5158 del 12.11.2015 sono poste definitivamente a carico del Comune di Arcore.
6.3. La complessità delle questioni trattate e la reciproca, parziale, soccombenza costituiscono ad avviso della Sezione ragioni idonee a giustificare tutte le spese del doppio grado di giudizio, ivi comprese (ad esclusione di quelle relative alla consulenza tecnica, liquidate come sopra).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, richiamata la propria precedente sentenza non definitiva n. 5158 del 12.11.2015 così provvede:
   a) accoglie parzialmente l’appello, ed in parziale riforma della impugnata sentenza condanna il comune di Arcore appellato a corrispondere alla appellante società Do. F.lli sas in liquidazione ed in concordato preventivo la somma di Euro 584.609,47 siccome determinata in motivazione, oltre ad accessori come determinati in motivazione;
   b) liquida in favore del consulente tecnico d'ufficio, Prof. An.Ma.Ar. l'importo complessivo di Euro 20.000,00 (comprensivo dell'anticipo pari a Euro 6.000,00, fissato nella sentenza non definitiva n. 5158 del 12.11.2015) di cui Euro. 19.555,00 a titolo di onorario ed Euro 445,00 a titolo di spese ponendolo a carico del Comune di Arcore;
   c) compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio (ad esclusione di quelle concernenti la consulenza tecnica che restano a carico del comune) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.03.2017 n. 943 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

E la stampa ne dà risalto:

Arcore: il Comune paga 606mila euro per il “no” al bitumificio e Doneda brinda. L'ironia di Luca Doneda contro il sindaco Rosalba Colombo: "Manderai il Comune in bancarotta, sei mitica" (19.05.2017 - link a http://giornaledimonza.it).
Arcore, stop al bitumificio: il Comune pagherà 600mila euro alla Doneda (ma sorride) (06.03.2017 - link a http://www.ilcittadinomb.it).
Caso Doneda: nessun bitumificio ma il comune dovrà pagare 600mila euro (05.03.2017 - link a https://www.mbnews.it).

 
 

IN EVIDENZA

Una carrellata di arresti in materia d'accesso agli atti amministrativi...

ATTI AMMINISTRATIVIMentre in primo grado il ricorrente può difendersi in proprio [avvalendosi dell’art. 23 (difesa personale delle parti) del codice del processo amministrativo secondo cui "Le parti possono stare in giudizio personalmente senza l'assistenza del difensore nei giudizi in materia di accesso e trasparenza amministrativa…"] nel questo grado d'appello è, viceversa, inderogabilmente necessaria l'assistenza del difensore [in quanto l’art. 95 (parti del giudizio di impugnazione) dello stesso codice stabilisce al comma 6 che "ai giudizi di impugnazione non si applica l'articolo 23, comma 1" precedente].
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Ora, premesso che in primo grado il ricorrente si era difeso in proprio, avvalendosi dell’art. 23 (difesa personale delle parti) del codice del processo amministrativo secondo cui "Le parti possono stare in giudizio personalmente senza l'assistenza del difensore nei giudizi in materia di accesso e trasparenza amministrativa…", va rilevato che in questo grado d'appello è viceversa inderogabilmente necessaria l'assistenza del difensore, in quanto l’art. 95 (parti del giudizio di impugnazione) dello stesso codice stabilisce al comma 6 che "ai giudizi di impugnazione non si applica l'articolo 23, comma 1" precedente (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.05.2017 n. 2394 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso ai documenti amministrativi, come è noto, è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità della P.A. e trova applicazione in ogni tipologia di attività della P.A..
Il principio della trasparenza amministrativa accolto dal nostro ordinamento, almeno nella cornice normativa delineata dalla L. 241/1990, non è affatto assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti, basati, fra l'altro, sulla limitazione dei soggetti attivi del diritto di accesso, questione quest'ultima che involge i profili della legittimazione sostanziale ed dell'interesse ad agire.
In particolare, anche se il diritto di accesso è volto ad assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a favorirne lo svolgimento imparziale, rimane fermo che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva legittimante.
Quest'ultima è costituita da una "situazione giuridicamente rilevante" (comprensiva anche degli interessi diffusi) e dal collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende la conoscenza.
L'interesse, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, tuttavia, è nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa così che la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto".
È bene specificare che la posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa.
Deve ritenersi, a questa stregua, che l'art. 22, co. 1, lett. b), l. n. 241/1990, quando parla di "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso", si riferisca alla sussumibilità della pretesa concreta in una fattispecie normativa, secondo una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità.
La previsione non fa invece riferimento a ipotesi in cui la pretesa vantata non è a prima lettura riconducibile ad una previsione normativa, ma potrebbe esservi ricondotta in virtù di una particolare interpretazione che potrebbe essere affermata in un giudizio sulla pretesa.

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La giurisprudenza ha più volte chiarito che interessato, ai fini dell’accesso, è qualunque soggetto nella cui sfera giuridica il provvedimento, direttamente o indirettamente, produce effetti e tale deve ritenersi l’odierno ricorrente in quanto trattasi di atti riferiti all'attività espropriativa che investe il suo terreno.
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Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che seguono.
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi, come è noto, è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità della P.A. e trova applicazione in ogni tipologia di attività della P.A.
Occorre, peraltro, ricordare che il principio della trasparenza amministrativa accolto dal nostro ordinamento, almeno nella cornice normativa delineata dalla L. 241/1990, non è affatto assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti, basati, fra l'altro, sulla limitazione dei soggetti attivi del diritto di accesso, questione quest'ultima che involge i profili della legittimazione sostanziale ed dell'interesse ad agire. In particolare, anche se il diritto di accesso è volto ad assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a favorirne lo svolgimento imparziale, rimane fermo che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva legittimante.
Quest'ultima è costituita da una "situazione giuridicamente rilevante" (comprensiva anche degli interessi diffusi) e dal collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende la conoscenza. L'interesse, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, tuttavia, è nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa così che la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto" (ex plurimis, cfr. Consiglio di Stato 27.10.2006 n. 6440).
È bene specificare che la posizione legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa. Deve ritenersi, a questa stregua, che l'art. 22, co. 1, lett. b), l. n. 241/1990, quando parla di "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso", si riferisca alla sussumibilità della pretesa concreta in una fattispecie normativa, secondo una valutazione prognostica e secondo un rapporto di chiara percepibilità. La previsione non fa invece riferimento a ipotesi in cui la pretesa vantata non è a prima lettura riconducibile ad una previsione normativa, ma potrebbe esservi ricondotta in virtù di una particolare interpretazione che potrebbe essere affermata in un giudizio sulla pretesa (cfr., a questo proposito, cfr. C. Stato, sez. VI, 18.09.2009 n. 5625).
Nel caso di specie, il ricorrente è legittimato ad agire in quanto il diritto di proprietà di cui è titolare ha subito una compressione a causa di una procedura espropriativa nei confronti della sua dante causa, in forza della quale il Comune si è immesso nel possesso di parte del suolo. La richiesta di accesso agli atti del procedimento di esproprio, quindi, è strumentale alla tutela del diritto dominicale.
La giurisprudenza ha più volte chiarito che interessato, ai fini dell’accesso, è qualunque soggetto nella cui sfera giuridica il provvedimento, direttamente o indirettamente, produce effetti e tale deve ritenersi l’odierno ricorrente in quanto trattasi di atti riferiti all'attività espropriativa che investe il suo terreno.
Ed, invero il proprietario d'immobile soggetto ad espropriazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche, ha diritto ad accedere alla documentazione in possesso dell’amministrazione procedente, inerente alla relativa procedura espropriativa, quale quella in esame trattandosi di atti utilizzati ai fini dell'attività pubblicistica del Comune di S. Maria Capua Vetere, senza dubbio strumentale alla tutela sia processuale delle proprie ragioni, sia di conoscenza dell’esatta perimetrazione della sua posizione dominicale..
Pertanto la domanda va accolta e conseguentemente, previo annullamento dell’impugnato silenzio rigetto, va ordinato al Comune di S. Maria C.V. ex art. 25 l. 241/1990 di rilasciare la documentazione richiesta (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 19.05.2017 n. 2678 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICome noto l’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990 dispone che “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni”. Tale assunto è stato confermato anche dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi con delibera in data 27.02.2013 con cui la stessa Commissione ha rilevato che il diritto d'accesso ai documenti riconosciuti dall'art. 22 legge n. 241/1990, non si atteggia come una sorta di azione popolare diretta a consentire una forma di controllo generalizzato sull'amministrazione, né può essere trasformato in uno strumento di ispezione popolare sull'efficienza di un soggetto pubblico o di un determinato servizio, nemmeno in ambito locale.
L'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza, e che va accertato caso per caso, deve essere personale e concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso e, dall'altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse, oltre che individuata o ben individuabile. Qualora invece l'interesse ad esercitare il diritto d'accesso sia volto ad acquisire una serie di informazioni su un particolare settore allo scopo di valutarne l'efficienza e di assumere iniziative a tutela, il diritto di accesso diviene in uno strumento di ispezione sull'efficienza dell’attività amministrativa.

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Un soggetto, benché astrattamente legittimato all'accesso, non può utilizzare lo strumento dell’accesso ai documenti amministrativi al fine di azionare, come nella fattispecie concreta, forme di generale controllo sulla legittimità dell'attività amministrativa.
Per costante giurisprudenza, l’istanza di accesso deve riferirsi a specifici documenti già esistenti e non può pertanto comportare la necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta.
Tale principio deve essere esteso anche al caso in cui i documenti richiesti già esistono, ma per i criteri della richiesta, viene imposta all’amministrazione un’attività complessa di ricerca e reperimento dei documenti che presuppone un’attività preparatoria di elaborazione di dati. Sicché, seppure la richiesta di accesso sia supportata da uno specifico interesse individuale, tuttavia, detta istanza, per come è stata formulata, avrebbe comportato un controllo generalizzato e di tipo sostanzialmente ispettivo sull’operato dell’Amministrazione.
La stessa avrebbe, inoltre, frustrato la ratio sottesa all’istituto del diritto di accesso, il quale, se per un verso tutela la posizione qualificata e differenziata del richiedente, per altro verso non può tollerare che la p.a. diventi destinataria di richieste esorbitanti e comportanti una defatigante attività di ricerca delle pratiche, attività che si porrebbe in contrasto con lo stesso principio di buon andamento della p.a. di cui all’art. 97 Cost..
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E' bene premettere come i due istituti (accesso ai sensi della legge n. 241/1990 e accesso civico ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013) operano su piani distinti avendo diversi presupposti e disciplina; il che non impedisce che un soggetto possa essere titolare di una posizione differenziata tale da essere tutelata con l’accesso “tradizionale” di cui alla legge n. 241/1990 e contemporaneamente avvalersi dell’accesso civico qualora ne ricorrano i presupposti.
Per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione di cui al d.lgs. n. 33/2013, quindi, possono operare cumulativamente tanto il diritto di accesso “classico” ex l. n. 241/1990 quanto il diritto di accesso civico ex d.lgs. n. 33/2013, mentre per gli atti non rientranti in tali obblighi di pubblicazione opererà, evidentemente solo il diritto di accesso procedimentale di cui alla l. n. 241/1990.
Il diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990 ossia il “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi” è cosa diversa dal diritto della generalità dei cittadini alla più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione che si realizza tramite la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti e che è disciplinata dal d.lgs. n. 33/2013.
Pur essendo il rito ex art. 116 c.p.a. esperibile sia a tutela dell'accesso ai documenti amministrativi ex art. 22 della l. n. 241 cit., sia "per la tutela del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di trasparenza", i due istituti sono tra loro diversi vista, in particolare, la differenza dei relativi presupposti.
Con il d.lgs. n. 33/2013, infatti, si è inteso procedere al riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle P.A., allo scopo di attuare il principio democratico, nonché i principi costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una buona amministrazione e per la realizzazione di un'Amministrazione aperta, al servizio del cittadino.
Il tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato decreto legislativo ed aventi ad oggetto l'organizzazione, nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere a tali siti direttamente ed immediatamente, senza autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva inadempienza dell'obbligo in questione, di ricorrere al G.A. secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente l'accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, è relativo al diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di "documenti amministrativi", intendendosi per "interessati" i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui si rivolge l'accesso, cosicché in funzione di tale interesse l'istanza di accesso deve essere motivata. Il Collegio è ben consapevole del fatto che l’accesso civico è uno strumento che si aggiunge a quelli esistenti, senza eliderli, ma sovrapponendosi agli stessi.
Ciò nondimeno, è di tutta evidenza che, una volta esercitata la facoltà di avvalersi di uno degli istituti sopraindicati mediante la presentazione della relativa specifica istanza, non è possibile poi far valere, con la pretesa automaticità, le prerogative di tutela previste per l’altro procedimento; ciò, anche in un’ottica di leale collaborazione tra le parti, dovendo l’istanza del soggetto interessato orientare, in termini di necessaria coerenza, il comportamento concretamente esigibile dall’Autorità adita.
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Nel caso in esame pur avendo parte ricorrente menzionato nell’istanza la normativa di cui al cit. d.lgs. n. 33/2013, difetta comunque una richiesta di accesso civico che, peraltro, sebbene connotata da estrema informalità, riflette, ai sensi della disciplina di settore, un contenuto tipizzato, di certo non fungibile con quello dell’istanza di accesso ordinaria, siccome volta a promuovere –per finalità e muovendo da presupposti di legittimazione diversi- i seguenti adempimenti a carico dell’Amministrazione: “…procede alla pubblicazione nel sito del documento, dell'informazione o del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l'avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a quanto richiesto. Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale”.
Ed infatti solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva inadempienza dell'obbligo in questione, di ricorrere al G.A. secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
In definitiva, la mancata attivazione del procedimento in argomento (id est accesso civico) priva il ricorso proposto ai sensi del combinato disposto dell’articolo 116 c.p.a. e dell’articolo 5 del d.lgs. 33 del 2013 della relativa causa petendi essendo, comunque, la forma di tutela prevista dalla disciplina di settore costruita come un’azione di tipo impugnatorio che va spiegata avverso la determinazione reiettiva dell’istanza di accesso civico (giammai presentata) ovvero avverso la formazione del silenzio (non perfezionatosi per assenza di un’istanza di accesso civico).
Pertanto, nella suddetta prospettiva, deve concludersi per l’infondatezza delle censure formulate ai sensi e per gli effetti di cui al d.lgs. 33 del 2013, dal momento che il contenuto dell’istanza ostensiva riflette, invero, con evidenza, che la pretesa attorea è stata azionata ai sensi e per gli effetti di cui alla legge n. 241/1990 e, come tale, dunque, è stata coerentemente valutata, dall’Amministrazione intimata, di talché è solo all’interno del suddetto perimetro normativo che è possibile valutare la legittimità del diniego nonché la spettanza del diritto reclamato.
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2. Nel merito il ricorso per accesso ex art. 22 della legge n. 241/1990 è infondato avendo evidente natura esplorativa e risultando finalizzato ad esperire un controllo generalizzato sull’attività delle amministrazioni intimate.
Come noto l’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990 dispone che “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni”. Tale assunto è stato confermato anche dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi con delibera in data 27.02.2013 con cui la stessa Commissione ha rilevato che il diritto d'accesso ai documenti riconosciuti dall'art. 22 legge n. 241/1990, non si atteggia come una sorta di azione popolare diretta a consentire una forma di controllo generalizzato sull'amministrazione, né può essere trasformato in uno strumento di ispezione popolare sull'efficienza di un soggetto pubblico o di un determinato servizio, nemmeno in ambito locale.
L'interesse che legittima ciascun soggetto all'istanza, e che va accertato caso per caso, deve essere personale e concreto e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso e, dall'altro, la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse, oltre che individuata o ben individuabile. Qualora invece l'interesse ad esercitare il diritto d'accesso sia volto ad acquisire una serie di informazioni su un particolare settore allo scopo di valutarne l'efficienza e di assumere iniziative a tutela, il diritto di accesso diviene in uno strumento di ispezione sull'efficienza dell’attività amministrativa.
Applicando alla fattispecie in esame le predette coordinate ermeneutiche è evidente che l’istanza di accesso inoltrata dalla ricorrente è affetta da genericità ed indeterminatezza, perché non individua con precisione, i titoli autorizzatori oggetto di accesso, ma si riferisce ad una serie indeterminata e non identificata di autorizzazioni rilasciate in un ampio arco temporale, nondimeno esteso agli ultimi dieci anni. Non può quindi sostenersi l’obbligo della Regione Campania di pronunciarsi in senso favorevole su tale istanza stante la natura manifestamente esplorativa della richiesta di accesso così come formulata e solo asseritamente strumentale all’esercizio del diritto di difesa.
Osserva il Collegio che un soggetto, benché astrattamente legittimato all'accesso, non può utilizzare lo strumento dell’accesso ai documenti amministrativi al fine di azionare, come nella fattispecie concreta, forme di generale controllo sulla legittimità dell'attività amministrativa (cfr. Consiglio Stato, VI, 27.02.2008 n. 721; V, 25.09.2006, n. 5636).
Per costante giurisprudenza, l’istanza di accesso deve riferirsi a specifici documenti già esistenti e non può pertanto comportare la necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta (Cons. St., sez. VI, 05.12.2007, n. 6201).
Tale principio deve essere esteso anche al caso in cui i documenti richiesti già esistono, ma per i criteri della richiesta, viene imposta all’amministrazione un’attività complessa di ricerca e reperimento dei documenti che presuppone un’attività preparatoria di elaborazione di dati (Cons. Stato, sez. VI, n. 117/2011). Sicché, seppure la richiesta di accesso sia supportata da uno specifico interesse individuale, tuttavia, detta istanza, per come è stata formulata, avrebbe comportato un controllo generalizzato e di tipo sostanzialmente ispettivo sull’operato dell’Amministrazione. La stessa avrebbe, inoltre, frustrato la ratio sottesa all’istituto del diritto di accesso, il quale, se per un verso tutela la posizione qualificata e differenziata del richiedente, per altro verso non può tollerare che la p.a. diventi destinataria di richieste esorbitanti e comportanti una defatigante attività di ricerca delle pratiche, attività che si porrebbe in contrasto con lo stesso principio di buon andamento della p.a. di cui all’art. 97 Cost..
2.1 Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento ai documenti di programmazione rispetto ai quali con il ricorso si lamenta altresì la violazione delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 33/2013.
Sul punto l’istanza di accesso ex art. 22 della legge n. 241 cit. si appalesa evidentemente infondata dal momento che ai sensi dell’art. 24, comma 1, della lett. c), l. cit, sono esclusi dal diritto di accesso ivi disciplinato gli atti amministrativi generali e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione.
In ogni caso è bene premettere come i due istituti (accesso ai sensi della legge n. 241/1990 e accesso civico ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013) operano su piani distinti avendo diversi presupposti e disciplina; il che non impedisce che un soggetto possa essere titolare di una posizione differenziata tale da essere tutelata con l’accesso “tradizionale” di cui alla legge n. 241/1990 e contemporaneamente avvalersi dell’accesso civico qualora ne ricorrano i presupposti.
Per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione di cui al d.lgs. n. 33/2013, quindi, possono operare cumulativamente tanto il diritto di accesso “classico” ex l. n. 241/1990 quanto il diritto di accesso civico ex d.lgs. n. 33/2013, mentre per gli atti non rientranti in tali obblighi di pubblicazione opererà, evidentemente solo il diritto di accesso procedimentale di cui alla l. n. 241/1990 (cfr. questa Sezione n. 5671/2014).
Il diritto di accesso ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990 ossia il “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi” è cosa diversa dal diritto della generalità dei cittadini alla più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione che si realizza tramite la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti e che è disciplinata dal d.lgs. n. 33/2013.
Pur essendo il rito ex art. 116 c.p.a. esperibile sia a tutela dell'accesso ai documenti amministrativi ex art. 22 della l. n. 241 cit., sia "per la tutela del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di trasparenza", i due istituti sono tra loro diversi vista, in particolare, la differenza dei relativi presupposti.
Con il d.lgs. n. 33/2013, infatti, si è inteso procedere al riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle P.A., allo scopo di attuare il principio democratico, nonché i principi costituzionali di uguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una buona amministrazione e per la realizzazione di un'Amministrazione aperta, al servizio del cittadino. Il tutto, con la pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (elencati nei capi II, III, IV e V del succitato decreto legislativo ed aventi ad oggetto l'organizzazione, nonché diversi campi di attività delle P.A.) nei siti istituzionali di queste, con diritto di chiunque di accedere a tali siti direttamente ed immediatamente, senza autenticazione, né identificazione; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva inadempienza dell'obbligo in questione, di ricorrere al G.A. secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
Diversamente l'accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, è relativo al diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di "documenti amministrativi", intendendosi per "interessati" i soggetti che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui si rivolge l'accesso, cosicché in funzione di tale interesse l'istanza di accesso deve essere motivata. Il Collegio è ben consapevole del fatto che l’accesso civico è uno strumento che si aggiunge a quelli esistenti, senza eliderli, ma sovrapponendosi agli stessi.
Ciò nondimeno, è di tutta evidenza che, una volta esercitata la facoltà di avvalersi di uno degli istituti sopraindicati mediante la presentazione della relativa specifica istanza, non è possibile poi far valere, con la pretesa automaticità, le prerogative di tutela previste per l’altro procedimento; ciò, anche in un’ottica di leale collaborazione tra le parti, dovendo l’istanza del soggetto interessato orientare, in termini di necessaria coerenza, il comportamento concretamente esigibile dall’Autorità adita.
Ed, invero, nel caso in esame pur avendo parte ricorrente menzionato nell’istanza la normativa di cui al cit. d.lgs. n. 33/2013, difetta comunque una richiesta di accesso civico che, peraltro, sebbene connotata da estrema informalità, riflette, ai sensi della disciplina di settore, un contenuto tipizzato, di certo non fungibile con quello dell’istanza di accesso ordinaria, siccome volta a promuovere –per finalità e muovendo da presupposti di legittimazione diversi- i seguenti adempimenti a carico dell’Amministrazione: “…procede alla pubblicazione nel sito del documento, dell'informazione o del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l'avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a quanto richiesto. Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale”.
Ed infatti solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 33 cit., il cd. accesso civico, consistente in una richiesta (che non va motivata) di effettuare tale adempimento, con possibilità, nel caso di conclusiva inadempienza dell'obbligo in questione, di ricorrere al G.A. secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 104/2010.
In definitiva, la mancata attivazione del procedimento in argomento (
id est accesso civico) priva il ricorso proposto ai sensi del combinato disposto dell’articolo 116 c.p.a. e dell’articolo 5 del d.lgs. 33 del 2013 della relativa causa petendi essendo, comunque, la forma di tutela prevista dalla disciplina di settore costruita come un’azione di tipo impugnatorio che va spiegata avverso la determinazione reiettiva dell’istanza di accesso civico (giammai presentata) ovvero avverso la formazione del silenzio (non perfezionatosi per assenza di un’istanza di accesso civico).
Pertanto, nella suddetta prospettiva, deve concludersi per l’infondatezza delle censure formulate ai sensi e per gli effetti di cui al d.lgs. 33 del 2013, dal momento che il contenuto dell’istanza ostensiva riflette, invero, con evidenza, che la pretesa attorea è stata azionata ai sensi e per gli effetti di cui alla legge n. 241/1990 e, come tale, dunque, è stata coerentemente valutata, dall’Amministrazione intimata, di talché è solo all’interno del suddetto perimetro normativo che è possibile valutare la legittimità del diniego nonché la spettanza del diritto reclamato.
Ed infatti sulla base dell’istanza, e senza che nemmeno sia stata dedotta la violazione del dovere di pubblicazione, non è dato comprendere se l'obiettivo avuto di mira dalla ricorrente includesse anche la pubblicazione, da parte delle amministrazioni intimate degli atti e documenti di cui al d.lgs. n. 33/2013, ovvero la sola presa visione ed estrazione di copia degli atti oggetto dell'istanza inoltrata. Senza tener conto che né dalla istanza né dal conseguente ricorso è dato evincersi con certezza che gli atti di programmazione oggetto di richiesta ostensiva siano realmente esistenti ed adottati, e comunque efficaci alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 33 cit. sì da potersi ritenere assoggettabili al relativo obbligo di pubblicazione.
In definitiva per quanto sopra esposto il ricorso va respinto con ogni conseguenza in ordine alle spese processuali tra le parti costituite che seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 12.05.2017 n. 2562 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’accesso civico previsto e regolato dal dec. lgv. 33 del 2013, come modificato dal dec. lgv.n. 97 del 2016 non è un istituto giuridico che riconduce e assorbe ogni regolamentazione in materia di accesso a superamento anche dalla disciplina normativa dettata dalla legge 241 del 1990, essendo diversa la ratio e le finalità delle due normative.
Quella dettata dalla legge 241 del 1990 prevede e regola l’accesso agli atti amministrativi da parte di soggetti che abbiano un interesse personale e diretto alla conoscenza di atti in possesso di un’amministrazione pubblica al fine di meglio tutelare la loro personale posizione soggettiva.
Si tratta di atti che normalmente attengono all’istruttoria procedimentale o anche a provvedimenti conclusivi della stessa che in qualche modo interessano il soggetto che intenda acquisirli e la cui conoscenza possa essere utile allo stesso e che per questo deve motivare la propria richiesta. Per tale accesso valgono i casi di esclusione previsti dall’art. 24 della legge 241 del 1990 e fra questi vi è la tutela della riservatezza.
L’istituto dell’accesso civico risponde, invece, a esigenze diverse delineate chiaramente dall’art. 1 del dec. lgv n. 33 del 2013 laddove richiama i principi di trasparenza, intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche. Il riferimento ai cittadini e all’utilizzo delle risorse pubbliche evidenzia la diversa caratterizzazione dell’interesse generale e per questo non soggetto ad alcuna formalità motivazionale, rispetto a quello personale.
Ciò è meglio chiarito dal riferimento all’obbligo della pubblicazione nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni dei documenti, delle informazioni e dei dati concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni stesse con particolare riferimento alle risorse pubbliche (art. 4-bis). In tale specifica ratio e connotazione vanno letti i casi di esclusione regolati dall’art. 5-bis nel quale, non a caso al 1° comma, si fa riferimento, come limiti all’accesso civico, esclusivamente agli interessi pubblici specificamente indicati e quelli a tutela di peculiari interessi privati che il comma 2° individua e tra questi la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina vigente in materia e che il comma 3° ribadisce con riferimento all’art. 24 della legge 241 del 1990, a conferma di quanto prima detto sulla netta distinzione esistente fra l’accesso civico e l’”ordinario” accesso agli atti.
In sostanza, l’accesso civico non può essere utilizzato per superare, in particolare in materia di interessi personali e dei principi della riservatezza, i limiti imposti dalla legge 241 del 1990.

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2) Il Collegio osserva nel merito, prescindendo dalla questione, rilevabile d’ufficio, della verifica dell’integrità del contraddittorio, posto che i docenti i cui dati relativi ai premi percepiti li legittimerebbero a contraddire nel presente giudizio, che il ricorso è infondato.
L’accesso civico previsto e regolato dal dec. lgv. 33 del 2013, come modificato dal dec. lgv.n. 97 del 2016 non è un istituto giuridico che riconduce e assorbe ogni regolamentazione in materia di accesso a superamento anche dalla disciplina normativa dettata dalla legge 241 del 1990, essendo diversa la ratio e le finalità delle due normative. Quella dettata dalla legge 241 del 1990 prevede e regola l’accesso agli atti amministrativi da parte di soggetti che abbiano un interesse personale e diretto alla conoscenza di atti in possesso di un’amministrazione pubblica al fine di meglio tutelare la loro personale posizione soggettiva.
Si tratta di atti che normalmente attengono all’istruttoria procedimentale o anche a provvedimenti conclusivi della stessa che in qualche modo interessano il soggetto che intenda acquisirli e la cui conoscenza possa essere utile allo stesso e che per questo deve motivare la propria richiesta. Per tale accesso valgono i casi di esclusione previsti dall’art. 24 della legge 241 del 1990 e fra questi vi è la tutela della riservatezza.
L’istituto dell’accesso civico risponde, invece, a esigenze diverse delineate chiaramente dall’art. 1 del dec. lgv n. 33 del 2013 laddove richiama i principi di trasparenza, intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche. Il riferimento ai cittadini e all’utilizzo delle risorse pubbliche evidenzia la diversa caratterizzazione dell’interesse generale e per questo non soggetto ad alcuna formalità motivazionale, rispetto a quello personale.
Ciò è meglio chiarito dal riferimento all’obbligo della pubblicazione nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni dei documenti, delle informazioni e dei dati concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni stesse con particolare riferimento alle risorse pubbliche (art. 4-bis). In tale specifica ratio e connotazione vanno letti i casi di esclusione regolati dall’art. 5-bis nel quale, non a caso al 1° comma, si fa riferimento, come limiti all’accesso civico, esclusivamente agli interessi pubblici specificamente indicati e quelli a tutela di peculiari interessi privati che il comma 2° individua e tra questi la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina vigente in materia e che il comma 3° ribadisce con riferimento all’art. 24 della legge 241 del 1990, a conferma di quanto prima detto sulla netta distinzione esistente fra l’accesso civico e l’”ordinario” accesso agli atti.
In sostanza, l’accesso civico non può essere utilizzato per superare, in particolare in materia di interessi personali e dei principi della riservatezza, i limiti imposti dalla legge 241 del 1990.
Sulle base di quanto sopra considerato è, quindi, da escludere che possa essere consentito alla ricorrente Associazione sindacale i dati dalla stessa richiesti, ossia il prospetto analitico dei compensi erogati al personale docente e dei beneficiari del FIS, ciò perché l’art. 24 della legge 241 del 1990, che prevede come ipotesi di inammissibilità dell’accesso quella delle istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni, stabilisce altresì –al comma 6, lett. d)- che le Amministrazioni possano escludere dall’accesso i documenti riguardanti la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono: e tutto ciò che concerne il trattamento economico/retributivo rientra in pieno in tale ipotesi di tutela della riservatezza.
Tale disposto normativo va, inoltre, integrato con le disposizioni in materia di privacy di cui al dec. lgv. n. 196 del 30.06.2003 sulle quali è intervenuto il Garante con un proprio parere del 13.10.2014 nel quale esclude che le informazioni possano riguardare i compensi riferiti ai singoli lavoratori individuali, potendosi solo consentire l’accesso ai dati sui compensi solo in forma aggregata.
Analoga conclusione può trarsi con riferimento proprio al c.d. accesso civico regolato dal dec. lgs. n. 33 del 14.03.2013 per quanto concerne gli atti per i quali vi è l’obbligo della pubblicazione: l’art. 20 di tale decreto, in particolare, prevede che la pubblicazione dei dati riguardanti l’ammontare complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e l’ammontare dei premi effettivamente distribuiti possa avvenire solo in maniera complessiva e in forma aggregata.
Correttamente, quindi, il responsabile dell’Istituto scolastico ha riscontrato la richiesta della ricorrente indicando che per l'attribuzione del Bonus Docenti per gruppi aggregati e i compensi MOF docenti e ATA può essere consultato il sito dell'Istituto scolastico alla pagina Amministrazione Trasparente; come correttamente lo stesso responsabile, con riferimento ai criteri stabiliti dal Comitato di Valutazione, ha comunicato che possono essere consultati sul sito dell'Istituto nelle pagine Albo on-line o Amministrazione Trasparente.
L’art. 5, comma 1, del dec. legv. n. 33 cit., infatti, chiarisce che l'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione; donde nessun obbligo aveva il predetto responsabile di rilasciare comunque in copia i documenti richiesti essendo essi pubblicati ed essendo stata data precisa indicazione ove reperirli sul sito web dell’Istituto. Priva di pregio è, quindi, la doglianza sulla negazione dell’accesso civico (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 10.05.2017 n. 463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINon può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l'accesso agli atti della p.a., per omessa notifica al controinteressato, quando la stessa amministrazione non abbia ritenuto consentire la partecipazione in sede procedimentale di altri soggetti che potrebbero subire un pregiudizio dall'accoglimento della istanza di accesso e che acquisterebbero la qualifica di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego.
Tale principio risulta, invero, affermato (muovendo dal disposto dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184) in riferimento ai casi di diniego espresso rispetto ai quali il comportamento dell’Amministrazione può effettivamente indurre in errore il soggetto istante che, "conformandosi" alla valutazione resa dall'Amministrazione, secondo cui non esistevano posizioni di controinteresse (tanto da non avere comunicato ad alcuno l'avvenuta presentazione della domanda di accesso), non abbia provveduto, a propria volta, a notificare il mezzo di primo grado.

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Il giudizio in materia di accesso anche se si atteggia come impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in quanto rivolto avverso il provvedimento di diniego o avverso il silenzio-rigetto formatosi sulla relativa istanza, è sostanzialmente rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella particolare situazione dedotta in giudizio alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla correttezza o meno delle ragioni addotte dall'Amministrazione per giustificare il diniego.
Infatti, il giudizio proposto, ai sensi dell'art. 116 c.p.a., avverso il diniego ha per oggetto la verifica della spettanza o meno del diritto medesimo, piuttosto che la verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità del diniego impugnato; il giudice può, quindi, ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole "un facere", solo se ne sussistono i presupposti, il che, pertanto, implica che, anche al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione addotta nell'atto amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo anche negare per motivi diversi da quelli indicati dal provvedimento amministrativo.
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Nei rapporti tra riservatezza e accesso (desumibili sia dal ricordato art. 24 sia dagli artt. 59 e 60 del d.lgs. n. 196/2003 recante il codice in materia di protezione dei dati personali), la prima recede quanto l’accesso alla documentazione sia funzionale alla tutela e alla difesa di propri interessi giuridici.
E’ evidente che la nozione di “cura e difesa di interessi giuridici” di cui al comma 7 dell’art. 24 che consente di superare l’esclusione dal diritto di accesso a documenti riguardanti “la vita privata o la riservatezza di persone fisiche” [comma 5, lettera c), del medesimo articolo] non può essere intesa in senso lato fino a ricomprendere qualsiasi tipo di interesse (non a caso la giurisprudenza con riguardo al comma 7 cit. ha parlato di “accesso defensionale” ossia quello propedeutico alla migliore tutela delle proprie ragioni in un giudizio –già pendente o da introdurre– ovvero nell’ambito di un procedimento amministrativo).
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Espone la società ricorrente:
   - di essere una start up innovativa che ha elaborato un’applicazione da installare sugli smartphone per agevolare il contatto tra utenti e titolari di licenze TAXI e NCC (noleggio con conducente);
   - che in tal modo offre un servizio gratuito di prenotazione delle corse suscettibile di migliorare la trasparenza e la qualità del servizio di trasporto;
   - di avere, pertanto, chiesto al Comune di Napoli con l’istanza del 15.07.2016 l’elenco dei nominativi degli NCC autorizzati dall’amministrazione a svolgere tale attività accompagnato dai numeri di licenza, indirizzo e recapito telefonico.
Lo scopo della domanda di accesso è quello “di consentire agli NCC (noleggio con conducente) che aderiranno al servizio DigiTaxi di essere identificati come autorizzati (evitando quindi l’iscrizione di abusivi) e ricevere le prenotazioni degli utenti”.
Con il provvedimento del 27.07.2016 impugnato il Comune di Napoli ha negato l’accesso sul presupposto che si tratta “di informazioni personali di soggetti esercenti un pubblico servizio ma i cui dati personali non possono essere rilasciati se non dietro autorizzazione”, peraltro, la richiesta sarebbe stata inoltrata da una impresa “per l’attivazione di un servizio di intermediazione che si presume possa essere di natura commerciale”.
La ricorrente ha impugnato il diniego sostenendone l’illegittimità sotto vari profili.
...
Ciò premesso, devono essere respinte le eccezioni di inammissibilità del gravame formulate dalla difesa comunale.
Relativamente alla eccepita omessa notifica del ricorso ad almeno un controinteressato deve osservarsi come la società ricorrente non conoscesse i nominativi dei titolari di licenza.
In ogni caso, nella fattispecie può farsi applicazione di quell’orientamento secondo cui (Cons. Stato Sez. VI, 08.02.2012, n. 677 ma anche Cons. Stato Sez. IV, 16.05.2011, n. 2968 Cons. Stato Sez. VI, Sent., 30.07.2010, n. 5062) non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l'accesso agli atti della p.a., per omessa notifica al controinteressato, quando la stessa amministrazione non abbia ritenuto consentire la partecipazione in sede procedimentale di altri soggetti che potrebbero subire un pregiudizio dall'accoglimento della istanza di accesso e che acquisterebbero la qualifica di controinteressati nel caso di impugnazione del conseguente diniego.
Tale principio risulta, invero, affermato (muovendo dal disposto dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. 12.04.2006, n. 184) in riferimento ai casi di diniego espresso rispetto ai quali il comportamento dell’Amministrazione può effettivamente indurre in errore il soggetto istante che, "conformandosi" alla valutazione resa dall'Amministrazione, secondo cui non esistevano posizioni di controinteresse (tanto da non avere comunicato ad alcuno l'avvenuta presentazione della domanda di accesso), non abbia provveduto, a propria volta, a notificare il mezzo di primo grado.
Il Collegio, poiché ritiene il ricorso nel merito infondato, non reputa necessario per economia processuale procedere all’integrazione del contraddittorio con i titolari di licenza i cui dati personali sono stati richiesti con la domanda di accesso de qua (cfr. C.d.S. n. 1120/2016 che ha affermato che nel processo amministrativo, ai sensi degli artt. 74 e 88, comma 2, lett. d), c.p.a., l'integrazione del contraddittorio, in base al principio di economia degli atti giuridici ed in specie processuali, non è richiesta nei casi in cui il ricorso è manifestamente inammissibile o infondato).
Destituita di fondamento anche l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione del precedente diniego opposto dal Comune su identica istanza di accesso. Con la domanda di accesso di cui trattasi la ricorrente ha chiesto l’elenco dei titolari di licenza NCC mentre con la precedente istanza presentata in data 13.05.2014 veniva chiesto l’elenco dei titolari di licenza TAXI. E’ evidente, dunque, che si tratta di domande aventi un diverso oggetto e per le quali non può parlarsi di reiterazione della stessa domanda di accesso.
Venendo la merito, come esposto in fatto, la ricorrente ha chiesto l’elenco dei titolari di licenza NCC unitamente al loro indirizzo e numero telefonico motivando la domanda sul presupposto di dover garantire che l’iscrizione al servizio offerto (che come visto mira a mettere in contatto utenti ed esercenti l’attività di trasporto) sia possibile solo da parte di operatori muniti di regolare licenza.
Ritiene il Collegio che l’esigenza manifestata nell’istanza di accesso, sicuramente meritevole di tutela in quanto volta ad evitare che aderiscano al servizio coloro che lo esercitano in modo abusivo, sia soddisfatta con il possesso dell’elenco fornito dal Comune dei nominativi accompagnato dal numero di licenza. In questo modo deve ritenersi raggiunto lo scopo dichiarato nella domanda di accesso agli atti.
A giudizio del Collegio, infatti, il nome unitamente al numero di licenza consente alla DigiTaxi di identificare come autorizzati gli aderenti al servizio.
Del resto ogni dubbio circa l’identità degli aderenti (all’odierna discussione della causa parte ricorrente ha evidenziato il rischio di casi di omonimia) può essere fugato chiedendo all’interessato di fornire il proprio numero di licenza ed in ultima istanza facendo una verifica successiva presso l’amministrazione comunale (cfr. al riguardo la nota difensiva del servizio competente del 05.12.2016 depositati in atti).
Sul punto parte ricorrente con la memoria del 10.04.2017 ha sostenuto il divieto di motivazione postuma degli atti da parte dell’amministrazione.
Rammenta di contro il Collegio che il giudizio in materia di accesso anche se si atteggia come impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in quanto rivolto avverso il provvedimento di diniego o avverso il silenzio-rigetto formatosi sulla relativa istanza, è sostanzialmente rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella particolare situazione dedotta in giudizio alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla correttezza o meno delle ragioni addotte dall'Amministrazione per giustificare il diniego. Infatti, il giudizio proposto, ai sensi dell'art. 116 c.p.a., avverso il diniego ha per oggetto la verifica della spettanza o meno del diritto medesimo, piuttosto che la verifica della sussistenza o meno di vizi di legittimità del diniego impugnato; il giudice può, quindi, ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole "un facere", solo se ne sussistono i presupposti, il che, pertanto, implica che, anche al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione addotta nell'atto amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo anche negare per motivi diversi da quelli indicati dal provvedimento amministrativo (TAR Lazio, Roma, sez. II 10.04.2013 n. 3641).
Nella fattispecie, il Comune di Napoli ha fornito l’elenco dei nominativi e il numero di licenza degli operatori autorizzati ma non il loro indirizzo e recapito telefonico.
Non vi è dubbio che si tratti di dati personali di terzi il cui accesso può giustificarsi ai sensi dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 laddove il richiedente abbia la necessità di “curare e difendere i propri interessi giuridici”. Nei rapporti tra riservatezza e accesso (desumibili sia dal ricordato art. 24 sia dagli artt. 59 e 60 del d.lgs. n. 196/2003 recante il codice in materia di protezione dei dati personali), la prima recede quanto l’accesso alla documentazione sia funzionale alla tutela e alla difesa di propri interessi giuridici.
Nel caso di specie l’esigenza manifestata nella domanda di accesso di garantire l’iscrizione al servizio dei soli operatori autorizzati è già soddisfatta dalla conoscenza dei loro nominativi accompagnati dal numero della licenza mentre non si comprende quale finalità e quale interesse, meritevole di tutela nel bilanciamento tra accesso e riservatezza, sia sottesa alla conoscenza degli indirizzi e dei recapiti telefonici (per lo più numeri di cellulare – cfr. difesa dell’amministrazione).
E’ evidente che la nozione di “cura e difesa di interessi giuridici” di cui al comma 7 dell’art. 24 che consente di superare l’esclusione dal diritto di accesso a documenti riguardanti “la vita privata o la riservatezza di persone fisiche” [comma 5, lettera c), del medesimo articolo] non può essere intesa in senso lato fino a ricomprendere qualsiasi tipo di interesse (non a caso la giurisprudenza con riguardo al comma 7 cit. ha parlato di “accesso defensionale” ossia quello propedeutico alla migliore tutela delle proprie ragioni in un giudizio –già pendente o da introdurre– ovvero nell’ambito di un procedimento amministrativo).
Nel caso di specie l’esigenza di “difendersi dall’accusa di uso improprio della piattaforma virtuale” (cfr. memoria del 14.04.2017) è già garantita dal possesso dell’elenco dei nominativi e del numero di licenza e risulta ultronea e immotivata con riferimento ai recapiti dei titolari di licenza (sicuramente definibili ai sensi del citato codice come dati personali).
Deve, poi, aggiungersi che mentre il servizio offerto dalla ricorrente è gratuito per gli utenti del trasporto, non lo è per i titolari di licenza che oltre a dover prestare il proprio consenso al trattamento dei loro dati personali devono pagare per ogni intermediazione andata a buon fine per il tramite dell’applicazione (cfr. regolamento di funzionamento allegato in atti). In altri termini, l’interesse sotteso alla domanda di accesso sembra effettivamente essere di natura commerciale (come evidenziato dal Comune nel proprio diniego) e non può, comunque, prevalere sul diritto dei terzi alla riservatezza dei loro dati personali.
Del tutto irrilevante, al riguardo, la diversa scelta (come affermato in ricorso) effettuata da altri Comuni di accogliere integralmente analoghe domande di accesso (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 09.05.2017 n. 2463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante.
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005, richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
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Il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l’esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
A tal proposito, è stato chiarito che essere titolari di situazioni giuridicamente tutelate non è condizione sufficiente affinché l’interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto ed attuale", come richiesto dalla ricordata disposizione normativa, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impendendone od ostacolandone il soddisfacimento.
Infatti, l’Ordinamento prevede che l’esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l’accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione.

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In linea generale e con riferimento al tema dell’accesso, si osserva che, anche recentemente, la giurisprudenza ha ribadito che il diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante (per tutte Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55).
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005, richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24, c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ stato ulteriormente precisato che il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l’esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
A tal proposito, è stato chiarito che essere titolari di situazioni giuridicamente tutelate non è condizione sufficiente affinché l’interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto ed attuale", come richiesto dalla ricordata disposizione normativa, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impendendone od ostacolandone il soddisfacimento.
Infatti, l’Ordinamento prevede che l’esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l’accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione (in tal senso, da ultimo, TAR Molise, sez. I, 19.10.2016, n. 424, TAR Lazio, Roma, sez. II, 12.10.2016, n. 10175; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 11.10.2016, n. 4658; id., 30.09.2016, n. 4508; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.03.2016, n. 3364) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 04.05.2017 n. 603 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La parte lesa da un comportamento disciplinarmente rilevante ha un interesse qualificato all’ostensione degli atti del relativo procedimento; rilevano, in proposito, esigenze di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, rinvenibili prima e indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale, rispetto alle quali può essere utile acquisire gli atti dell’istruttoria disciplinare.
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, impone al giudice di accertare se la conoscenza della documentazione amministrativa richiesta è potenzialmente utilizzabile a fini di difesa, giudiziale o stragiudiziale, di interessi giuridicamente rilevanti.
Dunque, l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso, e non anche la ricevibilità, l’ammissibilità o la rilevanza dei documenti richiesti rispetto al giudizio principale, sia esso pendente o meno, purché, in chiave di attualità e pertinenza dell’interessa alla pretesa ostensiva, questi ultimi abbiano una qualche incidenza sulla misura disciplinare..
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe convincersi della correttezza dell'operato dell’Amministrazione e rinunciare all'azione giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.

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Nel caso di specie, gli atti di cui si è negato l’accesso non solo non sono stati posti alla base del procedimento disciplinare, non contribuendo in alcun modo alla formazione della volontà amministrativa, concretizzatasi nel provvedimento emanato all’esito del procedimento; ma, come emerso dalla disposta istruttoria e dal chiarimento in tal senso reso dall’amministrazione resistente in un’ottica di autoresponsabilità e collaborazione processuale, indicati solo in sede di contestazione in quanto afferenti il generale sistema di organizzazione dei rapporti tra docenza e discenza, senza alcuna specifica incidenza sulla vicenda de qua.
Ne consegue che deve escludersi che la ricorrente abbia un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” alla conoscenza di tali atti di carattere pianificatorio-programmatorio [art. 24, 1° co., lett. c), L. 241/1990] e in nessun modo incidenti sullo sviluppo concreto del procedimento disciplinare.
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2.2. Non si può negare che la parte lesa da un comportamento disciplinarmente rilevante abbia un interesse qualificato all’ostensione degli atti del relativo procedimento; rilevano, in proposito, esigenze di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, rinvenibili prima e indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale, rispetto alle quali può essere utile acquisire gli atti dell’istruttoria disciplinare (cfr. Cons. St., sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, impone al giudice di accertare se la conoscenza della documentazione amministrativa richiesta è potenzialmente utilizzabile a fini di difesa, giudiziale o stragiudiziale, di interessi giuridicamente rilevanti. Dunque, l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso, e non anche la ricevibilità, l’ammissibilità o la rilevanza dei documenti richiesti rispetto al giudizio principale, sia esso pendente o meno, purché, in chiave di attualità e pertinenza dell’interessa alla pretesa ostensiva, questi ultimi abbiano una qualche incidenza sulla misura disciplinare. (cfr. Cons. St., sez. III, 13.01.2012, n. 116).
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe convincersi della correttezza dell'operato dell’Amministrazione e rinunciare all'azione giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.
2.3. Orbene, nel caso di specie, gli atti di cui si è negato l’accesso non solo non sono stati posti alla base del procedimento disciplinare, non contribuendo in alcun modo alla formazione della volontà amministrativa, concretizzatasi nel provvedimento emanato all’esito del procedimento; ma, come emerso dalla disposta istruttoria e dal chiarimento in tal senso reso dall’amministrazione resistente in un’ottica di autoresponsabilità e collaborazione processuale, indicati solo in sede di contestazione in quanto afferenti il generale sistema di organizzazione dei rapporti tra docenza e discenza, senza alcuna specifica incidenza sulla vicenda de qua.
Ne consegue che deve escludersi che la ricorrente abbia un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” alla conoscenza di tali atti di carattere pianificatorio-programmatorio [art. 24, 1° co., lett. c), L. 241/1990] e in nessun modo incidenti sullo sviluppo concreto del procedimento disciplinare.
3.1. Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 03.05.2017 n. 2371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINon può disconoscersi in capo allo stesso un palese interesse all'ostensione dei richiesti documenti, la cui conoscenza è obiettivamente strumentale alla tutela di posizioni giuridicamente rilevanti (alla tranquillità domestica, alla integrità della proprietà e al risarcimento dei danni patiti), alle quali gli stessi documenti si correlano direttamente.
Risulta quindi integrato il presupposto dell'art. 22 della legge n. 241 del 1990, il quale individua i soggetti legittimati all'accesso ai documenti amministrativi in tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso.
Inoltre, l'interesse all'accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l’interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo valutarsi la legittimazione all'accesso alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante

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La giurisprudenza ha costantemente ritenuto illegittimo il diniego all'accesso agli atti motivato con esclusivo riferimento alle ragioni contrarie espresse dal soggetto controinteressato, senza ulteriori ragionamenti e controdeduzioni in termini di interesse pubblico, pur meritevoli di considerazione nel bilanciamento dei contrapposti interessi.
Invero, la Pubblica amministrazione non può legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego di accesso agli atti la mancanza del consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che la normativa in materia, lungi dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li riguardino, rimette sempre all'Amministrazione destinataria della richiesta di accesso il potere di valutare la fondatezza dell’istanza, anche se in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai controinteressati.
Sempre nel senso della fondatezza del presente ricorso, ma sotto un diverso punto di vista, occorre richiamare l’avviso pacifico e costante della giurisprudenza secondo cui il diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di riservatezza di terzi quando esso sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna un documento amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza non possa essere altrimenti soddisfatta.
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6. Il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento per le ragioni qui di seguito esposte.
6.1. Con riguardo alla specifica posizione del soggetto qui richiedente l’accesso, non può disconoscersi in capo allo stesso un palese interesse all'ostensione dei richiesti documenti, la cui conoscenza è obiettivamente strumentale alla tutela di posizioni giuridicamente rilevanti (alla tranquillità domestica, alla integrità della proprietà e al risarcimento dei danni patiti), alle quali gli stessi documenti si correlano direttamente.
Risulta quindi integrato il presupposto dell'art. 22 della legge n. 241 del 1990, il quale individua i soggetti legittimati all'accesso ai documenti amministrativi in tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso.
Resta da aggiungere che l'interesse all'accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l’interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo valutarsi la legittimazione all'accesso alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.04.2005, n. 1896; id., sez. IV, 19.03.2001, n. 1621).
6.2. Per contro, deve ritenersi affetta da radicale carenza di motivazione la giustificazione opposta dalla ASL e poggiante sulla posizione di mera contrarietà all’esibizione degli documenti manifestata, in termini del tutto generici e apodittici, dal terzo controinteressato.
Pronunciandosi su ipotesi analoghe a quella qui in esame, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto illegittimo il diniego all'accesso agli atti motivato con esclusivo riferimento alle ragioni contrarie espresse dal soggetto controinteressato, senza ulteriori ragionamenti e controdeduzioni in termini di interesse pubblico, pur meritevoli di considerazione nel bilanciamento dei contrapposti interessi (ex multis TAR Lazio, sez. III, 21.12.2015, n. 14356).
Si è osservato, in tal senso, che la Pubblica amministrazione non può legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego di accesso agli atti la mancanza del consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che la normativa in materia, lungi dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li riguardino, rimette sempre all'Amministrazione destinataria della richiesta di accesso il potere di valutare la fondatezza dell’istanza, anche se in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai controinteressati (TAR Lecce, sez. II, 29.04.2015, n. 1419; TAR Reggio Calabria, sez. I, 16.03.2015, n. 281).
6.3. Sempre nel senso della fondatezza del presente ricorso, ma sotto un diverso punto di vista, occorre richiamare l’avviso pacifico e costante della giurisprudenza secondo cui il diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di riservatezza di terzi quando esso sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna un documento amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza non possa essere altrimenti soddisfatta (Cons. St., Ad. Plen. 02.04.2007, n. 5).
Nel caso in esame possono ritenersi sussistenti tutti i presupposti individuati dalla giurisprudenza, in quanto l'accesso documentale richiesto concerne atti rilevanti e determinanti per la tutela delle posizione giuridica della richiedente, siccome idonei a dimostrare, nella specie, la sussistenza di immissioni moleste nella sua proprietà e la conseguente sussistenza d un pregiudizio meritevole di ristoro.
E questo anche alla luce del disposto dell'art. 24 l. 241/1990, che al comma 7 stabilisce la necessità che sia "... garantita ai richiedenti la visione degli atti dei procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere il loro stessi interessi giuridici... " (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 06.04.2017 n. 460 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 22 della legge n. 241 del 1990:
- nell’individuare i soggetti aventi titolo a prendere visione o estrarre copia dei documenti amministrativi, individua, quali “interessati”, “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento, del quale è richiesto l’accesso”;
- specifica, poi, che per “documento amministrativo” si intende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Per “pubblica amministrazione”, devono, poi, intendersi “tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
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La giurisprudenza ha chiarito che la situazione giuridicamente rilevante disciplinata dalla legge 07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnazione e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; con la conseguenza che la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o possano spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come un bene della vita distinto rispetto all’interesse alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
Conseguenza di tale impostazione è che l’interesse giuridicamente rilevante sia un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso.
Rileva la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i documenti abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti nei suoi confronti.
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L'apprezzamento sulla utilità o meno della documentazione richiesta in ostensione non spetta né all’amministrazione destinataria dell’istanza ostensiva né allo stesso giudice amministrativo adito, bensì al giudice (sia esso amministrativo o ordinario), eventualmente adito dall’interessato, al fine di tutelare l’interesse giuridicamente rilevante sotteso alla domanda di accesso.

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Ciò premesso, al fine di vagliare la fondatezza dell’appello principale e dell’appello incidentale proposto dalla RAI, va evidenziato che l’art. 22 della legge n. 241 del 1990:
   - nell’individuare i soggetti aventi titolo a prendere visione o estrarre copia dei documenti amministrativi, individua, quali “interessati”, “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento, del quale è richiesto l’accesso”;
   - specifica, poi, che per “documento amministrativo” si intende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Per “pubblica amministrazione”, devono, poi, intendersi “tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
La giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, IV, 20.10.2016, n. 5073; VI, 28.01.2013, n. 511) ha chiarito che la situazione giuridicamente rilevante disciplinata dalla legge 07.08.1990, n. 241, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso è nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnazione e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo; con la conseguenza che la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o possano spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come un bene della vita distinto rispetto all’interesse alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
Conseguenza di tale impostazione è che l’interesse giuridicamente rilevante sia un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso.
Rileva la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i documenti abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti nei suoi confronti.
La giurisprudenza ha, inoltre, chiarito che l’apprezzamento sulla utilità o meno della documentazione richiesta in ostensione non spetta né all’amministrazione destinataria dell’istanza ostensiva né allo stesso giudice amministrativo adito, bensì al giudice (sia esso amministrativo o ordinario), eventualmente adito dall’interessato, al fine di tutelare l’interesse giuridicamente rilevante sotteso alla domanda di accesso (Consiglio di Stato, Sez. I, sentenza VI, sentenza 30.03.2017 n. 1453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi fini della configurabilità dell’interesse diretto, concreto ed attuale di cui all’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, è sufficiente il requisito della vicinitas, che sussiste in capo al confinante ma anche al frontista e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con l’edificio o con il terreno.
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Il ricorso è manifestamente fondato.
In primo luogo, come fondatamente argomentato dalla ricorrente, il provvedimento impugnato, laddove genericamente nega l’accesso richiamando il disposto di cui all’art. 3, comma 2, D.P.R. n. 184/2006 (ove si prevede che: “Entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione di cui al comma 1, i controinteressati possono presentare una motivata opposizione, anche per via telematica, alla richiesta di accesso. Decorso tale termine, la pubblica amministrazione provvede sulla richiesta, accertata la ricezione della comunicazione di cui al comma 1”), non consente di comprendere se il controinteressato (Zi.Gu. s.r.l.) abbia o meno proposto opposizione, quale sia stato l’eventuale motivo di opposizione proposto e, soprattutto, quale sia stato l’iter logico ed il percorso argomentativo (con il necessario bilanciamento dei contrapposti interessi) che ha condotto la Provincia di Padova a sacrificare l’interesse all’accesso vantato dalla Sig.ra Em.Ca..
In secondo luogo l’istanza di accesso presentata dalla ricorrente non pare atteggiarsi come una forma di controllo generalizzato sull’attività amministrativa, stante il collegamento fisico-spaziale tra il fondo di proprietà della ricorrente ed i terreni ove sorge l’impianto industriale della Zi.Gu. s.r.l., collegamento che integra il requisito della vicinitas.
Al riguardo il Collegio, sulla base della condivisibile giurisprudenza che già si è pronunciata sul punto (da ultimo ex multis TAR Lazio-Roma, Sez. II, sent. n. 6032/2016; TAR Lazio-Roma, Sez. II, sent. n. 11120/2015; TAR Emilia-Romagna, Sez. Staccata di Parma, Sez. I, sent. n. 91/2014; TAR Campania, Sez. VI, sent. n. 1713/2013) osserva che, ai fini della configurabilità dell’interesse diretto, concreto ed attuale di cui all’art. 22, comma 1, lett. b), L. n. 241/1990, è sufficiente il requisito della vicinitas, che sussiste in capo al confinante ma anche al frontista e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con l’edificio o con il terreno: nel presente caso con l’impianto industriale che è stato oggetto dei procedimenti per il rilascio dell’AIA e per la verifica di assoggettabilità a VIA, procedimenti di cui la ricorrente ha richiesto l’ostensione, inoltre espressamente motivando tale istanza “al fine di tutelare le proprie ragioni in sede giurisdizionale”.
Di conseguenza il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento del provvedimento di diniego impugnato e con condanna della Provincia di Padova a consentire alla ricorrente l’accesso alla documentazione richiesta con l’istanza del 30.09.2016 (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 28.03.2017 n. 314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Deve ritenersi sufficiente, ai fini dell’accesso, a mente dell’art. 22 della legge generale sul procedimento, “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”. Non occorre che sia instaurato, o in via di instaurazione, un giudizio, bastando la dimostrazione del grado di protezione che l’ordinamento accorda alla posizione base, ossia al bene della vita dal quale scaturisce l’interesse ostensivo.
In altri termini, la legittimazione all'accesso agli atti della P.A. va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.

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4.2. Sempre in via generale ed astratta, deve ritenersi sufficiente, ai fini dell’accesso, a mente dell’art. 22 della legge generale sul procedimento, “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”. Non occorre che sia instaurato, o in via di instaurazione, un giudizio, bastando la dimostrazione del grado di protezione che l’ordinamento accorda alla posizione base, ossia al bene della vita dal quale scaturisce l’interesse ostensivo.
In altri termini, la legittimazione all'accesso agli atti della P.A. va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto (in tali termini, da ultimo Cons. Stato Sez. IV, 20.10.2016, n. 4372) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.03.2017 n. 1213 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMeritano accoglimento le critiche mosse alla valutazione del TAR di inammissibilità del ricorso per la sua mancata notifica ad almeno un controinteressato.
Fondatamente è stato fatto notare come la giurisprudenza più recente si sia ormai orientata, in questa materia, nel senso di valorizzare la previsione dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184.
L’articolo dispone che l’Amministrazione cui sia stata indirizzata una richiesta di accesso quando individui dei soggetti controinteressati è tenuta a dare loro comunicazione della proposizione di tale domanda, mettendoli così in condizione di presentare un’eventuale opposizione. L’Amministrazione, in altre parole, già in sede procedimentale deve consentire la partecipazione del soggetto che dall'accoglimento dell’istanza di accesso potrebbe subire un pregiudizio.
E la giurisprudenza da questa previsione ha desunto, appunto, che in sede giurisdizionale non possa essere dichiarato inammissibile per omessa notifica al controinteressato un ricorso per l'accesso allorché, in precedenza, la stessa Amministrazione non avesse ritenuto di consentire, in occasione del proprio procedimento, la partecipazione di coloro che avrebbero potuto subire un pregiudizio dall'accoglimento dell’istanza di trasparenza.
In base a questo condivisibile orientamento, fondato sulla ragionevolezza di un parallelismo tra contraddittorio procedimentale e processuale, quando in sede procedimentale l'estensione del contraddittorio verso i controinteressati sia mancata il ricorso giurisdizionale non notificato ad alcuno di loro non potrebbe quindi essere dichiarato inammissibile, a ciò opponendosi, oltre ad elementari considerazioni di equità, la buona fede dell'impugnante attenutosi alla posizione seguita dall'Amministrazione.
Nella situazione descritta il privato andrebbe pertanto rimesso in termini per poter integrare ab initio il contraddittorio processuale.

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L'art. 22, comma 1, lett. c), della legge n. 241/1990 (come sostituito con la legge n. 15/2005) stabilisce che per "controinteressati" in materia di accesso devono intendersi "tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza".
Prima dell'avvento di tale norma la giurisprudenza tendeva a considerare come controinteressati tutti i soggetti determinati cui -semplicemente- si riferissero i documenti richiesti in accesso.
La novella definizione appena riportata ha però dispiegato un indubbio effetto innovativo, avendo imposto di riconoscere la veste di controinteressato non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza.
Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento.
La veste di controinteressato in tema di accesso è una proiezione, pertanto, del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto.
Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo quelli rispetto ai quali sussista, per la loro inerenza alla personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero discendere da una loro diffusione, una precisa e ben qualificata esigenza di riserbo.
Occorre inoltre aggiungere, sullo specifico versante delle richieste di accesso ad atti riguardanti lo status o comunque la carriera di un dipendente pubblico (ipotesi cui il caso sub judice è, per quanto qui rileva, assimilabile), che la giurisprudenza si è orientata nel senso che in linea di principio non sono configurabili controinteressati in senso tecnico (non potendosi ipotizzare alcuna lesione della loro sfera giuridica nel caso di ostensione degli atti), tranne i casi i cui siano chiesti atti concernenti loro dati sensibili.
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Se può ammettersi (nella fattispecie) che la richiesta di accesso aveva a oggetto molteplici documenti di natura eterogenea e non menzionava le date e gli estremi formali dei singoli atti, non è meno vero, però, che tali elementi non potevano dall’interessato essere forniti, per la semplice ragione che non gli erano noti.
E la giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che, poiché una richiesta di accesso non deve indicare in modo puntuale i documenti, in quanto molto spesso il privato non sa in quali fonti siano contenute le informazioni ricercate, spetta proprio all'Amministrazione individuare i documenti recanti le informazioni richieste.
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La P.A. non può sottrarsi alla richiesta di accesso adducendo che questa non attenga a veri e propri “atti amministrativi”, dal momento che la portata dell’istituto in rilievo non ricomprende solo questi ultimi, ma, come si desume dall’art. 22 della legge n. 241/1990, si sostanzia più ampiamente nel “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”, i quali a loro volta s’identificano “in ogni rappresentazione … del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione (n.d.r.: nell’ampia accezione appena vista) e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
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4 L’appello è fondato.
5 Meritano accoglimento, innanzitutto, le critiche mosse alla valutazione del TAR di inammissibilità del ricorso per la sua mancata notifica ad almeno un controinteressato.
5a Fondatamente è stato fatto notare come la giurisprudenza più recente si sia ormai orientata, in questa materia, nel senso di valorizzare la previsione dell'art. 3 del d.P.R. 12.04.2006, n. 184.
L’articolo dispone che l’Amministrazione cui sia stata indirizzata una richiesta di accesso quando individui dei soggetti controinteressati è tenuta a dare loro comunicazione della proposizione di tale domanda, mettendoli così in condizione di presentare un’eventuale opposizione. L’Amministrazione, in altre parole, già in sede procedimentale deve consentire la partecipazione del soggetto che dall'accoglimento dell’istanza di accesso potrebbe subire un pregiudizio.
E la giurisprudenza da questa previsione ha desunto, appunto, che in sede giurisdizionale non possa essere dichiarato inammissibile per omessa notifica al controinteressato un ricorso per l'accesso allorché, in precedenza, la stessa Amministrazione non avesse ritenuto di consentire, in occasione del proprio procedimento, la partecipazione di coloro che avrebbero potuto subire un pregiudizio dall'accoglimento dell’istanza di trasparenza (C.d.S., Sez. VI, 08.02.2012, n. 677; VI, 30.07.2010, n. 5062; IV, 26.08.2014, n. 4308; 16.05.2011, n. 2968).
In base a questo condivisibile orientamento, fondato sulla ragionevolezza di un parallelismo tra contraddittorio procedimentale e processuale, quando in sede procedimentale l'estensione del contraddittorio verso i controinteressati sia mancata il ricorso giurisdizionale non notificato ad alcuno di loro non potrebbe quindi essere dichiarato inammissibile, a ciò opponendosi, oltre ad elementari considerazioni di equità, la buona fede dell'impugnante attenutosi alla posizione seguita dall'Amministrazione.
Nella situazione descritta il privato andrebbe pertanto rimesso in termini per poter integrare ab initio il contraddittorio processuale.
5b Ancora più importante è però osservare con la parte ricorrente che in radice, nella fattispecie, non emergevano elementi sufficienti a far assurgere alla qualità di controinteressati in senso tecnico i tre colleghi del ricorrente cui l’istanza ostensiva si riferiva.
5b1 L'art. 22, comma 1, lett. c), della legge n. 241/1990 (come sostituito con la legge n. 15/2005) stabilisce che per "controinteressati" in materia di accesso devono intendersi "tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza".
Prima dell'avvento di tale norma la giurisprudenza tendeva a considerare come controinteressati tutti i soggetti determinati cui -semplicemente- si riferissero i documenti richiesti in accesso (C.d.S., V, 02.12.1998, n. 1725; VI, 08.07.1997, n. 1117; IV, 11.06.1997, n. 643; Ad.Pl., n. 16 del 1999).
La novella definizione appena riportata ha però dispiegato un indubbio effetto innovativo, avendo imposto di riconoscere la veste di controinteressato (cfr. sul punto C.d.S., VI, n. 3601 del 2007) non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza.
Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento.
La veste di controinteressato in tema di accesso è una proiezione, pertanto, del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto (cfr. C.d.S., V, 27.05.2011, n. 3190; IV, 26.08.2014, n. 4308).
Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo quelli rispetto ai quali sussista, per la loro inerenza alla personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero discendere da una loro diffusione, una precisa e ben qualificata esigenza di riserbo.
Occorre inoltre aggiungere, sullo specifico versante delle richieste di accesso ad atti riguardanti lo status o comunque la carriera di un dipendente pubblico (ipotesi cui il caso sub judice è, per quanto qui rileva, assimilabile), che la giurisprudenza si è orientata nel senso che in linea di principio non sono configurabili controinteressati in senso tecnico (non potendosi ipotizzare alcuna lesione della loro sfera giuridica nel caso di ostensione degli atti), tranne i casi i cui siano chiesti atti concernenti loro dati sensibili (in termini C.d.S., V, 17.03.2015, n. 1370; v. inoltre IV, 14.04.2010, n. 2093).
5b2 Il Collegio, una volta posti questi criteri, deve ricordare che la richiesta ostensiva in esame nella parte esorbitante dalla specifica sfera del ricorrente concerneva, con il verbale di riunione sindacale del 15/02/2008 e i relativi allegati, gli atti d’inquadramento contrattuale e professionale dei tre dipendenti della società nominativamente indicati in atti (mentre, infatti, alla richiesta dell’interessato del livello superiore la società aveva opposto la carenza dei requisiti previsti dall’accordo appena detto, ai suoi suddetti colleghi il riconoscimento era stato invece accordato).
Va altresì rilevato che il diniego d’accesso in contestazione lasciava intendere solo in maniera del tutto vaga e generica che la documentazione richiesta avrebbe contemplato informazioni “ricadenti nelle tutele di cui alla legge 30.06.2003, n. 196”, senza permettere in alcun modo di comprendere gli eventuali pregiudizi che l’ostensione avrebbe potuto in tesi provocare.
Poiché, inoltre, l’accesso richiesto avrebbe dovuto riguardare la titolarità, da parte dei supposti controinteressati, dei requisiti previsti dall’accordo sindacale del 15/02/2008, la mancata precisazione da parte della Re. del contenuto di tali requisiti ha continuato ad impedire, anche nel corso del giudizio, l’accertamento dell’ipotetico carattere sensibile dei dati cui si sarebbe trattato di dare accesso.
5b3 Per quanto esposto, dunque, poiché l’appellata non ha fornito nemmeno in sede contenziosa elementi idonei a giustificare il proprio assunto circa l’esistenza di posizioni di controinteresse all’accesso, questa corrispondente prima articolazione dell’appello merita accoglimento. Senza dire che, marginale essendo l’incidenza, sull’oggetto della domanda ostensiva, degli atti riguardanti dei terzi soggetti determinati, il presunto vizio attinente al contraddittorio non avrebbe potuto comunque inficiare che in minima parte la richiesta del sig. Ad..
5b4 Ai fini di un corretto indirizzo dell’azione dell’appellata il Collegio deve rammentare, infine, la previsione dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990, il quale stabilisce che “Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196 , in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.”
La difesa del ricorrente, invero, fondatamente ha rivendicato, oltre che la propria titolarità di un interesse diretto, concreto e attuale corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e connessa ai documenti richiesti, anche l’applicabilità in proprio favore della norma appena citata, i presupposti della quale ben possono rinvenirsi nella necessità dell’accesso, per lo stesso interessato, per perseguire il desiderato livello superiore, oppure l’attivazione dei mezzi di reazione consentiti dall’ordinamento avverso ipotetiche disparità di trattamento patite sul punto.
6 Con l’appello in esame è stato sottoposto altrettanto correttamente a critica il secondo capo della sentenza impugnata, che ha ricondotto l’inammissibilità del ricorso introduttivo, in pari tempo, a una presunta genericità e indeterminatezza dell’oggetto della pretesa dell’interessato.
Avverso l’apodittica conclusione del TAR il ricorrente ha fondatamente evidenziato, in sintesi: per un verso, che la propria richiesta di accesso s’inscriveva nella vicenda che lo aveva appena visto chiedere alla Re. l’inquadramento nel livello superiore ma ottenere una risposta negativa; per altro verso, che esisteva una qualificata corrispondenza fra l’oggetto della sua domanda di accesso, da un lato, e la motivazione del precedente rigetto della sua richiesta del livello superiore, dall’altro: la prima s’incentrava fondamentalmente, infatti, sui punti, poco prima posti dalla società a base del proprio rigetto, degli accertamenti eseguiti dalla Re. presso l'Ente Fruitore, e dei requisiti di cui all’accordo sindacale del 15.02.2008 (cfr. gli allegati dell’appello B9 e B10).
Il Collegio non può pertanto condividere la valutazione del primo Giudice circa la strumentalità dell’accesso in discorso rispetto a “un controllo generalizzato sull’operato della società intimata”, in quanto la domanda di accesso costituiva invece una chiara espressione della pretesa sostanziale che l’interessato aveva già fatto valere nei confronti del proprio datore di lavoro.
Altrettanto recisamente il Collegio deve però escludere che la sentenza impugnata possa trovare giustificazione in una pretesa genericità e indeterminatezza dell’oggetto della pretesa ostensiva.
Se può ammettersi, infatti, che la richiesta aveva a oggetto molteplici documenti di natura eterogenea e non menzionava le date e gli estremi formali dei singoli atti, non è meno vero, però, che tali elementi non potevano dall’interessato essere forniti, per la semplice ragione che non gli erano noti. E la giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che, poiché una richiesta di accesso non deve indicare in modo puntuale i documenti, in quanto molto spesso il privato non sa in quali fonti siano contenute le informazioni ricercate, spetta proprio all'Amministrazione individuare i documenti recanti le informazioni richieste (C.d.S., V, 27.05.2011, n. 3190, e ulteriori citazioni ivi).
Non vi è dubbio, d’altra parte, che i documenti richiesti in ostensione fossero, in concreto, agevolmente individuabili dalla società appellata, anche perché già da essa direttamente o indirettamente richiamati all’atto del proprio rifiuto dell’inquadramento richiesto dal ricorrente, o comunque strettamente connessi alla relativa sua decisione.
Ne consegue che l’appello merita accoglimento anche sotto questo profilo.
7 Nemmeno le ulteriori obiezioni riproposte qui dall’appellata avverso la pretesa ostensiva del dipendente possono trovare adesione.
7a E’ il caso, in primo luogo, dell’assunto secondo il quale la soc. Re. non rientrerebbe fra i soggetti tenuti a riconoscere la garanzia del diritto di accesso ai sensi della legge n. 241/1990.
Deve subito ricordarsi che ai fini dell’applicazione del diritto di accesso per “PubblicaAmministrazione” s’intendono, giusta l’art. 22, comma 1, lett. e), della legge ult. cit., non soltanto i soggetti di diritto pubblico, ma anche quelli di diritto privato, sia pure “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.
Va inoltre rammentato, con riferimento alla specifica condizione giuridica della parte appellata, che la soc. Re. risulta collocarsi in un sistema disciplinato inizialmente dall’art. 1 (“Interventi per la razionalizzazione delle partecipazioni regionali”) della L.R. 18.02.1986 n. 7, il quale, abrogando l’art. 2 della precedente L.R. 11.04.1981, n. 54, già prevedeva in sintesi quanto segue:
   - il personale dipendente dalle società costituite dall’EMS e dall’AZASI è trasferito alla società costituita dall’ESPI con il trattamento economico previsto dal contratto di lavoro vigente presso la società medesima;
   - tutto il personale dipendente dalla predetta società resterà in carico alla società stessa fino al raggiungimento dell’età minima pensionabile ;
   - il personale, durante il periodo di permanenza presso la società, è utilizzato “da enti o da organizzazioni locali a carattere pubblico, ovvero dalla Regione direttamente o mediante assegnazione agli enti locali per lo svolgimento di funzioni regionali decentrate nonché per lo svolgimento di servizi socialmente utili o per la frequenza di corsi di qualificazione”.
Più di recente, la L.R. 20.01.1999 n. 5 (“Soppressione e liquidazione degli Enti Economici Regionali AZASI, EMS, ESPI”), all’art. 8, ha disposto poi il trasferimento del personale dipendente degli enti economici regionali AZASI, EMS ed ESPI e delle società a totale partecipazione dagli stessi controllate, residuato e ancora in servizio, nel rispetto delle anzianità maturate e del trattamento normativo e contrattuale posseduto, in un’apposita area speciale transitoria ad esaurimento istituita presso la Re. s.p.a.. Ed è incontestato che l’interessato sia transitato alla Re. proprio in applicazione di quest’ultima disposizione.
Da quanto precede si desume, allora, che la società appellata è stata prevista e costituita sulla base di apposite leggi regionali con lo scopo di prendere in carico i dipendenti di enti soppressi, e delle società dagli stessi controllate, che non trovavano collocazione nei processi produttivi, per destinarli presso delle Pubbliche amministrazioni. Il legislatore regionale ha reputato dunque di pubblico interesse proprio il fatto del mantenimento in servizio del personale interessato alle dipendenze della società in rilievo.
Coerente con questi elementi è l’allegazione di parte ricorrente, cui l’appellata non ha controdedotto, secondo la quale la società Re. sarebbe iscritta nell’elenco delle Amministrazioni Pubbliche inserite nel conto economico consolidato ai sensi dell’art. 1 della legge n. 196 del 2009.
In definitiva, risulta pertanto che la società appellata sia stata costituita in forza della legislazione regionale, e a carico della finanza pubblica, per l’assolvimento dell’attività, reputata di pubblico interesse, consistente nel mantenimento in condizioni di occupazione del personale sopra indicato, e nella strumentale gestione delle relative risorse umane. Da qui la conseguenza della non condivisibilità dell’immotivato assunto difensivo della Re. che l’attività da essa svolta non sarebbe stata di pubblico interesse, dovendo invece concludersi che l’attività di gestione del personale interessato, condotta, per quanto detto, proprio nell’interesse pubblico, non possa andare esente dalla soggezione all’istituto dell’accesso, che concorre ad assicurarne la necessaria imparzialità e trasparenza.
7b Né l’appellata poteva sottrarsi alla richiesta di accesso adducendo che questa non atteneva a veri e propri “atti amministrativi”, dal momento che la portata dell’istituto in rilievo non ricomprende solo questi ultimi, ma, come si desume dall’art. 22 della legge n. 241/1990, si sostanzia più ampiamente nel “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”, i quali a loro volta s’identificano “in ogni rappresentazione … del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione (n.d.r.: nell’ampia accezione appena vista) e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
8 Le considerazioni complessivamente esposte denotano la fondatezza dell’appello e comportano il suo accoglimento, con l’assorbimento delle censure non espressamente vagliate.
In riforma della sentenza impugnata l’originario ricorso introduttivo deve perciò essere accolto, con le conseguenti statuizioni (CGARS, sentenza 16.03.2017 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAnche recentemente, la giurisprudenza ha ribadito che il diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi.
Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante.
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005, richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24 c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ stato ulteriormente precisato che il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l’esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
A tal proposito, è stato chiarito che essere titolari di situazioni giuridicamente tutelate non è condizione sufficiente affinché l’interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto ed attuale", come richiesto dalla ricordata disposizione normativa, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impendendone od ostacolandone il soddisfacimento.
Infatti, l’Ordinamento prevede che l’esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l’accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione.

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E’ necessario, in via preliminare, chiarire che il presente giudizio attiene esclusivamente alla verifica della legittimità (o meno) del diniego di accesso opposto dalla ATS Brescia, restando ovviamente estranee al giudizio tutte le questioni di merito (relative, cioè, al contenuto delle segnalazioni effettuate dal ricorrente) sulle quali il ricorrente si dilunga negli atti introduttivi dei ricorsi e nelle successive memorie difensive.
Tanto chiarito, in linea generale e con riferimento al tema dell’accesso, si osserva che, anche recentemente, la giurisprudenza ha ribadito che il diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdotto dalla legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm., costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi. Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante (per tutte Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55).
In particolare, ai fini dell’accesso ai documenti amministrativi, l’art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990, come modificata dalla legge n. 15 del 2005, richiede la titolarità di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”; il successivo comma terzo stabilisce che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili ad eccezione di quelli indicati all'art. 24 c. 1, 2, 3, 5 e 6”; il successivo art. 24, al comma 7, precisa che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
E’ stato ulteriormente precisato che il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l’esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo. A tal proposito, è stato chiarito che essere titolari di situazioni giuridicamente tutelate non è condizione sufficiente affinché l’interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto ed attuale", come richiesto dalla ricordata disposizione normativa, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impendendone od ostacolandone il soddisfacimento. Infatti, l’Ordinamento prevede che l’esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l’accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti dell’Amministrazione (in tal senso, da ultimo, TAR Molise, sez. I, 19.10.2016, n. 424, TAR Lazio, Roma, sez. II, 12.10.2016, n. 10175; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 11.10.2016, n. 4658; id., 30.09.2016, n. 4508; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.03.2016, n. 3364).
Ebbene, nel caso in esame -a prescindere da ogni altra valutazione in ordine alla natura degli atti di cui si discute (ovvero se assunti o meno nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria)- il ricorrente non è titolare di un interesse diretto, concreto ed attuale nei termini sopra precisati.
Invero, dal provvedimento di diniego parziale -impugnato con il ricorso sub R.G. 943/2016- emerge che due dei tre verbali (rispettivamente, quello di data 07.01.2016 e quello di data 02.02.2016), in relazione ai quali l’accesso è stato fin da subito negato, sono relativi a sopralluoghi effettuati per verificare la conformità alle norme di igiene e sicurezza sul lavoro nell’ambito delle attività in essere; è, altresì, specificato che entrambi gli accessi sono propedeutici a provvedimenti prescrittivi di Polizia Giudiziaria ai sensi del D.Lgs. n. 758/1994; quanto al terzo verbale (quello del 25.2.2016, anch’esso negato fin da subito), si specifica che trattasi di sopralluogo “eseguito da operatori P.S.A.L./U.P.G. congiuntamente ad operatori della Direzione territoriale del Lavoro di Brescia. Agli atti si dispone di 4 verbali redatti nei confronti di 4 diverse imprese, su carta intestata dell’ufficio Ispezioni del Lavoro della D.T.L. A seguito di questi accertamenti sono generati i verbali di contravvenzione e prescrizione ex D.Lgs. n. 758/1994”.
Dunque, dallo stesso tenore del diniego parziale risulta che i sopralluoghi in questione non attengono ad aspetti o problematiche di carattere ambientale riscontrate nel cantiere (con conseguente inapplicabilità della relativa disciplina in tema di accesso ai documenti), ma essenzialmente a verifiche in ordine al rispetto della normativa sull’igiene e sulla sicurezza del lavoro, in relazione alla quale il ricorrente non vanta alcun interesse diretto e concreto che possa qualificare e differenziare la sua posizione ai fini di ottenere l’ostensione dei relativi documenti.
Dunque, il diniego di accesso ai detti verbali opposto dall’Amministrazione resistente è legittimo e, conseguentemente, il ricorso sub R.G. n. 943/2016 è infondato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.01.2017 n. 59 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
Dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso.
L’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”.
Dunque la legittimazione all’accesso va quindi riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
Le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”.
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La pretesa ostensiva dei ricorrenti è degna di rilievo ed apprezzamento, nei limiti di seguito precisati;
   - in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di riservatezza di soggetti terzi;
   - deve essere in buona sostanza garantito agli interessati l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art. 24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto di difesa è garantito a livello costituzionale;
   - la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno di tutela di situazioni giuridicamente apprezzabili che si assumano lese;
   - l’interesse all’accesso ai documenti deve essere in particolare valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda (o della posizione) giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente avanzare sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante;
   - l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
   - nella fattispecie appare chiara la correlazione tra l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva sottostante, ovvero di un collegamento funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del documento richiesto, in quanto questo possa assumere rilievo ai fini della cura e tutela della situazione giuridica soggettiva;
   -  infatti, la divulgazione degli atti richiesti è necessaria per i ricorrenti, in quanto la loro piena conoscenza può orientare le rispettive scelte difensive nel giudizio civile nel quale sono chiamati a rispondere dei danni provocati.
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Evidenziato:
   - che il thema decidendum può essere affrontato a prescindere dall’ultimo deposito della parte resistente (note d’udienza e documenti del 22/02/2017), alla cui ammissione si è opposta la parte ricorrente in Camera di consiglio;
   - che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
   - che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso;
   - che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”;
   - che dunque la legittimazione all’accesso va quindi riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto (Consiglio di Stato, sez. III – 19/02/2016 n. 696);
   - che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”;
Tenuto conto:
   - che nel merito, in virtù degli elementi esposti negli atti di causa, la pretesa ostensiva dei ricorrenti è degna di rilievo ed apprezzamento, nei limiti che saranno di seguito precisati;
   - che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di Stato, ad. plenaria – 04/02/1997 n. 5);
   - che deve essere in buona sostanza garantito agli interessati l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art. 24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto di difesa è garantito a livello costituzionale;
   - che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno di tutela di situazioni giuridicamente apprezzabili che si assumano lese;
   - che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere in particolare valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda (o della posizione) giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente avanzare sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (Consiglio di Stato, sez. V – 20/01/2015 n. 166);
   - che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
   - che nella fattispecie appare chiara la correlazione tra l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva sottostante, ovvero di un collegamento funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del documento richiesto, in quanto questo possa assumere rilievo ai fini della cura e tutela della situazione giuridica soggettiva (cfr. in proposito TAR Campania Napoli, sez. VI – 29/06/2016 n. 3287);
   - che, infatti, la divulgazione degli atti richiesti è necessaria per i ricorrenti, in quanto la loro piena conoscenza può orientare le rispettive scelte difensive nel giudizio civile nel quale sono chiamati a rispondere dei danni provocati
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2017 n. 279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
La questione va risolta in senso opposto rispetto a quanto auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di condividere l’orientamento seguito da recente giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta".
La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti>>.
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Non sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese dall’amministrazione a fondamento della impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali”.
In conclusione, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
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... per l'annullamento della determinazione del responsabile del settore tecnico del Comune di Mercogliano n. 416 del 03/12/2015 avente ad oggetto "annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e conseguenti", della comunicazione di avvio del procedimento del 24.03.2015, nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguente.
...
I. Il ricorso è infondato.
II. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente lamenta, in primis, la contraddittorietà del comportamento dell’Amministrazione, dopo aver certificato, in data 21.02.2005, la zona interessata dall’intervento non risulta assoggettata ad alcun vincolo, successivamente, nella comunicazione di avvio del procedimento del 24.03.2015, afferma che l’area è parzialmente vincolata.
Il rilievo non è in grado di inficiare la legittimità dell’atto impugnato, già per il fatto che il vizio denunciato non si attaglia ad attività, come nel caso di specie, di natura vincolata, dovendosi inferire la necessità della previa autorizzazione paesaggistica dalla mera presenza del relativo vincolo, senza che residuino margini di apprezzamento discrezionale che possano consentire di obliterarne la rilevanza. Vi è da dire che tale circostanza non è contraddetta in ricorso e neppure può ritenersi superata da una erronea certificazione rilasciata in passato dall’Amministrazione comunale. Va da sé che l’atto certificativo ha natura ed effetti dichiarativi e pertanto non sottende alcun elemento volontaristico in grado di contraddire le successive determinazioni dell’Amministrazione.
Invero, il fulcro delle deduzioni di parte ricorrente investe la natura dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto condizione di efficacia invece che di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Orbene, la questione, avente rilievo centrale nell’economia del ricorso, va risolta in senso opposto rispetto a quanto auspicato dalla ricorrente, ritenendo il Collegio di condividere l’orientamento seguito da recente giurisprudenza, nei termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative". La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti
>>.
Il motivo in esame è quindi infondato.
III. Nemmeno persuade il secondo mezzo, col quale si lamenta che il Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione repressiva del precedente titolo edilizio.
A tal riguardo parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio ex art. 9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio a carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere congruamente giustificato attraverso una valutazione comparativa degli interessi in conflitto, della quale occorrerebbe dar conto nella quadro motivazionale del provvedimento.
Peraltro, si osserva in ricorso che la mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento della ricorrente e che, nel corso del tempo, si sono susseguiti diversi titoli edilizi, senza che mai sia stata evidenziata dai tecnici comunali la presenza del vincolo sull’area (permesso di costruire numero 17/2006; variante della 19.12.2006; Dia n. 17/07 riguardante sistemazione aree esterne; dia n. 98/07 riguardante modifiche interne cambio di destinazione d’uso; dia numero 1/08 riguardante zona EUROSPIN.
Orbene, a parere del Collegio, non sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese dall’amministrazione a fondamento della impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali” (cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105; idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015, n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate, stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439).
In conclusione, atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio (Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n. 4610), come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
IV. Tanto premesso, il ricorso è del tutto infondato e pertanto va respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.05.2017 n. 901 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla natura dell’autorizzazione paesaggistica: quale condizione di efficacia anziché di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non potrebbe sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro??
Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia.
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative".
La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti.

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Atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio, come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
Si osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall'essere iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa”.

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... per l'annullamento della determinazione del Responsabile del V Settore – Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 – Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante "annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
...
II. Non coglie nel segno il secondo mezzo, col quale si lamenta la mancata prospettazione, in sede motivazionale, dell’interesse pubblico sotteso all’atto impugnato e che sarebbe comunque, a parere del ricorrente, insussistente.
Devesi infatti rilevare che non solo il compendio motivazionale è esaustivo sul punto, ma sono le stesse ragioni a fondamento dell’atto impugnato a denotare la sussistenza del necessario profilo di interesse pubblico, alla luce della natura dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto condizione di efficacia invece che di validità del titolo edilizio, di guisa che la sua mancanza non può non sorreggere un provvedimento di auto-annullamento, che appunto postula l’illegittimità dell’atto oggetto di ritiro.
Ritiene, infatti, il Collegio di condividere l’orientamento coltivato da recente giurisprudenza, che si esprime nei termini che seguono: <<Una pluralità di argomenti, di carattere testuale-normativo, oltreché riconducibili ad ovvie ragioni di economia del procedimento, depongono a favore della tesi secondo cui l'autorizzazione paesaggistica è una condizione di validità del permesso di costruire e non di mera efficacia:
   - in primo luogo, l'art. 146, D.Lgs. n. 42 del 2004 qualifica l'autorizzazione paesaggistica atto "autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico".
Il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e titolo edilizio, afferma la giurisprudenza, si sostanzia in un "rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche ed urbanistiche", nel senso che questi due apprezzamenti si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma con diversi e separati procedimenti, l'uno nei termini della compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto e l'altro nei termini della sua conformità urbanistico-edilizia (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8260; 21/08/2013, n. 4234).
Questo nesso di presupposizione tra i due autonomi provvedimenti autorizzatori implica, quindi, che il rilascio del titolo paesaggistico debba precedere il rilascio del titolo edilizio.
Da ciò consegue, ad avviso del Collegio, l'illegittimità, e non solo la mera inefficacia, di un titolo edilizio rilasciato in mancanza dell'autorizzazione paesaggistica, atto che, per espressa previsione normativa, è ad esso legato da un rapporto di necessaria presupposizione.
Né tale conclusione va in alcun modo ad intaccare l'autonomia dei due provvedimenti, non sussistendo oltretutto, nell'ipotesi in cui un titolo edilizio sia stato rilasciato in mancanza della previa autorizzazione paesaggistica, alcun rischio di elusione del termine decadenziale di impugnazione degli atti (rischio che sussiste solo nelle diverse fattispecie in cui, in sede di impugnazione del solo permesso di costruire, vengano fatti valere i vizi di un'autorizzazione paesaggistica che non sia stata tempestivamente gravata).
L'autonomia dei due atti non è, invero, incisa ove si ritenga che uno di essi non sia legittimamente emanato se non previa adozione dell'atto presupposto. D'altro canto, è il legislatore ad avere espressamente previsto, accanto all'autonomia dei due provvedimenti, un rapporto di presupposizione tra di essi;
   - l'art. 5 D.P.R. n. 380 del 2001 afferma espressamente che gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistica sono condizione per "il rilascio del permesso di costruire" (il comma 1-bis fa carico lo sportello unico per l'edilizia di acquisire presso le amministrazioni competenti -anche mediante conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241- gli atti di assenso, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità; il comma 3 ai sensi del quale, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo sportello unico per l'edilizia acquisisce direttamente o tramite conferenza di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter,14-quater e 14-quinquies della L. 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni, gli atti di assenso, comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio tra i quali "gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, fermo restando che, in caso di dissenso manifestato dall'amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali, si procede ai sensi del medesimo codice");
   - l'art. 20, c. 9, D.P.R. n. 380 del 2001 condiziona il rilascio del permesso di costruire al previo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, disponendo che, per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, nel caso in cui l'autorità preposta al vincolo neghi il proprio assenso, "decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta". La norma prevede il perfezionarsi di un provvedimento tacito di diniego: non vi è, dunque, alcuno spazio per il rilascio di un titolo abilitativo, sia pur inefficace;
   - e poi, ancora, l'articolo 22, c. 6, D.P.R. n. 380 del 2001 consente la realizzazione di interventi soggetti a denuncia di inizio attività che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale solo subordinatamente "al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative".
 La disposizione va coordinata con l'art. 23, c. 3 e 4, D.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale "nel caso dei vincoli e delle materie oggetto dell'esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1 decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Ove tale atto non sia favorevole, la denuncia è priva di effetti
>>.
Nemmeno persuade quanto ulteriormente dedotto nel senso che il Comune di Mercogliano sarebbe incorso in difetto di motivazione, non avendo rappresentato il necessario profilo di interesse pubblico idoneo a suffragare la determinazione repressiva dei precedenti titoli edilizi.
A tal riguardo parte ricorrente evidenzia che l’amministrazione avrebbe del tutto indebitamente discorso di interesse pubblico in re ipsa, sulla base del rilievo costituzionale del paesaggio ex art. 9, comma 2 Cost., atteso che l’annullamento d’ufficio ha carattere discrezionale e pertanto deve comunque essere congruamente giustificato attraverso una valutazione comparativa degli interessi in conflitto, della quale occorrerebbe dar conto nel quadro motivazionale del provvedimento. Peraltro, si osserva in ricorso che la mancata evidenziazione del vincolo paesaggistico esistente sull’area non è in alcun modo riconducibile al comportamento della ricorrente e che l’edificio è da tempo utilizzato da due medie strutture di vendita cosicché l’annullamento dei titoli edilizi avrebbe effetti pregiudizievoli anche sul piano occupazionale.
Orbene, a parere del Collegio, non sussiste la denunciata violazione dell’articolo 21-nonies della L. n. 241/1990, dovendosi condividere le prospettazioni rese dall’Amministrazione a fondamento della impugnata determinazione in ordine alla prevalenza del bene giuridico sotteso alla tutela ambientale rispetto a quello, nel caso di specie antagonista, alla conservazione del provvedimento e dei suoi effetti abilitativi.
Va infatti rilevato che la constatata deviazione dal modello legale, che impone l’apprezzamento della compatibilità ambientale dell’opera prima del rilascio del titolo edilizio, ha una ricaduta esiziale, come sopra evidenziato, sulla legittimità del titolo stesso, di guisa che la sua espunzione dal mondo giuridico risulta ineluttabile, pena il sacrificio di un valore costituzionale, quello del paesaggio, che, come puntualmente evidenziato in giurisprudenza, “assurge(nte) a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali” (cfr. TAR Napoli, sez. VII, 05.01.2017, n. 105; idem, sez. VII 21.04.2016 n. 2023; idem, 23.06.2015, n. 3319, che richiama quanto affermato dalla Consulta, nel senso che la demolizione si impone, nelle zone vincolate, stante la "straordinaria importanza della tutela "reale" dei beni paesaggistici ed ambientali" (cfr., C. Cost. ord.za 12/20.12.2007 nr. 439).
Atteso il rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2 cost., sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio (Consiglio di Stato sez. V 27.08.2012 n. 4610), come quindi esattamente rilevato nella motivazione del provvedimento odiernamente impugnato in uno alla parimenti evidenziata insussistenza dei presupposti applicativi dell’accertamento di compatibilità ex art. 167 del decreto legislativo n. 42/2004.
Nemmeno può condividersi quanto dedotto a proposito della pretesa compatibilità del manufatto con il vincolo paesaggistico insistente sull’area, trattandosi di un contesto edificato ed urbanizzato in relazione alle caratteristiche del Vallone Acqualeggia. I rilievi sollevati non sono favorevolmente apprezzabili, in quanto impingono in valutazioni discrezionali che pertengono alle Autorità preposte alla gestione del vincolo e che sono state, nel caso di specie, del tutto pretermesse.
Si osserva, peraltro, in giurisprudenza che “In ragione dell'indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall'essere iscritta dall'art. 9 della Costituzione tra i principi fondamentali della Repubblica, l'Amministrazione competente alla gestione del vincolo paesaggistico è chiamata ad esercitare valutazioni proprie della discrezionalità tecnica caratterizzata dal perseguimento di un unico interesse, e non può legittimamente svolgere quell'attività di comparazione e di bilanciamento dell'interesse affidato alla sua cura (la tutela del paesaggio) con interessi di altra natura e spettanza che è propria della discrezionalità amministrativa” (cfr. TAR Venezia, sez. II. 26.01.2017, n. 93).
Il motivo in esame è quindi infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAUna interpretazione sistematica di quanto previsto dall’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 porta a concludere che le opere a scomputo, ai fini del calcolo di un eventuale conguaglio con gli oneri di urbanizzazione, debbano, come fatto dall’amministrazione, essere valorizzate al costo effettivo, tenendo conto di eventuali ribassi d’asta ottenuti in gara.
Sicché, i risparmi di spesa derivanti dal ribasso ottenuto in asta per la realizzazione delle opere a scomputo incidono sulla valorizzazione delle stesse nell’ambito dei rapporti tra amministrazione e soggetto attuatore.

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E’ oggetto del giudizio il corretto criterio di calcolo del valore delle opere da realizzarsi a scomputo di oneri di urbanizzazione, sotto il duplice profilo dell’interpretazione dell’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 e del significato delle clausole della convenzione in essere tra le parti.
Quanto al primo aspetto recitano gli artt. 16, commi 2 e 2-bis, del d.p.r. n. 380/2001, come oggi vigenti: “1.…. A scomputo totale o parziale della quota (ndr di oneri di urbanizzazione) dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune.
2-bis. Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163
.”
Trattasi di due commi inseriti nel d.p.r. n. 380/2001, rispettivamente, dal d.lgs. n. 301/2002 e dall’art. 45 del d.l. n. 201 del 06.12.2011, che, al di là del mancato coordinamento con la legislazione sopravvenuta in materia di appalti (tanto la l. n. 109/1994 che il d.lgs. n. 163/2006 sono stati abrogati) raccordano la disciplina degli oneri di urbanizzazione a scomputo con quella dell’evidenza pubblica.
Deve premettersi che la convenzione urbanistica oggetto del presente procedimento è datata 22.11.2011 dunque, all’epoca della sua sottoscrizione, era già vigente il comma 2 citato, non il comma 2-bis.
La materia, dal punto di vista dell’evidenza pubblica, è attualmente disciplinata dall’art. 1, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 50/2016 che prevede genericamente che le disposizioni del nuovo codice dei contratti si applichino anche all’aggiudicazione dei contratti di “e) lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 e dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150 ovvero eseguono le relative opere in regime di convenzione.” Ancora, sempre il d.lgs. n. 50/2016, art. 36, comma 3, prevede, dopo il correttivo di cui al d.lgs. n. 56/2017, che “per l'affidamento dei lavori pubblici di cui all'articolo 1, comma 2, lettera e), del presente codice, relativi alle opere di urbanizzazione a scomputo per gli importi inferiori a quelli di cui all'articolo 35, si applicano le previsioni di cui al comma 2.”
A sua volta il citato comma 2 individua le tipologie di procedura (affidamento diretto, procedura negoziata previa consultazione di almeno dieci operatori, procedura negoziata previa consultazione di almeno quindici operatori, procedure ordinarie) ammesse per i lavori sottosoglia.
Posto che ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 50/2016 per “stazioni appaltanti” devono intendersi anche i privati tenuti all’osservanza della disciplina del nuovo codice degli appalti, si deve evidentemente intendere che gli obblighi di evidenza pubblica descritti dal nuovo codice dei contratti in materia di oneri a scomputo, quantomeno sottosoglia, gravino sul privato, come previsto dall’art. 16 del d.lgs. n. 380/2001.
Le citate disposizioni rappresentano l’approdo di un tormentato percorso normativo e giurisprudenziale.
In particolare con la sentenza della Corte di giustizia del 12.07.2001, in causa C-399/98, si è affermato che: “la direttiva del Consiglio 14.06.1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, osta ad una normativa nazionale in materia urbanistica che, al di fuori delle procedure previste da tale direttiva, consenta al titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato la realizzazione diretta di un'opera di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, nel caso in cui il valore di tale opera eguagli o superi la soglia fissata dalla direttiva di cui trattasi.”
Conformemente al citato principio di diritto il legislatore, ancora intervenendo sulla legge Merloni, ha specificato che le opere di urbanizzazione a scomputo, ove di valore superiore alla soglia comunitaria, dovessero essere aggiudicate nel rispetto dei principi di evidenza pubblica, escludendo in un primo momento da vincoli di evidenza pubblica gli affidamenti sottosoglia.
In tal senso disponeva infatti l’art. 2, comma 5, della l. n. 109 del 1994 (ancora, inopinatamente, richiamato dal d.p.r. n. 380/2001); tale disposizione è stata a sua volta censurata dalla sentenza della Corte di Giustizia del 21.02.2008 in causa C-412/04 che ha ritenuto che, anche con riferimento alle opere sottosoglia, per evitare fenomeni elusivi debbano quantomeno trovare applicazione i principi generali dell’evidenza pubblica.
Recependo le indicazioni della Corte di giustizia, e tenuto conto che la disciplina della legge Merloni aveva anche dato causa ad una procedura di infrazione comunitaria nei confronti dell’Italia, con il combinato disposto degli artt. 122 e 32, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 163/2006, vigenti all’epoca di sottoscrizione della convenzione per cui è causa e ivi richiamati, si è introdotto l’obbligo del rispetto dei principi di evidenza pubblica anche per l’affidamento di opere di urbanizzazione a scomputo sotto soglia, prevedendo l’attivazione della più semplice procedura di cui all’art. 57, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 (procedura negoziata senza bando).
La soluzione è la più coerente con le indicazioni del giudice europeo.
Con il comma 2-bis del d.p.r. n. 380/2001 (introdotto con il d.l. 201/2011 e non applicabile alla presente fattispecie in quanto entrato in vigore successivamente alla sottoscrizione della convenzione) il legislatore ha inteso sottrarre agli obblighi di evidenza pubblica l’esecuzione di determinate opere a scomputo (l’eccezione introdotta con il d.l. era riferita a strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato) di valore inferiore alla soglia comunitaria e quando realizzate nell’ambito di interventi attuativi del P.R.G. e strumenti urbanistici attuativi, il tutto in verosimile violazione dei principi enunciati dalla Corte di giustizia.
La dubbia disposizione (che incomprensibilmente sottrae agli obblighi di evidenza pubblica gli attuatori dei piani urbanistici, normalmente soggetti professionali che non solo sono i più attrezzati per gestire procedure di evidenza pubblica ma, sul lato dell’offerta, ne sono anche i beneficiari) viene riproposta, ampliandone in termini vaghi i contenuti, nell’art. 36, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016 che sottrae agli obblighi di evidenza pubblica più genericamente “opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a), calcolato secondo le disposizioni di cui all'articolo 35, comma 9, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio”, senza più tipizzare le opere sottratte a tali obblighi, così innestando su una disciplina di già dubbia compatibilità comunitaria un elemento di indeterminatezza.
Così ricostruito il quadro normativo si osserva: nell’evoluzione normativa si assiste dapprima ad un innesto diretto dei vincoli eurounitari dell’evidenza pubblica sul sistema della realizzazione di opere a scomputo di importo soprasoglia comunitaria, quindi ad un allargamento di tali vincoli (nella forma di procedure semplificate) anche nell’ambito sottosoglia.
Il legislatore nazionale pare poi inseguire forme anomale di sottrazione della materia ai vincoli di evidenza pubblica in un contesto in cui le indicazioni del giudice europeo risultano per contro univoche.
Si legge nella citata sentenza della Corte di giustizia 08.11.2006 in causa C-412/04 “secondo la giurisprudenza della Corte, il fatto che una disposizione di diritto nazionale che prevede la realizzazione diretta di un’opera di urbanizzazione da parte del titolare di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato, a scomputo totale o parziale del contributo dovuto per il rilascio della concessione, faccia parte di un complesso di norme in materia urbanistica dotate di caratteristiche proprie e dirette al raggiungimento di specifici obiettivi, distinti da quelli della direttiva 93/37, non è sufficiente a escludere la realizzazione diretta dall’ambito di applicazione di quest’ultima, qualora risultino soddisfatti tutti gli elementi necessari affinché essa vi rientri (v. sentenza Ordine degli Architetti e a., cit., punto 66)”; d’altro canto nelle sue conclusioni l’avvocato generale precisava: “il governo italiano segnala le peculiarità del settore urbanistico e le caratteristiche del regime di aggiudicazione controverso, ma trascura il fatto che la valutazione di tale sistema nel presente procedimento deve basarsi sulle direttive in materia di appalti pubblici. Se si pone l’accento su un piano giuridico –il piano nazionale– senza prendere in considerazione l’altro –quello comunitario–, si distorce la situazione. Inoltre, ho già messo in rilievo che la sentenza resa nella causa Ordine degli Architetti e a. ha affermato che le caratteristiche proprie della materia urbanistica non sono sufficienti ad escludere l’applicazione delle direttive
Resta il fatto che la disciplina vigente al momento di sottoscrizione della convenzione, recepita dalla convenzione stessa ed applicabile al caso di specie, era quella indubbiamente più ortodossa in termini di rispetto dei vincoli eurounitari.
Non può quindi che prendersi atto del necessitato progressivo coordinamento tra la disciplina degli oneri a scomputo e dei vincoli di evidenza pubblica alla cui luce, come anche indicato dal legislatore europeo, deve interpretarsi la materia per questo specifico aspetto.
Se tanto è vero consegue che non possono che essere integrati in questo aspetto della disciplina urbanistica tutti i valori dell’evidenza pubblica che attengono tanto alla tutela della concorrenza all’atto della realizzazione delle opere che, e contestualmente, al raggiungimento di obiettivi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. Dovendosi infatti coordinare le due materie appare difficilmente sostenibile recepire l’evidenza pubblica in termini solo favorevoli all’impresa e non anche all’amministrazione e quindi all’interesse pubblico sotto il profilo dell’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa.
La tesi interpretativa proposta da parte ricorrente, che comporterebbe l’acquisizione al privato dei vantaggi indotti dal risparmio di spesa frutto dell’applicazione di una procedura comparativa, appare in ogni caso al collegio violare tutti i citati valori propri dell’evidenza pubblica.
Da un lato infatti l’acquisizione all’amministrazione di eventuali risparmi prodotti dall’obbligatorio confronto con il mercato soddisfa esigenze di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa vanificate dall’interpretazione proposta in ricorso. Non è un caso se il giudice contabile ha reiteratamente affermato che la somma da scomputare per opere di urbanizzazione corrisponde al “costo effettivo” delle stesse e qualificato l’opposta soluzione foriera di danno erariale (Corte Conti, sez. contr. Veneto
parere 07.08.2009 n. 148 e parere 28.07.2010 n. 94; Corte Conti, sez. controllo Lombardia parere 24.09.2015 n. 314).
Dall’altro lato l’imposizione degli obblighi di evidenza pubblica ha lo scopo di impedire che un operatore del mercato possa, proprio in violazione dei principi di concorrenza, beneficiare sostanzialmente di un affidamento diretto a prezzi superiori a quelli di mercato. Trasferire sul privato attuatore l’obbligo di rispetto dei principi di evidenza pubblica senza tuttavia acquisire all’amministrazione il vantaggio economico derivante dall’applicazione a valle di siffatte procedure equivale a favorire indebitamente un operatore privato di mercato; infatti, se pure l’esecutore materiale delle opere le realizzerà a prezzo di mercato, il soggetto attuatore -privato e normalmente altro operatore professionale del medesimo mercato- lucrerà la differenza tra gli importi (avulsi dagli esiti del confronto procedimentale) presuntivamente indicati nella convenzione e i prezzi effettivamente applicati. Si finisce così per spostare l’indebito vantaggio concorrenziale dal soggetto materialmente esecutore delle opere al soggetto attuatore (anch’esso un operatore privato di mercato), eludendo il significato sostanziale dell’intervento della normativa europea.
Ritiene quindi il collegio che una interpretazione sistematica di quanto previsto dall’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 porti a concludere che le opere a scomputo, ai fini del calcolo di un eventuale conguaglio con gli oneri di urbanizzazione, debbano, come fatto dall’amministrazione, essere valorizzate al costo effettivo, tenendo conto di eventuali ribassi d’asta ottenuti in gara.
E’ quindi infondato il primo motivo di ricorso.
Con il secondo motivo di ricorso si persegue il medesimo risultato interpretativo, sostenendo che la soluzione proposta sarebbe comunque quella ricavabile dal tenore della convenzione stipulata tra le parti e quindi da una corretta applicazione della disciplina contrattuale che le vincola.
La tesi non è condivisibile.
Premesso che, ove questo fosse il significato della convenzione, essa si porrebbe in contrasto con la legge vigente all’epoca della sua stipulazione, che imponeva l’indizione di procedure di evidenza pubblica per la realizzazione delle opere a scomputo con tutte le implicazioni che si ritiene ne derivino, il testo della convenzione non supporta l’interpretazione proposta dai ricorrenti.
I ricorrenti valorizzano la circostanza che l’art. 7.2 della convenzione, là dove in verità prevede penetranti poteri di controllo dell’amministrazione sull’esecuzione delle opere e sul regolare espletamento della gara, precisa che il Comune “fatto salvo il potere di controllo resta estraneo ai rapporti economici tra le parti”. Il senso della disposizione non è certo quello di individuare il criterio di valorizzazione delle opere a scomputo ma unicamente quello di precisare che l’amministrazione, estranea al contratto di appalto che intercorre tra soggetto attuatore e impresa affidataria dei lavori, non potrà essere considerata in alcun modo debitrice del soggetto affidatario.
Ancora prosegue parte ricorrente affermando che dalla convenzione si evincerebbe che il valore delle opere a scomputo sarebbe quello desumibile dai progetti esecutivi.
In verità l’art. 6.1 della convenzione che disciplina espressamente gli oneri a scomputo prevede una stima immediata dal valore di tali opere, precisando che detta stima, nel suo importo definitivo, dovrà evincersi, appunto, dai progetti definitivi ancora non presenti all’atto di stipulazione della convenzione. Nel testo contrattuale si prende poi atto che il valore stimato delle opere risulta inferiore alla determinazione forfetaria degli oneri e si stabilisce che la quota di conguaglio verrà corrisposta in quattro rate a partire dal rilascio di ogni singolo permesso di costruire. Evidentemente la somma presa a riferimento in questa fase non potrà che essere quella desumibile dai progetti definitivi.
Precisa poi ulteriormente la convenzione che “eventuali economie accertate dall’atto unico di collaudo emesso a titolo patrimoniale saranno corrisposte dall’attuatore in unica soluzione”. In sostanza la convenzione prevede appositamente un conguaglio a favore dell’amministrazione ove il costo effettivo delle opere sia risultato inferiore a quello atteso in base alla progettazione. Non pare invece condivisibile l’assunto di parte ricorrente, secondo cui l’inciso, che descrive un meccanismo generale e coerente –anche con la normativa pertinente– avrebbe inteso disciplinare la sola ipotesi di mancata realizzazione di talune delle opere. Tale limitazione non si evince né dalla lettera né dalla ratio della disposizione.
In conclusione, tanto l’interpretazione della normativa applicabile quanto quella delle disposizioni della convenzione urbanistica che vincola le parti, portano il collegio a preferire la soluzione interpretativa proposta dall’amministrazione, secondo cui i risparmi di spesa derivanti dal ribasso ottenuto in asta per la realizzazione delle opere a scomputo incidono sulla valorizzazione delle stesse nell’ambito dei rapporti tra amministrazione e soggetto attuatore.
Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 19.05.2017 n. 646 -  link a www.giustizia-amministratva.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Esteso anche alla pensione anticipata il cumulo dei contributi versati nelle diverse gestioni (CGIL-FP di Bergamo, nota 24.05.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Le capacità assunzionali negli Enti Locali dopo il D.L. 14/2017 e 50/2017 (CGIL-FP di Bergamo, nota 12.05.2017).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Approvazione della nuova normativa sulle gestione delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo, circolare 26.05.2017 n. 101).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Incendi di camini e tetti (Ministero dell'Interno, Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Bergamo, nota 19.05.2017 n. 10959 di prot.)

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 22 del 30.05.2017, "Modifiche all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato)" (L.R. 26.05.2017 n. 16).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 22 del 30.05.2017, "Legge di semplificazione 2017" (L.R. 26.05.2017 n. 15).
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Di particolare interesse, si leggano:
• Art. 14 - (Modifiche agli articoli 15, 89, 100, 101 e 126 della l.r. 6/2010)
• Art. 21 - (Misure di semplificazione in materia energetica. Modifiche all’articolo 4 della l.r. 31/2014, agli articoli 27 e 28 della l.r. 26/2003 e all’articolo 9 della l.r. 24/2006)
• Art. 25 - (Modifiche alla l.r. 33/2015)
• Art. 26 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 29.05.2017, "Adozione dell’integrazione del Piano Territoriale Regionale, ai sensi della l.r. 31/2014 (articolo 21 l.r. 11.03.2005, n. 12 (legge per il governo del territorio)" (deliberazione C.R. 03.05.2017 n. 1523).
...
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 30.05.2017, "D.c.r. 03.05.2017 - n. X/1523 Adozione dell’integrazione del Piano Territoriale Regionale, ai sensi della l.r. 31/2014 (articolo 21 l.r. 11.03.2005, n. 12 (legge per il governo del territorio) pubblicata sul burl seo n. del 29.05.2017" (errata corrige - ripubblicazione deliberazione C.R. 23.05.2017 n. 1523).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: Modello lettera invito gara informale art. 36, comma 2, lettere a) (se si vuole) e b), aggiornato al Correttivo (29.05.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: C. Contessa, Il primo (e unico) correttivo al ‘Codice dei contratti’ Un passo avanti verso la semplificazione del sistema? (24.05.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Aspetti generali della questione - 2. La scelta del Legislatore di adottare un unico testo correttivo e le conseguenze di sistema - 3. Su cosa può e su cosa non può incidere un decreto correttivo – 4. Una (breve) analisi per settori - 4.1 Le novità e le semplificazioni in tema di affidamenti sotto-soglia (art. 36) - 4.2. Le innovazioni in tema di programmazione (artt. 21, 22, 23) - 4.3. Gli interventi in tema di trasparenza, pubblicazioni e comunicazioni (articoli 29, 53 e 76) - 4.4. Il nuovo ambito dell’appalto integrato (art. 59) - 4.5. Le novità in tema di Commissioni giudicatrici (art. 77, 78) - 4.6. Le modifiche in tema di aggiudicazione al prezzo più basso e di offerte anomale (artt. 95, 97) - 4.7. Il soccorso istruttorio (gratuito) nella previsione del Decreto correttivo (art. 83, co. 9) - 4.8. L’abrogazione della disposizione sulle cc.dd. ‘raccomandazioni vincolanti’ dell’ANAC. Cenni e rinvio (art. 211, co. 2) - 4.9. Le innovazioni in tema di subappalto (art. 105) - 5. Un primo tentativo di sintesi: il decreto correttivo muove verso la (parziale) attenuazione dei vincoli e dei limiti insiti nella prima formulazione del ‘Codice’?

APPALTI: Solo la stipulazione del contratto fa sorgere il vincolo giuridico (22.05.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Ma qual è la difficoltà a chiedere nelle forme brevi alcuni preventivi? (15.05.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Determina a contrattare semplificata: ennesima norma fuorviante (13.05.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: E’ diretto l’affidamento diretto? Forse. Sicuramente non è fiduciario (13.05.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: La rotazione è necessaria solo nei casi di affidamenti senza gara (06.05.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi a contratto: no alla fiduciarietà ed alla "promozione" dei funzionari a dirigenti (22.04.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Correttivo: schema determina affidamento diretto sotto i 40.000 euro (19.04.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Avviso di manifestazione di interesse (18.04.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'ammissibilità, ai sensi dell'art. 9 del d.P.R. 380/2001, degli interventi di ristrutturazione edilizia all'esterno del perimetro del centro abitato nei comuni sprovvisti di strumento urbanistico generale – Comune di Atina (Regione Lazio, nota 26.05.2017 n. 270034 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Le spese legali.
DOMANDA:
Un dipendente ha vinto in primo grado una causa per l'annullamento di una sanzione disciplinare (riduzione oraria stipendiale), con condanna dell'amministrazione delle spese di giudizio. Si chiede se allo stesso, ove debitamente documentate, siano rimborsabili anche le spese per l'assistenza legale nella fase strettamente disciplinare, prima cioè del giudizio che si è svolto innanzi al Tribunale, atteso che il dipendente si è avvalso di un avvocato.
RISPOSTA:
Sulla questione concernente la concessione del beneficio della tutela legale in relazione anche ai procedimenti disciplinari dei pubblici dipendenti (conclusisi senza comminazione di sanzione disciplinare) si è espressa l’Avvocatura dello Stato, con parere del 10.05.2013, ritenendo che l’art. 18 del D.L. nr. 67/1997 non offre possibilità all’interprete di estendere ai procedimenti disciplinari il diritto al rimborso delle spese legali, sia per il suo tenore testuale, sia per la ratio legis sottesa.
Infatti, il procedimento disciplinare ha natura amministrativa e non giurisdizionale, mentre la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (sentenze Corte Cost. n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del 1974).
Ne consegue che il Legislatore, alla luce della diversa e più attenuata conformazione che il diritto di difesa assume nel procedimento disciplinare, ben può differenziare, nell’esercizio della sua discrezionalità, i diritti da riconoscere in capo a coloro che sono soggetti ad un procedimento disciplinare, rispetto ai diritti costituzionali di difesa da riconoscere in capo a coloro che si vedono parti in un processo civile, penale o contabile.
Il parere espresso dall’Avvocatura è pienamente condivisibile, in quanto conforme a quanto evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa che, con riguardo all’art. 18 del D.L. nr. 67/1997 (e, analogamente, all’art. 67 del D.P.R. n. 268/1987 e all’art. 28 del C.C.N.L. 14.09.2000), ha ribadito che “il suo ambito d’applicazione è rigorosamente circoscritto a quanto emerge dal suo contenuto testuale, espressione di un principio generale, da essa derivando un onere a carico dell’Amministrazione” (TAR Veneto-Venezia sent.i n. 1295/2012).
E’ vero che la norma fa riferimento -accanto alla responsabilità civile e penale- anche a quella amministrativa, ma “è pacifico che la stessa abbia ad oggetto la responsabilità per danno erariale non potendo, all'evidenza, essere estesa alla responsabilità disciplinare” (TAR Piemonte-Torino, sent. n. 276/2011; conforme TAR Umbria sent, n. 555/2008) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla determinazione del contributo di costruzione per il rilascio di permesso a costruire per la realizzazione di annessi agricoli - Comune di Vicovaro (Regione Lazio, nota 23.05.2017 n. 260672 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Comune di Terni - Procedimento semplificato autorizzazione paesaggistica (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 09.05.2017 n. 14620 di prot.).
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Con nota dell'11.04.2017, il Comune di Terni ha rivolto a questo Ufficio alcuni quesiti concernenti la corretta applicazione del d.P.R. n. 31 del 2017, in particolare per quanto riguarda l'individuazione dei casi di esclusione dall'esonero dalla previa autorizzazione paesaggistica per particolari categorie di interventi in relazione al rinvio, più volte operato nel regolamento, alle diverse tipologie di vincoli previsti dall'articolo 136 del codice di settore.
Si reputa utile, in questa primissima fase applicativa del nuovo regolamento, per agevolarne la corretta esecuzione e prevenire l'insorgere di indesiderate difficoltà pratiche che potrebbero impedirne la funzione semplificatrice, fornire direttamente risposta anche gli enti territoriali che dovessero proporre quesiti, e ciò anche in deroga a quanto disposto dall'art. 4 del d.P.C.M. n. 171 del 2014 (...continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: richiesta di parere in materia di progressioni economiche orizzontali (Ministero dell‘Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, nota 24.03.2017 n. 49781 di prot.).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

PUBBLICO IMPIEGO: Chiarimenti in ordine alla pubblicazione degli emolumenti complessivi a carico della finanza pubblica percepiti dai dirigenti (art. 14, co. 1-ter del d.lgs. 33/2013) (comunicato del Presidente del 17.05.2017 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Notizie utili ai fini della tenuta del Casellario Informatico previsto art. 213, c. 10, del d.l.vo 50/2016 (comunicato del Presidente 10.05.2017 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI SERVIZI: Oggetto: chiarimenti sull’attivazione dell’Elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società “in house” previsto dall’art. 192 del d.lgs. 50/2016 (comunicato del Presidente 10.05.2017 - link a www.anticorruzione.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Attività di vigilanza - Disponibili i moduli per invio segnalazioni in materia di inconferibilità e incompatibilità, prevenzione della corruzione e obblighi di trasparenza (comunicato del Presidente 27.04.2017 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Ambito di intervento dell’Anac - Comunicato del Presidente: funzioni e competenze dell’Autorità e tipologie di segnalazioni a cui non può seguire vigilanza o verifica (comunicato del Presidente 27.04.2017 - link a www.anticorruzione.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: chiarimenti sull’attività di ANAC in materia di accesso civico generalizzato (comunicato del Presidente 27.04.2017 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Codice Identificativo Gara - In un comunicato del Presidente indicazioni per i CIG acquisiti entro il 30.04.2011 (comunicato del Presidente 12.04.2017 - link a www.anticorruzione.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sulla impossibilità di riconoscere gli emolumenti previsti dall'art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 18/04/2016 (incentivi) anche per le attività di manutenzione straordinaria.
L’art. 113 D.Lgs. 50/2016 indica, quali “funzioni tecniche” incentivabili, “esclusivamente” le attività per la programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e il controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Le attività enumerate, pertanto, sono state selezionate dal legislatore per la loro specifica attitudine a produrre effetti performanti e di vigilanza sulla spesa.

Il raffronto dell’attuale dettato normativo con quello previgente, pertanto, deve essere letto alla luce di
una tendenza evolutiva della ratio degli incentivi in esame che ulteriormente ne definisce l’ambito con la finalità di valorizzare “esclusivamente” un (pertanto) tassativo elenco di attività rispetto ad altre funzioni necessarie nelle varie fasi di esecuzione di un contratto pubblico.
Il legislatore,
con l’attuale art. 113, D.Lgs. 50/2016, ha ritenuto di dover circoscrivere la finalità “premiante” degli incentivi alle (sole) funzioni tecniche tassativamente elencate, a cui occorre aggiungere, a segnare il superamento del precedente sistema, l’esplicita esclusione delle attività di progettazione contenuta nella legge di delega.
Ammettere una tacita e contemporanea riespansione dell’ambito operativo degli incentivi in esame in favore di attività, quali quelle manutentive, già espressamente escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato, della riforma del 2016.

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Con nota del 20.02.2017, prot. n. 23883 (prot. C.d.c. n. 1369 del 22.02.2017), il Sindaco del Comune di Treviso formula richiesta di parere in merito alla legittimità dell’attribuzione degli emolumenti previsti dall’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 a favore delle attività di manutenzione straordinaria.
Ad avviso dell’Ente, poiché “a differenza del previgente art. 93, comma 7-ter, del D.lgs. 12.04.2006, n. 163, il quale escludeva espressamente l’applicabilità degli incentivi a qualunque attività manutentiva, senza specificare se ordinaria o straordinaria (ma “ragionevolmente” riferendosi a entrambe), l’art. 113 del D.lgs. 12.04.2016, n. 50, introducendo una nuova fattispecie di incentivi per “funzioni tecniche”, non esclude tali attività dalla corresponsione degli incentivi.
A giudizio di questo ente, le “manutenzioni straordinarie” potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 113 del D.lgs. 12.04.2016, n. 50 in quanto, al fine di realizzare lavori di manutenzione straordinaria, si rende necessario effettuare una “programmazione della spesa per investimenti” e, qualora tali lavori vengano affidati a ditte esterne mediante apposite procedure di appalto, vengono svolte dai dipendenti quelle attività che, ai sensi del comma 2, danno titolo alla corresponsione degli incentivi (tra queste attività, vi è per l’appunto l’attività di predisposizione e di controllo delle procedure di bando).
Diverso è il caso invece delle “manutenzioni ordinarie” per le quali, a differenza delle manutenzioni straordinarie, non viene effettuata alcuna “programmazione della spesa per investimenti”
”.
...
La questione prospettata, difatti, attiene alla corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, D.Lgs. 50/2016, recante la “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”, il quale dispone che, a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, “le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti” (comma 2) e che “L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori” (comma 3).
Trattasi, pertanto, di materia attinente alla gestione della spesa del Comune, che, come tale, interessa ambiti della normativa e dei relativi atti applicativi “che disciplinano, in generale, l’attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore, ricomprendendo, in particolare la disciplina dei bilanci e i relativi equilibri, l’acquisizione delle entrate, l’organizzazione finanziario-contabile, la disciplina del patrimonio, la gestione delle spese, l’indebitamento, la rendicontazione e i relativi controlli” (Sez. Autonomie, deliberazione n. 5/AUT/2006, cit.).
Si ritiene necessario sottolineare, alla luce dell’avvenuta approvazione, con D.G.C. del Comune di Treviso n. 43 del 01.03.2017, dell’autorizzazione alla sottoscrizione dell’accordo contenente le modalità e i criteri di ripartizione del Fondo concernente gli incentivi per le funzioni tecniche, che la funzione consultiva attribuita alle Sezioni regionali di controllo non può concernere fatti gestionali specifici del soggetto istante, ma ambiti e oggetti di portata generale, rimanendo nella piena discrezionalità e responsabilità dell’Ente la specifica e concreta scelta gestionale da adottare.
Ciò premesso, di seguito si procede all’analisi, in termini generali e astratti, che prescindono da una qualunque valutazione del suddetto atto, del quesito formulato dall’Ente in merito alla possibilità di corrispondere incentivi per le attività di manutenzione straordinaria sulla base della normativa attualmente vigente.
Come si avrà modo di illustrare,
si ritiene in merito ancora attuale, e applicabile al caso di specie, il percorso interpretativo seguito dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 23.03.2016 n. 10, alla quale si rimanda per l’esaustiva ricostruzione storico-sistematica della disciplina in analisi.
Con tale pronuncia, ai sensi dell’art. 6, comma 4, D.L. 174/2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213, è stato affermato il principio di diritto in base al quale “la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.”
L’iter argomentativo tracciato dalla suddetta deliberazione partiva dalla constatazione che, nel passaggio dall’orientamento consolidatosi prima della novella recata dall’art. 13-bis D.L. 90/2014 (per il quale nel silenzio della legge l’emolumento in parola avrebbe dovuto essere riconosciuto solo per la manutenzione straordinaria, purché preceduta da un’attività di progettazione) al contrasto sorto tra le varie Sezioni regionali di controllo con l’entrata in vigore del comma 7-ter dell’art. 93 D.Lgs. 163/2006, istitutivo del (nuovo) fondo per la progettazione e l’innovazione, occorresse dare preminenza al dato letterale, in coerenza con l’art. 12 delle preleggi, che escludeva espressamente le attività di manutenzione da quelle incentivabili.
La Sezione delle Autonome ha ritenuto che il mutato quadro normativo fosse giustificato da una differente logica dello strumento delle incentivazioni, ristrette, rispetto al passato, alla progettazione e innovazione, in un’ottica non solo di contenimento della spesa, ma anche di una sua razionalizzazione, alla luce, tra l’altro, della L. 11/2016, recante la delega che ha condotto all’attuale testo dell’art. 113, D.Lgs. 50/2016, rispetto al quale verte la richiesta odierna di parere.
Più precisamente, l’art. 1, c. 1, lett. rr), L. 11/2016, prevede la destinazione di una somma non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, per l’esplicito fine di incentivare l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della realizzazione e l'esecuzione a regola d'arte, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera e con l’espressa esclusione dell'applicazione degli incentivi alla progettazione.
In attuazione della delega,
l’art. 113 D.Lgs. 50/2016 indica, quali “funzioni tecniche” incentivabili, “esclusivamente” le attività per la programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e il controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Le attività enumerate, pertanto, sono state selezionate dal legislatore per la loro specifica attitudine a produrre effetti performanti e di vigilanza sulla spesa.

Il raffronto dell’attuale dettato normativo con quello previgente, pertanto, deve essere letto alla luce di
una tendenza evolutiva della ratio degli incentivi in esame che ulteriormente ne definisce l’ambito con la finalità di valorizzare “esclusivamente” un (pertanto) tassativo elenco di attività rispetto ad altre funzioni necessarie nelle varie fasi di esecuzione di un contratto pubblico (Sez. contr. Emilia Romagna, parere 07.12.2016 n. 118, Sez. contr. Sardegna, parere 18.10.2016 n. 122, Sez. contr. Veneto, parere 02.03.2017 n. 134, Sez. contr. Puglia, parere 24.01.2017 n. 5).
Se con l’art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. 163/2006,
il legislatore ha sentito la necessità, rispetto alla prassi pretoria affermatasi, di chiarire che l’incentivo non fosse riconoscibile per nessuna attività di manutenzione, con l’attuale art. 113, D.Lgs. 50/2016, ha ritenuto di dover circoscrivere la finalità “premiante” degli incentivi alle (sole) funzioni tecniche tassativamente elencate, a cui occorre aggiungere, a segnare il superamento del precedente sistema, l’esplicita esclusione delle attività di progettazione contenuta nella legge di delega.
Ammettere una tacita e contemporanea riespansione dell’ambito operativo degli incentivi in esame in favore di attività, quali quelle manutentive, già espressamente escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato, della riforma del 2016.
Non è fondata, tra l’altro, un’interpretazione che, nel constatare che quando il legislatore ha voluto escludere esplicitamente alcune attività (quali quelle di progettazione) si è preoccupato di farlo espressamente, vuole far derivare dal silenzio della legge un significato ultroneo (incentivazione delle attività manutentive) rispetto a quello fatto palese dall’elemento puramente letterale, in quanto nell’attuale testo si è adottata una differente tecnica normativa che consiste nella esplicita scelta di limitarsi a menzionare solo e, come recita la disposizione in esame, “esclusivamente”, alcune funzioni tecniche, risultando quelle non inserite nella disposizione in analisi automaticamente e inequivocabilmente escluse.
Una diversa conclusione rispetto a quella offerta, pertanto, contrasta non solo con l’inequivoca lettera della norma, che non ammette interpretazioni difformi in assenza di dubbi sul suo chiaro significato (rafforzato, come detto, dalla scelta di utilizzare l’avverbio “esclusivamente”), ma anche con un’interpretazione storico-sistematica alla luce dei precedenti approdi della giurisprudenza contabile (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 12.05.2017 n. 338).

GIURISPRUDENZA

APPALTI SERVIZI: Il rito appalti si applica anche agli affidamenti in house di contratti pubblici.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Termine dimidiato impugnazione atti di gara – Affidamenti in house di contratti pubblici – Art. 120 c.p.a. – Applicabilità.
Anche le impugnazioni di affidamenti in house di contratti pubblici di lavori servizi e forniture siano soggetti al “rito appalti” di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a., con il corollario del dimezzamento del termine per proporre il ricorso di primo grado, ai sensi del comma 5 di quest’ultima disposizione (1).
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   (1) La Sezione è giunta a tale conclusione in primo luogo sulla base dell’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore “procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture” e “atti delle procedure di affidamento”, utilizzate nelle disposizioni del codice del processo amministrativo. Esse si incentrano sul concetto di “procedure”, che nella sua latitudine è idonea a racchiudere tutta l’attività della Pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia, che si manifesta attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo.
Con specifico riguardo alla materia degli affidamenti di contratti di lavori servizi e forniture, il concetto di “procedure” è pertanto idoneo ad individuare nel suo complesso la fase che precede la stipula del contratto, allorché, invece, l’amministrazione dismette i propri poteri autoritativi per assumere la qualità di parte di un negozio giuridico bilaterale di diritto privato, fonte di un rapporto di natura paritetica con l’appaltatore o il concessionario.
Ha aggiunto la Sezione che quand’anche estrinsecatosi uno actu, anche l’affidamento in house di contratti pubblici è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa della Pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta in via generale nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché in tesi con modalità estremamente semplificate. La tesi contraria introdurrebbe una distinzione incentrata non già sul profilo di ordine qualitativo legato al settore di attività della Pubblica amministrazione -affidamento di contratti di lavori, servizi e forniture-, ma sulle concrete modalità con cui quest’ultima è addivenuta a tale affidamento, con il rischio di rendere non agevole il discrimine tra rito ordinario e rito speciale.
Ad avviso della Sezione, oltre all’argomento di ordine letterale finora svolto, e sulla base di esso, deve ritenersi che anche sul piano dell’interpretazione logica (avuto cioè riguardo all’”intenzione del legislatore”) gli affidamenti in house siano soggetti al rito “appalti”. Depone in questo senso la comunanza ai contratti così stipulati delle esigenze sottese a questo speciale procedimento giurisdizionale, e cioè la spiccata celerità e la pienezza di tutela assicurata dai provvedimenti adottabili ai sensi degli artt. 120–124 c.p.a.. Tra questi vi è in particolare la possibilità per il giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto stipulato sulla base del provvedimento autoritativo di affidamento e dunque di incidere sul rapporto negoziale già instaurato “a valle” di quest’ultimo.
Da questa ampiezza di poteri e dalle conseguenti ricadute su assetti contrattuali già instauratisi si coglie pertanto la necessità sul piano logico e di complessiva coerenza normativa di assoggettare anche gli affidamenti in house al rito concernente in generale i contratti di lavori, servizi e forniture. In caso contrario, rimarrebbero immuni dal rischio di declaratoria giurisdizionale di inefficacia proprio gli affidamenti connotati maxime dalla violazione del principio generale, di matrice anche europea, dell’evidenza pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2017 n. 2533 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Termine dimidiato di trenta giorni per impugnare l’esclusione dalla gara pubblica.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Esclusione – Impugnazione – Termine di trenta giorni ex art. 120, comma 5, c.p.a. – Applicabilità.
Il termine dimidiato per l’impugnazione, previsto dall’art. 120, comma 5, c.p.a., si applica anche all’impugnazione dei provvedimenti di esclusione e non solo a quelli di aggiudicazione (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che sono soggetti al c.d. rito appalti, ovvero al giudizio ordinario di legittimità che si svolge davanti al giudice amministrativo e che ha ad oggetto la complessiva attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla conclusione di contratti, gli “atti delle procedure di affidamento” relative “a pubblici lavori, servizi o forniture” (comma 1 dell’art. 120 c.p.a.).
Analogamente l’art. 119, comma 1, lett. a), c.p.a., che fa riferimento alle «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture». Entrambe le formule normative hanno carattere generale. Esse sono in altri termini riferite a tutti gli atti che si collocano nella fase c.d. pubblicistica di selezione del contraente privato e che precedono la stipula del contratto.
Quindi, sulla base di un’interpretazione letterale delle norme in esame, ai sensi dell’art. 12, comma 1, delle preleggi, il riferimento non può che comprendere anche gli atti di esclusione di concorrenti adottati dalla stazione appaltante nell’ambito della procedura di gara.
Tale interpretazione letterale è poi corroborata da un argomento di ordine logico, in base al quale deve essere esclusa l’opzione volta a distinguere regimi processuali diversi, sotto il fondamentale profilo del termine per proporre l’impugnativa giurisdizionale, nell’ambito di un’unica attività amministrativa quale appunto quella ad evidenza pubblica che precede la stipula di contratti.
A questa notazione può essere aggiunta una che fa leva sull’«intenzione del legislatore» (art. 12 delle preleggi sopra citato), alla stregua del quale appare manifestamente irrazionale assoggettare a termini differenziati, ed in particolare esentare alcuni atti della procedura di gara dal dimezzamento del termine per ricorrere ai sensi del citato art. 120, comma 5, pur a fronte dell’unitaria esigenza di politica legislativa di celere definizione del contenzioso relativo all’attività contrattuale della pubblica amministrazione.
Si tratta in particolare dell’esigenza che è alla base della specialità del rito appalti e della conseguente deroga prevista in materia rispetto al termine ordinario per ricorrere in sede giurisdizionale amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.05.2017 n. 2444 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti per comminare la sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione.
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• Abusi - Sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione – Presupposti – Art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 – Individuazione.
Abusi - Sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione – Ambito di applicazione – Art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 – Individuazione.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 34, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 –il quale prevede che ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione occorre che le opere oggetto di contestazione siano solo parzialmente difformi dal titolo abilitativo– occorre tener conto del complesso edilizio risultante dalle opere via via realizzate; l’art. 34 si applica quindi anche al caso in cui le opere edilizie sono del tutto prive di abilitazione urbanistica, con conseguente difformità totale), se le stesse sono compenetrate rispetto ad altri manufatti preesistenti i quali, invece, sono stati realizzati in base a regolare titolo abilitativo (1).
Ai sensi dell’art. 34, comma 2-ter, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, le opere che eccedano per una misura inferiore al 2% la volumetria assentita dal titolo edilizio possano essere considerate come realizzate in parziale difformità, trattandosi di abusi rientranti nei limiti di tolleranza e quindi irrilevanti ai fini sanzionatori di cui al citato art. 34 (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che non rileva, per escludere l’applicazione del comma 2 dell’art. 34, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la circostanza che le opere oggetto di considerazione sono del tutto prive di abilitazione urbanistica (e quindi la difformità sarebbe totale), atteso che le stesse sono compenetrate rispetto ad altri manufatti preesistenti i quali, invece, sono stati realizzati in base a regolare titolo abilitativo.
Ne consegue che ai fini della decisione in ordine alla demolizione deve tenersi conto del complesso edilizio risultante dalle opere via via realizzate, atteso che la ratio dell’art. 34 consiste proprio nell’evitare che la demolizione di alcuni interventi edilizi abusivi possa comportare l’eliminazione anche degli altri regolarmente realizzati rispetto ai quali i primi siano strutturalmente compenetrati e non possano essere demoliti se non con pregiudizio dell’intera struttura.
   (2) Ad avviso del Tar la disposizione non prevede che tutte le opere di entità superiore al 2% rispetto a quelle assentite andrebbero demolite in quanto ad esse non sarebbe applicabile la sanzione pecuniaria esulando dall’ambito applicativo dell’art. 34; il comma 2-ter, infatti, invece, introduce un margine di flessibilità consentendo di escludere anche dalla previsione sanzionatoria pecuniaria le discrepanze dal titolo abilitativo contenute entro la ridotta misura del 2% (
TAR Molise, sentenza 24.05.2017 n. 192 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Nel merito parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 34, co. 2, del d.P.R. n. 380/2001, in quanto di tale norma non sussisterebbero i presupposti, atteso che i manufatti in questione sarebbero stati realizzati in totale difformità, perché privi di titolo edilizio e sarebbero poi di entità rilevante e certamente superiore alla misura del 2% (soglia limite di cui al comma 2-ter dell’art. 34 d.P.R. n. 380/2001) rispetto a quelle regolarmente edificate.
Anche tali doglianze non meritano di essere condivise.
E’ utile riportare il testo del ripetuto art. 34 del d.P.R. n. 380/2001: “1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 23, comma 01, eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione di di inizio attività.
2-ter. Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali
”.
Orbene, dalla disposizione emerge che
ai fini dell’applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva della demolizione occorre che le opere oggetto di contestazione siano solo parzialmente difformi dal titolo abilitativo. Ora, nel caso di specie è pure vero che le opere oggetto di considerazione sono del tutto prive di abilitazione urbanistica (e quindi la difformità sarebbe totale), ma è altresì vero che esse sono compenetrate rispetto ad altri manufatti preesistenti i quali, invece, sono stati realizzati in base a regolare titolo abilitativo.
Ne consegue che ai fini della decisione in ordine alla demolizione deve tenersi conto del complesso edilizio risultante dalle opere via via realizzate, atteso che la ratio dell’art. 34 consiste proprio nell’evitare che la demolizione di alcuni interventi edilizi abusivi possa comportare l’eliminazione anche degli altri regolarmente realizzati rispetto ai quali i primi siano strutturalmente compenetrati e non possano essere demoliti se non con pregiudizio dell’intera struttura.

Questa è la situazione che si verifica nella fattispecie, in cui a fianco di interventi più risalenti ed assentiti, sono state realizzate successivamente opere prive di titolo urbanistico, ma che, secondo quanto rilevato dall’Amministrazione, a causa della rilevata compenetrazione con quelle preesistenti, non possono essere demolite senza pregiudicare la stabilità dell’intera struttura con la quale esse formano corpo unico.
Parte ricorrente contesta quale ulteriore profilo di violazione del citato art. 34 la circostanza che le opere realizzate avrebbero un’incidenza percentuale superiore al 2% rispetto al manufatto complessivamente considerato, con la conseguenza che ai sensi del comma 2-ter sarebbero di entità tale non poter essere considerate in parziale difformità
Il motivo sottende un fraintendimento della
portata del citato comma 2-ter dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001.
Tale previsione, diversamente da quanto opina parte ricorrente, esclude che le opere che eccedano per una misura inferiore al 2% la volumetria assentita dal titolo edilizio possano essere considerate come realizzate in parziale difformità, trattandosi di abusi rientranti nei limiti di tolleranza e quindi irrilevanti ai fini sanzionatori di cui al ripetuto art. 34.
La disposizione, quindi, opera in senso opposto a quanto ritenuto dai ricorrenti, i quali pervengono alla conclusione per la quale tutte le opere di entità superiore al 2% rispetto a quelle assentite andrebbero demolite in quanto ad esse non sarebbe applicabile la sanzione pecuniaria esulando dall’ambito applicativo dell’art. 34, ma ciò non è quanto prevede
il comma 2-ter che, invece, come visto, introduce un margine di flessibilità consentendo di escludere anche dalla previsione sanzionatoria pecuniaria le discrepanze dal titolo abilitativo contenute entro la ridotta misura del 2%.
Infondata, infine, è anche la censura con la quale parte ricorrente contesta l’attendibilità della relazione dei tecnici comunali (prot. n. 293 del 25.01.2016) che esclude la possibilità di eliminare le opere non oggetto di sanatoria senza pregiudicare la tenuta dell’intera struttura. Tale valutazione, che trova supporto anche nei rilievi fotografici, non può essere sindacata in sede giurisdizionale se non laddove emergano profili di irragionevolezza o illogicità di cui nel caso di specie il Collegio non ravvisa la sussistenza, con la conseguenza che in mancanza di tali indizi le valutazioni operate nella consulenza tecnica di parte non possono sovrapporsi a quelle dell’Amministrazione.

APPALTI: Esclusione dalla gara di società in concordato con continuità aziendale per mancata produzione dell'autorizzazione del giudice delegato.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Società in concordato con continuità aziendale – Mancata produzione autorizzazione del giudice delegato – Illegittimità.
E’ illegittima l'esclusione da un appalto di una società in concordato con continuità aziendale, disposta per mancata produzione dell'autorizzazione del giudice delegato, che l’aveva rifiutata non avendola ritenuta necessaria (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la procedura di concordato, per le finalità proprie della partecipazione alle gare pubbliche e degli adempimenti necessari, si esaurisce con il decreto di omologa ex art. 181 L.F., e che a seguito della pronuncia di questo si verifica per l’imprenditore il passaggio dal regime di spossessamento attenuato, proprio della procedura, al riacquisto della piena capacità di agire, e per gli organi tutori dal potere di consentire o meno il compimento di atti di straordinaria amministrazione ad una funzione di mera vigilanza sulla corretta esecuzione del concordato (Cass. civ., sez. VI, n. 2695 del 2016; id., sez. I, n. 12265 del 2016; Cons. St., sez. III, n. 2305 del 2012).
Nella stessa linea interpretativa si colloca la determinazione ANAC n. 3 di data 23.04.2014, in cui è precisato che in ambito concordatario “la cessazione della causa ostativa coincide …con la chiusura della procedura, che viene formalizzata con il decreto di omologazione del concordato preventivo ai sensi dell’art. 180 L.F.”.
Tali conclusioni non sono mutate a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici. Ed invero, l’art. 110, commi 3 e 4, prevede sì che l’impresa ammessa al concordato con continuità aziendale possa partecipare alle procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi o di eseguire i contratti già stipulati “su autorizzazione del giudice delegato, sentito l’ANAC”, ma non è tale da determinare un’incisione sulle diverse e separate fasi che scandiscono la procedura concordataria disciplinata dalla L.F., ed in particolare sulla definizione di questa a seguito del “giudizio di omologazione” (art. 180) e della “chiusura della procedura” (art. 181).
Ad avviso del Tar, inoltre, l’art. 110 si riferisce pur sempre alla fase antecedente l’omologazione e, in particolare, a quella precedente dell’ammissione, come del resto pure letteralmente si esprime, laddove la previsione sia dell’autorizzazione del giudice delegato sia del parere ANAC è riferita ad un’impresa “ammessa” al concordato, e dunque non ancora omologato (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 24.05.2017 n. 179 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Decorrenza degli interessi legali sulle spese di lite decise con sentenza passata in giudicato.
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Processo amministrativo – Giudicato – Condanna a rimborso spese legali e interessi legali - Decorrenza degli interessi – Dal passaggio in giudicato della sentenza
Gli interessi legali sulle spese di lite tardivamente corrisposte decorrono dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che ha condannato a tale rimborso, perché è solo da quel momento che si perfeziona l'accertamento giudiziale e il suo effetto costitutivo, per cui solo dalla stessa data sorgono i conseguenti obblighi (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che non può rilevare, quale dies a quo, il giorno di emissione della sentenza che deve essere ottemperata (Cass. civ. 11.06.2004, n. 11097; Trga Trento 09.12.2015, n. 514; id. 09.11.2015, n. 453) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.05.2017 n. 728 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il RUP non può far parte della commissione di gara.
Il r.u.p. non può essere membro della commissione; benché la compatibilità tra le due funzioni sia stata di recente affermata in giurisprudenza, il contrario è infatti desumibile dal confronto tra la previsione del soppresso articolo 84 d.lgs. 12.04.2006, n. 163 secondo cui “i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta” e la formulazione dell’articolo 77, comma 4, d.lgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui “i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
La mancata esclusione del presidente dalla regola prevista dall’articolo 77 implica chiaramente che il r.u.p. non possa essere componente della commissione nemmeno quale presidente e quindi il superamento della giurisprudenza formatasi sotto il vigore del soppresso codice degli appalti.
Non è d’altro lato condivisibile il rilievo secondo cui la nuova regola del comma 4 sarebbe destinata ad operare solo dopo l’istituzione dell’albo dei commissari previsto dall’articolo 77, comma 2, dato che essa è formulata in termini generali ed è pertanto immediatamente efficace anche nel regime transitorio delineato dal comma 12 dell’articolo 77 (con il quale è compatibile).
Nella fattispecie quindi il r.u.p. –che è il soggetto che ha formulato la lex specialis– illegittimamente ha svolto l’ufficio di presidente della commissione.

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Premesso che con il ricorso principale e i motivi aggiunti la ricorrente denuncia l’illegittimità degli atti della gara indicata in epigrafe in particolare sostenendo che:
   a) la commissione non avrebbe proceduto all’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica in seduta pubblica violando la previsione dell’articolo 12 d.l. 07.05.2012 n. 52, convertito in legge con modificazioni dalla legge 06.07.2012, n. 94;
   b) il presidente della commissione di gara non aveva titolo a ricoprire tale funzione sia perché sprovvisto di competenza nella materia cui si riferisce il servizio sia perché ha svolto anche la funzione di responsabile unico del procedimento; inoltre egli ha svolto la funzione di componente della commissione incaricata di svolgere la gara per analogo servizio presso un diverso comune (gara vinta dalla controinteressata) con conseguente dubbio in ordine alla sua imparzialità;
   c) il bando consentirebbe ribassi che non garantiscono il rispetto del costo orario dei lavoratori previsto dai C.C.N.L. con conseguente violazione dell’articolo 30 d.lgs. 18.04.2016, n. 50;
   d) sussisterebbero varie divergenze tra il contenuto della lettera di invito alla gara e il capitolato speciale d’appalto;
   e) l’avviso di aggiudicazione non reca l’indicazione dei concorrenti che hanno partecipato alla gara;
   f) la commissione avrebbe introdotto sub-criteri di valutazione delle offerte, così integrando il bando di gara e svolgendo una funzione (quella di definire il regolamento di gara) che non le compete; a ciò si aggiunge il rilievo che i sub-criteri illegittimamente definiti dalla commissione ricalcherebbero “fedelmente le caratteristiche del servizio offerto dall’impresa aggiudicataria”;
   g) i punteggi delle offerte tecniche sarebbero stati attribuiti impropriamente e comunque in un modo tale da non far comprendere se sia stata utilizzata la griglia contenuta nella lettera di invito o quella del capitolato di gara (questa censura, contenuta nei motivi aggiunti, si salda al quarto motivo del ricorso principale con cui si deduce la contraddittorietà tra i due documenti citati);
Premesso che l’avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria con cui ha articolato una difesa solo relativamente ai motivi aggiunti cioè alle censure sopra sintetizzate sub f) e g);
Ritenuto che:
   a) in ordine alla dedotta violazione dell’articolo 12 d.l. 07.05.2012, n. 52, convertito in legge con modificazioni dalla legge 06.07.2012, n. 94, la censura, anche a prescindere dal rilievo che l’articolo indicato è stato abrogato (dall’articolo 217, comma 1, lett. u) d.lgs. 18.04.2016, n. 50), è comunque infondata in fatto, dato che l’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica è avvenuta in seduta pubblica, come ammesso in ricorso, e solo la valutazione è avvenuta in seduta riservata, come pacificamente consentito;
   b) in ordine alla dedotta illegittimità della composizione della commissione, la sezione condivide il rilievo secondo cui il r.u.p. non può essere membro della commissione; benché la compatibilità tra le due funzioni sia stata di recente affermata in giurisprudenza (si veda TAR Lombardia, Brescia, 19.12.2016, n. 1757), il contrario è infatti desumibile dal confronto tra la previsione del soppresso articolo 84 d.lgs. 12.04.2006, n. 163 secondo cui “i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta” e la formulazione dell’articolo 77, comma 4, d.lgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui “i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”; la mancata esclusione del presidente dalla regola prevista dall’articolo 77 implica chiaramente che il r.u.p. non possa essere componente della commissione nemmeno quale presidente e quindi il superamento della giurisprudenza formatasi sotto il vigore del soppresso codice degli appalti; non è d’altro lato condivisibile il rilievo secondo cui la nuova regola del comma 4 sarebbe destinata ad operare solo dopo l’istituzione dell’albo dei commissari previsto dall’articolo 77, comma 2, dato che essa è formulata in termini generali ed è pertanto immediatamente efficace anche nel regime transitorio delineato dal comma 12 dell’articolo 77 (con il quale è compatibile); nella fattispecie quindi il r.u.p. –che è il soggetto che ha formulato la lex specialis– illegittimamente ha svolto l’ufficio di presidente della commissione;
   c) in ordine alla dedotta violazione dell’articolo 30 d.lgs. n. 50, la base d’asta fissata dall’amministrazione consente la formulazione di offerte che rispettino il costo orario dei lavoratori delle cooperative sociali indicato in ricorso in euro 16,55 (alla offerta dell’aggiudicataria, utilizzando i dati della lettera invito, corrisponde un costo orario del servizio di circa euro 17,30, idoneo a garantire, sia pur di poco, il rispetto del costo orario dei lavoratori);
   d) sussistono infine le divergenze tra la lettera di invito e il capitolato speciale di appalto denunciate in ricorso in ordine ai requisiti di capacità economico-finanziaria (servizi analoghi e fatturato) richiesti ai concorrenti e ai punteggi attribuibili (per “esperienza sul campo” e “curricula”), atteso che per la “comprovata esperienza sul campo” la lettera di invito prevede un punteggio di 10 e il capitolato di 20 mentre per i curricula la lettera di invito prevede 20 punti e il capitolato 10;
Ritenuto che quanto precede implichi l’annullamento di tutti gli atti di gara, con salvezza delle ulteriori determinazioni dell’amministrazione, e assorbimento delle ulteriori censure non esaminate;
Ritenuto –in ordine alle richieste di declaratoria di inefficacia del contratto e di subentro della ricorrente– che i vizi riconosciuti fondati implicano la caducazione dell’intera gara a partire dagli atti che l’hanno indetta con la conseguenza che:
   a) non è possibile il subentro della ricorrente;
   b) nel bilanciamento degli opposti interessi, non si ritiene sussistano i presupposti per la declaratoria di inefficacia del contratto tenuto conto che l’affidamento si riferisce al solo corrente anno scolastico ed è quindi prossimo a scadenza (è quindi tecnicamente impossibile una rinnovazione della gara che si concluderebbe necessariamente, tenuto conto dei tempi occorrenti, ben dopo la fine dell’anno scolastico); di conseguenza una dichiarazione di inefficacia del contratto avrebbe il solo effetto di privare i beneficiari del servizio di assistenza e non risulterebbe di alcuna utilità per la ricorrente;
Ritenuto, in ordine alla domanda di risarcimento dei danni, che i vizi riconosciuti fondati implicherebbero la rinnovazione della gara e non l’aggiudicazione di essa alla ricorrente; di conseguenza poiché con la sua domanda –peraltro del tutto generica– la ricorrente chiede il danno da “mancata aggiudicazione” essa deve essere respinta (TAR Lazio-Latina, sentenza 23.05.2017 n. 325 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Acquisizione sanante a seguito di giudizio di ottemperanza.
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Espropriazione per pubblica utilità – Acquisizione sanante – A seguito di giudizio di ottemperanza - In alternativa a restituzione immobile illegittimamente occupato –Possibilità – Condizione.
L’Amministrazione, condannata con sentenza a restituire l’immobile occupato illegittimamente e pagare le somme dovute oppure, in alternativa, ad emettere il decreto di acquisizione sanante ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 perde il potere di emanare tale decreto solo se, a seguito dell’instaurazione del giudizio di ottemperanza (volto all’esecuzione del giudicato nella sua interezza), nella persistenza dell’inadempienza, si insedi il commissario ad acta nominato a provvedere in sua sostituzione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar, richiamando i principi espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 09.02.2016, n. 2, che a fronte di un giudicato alternativo, quale quello in questione, in caso di inadempienza dell’amministrazione, parte ricorrente potrà ricorrere allo strumento del ricorso per l’ottemperanza e, in tal caso, il commissario, se nominato dal giudice a mente dell’art. 114, comma 3, lett. d), c.p.a. ed insediatosi a seguito della persistenza dell’inottemperanza, darà esecuzione al giudicato e pertanto potrà emanare anche il provvedimento di acquisizione coattiva, in quanto previsto in sentenza.
Ha aggiunto che la circostanza che in sentenza sia stato previsto un termine entro il quale restituire l’immobile e corrispondere le somme dovute oppure emanare il decreto di acquisizione coattiva non esclude la legittimità del provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 cit. emesso successivamente, ove tale adempimento costituisca pur sempre esecuzione secondo buona fede della sentenza e non frustri la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale.
Ha quindi concluso il Tar che l’amministrazione, condannata in via alternativa, perde il potere di emanare il provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis, d.P.R. n 327 del 2001 solo se, a seguito dell’instaurazione del giudizio di ottemperanza (volto all’esecuzione del giudicato nella sua interezza), nella persistenza dell’inadempienza, si insedi il commissario ad acta nominato a provvedere in sua sostituzione.
Non può condurre a diversa valutazione la circostanza che la sentenza da ottemperare specificasse che il termine era posto nell’esclusivo interesse della parte ricorrente; tale precisazione non si pone in contrasto con le conclusioni cui è pervenuto il Tar, volendo solo indicare che, scaduto tale termine, i ricorrenti avrebbero potuto agire con gli ordinari strumenti a tutela delle loro pretese oppure concedere ulteriore termine, essendo quest’ultimo, per l’appunto, posto nel loro interesse (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 22.05.2017 n. 852 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti di una gara secretata.
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Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Contratti secretati - Accessibilità – Condizione.
Atteso che il d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non reca una specifica disciplina dell'accesso con riferimento agli appalti secretati ai sensi dell’art. 162, spetta all’interprete il compito di stabilire se e come tale diritto possa essere esercitato, a tal fine operando un bilanciamento tra l’interesse alla non divulgazione di notizie sensibili e il diritto di difesa; l’art. 24, comma 5, l. 07.08.1990, n. 241, la cui applicabilità alle procedure di evidenza pubblica è sancita dall’art. 53, comma 1, del codice di contratti, infatti, evidenzia come il segreto possa precludere il diritto d’accesso solo nei limiti in cui sia necessario per garantire l’interesse a tutela del quale esso è posto (1).
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   (1) Ad avviso del Tra Catanzaro occorre svolgere un opera di bilanciamento tra l’interesse alla non divulgazione di notizie sensibili e il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost., al cui esercizio l’accesso è finalizzato. La bontà di tali conclusioni è suffragata dall’art. 24, comma 5, l. 07.08.1990, n. 241, la cui applicabilità alle procedure di evidenza pubblica è sancita dall’art. 53, comma 1, del codice di contratti.
Esso, infatti, evidenzia come il segreto possa precludere il diritto d’accesso solo nei limiti in cui sia necessario per garantire l’interesse a tutela del quale esso è posto. L’opera di bilanciamento degli interessi non può essere svolta in via generale astratto, ma va centrata sulla specifica vicenda storica all’attenzione dell’interprete (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 22.05.2017 n. 830 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAnche uno o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono, di per sé, sintomatici della presenza di un comportamento “mobbizzante”, occorrendo, invece, per la sua realizzazione, un complessivo disegno persecutorio e discriminatorio, qualificato da comportamenti materiali ovvero da provvedimenti caratterizzati da finalità di volontaria ed organica vessazione con connotazione emulativa e pretestuosa.
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Il Collegio ritiene che in ordine ai fatti suindicati, debba richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale prevalente di questo Consiglio (ved. ex plurimis CdS sez. VI n. 1945/2015) secondo il quale anche uno o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono, di per sé, sintomatici della presenza di un comportamento “mobbizzante”, occorrendo, invece, per la sua realizzazione, un complessivo disegno persecutorio e discriminatorio, qualificato da comportamenti materiali ovvero da provvedimenti caratterizzati da finalità di volontaria ed organica vessazione con connotazione emulativa e pretestuosa (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.05.2017 n. 2363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'aver omesso di presentare allo Sportello unico per l'edilizia la denuncia delle opere strutturali (nella fattispecie consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada, prima dì procedere al loro inizio) integra la contravvenzione di cui all'art. 93, comma 1, indipendentemente sia dalle caratteristiche dell'opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio -con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria- effettuato in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato sia dal grado di sismicità dell'area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico.
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Nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell'illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all'agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall'imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata.
Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall'art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l'attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione.

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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 04/07/2016 il Tribunale di Asti aveva assolto, con la formula "
perché il fatto non costituisce reato", No.Ma., Gi.So. e Sa.Ma. in relazione ai reati di cui agli artt. 71 (capo a) e 93 e 95 (capo b) del d.p.r. n. 380 del 2001, per avere: la prima in qualità di committente, il secondo di esecutore ed il terzo di direttore dei lavori, eseguito opere in conglomerato cementizio armato -consistenti in un muro di confine, in piloni di sostegno del cancello, in un muretto di recinzione su strada- in violazione dell'art. 64, commi 2, 3 e 4, nonché per avere omesso di presentare allo Sportello unico per l'edilizia la denuncia delle predette opere strutturali
prima del loro inizio; fatti accertati in Asti in data 12/06/2013.
1.1. Secondo il primo giudice, infatti, pur essendo stata pacificamente dimostrata la realizzazione delle opere sopra menzionate, dall'istruttoria dibattimentale era, altresì, emerso che i manufatti, costruiti in cemento armato, non erano destinati ad assolvere alcuna funzione statica e che, per tale motivo, gli imputati avevano ritenuto di non dovere presentare preventivamente la denuncia prevista dall'art. 65 del d.p.r. n. 380/2001 per le opere in conglomerato cementizio armato, che l'art. 53, comma 1, considera come tali, appunto, solo quando assolvano ad una funzione statica.
Sulla base della riportata interpretazione della normativa di riferimento, avallata dalla Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, gli imputati si erano, dunque, consapevolmente determinati a non presentare la denuncia in questione, incorrendo in un errore scusabile, siccome indotto da una normativa suscettibile di differenti opzioni esegetiche e non potendo attribuirsi rilievo dirimente al contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che gli imputati non sarebbero stati tenuti a conoscere.
2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo, con un unico motivo di impugnazione proposto ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla sola contravvenzione di cui agli artt. 93 e 95 del d.p.r. n. 380 del 2001 contestata al capo b).
Ciò sul presupposto che tale figura di reato sia applicabile a tutte le opere realizzate in zona sismica, indipendentemente dalla funzione statica dalle stesse svolte; e non essendo stato, per altro verso, dimostrato che gli imputati versassero, nella specie, in una situazione di errore scusabile, anche tenuto conto del consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità in materia di obblighi di informazione sulla normativa settoriale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
2. Con la fattispecie descritta al capo b) della rubrica è stato contestato agli imputati di avere omesso di presentare allo Sportello unico per l'edilizia la denuncia delle opere strutturali indicate al capo a) -consistenti di un muro di confine, dei piloni di sostegno di un cancello, di un muretto di recinzione su strada- prima dì procedere al loro inizio.
Come correttamente posto in luce dal ricorrente, la contravvenzione de qua sanziona, al comma 1, l'omesso preavviso scritto allo sportello unico delle "costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni" alla cui presentazione è tenuto chiunque intenda procedervi "nelle zone sismiche di cui all'articolo 83".
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte
il reato in contestazione resta integrato indipendentemente sia dalle caratteristiche dell'opera edilizia, che può consistere in qualsiasi intervento edilizio -con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria- effettuato in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155), sia dal grado di sismicità dell'area, essendo il reato de quo configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (v. Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 06/06/2011, Morini, Rv. 250369).
Ne consegue che, già sotto il profilo dell'elemento oggettivo, la sentenza impugnata si mostra gravemente carente, essendosi la stessa soffermata unicamente sulle caratteristiche dell'opera in rapporto alla sua funzione statica ed ai conseguente obbligo di denuncia, senza in alcun modo affrontare il concorrente profilo della sismicità dell'area interessata dall'intervento, la quale avrebbe, dunque, imposto di ottemperare agli obblighi comunicativi.
3. Sotto altro aspetto, si è opinato, da parte della difesa degli imputati, e il primo giudice ha condiviso tale prospettazione, che gli stessi sarebbero incorsi in errore scusabile per avere deciso di non presentare la denuncia allo Sportello unico sulla base della Circolare del Ministero dei lavori pubblici 14/02/1974, n. 11951, non essendo gli stessi tenuti a conoscere il contrario indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che affermerebbe, in siffatte ipotesi, la rilevanza penale dell'omissione della denuncia e, per converso, l'irrilevanza delle eventuali previsioni difformi da parte delle circolari amministrative.
3.1. Sul punto, osserva il Collegio che la consolidata produzione giurisdizionale di questa Corte è ormai pervenuta ad affermare, sulla scia della fondamentale sentenza n. 368/1988 della Corte costituzionale, che
nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare rilevanza giuridica solo a condizione che essa si traduca nella mancanza di consapevolezza dell'illiceità del fatto e che derivi da un elemento positivo estraneo all'agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la prova della sussistenza del quale deve essere fornita dall'imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016, dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero, Rv. 268000; Sez. 4, n. 9165 del 05/02/2015, dep. 02/03/2015, Felli, Rv. 262443; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014, dep. 09/10/2014, Paris, Rv. 260657; Sez. 3, n. 49910 del 04/11/2009, dep. 30/12/2009, Cangialosí e altri, Rv. 245863; Sez. 3, n. 46671 del 05/10/2004, dep. 01/12/2004, Sferlazzo, Rv. 230889; Sez. 3, n. 12710 del 29/11/1994, dep. 21/12/1994, D'Alessandro, Rv. 200950).
Ciò sul presupposto che gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall'art. 2 Cost. impongono al destinatario di una determinata normativa di adempiere a stringenti oneri informativi, i quali richiedono che, prima di porre in essere l'attività disciplinata da specifiche disposizioni, egli si adoperi per sciogliere i dubbi che eventualmente concernano il lecito svolgimento di essa o le particolari modalità previste per la sua esecuzione.
Ora, se per un verso non può in assoluto escludersi che la presenza di determinate circolari amministrative possa contribuire a delineare un quadro regolativo confuso e scarsamente idoneo a orientare il comportamento dei consociati (rientrando, l'ipotesi delle circolari, tra gli esempi offerti dalla citata sentenza n. 364/1988 per configurare una situazione di scarsa perspicuità dell'assetto normativo, tale eventualmente determinare un errore scusabile), deve nondimeno rilevarsi che, nel caso di specie, le circolari invocate riguardavano, come già osservato (v. supra § 2), tutt'altro oggetto rispetto alla problematica che viene, qui, in rilievo: ovvero l'obbligatorietà della preventiva denuncia di opere in cemento armato inidonee ad assolvere una funzione statica e non, come invece sarebbe stato necessario, l'obbligatorietà della comunicazione connessa alla sismicità dell'area interessata dall'intervento edificatorio.
Consegue a quanto appena rilevato che, in ogni caso, anche sotto questo dirimente profilo, deve escludersi qualunque rilevanza, sotto il profilo scusante, a quanto stabilito dalla cennata circolare e, corrispondentemente, al convincimento maturato dagli imputati alla stregua delle sue disposizioni (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.05.2017 n. 24585).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul'istituto della "convalida".
L’art. 21-nonies l. 07.08.1990 n. 241, prevede (co. 2) “la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n. 249/1968, prevedeva che “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, per effetto dell’art. 21-nonies sopra citato, appare evidente “l'intendimento del legislatore di consentire oggi, in via generale, il mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso, non si necessita di particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti.
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine all’adozione del provvedimento di convalida, ciò, tuttavia, non comporta che l’organo adottante debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà del’organo di assumere tale atto.
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione, in esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di II grado,, interviene su un provvedimento amministrativo viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità. Essa presuppone, ai sensi dell’art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia decorso un “termine ragionevole” dall’adozione dell’atto illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti adottati in esercizio del potere di autotutela, consegue alla titolarità del potere di adozione dell’atto oggetto dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto illegittimo, ed in considerazione di ragioni di pubblico interesse (e della loro natura), può decidere sia di procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela, sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto medesimo, sanando i vizi che, rendendolo illegittimo, ne determinerebbero astrattamente l’annullabilità.
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Appare del tutto evidente che l’esercizio del potere di convalida presuppone un atto non ancora annullato (quale che sia stata la sede in cui l’annullamento è intervenuto), mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono (come dichiaratamente nel caso di specie) alla “convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente.
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4. Il ricorso volto ad ottenere l’ottemperanza della sentenza n. 4079/2015 del Consiglio di Stato ed il successivo ricorso per motivi aggiunti sono fondati e devono essere, pertanto, accolti, con conseguente declaratoria di nullità delle deliberazioni nn. 37 e 78 del 2016, adottate dalla Giunta comunale di Lumezzane.
Con tali delibere, come si è detto nella parte espositiva in fatto, la Giunta comunale (in virtù delle competenze in tema di approvazione dei piani attuativi ex novo attribuitele dalla l.reg. Lombardia n. 4/2012) ha, in particolare, dapprima proceduto alla convalida delle deliberazioni del Consiglio comunale, concernenti l’approvazione del Piano integrato di intervento (del. n. 37/2016) e successivamente alla approvazione in via definitiva di detta convalida, dopo le pubblicazioni di rito e la constatazione della assenza di osservazioni (del. n. 78/2016).
In quest’ultima delibera si afferma, in particolare, che “a garanzia della legittimità della procedura di convalida, il presente atto ha valore di approvazione del P.I.I. annullato, facendo espresso riferimento a tutti gli atti in origine contenuti e facenti parte del procedimento”.
5. Alla luce di quanto esposto, appare evidente la violazione del giudicato effettuata dal Comune di Lumezzane, per il tramite degli atti adottati dalla Giunta Comunale, e ciò per due distinte e concorrenti ragioni:
   - per un verso, il Comune di Lumezzane ha proceduto alla “convalida” di atti già annullati in sede giurisdizionale e, dunque, non più esistenti nell’ordinamento giuridico;
   - per altro verso -anche a voler attribuire agli atti adottati (pur in contrasto con quanto dagli stessi affermato), valore di approvazione “nuova ed autonoma” del P.I.I., e non già di convalida degli atti precedenti- il Comune di Lumezzane ha adottato atti di “riapprovazione” dello strumento urbanistico attuativo in contrasto con quanto affermato dalla sentenza passata in giudicato, e ciò in violazione dell’art. 21-septies l. n. 241/1990.
6. L’art. 21-nonies l. 07.08.1990 n. 241, prevede (co. 2) “la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di pubblico interesse ed entro un termine ragionevole”.
In precedenza, e con ambito più limitato, l’art. 6 l. n. 249/1968, prevedeva che “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
In via generale, la giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto modo di osservare che, per effetto dell’art. 21-nonies sopra citato, appare evidente “l'intendimento del legislatore di consentire oggi, in via generale, il mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso, non si necessita di particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti (Cons. St., sez. IV, 29.05.2009 n. 3371).
Pur sussistendo la necessità di motivare in ordine all’adozione del provvedimento di convalida, ciò, tuttavia, non comporta che l’organo adottante debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà del’organo di assumere tale atto (Cons. Stato, sez. IV, 12.08.2011 n. 2863).
La convalida, dunque, è il provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione, in esercizio del proprio potere di autotutela decisionale ed all’esito di un procedimento di II grado,, interviene su un provvedimento amministrativo viziato, e come tale annullabile, emendandolo dai vizi che ne determinano l’illegittimità e, dunque, l’annullabilità. Essa presuppone, ai sensi dell’art. 21-nonies, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse e che non sia decorso un “termine ragionevole” dall’adozione dell’atto illegittimo.
La competenza, come in generale per tutti i provvedimenti adottati in esercizio del potere di autotutela, consegue alla titolarità del potere di adozione dell’atto oggetto dell’autotutela medesima, salvo che, medio tempore, una diversa amministrazione (o organo della medesima) sia stato reso attributario del citato potere di adozione.
In definitiva, l’amministrazione, in presenza di un atto illegittimo, ed in considerazione di ragioni di pubblico interesse (e della loro natura), può decidere sia di procedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela, sia ad operare un “intervento ortopedico” sull’atto medesimo, sanando i vizi che, rendendolo illegittimo, ne determinerebbero astrattamente l’annullabilità.
Da quanto esposto, appare del tutto evidente che l’esercizio del potere di convalida presuppone un atto non ancora annullato (quale che sia stata la sede in cui l’annullamento è intervenuto), mancando, in difetto di ciò, lo stesso “oggetto” dell’esercizio del potere di autotutela decisionale.
Più in particolare, nel caso in cui l’annullamento sia intervenuto in sede giurisdizionale, e la sentenza che lo dispone sia passata in giudicato, gli atti che procedono (come dichiaratamente nel caso di specie) alla “convalida” di quelli già annullati dal giudice, sono nulli perché adottati in violazione del giudicato.
A ciò deve aggiungersi che tali atti sarebbero nulli anche per difetto totale di elementi essenziali, quali l’oggetto, non potendo sussistere alcun interesse pubblico alla convalida di un atto non più esistente (Cons. Stato, sez. IV, 02.04.2012 n. 1958) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.05.2017 n. 2351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIPer pubblicità deve intendersi "qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi.
Ai fini dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato.
Sicché, le indicazioni stradali e i segnali turistici e di territorio che forniscono agli utenti informazioni necessarie o utili per la guida e la individuazione di località, itinerari, servizi e impianti, svolgono per la loro sostanziale natura di insegne, anche una funzione pubblicitaria tassabile, ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 507/1993.
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Ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 145/2007 per pubblicità deve intendersi "qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi", mentre secondo l'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 507/1993 "Ai fini dell'imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato".
Nel caso di specie, l'oggetto della controversia riguarda alcune informazioni indicative dei giorni e orari d'apertura del centro commerciale interessato ("domenica aperto") ovvero indicazioni sulle attività svolte all'interno dello stesso, di cui una -punto 30- con il riferimento nominativo all'impresa controricorrente ("Lecco più Iperal") di notevoli dimensioni.
Ad avviso del Collegio, secondo la normativa sopra indicata e secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. ord. n. 8616/2014, 17852/2004) le indicazioni stradali e i segnali turistici e di territorio che forniscono agli utenti informazioni necessarie o utili per la guida e la individuazione di località, itinerari, servizi e impianti, svolgono per la loro sostanziale natura di insegne, anche una funzione pubblicitaria tassabile, ai sensi dell'art. 5 d.lgs. cit..
Non può, d'altra parte, non rilevarsi come le indicazioni oggetto di controversia siano state esposte in un contesto di esercizio d'attività commerciale, e, quand'anche non direttamente volte a promuovere l'immagine o i prodotti dell'impresa interessata, tuttavia, si rivelano utili o necessarie ad un più proficuo svolgimento dell'attività d'impresa.
La sentenza va, pertanto, cassata e rinviata nuovamente alla sezione regionale della Lombardia, in diversa composizione, affinché riesami il merito della controversia, alla luce dei principi sopra esposti, in particolare, in subiecta materia il giudice del rinvio verificherà se i segnali e le indicazioni, per la loro struttura, ubicazione e dimensione possano effettivamente ritenersi strumentali al miglior esercizio dell'attività economica interessata (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 17.05.2017 n. 12349).

EDILIZIA PRIVATAAffinché sia configurabile una «ristrutturazione edilizia», ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico n. 380 del 2001 è indispensabile che la demolizione e la ricostruzione si verifichino «con la stessa volumetria» del manufatto preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato le opere in questione come una «nuova costruzione», dal momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che ha previsto la necessità del permesso di costruire per la realizzazione della nuova costruzione).
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Q
uando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» e cioè deve immediatamente emanare il provvedimento che ripristini la legalità.
Tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione».
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Le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile») riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale, dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore dell’immobile.
In altri termini, per l’applicabilità del medesimo art. 33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti, tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso» legittimamente realizzato, il che non avviene –in linea di principio- quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a un manufatto preesistente.
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6.1. Con una adeguata motivazione, la sentenza impugnata ha evidenziato che sul lastrico di copertura dell’edificio è stato realizzato un manufatto del tutto diverso da quello preesistente.
Affinché sia configurabile una «ristrutturazione edilizia», ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico n. 380 del 2001 è invece indispensabile che la demolizione e la ricostruzione si verifichino «con la stessa volumetria» del manufatto preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato le opere in questione come una «nuova costruzione», dal momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che ha previsto la necessità del permesso di costruire per la realizzazione della nuova costruzione), il che comporta l’infondatezza delle censure di violazione delle norme sopra indicate e la insussistenza dei dedotti profili di eccesso di potere.
6.2. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ritiene il Collegio che anch’essa risulta infondata e va respinta (sicché non rileva verificare se essa risulta inammissibile, in ragione delle censure formulate in primo grado), poiché:
   - quando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» (cfr. Consiglio Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1486; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955) e cioè deve immediatamente emanare il provvedimento che ripristini la legalità;
   - tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione»;
   - le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile») riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale, dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore dell’immobile;
   - in altri termini, per l’applicabilità del medesimo art. 33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti, tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso» legittimamente realizzato (cfr. ex plurimis Consiglio di Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912), il che non avviene –in linea di principio- quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a un manufatto preesistente.
7. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa proposizione d’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione, lungi da determinare tout court l’illegittimità della sanzione adottata, incide unicamente sulla potestà del Comune di portare ad immediata esecuzione la sanzione.
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6. Col primo motivo d’appello, l’appellante ripropone la medesima censura già dedotta in prime cure incentrata sull’argomento che la presentazione d’istanza di accertamento di conformità, in tempo successivo all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, condurrebbe all’illegittimità della sanzione adottata.
7. Il motivo è infondato.
7.1 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, a mente del quale la proposizione d’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione, lungi da determinare tout court l’illegittimità della sanzione adottata, incide unicamente sulla potestà del Comune di portare ad immediata esecuzione la sanzione (cfr. Consiglio di Stato, sez, IV, 19.02.2008 n. 849) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e l’emanazione del provvedimento di demolizione.
Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento. Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere del ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie sul condono o con la normativa sull’accertamento di conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
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Constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico e attuale alla demolizione, né comparazione con gli interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.

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8. Col secondo motivo, l’appellante lamenta che i giudici di prime cure non hanno dato alcun rilievo all’affidamento maturato sulla legittimità delle opere stante il lungo lasso di tempo trascorso dall’avvenuta realizzazione di esse fino al momento dell’adozione della sanzione impugnata.
9. Il motivo è infondato e va respinto.
9.1 I manufatti oggetto dei provvedimenti gravati consistono in un fabbricato di circa 88, 00 mq, allo stato grezzo e due manufatti, rispettivamente di 2,5 mq e 9,8 mq, ottenuti dall’assemblaggio precario di elementi in legno e lamiera grecata, realizzati –circostanza di fatto non contestata– in assenza di titolo abilitativo.
9.2 Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e l’emanazione del provvedimento di demolizione.
9.3 Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4892; sez. V, 11.07.2014, n. 3568; sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento. Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere del ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie sul condono o con la normativa sull’accertamento di conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
Costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico e attuale alla demolizione, né comparazione con gli interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.05.2016 n. 1948; Id., sez. VI, 05.05.2016 n. 1774).
10. Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione di un immobile abusivo oggetto di sequestro penale.
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Edilizia – Abusi – Demolizione immobile sottoposto a sequestro penale – Invalidità ed inefficacia.
E’ invalido, e, comunque, inefficace, l'ordine di demolizione, e i conseguenti provvedimenti sanzionatori, di un immobile abusivo colpito da sequestro penale ex art. 31, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (1).
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   (1) La Sezione ha dato atto che l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, sia amministrativo (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283), che penale (Cass. pen., sez. III, 14.01.2009, n. 9186), ritiene irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, sulla base della non qualificabilità della misura cautelare reale quale impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disp. att. c.p.p.
Da tale orientamento la Sezione si è però motivatamente discostata per una serie di ragioni.
La prima argomentazione si fonda sul fatto che l’ordine di demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità, ai sensi dell’art. 21-septies l. 07.08.1990, n. 241 (in relazione agli artt. 1346 e 1418 c.c.), e, quindi, radicalmente inefficace, per l’assenza di un elemento essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la possibilità giuridica dell’oggetto del comando. L’ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e, in ogni caso, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo ai casi in cui –come in quello di specie– l’ordine di demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro del processo penale si tornerà infra).
A tale argomentazione la Sezione ha aggiunto che le misure contemplate dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come tali, esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità dell’inottemperanza alla colpa del destinatario dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di responsabilità. Ma nella situazione considerata non è dato ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta (necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene. L’irrogazione di una sanzione per una condotta che non può in alcun modo essere soggettivamente ascritta alla colpa del soggetto colpito dalla sanzione stessa, non può che essere giudicata illegittima per il difetto del necessario elemento psicologico della violazione.
Ha ancora affermato il giudice di appello che a quanto già detto si aggiunge una ragione di equità: non può esigersi –e, giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua proprietà, ai soli fini della sua distruzione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. – Risulta, in particolare, fondata l’argomentazione, svolta soprattutto nel terzo motivo di appello, con cui la società appellante sostiene l’inapplicabilità delle sanzioni previste per l’inottemperanza a ordini di demolizione di manufatti abusivi, nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui l’immobile sia sottoposto a sequestro penale.
La questione, quindi, si risolve nella disamina della validità o dell’efficacia dei provvedimenti sanzionatori adottati sulla base del rilievo dell’omessa esecuzione di presupposti ordini di demolizione (o di riduzione in pristino) di opere abusive, che esulano, tuttavia, dalla disponibilità del destinatario dell’ordinanza rimasta inattuata, in quanto sequestrati dal giudice penale.
Tale problema, tuttavia, implica anche la soluzione della (logicamente) presupposta questione della validità (e dell’efficacia) dell’ordine di demolizione, per la cui inottemperanza sono state irrogate le misure sanzionatorie previste dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
4. –
Il Collegio non ignora che l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, sia amministrativo (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283), sia penale (Cass. Pen., sez. III, 14.01.2009, n.9186), ritiene irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, sulla base della non qualificabilità della misura cautelare reale quale impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disp. att. c.p.p.; ma reputa di dissentire da tale orientamento, per le ragioni di seguito sinteticamente (tenendo conto, per quanto possibile, della forma semplificata della presente sentenza) esposte.
5. – Con una prima, e, per certi versi, dirimente, argomentazione,
l’ordine di demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità, ai sensi dell’art.21-septies l. n. 241 del 1990 (in relazione agli artt. 1346 e 1418 c.c.), e, quindi, radicalmente inefficace, per l’assenza di un elemento essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la possibilità giuridica dell’oggetto del comando.
In altri termini,
l’ingiunzione che impone un obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del comando (il quale, se eseguisse l’ordinanza, commetterebbe il reato di cui all’art. 334 c.p.), difetta di una condizione costituiva dell’ordine, e cioè, l’imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S., Sezioni Riunite, parere n. 1175 del 09.07.2013 – 20.11.2014, sull’affare n. 62/2013).
In quest’ordine di idee,
l’ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela, quindi, privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo ai casi in cui –come in quello di specie– l’ordine di demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro del processo penale si tornerà infra).
6. –
L’affermazione dell’eseguibilità dell’ingiunzione di demolizione di un bene sequestrato, per quanto tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza amministrativa, non può, infatti, essere convincentemente sostenuta sulla base dell’assunto della configurabilità di un dovere di collaborazione del responsabile dell’abuso, ai fini dell’ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione dell’ingiunzione.
Tale argomentazione dev’essere, infatti, radicalmente rifiutata: sia perché riferisce a un’eventualità futura, astratta e indipendente dalla volontà dell’interessato la stessa possibilità (giuridica e materiale) di esecuzione dell’ingiunzione, mentre, come si è visto, l’impossibilità dell’oggetto attiene al momento genetico dell’ordine e lo vizia insanabilmente all’atto della sua adozione; sia perché, assiomaticamente, finisce per imporre al privato una condotta priva di qualsivoglia fondamento giuridico positivo; sia, infine, perché si risolve nella prescrizione di una iniziativa processuale (l’istanza di dissequestro) che potrebbe contraddire le strategie difensive liberamente opzionabili dall’indagato (o dall’imputato) nel processo penale, peraltro interferendo inammissibilmente nell’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto, quale quello di difesa (basti porre mente, in proposito, al caso che il mantenimento del sequestro penale –sub specie probatorio, ex art. 253 c.p.p.– risulti funzionale ad assicurare, per il seguito delle indagini o per il dibattimento, la prova che quanto realizzato non fosse abusivo, o non fosse conforme a quanto contestato o ritenuto dalla pubblica accusa, ovvero avesse altre caratteristiche scriminanti o anche solo attenuanti l’illiceità penale del fatto ascritto).
7. – Si aggiunga, ancora, che
le misure contemplate dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001, rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come tali, esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità dell’inottemperanza alla colpa del destinatario dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di responsabilità.
Sennonché, nella situazione considerata, non è dato ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta (necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene.
Come si vede, quindi,
l’irrogazione di una sanzione (che di questo si tratta) per una condotta che non può in alcun modo essere soggettivamente ascritta alla colpa del soggetto colpito dalla sanzione stessa, non può che essere giudicata illegittima per il difetto del necessario elemento psicologico della violazione.
8. – Fermo restando il carattere assorbente delle considerazioni appena svolte, resta da aggiungere un argomento, tutt’altro che secondario, di equità (ma, come tosto si dirà, non solo equitativo): non può esigersi –e, giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua proprietà, ai soli fini della sua distruzione.
Si tratta di un’argomentazione la cui valenza logica e intuitiva esime da ogni ulteriore spiegazione, restando immediatamente percepibile l’iniquità dell’imposizione di un dispendioso onere di diligenza, finalizzato solo alla distruzione del bene (ancora) di proprietà del destinatario dell’ingiunzione.
Per ulteriori considerazioni critiche in proposito –se il dissequestro, più o meno legittimamente, fosse negato, vi sarebbe anche un onere di gravame? E fino a che grado? O andrebbe riproposta l’istanza? E quando, e quante volte? – può rinviarsi al cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013; del quale però merita condividersi la conclusione, nel senso che “la tesi [qui avversata] si appalesa, quindi, poco approfondita in punto di diritto e apoditticamente sostenuta”.
Essa implica, infatti, l’imposizione di un onere di diligenza per il quale –al di là della sua assertiva invocazione ad opera di alcune prospettazioni giuridiche, che potrebbero forse sembrare più inopinatamente zelanti nella repressione degli abusi edilizi che adeguatamente attente al rispetto dei principi fondanti dell’ordinamento giuridico (ivi incluso quello ex art. 23 Cost., che si è già richiamato supra)– risulterebbe davvero complicato rinvenire un convincente fondamento normativo positivo; che, anzi, sembra da escludere, purché si tenga in adeguata considerazione l’esigenza che le sanzioni (non solo quelle penali: nemo tenetur se detergere; ma anche quelle amministrative) siano, almeno tendenzialmente, strutturate per essere applicate dai pubblici poteri, piuttosto che autoeseguite a proprio danno dallo stesso soggetto destinatario di esse.
9. – Nondimeno –sia per l’ipotesi che si ritenesse di poter prescindere dalla più persuasiva prospettazione, che si è sin qui illustrata, che qualifica in termini di nullità il vizio che affligge l’ordinanza di demolizione emanata nella pendenza del sequestro dell’immobile di cui trattasi; sia, comunque, con riferimento ai casi in cui l’ordine demolitorio o ripristinatorio sia stato adottato (e, in tal caso, validamente) in un momento in cui il bene non fosse sequestrato, ma venga invece sequestrato successivamente e nella pendenza del termine assegnato per ottemperare all’ingiunzione de qua– va ulteriormente indagato, per completezza di sistema, il tema dell’incidenza del sequestro penale (se non, in queste ipotesi, sulla validità) sull’efficacia dell’ordine di demolire e, derivativamente, sulla decorrenza o meno del termine a tal fine assegnato fintanto che il sequestro permanga efficace.
Limitandocisi in questa sede a un mero richiamo delle argomentazioni dogmatiche più approfonditamente svolte nel più volte cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013 –in tema di distinzione tra nullità, come difetto strutturale originario di uno degli elementi essenziali dell’atto giuridico (sub specie, qui, di possibilità dell’oggetto), e inefficacia, allorché tali elementi essenziali (e qui, dunque, la ridetta possibilità), originariamente sussistenti, vengano meno successivamente in modo temporaneo o definitivo, in quest’ultimo caso dandosi adito a una causa estintiva degli efficacia dell’atto (per impossibilità sopravvenuta) e invece nel primo solamente a una temporanea sospensione di tale efficacia– occorre evidenziare che,
finché il sequestro perdura, la demolizione (anche se validamente ingiunta: vuoi perché disposta anteriormente al sequestro, ossia in un momento in cui il suo destinatario, essendo in bonis, aveva la possibilità giuridica di ottemperarvi; vuoi, ipoteticamente, perché non si condivida la tesi, invero dogmaticamente più coerente, della nullità per impossibilità giuridica dell’oggetto del provvedimento che abbia ingiunto la demolizione in costanza di sequestro) certamente non può eseguirsi.
A questo semplice rilievo consegue necessariamente –e perfino a prescindere dall’incoerente assunto, che pure si è già confutato, secondo cui il destinatario dell’ordine demolitorio sarebbe tenuto ad attivarsi per chiedere il dissequestro ai soli fini della demolizione: giacché certamente non lo si potrebbe pure onerare del fatto del terzo, ossia di ottenere tale risultato entro il termine di 90 giorni normalmente assegnatogli– che, per tutto il tempo in cui il sequestro perdura (e, qui si aggiunge, indipendentemente dalla condotta attiva o passiva serbata dall’autore dell’abuso rispetto al sequestro stesso), la non ottemperanza all’ordine di demolizione non può qualificarsi non iure, appunto a causa della già rilevata oggettiva impossibilità giuridica di procedervi.
Ciò non può non implicare, come conseguenza giuridicamente necessaria, l’interruzione o, quantomeno, la sospensione del decorso del termine assegnato per demolire, per tutto il tempo in cui il sequestro rimane efficace.
Detto termine, dunque, inizierà nuovamente a decorrere –per intero ovvero per la sua parte residua, secondo che si opti per l’interruzione o per la sospensione di esso in costanza di sequestro– solo allorché il sequestro venga meno, per qualunque ragione.
Merita evidenziarsi che l’assunto, qui propugnato, che il destinatario dell’ordine di demolizione non possa considerarsi giuridicamente onerato di richiedere il dissequestro per poter demolire non implica affatto né che ciò gli sia precluso (potrebbe, infatti, avervi interesse, per esempio per azzerare la situazione di abusivismo e poter così richiedere ex novo un titolo edilizio urbanisticamente conforme per riprendere l’attività edificatoria secundum legem); né che il dissequestro non possa essere richiesto all’Autorità giudiziaria penale da parte di chiunque altro vi abbia interesse: ossia, in primis, dalla stessa Amministrazione che abbia ingiunto (prima del sequestro, secondo la tesi qui condivisa) o che intenda ingiungere (non appena venuto meno il sequestro) la demolizione, con l’effetto di far ripartire prima possibile il decorso del termine per demolire e di far produrre, in difetto, le ulteriori conseguenze (acquisitive) che la legge riconnette all’inutile decorso di detto termine; ma anche, nei congrui casi, ai soggetti pubblici e privati controinteressati al mantenimento dell’opera edilizia abusiva, che abbiano comunanza di intenti e di interessi con l’Amministrazione procedente.
Infatti,
il venir meno del sequestro –da chiunque provocato o indotto, e anche se spontaneamente disposto dall’Autorità giudiziaria procedente– consente ex se all’Amministrazione di ingiungere, o di reiterare, la demolizione; ovvero produce, parimenti in via automatica, l’effetto di far cessare la causa di sospensione (o interruzione) del decorso del termine entro cui deve essere eseguita la demolizione, con ogni ulteriore conseguenza di legge in difetto.
Sicché, come ognun vede, si riduce a una mera petizione di principio –non suffragata, però, da adeguati indici normativi a suo supporto– l’assunto che il sistema non possa prescindere dall’onerare il proprietario di richiedere, contra se, il dissequestro al fine di demolire, e che perciò tale onere sia necessariamente insito nel sistema stesso.
Tutto all’opposto, non solo di tale onere non è dato rinvenire alcun fondamento positivo –e neppure nell’art. 85 disp. att. al c.p.p., che viene solitamente invocato a tal fine, giacché esso contempla un’ipotesi, e peraltro soltanto “se l’interessato consente”, ma non radica alcun obbligo in proposito– ma anzi i principi fondamentali dell’ordinamento sembrano deporre nel senso della sua esclusione: viepiù ove si consideri che la funzionalità dell’istituto in discorso (ossia dell’ordine di demolizione) è comunque assicurata, pur di fronte all’inerzia dell’Autorità giudiziaria procedente, dalla facoltà di attivarsi per richiedere a quest’ultima il dissequestro che deve riconoscersi all’Amministrazione, oltre che a ogni altro soggetto che possa vantare analogo interesse.
Beninteso, l’Autorità giudiziaria adita da un’istanza di dissequestro, da chiunque proposta, potrebbe disporlo –benché “ai soli fini della demolizione”– solo laddove il mantenimento del sequestro non sia (più) funzionale alle pertinenti esigenze processuali penali: ossia, fisiologicamente, solo in casi tendenzialmente abbastanza limitati e particolari.
Come è noto, infatti,
il codice di procedura penale conosce essenzialmente tre tipologie di sequestro: quello (c.d. probatorio penale) ex art. 253 c.p.p., che disciplina “il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti”; quello (c.d. preventivo) ex art. 321 c.p.p., che è volto a prevenire “che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”; e quello (c.d. conservativo) ex art. 316 c.p.p., che è volto a evitare “che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato”.
È del tutto evidente che solo il sequestro preventivo può considerarsi normalmente “cedevole” rispetto alle esigenze della demolizione (giacché essa tendenzialmente elide le conseguenza del reato e ne previene la commissione di ulteriori); laddove, almeno in linea di massima, le esigenze probatorie del sequestro penale e quelle di garanzia del sequestro conservativo dovrebbero essere considerate prevalenti su ogni altra.
In tal senso pare in effetti disporre, abbastanza univocamente, l’art. 262 c.p.p., che disciplina la “Durata del sequestro e restituzione delle cose sequestrate” (“1. Quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza. Se occorre, l'autorità giudiziaria prescrive di presentare a ogni richiesta le cose restituite e a tal fine può imporre cauzione. 2. Nel caso previsto dal comma 1, la restituzione non è ordinata se il giudice dispone, a richiesta del pubblico ministero o della parte civile, che sulle cose appartenenti all'imputato o al responsabile civile sia mantenuto il sequestro a garanzia dei crediti indicati nell'articolo 316. 3. Non si fa luogo alla restituzione e il sequestro è mantenuto ai fini preventivi quando il giudice provvede a norma dell'articolo 321”).
Dall’esame congiunto dei suoi tre commi pare potersi cogliere, dunque, una comprensibile prevalenza delle esigenze sottese al c.d. sequestro probatorio penale, rispetto alle quali sono accessorie quelle tutelate dal sequestro conservativo; mentre risultano sostanzialmente residuali quelle sottese al sequestro preventivo.
Nella misura in cui queste considerazioni colgano nel segno, risulterebbe fortemente svalutata nel sistema la tematica connessa alle istanze di dissequestro; il che costituirebbe un ulteriore argomento esegetico nel senso della fallacia delle tesi che non solo vorrebbero onerare (quantomeno praeter legem) il destinatario dell’ordine demolitorio a richiederlo, ma che tendono altresì a sanzionare l’inottemperanza a tale preteso onere con l’acquisizione. La quale, invece, sembra essere prevista dalla legge solo a fronte di una condotta, parimenti omissiva, ma ben diversa: ossia per chi, ovviamente potendolo giuridicamente fare, non demolisca l’immobile (e non anche per chi, assertivamente tenuto a chiedere al giudice il dissequestro, ometta di formulare istanze in tal senso).
Sicché è anche il fondamentale principio di tipicità delle sanzioni a ulteriormente confortare la conclusione cui il Collegio qui perviene.

URBANISTICA: Rinegoziazione di una convezione di lottizzazione.
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Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Ratio – Differenza con i costi di costruzione.
 
Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Riduzione per mancata realizzazione di tutta la volumetria originariamente prevista – Conseguente riduzione oneri di urbanizzazione – Esclusione.
Piani di lottizzazione - Rinuncia alla realizzazione di un intervento -. Offerta di cessione di area edificabile a scomputo dei contributi di costruzione – Rinegoziazione secondo buona fede – Obbligo di esaminare la proposta.
Gli oneri di urbanizzazione sono contributi dovuti ai Comuni nei casi di modificazioni dell’assetto urbanistico-edilizio, per partecipare alle spese che i Comuni sostengono per l’urbanizzazione del loro territorio; i costi di costruzione, invece, costituiscono una compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore (1).
Non è sufficiente rinunciare alla costruzione di uno dei diversi edifici previsti in un piano di lottizzazione per ottenere la riduzione degli oneri di urbanizzazione, dovendosi al più chiedere una variante riduttiva del piano di lottizzazione, modificando il layout della sua configurazione, poiché il progetto delle urbanizzazioni dipende dall’intera strutturazione del piano, a prescindere dalla realizzazione o meno degli interventi edilizi in esso pianificati (2).
• La rinuncia alla realizzazione di un intervento e l’offerta del lottizzante di cedere al Comune l’area edificabile (anche a scomputo dei contributi di costruzione) deve essere  presa in esame dal Comune, in virtù del principio del diritto-obbligo alla rinegoziazione secondo buona fede, che regola l’ambito delle convenzioni di lottizzazione e, più in generale, quello degli strumenti privatistici a base contrattuale o negoziale
(3).
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   (1) Ha ricordato il Tar che gli oneri di urbanizzazione si dividono in primaria e secondaria. I primi concorrono alla realizzazione di strade, parcheggi, fognature, illuminazione pubblica, verde pubblico, sistemi di distribuzione di acqua, energia, gas. I secondi sono destinati a finanziare la realizzazione di scuole, asili, centri civici, parchi urbani, impianti sportivi, parcheggi pubblici. I criteri di applicazione, fissati dalla normativa regionale e uniformi per tutto il territorio regionale, indicano le modalità di applicazione e i casi in cui ai Comuni è consentito modificare le entità determinate dalla Regione.
I costi di costruzione sono invece dovuti ai Comuni nei casi di nuova costruzione o ristrutturazione edilizia ed hanno un valore misurato in percentuale variabile sul costo
standard a metro quadro, fissato dalla Regione per le costruzioni di edilizia agevolata.
  
(2) V. Cons. St., sez. IV, 28.06.2016, n. 2915.
   (3) La premesso il Tar che il costo di costruzione, se è vero che è commisurato alle volumetrie virtuali previste nella lottizzazione, è altresì vero che non può prescindere dall’effettiva realizzazione dell’intervento edilizio. Esso richiede che vi sia un permesso di costruire e che il conseguente l'intervento determini un aumento del carico urbanistico (Tar Napoli, sez. VIII, 07.04.2016, n. 1769) ha aggiunto che l'art. 16 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 collega il pagamento del costo di costruzione all'effettiva attività edificatoria, in quanto gli oneri di costruzione costituiscono una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova la sua ratio giustificatrice nell'incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza del realizzando intervento edilizio.
Essendo il contributo in questione strettamente connesso al concreto esercizio della facoltà di edificare, in misura corrispondente all'entità e alla qualità del maggior carico urbanistico conseguente alla realizzazione del fabbricato assentito ed all'insieme dei benefici che la nuova opera ne trae, la formazione del credito del Comune postula, quale condizione di esigibilità, l'effettiva attività di edificazione e comporta la corresponsione di un contributo commisurato al costo di costruzione globalmente inteso, nel senso che deve investire ed essere riferito all'intera opera, per come assentita e realizzata (
Tar Lazio, sez. II quater, 12.05.2015, n. 6901).
Quanto alla rinegoziazione delle convenzioni di lottizzazione, il Tar ha chiarito che è la buona fede in executivis che viene in rilievo, nonché la buona fede quale fonte di eterointegrazione dell’accordo negoziale (artt. 1374 e 1375 c.c.). Il principio di rinegoziazione secondo buona fede ha, infatti, un inevitabile impatto anche nei contratti e negli accordi tra privati e Pubblica amministrazione. La poliedrica clausola generale di buona fede, di cui la rinegoziazione è una delle possibili declinazioni, è dotata di straordinaria pervasività, ergendosi a regola non solo del regolamento tra privati, ma come criterio generale dei rapporti tra privati e P.A., al fine di preservare la conservazione dell’equilibrio economico-giuridico fissato nell’atto consensuale.
Anche in assenza di un’apposita clausola della convenzione di lottizzazione che obblighi le parti a rinegoziare, è la stessa struttura di
genus dell’accordo sostitutivo di provvedimento, ex art. 11, l. 07.08.1990, n. 241, cui si può ricondurre la species della convenzione di lottizzazione, a imporre all’Amministrazione pubblica di ponderare gli interessi pubblici e privati coinvolti nel procedimento negoziato, non solo nella fase genetica (l’accordo) ma anche nella fase della sua esecuzione. Ciò anche in considerazione del fatto che, tra i principi che reggono la negoziazione pubblica, vi è quello di matrice comunitaria di “proporzionalità”, a presidio del quale la rinegoziazione è evidentemente predisposta (TAR Molise, sentenza 17.05.2017 n. 184 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Divieto per i cani di entrare nei parchi pubblici.
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Sindaco – Ordinanza contingibile e urgente – Divieto accesso ai cani nei parchi pubblici – In mancanza di accertamento di emergenza sanitaria o di igiene pubblica.
E’ illegittima l’ordinanza sindacale contingibile ed urgente che vieta l’accesso di cani, anche accompagnati dai rispettivi conducenti, ad un parco pubblico, per essere stata riscontrata “la presenza di numerosi escrementi canini in ambito urbano comunale”, ove sia mancato l’accertamento di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’esercizio, da parte del sindaco, del potere extra ordinem presuppone il requisito della necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli ordinari mezzi di carattere definitivo previsti dall'ordinamento giuridico.
Le ordinanze contingibili e urgenti, derogando al principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, impongono la precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge.
Nel caso all’esame del Tar il provvedimento impugnato, oltre a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali di efficacia, non è sorretto da una adeguata istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione di “escrementi canini in ambito urbano comunale
Per completezza il Tar ha ricordato che la Regione Toscana, con la legge n. 59 del 2009 ha disciplinato la “tutela degli animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della museruola qualora previsto dalle norme statali”.
Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi cartelli di divieto” (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 16.05.2017 n. 694 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso merita accoglimento.
Rivedendo con una più approfondita ponderazione quanto ritenuto con l’ordinanza cautelare il Collegio è dell’avviso che sussista la legittimazione a ricorrere dell’associazione.
Si è infatti più volte affermato che,
ai sensi degli artt. 13 e 18, l. 08.07.1986, n. 349 —che attribuiscono alle associazioni ambientalistiche riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano portatrici— sussiste sempre la legittimazione ad agire in capo a un organismo associativo con finalità ambientalistiche avverso provvedimenti lesivi degli interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i quali rientra quello ad un corretto rapporto con gli animali in genere e con gli addomesticati, in particolare (TAR Molise, 17.02.2014 n. 104; TAR Puglia–Lecce, n. 732/2013; TAR Veneto, sez. III, 16.11.2010, n. 6045; ma vedasi anche Cass. pen., sez. III, 04.10.2016 n. 52031, in tema di legittimazione di tali associazioni a costituirsi parte civile nei procedimenti relativi a reati commessi ai danni di animali).
Nel caso concreto, l’art. 2 dello Statuto stabilisce che lo scopo dell’associazione è quello di promuovere la difesa della fauna ed il riconoscimento dei diritti soggettivi di tutti gli animali e che, a tal fine, l’associazione “attua o favorisce tutte le iniziative giuridiche, politiche, culturali...idonee”.
Nel merito il ricorso è fondato, assumendo assorbente rilievo quanto dedotto con il primo e terzo motivo in relazione all’insussistenza dei presupposti di cui dell’art. 50, co. 5, d.lgs. n. 267/2000 e al difetto di istruttoria e di motivazione.
Dispone la norma in parola che il sindaco può emettere ordinanze contingibili e urgenti “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”.
La disposizione è pacificamente interpretata nel senso che
l’esercizio da parte del sindaco di tale potere extra ordinem presuppone il requisito della necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli ordinari mezzi di carattere definitivo previsti dall'ordinamento giuridico (tra le più recenti, TAR Abruzzo, L'Aquila, 05.11.2015 n. 746; TAR Campania, sez. III, 01.06.2015 n. 3011; TAR Lombardia, sez. III, 15.12.2014 n. 3039).
Si è altresì rilevato che,
in quanto derogano al principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, le ordinanze contingibili e urgenti impongono la precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti "extra ordinem", che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 13.02.2015 n. 455).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato, oltre a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali di efficacia, non appare sorretto da una adeguata istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione di “escrementi canini in ambito urbano comunale”.
Per completezza d’argomentazione, pur non costituendo motivo di ricorso, va rilevato che, come evidenziato dalla ricorrente nella sua memoria conclusiva, la Regione Toscana, con la legge n. 59/2009 ha disciplinato la “tutela degli animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della museruola qualora previsto dalle norme statali”. Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi cartelli di divieto”.
Ne discende, per le ragioni esposte che il ricorso va accolto con il conseguente annullamento dell’atto impugnato.

APPALTIAnche in tema di gare pubbliche, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad una gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia acquisita in fase di seduta pubblica o in un’altra circostanza e anteriormente alla formale comunicazione di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del d.lgs. n. 50/2016): ciò perché la disposizione ora menzionata, se risponde al fine di garantire piena conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di esclusione e di aggiudicazione della gara, non prevede forme di comunicazione esclusive o tassative e consente che la “piena conoscenza” dell’atto sia acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce l’avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle tipiche prescritte.
In definitiva, l’art. 79 cit. non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo in tema di decorrenza dei termini di impugnazione –dalla data della notificazione, comunicazione o, comunque, piena conoscenza dell’atto– ex art. 120, comma 5, c.p.a..
Un recente arresto ha richiamato la ratio acceleratoria della disciplina processuale di cui all’art. 120 c.p.a., osservando che gli eventuali problemi di coordinamento con la normativa regolante l’accesso agli atti possono essere superati con il rimedio –prima ricordato– della proposizione dei motivi aggiunti per profili di illegittimità conosciuti successivamente, in virtù dell’integrale conoscenza degli atti. La decisione in commento ha, peraltro, precisato che qualsiasi profilo relativo ad eventuali impedimenti nel prendere visione degli atti di gara, ai fini della proposizione dell’impugnativa, va improntato al principio di diligenza delle parti, che debbono attivarsi tempestivamente onde ottenere l’accesso agli atti secondo i mezzi messi loro a disposizione dall’ordinamento.

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La suesposta eccezione di tardività va esaminata alla stregua dei principi giurisprudenziali in tema di “piena conoscenza” degli atti amministrativi lesivi.
In particolare, è orientamento consolidato in giurisprudenza quello per il quale la piena conoscenza del provvedimento –da cui decorre il termine decadenziale per proporre ricorso– è integrata dalla cognizione dei suoi elementi essenziali, del suo contenuto dispositivo e della sua lesività rispetto agli interessi del ricorrente, senza che, per contro, sia necessaria la completa acquisizione di tutti gli atti del procedimento e del contenuto integrale della determinazione conclusiva (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 14.06.2016, n. 2565; id., Sez. V, 07.08.2015, n. 3881; id., Sez. III, 16.06.2015, n. 3025).
In altre parole, l’impugnazione va ancorata al momento in cui in concreto si è verificata ed è stata apprezzata la situazione di lesività, poiché la piena conoscenza del provvedimento che l’ha causata non può reputarsi operante oltre ogni limite temporale, visto che ciò renderebbe l’attività della P.A. e le iniziative dei controinteressati suscettibili di impugnazione sine die (C.d.S., Sez. IV, 19.08.2016, n. 3645).
Nondimeno, è altrettanto pacifica la facoltà di proporre motivi aggiunti, ove l’accesso agli atti abbia consentito di avere conoscenza di ulteriori profili di illegittimità dell’atto impugnato (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 30.11.2015, n. 5398).
In ogni caso, la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di individuare la decorrenza del termine di proposizione del ricorso, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni o su deduzioni, pur se sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche: essa deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica d’ufficio dell’eventuale irricevibilità del ricorso, o che debbono essere rigorosamente indicati dalla parte che, nel processo, eccepisca l’irricevibilità del ricorso (C.d.S., Sez. IV, 22.11.2016, n. 4900; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 09.01.2017, n. 25).
Gli ora visti principi ricevono integrale applicazione anche in tema di gare pubbliche. Infatti, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad una gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia acquisita in fase di seduta pubblica o in un’altra circostanza e anteriormente alla formale comunicazione di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del d.lgs. n. 50/2016): ciò perché la disposizione ora menzionata, se risponde al fine di garantire piena conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di esclusione e di aggiudicazione della gara, non prevede forme di comunicazione esclusive o tassative e consente che la “piena conoscenza” dell’atto sia acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce l’avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle tipiche prescritte. In definitiva, l’art. 79 cit. non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo in tema di decorrenza dei termini di impugnazione –dalla data della notificazione, comunicazione o, comunque, piena conoscenza dell’atto– ex art. 120, comma 5, c.p.a. (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 17.02.2014, n. 740; id., Sez. VI, 13.12.2011, n. 6531; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 11.10.2016, n. 2555).
Un recente arresto (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 02.02.2017, n. 696) ha richiamato la ratio acceleratoria della disciplina processuale di cui all’art. 120 c.p.a., osservando che gli eventuali problemi di coordinamento con la normativa regolante l’accesso agli atti possono essere superati con il rimedio –prima ricordato– della proposizione dei motivi aggiunti per profili di illegittimità conosciuti successivamente, in virtù dell’integrale conoscenza degli atti. La decisione in commento ha, peraltro, precisato che qualsiasi profilo relativo ad eventuali impedimenti nel prendere visione degli atti di gara, ai fini della proposizione dell’impugnativa, va improntato al principio di diligenza delle parti, che debbono attivarsi tempestivamente onde ottenere l’accesso agli atti secondo i mezzi messi loro a disposizione dall’ordinamento (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La commissione di gara dev'essere composta da un numero dispari di membri e costituisce un collegio perfetto.
E' ben noto al Collegio come, nel vigore del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che la regola sulla composizione della Commissione di gara pubblica con un numero dispari di componenti non superiore a cinque, costituisse espressione di un principio generale, immanente nell’ordinamento e tale da implicare l’illegittimità della costituzione di un collegio con un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano, o occasionalmente possono operare, in composizione paritaria.
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola, già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è coerente con il principio in base al quale i collegi perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti da un numero dispari di membri.
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare, rispettivamente, le offerte economiche e le offerte tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che:
  
• “la commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce un collegio perfetto che deve operare con il plenum e non con la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto, le operazioni di gara propriamente valutative, quali la fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle offerte non possono essere delegate a singoli membri o a sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice”;
   • “La regola della collegialità perfetta alla quale deve attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni attività preparatorie” o meramente materiali;
   • “L’attività della commissione di gara può essere svolta, in special modo quando si tratti di esprimere valutazioni (spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo, attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua integrale composizione, e in tale veste la commissione proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte o progetti”.
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Nel merito il ricorso è fondato e da accogliere, in virtù della fondatezza delle censure (di cui ai nn. 1, 2 e 3 del ricorso) mosse alla composizione della Commissione giudicatrice ed all’affidamento ad apposite Sottocommissioni della valutazione delle offerte.
Invero, dalla documentazione in atti (cfr. il verbale del 07.09.2016, all. 11 al ricorso e doc. 5 della Fondazione) si ricava che la Commissione di gara era composta da due Consiglieri di Gestione della Fondazione (dr. Ga. ed arch. Ap.) e da due Conservatori del Museo Archeologico “Eno Bellis” e della Pinacoteca “Alberto Martini” (dr.ssa Ma. e dr.ssa Bo.). Si ricava, altresì, che la ridetta Commissione si è divisa in due Sottocommissioni, la prima formata dai Consiglieri di Gestione, con incarico di esaminare le offerte economiche, la seconda formata dai due Conservatori, con incarico di esaminare le offerte tecniche.
In questo modo, tuttavia, si è violata anzitutto la regola –già contenuta nell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 ed ora riproposta dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016– che impone che la Commissione di gara sia costituita da un numero dispari di commissari, non superiore a cinque.
Sul punto è ben noto al Collegio come, nel vigore del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che la regola sulla composizione della Commissione di gara pubblica con un numero dispari di componenti non superiore a cinque, costituisse espressione di un principio generale, immanente nell’ordinamento e tale da implicare l’illegittimità della costituzione di un collegio con un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano, o occasionalmente possono operare, in composizione paritaria (cfr. C.d.S., Sez. III, 03.10.2013, n. 4884; id., 11.07.2013, n. 3730).
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola, già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è coerente con il principio in base al quale i collegi perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti da un numero dispari di membri (cfr. C.d.S., Sez. V, 06.04.2009, n. 2143; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 20.04.2011, n. 595; id., 05.03.2010, n. 1122).
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare, rispettivamente, le offerte economiche e le offerte tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che “la commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce un collegio perfetto che deve operare con il plenum e non con la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto, le operazioni di gara propriamente valutative, quali la fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle offerte non possono essere delegate a singoli membri o a sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice” (cfr. C.d.S., Sez. V, 09.06.2003, n. 3247).
La regola della collegialità perfetta alla quale deve attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni attività preparatorie” o meramente materiali (v. TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 10.12.2009, n. 2009).
L’attività della commissione di gara può essere svolta, in special modo quando si tratti di esprimere valutazioni (spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo, attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua integrale composizione, e in tale veste la commissione proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte o progetti” (cfr. TAR Piemonte, Sez. II, 26.10.2007, n. 3305) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La Corte di giustizia dell’UE ritorna sulla questione della legittimazione dell’impresa “non definitivamente” esclusa dalla gara di appalto.
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Unione europea – Gara – Appalti pubblici – Offerte – Integrazione e regolarizzazione – Differenze.
Unione europea – Gara – Appalti pubblici – Offerente escluso – Legittimazione a ricorrere – Condizioni.
Il principio di parità di trattamento degli operatori economici stabilito dall’articolo 10 della direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, deve essere interpretato nel senso che esso osta a che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a presentare le dichiarazioni o i documenti la cui comunicazione era richiesta dal capitolato d’oneri e che non sono stati presentati nel termine stabilito per presentare le offerte. Tale articolo non osta, invece, a che l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a chiarire un’offerta o a rettificare un errore materiale manifesto contenuto in quest’ultima, a condizione che, tuttavia, un tale invito sia rivolto a qualsiasi offerente che si trovi nella stessa situazione, che tutti gli offerenti siano trattati in modo uguale e leale e che tale chiarimento o tale rettifica non possa essere assimilato alla presentazione di una nuova offerta, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. (1)
La direttiva 92/13/CE del Consiglio, del 25.02.1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, deve essere interpretata nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico ha dato luogo alla presentazione di due offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e aggiudicazione dell’appalto all’altro, l’offerente escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta dell’offerente aggiudicatario, in modo tale che la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico. (2)
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(1) I.- Con la prima massima in rassegna la Corte di Giustizia torna sulla questione della compatibilità del dovere di soccorso con il principio di parità di trattamento e precisa che:
   a) l’obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di rispettare il principio di parità di trattamento degli offerenti, che ha lo scopo di favorire lo sviluppo di una concorrenza sana ed efficace tra le imprese che partecipano ad un appalto pubblico implica, in particolare, che gli offerenti devono trovarsi su un piano di parità sia al momento in cui preparano le loro offerte sia al momento in cui queste sono valutate da tale amministrazione aggiudicatrice;
   b) il principio di parità di trattamento impone, segnatamente, che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica quindi che queste siano sottoposte alle medesime condizioni per tutti i concorrenti;
   c) il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza implicano che, in linea di principio, un’offerta non può essere modificata dopo il suo deposito, né su iniziativa dell’amministrazione aggiudicatrice né dell’offerente;
   d) il principio di parità di trattamento non osta a che un’offerta possa essere corretta o completata su singoli punti, qualora quest’ultima necessiti in modo evidente un chiarimento o qualora si tratti di correggere errori materiali manifesti, fatto salvo tuttavia il rispetto di una serie di requisiti:
      i) una richiesta di chiarimenti di un’offerta, che può intervenire soltanto dopo che l’amministrazione aggiudicatrice abbia acquisito conoscenza di tutte le offerte, deve, in linea di principio, essere rivolta in modo equivalente a tutti gli offerenti che si trovino nella stessa situazione e deve riguardare tutti i punti dell’offerta che richiedono un chiarimento;
      ii) tale richiesta non può condurre, da parte dell’offerente interessato, alla presentazione di quella che in realtà sarebbe una nuova offerta;
      iii)  nell’esercizio del potere discrezionale di cui dispone per quanto attiene alla facoltà di chiedere ai candidati di chiarire la loro offerta, l’amministrazione aggiudicatrice deve trattare i candidati in maniera uguale e leale, di modo che, all’esito della procedura di selezione delle offerte e tenuto conto del risultato di quest’ultima, non possa apparire che la richiesta di chiarimenti abbia indebitamente favorito o sfavorito il candidato o i candidati cui essa è stata rivolta;
      iv)  una richiesta di chiarimenti non può, tuttavia, ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto, poiché l’amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati.
Dopo aver richiamato i principi espressi dalla propria giurisprudenza come sopra sintetizzati, la Corte rimette al giudice del rinvio la verifica in concreto se nelle circostanze del procedimento principale (avente per oggetto una gara per l’affidamento di servizi per la digitalizzazione di archivi cartacei), la sostituzione effettuata dalle imprese concorrenti (sostituzione con un nuovo campione di microfilm di quello che esse avevano allegato alla loro offerta e che non era conforme alle specifiche del capitolato d’oneri) sia rimasta nei limiti della rettifica di un errore manifesto inficiante l’offerta.
II.- Sul  potere di soccorso in materia di gare di appalto e sul principio di tassatività delle cause di esclusione, per completezza si segnala:
   e)
Corte giust. UE, sez. VI, 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo, oggetto della News US in data 05.07.2016, cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in relazione alla disciplina nazionale;
   f)
Corte giust. UE, sez. X, 06.11.2014, C-42/13, Cartiera dell’Adda, in Urbanistica e appalti, 2015, 137 con nota di PATRITO; Dir. proc. amm., 2015, 1006, con nota di MAMELI, cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento;
   g)
Tar per il Lazio, ordinanza sez. III, 03.10.2016, n. 10012 (oggetto della News US in data 05.10.2017, cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in relazione alla disciplina nazionale), che ha rimesso alla Corte di giustizia la questione della compatibilità, col diritto europeo, della disciplina recata dal vecchio codice degli appalti nella parte in cui ha previsto il c.d. soccorso istruttorio oneroso;
   h) l’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 -Codice dei contratti pubblici- nel testo novellato dal primo decreto delegato correttivo 19.04.2017, n. 56 (su cui v. il parere reso da
Cons. Stato, comm. spec., 30.03.2017, n. 782).
(2) I. - La questione di cui alla seconda massima è stata sollevata nel corso di una gara per l’affidamento del servizio di digitalizzazione di archivi cartacei con due soli partecipanti, in cui due imprese, concorrenti in ATI (da quanto è dato intendere dalla motivazione), hanno presentato entrambe ricorso avverso la decisione dell’amministrazione aggiudicatrice di esclusione della loro offerta impugnando al contempo la decisione di ammissione dell’offerta dell’altra unica partecipante.
Il giudice del rinvio:
   a)  premette che l’operatore economico che ha presentato un’offerta nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la sua offerta sia ricusata, non ha un interesse ad agire avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico. Di conseguenza, se è vero che un offerente quale l’ATI ricorrente ha certamente un interesse a contestare una decisione che rifiuta la propria offerta, nella misura in cui, in tal caso, lo stesso conservi una possibilità che l’appalto gli sia aggiudicato, non ha più, invece, interesse nella fase successiva del procedimento di aggiudicazione dell’appalto dal momento in cui la sua offerta sia stata definitivamente rigettata, perlomeno nell’ipotesi in cui una pluralità di offerte sia stata presentata e selezionata;
   b) sulla scorta di tale premessa domanda se la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, possa riguardare l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, atteso che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 prevede che gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo le modalità che spetta agli Stati membri determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un «determinato appalto» e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione.
II. -Sul punto la Corte, operando una sintesi delle proprie precedenti pronunce rese sul tema, evidenzia:
   c)  di avere già statuito (sentenze
04.07.2013, n. 100, Fastweb, in Foro it., 2015, IV, 311, n. con nota di CONDORELLI e 05.04.2016 C- 689/13, Puligenica, id., 2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI, cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza) che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, gli offerenti hanno un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri offerenti ai fini dell’aggiudicazione dell’appalto indipendentemente dal numero di partecipanti alla procedura e dal numero di partecipanti che hanno presentato ricorso; da un lato, infatti, l’esclusione di un offerente può far sì che un altro offerente ottenga l’appalto direttamente nell’ambito della stessa procedura; d’altro lato, nell’ipotesi di un’esclusione di tutti gli offerenti e dell’indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l’appalto;
   d)  innova il proprio indirizzo precisando che nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico che ha dato luogo alla presentazione di due sole offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea, recanti rispettivamente il rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e l’aggiudicazione dell’appalto all’altro offerente, all’offerente che ha proposto ricorso deve essere riconosciuto un interesse legittimo all’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario per mancanza di conformità di quest’ultima alle specifiche del capitolato d’oneri che può portare, se del caso, alla constatazione dell’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere alla scelta di un’offerta regolare;
   e)  ribadisce quanto affermato dalla
sentenza 21.12.2016, C- 355/15, GesmbH, nel senso che a un offerente la cui offerta sia stata esclusa dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico può tuttavia essere negato l’accesso a un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la decisione di esclusione di tale offerente sia stata confermata da una decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto si pronunci, in modo tale che detto offerente debba essere considerato definitivamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione;
   f)  evidenzia che nel caso portato all’esame dal giudice del rinvio le imprese ricorrenti hanno proposto ricorso avverso la decisione che esclude la loro offerta e avverso la decisione che aggiudica l’appalto,
adottate contemporaneamente, e non possono quindi essere ritenute definitivamente escluse dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico; in una situazione del genere, la nozione di «un determinato appalto» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 può, dunque, riguardare anche l’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
III. Per la ricostruzione del dibattito e per i riferimenti di dottrina e di giurisprudenza sul controverso tema si rinvia alle seguenti News US:
   g) 
04.01.2017 avente ad oggetto Corte UE 21.12.2016 GesmbH (secondo cui «L’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa»);
   h)
07.04.2016 avente ad oggetto Corte UE 05.04.2016, Puligienica cit., (secondo cui «L’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro offerente»);
   i)
19.01.2017 avente ad oggetto Corte cost., 245 del 2016 pubblicata altresì in Foro it., 2017, I, 75, secondo cui è inammissibile, salvo casi eccezionali, l’impugnativa di una procedura di gara da parte di una impresa che non vi abbia partecipato o chiesto di partecipare;
   l)
04.04.2017 avente ad oggetto Tar per la Liguria ordinanza n. 263 del 2017 (secondo cui «Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione»)
(Corte giust. comm. ue, sez. VIII, sentenza 10.05.2017,  n. C-131/16, Archus - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  Illegittima la mancata notifica ai controinteressati nel caso di permesso di costruire in deroga al PGT..
Per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire di un’azione di annullamento rivolta avverso un permesso di costruire è sufficiente l’elemento della vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente.
Ritiene il Collegio che questi principi possano essere applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga, posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei proprietari dei fondi finitimi.
Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono proprietari di immobili residenziali collocati in un complesso condominiale che, contrariamente da quanto sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della prossimità necessario per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire.
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La disciplina riguardante i permessi di costruire rilasciati in deroga alle previsioni contenute negli strumenti urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005.
Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005.
Queste norme costituiscono deroga al principio generale, secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire, non è di regola necessario l’invio della comunicazione di avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla realizzazione dell’opera.
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo l’amministrazione semplicemente valutare la conformità dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente, nei casi di permesso di costruire in deroga l’amministrazione deve invece effettuare una scelta discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti portatori degli interessi coinvolti, così come avviene appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di redazione del piano di governo del territorio.
E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un permesso di costruire in deroga presenta, sul piano funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione di una variante al piano urbanistico, è necessario consentire una ampia partecipazione allo stesso procedimento, così come avviene per i procedimenti finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi, dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
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Viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in quanto l’Amministrazione -senza autorizzare espressamente una deroga alle previsioni di piano riguardanti le destinazioni funzionali- permetterebbe la realizzazione di una struttura avente destinazione contrastante con le previsioni dello strumento urbanistico, violando peraltro in tal modo le suddette norme che, a dire dei ricorrenti, non ammetterebbero la possibilità di assentire deroghe alle destinazioni di piano impresse alle aree.
La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
L’area interessata dal permesso di costruire impugnato ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi. In base a tale norma, nella suddetta zona sono insediabili “punti di ristoro”.
Invero, in mancanza di esplicita definizione contenuta nella normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto di ristoro” non possano essere ricondotti i veri e propri ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione intenda consentire l’insediamento di strutture aventi impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di ristoro” possano rientrare solo le strutture di dimensioni contenute, dove si somministrano bevande e, tutt’al più, cibi di veloce preparazione e consumazione.
A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle NTA del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano anche per il profilo della destinazione funzionale.
Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio comunale non ha autorizzato la deroga alla destinazione funzionale, ma ha esclusivamente autorizzato la deroga al parametro riguardante il rapporto massimo di copertura.
Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla risoluzione delle problematiche astratte circa la possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di derogare alle previsioni di piano attinenti alle destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge anche questioni di carattere costituzionale stante la non conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera oggetto del presente giudizio non possa comunque essere realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale, conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente nella parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti impugnati per aver essi assentito la realizzazione di un’opera non conforme alle previsioni contenute nello strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso delle aree.
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In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed all’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005, il permesso di costruire in deroga agli strumenti di pianificazione può essere rilasciato esclusivamente per la realizzazione di impianti ed edifici pubblici o di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme fanno riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche agli interventi di interesse pubblico, il permesso di costruire in deroga può essere rilasciato anche per la realizzazione di edifici privati per i quali sussista appunto un interesse pubblico alla loro realizzazione.
La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione di consiglio comunale che assente tale tipologia di interventi deve essere specificamente motivata con riguardo al profilo dell’interesse pubblico, dovendo le amministrazioni dare conto, nel corpo motivazionale dell’atto, delle superiori ragioni che le inducono ad introdurre un regime distonico rispetto alle previsioni di piano le quali, per loro natura, dovrebbero aver delineato un quadro armonico degli assetti del territorio, assetti che potrebbero venire invece compromessi dalle disposizioni derogatorie.
Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che possono sostenere la scelta, vi può anche essere quella di ovviare a situazioni di degrado.
Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso specifico, il riferimento alla situazione di degrado contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente, oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la deroga al vigente strumento urbanistico.
Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto ritenere che la motivazione in esso contenuta sia effettivamente inadeguata.
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1. Con il ricorso introduttivo viene impugnata la deliberazione di Consiglio comunale del Comune di Basiglio n. 24 del 10.06.2016, con la quale è stata accolta la domanda presentata dalla società AD. s.r.l., finalizzata all’ottenimento di una deroga, ai sensi dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 e dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, per la realizzazione di un intervento edilizio non conforme allo strumento urbanistico.
2. L’intervento consiste nella chiusura di una terrazza di pertinenza di un ristorante, mediante la sostituzione delle strutture rimovibili con altra tipologia di strutture di carattere fisso.
...
9. Deve preliminarmente esaminarsi l’eccezione di inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti sollevata dalla controinteressata secondo la quale i ricorrenti sarebbero privi di legittimazione ed interesse ad agire.
10. In proposito va osservato che, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha motivo per discostarsi, per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire di un’azione di annullamento rivolta avverso un permesso di costruire è sufficiente l’elemento della vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.11.2015, n. 5278; Id., sez. III, 17.11.2015, n. 5257; TAR Piemonte Torino, sez. II, 15.11.2016, n. 1407; TAR Sicilia Catania, sez. I, 18.01.2016, n. 164).
11. Ritiene il Collegio che questi principi possano essere applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga, posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei proprietari dei fondi finitimi.
12. Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono proprietari di immobili residenziali collocati in un complesso condominiale che, contrariamente da quanto sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della prossimità necessario per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire.
13. Per questa ragione l’eccezione in esame va respinta.
14. Con il primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto l’Amministrazione ha omesso di inviare ai ricorrenti la comunicazione di avviso di avvio del procedimento.
15. In proposito si osserva quanto segue.
16. La disciplina riguardante i permessi di costruire rilasciati in deroga alle previsioni contenute negli strumenti urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005.
17. Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005.
18. Queste norme costituiscono deroga al principio generale, secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire, non è di regola necessario l’invio della comunicazione di avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla realizzazione dell’opera (cfr. sul punto TAR Piemonte, sez. II, 14.03.2014, n. 448).
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo l’amministrazione semplicemente valutare la conformità dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente, nei casi di permesso di costruire in deroga l’amministrazione deve invece effettuare una scelta discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti portatori degli interessi coinvolti, così come avviene appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di redazione del piano di governo del territorio.
19. E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un permesso di costruire in deroga presenta, sul piano funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione di una variante al piano urbanistico, è necessario consentire una ampia partecipazione allo stesso procedimento, così come avviene per i procedimenti finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi, dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
20. Ciò premesso si deve osservare che il Comune di Basiglio non ha inviato ai ricorrenti la comunicazione di avviso di avvio del procedimento culminato con l’adozione dell’atto impugnato, e ciò sebbene questi soggetti risiedano in prossimità della struttura interessata dall’intervento.
21. Ritiene il Collegio che questa omissione costituisca una evidente violazione dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e che, quindi, la censura in esame sia da condividere.
22. A contrario non vale eccepire, come fa la controinteressata, che fra la struttura oggetto dell’intervento e le abitazioni dei ricorrenti è interposto un parco comunale. In proposito è, infatti, sufficiente rilevare che il parco comunale è di dimensioni contenute, tanto è vero che, come riconosce la stessa controinteressata, le abitazioni più prossime sono collocate a distanza inferiore a cinquanta metri dalla struttura; ad una distanza che permette ai residenti di percepirne appieno l’impatto visivo nonché di percepirne le propagazioni rumorose che da essa promanano.
23. Si deve pertanto ritenere che i ricorrenti rivestano la qualifica di soggetti interessati ai sensi del secondo comma dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001; ne consegue, che, come anticipato, l’Amministrazione avrebbe dovuto inviare loro la comunicazione prevista dalla suddetta norma.
24. Va quindi ribadita la fondatezza della censura.
25. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo ed il primo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 2), viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in quanto, con l’atto impugnato, l’Amministrazione -senza autorizzare espressamente una deroga alle previsioni di piano riguardanti le destinazioni funzionali- permetterebbe la realizzazione di una struttura avente destinazione contrastante con le previsioni dello strumento urbanistico, violando peraltro in tal modo le suddette norme che, a dire dei ricorrenti, non ammetterebbero la possibilità di assentire deroghe alle destinazioni di piano impresse alle aree.
26. La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
27. L’area interessata dal permesso di costruire impugnato ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi.
28. In base a tale norma, nella suddetta zona sono insediabili “punti di ristoro”.
29. Tanto premesso, va osservato che, secondo il Collegio, in mancanza di esplicita definizione contenuta nella normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto di ristoro” non possano essere ricondotti i veri e propri ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione intenda consentire l’insediamento di strutture aventi impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di ristoro” possano rientrare solo le strutture di dimensioni contenute, dove si somministrano bevande e, tutt’al più, cibi di veloce preparazione e consumazione (in questo senso si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4148).
30. A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle NTA del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
31. Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano anche per il profilo della destinazione funzionale.
32. Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio comunale n. 24 del 10.06.2016 non ha autorizzato la deroga alla destinazione funzionale, ma ha esclusivamente autorizzato la deroga al parametro riguardante il rapporto massimo di copertura.
33. Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla risoluzione delle problematiche astratte circa la possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di derogare alle previsioni di piano attinenti alle destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge anche questioni di carattere costituzionale stante la non conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera oggetto del presente giudizio non possa comunque essere realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale, conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
34. Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente nella parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti impugnati per aver essi assentito la realizzazione di un’opera non conforme alle previsioni contenute nello strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso delle aree.
35. Preme al Collegio precisare che a contrario non è neppure utile invocare l’art. 23-bis, primo comma, lett. a-bis), del d.P.R. n. 380 del 2001 (che esclude la rilevanza urbanistica dei mutamenti di destinazione d’uso che comunque non sottraggono ai fabbricati la destinazione turistico-ricettiva), atteso che il terzo comma di tale norma fa salve le diverse disposizioni contenute negli strumenti urbanistici e che, per le ragioni sopra illustrate, si deve escludere che lo strumento urbanistico del Comune di Basiglio abbia inteso assentire l’insediamento di veri e propri ristoranti nell’area oggetto del presente giudizio.
36. Per tutte queste ragioni deve essere ribadita la fondatezza della censura in esame.
37. Con il terzo motivo del ricorso introduttivo e con il secondo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 3), viene ancora dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in quanto, a dire dei ricorrenti, le ragioni di interesse pubblico addotte a fondamento della decisione di concedere la deroga sarebbero del tutto inadeguate.
38. Anche questa censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
39. In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed all’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005, il permesso di costruire in deroga agli strumenti di pianificazione può essere rilasciato esclusivamente per la realizzazione di impianti ed edifici pubblici o di interesse pubblico.
40. La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme fanno riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche agli interventi di interesse pubblico, il permesso di costruire in deroga può essere rilasciato anche per la realizzazione di edifici privati per i quali sussista appunto un interesse pubblico alla loro realizzazione (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 12.12.2005 n. 7031; id., sez V, 29.10.2002 n. 5913; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2016, n. 1475; TAR Lombardia Milano, sez. II, 07.02.2014, n. 417).
41. La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione di consiglio comunale che assente tale tipologia di interventi deve essere specificamente motivata con riguardo al profilo dell’interesse pubblico, dovendo le amministrazioni dare conto, nel corpo motivazionale dell’atto, delle superiori ragioni che le inducono ad introdurre un regime distonico rispetto alle previsioni di piano le quali, per loro natura, dovrebbero aver delineato un quadro armonico degli assetti del territorio, assetti che potrebbero venire invece compromessi dalle disposizioni derogatorie (Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4518; id., 20.12.2013, n. 6136; id., sez. IV, 23.07.1999, n. 4664; id., 03.02.1981, n. 128).
42. Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che possono sostenere la scelta, vi può anche essere quella di ovviare a situazioni di degrado.
43. Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso specifico, il riferimento alla situazione di degrado contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente, oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
44. In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la deroga al vigente strumento urbanistico.
45. Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto ritenere che la motivazione in esso contenuta sia effettivamente inadeguata.
46. Le censure in esame sono, quindi, fondate (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza  09.05.2017 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Strumenti urbanistici: il valore delle osservazioni dei proprietari interessati
Le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore generale.
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al prg., salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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Con la seconda parte dell’unico motivo di impugnazione (che per ragioni logiche conviene esaminare in via prioritaria) gli appellanti deducono il difetto di motivazione che vizierebbe l’atto impugnato, in quanto la Regione non ha specificamente ed esaurientemente esternato le ragioni in base alle quali l’osservazione da loro proposta –pur favorevolmente esitata dal comune– non è stata accolta.
Il mezzo non merita positiva considerazione.
La Giurisprudenza di questa Sezione ha infatti da tempo chiarito che le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore generale (cfr. fra le recenti IV Sez. nn. 3643 del 2016 e 874 del 2017).
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al prg., salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Dal momento che gli appellanti non rientrano in alcuna delle descritte situazioni differenziate il mezzo in parola va quindi conclusivamente disatteso.
Sotto un diverso profilo gli appellanti osservano che l’inserimento del loro fondo nella zona di espansione (all’interno della quale l’edificazione è consentita ai sensi delle NTA comunali solo previa redazione di un piano di lottizzazione di misura eccedente quella del fondo stesso) si dimostra illogica e irrazionale in quanto la zona circostante, infatti, è già densamente edificata.
Anche questo mezzo non merita positiva considerazione in quanto in primo luogo investe il merito di scelte discrezionali coinvolgenti il governo del territorio e riservate all’Amministrazione, come tali insindacabili in sede giurisdizionale (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2017 n. 2089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa modifica normativa dell'art. 21-nonies della Legge n. 241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1) della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime temporale rigido di annullabilità dell'atto amministrativo (18 mesi)- si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente all'entrata in vigore della norma.
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... per l'annullamento della determinazione del Responsabile del V Settore – Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 – Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante "annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
I. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per essere stato emesso l’impugnato provvedimento del 03.12.2015 ben oltre il termine di diciotto mesi contemplato da detta norma con la modifica introdotta dall’art. 6 della legge n. 124/2015. Il lasso di tempo decorso non sarebbe comunque ragionevole, riferendosi l’atto a permessi di costruire rilasciati nel 2006 e quindi risalenti a circa dieci anni prima.
L’infondatezza si deve al fatto che la modifica normativa dell'art. 21-nonies della Legge n. 241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1) della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime temporale rigido di annullabilità dell'atto amministrativo- si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente all'entrata in vigore della norma (TAR Napoli, sez. II, 12.09.2016, n. 4229).
La vicenda di causa risulta quindi estranea all’alveo applicativo della norma invocata da parte ricorrente, in considerazione della data cui risalgono i permessi di costruire annullati. Il decorso di circa due lustri dalla data di adozione di questi, a sua volta, non rileva stante la particolare pregnanza dell’interesse pubblico sotteso all’atto impugnato, come si esporrà al capo che segue. Il motivo in esame è quindi infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Niente spoils system per l'incarico tecnico-professionale affidato dal Sindaco ad un soggetto esterno al Comune.
   1) nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che la "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare non si configura come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico nominante
;
   2)
l'interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110, commi 3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che un incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento (nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di anticipata cessazione da parte del Comune stesso a causa della morte improvvisa del Sindaco persona fisica nominante, sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico medesimo
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III - Esame delle censure
3. L'esame congiunto di tutti i motivi di censura - reso opportuno dalla loro intima connessione - porta all'accoglimento del ricorso, per le ragioni di seguito esposte.
...
4. Deve essere chiarito che, nella presente controversia, si discute dell'incarico di funzioni di dirigente dei Settori Urbanistica, Lavori pubblici, Programmazione e progettazione originariamente attribuito all'attuale ricorrente nel marzo 1999 fino allo scadere del mandato elettorale del sindaco dal Sindaco del Comune di Reggio Calabria, incarico confermato con la stessa durata nel maggio 2001 dopo le elezioni comunali svoltesi "medio tempore", di cui lo stesso Comune nel maggio 2002 ha disposto l'anticipata cessazione, in conseguenza dell'improvviso decesso del Sindaco persona fisica che aveva conferito l'incarico.
La principale questione controversa è quella di stabilire se l'art. 110, commi 3 e 4, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (d'ora in poi: TUEL) possa consentire di applicare nella specie il meccanismo dello "spoils system" che comporta la cessazione anticipata dell'incarico e se tale risultato possa, o meno, considerarsi conforme alla clausola del contratto accessorio al provvedimento di conferimento dell'incarico ove si è stabilito che il termine finale del rapporto doveva coincidere con "lo scadere del mandato elettorale del sindaco".
5. La soluzione di tale questione comporta la ricostruzione di una complessa vicenda normativa e fattuale.
Tale ricostruzione è stata effettuata dalla Corte d'appello di Reggio Calabria muovendo dalla premessa secondo cui in base all'art. 110, comma 3, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (d'ora in poi: TUEL) sarebbe consentita la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali non apicali del tipo qui considerato al venire meno del "rapporto fiduciario" con il Sindaco persona fisica che ha provveduto al relativo conferimento, sicché in caso di improvviso decesso del Sindaco prima della fine del relativo mandato a detti incarichi potrebbe applicarsi il meccanismo dello "spoils system".
6. Tale premessa è erronea in quanto non trova riscontro né nella lettera e nella "rado" della suindicata disposizione, né nella consolidata giurisprudenza in materia di "spoils system" della Corte costituzionale (di cui si dirà più avanti) condivisa da questa Corte di cassazione, alla quale il Collegio intende dare continuità.
Ne risultano prive di base, e quindi infondate, tutte le ulteriori statuizioni che -partendo dalla suindicata premessa- hanno condotto la Corte territoriale al rigetto dell'appello proposto da Gi.Ro.Fi., a partire dalla interpretazione della clausola del contratto di lavoro dirigenziale originariamente stipulato dall'appellante con il Comune di Reggio Calabria l'11.03.1999 -il cui contenuto, come si è detto, è stato confermato con decreto n. 102 del 28.05.2001, successivo a nuove elezioni comunali svoltesi "medio tempore"- ove si era stabilito che il termine finale del rapporto dovesse coincidere con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco".
7. A tale ultimo riguardo va, in particolare, sottolineato come la interpretazione data dalla Corte territoriale alla suddetta clausola del contratto "de quo", oltre ad essere il "portato" di una erronea interpretazione della disciplina generale in materia di incarichi conferiti dalle Amministrazioni Pubbliche effettuata senza alcuna considerazione dei principi affermati in materia da una giurisprudenza costituzionale ormai decennale, risulta anche essere stata effettuata senza il dovuto rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale dettati dal codice civile (artt. 1362 e ss. cod. civ.).
8. Per chiarezza espositiva si ritiene opportuno procedere, in primo luogo, a delineare, per sommi capi il quadro normativo di riferimento, partendo dal duplice presupposto secondo cui, diversamente da quanto si afferma nella sentenza impugnata:
   a) è indubbia l'applicabilità agli enti locali della disciplina in materia di incarichi dirigenziali dettata per il lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche dal relativo TU (d'ora in poi: TUPI), a partire dall'originario d.lgs. n. 29 del 1993 fino all'attuale d.lgs. n. 165 del 2001 e s.m.i.;
   b) agli incarichi affidati a soggetti esterni alla Amministrazione si applica, in linea di massima, la medesima disciplina dettata per gli incarichi dati a dipendenti dell'Amministrazione, tranne che per gli aspetti intrinsecamente incompatibili ovvero specificamente diversificati.
8.1. Invero, a norma dell'art. 1 del TUPI le disposizioni contenute in tale TU "disciplinano l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche" (comma 1), intendendosi per amministrazioni pubbliche, tra le altre, "le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province e i Comuni" (comma 2). Tali disposizioni "costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 Cost." (comma 3) e, in quanto tali, devono trovare applicazione pure nell'ambito delle Amministrazioni degli enti locali. In epoca successiva ai fatti per cui è controversia ciò è stato reso palese attraverso la sostituzione dell'originario comma 6 dell'art. 7 dello stesso TUPI -disposizione questa inserita nel Titolo I ("Principi generali")- con i commi 6, 6-bis e 6-ter dell'articolo, che poi sono stati ulteriormente modificati.
È stato così chiarito, al comma 6, che le amministrazioni pubbliche, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa ad esperti di provata competenza, soltanto in presenza dei presupposti di legittimità ivi indicati e si è aggiunto che "i regolamenti di cui all'art. 110, comma 6, del TU di cui al d.lgs. 18.08.2000, n. 267 si adeguano ai principi di cui al comma 6" (vedi: comma 6-ter, introdotto con decorrenza dal 12.08.2006, dal d.l. n. 223 del 2006, art. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, richiamato da Cass. 13.01.2014, n. 478, cui si rinvia per eventuali ulteriori approfondimenti).
8.2. Parallelamente, gli artt. 88 e 111 del TUEL hanno previsto, rispettivamente, che:
   a) "all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti" si applicano, oltre a quelle del TUEL, le disposizioni del d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni e quindi, nel tempo, quelle del d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 88);
   b) con particolare riguardo alla disciplina della dirigenza, gli enti locali, nell'esercizio della propria potestà regolamentare e statutaria, devono adeguare i propri statuti e i regolamenti oltre che ai principi dettati dal TUEL e anche a quelli stabiliti del capo II ("Dirigenza") del d.lgs. n. 29 del 1993 e s.m.i. cit.
Peraltro, anche in questo ambito, tale soluzione è stata definitivamente ribadita con il d.lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 40 -avente decorrenza 15.11.2009, quindi successiva ai fatti per cui è controversia- ove è stato nuovamente stabilito che le disposizioni dei commi 6 (come modificato) e 6-bis dell'art. 19 cit. -comprendenti la norma sulla durata degli incarichi- si applicano alle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, e cioè a tutte le Amministrazioni pubbliche, tra cui le Regioni, le Province e i Comuni (vedi comma 6-ter dell'art. 19 cit.).
8.3. Comunque, deve essere precisato che i suindicati interventi legislativi chiarificatori successivi ai fatti di causa sono stati qui richiamati soltanto per completezza -e per dare conto dell'evoluzione del quadro normativo- in quanto l'applicabilità agli enti locali del regime degli incarichi esterni dettato dal TUPI era già indubbia da quando la relativa normativa è entrata originariamente in vigore.
In particolare, dell'applicabilità, in aggiunta alla normativa dettata dal TUEL, dell'art. 19 del TUPI (rubricato: "Incarichi di funzioni dirigenziali"), non poteva dubitarsi da quando è entrato in vigore l'art. 111 del TUEL (13.10.2000), visto che il suddetto art. 19 è compreso tra le norme del Capo II del TUPI richiamate dall'art. 111 stesso.
8.4. In base all'indicato art. 19 del TUPI (nel testo applicabile "ratione temporis") gli incarichi di funzione dirigenziale, che non comportano la direzione degli uffici di livello dirigenziale generale, come quello "de quo" (come si dirà più avanti):
   a) sono conferiti a tempo determinato;
   b) "hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo" (comma 2);
   c) sono revocati nelle previste ipotesi di responsabilità dirigenziale per inosservanza delle direttive generali e per i risultati negativi dell'attività amministrativa e della gestione ovvero in caso di risoluzione consensuale del contratto individuale (comma 7).
L'art. 110, comma 4, TUEL prevede come ulteriore specifica ipotesi di risoluzione di diritto del contratto a tempo determinato in argomento, quella del "caso in cui l'ente locale dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni strutturalmente deficitarie".
Anche in questo ambito si sono avuti ulteriori interventi del legislatore, successivi ai fatti di causa. Così il d.l. n. 155 del 2005, art. 14-sexies, convertito con modificazioni dalla legge n. 168 del 2005, nel modificare l'art. 19 cit. circa le modalità del conferimento degli incarichi dirigenziali, ha stabilito, tra l'altro, che la loro durata non possa essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni. In tal modo la durata massima degli incarichi disciplinati dall'art. 19 cit. è stata allineata a quella prevista dal TUEL, il cui art. 110, comma 3, nel primo periodo, stabilisce che gli incarichi a contratto -qual'è quello per cui è controversia- non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco (o del presidente della Provincia) in carica.
Ebbene, pure la suddetta modifica legislativa, evidentemente diretta ad equiparare il più possibile la disciplina degli incarichi esterni conferiti dalle diverse Amministrazioni pubbliche pure dal punto di vista della durata, offre un ulteriore elemento ermeneutico -di tipo evolutivo- volto a confermare che il significato da attribuire alla suindicata disposizione dell'art. 110, comma 3, del TUEL non può che essere quello, e solo quello, di indicare nel quinquennio la durata massima degli incarichi.
8.5. Quanto al CCNL del Comparto Regioni ed Enti Locali Area della Dirigenza 1998-2001, all'art. 13 (Affidamento e revoca degli incarichi), nel sostituire l'art. 22 del CCNL del 10.04.1996:
   a) ribadisce che gli enti, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del TUPI, "con particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione annuale dei risultati";
   b) aggiunge che "la revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione dei risultati".
Per quel che si è detto - contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata - non può certamente dubitarsi che la suddetta disciplina contrattuale abbia portata generale, ma va anche aggiunto che essa si limita a chiarire il significato della disciplina legislativa e a confermare l'obbligo degli Enti locali di adeguamento della propria disciplina sugli incarichi dirigenziali a quella prevista dal TUPI.
9. A tutto questo va aggiunto che la Corte territoriale -nell'affermare che le sentenze della Corte costituzionale n. 161 del 2008 e n. 103 del 2007, richiamate dall'appellante ai fini della prospettata questione di legittimità costituzionale, riguardano fattispecie non equiparabili a quella di cui si discute nel presente giudizio- non ha considerato che, al di là dell'incidente di costituzionalità, comunque tali sentenze si inseriscono nella copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale che, a partire proprio dalla sentenza n. 103 del 2007 e dalla coeva sentenza n. 104 del 2007, ha riscontrato profili di illegittimità costituzionale in alcune discipline legislative in materia di "spoils system" e, nel contempo, ne ha meglio delineato i connotati, precisando che la decadenza automatica -in assenza di valutazioni concernenti i risultati raggiunti, condotte nel rispetto del principio del giusto procedimento- risulta in contrasto con l'art. 97 Cost., sotto il duplice profilo della tutela dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione oltre che del principio di continuità dell'azione amministrativa.
Questo complesso cammino ha portato il Giudice delle leggi a precisare che le uniche ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che tale "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione dell'indicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante.
In assenza di tali requisiti, il meccanismo si pone in contrasto con l'art. 97 Cost., in quanto la sua applicazione viene a pregiudicare la continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa, oltre a comportare la sottrazione al titolare dell'incarico, dichiarato decaduto, delle garanzie del giusto procedimento (in particolare la possibilità di conoscere la motivazione del provvedimento di decadenza), poiché la rimozione del dirigente risulterebbe svincolata dall'accertamento oggettivo dei risultati conseguiti.
9.1. In questo ambito più volte (sentenze n. 228 del 2011, n. 224 e n. 34 del 2010, n. 390 e n. 351 del 2008, n. 104 e 103 del 2007) la Corte costituzionale ha affermato l'incompatibilità con l'art. 97 Cost. di disposizioni di legge prevedenti meccanismi di decadenza automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle vicende del rapporto instaurato con il titolare e non correlati a valutazioni concernenti i risultati conseguiti da quest'ultimo, quando tali meccanismi siano riferiti non al personale addetto ad uffici di diretta collaborazione con l'organo di governo (sentenza n. 304 del 2010) oppure a figure apicali, per le quali risulti decisiva la personale adesione agli orientamenti politici dell'organo nominante, ma ai titolari di incarichi dirigenziali che comportino l'esercizio di funzioni amministrative di attuazione dell'indirizzo politico, anche quando tali incarichi siano conferiti a soggetti esterni (sentenze n. 246 del 2011, n. 81 del 2010 e n. 161 del 2008).
Nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di disposizioni regionali che prevedevano la decadenza automatica di figure tecnico- professionali incaricate non già del compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma di perseguire gli obiettivi definiti dagli atti di pianificazione e indirizzo degli organi di governo locali (sentenze n. 20 del 2016, n. 27 del 2014, n. 152 del 2013, n. 228 del 2011, n. 104 del 2007 e, ancora, n. 34 del 2010) la Corte ha dato rilievo al fatto che "le relative nomine richiedano il rispetto di specifici requisiti di professionalità, che le loro funzioni abbiano in prevalenza carattere tecnico-gestionale" e che i loro rapporti istituzionali con gli organi politici dell'Ente non siano diretti, bensì mediati da una molteplicità di livelli intermedi (sentenza n. 20 del 2016).
9.2. In sintesi se si tratta di figure tecnico-professionali incaricate non già del compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma chiamate a svolgere soltanto funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente di riferimento il meccanismo dello "spoils system" non è applicabile anche se la nomina è avvenuta fiduciariamente, perché in questo caso la "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare non si configura come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico (vedi, da ultimo: sentenza n. 269 del 2016).
10. Poiché nella presente controversia si discute dell'utilizzabilità del meccanismo dello "spoils system" (dovuto al decesso del Sindaco nominante) per un incarico di funzioni dirigenziali di tipo tecnico-professionale (dirigenza dei Settori Urbanistica, Lavori pubblici, Programmazione e progettazione), ne risulta l'assoluta pertinenza della suddetta giurisprudenza costituzionale, alla quale si è conformata la giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 22.07.2008, n. 20177; Cass. 09.06.2009, n. 13232; Cass. 10.02.2015, n. 2555; Cass. 18.02.2016, n. 3210; Cass. 15.07.2016, n. 14593).
All'applicazione dei principi affermati da tale giurisprudenza alla presente fattispecie consegue che:
   a) l'art. 110, comma 3, TUEL non può certamente essere inteso nel senso di consentire l'applicabilità dello "spoils system" ad incarichi non apicali e di tipo tecnico-professionale, a meno che non sia dimostrato che la "fiduciarietà" iniziale si configuri come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale tra l'incaricato del titolare dell'organo politico di cui si tratta;
   b) a tale risultato ermeneutico si perviene in base all'obbligo dell'interprete di intendere tutte le norme in materia di "spoils system" in senso costituzionalmente orientato al rispetto dell'art. 97 Cost., come interpretato dalla Corte costituzionale;
   c) in particolare, rispetto a tale interpretazione è incompatibile l'attribuzione all'espressione "in carica" posta alla fine della prima frase dell'art. 110, comma 3, cit. -il cui testo completo, per quanto interessa, è il seguente: "3. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco ... in carica"- del significato di consentire la decadenza automatica dall'incarico tutte le volte in cui il sindaco per una qualunque ragione e, quindi, anche per il suo decesso improvviso, non sia più in carica, in quanto questo equivarrebbe a legittimare il ricorso al meccanismo dello "spoils system" anche in ipotesi nella quali ciò si porrebbe in contrasto con l'art. 97 della Costituzione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale;
   d) di conseguenza, la su riportata norma non può che essere intesa come diretta a stabilire un limite oggettivo é chiaro di durata massima degli incarichi di cui si tratta (la cui durata minima è quella stabilita dell'art. 19 TUPI), attraverso un implicito riferimento al precedente art. 51 TUEL, ove è stabilita la durata quinquennale del mandato elettivo "de quo";
   e) nello stesso modo devono, quindi, intendersi tutti gli atti che per gli incarichi in parola fanno riferimento alla durata del mandato, quindi anche la clausola contrattuale con la quale si è stabilito che il termine finale del rapporto in oggetto doveva coincidere con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco".
11. A proposito di questa clausola vi è da aggiungere che la Corte territoriale, nell'interpretarla, non ha neppure tenuto conto dei principi affermati da questa Corte in merito all'interpretazione delle clausole contrattuali.
11.1. Una prima inesattezza rinvenibile al riguardo nella sentenza impugnata è rappresentata dalla mancata considerazione della normativa sui contratti di lavoro a termine nella parte in cui stabilisce la necessità di fissare il termine finale del rapporto. In base a tale disciplina, in linea generale, la suddetta scadenza può anche non essere fissata in una data determinata purché sia comunque determinabile (Cass. 02.03.1994, n. 2047; Cass. 20.02.1990, n. 1234).
Ma ciò certamente non significa che si possa trattare di una data "variabile", determinata ad esclusiva discrezione della parte datoriale.
E, tanto meno, una simile legittima scelta può legittimare la creazione di ipotesi di risoluzione anticipata del contratto stipulato con una P.A. per un incarico dirigenziale che non trovino alcun riscontro nelle disposizioni normative di riferimento, come è avvenuto nella specie, avendo la Corte territoriale -per giustificare la propria decisione sul punto- richiamato il comma 4 dell'art. 110 del TUEL mentre tale disposizione non fa alcun riferimento, neppure implicito, al decesso improvviso del Sindaco, per la risoluzione di diritto, visto che testualmente stabilisce: "4. Il contratto a tempo determinato è risolto di diritto nel caso in cui l'ente locale dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni strutturalmente deficitarie".
Di conseguenza, anche in questa ottica, in conformità sia con l'art. 97 Cost. sia con la giurisprudenza di questa Corte, l'espressione usata dai contraenti per indicare il momento finale del rapporto non poteva che essere intesa nel senso di ricalcare la norma di cui all'art. 110, comma 3, TUEL, e quindi nel senso stabilire un termine finale certo di durata del rapporto (in armonia con quanto stabilito dal TUPI), tanto più considerando l'avvenuto prolungamento dell'originario termine biennale operato con il decreto 05.07.2001, che la Corte territoriale considera pacifico.
11.2. In ogni caso, in base al principio di utilità, la clausola stessa deve essere interpretata nel senso che possa produrre un effetto valido e conforme alla legge piuttosto che in senso contrario (arg. ex Cass. 20.03.2012, n. 8295).
11.3. Inoltre, secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte
l'interpretazione del contratto, dal punto di vista logico-giuridico è un percorso circolare, il quale impone all'interprete di:
   (a) compiere l'esegesi del testo, considerandone il contenuto nella sua interezza e interpretando le clausole le une per mezzo delle altre, onde valutare il senso complessivo dell'atto;
   (b) ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti;
   (c) verificare se l'ipotesi di "comune intenzione" ricostruita sulla base del testo sia coerente con le parti restanti del contratto e con la condotta delle parti, il tutto facendo puntuale applicazione i dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. (vedi, da ultimo: Cass. 10.05.2016, n. 9380; Cass. 15.07.2016, n. 14432; Cass. 09.12.2014, n. 25840).
12. Per concludere, nella sentenza impugnata, l'affermata utilizzabilità dello "spoils system" al caso di specie:
   a) con riguardo alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, risulta il frutto della mancata applicazione della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di cessazione anticipata degli incarichi dirigenziali nel lavoro pubblico, dalla quale agevolmente su desume l'inapplicabilità del suddetto meccanismo.
Ciò in quanto l'incarico di cui si tratta, oltre a non essere apicale, risulta pacificamente essere stato conferito per svolgere compiti di tipo tecnico-professionale nell'esercizio di funzioni meramente gestionali, sicché la fiduciarietà della scelta operata dal Sindaco nominante, titolare dell'organo politico "de quo", non risulta essersi basata su una preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale tra il nominante e il soggetto incaricato né si deduce che l'incarico sia stato attribuito per svolgere compiti di collaborazione diretta al processo di formazione del relativo indirizzo politico.
Inoltre, pure dai numerosi riscontri positivi ottenuti dal Ro.Fi. in sede di valutazione è facile arguire che, tutt'al più, si sia trattato di una "fiducia" nella preparazione tecnico-professionale dell'incaricato allo svolgimento delle diverse funzioni via via affidategli, con l'obbligo di perseguire in veste neutrale risultati ed obiettivi indicati dall'Amministrazione in conformità con gli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente;
   b) con riguardo alla interpretazione della clausola relativa alla durata del contratto accessorio al provvedimento di conferimento dell'incarico, risulta viziata altresì dalla mancata applicazione corretta degli artt. 1362 e ss. cod. civ., che invece avrebbe consentito di dare alla clausola stessa il significato di attribuire al contratto una durata quinquennale, come stabilito dalla normativa di riferimento (in particolare dall'art. 110, comma 3, TUEL, primo periodo, cit., interpretato in conformità con l'art. 97 Cost.).
IV — Conclusioni
14. In sintesi, per le ragioni dianzi esposte il ricorso deve essere accolto, con assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, che si atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:
   1)
nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che la "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare non si configura come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico nominante
(vedi, da ultimo: Corte cost. sentenza n. 269 del 2016);
   2)
l'interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110, commi 3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che un incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento (nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di anticipata cessazione da parte del Comune stesso a causa della morte improvvisa del Sindaco persona fisica nominante, sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico medesimo (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 05.05.2017 n. 11015).

EDILIZIA PRIVATAIl secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori.

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... per l'annullamento della determinazione 02.01.2017, n. 3, del Responsabile del Settore Tecnico e di Pianificazione del Territorio del Comune di Sangano (comunicata in data 14.01.2017), con la quale è stata applicata nei confronti dei sig.ri Ba.An., Ba.Ro., Ga.Ch. e Ve.Da., ai sensi dell'art. 34, c. 2, D.P.R. 380/2001, la sanzione pecuniaria di Euro 62.433,41 a titolo di ‘fiscalizzazione' per la realizzazione di opere in parziale difformità dalla concessione edilizia n. 55/1973 ed, in particolare, per l'ampliamento di 35,93 mq. della superficie dell'edificio di civile abitazione ubicato in via .. n. 1 - via ... (doc. 9);
...
5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con sentenza in forma semplificata alla luce di recenti decisioni della Sezione che si sono pronunciate su fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione che “Il secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater, 10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori
”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria, sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti già citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in esame.
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare del permesso di costruire, committente, costruttore, direttore dei lavori). Essi hanno acquistato la proprietà delle rispettive unità immobiliari solo in anni recenti, tra il 1984 e il 2008, mentre l’abuso edilizio è stato posto in essere all’epoca di realizzazione dell’intero fabbricato, tra il 1973 e il 1974, e comunque certamente prima del 1984, come dimostra il primo atto pubblico di vendita posto in essere dai titolari della concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito Notaio Pi. in data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979, docc. 3 e 3-bis), che già aveva ad oggetto due unità immobiliari al piano terreno, in luogo dell’unica assentita dall’amministrazione, e due unità immobiliari al primo piano, nella stessa conformazione plano-volumetrica accertata attualmente dal Comune di Sangano e fatta oggetto del provvedimento sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto, l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è stato adottato nei confronti di soggetti privi della qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2, DPR 380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria ivi prevista (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2017 n. 540  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimo il provvedimento di revoca del passo carrabile se il garage diventa ufficio.
Non è possibile mantenere un passo carrabile di fronte ad un ufficio che in precedenza era adibito a locale destinato al ricovero dei veicoli. Anche se saltuariamente questo manufatto viene utilizzato per ricoverare veicoli a due ruote.
Ai sensi dell’art. 46, comma 2, lett. B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve consentire l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il locale in riferimento al quale viene concesso il passo carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere utilizzati a fini commerciali.
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione d’uso impressa dalla stessa ricorrente.

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... per l'annullamento:
- del provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del 01.12.2016, notificato il 21.12.2016, con il quale è stata disposta “la revoca della concessione per l'esercizio di passo carrabile n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la riconsegna del cartello n. 6947 di Passo Carrabile (…) nonché il ripristino (…) dello stato dei luoghi (rifacimento marciapiede in corrispondenza del n. civico 12/r)”;
- di ogni altro atto presupposto, attuativo e/o comunque connesso a tale provvedimento, se lesivo, ivi compresi:
   a) la comunicazione di inizio del procedimento di revoca della concessione passo carrabile n. 6947/1996, a firma del Responsabile della Direzione Nuove Infrastrutture e Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali e Autorizzazioni;
   b) la comunicazione del 30.01.2017, Responsabile della Direzione Nuove Infrastrutture e Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali e Autorizzazioni, di conferma della provvedimento di revoca.
...
Con il presente ricorso la Sig.ra Ca.Al. ha impugnato il provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del 01.12.2016, notificato il 21.12.2016, con il quale è stata disposta “la revoca della concessione per l’esercizio di passo carrabile n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la riconsegna del cartello n. 6947”, unitamente all’impugnazione degli atti ad esso presupposti, tra i quali, la comunicazione del 30.01.2017 del Comune Firenze di conferma della provvedimento di revoca.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
Con i due motivi di gravame, la cui sostanziale analogia delle argomentazioni proposte consente una trattazione unitaria, si sostiene che l’Amministrazione comunale avrebbe ingenerato l’affidamento circa l’ammissibilità del mantenimento del passo carrabile anche in presenza di locali utilizzati ad uso “uffici” e, ancora, la violazione dell’art. 46, comma 2, lett. b), del Dpr 495/1992.
Al riguardo va rilevato che, nel corso della voltura del 2005, era stata la stessa Sig.ra Ca. a dichiarare che l’autorimessa e/o lo spazio aperto a cui si accede con il passo carrabile “è permanentemente e continuativamente destinato a ricovero di veicoli e che in caso di cambiamenti nella destinazione d’uso questi saranno tempestivamente comunicati”.
L’autorizzazione per il passo carrabile è stata dunque rilasciata sul presupposto della veridicità delle dichiarazioni rese dalla Sig.ra Ca. e in funzione di una precisa utilizzazione dei locali, circostanze queste ultime che sono state smentite dagli accertamenti posti in essere.
In particolare dal verbale del 21.09.2016 si desume che, contrariamente a quanto affermato, dal passo carrabile si accedeva ad un’agenzia di assicurazioni e, quindi, non a locali adibiti al ricovero di veicoli, ma a locali utilizzati a ufficio (circostanza comprovata dalla documentazione in atti ed in particolare dal contratto di locazione sottoscritto dalla ricorrente e dal materiale fotografico allegato al ricorso).
Ciò premesso è evidente che, a fronte dell’insussistenza dei presupposti per il mantenimento del passo carrabile, il Comune di Firenze non avrebbe potuto che adottare il provvedimento di revoca ora impugnato.
Si consideri, infatti, che, ai sensi dell’art. 46, comma 2, lett. B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve consentire l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il locale in riferimento al quale viene concesso il passo carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere utilizzati a fini commerciali (in questo senso si veda TAR Toscana Firenze Sez. III, 17.02.2006, n. 485).
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione d’uso impressa dalla stessa ricorrente.
In definitiva l’infondatezza delle censure dedotte consente di respingere il ricorso (
TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.04.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire e formazione del silenzio assenso
“La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in assenza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso”; e tanto perché “il silenzio equivale al provvedimento amministrativo, e ciò non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione”.
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai fini della formazione del provvedimento silenzioso, la dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente “poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica”; ragion per cui, “non può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in cui il progettista si sia limitato ad affermare genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti della conformità e della compatibilità (quest'ultima, infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca dal progettista, soprattutto in considerazione delle relative responsabilità, anche sul piano penale”, atteso anche che “La formazione del silenzio assenso sulle domande di concessione edilizia ha carattere limitato ed è subordinato alla esistenza di uno strumento urbanistico vigente ed adeguato alle prescrizioni ed agli standard introdotti dalla l. n. 765 del 1967, nonché di una programmazione urbanistica di dettaglio, tale da non lasciare all'amministrazione alcuno spazio di discrezionalità, neppure sotto il profilo tecnico”.
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la documentazione deve essere data prova, alla stregua degli ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.), dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente accessibile mediante l'impiego degli strumenti procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento”.
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Oggetto della domanda demolitoria proposta in questa sede è la nota prot. n. 5245/2012 del 05/12/2012, con cui il Comune di Cautano - Sportello Unico per l'Edilizia ha inviato a Ma.Lu. [la quale, in data 04.07.2012, aveva presentato un’istanza (prot. n. 3181) per il rilascio di un permesso di costruire volto al “mutamento di destinazione d’uso per uso residenziale del nucleo familiare del proprietario, L.R. n. 19/2009 mod. dalla L.R. n. 1/2011 art. 6-bis (piano casa bis)”, in relazione a cui, peraltro, già vi era stata una richiesta di integrazione documentale (con nota prot. n. 3352 del 05.07.2012), riscontrata positivamente dall’interessata il successivo 03.08.2012 (prot. n. 3701)] la seguente comunicazione: “in riferimento alla domanda di PDC in oggetto, la Commissione Edilizia nella seduta del 26/11/2012 ha rinviato la pratica con osservazioni e per acquisire relazione tecnica asseverata sui titoli abilitativi pregressi con allegati grafici”; contestualmente evidenziandosi che "nel caso di mancata integrazione”l’Ufficio“trascorso il termine perentorio di 60 giorni dalla data della ricezione” avrebbe archiviato l’istanza edilizia.
A sostegno di detta domanda, parte ricorrente prospetta un unico, articolato motivo di ricorso.
Ciò posto, va preliminarmente rilevato che, pur avendo la citata nota natura di atto infraprocedimentale, la sua impugnazione risulta ammissibile per essere essa suscettibile di determinare un arresto del procedimento edilizio attivato dalla Matarazzo, con conseguente lesione dell’interesse legittimo di costei, in caso di mancata produzione da parte sua di una “relazione tecnica asseverata sui titoli abilitativi pregressi con allegati grafici” (richiesta di cui appunto viene contestata qui la legittimità).
Nel merito, va disattesa la censura incentrata sull’asserito sostanziarsi, secondo il modulo previsto dall’art. 20 DPR 380/2001 (nella formulazione applicabile ratione temporis), del silenzio assenso sulla presentata domanda di permesso di costruire.
Va premesso, invero, conformemente a condivisibile giurisprudenza, che “La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in assenza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso” (così TAR Campania-Napoli n. 110 del 29.02.2016; nonché cfr. TAR Puglia-Lecce n. 3342 del 19.01.2015); e tanto perché “il silenzio equivale al provvedimento amministrativo, e ciò non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione” (così TAR Puglia-Bari n. 37 del 14.01.2016).
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai fini della formazione del provvedimento silenzioso, la dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente “poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica” (così TAR Abruzzo-Pescara n. 486 del 03.12.2014); ragion per cui, “non può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in cui il progettista si sia limitato ad affermare genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti della conformità e della compatibilità (quest'ultima, infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca dal progettista, soprattutto in considerazione delle relative responsabilità, anche sul piano penale” (così TAR Campania-Napoli n. 2281 del 03.05.2013), atteso anche che “La formazione del silenzio assenso sulle domande di concessione edilizia ha carattere limitato ed è subordinato alla esistenza di uno strumento urbanistico vigente ed adeguato alle prescrizioni ed agli standard introdotti dalla l. n. 765 del 1967, nonché di una programmazione urbanistica di dettaglio, tale da non lasciare all'amministrazione alcuno spazio di discrezionalità, neppure sotto il profilo tecnico” (così Cons. di Stato sez. V, n. 3796 del 17.07.2014).
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la documentazione deve essere data prova, alla stregua degli ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.), dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente accessibile mediante l'impiego degli strumenti procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento” (così TAR Lazio-Roma n. 9267 del 09.08.2016).
Orbene, nella fattispecie in esame, dalla prodotta copia della “richiesta di permesso di costruire inoltrata in data 04.07.2012 prot. n. 3181 e documentazione allegata” (cfr. indice della produzione di parte ricorrente) presentata al Comune di Cautano, risultano sì essere state allegate alla pratica edilizia, una “relazione tecnica” e una “relazione paesaggistica”, entrambe a firma dell’architetto Co.Ca., ma le stesse non risultano essere munite della formale asseverazione prescritta dall’art. 20, co. 1, DPR 380/2001, specificamente richiesta quanto alla “conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza energetica”; come pure non emerge la presentazione della “attestazione concernente il titolo di legittimazione” pure richiesta dal medesimo articolo: e appunto tali carenze portano ad escludere che sussistessero i presupposti per la formazione dell’invocato silenzio-assenso.
E’ fondata, viceversa, l’ulteriore censura incentrata sull’assunto che la richiesta di integrazione documentale sarebbe in violazione degli artt. 9-bis e 20 co. 5 DPR 380/2001.
Deve, infatti, convenirsi con la difesa di parte ricorrente, allorché evidenzia che i “titoli abilitativi pregressi” relativi al fabbricato oggetto del progettato intervento sono atti già in disponibilità dell’Amministrazione procedente, ovvero da questa acquisibili autonomamente, per cui la richiesta di una “relazione tecnica asseverata” in ordine ad essi, “con allegati grafici” risulta del tutto ultronea e dilatoria; come anche dimostrato dalla circostanza che si tratta di una seconda richiesta di integrazione documentale, laddove appunto il comma 5 del ricordato art. 20 DPR 380/2001 consente un’unica interruzione procedimentale per acquisire “documenti che integrino o completino la documentazione presentata”.
Non sussiste, infine, la necessità di esaminare la censura incentrata sull’asserzione della non necessità, per l’intervento de quo, del previo rilascio di una autorizzazione paesaggistica, non figurando tale problematica tra le ragioni ostative ad una positiva conclusione del procedimento edilizio.
Pertanto, l’atto impugnato va annullato, salvi comunque rimanendo gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione procedente in ordine alla definizione della pratica edilizia in questione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.04.2017 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANon vi è dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato non possa andare incontro a una responsabilità di posizione, in difetto di elementi di diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che essi non possono consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza, salvo che risulti integrata una condotta concorsuale mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l'obbligo giuridico di impedire la realizzazione od il mantenimento dell'evento lesivo.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.

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1. I ricorsi sono infondati.
2. Come ha correttamente argomentato il procuratore Generale non vi è dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato non possa andare incontro a una responsabilità di posizione, in difetto di elementi di diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che essi non possono consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza (Sez. U, n. 12753 del 05/10/1994, Zaccarelli, Rv. 199385), salvo che risulti integrata una condotta concorsuale mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l'obbligo giuridico di impedire la realizzazione od il mantenimento dell'evento lesivo (Sez. F, n. 44274 del 13/08/2004, Preziosi, Rv. 230173).
Sul punto, come ricorda lo stesso ricorrente, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, Rv. 266030).
Nel caso in esame, tuttavia, l'accusa ipotizza che gli indagati abbiano realizzato o comunque gestito una discarica non autorizzata sul proprio terreno.
Va ricordato che, in sede di riesame del sequestro probatorio, il tribunale è chiamato a verificare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato, valutando il "fumus commissi delicti" in relazione alla congruità degli elementi rappresentati, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla concreta fondatezza dell'accusa, bensì con esclusivo riferimento alla idoneità degli elementi, su cui si fonda la notizia di reato, a rendere utile l'espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell'autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 15254 del 10/03/2015, Previtero, Rv. 263053) sicché, in materia di riesame del vincolo probatorio, il sindacato del giudice non può investire la concreta fondatezza dell'accusa, ma è circoscritto alla verifica dell'astratta possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato e al controllo circa la qualificazione dell'oggetto sequestrato come corpus delicti e, quindi, all'esistenza di una relazione di immediatezza tra il bene stesso e l'illecito penale.
Ciò posto, il tribunale ha osservato i suddetti principi ed ha anche dato atto tanto delle finalità probatorie perseguite dal pubblico ministero quanto della serietà del progetto investigativo finalizzato ad eseguire ulteriori accertamenti già delegati alla polizia giudiziaria con atto del 18.12.2015, con la conseguenza che la doglianza formulata non ha alcun fondamento né sotto il profilo del fumus e neppure riguardo alle perseguite finalità probatorie.
3. I ricorsi vanno pertanto rigettati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.03.2017 n. 14503).

URBANISTICA: I Piani urbanistici attuativi devono contenere le indicazioni anche per gli edifici pubblici.
E' da ritenersi illegittimo il Piano urbanistico attuativo che prevede la riqualificazione di un'area dismessa quantificando gli standard di parcheggio con esclusivo riferimento alle destinazioni private (residenze, uffici e negozi), senza indicazioni per quanto riguarda gli edifici pubblici.
Con riferimento ai piani di attuazione degli strumenti urbanistici generali, ai sensi della disposizione contenuta nell'art. 22 l.r. Lombardia 51/1975, (come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia multipiano, è legittimo individuare la superficie complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r. Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli standards urbanistici a livello comunale, prevedono che negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli insediamenti residenziali rimettendo alla potestà discrezionale dell'amministrazione in relazione alle effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni di distribuzione della stessa dotazione fra quattro categorie di opere (la prima delle quali concerne l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti.
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7.4. Infine, è fondata la censura con la quale l’appellante lamenta che il TAR avrebbe dovuto rilevare come fosse corretta la scelta dell’amministrazione di rinunciare alla realizzazione del P.I.I. stante la sua illegittimità per violazione dell’art. 22, l.r. Lombardia, n. 51/1975, nella parte in cui, pur avendo contemplato la formazione di rilevanti strutture che generano fabbisogno di parcheggi, quali il nuovo municipio e la sala espositiva biblioteca, non prevedeva contestualmente la formazione degli standard di supporto.
Al riguardo, infatti, deve essere richiamata la copiosa giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., Sez. IV, 16.12.2003, n. 8234) che ha precisato come con riferimento ai piani di attuazione degli strumenti urbanistici generali, ai sensi della disposizione contenuta nell'art. 22 cit., (come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia multipiano, è legittimo individuare la superficie complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r. Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli standards urbanistici a livello comunale, prevedono che negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli insediamenti residenziali rimettendo alla potestà discrezionale dell'amministrazione in relazione alle effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni di distribuzione della stessa dotazione fra quattro categorie di opere (la prima delle quali concerne l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti (Cons. St., Sez. IV, 09.04.1984, n. 226) (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.02.2017 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Agente degradato.
Svilire la professionalità di un agente di polizia può configurare mobbing e dare luogo al risarcimento del danno. Il comune non può mortificare un agente di polizia municipale sottraendogli ogni attività e relegandolo in un ufficio cimiteriale. In questo caso scatterà addirittura il mobbing e l'amministrazione sarà costretta a risarcire il danno patito dallo sfortunato operatore.
Al fine di configurare il mobbing lavorativo, questa Corte ha affermato che devono ricorrere:
   a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
   b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
   c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
   d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

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1. Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 4 e 6 d.lgs. 165/2001 per avere la Corte di appello ritenuto illegittime le delibere della giunta comunale del luglio 2004, con cui il Ba. venne inquadrato nella qualifica Istruttore Amministrativo; tali determinazioni avevano ad oggetto modifiche della pianta organica, materia che esula dalla competenza dirigenziale.
Dal secondo all'ottavo motivo il ricorso denuncia vizi di motivazione, così sintetizzabili: 2-3) omessa motivazione in ordine alla necessità, da parte del Comune, nell'esercizio dello ius variandi, di rinvenire una collocazione adeguata al dipendente giudicato inidoneo ai servizi esterni; 4) contraddittoria motivazione in ordine alla disamina e valutazione delle deposizioni dei testi Ba. e Be. in merito alla ritenuta inattività lavorativa in cui sarebbe stato lasciato il dipendente; 5) erronea valutazione di inattendibilità del teste Ma.; 6) contraddittorietà della sentenza nella valorizzazione della deposizione della teste Be. a fronte della deposizione del teste Ba.; 7) motivazione contraddittoria circa la deposizione del teste Barone in merito all'assegnazione della sede di lavoro del Ba. presso gli "uffici cimiteriali"; 8) omessa motivazione in ordine alla circostanza che il Ba. per circa tre anni (dal 1998 al 2001) svolse regolarmente la propria attività in qualità di vigile urbano addetto anche ai servizi esterni.
2. Al punto nove, parte ricorrente contesta la sussistenza del mobbing, deducendo che il Ba. prestò regolare servizio per un triennio senza nulla lamentare, ma nell'immediatezza del verbale della Commissione medica si rifiutò di prestare servizio esterno anche in via sporadica; il Comune chiese la revoca della qualifica di Agente di Polizia Municipale, non avendo necessità di un agente che prestasse servizio interno e procedette ad inquadrare il Ba. quale Istruttore Amministrativo; d) lo stesso viene successivamente assegnato all'Ufficio Tributi. Alla stregua dei fatti, non vi erano elementi per affermare l'esistenza di un intento persecutorio o di vessazioni poste in essere dal Comune ai danni del proprio dipendente.
3. Il ricorso è infondato.
4. Quanto alla questione di diritto oggetto del primo motivo, deve rilevarsene l'inammissibilità per essere il ricorso carente dei requisiti di indicazione e di allegazione, di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6 c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c. non risultando le delibere vertenti sullo ius variandi trascritte né in tutto né in parte e non essendo indicata la sede della loro produzione in giudizio (ex plurimis, Cass. n. 26174 del 2014, n. 2966 del 2014, n. 15628 del 2009; cfr. pure Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. n. 22302 del 2008, n. 4220 del 2012, n. 8569 del 2013 n. 14784 del 2015 e, tra le più recenti, Cass. n. 6556 del 14.03.2013, n. 16900 del 2015).
Vi è un duplice onere a carico del ricorrente, quello di produrre il documento e quello di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.
4.1. Il motivo è inammissibile anche per altra ragione: l'illegittimità dell'atto è stata valutata dalla Corte di appello anche (e soprattutto) per il demansionamento in cui il mutamento di assegnazione si espresse. Valutando il complesso delle acquisizioni istruttorie, la Corte di merito ha rilevato che sin da settembre/ottobre 2004 il Ba., nella nuova posizione assegnata, venne dapprima relegato a compiti esecutivi non riconducibili a profili della categoria di inquadramento (area C), ma riferibili addirittura a mansioni di area A, e successivamente venne privato del tutto delle mansioni.
4.2. Esula quindi dall'oggetto del giudizio ogni problematica sull'equivalenza delle mansioni in relazione all'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 e dell'esercizio dello ius variandi datoriale in relazione alla dedotta esigibilità di tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria. Il Ba. non venne adibito alle mansioni proprie del profilo assegnato di Istruttore Amministrativo, ma ad altre (ben inferiori) non riconducibili a da quelle proprie della categoria di appartenenza. Del pari, la sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere costituisce ipotesi vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonché Cass. n. 687 del 2014).
5. Per il resto, il ricorso sostanzialmente tende a proporre una diversa valutazione dei fatti con formulazione, in definitiva, di una richiesta di duplicazione del giudizio di merito.
Costituisce principio consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.
5.1. Nella specie, la Corte di merito ha ricostruito, alla stregua delle risultanze della prova testimoniale e documentale, i numerosi elementi atti a configurare, nel loro concorso, il mobbing lavorativo. Come questa Corte ha affermato, a tal fine devono ricorrere:
   a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
   b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
   c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
   d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del 2014).
5.2. La ricostruzione della vicenda operata dal giudice di merito è agevolmente sussumibile nella fattispecie astratta così definita. La soluzione si fonda su un giudizio valutativo immune da vizi logici e adeguato a sorreggere la decisione, dovendo altresì osservarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 n. 5 c.p.c., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
5.3. Ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l'autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se -confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie- prendesse in considerazione fatti probatori diversi o ulteriori rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso "sub specie" di omesso esame di un punto (v. Cass. n. 3161/2002).
5.4. Deve poi osservarsi, quanto alle censure vertenti sulla omessa considerazione di fatti ritenuti decisivi, che costituisce fatto (o punto) decisivo ai sensi del'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 54, comma 1, lett. b, del D.L. 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 07.08.2012, n. 134), quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa (Cass. n. 18368 del 31.07.2013); la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, inerisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo peraltro necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. (v., ex plurimis, Cass. n. 3668 e 20612 del 2013).
5.5. Nella specie, i dedotti vizi di motivazione non corrispondono al modello enucleabile negli esposti termini dal n. 5 del citato art. 360 c.p.c., poiché, si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice del rinvio; nel valutare le stesse risultanze istruttorie da quest'ultimo esaminate; nel trarne implicazioni e spunti per la ricostruzione della vicenda in senso difforme da quello esposto nella sentenza impugnata; nel desumerne apprezzamenti circa la maggiore o minore valenza probatoria di alcun elementi rispetto ad altri. Essi, dunque, incidono sull'intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all'ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità (v. ex plurimis Cass. n. 6288 del 2011).
6. Il ricorso va, pertanto, respinto. Nulla va disposto quanto alle spese del giudizio di legittimità, in mancanza di attività difensiva dell'intimato (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza 27.01.2017 n. 2142).

EDILIZIA PRIVATAChe la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge 17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso introdurre una forma di azione popolare, è affermazione troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici precedenti.
Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato dall’art. 136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, in ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che, dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non edificazione gravante sul terreno della controparte e della perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà, censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano provocato uno specifico danno e, in particolare, una diminuzione del valore economico dei beni, costituendo questa una questione di merito irrilevante sulla condizione dell'azione.
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Non è consentito al giudice di anticipare alla fase dello scrutinio della sussistenza dell’interesse (e della legittimazione) a ricorrere la verifica del rispetto o meno dell'assetto prodotto dall'intervento contestato, perché è sufficiente l'astratta prospettazione della suscettibilità del contrasto con siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile collegamento a consentire di riconoscerne l’interesse, oltre che la legittimazione attiva, al ricorso giurisdizionale avverso le scelte compiute.

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25.1. Quanto al primo motivo, non ha pregio l’eccezione di carenza di interesse in capo all’originario ricorrente, già vagliata e respinta dal TAR e riproposta in questo grado di giudizio.
25.1.1. Che la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge 17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso introdurre una forma di azione popolare, è affermazione troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici precedenti.
25.1.2. Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato dall’art. 136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, in ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che, dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non edificazione gravante sul terreno della controparte e della perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà, censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano provocato uno specifico danno e, in particolare, una diminuzione del valore economico dei beni, costituendo questa una questione di merito irrilevante sulla condizione dell'azione (cfr. per tutte, in termini, sez. VI, 15.06.2010, n. 3744; sez. IV, 08.07.2013, n. 3596; sez. IV, 18.11.2014, n. 3596; sez. IV, 12.11.2015, n. 5160; sez. IV, 06.06.2016, n. 2395; sez. IV, 26.07.2016, n. 3330).
25.1.3. In definitiva, non è consentito al giudice di anticipare alla fase dello scrutinio della sussistenza dell’interesse (e della legittimazione) a ricorrere la verifica del rispetto o meno dell'assetto prodotto dall'intervento contestato, perché è sufficiente l'astratta prospettazione della suscettibilità del contrasto con siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile collegamento a consentire di riconoscerne l’interesse, oltre che la legittimazione attiva, al ricorso giurisdizionale avverso le scelte compiute (cfr. sez. IV, 12.06.2013, n. 3257)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio è dell’avviso che il modulo procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
La necessità dell’assenso regionale, espressa nella disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010, era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta l'approvazione della Regione, le attribuzioni di quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione alla conferenza di servizi nei termini previsti dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 24, nel testo all’epoca vigente.
Deve dunque dirsi che:
   a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso di specie la Provincia) sia essenziale al completamento dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle disposizioni ricordate;
   b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere contrario, producendo un arresto definitivo che termina nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale, può essere immediatamente impugnato dal destinatario;
   c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una proposta di variante dello strumento urbanistico (espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998; implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
   d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta- spetta al Consiglio comunale;
   e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente destinata a essere evocata in giudizio;
   f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre neppure che lo stesso venga impugnato.

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Per giurisprudenza costante, la procedura semplificata di variante urbanistica ha carattere eccezionale e derogatorio della disciplina generale, sicché non può trovare applicazione al di fuori delle ipotesi specificamente previste dalla norma, e i presupposti fattuali, da cui si assume nascere l’esigenza di tale variante, vanno accertati con in modo oggettivo con il dovuto rigore.
Secondo la normativa vigente, la variante semplificata può essere adottata “nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa disciplina regionale” (art. 8 del d.p.r. n. 160/2010, cit.).
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26. Del pari infondati sono i motivi dell’appello n. 4840/2016.
26.1 Non ha pregio il primo motivo, con il quale il Comune appellante rinnova un’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado, già rigettata dal TAR e fondata sull’omessa notifica alla Provincia di Perugia dell’atto introduttivo del giudizio.
26.1.1. Condividendo pienamente le osservazioni del Tribunale regionale sul punto, il Collegio è dell’avviso che il modulo procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
26.1.2. La necessità dell’assenso regionale, espressa nella disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010, era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta l'approvazione della Regione, le attribuzioni di quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione alla conferenza di servizi nei termini previsti dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 24, nel testo all’epoca vigente.
26.1.3. Deve dunque dirsi che:
   a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso di specie la Provincia) sia essenziale al completamento dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle disposizioni ricordate;
   b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere contrario, producendo un arresto definitivo che termina nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale, può essere immediatamente impugnato dal destinatario (per una problematica analoga -riguardo al ruolo dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento di rilascio di un titolo edilizio- Cons. Stato, sez. VI, 12.06.2008, n. 2903; sez. IV, 12.02.2015, n. 738);
   c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una proposta di variante dello strumento urbanistico (espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998; implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
   d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta- spetta al Consiglio comunale (Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2011, n. 4768; sez. IV, 02.10.2012, n. 5187; sez. V, 11.04.2013, n. 1972; sez. IV, 26.05.2014, n. 2667);
   e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente destinata a essere evocata in giudizio;
   f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre neppure che lo stesso venga impugnato (Cons. Stato, n. 2667 del 2014, cit.).
26.1.3. Da ciò, appunto, il rigetto dell’eccezione.
26.2. E’ anche infondato il secondo motivo.
26.2.1. Per giurisprudenza costante, la procedura semplificata di variante urbanistica ha carattere eccezionale e derogatorio della disciplina generale, sicché non può trovare applicazione al di fuori delle ipotesi specificamente previste dalla norma, e i presupposti fattuali, da cui si assume nascere l’esigenza di tale variante, vanno accertati con in modo oggettivo con il dovuto rigore (Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2006, n. 1038; sez. IV, 25.06.2007, n. 3593; sez. IV, 15.07.2011, n. 4308; sez. IV, 08.01.2016, n. 27).
26.2.2. Secondo la normativa vigente, la variante semplificata può essere adottata “nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa disciplina regionale” (art. 8 del d.p.r. n. 160/2010, cit.).
26.2.3. Nel caso di specie, è noto che il capannone industriale preesisteva e non è stata data alcuna convincente spiegazione circa l’effettiva necessità di un ampliamento degli spazi per l’attività di distribuzione di energia per i veicoli a trazione elettrica.
26.2.4. Sembra piuttosto doversi dire che il Comune, messo sull’avviso dall’ordinanza cautelare della Sezione n. 3150/2011 (che, resa in relazione al ricorso n. 4654/2011, ha accolto la domanda cautelare, ma al solo scopo di mantenere la res integra, considerando tuttavia prima facie la sentenza appellata esente dalle censure proposte), abbia inteso utilizzare la speciale procedura della variante semplificata per un fine improprio, cioè quello di sanare un insediamento abusivo.
26.2.5. Sono dunque fondate le censure di violazione di legge e di eccesso di potere per sviamento dalla funzione tipica, sicché il secondo motivo dell’appello va parimenti respinto.
26.3. Tanto premesso, non occorre neppure esaminare il terzo motivo del gravame, essendo acclarata l’illegittimità del provvedimento impugnato. Tale motivo, per ragioni di economia processuale, resta perciò assorbito (Cons. Stato, ad. plen., 27.04.2015, n. 5)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.05.2017

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SI SCATENA LA GUERRA TRA "POVERI":
il Legislatore con la mano destra dà l'«incentivo funzioni tecniche» solo ad alcuni dipendenti e con la mano sinistra lo rivuole indietro mettendo le mani nelle tasche di tutti gli altri!!

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi per funzioni tecniche - art. 113, comma 2, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e applicabilità del tetto del salario accessorio previsto, all’art. 9, comma 2-bis, del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito in l. 30.07.2010, n. 122.
Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016).
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1. La questione di massima oggetto di esame è incentrata sull’esclusione o meno dal tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici –già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015– dei compensi destinati a remunerare le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016.
La questione, come sopra accennato, era stata risolta in senso positivo dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite in sede di controllo, con riferimento, però, all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Preliminarmente, va rilevata la sostanziale sovrapponibilità del provvedimento di limitazione alla crescita delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale adottato con l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, rispetto alla previsione della legge di stabilità 2016.
Quest’ultima norma così dispone: “Nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124, con particolare riferimento all'omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal 01.01.2016 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente”.
Infatti, gli aspetti innovativi della nuova formulazione –essenzialmente riferiti al richiamo alle perduranti esigenze di finanza pubblica, alla prevista attuazione dei decreti legislativi attuativi della riforma della pubblica amministrazione, alla considerazione anche del personale assumibile e all’assenza di una previsione intesa a consolidare nel tempo le decurtazioni al trattamento accessorio– non incidono sulla struttura del vincolo di spesa, come già evidenziato da questa Sezione (deliberazione 07.12.2016 n. 34).
La norma si sostanzia in un vincolo alla crescita dei fondi integrativi rispetto ad una annualità di riferimento e nell’automatica riduzione del fondo in misura proporzionale alla contrazione del personale in servizio.
Le Sezioni riunite, chiamate a pronunciarsi sulla soggezione di taluni compensi ai tetti di spesa per i trattamenti accessori posti dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, hanno ritenuto la norma di stretta interpretazione, tenuto conto dell’effetto di proliferazione della spesa per il personale determinato dalla contrattazione integrativa, i cui meccanismi hanno finito per vanificare l’efficacia delle altre misure di contenimento della spesa (tra cui i vincoli assunzionali).
In tale contesto, l’Organo nomofilattico ha individuato quale criterio discretivo la circostanza che determinati compensi siano remunerativi di “prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili” le quali “potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”. Sussistendo queste condizioni, gli incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, sono stati esclusi dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, andando a compensare prestazioni professionali afferenti ad “attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti”.
Peraltro, tale orientamento si riporta alle affermazioni di questa Sezione (
deliberazione 13.11.2009 n. 16) che, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296, aveva escluso gli incentivi per la progettazione interna di cui al previgente codice degli appalti a motivo  della loro riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
2. Come ben evidenziato nella delibera di remissione della Sezione territoriale,
il compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice degli appalti non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato.
È anzi precisato nella legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr, l. n. 11/2016), che
tale compenso va a remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto “escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Di conseguenza,
sono destinate risorse al fondo di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 (nella misura del 2% degli importi a base di gara) “esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Diversamente dispone l’art. 113, comma 1, per “
gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento” i quali “fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”.
È, quindi, fondato il dubbio interpretativo e la remissione della questione alla Sezione delle autonomie, trattandosi di fattispecie non assimilabili.
Va, poi, considerato che
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture, come anche ritenuto dalla Sezione remittente nel parere reso sul primo quesito proposto dal Comune di Medicina, il che aggiunge ulteriori elementi di differenziazione rispetto all’istituto di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Tale interpretazione è avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza. In tal senso è anche l’avviso di questa Sezione che, con deliberazione 13.05.2016 n. 18, ammette che “la nuova normativa, sostitutiva della precedente, abolisce gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter ed introduce, all’art. 113, nuove forme di «incentivazione per funzioni tecniche»”.
3.
In relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione, occorre verificare la sussistenza, nei nuovi “Incentivi per funzioni tecniche”, dei requisiti fissati dalla Sezione riunite, ai fini della loro inclusione o meno nei tetti di spesa di cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015.
Per quanto già esposto,
va affermato che nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).
Nel caso di specie,
non si ravvisano, poi, gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016.
La citata norma, infatti –nel disporre che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l’80%) debba avvenire “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori” e che “gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione”– appare indicativa della diversa connotazione degli incentivi in parola.
È infatti evidente l’intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del contratto. Al contempo, la citata disposizione richiama gli istituti della contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una sottolineatura dell’applicazione dei limiti di spesa alle risorse decentrate.
Per converso, giova ribadire che, nella riscrittura della materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo. Infatti, per le spese di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di vigilanza,  per i collaudi tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, d.lgs. n. 50/2016.
In tal senso, deve essere apprezzato l’intento chiarificatore del legislatore delegato.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione di regionale di controllo per l’Emilia-Romagna con il parere 07.12.2016 n. 118, enuncia il seguente principio di diritto: “
Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)” (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 06.04.2017 n. 7).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi per funzioni tecniche rientrano nei limiti del salario accessorio.
Gli incentivi per funzioni tecniche, di cui all'articolo 113, comma 2 del Dlgs n. 50/2016, sono da includere nel limite al trattamento accessorio.

Sono queste le conclusioni della deliberazione 06.04.2017 n. 7, della sezione Autonomie della Corte dei conti sulla tanto attesa vicenda che ha lasciato con il fiato sospeso gli operatori degli enti locali.
Il principio di diritto enunciato, però, creerà non pochi problemi nella gestione dei fondi del salario accessorio, portando con sé il rischio di una lotta intestina tra i dipendenti che parteciperanno alle attività tecniche, rispetto al resto dei lavoratori.
La cornice normativa
Negli ultimi anni, il legislatore ha imposto precisi limiti ai fondi della contrattazione integrativa. Nel quadriennio 2011-2014, il trattamento accessorio non poteva essere superiore al limite dell'anno 2010, ridotto sulla base dei cessati in virtù dell'articolo 9, comma 2-bis, del Dl n. 78/2010. A decorrere dall'anno 2016, l'articolo 1, comma 236, della legge 208/2015, ha spostato il riferimento temporale del tetto all'anno 2015.
Nel frattempo, le cosiddette «progettazioni interne», contenute prima nell'articolo 92 e poi nell'articolo 93 del Dlgs n. 163/2006, si sono trasformate negli «incentivi per funzioni tecniche» di cui all'articolo 113, del nuovo codice dei contratti pubblici con una sostanziale modifica dei soggetti beneficiari e delle modalità di quantificazione ed erogazione.
Con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, la Corte dei conti a Sezioni riunite, aveva affermato che gli incentivi del precedente codice degli appalti e dei contratti erano esclusi dai limiti del trattamento accessorio, in quanto risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche, offerte da personale qualificato in servizio presso l'amministrazione pubblica. Ma questa esclusione si può riproporre automaticamente per gli incentivi per funzioni tecniche, di cui al Dlgs n. 50/2016?
L'analisi della Corte dei conti
I magistrati contabili, evidenziano fin da subito che, nella novella disposizione, non si ravvisano i presupposti delineati dalle Sezioni riunite, per escludere gli incentivi di cui si tratta dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente.
Ciò è dovuto al fatto che essi non vanno a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili, acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno, ma è piuttosto evidente l'intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione all'esecuzione del contratto.
Quindi, non ci sono motivi per poter escludere dal limite del trattamento accessorio di cui all'articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015, tali erogazioni.
Le conclusioni
La questione diventa, a questo punto, difficilissima da gestire dal punto di vista operativo. Nel limite del trattamento accessorio 2015 attualmente in vigore, non vi erano tali incentivi. Quindi, se ora l'ente, sulla base della regolamentazione interna, dovesse erogare tali somme che invece vanno considerate nel tetto, si supererebbe il vincolo finanziario, a meno che l'ente non vada a compensare riducendo le altre quote del fondo, quelle che fanno riferimento al trattamento accessorio di tutti (gli altri) dipendenti. Ovvero, in altre parole: per far spazio agli incentivi per funzioni tecniche, sarà obbligatorio ridurre altre componenti del fondo, con un calo, quindi, dei trattamenti economici accessori dei lavoratori.
Ci potrebbe essere anche un'altra alternativa, cioè quella di non adottare i regolamenti per gli incentivi tecnici e, quindi, non corrispondere alcun compenso, ai sensi dell'articolo 113, del Dlgs n. 50/2016, ma a questo punto ci sarà da fare i conti con le prestazioni già effettuate dallo scorso anno in poi.
Da ogni parte da cui si affronta la questione appare un contrasto o una guerra, appunto, tra i dipendenti. Un'ultimissima soluzione (ma servirà l'avallo da parte dei magistrati contabili) potrebbe consistere nel rendere omogeneo il dato, per cui il tetto del 2015 andrebbe ricalcolato con gli incentivi sulle progettazioni. D'altronde, non è logico, né razionale, parificare (e paragonare) due limiti che contengono al loro interno, voci differenti che rispondono a situazioni diverse.
E le spese di personale?
Un'ultima nota finale. Le progettazioni interne vecchia maniera, sono state, da sempre, escluse anche dalle norme sul contenimento della spesa di personale di cui all'articolo 1, commi 557 e 562, della legge n. 296/2006.
Si potrà sostenere lo stesso anche per gli incentivi per funzioni tecniche? Per ora registriamo il passaggio della deliberazione 06.04.2017 n. 7, della sezione Autonomie, in cui si legge: «va affermato che nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata a investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)».
Ed ora i dubbi si infittiscono sempre di più (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.04.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi ai progettisti inclusi nel salario accessorio. Delibera della sezione autonomie della corte conti.
Anche gli incentivi per funzioni tecniche devono essere inclusi nel tetto al salario accessorio.

Lo ha stabilito la Corte dei conti – sezione autonomie, con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla sezione di regionale di controllo per l'Emilia-Romagna.
Quest'ultima riguardava la portata dell'art. 1, comma 236, della l. 208/2015 (legge di stabilità 2016), che ha reiterato il limite all'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale delle pubbliche amministrazioni (già previsto fino al 2014 dall'art. 9, comma 2-bis, del 78/2010), parametrandolo all'importo determinato per l'anno 2015 automaticamente diminuito in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenuto conto di quello assumibile secondo la normativa vigente.
Il dubbio, come già in passato, riguardava le voci da conteggiare e quelle che, invece , possono essere escluse.
In particolare, in discussione erano gli incentivi previsti dall'art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti (dlgs 50/2016). Tali emolumenti vanno a remunerare le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici per le «attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di comando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti».
A giudizio della sezione autonomie, nel caso di specie non si ravvisano i presupposti delineati dalle sezioni riunite (nella
deliberazione 04.10.2011 n. 51) per sostenere l'esclusione dal tetto, a differenza di quanto accadeva per gli incentivi alla progettazione previsti dal vecchio codice (art. 93, comma 7-ter, del dlgs 163/2006).
I nuovi incentivi, infatti, non vanno a remunerare «prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili» acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla p.a. Al contrario, nel disporre che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l'80%) debba avvenire «per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori» e che «gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione», il legislatore ha inteso ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all'art. 21, è resa obbligatoria anche per l'acquisto di beni e servizi) all'esecuzione del contratto. Al contempo, l'art. 113 richiama gli istituti della contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una sottolineatura dell'applicazione dei limiti di spesa alle risorse decentrate.
Sebbene la questione non fosse oggetto di specifico esame, la Sezione ha altresì affermato che la possibilità di riconoscere tali emolumenti, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale) (articolo ItaliaOggi del 13.04.2017).

INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHELa Corte conti smentisce se stessa. L'Intervento/ sugli incentivi ai tecnici.
Incentivi ai tecnici solo entro il tetto complessivo del fondo delle risorse decentrate del 2015. La Corte dei conti smentisce se stessa e ritiene che le risorse poste a finanziare l'incentivazione dei soggetti addetti alle fasi tecniche di gestione degli appalti rientrino nel computo della spesa complessiva del personale da tenere sotto il livello fissato dall'articolo 1, comma 236, della legge 208/2015.

Il revirement è stato disposto dalla Corte dei conti, sezione autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, che propone una lettura diametralmente opposta a quella offerta dalle Sezioni riunite mediante la
deliberazione 04.10.2011 n. 51.
Secondo la sezione autonomie il nuovo orientamento è dovuto alla diversità delle regole prese in esame. Nel 2011, le sezioni riunite stabilirono che gli oneri per gli incentivi ai progettisti non fossero da computare nei tetti alla spesa della contrattazione decentrata, fondandosi sull'articolo 93, comma 7-ter, del dlgs 163/2006, il vecchio codice dei contratti, oggi sostituito dal dlgs 50/2016. In linea con l'assunto delle sezioni riunite, nel vecchio regime anche la sezione autonomie aveva concluso che le spese per gli incentivi ai tecnici non rientrassero nel tetto alla spesa per la contrattazione decentrata: la
deliberazione 13.11.2009 n. 16 aveva decretato tale esclusione la natura di spese di investimento degli incentivi, in quanto «attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell'ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un'opera pubblica, e non di spese di funzionamento».
Secondo la deliberazione 06.04.2017 n. 7 il nuovo codice dei contratti ha mutato il quadro normativo preesistente. Infatti, per esempio, l'articolo 113 del dlgs 50/2016 esclude che l'incentivazione possa riguardare l'attività di progettazione. Accertato, quindi, che la disciplina dell'articolo 113 del nuovo codice dei contratti è diversa da quella dell'articolo 93, comma 7-bis, la sezione autonomie ritiene che «nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti». Questo, perché gli incentivi sono erogabili anche per gli appalti di servizi e forniture e, dunque, come spese correnti (di personale). Inoltre, secondo la sezione autonome, l'articolo 113 del dlgs 50/2016 non remunera «prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili» acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla p.a., requisito ritenuto utile dalle sezioni riunite nel 2011 per escludere gli incentivi dal tetto ai fondi della contrattazione decentrata.
Secondo la deliberazione 06.04.2017 n. 7, l'articolo 113, comma 3, del codice dei contratti –nello stabilire che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l'80%) debba avvenire, secondo le indicazioni della contrattazione decentrata tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori e nel disporre che gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione- connota l'incentivazione in modo diverso rispetto al precedente regime.
La sezione ritiene che, da un lato, il legislatore abbia inteso ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame; dall'altro, poiché la norma richiama gli istituti della contrattazione decentrata va guardata alla luce della necessità di coordinarla con le regole sui limiti di spesa alle risorse decentrate. L'interpretazione offerta dalla sezione autonomie, però, è tutt'altro che convincente. Il riferimento alla contrattazione decentrata era contenuto anche nel precedente regime normativo, nell'articolo 93, comma 7-ter, del dlgs 163/2006.
Ed anche se gli incentivi tecnici erano finanziati con risorse di conto capitale, comunque queste dovevano, come nel nuovo regime normativo, transitare nel fondo delle risorse decentrate per poter essere erogati. La spesa connessa, quindi, com'è di natura corrente relativa al personale nel nuovo regime, altrettanto corrente lo era nel precedente regime. Nella sostanza, gli appigli motivazionali esposti dalla sezione autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7 appaiono piuttosto deboli ed il parere non può considerarsi risolutivo della questione, visto che le conclusioni opposte delle sezioni riunite sono da ritenere ancora attuali ed efficaci (articolo ItaliaOggi del 14.04.2017).

Ed i sindacati si muovono...

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: disdetta degli accordi relativi all’incentivo per le funzioni tecniche (CGIL-FP e CISL-FP di Bergamo, nota 11.05.2017).

QUINDI??

     La Sez. Autonomie della Corte dei Conti è stata chiara nello spiegare perché prima del D.Lgs. 50/2016, di fatto, le somme destinate all'incentivo per la progettazione erano, sostanzialmente, una partita di giro all'interno del contratto decentrato ed oggi non più. Ecco il passaggio saliente della deliberazione:

   In relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione, occorre verificare la sussistenza, nei nuovi “Incentivi per funzioni tecniche”, dei requisiti fissati dalla Sezioni riunite, ai fini della loro inclusione o meno nei tetti di spesa di cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015.
   Per quanto già esposto,
va affermato che nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).
   Nel caso di specie,
non si ravvisano, poi, gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016.

     Conseguentemente, il "pallino" ora è in mano al legislatore: o si ritorna al vecchio tenore letterale della norma o la Corte dei Conti resterà irremovibile per quanto statuito ed inizierà a "spulciare" già il conto consuntivo 2016 nel ricercare eventuali danni erariali (e, ovviamente, chi li ha cagionati).

Ancora, altri pronunciamenti in materia di "incentivo funzioni tecniche":

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi per funzioni tecniche anche per servizi e forniture ma senza sforare i limiti di legge.
In materia di incentivi per funzioni tecniche, in base all’articolo 113 del Dlgs 50/2016, non trova alcun fondamento una diversa interpretazione della norma che tenda ad ampliare le attività (e il novero dei soggetti beneficiari), inserendone altre diverse da quelle tassativamente elencate. Inoltre, il compenso incentivante spetta anche per i servizi e le forniture.

Questo il principio contenuto nel parere 27.04.2017 n. 52 della Corte dei conti , sezione di controllo regionale delle Marche.
Un Presidente di Provincia, per il tramite di un Consiglio delle Autonomie Locali, ha chiesto un parere in ordine all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, ovvero: a) alla possibilità di estendere l'incentivo a personale amministrativo (per adempimenti connessi alle varie fasi della procedura di gara); b) se il medesimo incentivo potesse spettare anche nel caso di forniture e/o servizi anche se non riconducibili a committenze connesse alla realizzazione dei lavori/opere.
I beneficiari
Relativamente al primo quesito, i giudici marchigiani hanno evidenziato che la norma in questione si applica per le attività poste in essere successivamente al 19.04.2016 (data di entrata in vigore dello stesso decreto 50/2016), con l'obiettivo di assicurare l'efficacia della spesa e la corretta realizzazione dell'opera a regola d'arte, nei tempi e con i costi previsti dal progetto (a fronte dell'abolizione degli incentivi alla progettazione di cui all'articolo 93, comma 7-ter, del Dlgs 163/2006).
Le nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici riguardano esclusivamente: le attività di programmazione della spesa per investimenti; la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di Rup, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara.
La Corte ha puntualizzato che le figure professionali diverse da quelle espressamente previste che non hanno svolto dette funzioni tecniche -sebbene svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche- possono essere incentivate soltanto con gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro.
Servizi e forniture
In ordine al secondo quesito, il Collegio ha osservato che nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata a investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.05.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEL'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo per le funzioni tecniche è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche espressamente indicate, nonché tra i loro collaboratori. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività, tassativamente elencate, svolte dai predetti dipendenti.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici, sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Si tratta in sostanza di attività tecnico-burocratiche tassativamente individuate, prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la corretta realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con i costi previsti dal progetto.
L’intento del legislatore è stato quello di
ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21 è resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del contratto.
La disciplina in esame individua espressamente i soggetti tra cui può essere ripartito il fondo (RUP, i soggetti che svolgono le funzioni tecniche tassativamente elencate nel comma 2 e i loro collaboratori) e specifica che detto personale per fruire dei benefici deve comunque avere effettivamente svolto le suddette funzioni.
Non è pertanto possibile e non trova alcun fondamento normativo una diversa interpretazione della norma che tenda in qualche modo ad ampliare le attività, inserendone altre diverse da quelle tassativamente elencate e, conseguentemente, ad aumentare il novero dei soggetti beneficiari.
I dipendenti diversi da quelli indicati dalla norma e che non hanno svolto le funzioni tecniche parimenti individuate dalla stessa norma, benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro.
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Il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture, il che aggiunge ulteriori elementi di differenziazione rispetto all’istituto di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.

Nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).
Alla luce di quanto sopra esposto, si rileva che
la nuova normativa di cui all’articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 ha previsto il compenso incentivante anche per i servizi e le forniture, ovviamente nel rispetto delle condizioni stabilite dalla stessa normativa.
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In data 08.03.2017 è pervenuta, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali della Regione Marche, una richiesta di parere formulata dalla Presidente della Provincia di Ancona ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003.
L’Amministrazione istante, con riferimento all’articolo 113, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (“Incentivi per funzioni tecniche”), pone i seguenti quesiti:
- “se l'ottanta per cento delle risorse finanziarie dell'apposito fondo previsto dal sopra citato art. 113, comma 2, per le funzioni tecniche ivi espressamente indicate svolte dai dipendenti pubblici, possa essere ripartito anche a favore di personale amministrativo (ad esempio: personale preposto alla spesa per investimenti; personale preposto alle procedure di gara per l'individuazione del soggetto appaltatore e per gli adempimenti connessi alla stipula del contratto di appalto);
- se gli incentivi riferiti a forniture e/o servizi possano essere riconosciuti anche se non riconducibili a committenze strettamente necessarie per la realizzazione dei lavori/opere.”.
La stessa Amministrazione, ai fini dell’ammissibilità della richiesta di parere, ha dichiarato in particolare che:
   1. le disposizioni di legge di cui si chiede l'interpretazione sono l'art. 113 e 102, del Decreto Legislativo 18/04/2016 n. 50;
   2. la propria tesi interpretativa in merito alla disposizione di legge citata è la seguente: l'ottanta per cento delle risorse finanziarie dell'apposito fondo previsto dal sopra citato art. 113, comma 2, per le funzioni tecniche ivi espressamente indicate svolte dai dipendenti pubblici, possono essere ripartite anche a favore di personale amministrativo (ad esempio: personale preposto alla spesa per investimenti; personale preposto alle procedure di gara per l'individuazione del soggetto appaltatore e per gli adempimenti connessi alla stipula del contratto di appalto); gli incentivi per funzioni tecniche riguardanti forniture e servizi sono previsti indipendentemente dal fatto che siano riconducibili alla realizzazione di lavori/opere;
   3. il quesito proposto ha carattere generale e attiene a temi relativi alla contabilità pubblica in quanto riferito all'utilizzo di risorse pubbliche per forme di incentivo a favore di dipendenti pubblici;
   4. il parere richiesto non riguarda provvedimenti già adottati da questa Amministrazione, né profili relativi ai controlli ex articolo 1, commi 166 e seguenti, della legge 266/2005 in quanto: l'Amministrazione non ha ancora provveduto a regolamentare la materia in questione stante le difficoltà interpretative riguardanti l'art. 113 del Decreto Legislativo 18/04/2016 n. 50;
   5. il parere richiesto non prospetta questioni inerenti alla sussistenza di danni erariali di competenza della Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti in quanto: la richiesta di parere precede l'operato di questa Amministrazione.
...
Nel merito si osserva quanto segue.
L’articolo 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 introduce nuove forme di “Incentivi per funzioni tecniche” e si applica per le attività poste in essere successivamente al 19.04.2016, data di entrata in vigore dello stesso decreto.
In particolare detto articolo recita testualmente: “Art. 113 Incentivi per funzioni tecniche - 1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2.”.
Al riguardo si rileva che, sul punto, l’articolo 1, comma 1, lettera rr), della legge delega 28.01.2016, n. 11, ha previsto i seguenti criteri: “al fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione
”.
Da quanto sopra esposto si ricava che la disciplina normativa in esame dispone che
l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo per le funzioni tecniche è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche espressamente indicate, nonché tra i loro collaboratori. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività, tassativamente elencate, svolte dai predetti dipendenti.
Sulla materia la Sezione delle Autonomie con la deliberazione 13.05.2016 n. 18 e deliberazione 06.04.2017 n. 7 ha affermato una serie di principi che, per quanto di interesse, qui si richiamano.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici, sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Si tratta in sostanza di attività tecnico-burocratiche tassativamente individuate, prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la corretta realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con i costi previsti dal progetto.
L’intento del legislatore, secondo la Sezione delle autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7), è stato quello di
ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21 è resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del contratto.
La disciplina in esame individua espressamente i soggetti tra cui può essere ripartito il fondo (RUP, i soggetti che svolgono le funzioni tecniche tassativamente elencate nel comma 2 e i loro collaboratori) e specifica che detto personale per fruire dei benefici deve comunque avere effettivamente svolto le suddette funzioni.
Non è pertanto possibile e non trova alcun fondamento normativo una diversa interpretazione della norma che tenda in qualche modo ad ampliare le attività, inserendone altre diverse da quelle tassativamente elencate e, conseguentemente, ad aumentare il novero dei soggetti beneficiari.
I dipendenti diversi da quelli indicati dalla norma e che non hanno svolto le funzioni tecniche parimenti individuate dalla stessa norma, benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (cfr. Sezione regionale di controllo per le Marche parere 17.12.2014 n. 141).
In ordine poi al secondo quesito e cioè se gli incentivi riferiti a forniture e/o servizi possano essere riconosciuti anche se non riconducibili a committenze strettamente necessarie per la realizzazione dei lavori/opere, si osserva quanto segue.
Sul punto la Corte dei conti - Sezione delle Autonomie con deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha affermato, che
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture, il che aggiunge ulteriori elementi di differenziazione rispetto all’istituto di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Tale interpretazione, secondo la Sezione delle Autonomie, “è avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza. In tal senso è anche l’avviso di questa Sezione che, con deliberazione 13.05.2016 n. 18, ammette che la nuova normativa, sostitutiva della precedente, abolisce gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter ed introduce, all’art. 113, nuove forme di «incentivazione per funzioni tecniche»”.
La Sezione delle Autonomie inoltre chiarisce che
nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).
Alla luce di quanto sopra esposto, si rileva che
la nuova normativa di cui all’articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 ha previsto il compenso incentivante anche per i servizi e le forniture, ovviamente nel rispetto delle condizioni stabilite dalla stessa normativa.
L’Amministrazione, pertanto, nell’ambito dei poteri di gestione di esclusiva competenza e delle connesse responsabilità dovrà procedere alle valutazioni e alle conseguenti determinazioni al fine di ottemperare agli adempimenti previsti dalla normativa vigente sopra illustrata, tenendo presente l’esigenza imprescindibile di assicurare il puntuale rispetto delle condizioni e dei limiti previsti dalla stessa disciplina normativa e del quadro giurisprudenziale, come sopra illustrati (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 27.04.2017 n. 52).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEE' da escludere che l’attività manutentiva possa essere incentivata, ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016.
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1) Il Sig. Presidente della Provincia di Perugia, con nota del 03.04.2017, ha inoltrato una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, in merito alla “inclusione o esclusione delle attività di manutenzione, ordinaria e straordinaria, dall’incentivazione prevista dall’art. 113 del d.lgs n. 50/2016.
2) Al riguardo, dopo aver riportato per esteso il testo del comma 1 del precitato art. 113 (v. pag. 1 del quesito), ha fatto presente che il medesimo articolo, “al successivo comma 3, [ha] previsto che l’80% delle risorse finanziarie del fondo, costituito ai sensi del [precedente] comma 2, è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento, adottato dalle amministrazioni, secondo i rispettivi ordinamenti” (v., anche per la sottolineatura, ancora pag. 1 del quesito).
Nell’evidenziare che il previgente art. 93, co. 7-ter del d.lgs. n. 163/2006, ha espressamente escluso dall’analogo riparto dell’80% del fondo allora previsto “le attività manutentive”, ha fatto notare come “la formulazione dell’art. 113 [ora in rassegna] non esclud[a] espressamente le manutenzioni, ma si limit[i] a riferirsi a ciascuna opera o lavoro” e come “l’art. 3 del d.lgs. n. 50/2016 stabilisc[a] che, ai fini del codice, per lavori di cui all’allegato I debbano intendersi le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro, manutenzione di opere” (v. pag. 2 del quesito, anche per la sottolineatura).
3) Il Presidente della Provincia di Perugia ha anche richiamato il precedente parere di questa Sezione, ex parere 14.05.2015 n. 71, con il quale è stato escluso ogni beneficio per l’attività manutentiva, anche straordinaria, in relazione all’esplicito disposto del precitato comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 (v. ancora pag. 2 del quesito).
...
6) – Ciò premesso, nel merito, si rileva che le argomentazioni che articolano il quesito all’esame del Collegio disvelano una ricostruzione della trama normativa dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, da parte di chi ha formulato il quesito stesso, non aderente alla lettera ed allo spirito del precitato articolo 113.
6.1.) Al riguardo
è bene evidenziare, anzitutto, le finalità perseguite dal ripetuto art. 113.
Come correttamente evidenziato anche dalla Sezione delle Autonomie:
   a)
l’articolo in riferimento mira ad incentivare le “funzioni operative per l’esecuzione di lavori”, per realizzare l’“opera a regola d’arte e nei tempi previsti dal progetto, senza alcun ricorso a varianti in corso d’opera (v. Sez. Aut. deliberazione 23.03.2016 n. 10, paragrafo 5);
   b)
l’articolo stesso ha abolito “gli incentivi della progettazione, previsti dal previgente art. 93, co. 7-ter del d.lgs. n. 163/2006” ed ha introdotto “nuove forme di incentivazioni per funzioni tecniche (v. Sez. Aut. deliberazione 13.05.2016 n. 18, paragrafo 1, con grassetto e sottolineatura dello scrivente) .
6.2.)
Le Sezioni Regionali di controllo, già interessate al problema della compensabilità delle attività manutentive con quesiti analoghi a quello ora in esame, hanno chiarito come le “funzioni tecniche” oggetto di incentivo siano solo quelle tassativamente indicate nel secondo comma dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016. Esse costituiscono un numero chiuso, come è agevole desumere anche dall’“avverbio esclusivamente, utilizzato dal legislatore nel[lo stesso] comma 2” .
D’altronde, si è ulteriormente precisato, gli incentivi per la “progettazione e l’innovazione”, previsti dal previgente art. 93, co. 7-bis del d.lgs. n. 163/2006), così come gli “incentivi per funzioni tecniche”, ora previsti dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, “costituiscono eccezioni al generale principio della onnicomprensività del trattamento economico” e sono, perciò, di stretta interpretazione e “possono essere riconosciuti solo per le attività espressamente previste dalla legge”.
Sul punto, per vero, la richiesta di parere all’esame del Collegio non articola nessun dubbio interpretativo.
6.3) La richiesta stessa, invece, focalizza l’attenzione sul comma 3 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, per tentare di offrirne una lettura coordinata con l’art. 3 del medesimo testo normativo, tale da permettere di attrarre anche l’attività di manutenzione nell’elenco delle “funzioni tecniche” incentivate.
In realtà, l’art. 3 del d.lgs. n. 50/2016, nel dare le “definizioni” delle espressioni e dei termini di maggior interesse usati nel medesimo decreto legislativo, alla lettera nn) precisa che, per “lavori di cui allegato I”, si devono intendere “le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro [e] manutenzione di opere” (la sottolineature è della richiesta di parere).
6.4) Una simile puntualizzazione non consente di attrarre l’attività manutentiva nell’area della incentivazione, secondo un’attenta lettura del sistema di incentivazione regolato dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016.
In tale sistema, infatti, la manutenzione resta un “lavoro” e non una “funzione tecnica”, anche alla stregua della ricostruzione normativa offerta nella richiesta di parere.
6.4.1) E’ da rilevare, per una corretta interpretazione del comma 3 dell’art. 113, che le relative disposizioni –nella loro più intrinseca consistenza normativa– si limitano a precisare che “l’80% delle risorse del fondo […] è ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio [o] fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
Il predetto comma 3, dunque, reca semplicemente un criterio di riparto del fondo di incentivazione riferito a “ciascuna opera o lavoro, servizio [o] fornitura”, ma non offre spazi esegetici per aggiungere altre “funzioni tecniche” all’elenco di cui al precedente comma 2.
6.5)
Una interpretazione armonica e coordinata dei primi tre commi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, aderente ai noti canoni ermeneutici dell’art. 12, co. 1, delle disposizioni sulla legge in generale (letterale, sistematico e teleologico), lascia intravedere un complessivo disegno normativo, per il quale:
   a)
il comma 1, precisa i criteri di quantificazione degli “stanziamenti [relativi ai] singoli lavori”, con allocazione in essi anche delle risorse per “gli oneri inerenti la progettazione, [la] direzione dei lavori”, ecc.;
   b)
il comma 2, fissa i criteri di quantificazione del fondo per incentivare le “funzioni tecniche”, ivi specificamente e tassativamente elencate (“attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando”, ecc.), determinandolo nel 2% dell’“importo dei lavori posti a base di gara, [da] valere sugli stanziamenti di cui al comma 1”;
   c)
il comma 3, infine, indica i criteri di riparto dell’“80% del fondo [di cui al] comma 2, [rapportandoli a] ciascuna opera o lavoro, servizio [o] fornitura”.
Da nessuno degli elencati commi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 emerge uno spiraglio interpretativo per inserire tra le “funzioni tecniche” da incentivare l’attività manutentiva.
7) – Per quanto finora esposto e considerato, dunque,
è da escludere che l’attività manutentiva possa essere incentivata, ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, tenuto conto dei dubbi interpretativi prospettati con l’esaminata richiesta di parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 26.04.2017 n. 51).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Pagamento legittimo anche se la prestazione affidata è ancora da eseguire.
Un ente locale ha avanzato una richiesta di parere -riguardante la materia degli incentivi, ora previsti per le prestazioni tecniche dall’articolo 113, Dlgs n. 50/2016- ponendo i seguenti quesiti: se la disciplina regolante l’incentivo è quella vigente al momento in cui l’opera è stata inserita nei documenti di programmazione, indipendentemente dal momento in cui le prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere; se, in subordine, in caso di opere già approvate e in corso di realizzazione, debbano continuare ad essere applicate le disposizioni normative vigenti al momento dell’applicazione anche per le attività tecniche già avviate ma completate successivamente (responsabile del procedimento, direzione lavori, coordinamento in fase di esecuzione, collaudo in corso d’opera e finale).
La questione è stata esaminata dal recente parere 20.04.2017 n. 22 della Corte dei conti, Sezione Regionale Controllo Basilicata.
Il quadro normativo
L’articolo 113 del Dlgs n. 50/2016 ha modificato, principalmente, l’oggetto delle prestazioni incentivabili e i soggetti coinvolti, rispetto a quanto precedentemente regolato dall’articolo 93, Dlgs n. 163/2006.
Già in passato la giurisprudenza aveva espresso il convincimento che, qualora si succedano nel tempo disposizioni che diversamente prevedono e regolano l’incentivazione di talune attività, il discrimine tra le due discipline è dato dal momento “genetico” in cui l’opera o il lavoro sono approvati e inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio in cui sono stati adottati o, in prospettiva, nel Documento Unico di Programmazione che la Giunta è tenuta a predisporre e presentare al Consiglio per le conseguenti deliberazioni (art. 170 Tuel); conclusione, questa, ribadita nella deliberazione in commento.
Ciò precisato, deve l’interprete interrogarsi se la prestazione, lecita al momento in cui è sorta, diventi illecita (vietata) prima di essere adempiuta; e ciò con specifico riguardo per il pagamento dell’incentivo per la progettazione di cui all’articolo 93, Dlgs n. 163/2006 riferito ad attività che, seppure in precedenza previste, siano state adempiute solo successivamente alla novella di cui all’articolo 113 Dlgs n. 50/2016).
Orbene, secondo la deliberazione in commento, non può giungersi a tale conclusione, atteso che l’articolo 1, comma 1, lett. r), della legge delega n. 11/2016 non ha espressamente “vietato” l’applicazione dell’incentivazione precedentemente prevista, essendosi limitata a prescrivere un “divieto” circa “lo svolgimento contemporaneo dell’attività di validazione con quella di progettazione”, onde evitare conflitti di interesse. Nulla del genere, invece, per quanto attiene la disciplina dell’incentivo, limitandosi la predetta legge delega a prevedere che siano incentivate attività diverse da quelle precedentemente indicate, “escludendo” l’applicazione degli incentivi alla progettazione.
Orbene, la circostanza che l’ordinamento non si sia espresso sulla non meritevolezza o sulla sopravvenuta illiceità del pagamento dell’incentivo per le prestazioni precedentemente affidate e ancora da eseguire, impedisce di pervenire alla conclusione che la nuova disciplina sia di impedimento alla conclusione del programma obbligatorio generatosi sotto la vigenza dell’abrogato articolo 93, Dlgs n. 163/2006.
Il parere
Conclusivamente, quanto alle opere già approvate e in corso di realizzazione alla data di entrata in vigore del Dlgs n. 50/2016, il pagamento non è impedito dal principio “tempus regit actum”, trattandosi di rapporto obbligatorio di natura privatistica, ed inoltre in quanto l’esclusione dell’incentivo alla progettazione è espressamente riferita alle procedure di gara non ancora attivate al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa ed il pagamento non trova un chiaro e univoco divieto in alcuna disposizione di legge, né è precluso da altre disposizioni che impediscano il compimento di tale atto, al tempo in cui deve essere posto in essere (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.05.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Relativamente all’affidamento agli uffici interni del Comune delle attività incentivate a norma dell’art. 93, la disciplina resta quella vigente al momento in cui l’opera è stata inserita nei documenti di programmazione, indipendentemente dal momento in cui le prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere, non potendo la nuova disciplina operare retroattivamente.
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Quanto alle opere già approvate e in corso di realizzazione alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, l’adempimento della obbligazione pecuniaria (il pagamento dell’incentivo), seppure oggetto di uno speciale “procedimento” amministrativo e contabile, non è impedito dal principio “tempus regit actum” per la ragione che:
   i) trattasi di rapporto obbligatorio di natura privatistica;
   ii) l’esclusione dell’incentivo alla progettazione è espressamente riferita alle procedure di gara non ancora attivate al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa (art. 216, comma 1);
   iii) il pagamento non trova un chiaro e univoco divieto in alcuna disposizione di legge posta in rassegna da questa Sezione, a ciò non potendosi riferire il divieto che l’art. 1, comma 1, lett. rr, legge delega n. 11/2016 ha posto per “lo svolgimento contemporaneo dell'attività di validazione con quella di progettazione”, e ciò per evitare conflitti di interesse, né è precluso da altre disposizioni che impediscano il compimento di tale atto, al tempo in cui deve essere posto in essere.
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Il Presidente della Provincia di Potenza premette che a seguito del D.Lgs. n. 50/2016, che ha approvato il nuovo “Codice degli appalti pubblici”, è stata riformata la materia degli incentivi, ora previsti per le prestazioni tecniche (art. 113). Tuttavia, nel passato, la materia è stata più volte oggetto di interventi riformatori, la cui disciplina potrebbe non essersi ancora esaurita, con la conseguenza che diverse discipline, regolanti fattispecie pregresse, potrebbero coesistere.
Tanto premesso, pone i seguenti quesiti:
   a) se la disciplina regolante l’incentivo è quella vigente al momento in cui l’opera è stata inserita nei documenti di programmazione, indipendentemente dal momento in cui le prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere;
   b) se, in subordine, in caso di opere già approvate e in corso di realizzazione, debbano continuare ad essere applicate le disposizioni normative vigenti al momento dell’applicazione anche per le attività tecniche già avviate ma completate successivamente (responsabile del procedimento, direzione lavori, coordinamento in fase di esecuzione, collaudo in corso d’opera e finale).
...
Nel merito
3. Con il quesito posto l’Ente istante ha inteso esplicitamente richiamare l’approdo cui era giunta questa Sezione con il
parere 12.02.2015 n. 3, il cui contenuto si dà qui per riprodotto, salvo quanto si renderà necessario riportare.
In sostanza, in detta pronuncia si era ritenuto che la disciplina che regola l’incentivo (allora destinato alla “progettazione”) fosse quella vigente al momento in cui l’opera era stata approvata. Ciò nel senso che l’obbligo di prestare l’attività richiesta e, per corrispettivo, l’obbligo di pagare l’incentivo, dovessero essere regolati secondo la disciplina vigente nel momento genetico in cui tali obblighi sono stati assunti. Tale momento, per le argomentazioni ivi sviluppate, si era ritenuto che dovesse identificarsi con l’approvazione dell’opera o del lavoro sul cui stanziamento far valere l’aliquota del 2% da destinare al “fondo” per la progettazione e l’innovazione. Di conseguenza, in osservanza del principio di (tendenziale) irretroattività della norma, un mutamento della disciplina di settore non avrebbe avuto effetti sul diritto all’incentivo, così come regolato dalla disciplina vigente al momento dell’approvazione dell’opera o del lavoro, salvo la necessaria verifica del corretto adempimento.
Di lì a poco, con
deliberazione 24.03.2015 n. 11), la Sezione delle Autonomie, esaminando una questione interpretativa riferita a norme succedutesi nel tempo e diversamente regolanti la materia degli incentivi, concludeva nel senso che le questioni di diritto intertemporale che insorgessero per il mutare, nel tempo, della disciplina, dovessero essere risolte secondo il principio della irretroattività della legge, e cioè che la legge successiva non potesse andare a modificare o a incidere su posizioni giuridiche sorte in precedenza.
Correttamente, quindi, la citata delibera della Sezione delle Autonomie collocava anche questa Sezione tra quanti sostenevano la tesi della irretroattività della legge e, dunque, la sua non applicazione alle fattispecie regolate dalla norma precedente.
4. Fermo restando questo fondamentale punto di convergenza, tuttavia, una diversità di opinioni, peraltro rilevata dalla stessa Sezione delle Autonomie, ha riguardato il momento in cui, in virtù del principio di irretroattività, fosse precluso alla norma successiva di regolare vicende già sorte o in corso di svolgimento. Questa Sezione aveva ritenuto che tale momento andasse individuato con l’approvazione dell’opera o del lavoro; la Sezione delle Autonomie aveva ritenuto che tale momento coincidesse con la esecuzione della prestazione, secondo il principio “tempus regit actum”.
5. La soluzione adottata dalla Sezione delle Autonomie giungeva, in concreto, a rendere applicabile il limite massimo di incentivo anche alle attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti successivamente all’entrata in vigore del D.L. 24.06.2014, n.90, ancorché riferibili a progetti approvati in precedenza. A seguito di tale ultimo D.L., infatti, il limite dell’incentivo pagabile annualmente per ciascun percettore, che la norma precedentemente vigente aveva fissato nella misura del 100% del trattamento economico annuo lordo, veniva ulteriormente ridotto alla misura massima del 50%.
Si trattava, quindi, di spiegare l’applicazione di detto limite, più restrittivo rispetto a quello vigente in precedenza, anche a quelle prestazioni poste in essere successivamente all’entrata in vigore del decreto legge, seppure in adempimento di obblighi sorti quando il limite non sussisteva. A questo scopo la Sezione delle Autonomie si era richiamata al principio “tempus regit actum” per mantenere, da un lato, ferma l’irretroattività della nuova norma e, dall’altro, applicare la nuova regola alle prestazioni ricadenti nel tempo successivo alla sua entrata in vigore, senza che rilevasse la disciplina vigente nel momento in cui l’obbligazione era sorta.
6. A parere di questa Sezione, tuttavia, non vi è un contrasto tra le due tesi sul punto, atteso che alla stessa conclusione cui è pervenuta la Sezione delle Autonomie si sarebbe potuti pervenire anche secondo la tesi seguita da questa Sezione.
In verità, l’applicazione del limite massimo individuale del 50% anche per le prestazioni rese successivamente all’entrata in vigore del D.L. n. 90/2014, convertito dalla L. n. 114/2014, che tale limite ha introdotto, può giustificarsi senza dover, necessariamente, fare ricorso alla tesi della irretroattività della norma, e senza dover richiamare il principio “tempus regit actum”, che impone, poi, di collocare il confine temporale tra le due norme nel momento della esecuzione della prestazione piuttosto che in quello genetico del rapporto.
A ben vedere, infatti, quello che viene in evidenza è che il limite legislativo di cui si discute interviene a modificare una disciplina sostanzialmente di natura pattizia, il cui oggetto (i criteri e la misura del riparto dell’incentivo), è cioè devoluto alla contrattazione integrativa decentrata (art. 93, comma 7-ter, D.Lgs n. 163/2006) da recepirsi con regolamento dell’Ente (vds., di questa Sezione, parere n. 7/2017).
Già il comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 aveva stabilito, da un lato, che le modalità e i criteri con cui ripartire gli incentivi fossero previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione; dall’altro, aveva posto un limite di legge alla misura dell’incentivo erogabile (allora pari al trattamento economico complessivo annuo). Limite che, dunque, non avrebbe potuto essere derogato dalle parti contraenti in quanto norma imperativa di legge finalizzata a contenere la spesa e il trattamento economico complessivo del personale, che deve trovare applicazione anche sui contratti già stipulati in sede integrativa decentrata, ai sensi dell’art. 40, comma 3-quinquies del TUIP, quinto periodo, a tenore del quale “Nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le clausole (dei contratti integrativi in sede decentrata) sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile” (sul punto vds. anche l’art. 40-bis del TUIP).
Pertanto, il limite del 50%, introdotto con D.L. n. 90/2014, sarebbe andato a sostituire, comunque, il precedente limite massimo di spesa pagabile annualmente, modificando di conseguenza anche l’accordo decentrato (analogamente, il D.L. n. 66/2014 ha inciso sui contratti in corso, inserendo automaticamente, alle precedenti convenzioni, il nuovo tetto massimo quale limite alla retribuzione di alcune categorie di amministratori pubblici o di società pubbliche).
In definitiva, il ritenuto contrasto con la Sezione delle Autonomie è solo apparente non trattandosi di questione di diritto intertemporale.
7. Tanto chiarito, occorre ora tornare al tema principale sollevato con il quesito in esame, per la cui soluzione le sopra esposte considerazioni non sono prive di rilievo.
I quesiti
8. L’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 (“Codice dei contratti pubblici”) ha modificato, principalmente, l’oggetto delle prestazioni incentivabili e i soggetti coinvolti, rispetto a quanto precedentemente regolato dall’art. 93, D.Lgs. n. 163/2006. In altre parole, talune attività e talune qualifiche professionali, che prima erano incentivabili, ora non lo sono più e, al contrario, sono oggi divenute incentivabili altre prestazioni e altre professionalità, se presenti all’interno dell’ente.
Sicché, in questo caso, un vero problema di diritto intertemporale si potrebbe porre –e l’Ente istante in effetti lo pone, come meglio si dirà- nel momento in cui si dubitasse che le prestazioni di “progettazione”, già convenute e non ancora adempiute, ove poste in essere successivamente alla novella legislativa, diano ancora diritto al pagamento dell’incentivo per il quale erano state accantonate le risorse nell’apposito “fondo”.
Giova precisare che il quesito in esame si limita a scrutinare la sorte dell’incentivo per le prestazioni previste dall’art. 93, D.Lgs. n. 163/2006, relative ai soli lavori e per le quali erano state appostate le risorse nell’apposito “fondo progettazione”, se rese successivamente all’entrata in vigore della novella legislativa introdotta dal D.Lgs. n. 50/2016. Resta esclusa dal perimetro del parere ogni altra questione relativa alle attività non più incentivabili, che potranno comunque essere affidate agli uffici interni della stazione appaltante per lavori, servizi e forniture successivamente alla novella stessa (ex art. 24).
Ciò chiarito, va detto che, anche in questo caso, non sembra che la questione sia riconducibile al tema dell’applicazione retroattiva della norma nuova rispetto a situazioni pregresse, trattandosi, semmai, di un problema di ultrattività della norma precedente e della sua idoneità a continuare a regolare un rapporto già in essere.
9. Nel precedente
parere 12.02.2015 n. 3, questa Sezione aveva espresso il convincimento che, qualora si succedano nel tempo disposizioni che diversamente prevedono e regolano l’incentivazione di talune attività (ora di progettazione ora tecniche), il discrimine tra le due discipline non è dato dal momento in cui viene compiuto ogni singolo atto in cui si realizza il rapporto obbligatorio tra il dipendente e l’Ente datore di lavoro, consistente nel compimento delle attività di “progettazione” dedotte in obbligazione, e neppure dal momento in cui deve pagarsi l’incentivo, trattandosi di un mero adempimento, ma dal momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati e inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio in cui sono stati adottati o, in prospettiva, nel Documento Unico di Programmazione che la Giunta è tenuta a predisporre e presentare al Consiglio per le conseguenti deliberazioni (art. 170 TUEL). 
È in questo momento, infatti, che, con il lavoro: i) si decide anche di affidare all’interno dell’ente le attività, (allora) di progettazione (ora) tecniche, necessarie affinché possa realizzarsi l’opera programmata; ii) si indicano gli stanziamenti disponibili e da inserire nel bilancio di previsione, sulla base dei quali stabilire il valore complessivo dell’appalto da porre a base d’asta; iii) si quantificano le risorse da destinare al “fondo” incentivazione.

In altre parole, aveva ritenuto questa Sezione che
la disciplina regolante il rapporto tra Ente e il suo dipendente –trattandosi di rapporto obbligatorio di natura privatistica- fosse quella fissata nel momento genetico da cui scaturisce l’obbligo di rendere la specifica prestazione [di “progettazione”, ovvero di programmazione, di direzione lavori, di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla programmazione dei lavori pubblici (ex art. 24, D.Lgs. n. 50/2016)], e che tale momento sia, appunto, quello come sopra indicato.
10. Ovviamente, trattandosi di prestazioni che, soprattutto se riferite all’esecuzione di lavori, possono essere rese in un arco di tempo ampio, è del tutto plausibile che la disciplina del rapporto possa essere incisa con modifiche apportate da successive fonti normative e/o contrattuali. Anche da questa considerazione possono trarre fondamento i dubbi espressi dal Comune istante.
Non è dubbio, infatti, che il contenuto della prestazione obbligatoria debba conformarsi alle regole vigenti al momento in cui essa viene resa: ad esempio, quando la norma sopravvenuta richieda l’adeguamento a certi standard tecnici o giuridici o di qualità, o il rispetto di talune prescrizioni in materia di certificazioni, di tracciabilità, e così oltre. Si tratta, a ben vedere, di disposizioni che incidono non già sulla fonte dell’obbligo, o sulla obbligatorietà della prestazione, ma solo sul suo contenuto, ovvero sui requisiti che la prestazione deve avere per essere considerata correttamente adempiuta.
In questo contesto può anche accadere che la prestazione, lecita al momento in cui è sorta, diventi illecita e, quindi, vietata, prima di essere adempiuta.
C’è da chiedersi se questa sia la situazione venutasi a determinare per il pagamento dell’incentivo per la progettazione (ex art. 93, D.Lgs. n. 163/2006) riferito ad attività che, seppure in precedenza previste, siano state adempiute solo successivamente alla novella (art. 113 D.Lgs. n. 50/2016).
11. A parere di questa Sezione così non è.
In via preliminare si rileva che sulla questione qui in discussione non si rinvengono precedenti pronunciamenti della Sezione delle Autonomie, dal momento che la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 ha espresso principi di diritto su tutt’altri quesiti. In quella sede, passandosi in rassegna le disposizioni normative regolanti l’incentivo, ci si è limitati a menzionare la novità introdotta dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, segnalando che la nuova normativa, sostitutiva della precedente, abolisce il previgente regime di incentivo alla progettazione (art. 93, D.Lgs. n. 163/2006), sostituendolo con nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche”, sulla base di nuove disposizioni che, ai sensi della disciplina transitoria (articoli 216 e 217), troveranno applicazione per le sole attività poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore, ossia il 19.04.2016. Tale affermazione, oltre ad essere senz’altro condivisibile, nei termini di cui si dirà, non prende posizione ex professo sulla questione qui in esame.
A questo punto mette conto esaminare criticamente quanto, invece, affermato dall’ANAC nella Delibera n. 973 del 14.09.2016 - Linee Guida n. 1, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria”, ove, al capito III, paragrafo 1.3, si legge: “Nel caso di ricorso alla progettazione interna non potrà essere applicato l’incentivazione del 2%, espressamente vietata dalla legge delega 11/2016 (art. 1, comma 1, lettera oo), principio recepito dall’art. 113, comma 2 del decreto legislativo n. 50/2016”.
L’affermazione secondo cui la legge delega n. 11/2016 abbia espressamente “vietato” l’applicazione dell’incentivazione precedentemente prevista, merita un approfondimento.
La legge di delega, all’art. 1, comma 1, lett. rr (per errore indicata come oo nella citata delibera), è del seguente letterale tenore: “(princìpi e criteri direttivi specifici ai quali il Governo dovrà attenersi) revisione e semplificazione della disciplina vigente per il sistema della validazione dei progetti, stabilendo la soglia di importo al di sotto della quale la validazione è competenza del responsabile unico del procedimento nonché il divieto (sottolineatura aggiunta), al fine di evitare conflitti di interesse, dello svolgimento contemporaneo dell'attività di validazione con quella di progettazione; al fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione”.
A ben vedere, l’unico “divieto” che la disposizione prescrive riguarda “lo svolgimento contemporaneo dell'attività di validazione con quella di progettazione”, e ciò per evitare conflitti di interesse.
Nulla del genere, invece, per quanto attiene la disciplina dell’incentivo; la delega si limita, infatti, a prevedere che siano incentivate attività diverse da quelle precedentemente indicate, “escludendo” l’applicazione degli incentivi alla progettazione.
Conformemente alla delega, l’art. 113 ha indicato le attività oggetto di nuova incentivazione. Tale (nuova) disciplina “si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte” (art. 216, comma 1); di conseguenza è stato abrogato l’art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006 (unitamente all’abrogazione dell’intero articolato, ex art. 217).
12. In altre parole la vicenda che ha riguardato l’incentivo alla progettazione è da inquadrarsi in un normale avvicendamento di discipline diverse, con applicazione delle nuove disposizioni alle future fattispecie e ciò in ossequio al principio della irretroattività della legge.
La circostanza che l’ordinamento non si sia espresso sulla non meritevolezza o sulla sopravvenuta illiceità del pagamento dell’incentivo per le prestazioni precedentemente affidate e ancora da eseguire, impedisce di pervenire alla conclusione che la nuova disciplina sia di impedimento alla conclusione del programma obbligatorio generatosi sotto la vigenza dell’abrogato art. 93. Nel caso in questione, infatti, si discute di un rapporto obbligatorio, lecitamente instauratosi tra ente (datore di lavoro) e lavoratore, avente ad oggetto diritti patrimoniali da eseguirsi con il pagamento dell’incentivo al verificarsi dell’adempimento della controparte, alle condizioni che ne impongono la liquidazione così come disciplinate dall’art. 93 citato.
13. Conclusivamente, in ordine ai quesiti posti, si conferma l’orientamento espresso da questa Sezione nel richiamato
parere 12.02.2015 n. 3, nel senso che la disciplina regolante l’incentivo alla progettazione resta quella vigente al momento in cui l’opera è stata inserita nei documenti di programmazione, indipendentemente dal momento in cui le prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere.
Quanto alle opere già approvate e in corso di realizzazione alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, l’adempimento della obbligazione pecuniaria (il pagamento), seppure oggetto di uno speciale “procedimento” amministrativo e contabile, non è impedito dal principio “tempus regit actum” per la ragione che:
   i)
trattasi di rapporto obbligatorio di natura privatistica;
   ii)
l’esclusione dell’incentivo alla progettazione è espressamente riferita alle procedure di gara non ancora attivate al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa;
   iii)
il pagamento non trova un chiaro e univoco divieto in alcuna disposizione di legge posta in rassegna da questa Sezione, né è precluso da altre disposizioni che impediscano il compimento di tale atto, al tempo in cui deve essere posto in essere (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 20.04.2017 n. 22).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHECirca la legittimità della corresponsione del compenso incentivante per la progettazione di cui all’art. 92, c. 5, D.Lgs. 163/2006, recante il Codice dei contratti pubblici (comma abrogato dall’art. 13, c. 1, D.L. 90/2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 114/2014), per le attività di manutenzione sia ordinaria che straordinaria, la Sezione ritiene di non doversi discostare dal consolidato orientamento delle Sezioni regionali di controllo in sede consultiva maturato nella vigenza della citata normativa, orientamento che ha escluso dal novero delle attività incentivabili la manutenzione ordinaria e riconosciuto il predetto emolumento solo a favore delle attività di manutenzione straordinaria, purché si renda necessaria un’attività di progettazione.
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Circa la riferibilità tanto alla manutenzione ordinaria che straordinaria della nozione di attività di manutenzione espressamente esclusa, dall’art. 93, c. 7-ter, del D.Lgs. 163/2006 (comma inserito dall’art. 13-bis, c. 1, D.L. 90/2014, n. 90), dalle prestazioni legittimanti la fruizione delle risorse del Fondo per la progettazione e l’innovazione di cui al precedente c. 7-bis del medesimo articolo la Sezione, sul punto, è tenuta a conformarsi al principio di diritto stabilito in merito dalla Sezione delle Autonomie con atto di indirizzo interpretativo, ai sensi dell’art. 6, c. 4, del D.L. 174/2012, convertito dalla L. 213/2012, in base al quale “
la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria”.
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Con la nota riferita in epigrafe, il Sindaco del Comune di Reggio Calabria (RC) formula una richiesta di parere alla Sezione articolata nei seguenti plurimi quesiti:
   a) se sia legittima la previsione e corresponsione del compenso incentivante di cui all’art. 92, c. 5, D.Lgs. 163/2006, a favore dei dipendenti interni all’Amministrazione, a prescindere dalla natura ordinaria o straordinaria dell’attività di manutenzione;
   b) se l’attività di manutenzione di cui all’art. 93, c. 7-ter, del medesimo D.Lgs. 163/2006 ricomprenda, oltre i lavori di manutenzione ordinaria anche quelli di natura straordinaria;
   c) se l’Ente possa applicare riduzioni ed esenzioni alla TARI sulla base dell’art. 1, c. 660, L. 147/2013 e del proprio Regolamento per la disciplina della Tassa sui rifiuti garantendo la copertura finanziaria con le risorse della stessa tassa ovvero se, in mancanza, a carico del bilancio, atteso il rispetto dell’obbligo di assicura, con i proventi della tariffa, la copertura integrale dei costi di gestione del servizio; inoltre, se, in assenza di una normativa ad hoc, l’Ente possa applicare analoghe agevolazioni a quelle testé citate per il servizio acquedotto, garantendone la riduzione della tariffa con la rimodulazione della tariffa per gli altri utenti non aventi diritto alle agevolazioni;
   d) se l’art. 5, c. 9, D.L. 95/2012 sia compatibile con l’art. 90 T.U.E.L. al fine di poter ricorrere al conferimento di incarichi gratuiti a ex dipendenti per gli uffici di supporto alle dirette dipendenze degli organo di governo ivi contemplati;
   e) se nei rimborsi spese che devono essere rendicontati nell’ambito degli incarichi di cui al medesimo art. 5, c. 9, D.L. 95/2012 possano rientrare i buoni pasto.
...
3. Nel merito, il parere è parzialmente ammissibile dal punto di vista oggettivo, per i punti a), b), d), ed e), in termini di afferenza alla materia della contabilità pubblica nell’accezione fornita dalla costante giurisprudenza contabile in sede consultiva (ex multis, deliberazioni n. 5/AUT/2006 e n. 54/CONTR/2010, rispettivamente della Sezione delle Autonomie e delle Sezioni Riunite in sede di controllo), quale “sistema di principi e di norme che regolano l'attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli Enti pubblici”, in una visione dinamica di salvaguardia degli equilibri dell’Ente.
   a) Più precisamente, è ammissibile oggettivamente il primo quesito, concernente la legittimità della corresponsione del compenso incentivante per la progettazione di cui all’art. 92, c. 5, D.Lgs. 163/2006, recante il Codice dei contratti pubblici (comma abrogato dall’art. 13, c. 1, D.L. 90/2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 114/2014), per le attività di manutenzione sia ordinaria che straordinaria.
A tale proposito,
la Sezione ritiene di non doversi discostare dal consolidato orientamento delle Sezioni regionali di controllo in sede consultiva maturato nella vigenza della citata normativa, orientamento che ha escluso dal novero delle attività incentivabili la manutenzione ordinaria e riconosciuto il predetto emolumento solo a favore delle attività di manutenzione straordinaria, purché si renda necessaria un’attività di progettazione (cfr. Sez. Aut. deliberazione 23.03.2016 n. 10).
   b) Risulta ammissibile oggettivamente anche il secondo quesito relativo alla riferibilità tanto alla manutenzione ordinaria che straordinaria della nozione di attività di manutenzione espressamente esclusa, dall’art. 93, c. 7-ter, del D.Lgs. 163/2006 (comma inserito dall’art. 13-bis, c. 1, D.L. 90/2014, n. 90), dalle prestazioni legittimanti la fruizione delle risorse del Fondo per la progettazione e l’innovazione di cui al precedente c. 7-bis del medesimo articolo.
La Sezione, sul punto, è tenuta a conformarsi al principio di diritto stabilito in merito dalla Sezione delle Autonomie con atto di indirizzo interpretativo, ai sensi dell’art. 6, c. 4, del D.L. 174/2012, convertito dalla L. 213/2012, in base al quale “
la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria” (Sez. Aut. deliberazione 23.03.2016 n. 10).
   c) Il terzo quesito, relativo alle eventuali riduzioni ed esenzioni alla TARI sulla base dell’art. 1, c. 660, L. 147/2013 e del proprio Regolamento per la disciplina della Tassa sui rifiuti e alle modalità della relativa copertura finanziaria, deve essere dichiarato oggettivamente inammissibile poiché, avendo l’Ente aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale di cui all’art. 243-bis T.U.E.L., il relativo riscontro è suscettibile di produrre sovrapposizioni con altra funzione di controllo della Sezione e, precisamente, con l’attività di monitoraggio di cui al successivo art. 243-quater T.U.E.L. (Sez. Controllo Sicilia, n. 274/2015, Sez. Controllo Basilicata, n. 59/2015).
La costante giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo, difatti, è nel senso di escludere la sussistenza dei requisiti di generalità e astrattezza del quesito posto nelle ipotesi in cui la relativa soluzione possa generare interferenze con altre funzioni, della stessa Corte dei conti o di altre Magistrature.
Analoghe considerazioni giustificano la dichiarazione di inammissibilità oggettiva del successivo quesito avente a oggetto la sussistenza di una facoltà dell’Ente, in assenza di una normativa ad hoc, di introduzione di agevolazioni analoghe a quelle testé citate per il servizio acquedotto, garantendo la riduzione della tariffa con la rimodulazione della stessa per gli altri utenti non aventi diritto alle agevolazioni.
   d) Un ulteriore quesito riguarda la possibilità di attribuire incarichi a titolo gratuito a ex dipendenti e, accertata nei confini sopra descritti la relativa ammissibilità oggettiva, lo stesso deve essere risolto nei termini che seguono.
La disposizione di cui all’art. 5, c. 9, D.L. 95/2012 (come successivamente modificato, da ultimo, dall’art. 17, c. 3, L. 124/2015) vieta l’attribuzione di incarichi di studio, di consulenza, dirigenziali o direttivi o di cariche in organi di governo a soggetti collocati in quiescenza (ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali e degli enti aventi natura associativa), salvo che a titolo gratuito (e, per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile).
L’Ente domanda se tali incarichi possano essere attribuiti anche per gli uffici di cui all’art. 90 del T.U.E.L. ovvero per gli uffici posti alle dirette dipendenze del Sindaco, del Presidente della Provincia, della Giunta o degli Assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge.
Tale disposizione prevede che detti uffici siano “costituiti da dipendenti dell'ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni” (1° comma) e che “Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali.” (2° comma), fermo restando che “(…) il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale.” (3° comma).
Fermo restando che potranno essere attribuiti agli ex dipendenti gli incarichi non vietati dall’art. 5, c. 9, D.L. 95/2012 anche nell’ambito degli uffici c.d. di staff, per ciò che concerne l’attribuibilità a titolo gratuito degli incarichi altrimenti vietati, la Sezione ritiene di non doversi discostare dalla costante giurisprudenza contabile formatasi in sede consultiva per la quale, in virtù del carattere necessariamente oneroso del rapporto di lavoro (artt. 2094 e 2126 c.c.) salvo i casi espressamente previsti dalla legge, non è ammissibile l’attribuzione a titolo gratuito degli incarichi di cui all’art. 90 T.UE.L..
Quest’ultimo, tra l’altro, letteralmente impone, se il lavoratore non sia già dipendente dell’Ente, la tipologia del rapporto di lavoro a tempo determinato, che non può che essere, in assenza di una diversa qualificazione, un rapporto di lavoro subordinato, nel caso di specie con esplicita applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali (per un’ampia ricostruzione in merito, cfr. Sezione controllo Campania/155/2014/PAR e Campania/213 /2015/PAR).
La natura necessariamente onerosa del rapporto di lavoro presso gli uffici c.d. di staff è confermata dal fatto che nel caso di dipendente di altra pubblica amministratore vi sarà un obbligatorio collocamento in aspettativa senza assegni, il che mal si concilia con l’ipotesi di possibile gratuità del contratto in esame.
   e) Infine, con riguardo alla ricomprensibilità dei buoni pasto nell’ambito dell’ultimo periodo dell’art. 5, c. 9, D.L. 95/2012, il quale stabilisce che “Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall'organo competente dell'amministrazione interessata”, premessa l’ammissibilità oggettiva del quesito proposto nei termini sopra tracciati, si osserva quanto segue.
Occorre premettere che la questione rileva, ovviamente, per i rimborsi spese concedibili nell’ambito degli incarichi gratuiti altrimenti vietati dalla norma considerata.
A tale proposito, come chiarito con la Circolare n. 6 del 04.12.2014 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione (“Interpretazione e applicazione dell'articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato dall'articolo 6 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90”), la disciplina in materia di incarichi agli ex dipendenti “non esclude alcuna delle forme contrattuali contemplate dall'articolo 7 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (ovvero contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, che possono essere utilizzati per attribuire a esperti incarichi individuali per esigenze cui non si può far fronte con personale in servizio, n.d.r.), ma impedisce di utilizzare quelle forme contrattuali per conferire incarichi aventi il contenuto proprio degli incarichi vietati” e, di conseguenza, che “l'ambito dell'eccezione, dal punto di vista oggettivo, coincide con quello dei divieti”.
Tanto premesso, occorre considerare che non risulta sovrapponibile l’istituto del buono pasto, tipico del rapporto di lavoro subordinato, con quello del rimborso spese, tipico del lavoro autonomo o parasubordinato.
A conferma, la Circolare 4/2014 del Ministero della Funzione pubblica ha escluso l’utilizzabilità dei buoni pasto per i contratti di collaborazione stabilendo che “Come noto, l'erogazione di buoni pasto spetta al personale contrattualizzato dipendente della pubblica amministrazione a fronte di un orario di lavoro articolato sui cinque giorni lavorativi ed in assenza di un servizio mensa o altro servizio sostitutivo presso la sede lavorativa (si veda l'articolo 2, comma 11, della legge 28.12.1995, n. 550, legge finanziaria 1996). Potrà, invece, essere previsto nel contratto un apposito rimborso spese, in quanto istituto tipico nei rapporti di lavoro autonomo, qualora ne ricorrano i presupposti.”.
Del resto, la norma della quale si domanda un’interpretazione non pone nessun vincolo contenutistico (in merito alla tipologia e all’entità), ma solo un obbligo di rendicontazione (ai fini del controllo finalistico della spesa in materia e del rispetto dei limiti fissati dall’Amministrazione di appartenenza) delle spese sostenute per l’espletamento dell’incarico e, pertanto, non ha portata precettiva sullo specifico istituto dei buoni pasto.
A tale proposito, occorre considerare che il presupposto per l’accesso ai buoni basto è rappresentato dalla sussistenza di un rapporto di lavoro dipendente tra il lavoratore e il datore di lavoro come chiarito dalla giurisprudenza:
  
costituzionale (i buoni pasto “costituiscono «una sorta di rimborso forfettario delle spese che il lavoratore, tenuto a prolungare la propria permanenza in servizio oltre una certa ora, deve affrontare per consumare il pranzo». Si tratta, quindi, di «una componente del trattamento economico spettante ai dipendenti pubblici, che rientra nella regolamentazione del contratto di diritto privato che lega tali dipendenti “privatizzati” all’ente di appartenenza", Corte cost. nn. 77/2011 e 225/2013),
  
contabile (“L'erogazione del buono pasto da parte delle Amministrazioni pubbliche è conseguente alle previsioni contenute nella contrattazione collettiva, trattandosi, in sostanza, di spesa che l'Ente sostiene in relazione ai rapporti di lavoro dipendente in essere e, pertanto, rientra fra quelle inerenti il complessivo costo del personale dipendente dell'Ente.”, v. delibera Sezione controllo Piemonte, n. 14/2012/SRCPIE/PAR) e
  
civile (nel chiarire la natura meramente assistenziale di tale erogazione, da ultimo, v. Cass. civ., Sez. lav. n. 14388/2016, ha precisato che trattasi di un’erogazione “che, nell'ambito dell'organizzazione dell'ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, offrendogli, laddove non sia previsto un servizio mensa, la fruizione del pasto (i cui costi vengono assunti dall'Amministrazione di appartenenza) onde garantire allo stesso il benessere fisico necessario per proseguire l'attività lavorativa”).
L’alternatività rispetto alla fruibilità a titolo gratuito di una mensa, del resto, non può essere forzata nel senso di un’alternatività rispetto alla concessione, su base contrattuale individuale, di un rimborso spese per la medesima causale (consumo di un pasto nelle vicinanze del luogo di lavoro), rimborso la cui corresponsione è governata dalla regole discrezionali ordinarie che presiedono a tale tipologia di erogazione (sussistenza di un’inerenza funzionale con l’erogazione del servizio e contenimento della spesa) con rilievo in senso analogico della disciplina dei contratti collettivi in materia di buoni pasto (l’art. 46, c. 2, del CCNL del 14.09.2000, stabilisce che “i lavoratori hanno titolo, nel rispetto della specifica disciplina sull'orario adottata dall'ente, ad un buono pasto per ogni giornata effettivamente lavorata nella quale, siano soddisfatte le condizioni di cui all'art. 45, comma 2” del medesimo CCNL”.
Tale ultima disposizione prevede che: “possono usufruire della mensa i dipendenti che prestino attività lavorativa al mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane, con una pausa non superiore a due ore e non inferiore a trenta minuti. La medesima disciplina si applica anche nei casi di attività per prestazioni di lavoro straordinario o per recupero. Il pasto va consumato al di fuori dell'orario di servizio”) e alla luce delle specifiche indicazioni dell’ARAN (a titolo non esaustivo, la Circolare ARAN RAL_1849_Orientamenti Applicativi, con la quale è stato precisato che “(…) d) il CCNL, pertanto, si è limitato semplicemente a prevedere la possibilità di corrispondere al lavoratore buoni pasto, in alternativa al servizio mensa, solo in presenza delle precise condizioni generali dallo stesso stabilite; e) spetta al singolo ente, invece, in relazione al proprio assetto organizzativo ed alle risorse spendibili a tal fine, oltre che la decisione se attivare o meno il servizio mensa o il buono pasto sostitutivo, definire autonomamente la disciplina di dettaglio sulle modalità di erogazione anche sulla tipologia del buono pasto, tenendo conto ovviamente del delicato profilo dei costi; f) sussiste, pertanto, un autonomo spazio decisionale che ogni ente può utilizzare in relazione alla particolare natura di talune prestazioni di lavoro; g) nell’esercizio di tale autonomo potere decisionale, l’ente definisce in via preventiva, con conseguente assunzione della relativa responsabilità, secondo criteri di ragionevolezza e di compatibilità dei relativi oneri, le regole e le condizioni per la fruizione del buono pasto, ivi compresa l'entità delle prestazioni minime antimeridiane e pomeridiane, a tal fine richieste al personale, evitandosi peraltro situazioni che possono dare luogo a forme di disparità di trattamento tra le diverse categorie di dipendenti.”) oltre, che, infine, dei vincoli quantitativi vigenti per i buoni pasto (l’art. 5, c. 7, del medesimo D.L. 95/2012 stabilisce che “A decorrere dal 01.10.2012 il valore dei buoni pasto attribuiti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché le autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) non può superare il valore nominale di 7,00 euro”) (Corte dei Conti, Sez. controllo Calabria, parere 26.01.2017 n. 5).

18.05.2017 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione dell’annullamento d’ufficio della concessione edilizia in sanatoria intervenuto a distanza di anni dal suo rilascio: rimessione all’Adunanza plenaria.
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Edilizia – Concessione edilizia in sanatoria – Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni dal rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine all’interesse pubblico comparato con quello del privato – Contrasto giurisprudenziale – Rimessione all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, stante il contrasto giurisprudenziale formatosi sul punto, la questione se, nella vigenza dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, come introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, sub specie di concessione in sanatoria, intervenuta ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, debba o meno essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico valutato in concreto in correlazione ai contrapposti interessi dei privati destinatari del provvedimento ampliativo e agli eventuali interessi dei controinteressati, indipendentemente dalla circostanza che il comportamento dei privati possa aver determinato o reso possibile il provvedimento illegittimo, anche in considerazione della valenza –sia pure solo a fini interpretativi– dell’ulteriore novella apportata al citato articolo, la quale appare richiedere tale valutazione comparativa anche per il provvedimento emesso nel termine di 18 mesi, individuato come ragionevole, e appare consentire un legittimo provvedimento di annullamento successivo solo nel caso di false rappresentazioni accertate con sentenza penale passata in giudicato (1).
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   (1) La Sezione ha chiarito che sulla questione si sono formati due contrapposti orientamenti.
Un primo, più recente orientamento (Cons. St., sez. VI, 27.01.2017, n. 341), con riferimento ad un provvedimento di annullamento in autotutela di una concessione in sanatoria, e rispetto alla formulazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, nel testo modificato dalla l. n. 15 del 2005, ha affermato che il potere di annullamento ha un presupposto rigido (l’illegittimità dell’atto da annullare) e due presupposti riferiti a concetti indeterminati, affidati all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione (la ragionevolezza del termine di adozione dell’atto; la sussistenza dell’interesse pubblico alla sua rimozione unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari).
Ha quindi ritenuto necessaria una motivazione in ordine all’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto in relazione alla pregnanza e preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio di un titolo illegittimo; tanto più, in presenza di un provvedimento, come quello in materia edilizia, destinato ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo, dove assume maggiore rilevanza l’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza quello pubblico all’eliminazione di effetti che si sono prodotti in via definitiva. Con l’ulteriore corollario che l’interesse pubblico alla rimozione attuale dell’atto non può coincidere con l’esigenza del mero ripristino della legalità violata e deve essere integrato da ragioni differenti.
L’orientamento maggioritario ha invece affermato che il provvedimento di annullamento di una concessione edilizia illegittima è in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita (Cons. St., sez. IV, 19.08.2016, n. 3660; id., sez. V, 08.11.2012, n. 5691).
Ciò soprattutto quando l’illegittimità è dipesa dalle prospettazioni non veritiere del privato. La motivazione sulla comparazione degli interessi è stata ritenuta necessaria quando l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all’amministrazione (n. 5691 del 2012 cit.).
In particolare, in fattispecie nelle quali era applicabile il 21-nonies, cit. si è ritenuto che, se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 19.04.2017 n. 1830 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La sentenza appellata ha respinto il ricorso proposto dai proprietari di un immobile, acquistato nel 1995, per l’annullamento dell’ordinanza n. 124 del 26.08.2008, con la quale: era stata annullata la concessione edilizia in sanatoria, rilasciata nell’ottobre 1999 (in riferimento a pratica edilizia del 1994 attivata dalla precedente proprietaria); erano stati annullati gli atti ad essa consequenziali; era stata ordinata la demolizione del manufatto realizzato abusivamente.
1.1. La concessione in sanatoria riguardava una unità immobiliare adibita a guardiania, facente parte di un complesso ex industriale, composto anche da un capannone e da un fabbricato uso uffici, acquistato unitamente alla guardiania. Mediante successivi titoli abilitativi intervenuti sino al 2005, che avevano riguardato anche gli altri immobili del complesso, con connessi mutamenti di destinazione d’uso, l’originario capannone industriale era stato trasformato in cinema/teatro e la ex guardiania in bar/rosticceria.
In esito al riscontro di irregolarità in un sopralluogo del 2007, nel 2008 venivano avviati procedimenti per l’annullamento dei titoli edilizi, sia per l’immobile adibito a cinema/teatro, che per quello relativo a bar/rosticceria. Il procedimento relativo al primo veniva archiviato, in ragione della ritenuta assenza di ragioni attuali di interesse pubblico in raffronto alla esigenze di certezza delle situazioni giuridiche; il secondo sfociava nel provvedimento di annullamento in autotutela oggetto del presente processo.
1.2. L’annullamento della concessione edilizia in sanatoria, e degli atti consequenziali, veniva fondato dal giudice di primo grado sulla illegittimità della sanatoria, per essere stata rilasciata in difetto di istruttoria sulla scorta di una errata prospettazione dello stato dei luoghi, con conseguente situazione permanente contra ius, rispetto alla quale l’interesse pubblico attuale al ripristino della legalità violata risultava in re ipsa.
1.3. La sentenza di primo grado, dopo aver esposto le ragioni a fondamento del ritenuto ampliamento del manufatto in pendenza della pratica di condono da parte dei nuovi proprietari e aver collegato lo stesso ad una domanda presentata dalla originaria proprietaria in modo ambiguo, previo accordo con i ricorrenti verosimilmente già in trattative per l’acquisto, così essenzialmente argomenta:
   a) l’affidamento riposto dai privati nella legittimità della concessione in sanatoria, invocato nel ricorso, non è degno di tutela in mancanza di buona fede, atteso che la situazione di illegalità è stata creata dai ricorrenti, ampliando la ex guardiania in epoca successiva all’acquisto;
   b) pertanto, l’amministrazione non aveva l’obbligo di verificare se l’interesse al ripristino della legalità violata fosse o meno prevalente sul contrapposto interesse dei privati; né il potere dell’amministrazione di annullamento dell’atto è limitato in ragione del lungo tempo trascorso dal rilascio della concessione illegittima;
   c) il manufatto, in zona di inedificabilità assoluta ai sensi della legge regionale n. 56 del 1980, non avrebbe potuto essere condonato o altrimenti sanato;
   d) nella fattispecie, l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata –che negli abusi è in re ipsa e non richiede una particolare motivazione– è prevalente rispetto all’interesse dei ricorrenti al mantenimento del manufatto abusivo, venendo anche in questione valori ambientali d’importanza prevalente secondo il legislatore regionale.
2. L’appello, oltre a criticare la sentenza nella parte in cui ritiene accertato l’ampliamento del manufatto ad opera dei nuovi proprietari in pendenza della pratica di condono, si incentra, essenzialmente, nell’invocazione della violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005. Si deduce che, sulla base di tale disposizione, è richiesto all’amministrazione di valutare in concreto la sussistenza di un interesse pubblico alla eliminazione di un provvedimento illegittimo, diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata, anche comparandolo con l’interesse dei destinatari e controinteressati, e, comunque, entro un termine ragionevole, in ragione delle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche originate dal provvedimento annullabile in via di autotutela e dell’affidamento sulle stesse riposto dagli interessati, ingenerato dal trascorrere di un apprezzabile lasso temporale.
Mentre, il provvedimento impugnato prescinderebbe dall’apprezzamento sul se il provvedimento abbia determinato un effetto negativo sull’assetto urbanistico; prescinderebbe dalla considerazione degli interessi privati sacrificati, dal tempo trascorso (pari a nove anni), financo dal mancato rilievo della difformità nel sopralluogo compiuto dall’amministrazione nel 2002.
Inoltre, il comportamento dell’amministrazione sarebbe stato contraddittorio rispetto alla valutazione in concreto fatta relativamente agli altri immobili dello stesso complesso, dove l’archiviazione è stata disposta valutando l’affidamento sulle esistenti autorizzazioni paesaggistiche e valutando la mancanza di ragioni attuali di interesse pubblico all’annullamento.
Nelle memorie, si invoca, a fini interpretativi, la successiva formulazione dello stesso art. 21-nonies cit. (risultante dalle modifiche apportate con la legge n. 124 del 2015), che individua in 18 mesi il termine ragionevole per l’esercizio dell’autotutela.
3. Va precisato che ratione temporis è applicabile l’art. 21-nonies “Annullamento d'ufficio”, inserito dall'art. 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15, che così dispone: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
2. E' fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole
.”.
4. Nella giurisprudenza di questo Consiglio appaiono individuabili due contrapposti orientamenti. Di seguito, senza pretese di completezza, sono sinteticamente esposti.
4.1. Recentemente (CdS, sez. VI, n. 341 del 2017), in riferimento a provvedimento di annullamento in autotutela di una concessione in sanatoria, e rispetto alla stessa formulazione dell’art. 21-nonies, cit. applicabile ratione temporis, si è ritenuto che il potere di annullamento ha un presupposto rigido (l’illegittimità dell’atto da annullare) e due presupposti riferiti a concetti indeterminati, affidati all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione (la ragionevolezza del termine di adozione dell’atto; la sussistenza dell’interesse pubblico alla sua rimozione unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari). Il fondamento di questi due ultimi presupposti è stato individuato nella garanzia della tutela dell’affidamento dei destinatari in ordine alla certezza e stabilità degli effetti giuridici, mediante la valutazione discrezionale della amministrazione nella ricerca del giusto equilibrio tra ripristino della legalità violata e conservazione dell’assetto regolativo del provvedimento viziato. Esigenze rafforzate dalla novella del 2015, con la fissazione del termine ragionevole in quello massimo di 18 mesi, valevole come indice ermeneutico.
La conseguenza che la richiamata decisione ha tratto è stata quella di una motivazione necessaria circa l’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto in relazione alla pregnanza e preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio di un titolo illegittimo; tanto più, in presenza di un provvedimento, come quello in materia edilizia, destinato ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo, dove assume maggiore rilevanza l’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza quello pubblico all’eliminazione di effetti che si sono prodotti in via definitiva. Con l’ulteriore corollario che l’interesse pubblico alla rimozione attuale dell’atto non può coincidere con l’esigenza del mero ripristino della legalità violata e deve essere integrato da ragioni differenti.
La decisione del 2017 si collega all’orientamento (espresso da CdS, sez. IV n. 351 del 2016, e ritenuto generalmente condiviso da altre pronunce (CdS, IV, n. 915 del 2013), secondo cui l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’articolo 21-nonies cit., consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati. Con l’ulteriore canone del termine ragionevole per il legittimo esercizio del potere di autotutela (poi fissato in 18 mesi).
4.2. Invece, appare maggioritario l’orientamento -ripreso anche nella vigenza dell’art. 21-nonies cit. (CdS, sez. IV, n. 2885 del 2016; ibidem, n. 4619 del 2012)- secondo il quale il provvedimento di annullamento di concessione edilizia illegittima è da ritenersi in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita (CdS sez. IV, n. 3660 del 2016; CdS, sez. V, n. 5691 del 2012).
In questo filone giurisprudenziale, per esonerare dalla comparazione tra interesse pubblico e interesse privato, spesso, assumono rilievo le indicazioni fuorvianti o false della parte istante, che avevano determinato l’illegittimità del provvedimento annullato (n. 3660 del 2016 cit.). Invece, la motivazione sulla comparazione degli interessi è richiesta quando l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all’amministrazione (n. 5691 del 2012 cit.).
In particolare, in fattispecie nelle quali era applicabile il 21-nonies, cit. si è ritenuto che, se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l’adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell’autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto.
Si è poi ritenuto del tutto inconferente, nell’economia della causa, il richiamo dell’appellante alla disciplina contenuta negli artt. 21-octies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, perché proprio la falsa rappresentazione della realtà, rendeva necessitata e vincolante l’adozione, da parte dell’amministrazione comunale, del provvedimento di annullamento in autotutela, il cui contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (n. 4619 del 2012 cit.).
5. In estrema sintesi,
appare emergere un contrasto tra:
   -
un recente orientamento che, sulla base dell’art. 21-nonies, cit., e anche in considerazione delle modifiche dello stesso, ritiene necessaria una valutazione dell’interesse pubblico in concreto in rapporto agli interessi dei destinatari (e dei controinteressati) degli originari provvedimenti, in un tempo ragionevole; con la conseguenza che il lungo decorso del tempo agisce a favore dell’affidamento ingenerato nel privato e incide anche sulla valutazione del pubblico interesse in concreto;
   -
un orientamento, che sembra maggioritario, il quale, pur nella vigenza del citato articolo, esclude la necessità della valutazione dell’interesse pubblico in concreto, essendo esso insito nella restaurazione della legalità violata, quantomeno, tutte le volte che la illegittimità sia dipesa dalle prospettazioni non veritiere del privato.
6. Nella specie, il giudice di primo grado, con argomentazioni pure censurate dai ricorrenti, ha ritenuto attribuibile l’ampliamento del manufatto in pendenza della pratica di condono ai nuovi proprietari ed ha collegato l’ampliamento ad una domanda presentata dalla originaria proprietaria in modo ambiguo, previo accordo con i ricorrenti; lo stesso giudice ha escluso per questi motivi ogni rilievo al tempo trascorso (9 anni) e alla mancata valutazione comparativa tra interesse pubblico in concreto e affidamento dei privati, in quanto affidamento non degno di essere tutelato. Mentre, gli appellanti assumono comunque la violazione dell’art. 21-nonies, nell’interpretazione sostenuta dalla recente decisione del 2017.
7. Con Ordinanza collegiale n. 1337 del 2017, è stata già sottoposta all’adunanza plenaria la questione “Se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”.
7.1. Stante il contrasto giurisprudenziale in atto, al Collegio appare opportuno –anche al fine di favorire la trattazione della materia nell’ambito di un quadro più completo– deferire il presente ricorso all'esame dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99, co. 1, c.p.a., per la decisione della seguente questione: “
Se, nella vigenza dell’art. 21-nonies, come introdotto dalla legge n. 15 del 2005, l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, sub specie di concessione in sanatoria, intervenuta ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, debba o meno essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico valutato in concreto in correlazione ai contrapposti interessi dei privati destinatari del provvedimento ampliativo e agli eventuali interessi dei controinteressati, indipendentemente dalla circostanza che il comportamento dei privati possa aver determinato o reso possibile il provvedimento illegittimo, anche in considerazione della valenza –sia pure solo a fini interpretativi– della ulteriore novella apportata al citato articolo, la quale appare richiedere tale valutazione comparativa anche per il provvedimento emesso nel termine di 18 mesi, individuato come ragionevole, e appare consentire un legittimo provvedimento di annullamento successivo solo nel caso di false rappresentazioni accertate con sentenza penale passata in giudicato”.

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.. Ciò, ad esempio:
   - laddove vengano rese false attestazioni circa gli stati, le qualità personali ed i fatti indicati nell'art. 46 del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a una gara di appalto
, oppure
   - si affermi in difformità dal vero di aver completato opere edilizie entro i termini utili per la concessione in sanatoria
, ovvero ancora
   - si dichiari falsamente di non avere mai riportato condanne penali con atto allegato ad un'istanza di iscrizione nel registro dei praticanti geometri
.
Occorre, quale presupposto per l'applicazione della norma de qua, che la dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a dire che esista l'obbligo del privato di attestare il vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente».
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1. Il ricorso appare fondato.
1.1
La giurisprudenza di legittimità ha infatti più volte affermato -in casi analoghi a quello oggi sub judice- che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.: ciò, ad esempio, laddove vengano rese false attestazioni circa gli stati, le qualità personali ed i fatti indicati nell'art. 46 del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a una gara di appalto (Cass., Sez. V, n. 20570 del 10/05/2006, Esposito), oppure si affermi in difformità dal vero di aver completato opere edilizie entro i termini utili per la concessione in sanatoria (Cass., Sez. V, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi), ovvero ancora si dichiari falsamente di non avere mai riportato condanne penali con atto allegato ad un'istanza di iscrizione nel registro dei praticanti geometri (Cass., Sez. V, n. 48681 del 06/06/2014, Sola).
Occorre, quale presupposto per l'applicazione della norma de qua, che la dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a dire che esista l'obbligo del privato di attestare il vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente» (v. Cass., Sez. V, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici, nonché Cass., Sez. V, n. 39215 del 04/06/2015, Cremonese, dove la configurabilità del delitto è stata esclusa in casi dove le false dichiarazioni erano state rese ad un curatore fallimentare, sull'avvenuta distruzione di documentazione contabile e societaria, e ad un notaio, sul precedente acquisto a titolo di usucapione di un bene oggetto di successiva vendita).
Il menzionato presupposto ricorre, all'evidenza, anche nell'odierna fattispecie concreta, visto che le indicazioni della In. sullo status di disoccupati da riconoscere ad alcuni componenti del suo nucleo familiare valevano ad incidere sulla formazione della graduatoria per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.
1.2 L'approccio interpretativo fatto proprio dal Gip del Tribunale di Palermo, del resto, risulta chiaramente smentito fino dal 2010, quando si è affermato che argomentazioni come quelle oggi ribadite dal giudice di merito portano «ad un risultato ermeneutico da ritenere frutto di errata applicazione dell'art. 483 cod. pen. Invero, che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio, presentata dal privato a corredo della istanza amministrativa, sia tale da integrare il requisito della "attestazione in atto pubblico", come previsto dall'art. 483 cod. pen., non può essere posto in dubbio.
Questa Corte, al riguardo, ha già messo in evidenza che le false dichiarazioni del privato concernenti la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge o dagli strumenti urbanistici per il rilascio di concessione edilizia, essendo destinate a dimostrare la verità dei fatti cui si riferiscono e ad essere "recepite" quali condizioni per la emanazione o per la efficacia dell'atto pubblico, producendo cioè immediati effetti rilevanti sul piano giuridico, sono idonee ad integrare, se ideologicamente false, il delitto di cui all'art. 483 cod. pen. [...].
Della ricorrenza del requisito in parola non hanno dubitato nemmeno le Sezioni Unite le quali, in una fattispecie in tutto analoga (presentazione di dichiarazione di privato circa il possesso dei requisiti per la partecipazione ad una gara d'appalto), hanno confermato la sussistenza del reato di cui all'art. 483 cod. pen. (Cass., Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi).
Ad avviso della consolidata giurisprudenza, in conclusione, la dichiarazione del privato resa con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in presenza di una norma che preveda il ricorso a tale procedura, vale a far ritenere integrate anche l'ulteriore requisito richiesto dall'art. 483 cod. pen. (dichiarazione "in atto pubblico") ogni volta in cui la dichiarazione stessa sia destinata ad essere poi "trasfusa" in un atto pubblico [...].
Viceversa e specularmente si è escluso, ad esempio, che integri il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta del privato che attesti falsamente, con dichiarazione diretta al sindaco, l'ultimazione dei lavori di un fabbricato, quando tale dichiarazione non sia destinata a confluire in un atto pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa attestati, come verificatosi nella ipotesi di dichiarazione finalizzata ad ottenere il rilascio del certificato di abitabilità
» (Cass., Sez. V, n. 2978/2010 del 26/11/2009, Urso).
Nella motivazione della pronuncia appena richiamata si legge altresì che non risulta sostenibile l'assunto secondo cui il requisito dato dalla necessità che il falso ideologico sia commesso dal privato "in atto pubblico" non sarebbe integrato dalla verifica che la falsa dichiarazione sia, in alternativa, "destinata ad essere trasfusa in atto pubblico", stante la diversità ontologica dei due concetti e l'esistenza -nel corpo dell'art. 495 cod. pen.- di una autonoma sanzione per l'ipotesi di "destinazione della dichiarazione ad essere riprodotta in atto pubblico".
A tali osservazioni la sentenza Urso ribatte che «
la ipotesi del falso ideologico commesso dal privato ai sensi dell'art. 483 cod. pen. deve ritenersi integrata in tutti i suoi requisiti anche ulteriori per il combinato rilievo che l'atto si intende [...] ricevuto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni con la stessa attitudine a produrre gli effetti giuridici connessi alla dichiarazione dalla norma specifica che gli attribuisce l'obbligo di affermare il vero.
Come già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, n. 6 del 17/02/1999, Lucarotti) "
oggetto della tutela penale in relazione al reato di cui all'art. 483 cod. pen. è l'interesse di garantire il bene giuridico della pubblica fede in quanto si attiene alla pubblica fede documentale attribuita agli atti pubblici non in relazione a ciò che vi attesta per suo fatto e di sua scienza il pubblico ufficiale documentante, ma per quello che vi assevera, mediante la documentazione del pubblico ufficiale, il dichiarante. Talché, è palese che il reato postula che il dichiarante abbia il dovere giuridico di esporre la verità" [...].
La situazione non è sostanzialmente mutata, ad avviso del Collegio, a seguito dell'abrogazione della legge n. 15 del 1968, attuata in via generale, da ultimo, dal d.lgs. n. 445 del 2000, art. 77, in seguito alla quale la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non deve più essere autenticata dal pubblico ufficiale, in quanto, come sopra precisato, quel che rileva, ai fini della sussistenza del delitto in questione, è la destinazione e lo scopo della falsa dichiarazione del privato e gli effetti di essa sul piano giuridico, che impongono una particolare tutela.
Quanto alla particolare menzione, contenuta nell'art. 495 cod. pen. [...], è appena il caso di ricordare come si tratti di un inciso che reca un contributo assai opinabile alla tesi che qui si esclude. Infatti quell'inciso è stato eliminato dal legislatore nel testo vigente dell'art. 495 cod. pen., (come modificato con d.l. n. 92 del 2008), assieme alla menzione, separata, della dichiarazione "in atto pubblico",
senza peraltro che tale modifica abbia impedito alla giurisprudenza di sostenere, pur in presenza del nuovo lessico normativo, che la condotta di "attestazione falsa", nonostante l'eliminazione del riferimento all'atto pubblico, continua a incriminare tuttora il soggetto che renda false dichiarazioni "attestanti", ovvero tese a garantire, il proprio stato od altre qualità della propria od altrui persona, destinate ad essere riprodotte in un atto fidefaciente idoneo a documentarle
».
La linea interpretativa ora illustrata, in chiara antitesi rispetto alle tesi sostenute nella sentenza oggetto di ricorso, risulta ribadita anche in pronunce successive (v. Cass., Sez. V, n. 42524 del 12/07/2012, Picone) (Corte di cassazione, Sez. V penale, sentenza 07.04.2017 n. 17774).

IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di esternalizzazione per i servizi finanziari del Comune.
La gestione del servizio finanziario di un Comune non può essere esternalizzata, in quanto trattasi di funzione pubblica essenziale. Gli enti, quindi, per esercitarla potranno solamente avvalersi delle forme di lavoro a tempo indeterminato o di lavoro flessibile previste dall'ordinamento.
La vicenda
Sono queste le conclusioni del parere 09.03.2017 n. 4 della sezione di controllo della regione Friuli Venezia Giulia della Corte dei conti che ha esaminato il caso di un piccolo ente alle prese con l'organizzazione dell'ufficio finanziario in cui attualmente vi è solo il segretario comunale che svolge le funzioni di responsabile senza avere alcun supporto.
Tra le varie opzioni proposte dal sindaco nel quesito per quella che si potrebbe chiamare «sopravvivenza», appare anche quella di poter esternalizzare il servizio di contabilità.
La possibilità di acquistare sul mercato le attività prima gestite internamente è concessa alle amministrazioni pubbliche dagli articoli 6 e 6-bis del Dlgs 165/2001, purché si dimostri di raggiungere le conseguenti economie di gestione e si adottino le adeguate misure in materia di personale. Ma le esternalizzazioni sono immaginabili per tutti i servizi?
La decisione
I magistrati friulani si rifanno innanzitutto ad altre sezioni regionali, le quali, in maniera uniforme, hanno affermato che l'ambito di estensione di una esternalizzazione può riguardare tutti i cosiddetti servizi pubblici di rilevanza economica, rimanendo, però, escluse da tali fattispecie le funzioni pubbliche fondamentali che il Comune deve svolgere direttamente, non potendo essere appaltate a soggetti esterni, in quanto si tratta di funzioni strettamente connaturate al soggetto pubblico che ne è titolare.
La conclusione è, quindi, che dovranno necessariamente continuare a essere svolte in via diretta tutte quelle attività che sono connaturate all'esistenza stessa dell'ente, incluse tra queste ultime le attività dell'area economico-finanziaria e di redazione del bilancio.
Il richiamo corre, pertanto, al principio dell'articolo 14, comma 26, del Dl 78/2010 che afferma che «l'esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni è obbligatorio per l'ente titolare» e al successivo elenco delle funzioni, modificato, da ultimo, dall'articolo 19 del Dl 95/2012. Tra tali compiti appare, senza possibilità di appello, anche la funzione a) che tratta dell'organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo.
E, richiamando i principi da sempre diffusi dal Dipartimento della Funzione Pubblica (ad esempio la circolare n. 3/2006), è in sede di programmazione che l'amministrazione deve stabilire quali servizi rientrano nelle cosiddette attività non istituzionali che possono essere oggetto di una esternalizzazione, rispetto a quelle funzioni che, essendo fondamentali, possono essere gestite esclusivamente in modo diretto dagli enti con assunzioni di personale a tempo indeterminato o determinato, con prestazioni di lavoro flessibile o attraverso le collaborazioni coordinate e continuative. Ovviamente, nel rispetto di tutti i vincoli finanziari e assunzionali vigenti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.03.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di esternalizzazione per i servizi finanziari del Comune.
Relativamente alla esternalizzazione dei servizi degli Enti locali, vale la pena di evidenziare che la norma di riferimento è quella contenuta nel D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (c.d. TUPI), recante norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche, che all’art. 6-bis detta specifiche disposizioni in materia di misure in materia di organizzazione e razionalizzazione della spesa per il funzionamento delle pubbliche amministrazioni.
In base a detta previsione, le pubbliche Amministrazioni sono autorizzate, nel rispetto dei principi di concorrenza e di trasparenza, ad acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione e di adottare le necessarie misure in materia di personale e di dotazione organica.
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Per gli Enti locali sarà possibile procedere all’attivazione di processi di esternalizzazione di servizi pubblici a rilevanza economica, purché tale scelta produca “economie di gestione”, precipuamente con riferimento ai servizi di cui agli articoli 112 e seguenti del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
(TUEL - Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), dovendo invece necessariamente continuare ad essere svolte in via diretta tutte quelle attività che sono connaturate all’esistenza stessa dell’Ente, incluse tra queste ultime le attività dell’area economico-finanziaria e di redazione del bilancio.
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I. Come esposto nella premessa ed in sede di esame preliminare dell’ammissibilità, la tematica oggetto di esame nello svolgimento di questo motivato avviso riguarda i limiti assunzionali attualmente gravanti sugli Enti locali, nonché l’eventuale possibilità di esternalizzare i servizi dei Comuni che risultano sprovvisti di personale idoneo al loro svolgimento in forma diretta.
Per ben risolvere le problematiche sollevate dal Comune di Lestizza (UD), e ferme restando in capo all’autonomia decisionale del Comune le scelte gestionali da porre concretamente in essere, in considerazione della non praticabilità e utilità, almeno per il momento, di forme associative con altri Enti (come approfonditamente esposte dal Sindaco anche in sede di audizione preliminare a questa camera di consiglio), appare utile procede ad una preventiva disamina della tematica relativa alla eventuale esternalizzazione del servizio dell’Area Economico-Finanziaria, per poi procedere ad una succinta esposizione del quadro di riferimento che contraddistingue il comparto unico del pubblico impiego regionale e concludere quindi con la normativa che regola i limiti assunzionali a tempo determinato attualmente gravanti sugli Enti locali (anche con riferimento alla possibilità o meno di conferire incarichi esterni).
II.
Relativamente alla esternalizzazione dei servizi degli Enti locali, vale la pena di evidenziare che la norma di riferimento è quella contenuta nel D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (c.d. TUPI), recante norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche, che all’art. 6-bis detta specifiche disposizioni in materia di misure in materia di organizzazione e razionalizzazione della spesa per il funzionamento delle pubbliche amministrazioni.
In base a detta previsione, le pubbliche Amministrazioni (di cui all'articolo 1, comma 2, del TUPI) nonché gli Enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio dello Stato sono autorizzati, nel rispetto dei principi di concorrenza e di trasparenza, ad acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione e di adottare le necessarie misure in materia di personale e di dotazione organica.
Relativamente alla spesa per il personale e alle dotazioni organiche, le Amministrazioni interessate dai processi in argomento provvedono al congelamento dei posti e alla temporanea riduzione dei fondi della contrattazione, fermi restando i conseguenti processi di riduzione e di rideterminazione delle dotazioni organiche nonché i conseguenti processi di riallocazione e di mobilitò del personale. I collegi dei revisori dei conti e gli organi di controllo interno delle Amministrazioni che attivano i processi di cui sopra vigilano sull'applicazione del presente articolo, dando evidenza, nei propri verbali, dei risparmi derivanti dall'adozione dei provvedimenti in materia di organizzazione e di personale, anche ai fini della valutazione del personale con incarico dirigenziale.
Tale disciplina, introdotta dall’art. 22, co. 1, della legge 18.06.2009, n. 69 recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, ricalca analoghi istituti già contemplati dall’art. 29, co. 1, della legge 28.12.2001 n. 448 (legge finanziaria per il 2002) secondo cui “
Le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché gli enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio dello Stato sono autorizzati, anche in deroga alle vigenti disposizioni, a:
   a) acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione;
   b) costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità di cui alla lettera a), soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza;
   c) attribuire a soggetti di diritto privato già esistenti, attraverso gara pubblica, ovvero con adesione alle convenzioni stipulate ai sensi dell'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488, e successive modificazioni, e dell'articolo 59 della legge 23.12.2000, n. 388, lo svolgimento dei servizi di cui alla lettera b)
”.
Essendo questo il quadro di riferimento per i processi di c.d. “esternalizzazione” dei servizi pubblici locali, vale la pena di evidenziare che l’ambito di estensione di tale istituto può riguardare tutti i cosiddetti servizi pubblici di rilevanza economica, rimanendo però escluse da tali fattispecie le funzioni pubbliche essenziali che il Comune deve svolgere direttamente, non potendo essere appaltate a soggetti esterni, in quanto si tratta di funzioni strettamente connaturate al soggetto pubblico che ne è titolare.
In tal senso, ha avuto modo di esprimersi anche la Sezione regionale di controllo per la Lombardia con il parere n. 355/2012/PAR con cui si è affermato che “
in via preliminare, si rammenta che ogni la scelta amministrativa, quando realizzata spendendo la capacità negoziale di diritto comune dell’ente (art. 1 e 1-ter della L. n. 241 del 1990), presuppone due momenti volitivi distinti, articolabili in una fase pubblicistica, di carattere prodromico, e una propriamente negoziale: la prima è sostanzialmente riconducile alla determinazione a contrarre, fase preliminare di ogni procedura ad evidenza pubblica. La struttura bifasica dell’agire di diritto comune degli enti pubblici è stata messa in evidenza dal Consiglio di Stato, nell’Adunanza Plenaria n. 10 del 2011: in tale arresto il Supremo Consesso amministrativo ha evidenziato che gli atti pubblicistici vanno, sul piano logico, cronologico e giuridico, tenuti nettamente distinti dai successivi atti negoziali cui sono prodromici. Nell’atto amministrativo si condensano le valutazioni sugli interessi pubblici (espressi dalla legge con l’indicazione degli scopi e dei limiti all’agire giuridico dell’amministrazione) che, sul piano negoziale, il più delle volte, rimangono estranei alla causa giuridica, segnalandosi come meri “motivi”, di norma irrilevanti per il diritto privato. Nel caso di negozi con cui si realizza un’esternalizzazione, la preliminare decisione pubblicistica deve riscontrare che la decisione di esternalizzare persegua l’efficientamento della p.a. e non si ponga in contrasto con i limiti ordinamentali, tanto di carattere interno, quanto di carattere esterno”.
Ne consegue che
per gli Enti locali sarà possibile procedere all’attivazione di processi di esternalizzazione di servizi pubblici a rilevanza economica, purché tale scelta produca “economie di gestione”, precipuamente con riferimento ai servizi di cui agli articoli 112 e seguenti del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL - Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), dovendo invece necessariamente continuare ad essere svolte in via diretta tutte quelle attività che sono connaturate all’esistenza stessa dell’Ente, incluse tra queste ultime le attività dell’area economico-finanziaria e di redazione del bilancio.
In tal senso ha avuto modo di esprimersi recentemente anche la Sezione regionale di controllo per la Liguria che, con la deliberazione n. 61/2015/PAR, ha respinto la richiesta avanzata da un comune ligure volta a sapere “se risulti possibile, in considerazione dell’assoluta impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane disponibili all’interno della propria dotazione organica, provvedere alla esternalizzazione del servizio relativo all’ufficio tecnico comunale” (per i magistrati liguri, tali processi di esternalizzazione possono eccezionalmente essere ammessi per attività che richiedono specifiche qualificazioni, come ad esempio quelle che possono essere svolti soltanto da professionisti iscritti in specifici albi professionali, ma non per le attività ordinariamente connesse all’esistenza dell’ente, per cui potranno essere al più attivate forme di esercizio congiunto di funzioni con altri enti che si trovino nelle stesse condizioni).
Così succintamente affrontata la problematica dell’esternalizzazione di funzioni comunali,
deriva pertanto chiaramente per il Comune la possibilità di esternalizzare soltanto servizi pubblici di rilevanza economica suscettibili di produrre economie di gestione e non anche funzioni strettamente connaturate all’esistenza dell’Ente, quali appunto quelle dell’area economico-finanziaria e di redazione del bilancio oggetto della richiesta formulata dal Comune di Lestizza.
Per ovviare ai problemi sollevati dal Comune richiedente, pertanto, appare opportuno effettuare una succinta disamina del comparto unico del pubblico impiego regionale e delle possibilità di effettuare assunzioni a tempo determinato e/o di conferire incarichi esterni.
III. Il comparto unico del pubblico impiego regionale e locale del Friuli Venezia Giulia, di cui fanno parte i dipendenti del Consiglio regionale, dell'Amministrazione regionale, degli Enti regionali, delle Province, dei Comuni, delle Comunità montane e degli altri Enti locali, è stato istituito con l’art. 127 della legge regionale 09.11.1998, n.13.
Detta norma è stata introdotta per dare concreta attuazione alla legge costituzionale 23.09.1993, n. 2, che all’art. 5 ha previsto l’attribuzione alla Regione Friuli Venezia Giulia della competenza esclusiva in materia di “ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni”.
La disciplina positiva dettata in materia di comparto unico è stata recentemente innovata con la Legge regionale 26.06.2014, n. 12, recante “misure urgenti per le autonomie locali”, che ha dedicato l’intero capo II (articoli 4-11) a fornire una regolamentazione organica ed aggiornata, anche alla luce di quanto statuito con la sentenza della Corte costituzionale n. 54/2014, con cui è stata “confermata l’applicabilità alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia dei principi di coordinamento della finanza pubblica stabiliti dalla legislazione statale, più volte riconosciuta da questa Corte (da ultimo, sentenze n. 3 del 2013 e n. 217 del 2012)”.
Si deve infatti debitamente precisare che, ai sensi dell'art. 117, c. 3, e dell’art. 119, c. 2, della nostra Costituzione, le disposizioni contenute nelle leggi statali relative al Patto di stabilità interno (PSI) per gli Enti territoriali costituiscono princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica. Il contributo della Regione al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica ha matrice pattizia, essendo frutto dell'Intesa raggiunta -anno per anno- tra la Regione stessa e lo Stato (MEF), i cui contenuti vengono poi trasfusi nella annuale legge di stabilità.
In materia di comparto unico del pubblico impiego regionale e locale, la Sezione ha già avuto modo di esprimersi con numerosi motivati avvisi (cfr., ex multis, pareri n. FVG/51/2016/PAR, n. FVG/133/2015/PAR, n. FVG/70/2015/PAR, n. FVG/51/2015/PAR, n FVG/2015/PAR, n. FVG/97/2014/PAR, n. FVG/53/2014/PAR, n. FVG/18/2014/PAR, n. FVG/17/2014/PAR).
In particolare, con il parere n. FVG/51/2015/PAR, la Sezione ha posto in evidenza il quadro normativo di riferimento, fornendo una lettura coerente tra la legislazione emanata dalla Regione e i princìpi recati dal Parlamento, anche alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale.
Con tale deliberazione, in particolare, si è ulteriormente ricordata la funzionalizzazione, più volte affermata dalla Corte costituzionale, alla finalità del contenimento della spesa pubblica (cfr., ex plurimis, Corte costituzionale, sentenze nn. 108/2001 e 155/2011), delle discipline rilevanti in materia di vincoli e obiettivi derivanti dal Patto di stabilità interno, con i connessi limiti complessivi di spesa.
Nel riconoscere la non completa sovrapponibilità delle normative vincolistiche sul patto di stabilità e sul governo della spesa del personale (avendo queste ultime -le norme di contenimento della spesa di personale- una estensione più ampia rispetto alle prime, essendo dirette anche alle Autonomie locali non soggette ai vincoli del patto di stabilità, per le quali valgono disposizioni comunque finalizzate a obiettivi di contenimento e riduzione della spesa del personale), va rimarcato che, per quel che riguarda le disposizioni relative al patto di stabilità, in Friuli Venezia Giulia il concorso agli obiettivi di finanza pubblica in termini di saldo netto da finanziare e di indebitamento netto è definito in sede pattizia, attraverso apposito accordo sottoscritto tra il Presidente del Consiglio dei Ministri il Ministro dell’Economia e delle Finanze e il Presidente della regione Friuli Venezia Giulia.
I relativi contenuti vengono poi trasfusi nell’annuale legge di stabilità.
Per gli anni dal 2014 al 2017 tale concorso è definito ai commi da 512 a 523 dell’art. 1 della legge 23.12.2014, n. 190.
In ragione e in forza di tale regime pattizio è la stessa Regione a dettare, con proprie norme, le regole, gli obiettivi, i vincoli e correlate sanzioni inerenti al patto di stabilità per il sistema dei propri Enti locali, in maniera tale da garantire, in maniera autonoma, nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica, il concorso dell’intero sistema delle Autonomie locali della regione al raggiungimento degli obblighi posti allo Stato a livello comunitario.
In tale ottica, la stessa deliberazione n. FVG/51/2015/PAR aveva provveduto a fornire una utile interpretazione a carattere sistematico, “circa la necessaria sussunzione nel novero degli obiettivi inerenti al rispetto del patto di stabilità interno, convergenti verso le medesime finalità di contenimento della spesa pubblica complessiva, anche le previsioni in materia di spesa per il personale, sia in un’ottica di sostenibilità complessiva, sia con riguardo specifico all’obiettivo della progressiva riduzione della medesima, si possono formulare le seguenti notazioni in ordine, appunto, alle previsioni in materia di disciplina vincolistica e di facoltà assunzionali applicabili al sistema degli EELL della regione FVG. Possono, in tale ottica, individuarsi (almeno) tre serie di norme:
   1) una prima serie di norme pone obiettivi di contenimento dell'aggregato "Spesa di personale" per gli EELL sia soggetti al PSI (es. il comma 557 dell’art. 1 L. n. 296/2006 e comma 25 dell’art. 12 della L.R. n. 17/2008) che non soggetti (es. comma 562 L. n. 296/2006). Per gli EELL del FVG -in ragione del regime pattizio valevole tra Stato e Regione ai fini della determinazione del concorso della seconda agli obiettivi del PSI discendente dagli obblighi facenti capo all’Italia in forza della sua appartenenza all’UE– detti obiettivi sono fissati dal legislatore regionale;
   2) una seconda serie contempla norme preordinate a definire le facoltà assunzionali degli EELL in regola con le norme sui vincoli del P.S.I. e con quelle di contenimento della spesa di personale (per gli EELL del FVG, ripetesi, di fonte regionale): tali facoltà, o, meglio, i limiti alle dette facoltà, con le correlate fattispecie di deroga, sono, per espresso rinvio dell'art. 4, comma 2, L.R. n. 12/2014, rimesse alla potestà del legislatore statale;
   3) ulteriori norme, correlate alle ultime descritte, e perciò stesso ad esse assimilabili quanto all'individuazione della fonte di produzione normativa, pongono tetti di spesa (rectius limitazioni al tetto di spesa) per gli enti in regola con l'obbligo di riduzione della spesa di personale. Così la norma di cui all’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 su cui, come innanzi ricordato, è intervenuta la delibera SdA n. 2/2015
”.
Alla luce del complessivo quadro normativo di riferimento, pertanto, le facoltà assunzionali riferite agli Enti locali anche del Friuli Venezia Giulia sono determinate facendo riferimento a quanto previsto dal Legislatore nazionale in sede di fissazione di obiettivi di finanza pubblica.
IV. Così delineato il quadro giuridico di riferimento valevole per il Friuli Venezia Giulia in materia di vincoli assunzionali per il pubblico impiego locale, si deve ora procedere ad affrontare specificamente la problematica delle assunzioni a tempo determinato e/o del conferimento di incarichi temporanei per fare fronte ad eccezionali criticità degli Enti locali.
Al riguardo, viene in rilievo principalmente l’art. 9, co. 28, del D.L. 78/2010 (convertito dalla L. 30/07/2010, n. 122) in base al quale a decorrere dall'anno 2011, le Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le Agenzie, incluse le Agenzie fiscali, gli Enti pubblici non economici, le Università e le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009. Per le medesime Amministrazioni la spesa per personale relativa a contratti di formazione-lavoro, ad altri rapporti formativi, alla somministrazione di lavoro, nonché al lavoro accessorio non può essere superiore al 50 per cento di quella sostenuta per le rispettive finalità nell'anno 2009.
I limiti di cui al primo e al secondo periodo non si applicano, anche con riferimento ai lavori socialmente utili, ai lavori di pubblica utilità e ai cantieri di lavoro, nel caso in cui il costo del personale sia coperto da finanziamenti specifici aggiuntivi o da fondi dell'Unione europea; nell'ipotesi di cofinanziamento, i limiti medesimi non si applicano con riferimento alla sola quota finanziata da altri soggetti. Le disposizioni in commento rappresentano princìpi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai quali si adeguano le Regioni, le Province autonome, gli Enti locali e gli Enti del Servizio sanitario nazionale.
La norma aggiunge che le limitazioni su riportate non si applicano agli Enti locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562 dell'articolo 1 della L. n. 296/2006, per i quali comunque “la spesa complessiva non può essere superiore alla spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009” ed inoltre precisa che, per le Amministrazioni che nell'anno 2009 non hanno sostenuto spese per lavoro flessibile, il limite deve essere computato con riferimento alla media sostenuta per le stesse finalità nel triennio 2007-2009.
Con l’emanazione della legge 07/08/2016 n. 160 di conversione del D.L. 24/06/2016 n. 113, all’art. 16, comma 1-quater, è stata disposta l’esclusione dalle limitazioni previste dall’art. 9, comma 28, del D. L. n. 78/2010, per le spese sostenute per le assunzioni a tempo determinato ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del testo unico di cui al D.Lgs. 18/08/2000 n. 267.
A rafforzamento di tali previsioni, il medesimo comma 28 ha previsto anche pesanti effetti sanzionatori per la sua eventuale non applicazione, stabilendo che il mancato rispetto dei limiti di spesa in esso previsti costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale.
Sull’argomento, si è espressa anche la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti che, sulla specifica materia dell’art. 9, co. 28, ora in commento, ha avuto modo di esprimersi affermando il principio di diritto secondo cui: “le limitazioni dettate dai primi sei periodi dell’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, in materia di assunzioni per il lavoro flessibile, alla luce dell’art. 11, comma 4-bis, del d.l. 90/2014 (che ha introdotto il settimo periodo del citato comma 28), non si applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di riduzione della spesa di personale di cui ai commi 557 e 562 dell’art. 1, l. n. 296/2006, ferma restando la vigenza del limite massimo della spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009, ai sensi del successivo ottavo periodo dello stesso comma 28”.
Sul punto, inoltre, ha recentemente avuto modo di esprimersi la Sezione regionale di controllo per la Puglia con il parere n. 149/2016/PAR con cui si è precisato che “i vincoli in materia di c.d. “lavoro flessibile” hanno carattere indefettibile ed appaiono rivolti anche ad evitare che le amministrazioni pubbliche soggette ad un regime limitativo delle assunzioni a tempo indeterminato possano ricorrere all’utilizzo di contratti di lavoro flessibile per eludere il blocco assunzionale ad esse applicabile… La Corte costituzionale, con sentenza n. 173/2012, proprio con riferimento all’articolo 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010, ha osservato che tale disposizione “pone un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto settore del personale e, precisamente, a quello costituito da quanti collaborano con le pubbliche amministrazioni in virtù di contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo indeterminato” e “lascia alle singole amministrazioni la scelta circa le misure da adottare con riferimento ad ognuna delle categorie di rapporti di lavoro da esso previste. Ciascun ente pubblico può determinare se e quanto ridurre la spesa relativa a ogni singola tipologia contrattuale, ferma restando la necessità di osservare il limite della riduzione del 50 per cento della spesa complessiva rispetto a quella sostenuta nel 2009”.
A conclusione di detto parere, si procedeva quindi a una disamina dei ridotti limiti assunzionali previsti dalla normativa vigente, valorizzando in particolare il DUP (Documento Unico di Programmazione), previsto nell’ambito dall’armonizzazione dei sistemi contabili, affermando che “il legislatore riserva, dunque, nella predisposizione del DUP da parte degli enti locali, particolare attenzione alla programmazione del personale sia nella sezione strategica che in quella operativa. In particolare, nell’ambito della sezione strategica, volta a definire i principali contenuti della programmazione strategica ed i relativi indirizzi generali con riferimento al periodo di mandato, al punto 8.1 dell’allegato 4.1 al D.Lgs. n. 118/2011, è inserita anche l’analisi della disponibilità e gestione delle risorse umane con riferimento alla struttura organizzativa dell'ente in tutte le sue articolazioni ed alla sua evoluzione nel tempo anche in termini di spesa. Parimenti il successivo punto 8.2, lett. j), prescrive espressamente, nella redazione della sezione operativa, l’indicazione della programmazione del fabbisogno di personale a livello triennale ed annuale”.
Essendo questa la situazione in materia di assunzioni di personale, anche a tempo determinato, la Sezione rileva peraltro che altre forme di utilizzazione di risorse estranee alla pubblica Amministrazione richiedono presupposti applicativi particolarmente rigorosi.
Il riferimento è rivolto principalmente all’ipotesi di utilizzazione di contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, da stipulare con professionisti di particolare e conclamata specializzazione, anche universitaria.
Tali fattispecie trova la sua fondamentale disciplina nell’art. 7, co. 6 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche – c.d. TUPI).
In base a detta previsione di legge, “per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità:
   a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente;
   b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
   c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
   d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione. Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo , dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché' a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica , ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore. Il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti
”.
Da notare che, per effetto dell’art. 2, co. 4, del D.Lgs. 15.06.2015, n. 81, come da ultimo modificato dal D.L. 30.12.2016, n. 244 (convertito con modificazioni dalla L. 27.02.2017, n. 19), “fino al completo riordino della disciplina dell'utilizzo dei contratti di lavoro flessibile da parte delle pubbliche amministrazioni, la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione nei confronti delle medesime. Dal 01.01.2018 è comunque fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare i contratti di collaborazione di cui al comma 1”.
Tali contratti potranno quindi essere stipulati fino al 31.12.2017, purché siano rispettati tutti i presupposti richiesti dal sopra riportato art. 7, co. 6 del TUPI (cfr., sul punto: Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato - deliberazione n. 37/2015/PREV del 23/12/2015).
Peraltro, è bene evidenziare che tale tipologia contrattuale potrà essere utilizzata purché siano rispettata adeguate procedure comparative delle professionalità da utilizzare, e comunque senza eludere i limiti di spesa per contratti di lavoro a tempo determinato cui è soggetto il Comune.
Pertanto,
in considerazione delle difficoltà rappresentate dal Sindaco, il Comune potrà avvalersi di forme di lavoro a tempo determinato e/o di contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, nel rispetto della normativa applicabile e avendo cura di rispettare il limite di spesa fissato dall’art. co. 28, del D.L. 78/2010, dovendosi però categoricamente escludere la possibilità di esternalizzare l’Area economico-finanziaria preposta alla redazione del bilancio in quanto, alla luce dell’attuale quadro ordinamentale, i Comuni possono esternalizzare soltanto servizi pubblici di rilevanza economica suscettibili di produrre economie di gestione e non anche funzioni pubbliche strettamente connaturate all’esistenza dell’Ente (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 09.03.2017 n. 4).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Casa Sicura.
Agevolazioni fiscali per la messa in sicurezza antisismica delle abitazioni e delle attività produttive: guida pratica, normativa, faq e documentazione tecnica (link a www.mit.gov.it).

LAVORI PUBBLICI: Costi manodopera edilizia, pubblicate le tabelle come previsto dal Codice appalti (13.04.2017 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi edilizi e titoli abilitativi, differenze tra CILA, SCIA, super-SCIA e Permesso di costruire.
Interventi edilizi e titoli abilitativi: il decreto SCIA 2 individua compiutamente i regimi amministrativi in funzione dell’attività edilizia. Ecco la tabella aggiornata dopo l’entrata in vigore dell’Autorizzazione paesaggistica semplificata (06.04.2017 - link a http://biblus.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: RIDUZIONE DEL RISCHIO NELLE ATTIVITÀ DI SCAVO - Guida per datori di lavoro, responsabili tecnici e committenti (INAIL, aprile 2017).

VARIL'eredità. Tutto quello che bisogna sapere in materia civile e fiscale.
1. La successione: profili civilistici - cenni.
La successione per causa di morte si apre al momento della morte, nel luogo dell'ultimo domicilio del defunto e determina il subentro di uno o più soggetti nella posizione giuridica e patrimoniale del defunto, secondo le modalità indicate nell'articolo 457 del codice civile.
Nelle successioni gli attori coinvolti sono i seguenti: (...continua) (articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: GUIDA PER L’ACQUISTO DELLA CASA: le imposte e le agevolazioni fiscali (Agenzia delle Entrate, marzo 2017).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comunicazione - differimento dei termini di presentazione pratiche sismiche in formato cartaceo - Decreto n. 4733 del 27.04.2017 (Regione Lombardia, DIREZIONE GENERALE SICUREZZA, PROTEZIONE CIVILE E IMMIGRAZIONE - SISTEMA INTEGRATO DI PREVENZIONE - PREVENZIONE RISCHIO SISMICO E RISCHI INTEGRATI, nota 05.05.2017 n. 5496 di prot.).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Art. 54 del decreto legge 24.04.2017, n. 50. Documento Unico di Regolarità Contributiva in presenza di dichiarazione di adesione alla definizione agevolata ai sensi dell’art. 6 del decreto legge 22.10.2016, n. 193 (INPS, circolare 02.05.2017 n. 80 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO:
La presente circolare fornisce indicazioni in merito alla disciplina introdotta dall’art. 54 del d.l. n. 50 del 24.04.2017 in materia di verifica della regolarità contributiva in presenza di dichiarazione di adesione alla definizione agevolata di cui all’art. 6 del d.l. n. 193 del 22.10.2016.

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Rilascio del Durc in presenza della definizione agevolata dei carichi affidati agli agenti della riscossione dal 2000 al 2016 ai sensi dell’articolo 6 del decreto legge 22.10.2016, n. 193 e successive modifiche (INAIL, circolare 28.04.2017 n. 18).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto del Presidente della Repubblica 13.02.2017, n. 31, recante: Individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura semplificata (MIBACT, circolare 21.04.2017 n. 15).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Chiarimenti in merito al messaggio Hermes n. 828/2017 relativo al congedo facoltativo per i padri lavoratori dipendenti di cui all’art.4, comma 24, lettera a), della legge 92/2012 (INPS, messaggio 10.04.2017 n. 1581 - link a www.inps.it).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: D.Lgs. 25.11.2016, n. 222 di attuazione della delega contenuta nell’articolo 5 della Legge n. 124/2015, c.s. “Legge Madia”, in materia di riordino del sistema delle autorizzazioni amministrative – Quesiti in materia di regime delle attività di intrattenimento e pubblico spettacolo (Ministero dello Sviluppo Economico, risoluzione 06.04.2017 n. 133759 di prot.).
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Intrattenimento e pubblico spettacolo: chiarimenti sulle autorizzazioni amministrative.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, con la risoluzione 06.04.2017 n. 133759 di prot., divulga i chiarimenti forniti dal Ministero dell’Interno in materia di attività di intrattenimento e di pubblico spettacolo a seguito della entrata in vigore delle disposizioni di semplificazione in materia di avvio e di esercizio dell’attività d’impresa.
Con la risoluzione n. 133759 del 6 aprile 2017 avente ad oggetto “D.Lgs. 25.11.2016, n. 222 di attuazione della delega contenuta nell’articolo 5 della Legge n. 124/2015, c.s. “Legge Madia”, in materia di riordino del sistema delle autorizzazioni amministrative – Quesiti in materia di regime delle attività di intrattenimento e pubblico spettacolo” il Ministero dello Sviluppo Economico, divulga i chiarimenti forniti dal Ministero dell’Interno in materia di attività di intrattenimento e di pubblico spettacolo a seguito della entrata in vigore delle disposizioni di semplificazione in materia di avvio e di esercizio dell’attività d’impresa.
In particolare il Ministero fornisce chiarimenti in merito:
   - all’applicazione delle nuove disposizioni, che prevedono il regime dell’autorizzazione anche per le attività di spettacolo o trattenimento presso locali e impianti con capienza complessiva pari o inferiore a 200 persone;
   - al significato della previsione che prevede l’obbligo del SUAP, che riceve l’istanza diretta alla medesima autorizzazione, di trasmetterla alla Commissione di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo pure quando essa sia accompagnata da una relazione asseverata ai sensi dell’articolo 141, comma 2 del Regolamento TULPS;
   - alle sale da gioco soggette a licenza comunale ex articolo 86 (c.d. sale con apparecchi da gioco Slot o AWP), sottoposte ad autorizzazione comunale, laddove è ampiamente diffusa la prassi dell’apertura previa presentazione di una mera SCIA.
Il Ministero evidenzia come allo stato attuale, non sembra comunque possibile dare ai quesiti qui proposti una risposa con i caratteri della certezza e delle definitività, vista l’insufficienza del tenore letterale delle relative disposizioni, e auspica un riordino complessivo della materia (commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: IL D.P.R. 13.02.2017 N. 31 - LA SEMPLIFICAZIONE DEI PROCEDIMENTI DI TUTELA PAESAGGISTICA - IL RACCORDO CON I PROVVEDIMENTI EDILIZI (ANCI, aprile 2017).

APPALTI: Oggetto: Abrogazione dei voucher e modifiche alla responsabilità solidale negli appalti – D.L. n. 25/2017 (ANCE di Bergamo, circolare 24.03.2017 n. 70).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Nuove proroghe in materia di sicurezza e di antincendio (ANCE di Bergamo, circolare 24.03.2017 n. 68).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 16.05.2017, "Nomina dei sostituti di n. 2 componenti la «Commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche», esperti, rispettivamente, in geotecnica sismica e in geologia sismica (l.r. 33/2015, art. 4, comma 2 – D.g.r. 5001/2016, all. L)" (deliberazione G.R. 12.05.2017 n. 6589).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 16.05.2017, "Aggiornamento albo delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – Art. 57)" (decreto D.S. 10.05.2017 n. 5242).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 dell'08.05.2017, "Terzo aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 04.05.2017 n. 4925).

APPALTI: G.U. 05.05.2017 n. 103, suppl. ord. n. 22/L, "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016 n. 50" (D.Lgs. 19.04.2017 n. 56).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 04.05.2017, "Interruzione, per mesi sei, della decorrenza del periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13, comma 2, secondo periodo, della l.r. 33/2015 e avviato, a far data dal 04.05.2016, dal decreto n. 3809/2016, fino alla scadenza del quale è consentito il deposito della documentazione di cui all’art. 6 della medesima l.r. 33/2015 in formato sia elettronico che cartaceo" (decreto D.U.O. 27.04.2017 n. 4733).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 27.04.2017, "Istituzione dell’elenco dei membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs. 42/2017, allegato 2, parte B, punto 2, e definizione delle modalità per l’inserimento nell’elenco e per l’utilizzo di detto elenco per la costituzione delle commissioni d’esame" (decreto D.U.O. 21.04.2017 n. 4578).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 27.04.2017, "Presentazione da parte dei tecnici competenti in acustica riconosciuti da Regione Lombardia con il regime previgente al d.lgs. 42/2017 delle istanze per l’inserimento nell’elenco nazionale di cui al d.lgs. 42/2017" (comunicato regionale 20.04.2017 n. 66).

APPALTI - ENTI LOCALI: G.U. 22.04.2017 n. 94 "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 17.03.2017, n. 25, convertito, senza modificazioni, dalla legge 20.04.2017, n. 49, recante: “Disposizioni urgenti per l’abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonché per la modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in materia di appalti".".

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO: G.U. 21.04.2017 n. 93 "Testo del decreto-legge 20.02.2017, n. 14, coordinato con la legge di conversione 18.04.2017, n. 48, recante: «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»".

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 15 del 14.04.2017, "Regolamento di attuazione delle disposizioni di cui al Titolo VIII, Capo II, della l.r. 33/2009 recante norme relative alla tutela degli animali di affezione e prevenzione del randagismo" (regolamento regionale 13.04.2017 n. 2).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 14.04.2017, "Pubblicazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 4, comma 2 del d.p.r. 13.02.2017, dell’elenco dei provvedimenti di tutela paesaggistica dotati di criteri di gestione degli interventi" (comunicato regionale 12.04.2017 n. 62).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 13.04.2017, "Approvazione dei criteri e delle modalità per la classificazione delle strade regionali (SR), ai sensi dell’art. 2, comma 2-quater, della l.r. 04.05.2001 n. 9" (deliberazione G.R. 10.04.2017 n. 6485).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 13.04.2017, "Determinazione dei criteri di gestione obbligatori e delle buone condizioni agronomiche ed ambientali, ai sensi del regolamento (UE) n. 1306/2013. Modifiche e integrazioni alla d.g.r. X/3351 del 01.04.2015 e smi. regime di condizionalità per l’anno 2017" (deliberazione G.R. 10.04.2017 n. 6480).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 11.04.2017 n. 85, "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2015 e delle variazioni percentuali annuali, in aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento, relative all’anno 2016, ai fini della determinazione delle compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 31.03.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 10.04.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.03.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 04.04.2017 n. 53).

ENTI LOCALI: G.U. 04.04.2017 n. 79 "Misure minime di sicurezza ICT per le pubbliche amministrazioni (Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 01.08.2015)" (Agenzia per l'Italia Digitale, circolare 17.03.2017 n. 1/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 04.04.2017 n. 79 "Disposizioni in materia di armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico, a norma dell’articolo 19, comma 2, lettere a) , b) , c) , d) , e) , f) e h) della legge 30.10.2014, n. 161" (D.Lgs. 17.02.2017 n. 42).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 13 del 30.03.2017, "Modifiche alla legge regionale 11.12.2006, n. 24 (Norme per la prevenzione e la riduzione delle emissioni in atmosfera a tutela della salute e dell’ambiente) e alla legge regionale 31.07.2013, n. 5 (Assestamento al bilancio per l’esercizio finanziario 2013 ed al bilancio pluriennale 2013/2015 a legislazione vigente e programmatico – I provvedimento di variazione con modifiche di leggi regionali)" (L.R. 27.03.2017 n. 8).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: R. De Nictolis, Le sentenze del giudice amministrativo in forma semplificata. Tra mito e realtà (08.05.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. La sentenza in “forma semplificata”, economia, tempo, “risorsa giustizia”. - 2. Le questioni. - 3. Il “nomen iuris”: la sentenza in “forma semplificata” o “sentenza breve “ e “le altre”. - 4. Tecnica di redazione della sentenza “classica” e della sentenza “in forma semplificata”. - 4.1. Quadro delle fonti. - 4.2. L’omissione dei motivi di ricorso e delle domande di parte. - 4.3. Il “sintetico riferimento a un precedente conforme”. - 4.4. Il “mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie”. - 4.5. “Il sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”. La “taglia giusta” della sentenza: il contenuto sostanziale minimo essenziale, affinché sia rispettato il diritto costituzionale di difesa e l’assorbimento processuale. - 4.6. La “taglia giusta”: portata endoprocessuale ed extraprocessuale, autosufficienza, funzione nomofilattica della sentenza. - 5. Il bilanciamento tra sinteticità e chiarezza della sentenza. - 6. Lo “stile” della sentenza. - 7. La sentenza “in forma semplificata” tra mito e realtà: lo “strano caso” del rito appalti. - 8. Conclusione n. 1) La “taglia giusta” della sentenza non si presta a schematizzazioni legislative, occorrono misure organizzative. - 9. Conclusione n. 2) La sentenza in forma semplificata non garantisce la ragionevole durata del processo. Le “esternalità negative” dei riti veloci.

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Perna, Accesso e trasparenza: due linee destinate ad incontrarsi? (14.04.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Accesso e trasparenza: cenni introduttivi. 2. L’accesso documentale e l’accessibilità agli atti amministrativi. 3. L’accesso civico. 3.1 L’accesso civico “proprio” e il diritto alla conoscibilità. 3.2. L’accesso civico “generalizzato”: dal bisogno di conoscere al diritto di conoscere. 4. Accesso e trasparenza: osservazioni conclusive.

APPALTI: F. Gambardella, Procedura negoziata senza bando e consultazioni preliminari di mercato. Intorno a una recente proposta di Linee guida dell’ANAC (05.04.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La procedura negoziata senza bando per forniture e servizi infungibili e il rischio di lock-in per le stazioni appaltanti: le giuste preoccupazioni dell’ANAC. 2. Le consultazioni preliminari di mercato: caratteri e finalità dell’istituto. 3. Consultazioni preliminari di mercato e tenuta delle dinamiche concorrenziali: le scelte della pubblica amministrazione e i rischi per le imprese. 4. Brevi conclusioni: l’opportunità di un intervento di regolazione intorno alle consultazioni preliminari di mercato. 

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Follieri, Decisione amministrativa e atto vincolato (05.04.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. L’atto amministrativo vincolato come atto senza decisione. - 2. “Scetticismo sulla vincolatezza”. - 3. L’atto vincolato come atto puramente costitutivo. - 4. L’atto vincolato come decisione. - 5. Conclusioni.

CORTE DEI CONTI

ATTI AMMINISTRATIVI: Delibera illegittima se manca il parere tecnico e contabile.
La mancata acquisizione dei parere di regolarità tecnica e contabile nelle deliberazioni di Giunta e di Consiglio (che non siano meri atti di indirizzo) determina l'illegittimità degli atti. La norma generale si applica anche al caso di proposta di transazione formulata da un mediatore esterno all'ente.
Il caso
Con il parere 11.04.2017 n. 62 la Corte dei conti, Sezione di controllo dell'Emilia Romagna, affronta il tema legato alla necessità di acquisizione dei pareri di regolarità contabile e tecnica sugli atti deliberativi, su sollecitazione di un Comune che, a fronte della mediazione avviata dal giudice, vorrebbe accogliere, con proprio atto deliberativo, la soluzione transattiva formulata dal soggetto terzo, senza acquisire preventivamente i pareri degli uffici e dell'avvocatura interna.
Ciò sulla base della circostanza, argomenta il Comune, che la proposta di transazione è formulata da un soggetto terzo nell'ambito di un procedimento finalizzato a ridurre il contenzioso in sede giurisdizionale, in assenza, si presume, di situazioni conflittuali e dunque nel rispetto degli interessi pubblici e dell'esigenza di corretta gestione delle pubbliche risorse.
La decisione
Secondo la prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, la mancanza dei pareri di regolarità tecnica e di contabilità costituirebbe una mera irregolarità. Tuttavia, rileva la Corte dei conti, l'irregolarità in generale ricorre in presenza di una lieve anormalità del provvedimento amministrativo, a fronte di un vizio marginale, allorché la diversità della forma o la non perfetta osservanza di un adempimento endoprocedimentale non siano tali da impedire il concreto raggiungimento dell'interesse pubblico tutelato dalla norma. Ciò non sembra potersi affermare lì ove manchino i pareri di regolarità tecnica e contabile.
Tali pareri, infatti, costituiscono atti procedimentali obbligatori ai sensi dell'articolo 49 del Tuel, che li colloca al centro del sistema, anche per ovviare alla mancanza di competenza tecnica dei componenti di Giunta e Consiglio. Inoltre, in forza dell'articolo 147-bis del Tuel, il controllo preventivo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell'atto, proprio dai pareri di regolarità tecnica e contabile.
Il primo deve attestare la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa, cioè sia la sua conformità alla normativa, che la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate. Con il parere di regolarità contabile invece è stato assegnato al responsabile di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente.
Riguardo, infine, al ruolo dell'avvocatura interna, i giudici contabili hanno già espresso l'avviso per cui, sebbene, per gli enti territoriali non sia previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di transazione, ove l'ente sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita della questione in analogia a quanto prevede per le amministrazioni dello Stato l'articolo 14 della legge di contabilità generale (deliberazione Corte dei conti controllo Piemonte n. 20/2012).
La delibera in analisi esprime il concetto in modo ancor più netto, poiché il «sarebbe opportuno», che leggiamo nella deliberazione della Sezione Piemonte, diventa un «sicuramente opportuna», rendendo ancor più difficile agli enti locali discostarsi dall'indicazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.04.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI: I pareri di regolarità tecnica e contabile devono necessariamente essere resi, costituendo presupposti necessari delle deliberazioni sottoposte alla Giunta e al Consiglio, ad eccezione di quelle che costituiscono meri atti di indirizzo.
L’omessa acquisizione dei pareri in argomento, pertanto, è tale da determinare l’illegittimità dell’atto, non potendosi, per l’importante funzione ad essi assegnata dal legislatore, ritenere che la loro mancanza non sia tale da impedire il concreto raggiungimento dell’interesse pubblico volta per volta tutelato dalle norme.

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La circostanza che la deliberazione abbia ad oggetto una proposta di transazione formulata da un mediatore, soggetto terzo, il quale offre garanzie di imparzialità, azionata a seguito di invito del giudice, non è tale da poter consentire una deroga alla norma generale, la quale prevede la necessaria acquisizione dei pareri di regolarità tecnico e contabile. Il ruolo del mediatore, infatti, non esclude l’esigenza di un approccio prudente, finalizzato ad evitare un depauperamento delle pubbliche risorse, che deve sempre essere assicurato dalle pubbliche amministrazioni nell’utilizzare strumenti transattivi e di composizione delle liti.

Né, ai fini della resa del parere di regolarità contabile, rileva come la deliberazione abbia ad oggetto solo un’entrata per il Comune e nessuna spesa, giacché come previsto dal più volte richiamato art. 49 del tuel, detto parere dev’essere reso ogniqualvolta l’atto comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria, o sul patrimonio dell’ente.
In merito, invece, al parere dell’Avvocatura interna, non vi è motivo per discostarsi da quanto affermato in generale per le transazioni dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte la quale ha ritenuto l’acquisizione dello stesso non obbligatoria, ma sicuramente opportuna.
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Il Sindaco del Comune di Zocca (MO) ha rivolto a questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto un’ipotesi di transazione.
In particolare, il Sindaco istante descrive dettagliatamente una controversia in corso nei confronti della He. spa, nell’ambito della quale il citato ente locale ha ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti della stessa. La He. ha quindi instaurato un giudizio in opposizione, ad esito del quale l’A.G. ha invitato le parti a dare avvio ad una mediazione.
Non riuscendo a trovare un accordo, le parti hanno autorizzato il mediatore a individuare una proposta di soluzione transattiva, poi effettivamente formulata.
Il Sindaco di Zocca chiede se il Comune possa deliberare l’accoglimento della proposta del mediatore, anche senza acquisire preventivamente i pareri degli uffici e dell’avvocatura interna; ciò, sulla base della circostanza che detta proposta è stata formulata da un soggetto terzo, nell’ambito di un procedimento finalizzato a ridurre il contenzioso in sede giurisdizionale, e che si deve presumere l’assenza di sospetti di lesione degli interessi pubblici, nonché che sia rispettosa dell’esigenza di corretta gestione delle pubbliche risorse.
Evidenzia, infine, come la proposta comporti solo un’entrata per il Comune e nessuna spesa.
...
4. Preliminarmente, occorre individuare il quadro normativo rilevante ai fini del parere.
L’art. 49 del tuel (recante “Pareri dei responsabili dei servizi”), come modificato dall’art. 3 del d.l. n. 174/2012, recante “Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213”, prescrive: “1. Su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile. I pareri sono inseriti nella deliberazione.
2. Nel caso in cui l'ente non abbia i responsabili dei servizi, il parere è espresso dal segretario dell'ente, in relazione alle sue competenze.
3. I soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi.
4. Ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri di cui al presente articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione
”.
Il primo comma del successivo art. 147-bis del tuel (rubricato “Controllo di regolarità amministrativa e contabile”), inserito dal citato d.l. n. 174/2012, stabilisce quanto segue: “1. Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell’atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa. Il controllo contabile è effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria”.
5. Individuato il quadro normativo, occorre verificare se vi siano precedenti giurisprudenziali in materia.
La funzione del parere di regolarità contabile e l’estensione della portata dello stesso è esaurientemente ricostruita dalla Sezione regionale di controllo per le Marche, con parere 05.06.2013 n. 51, al quale si rimanda per un approfondimento della materia.
In essa si evidenzia, tra l’altro, come il legislatore statale, mediante le modifiche apportate dal d.l. n. 174/2012 all’art. 49 del tuel, in particolare sostituendo l’espressione “qualora comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata” con “qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’ente”, abbia ampliato i casi in cui è necessario acquisire il parere di regolarità contabile, al contempo assegnando, al responsabile di ragioneria, un ruolo centrale, a tutela degli equilibri di bilancio dell’ente.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato negli ultimi anni si è consolidata nel ritenere che i pareri di regolarità tecnica e contabile non costituirebbero requisiti di legittimità delle deliberazioni alle quali si riferiscono, così che l’eventuale mancanza degli stessi determinerebbe una mera irregolarità, tale da non influire sulla legittimità e sulla validità delle deliberazioni (ex multis, C. di S., Sez. V, sentenza 08.04.2014 n. 1663). Detta posizione è altresì richiamata dalla Sezione regionale di controllo per la Basilicata, con deliberazione 15.05.2014 n. 79 secondo la quale la mancanza dei pareri in argomento non avrebbe riflessi sulla validità delle deliberazioni.
Passando alla questione concernente il ruolo dell’avvocatura interna rispetto ad un procedimento relativo all’approvazione di una proposta di transazione da parte di un ente territoriale, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte, con parere 28.02.2012 n. 20 ha espresso l’avviso secondo cui “
per gli enti territoriali non è previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di transazione, ma, ove il medesimo sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita della questione in analogia a quanto prevede per le amministrazioni dello Stato l’art. 14 della legge di contabilità generale (R.D. n. 2440/1923)”.
6. È ora possibile entrare nel merito.
Come sopra ricordato, secondo la prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato la mancanza dei pareri di regolarità tecnica e di contabilità costituirebbe una mera irregolarità.
Tuttavia, l’irregolarità in generale ricorre in presenza di una lieve anormalità del provvedimento amministrativo, a fronte di un vizio marginale, allorché la diversità della forma o la non perfetta osservanza di un adempimento endoprocedimentale non siano tali da impedire il concreto raggiungimento dell’interesse pubblico tutelato dalla norma. Ciò non sembra potersi affermare lì ove manchino i pareri di regolarità tecnica e contabile.
Tali pareri, infatti, costituiscono atti procedimentali obbligatori, poiché il legislatore, all’art. 49, ha previsto che “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio […] deve essere richiesto il parere”; gli stessi sono stati posti al centro del sistema, anche per ovviare alla mancanza di competenza tecnica dei componenti di Giunta e Consiglio.
Si aggiunga che il citato art. 49, a seguito della novella attuata mediante il d.l. n. 174/2012, dev’essere letto unitamente all’art. 147-bis, introdotto nell’ambito di tale riforma, in forza del quale il controllo preventivo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell’atto, proprio dai pareri di regolarità tecnica e contabile. Pertanto, i pareri de quibus assicurano anche il controllo preventivo sugli atti di Giunta e Consiglio.
L’importanza del parere di regolarità contabile, come ridisegnato dal legislatore mediante il richiamato d.l. n. 174/2012, è stata ricordata dalla Sezione regionale di controllo per le Marche, con parere 05.06.2013 n. 51, che ha evidenziato come mediante esso sia stato assegnato al responsabile di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell’ente. Il rilievo del parere di regolarità tecnica, invece, emerge altresì dal nuovo art. 147-bis, che ne ha specificato il contenuto, stabilendo come lo stesso debba attestare la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa, cioè sia la sua conformità alla normativa, che la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
È vero che il comma 4, dell’art. 49, del tuel, prevede la possibilità per Giunta e Consiglio di non conformarsi ai pareri in analisi “dandone adeguata motivazione nel testo della deliberazione”, ma non potrebbe essere altrimenti, in quanto in caso contrario i responsabili dei servizi in questione diventerebbero, di fatto, amministratori.
Per quanto sopra esposto, ad avviso di questo Collegio
i pareri di regolarità tecnica e contabile devono necessariamente essere resi, costituendo presupposti necessari delle deliberazioni sottoposte alla Giunta e al Consiglio, ad eccezione di quelle che costituiscono meri atti di indirizzo. L’omessa acquisizione dei pareri in argomento, pertanto, è tale da determinare l’illegittimità dell’atto, non potendosi, per l’importante funzione ad essi assegnata dal legislatore, ritenere che la loro mancanza non sia tale da impedire il concreto raggiungimento dell’interesse pubblico volta per volta tutelato dalle norme.
7. Per quanto più specificamente concerne la richiesta di parere formulata dal Sindaco istante, cioè se il Comune possa deliberare di accogliere la proposta del mediatore anche senza acquisire preventivamente i pareri degli uffici e dell’avvocatura interna, ad avviso di questa Sezione,
la circostanza che la deliberazione abbia ad oggetto una proposta di transazione formulata da un mediatore, soggetto terzo, il quale offre garanzie di imparzialità, azionata a seguito di invito del giudice, non è tale da poter consentire una deroga alla norma generale, la quale prevede la necessaria acquisizione dei pareri di regolarità tecnico e contabile. Il ruolo del mediatore, infatti, non esclude l’esigenza di un approccio prudente, finalizzato ad evitare un depauperamento delle pubbliche risorse, che deve sempre essere assicurato dalle pubbliche amministrazioni nell’utilizzare strumenti transattivi e di composizione delle liti.
Né, ai fini della resa del parere di regolarità contabile, rileva come la deliberazione abbia ad oggetto solo un’entrata per il Comune e nessuna spesa, giacché come previsto dal più volte richiamato art. 49 del tuel, detto parere dev’essere reso ogniqualvolta l’atto comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria, o sul patrimonio dell’ente.
In merito, invece, al parere dell’Avvocatura interna, non vi è motivo per discostarsi da quanto affermato in generale per le transazioni dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte, con il parere 28.02.2012 n. 20, la quale ha ritenuto l’acquisizione dello stesso non obbligatoria, ma sicuramente opportuna (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 11.04.2017 n. 62).

ATTI AMMINISTRATIVIVa ricordato che:
   -
di norma anche gli enti pubblici possono transigere le controversie delle quali siano parte ex art. 1965 c.c.;
   -
i limiti del ricorso alla transazione da parte degli enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell’ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell’oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione.
Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che,
nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici, l’attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell’interesse intestato all’ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell’azione amministrativa;
   -
la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa.
Uno degli elementi che l’ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all’incertezza del giudizio, intesa quest’ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;

   -
ai fini dell’ammissibilità della transazione è necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata.
Di conseguenza il contrasto tra l’affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all’oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;

   -
la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art. 1966, co. 2 cc) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge;
   -
requisito essenziale dell’accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in forza dell’art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico;

   - inoltre,
costituisce transazione solo quell’accordo che cade su un rapporto che, oltre a presentare, almeno nell'opinione delle parti, carattere di incertezza, è contrassegnato dalla reciprocità delle concessioni. Oggetto della transazione, quindi, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o possa dar luogo e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni.
Quanto ai termini (soggetto e oggetto) del contratto di transazione va ancora rammentato che
i soggetti devono essere dotati non solo di capacità giuridica ma devono avere anche la legittimazione intesa come potere di agire in ordine ai rapporti sui quali incide la transazione.
Sotto questo profilo vengono in rilievo per gli enti pubblici le procedure che prevedono le modalità di formazione ed espressione della volontà amministrativa.
Per gli enti territoriali non è previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di transazione, ma, ove il medesimo sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita della questione in analogia a quanto prevede per le amministrazioni dello Stato l’art. 14 della legge di contabilità generale (R.D. n. 2440/1923).
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La Regione Piemonte, con nota a firma del Presidente della Giunta, ha formulato una richiesta di parere relativamente alla “ragionevolezza” di addivenire alla transazione di un contenzioso giudiziario in essere con un Istituto di credito per “esigenze di certezza in ordine agli importi da inserire a Bilancio.
A tal fine espone che il detto Istituto, dopo avere garantito nel tempo una anticipazione di cassa ad un soggetto erogatore anche di prestazioni sanitarie, ha citato in giudizio la Regione per il recupero delle somme anticipate. Il Giudice nella sentenza non ha disposto il rimborso, ma ha ravvisato in capo alla Regione una responsabilità extracontrattuale per un importo inferiore a quello oggetto dell’anticipazione de qua. L’Istituto ha impugnato la sentenza insistendo nel richiedere l’importo originario dell’anticipazione e, nel contempo, ha proposto una transazione della lite.
I termini di tale proposta transattiva vengono sinteticamente riferiti come segue.
L’Istituto rinuncerebbe al risarcimento dei danni da responsabilità extracontrattuale, mentre la Regione riconoscerebbe il debito conseguente alla spesa sanitaria anticipata dall’Istituto medesimo a titolo di anticipazione bancaria, con relativi interessi e piano di ammortamento.
...
...questa Sezione non può quindi pronunciarsi in ordine alla “ragionevolezza”, se intesa in termini di opportunità e di convenienza per l’Ente, della transazione, di cui vengono rappresentati i profili essenziali, di un contenzioso giudiziario pendente tra la Regione e un istituto di credito in ordine ad una anticipazione bancaria concessa ad un soggetto erogatore di prestazioni sanitarie.
Astraendo, invece, dalla specificità del caso sottoposto all’esame ed escludendosi, conseguentemente, qualsiasi commistione con le scelte gestionali di esclusiva competenza e responsabilità degli organi dell’Ente,
la richiesta può essere ritenuta ammissibile sotto il profilo dell’individuazione, in linea generale, di limiti all’applicabilità della transazione agli enti pubblici.
3. Sull’argomento questa Sezione si è già pronunciata (cfr. parere 28.09.2007 n. 15) e così altre (cfr. ad es. Sez. controllo Lombardia 16.04.2008 n. 26 e 18.12.2009 n. 1116), ma sempre con riferimento a profili di carattere generale (il primo parere verte sulla equiparazione dei crediti derivanti da sentenza di condanna del giudice contabile ai crediti tributari ai fini della praticabilità della c.d. transazione fiscale, il secondo e il terzo sulla ammissibilità del contratto di transazione per gli enti pubblici in generale e sulla transigibilità dei crediti derivanti dall’esercizio della potestas puniendi dell’Amministrazione).
In particolare (cfr. Sez. Lombardia n. 26/2008 e n. 1116/2009 cit.), va ricordato che:
   -
di norma anche gli enti pubblici possono transigere le controversie delle quali siano parte ex art. 1965 c.c.;
   -
i limiti del ricorso alla transazione da parte degli enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell’ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell’oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione.
Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che,
nell’esercizio dei propri poteri pubblicistici, l’attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell’interesse intestato all’ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del potere dell’Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell’interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell’azione amministrativa;
   -
la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell’oggetto della stessa spetta all’Amministrazione nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa.
Uno degli elementi che l’ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all’incertezza del giudizio, intesa quest’ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;

   -
ai fini dell’ammissibilità della transazione è necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata.
Di conseguenza il contrasto tra l’affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all’oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;

   -
la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art. 1966, co. 2 cc) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E’ nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge;
   -
requisito essenziale dell’accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in forza dell’art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico;
   - inoltre, come affermato dalla giurisprudenza civile (cfr., ex multis, Cass. 06.05.2003 n. 6861),
costituisce transazione solo quell’accordo che cade su un rapporto che, oltre a presentare, almeno nell'opinione delle parti, carattere di incertezza, è contrassegnato dalla reciprocità delle concessioni. Oggetto della transazione, quindi, non è il rapporto o la situazione giuridica cui si riferisce la discorde valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o possa dar luogo e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni.
Quanto ai termini (soggetto e oggetto) del contratto di transazione va ancora rammentato che
i soggetti devono essere dotati non solo di capacità giuridica ma devono avere anche la legittimazione intesa come potere di agire in ordine ai rapporti sui quali incide la transazione.
Sotto questo profilo vengono in rilievo per gli enti pubblici le procedure che prevedono le modalità di formazione ed espressione della volontà amministrativa.
Per gli enti territoriali non è previsto un particolare iter procedimentale per gli atti di transazione, ma, ove il medesimo sia dotato di una propria avvocatura, sarebbe opportuno che questa fosse investita della questione in analogia a quanto prevede per le amministrazioni dello Stato l’art. 14 della legge di contabilità generale (R.D. n. 2440/1923) (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 28.02.2012 n. 20).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: determinazione n. 241 dell’08.03.2017 “Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016” – sospensione dell’efficacia limitatamente alla pubblicazione dei dati di cui all’art. 14, co. 1, lett. c) ed f), del d.lgs. 33/2013 per i titolari di incarichi dirigenziali (comunicato del Presidente 12.04.2017 unitamente alla delibera 12.04.2017 n. 382 - link a www.anticorruzione.it).
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Trasparenza - Sospeso l’obbligo di pubblicare redditi e patrimoni dei dirigenti pubblici.
Con decisione assunta il 12 aprile il Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha sospeso l’efficacia delle Linee guida sugli obblighi di pubblicazione dei dirigenti pubblici, relativamente a compensi, spese per viaggi di servizio, situazione patrimoniale e reddituale. Tali previsioni, stabilite dal dlgs. 97/2016 (cd. “decreto Trasparenza”), erano già state oggetto di una ordinanza cautelare del Tar del Lazio dello scorso 2 marzo limitatamente all’Autorità Garante della privacy. Con la delibera dell’Anac, la sospensione viene estesa a tutte le pubbliche amministrazioni.

INCARICHI PROFESSIONALIPer l’Anac appalto di servizi per tutte le attività dei legali.
Tutte le attività professionali legali svolte per le pubbliche amministrazioni rientrano nel concetto generale di appalto di servizi legali e alcune tipologie di pareri possono essere richiesti anche ad altri professionisti.

L'Autorità nazionale anticorruzione ha sottoposto a consultazione (del 10.04.2017) (con osservazioni che possono essere presentate sino al 10 maggio) uno schema di atto di regolazione finalizzato a risolvere le problematiche applicative delle norme del codice sull'affidamento di tali particolari attività, con particolare riferimento a quelle di gestione del contenzioso.
Il concetto di appalto di servizio legale
L'Anac evidenzia anzitutto come debba ritenersi superata la posizione interpretativa formatasi in precedenza, in vigenza del Dlgs 163/2006, in base alla quale il patrocinio legale, cioè il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente, fosse inquadrabile nell'ambito della prestazione d'opera intellettuale, distinguendolo dai servizi legali, intesi come attività più complesse e con differente modulo organizzativo.
Il documento posto in consultazione evidenzia, invece, come tale distinzione non possa più ritenersi attuale, in quanto, a seguito del recepimento delle direttive comunitarie, la nozione di appalto è molto lata e ben più ampia della nozione italiana, come desunta dal codice civile, e in questo quadro il legislatore europeo ha ricondotto ogni attività professionale legale in favore delle pubbliche amministrazioni nel concetto generale di appalto di servizio legale, non operando alcuna distinzione tra incarico singolo e occasionale, eseguito dal professionista con lavoro prevalentemente proprio (senza una necessaria organizzazione) e incarico di assistenza e consulenza giuridica eseguita con organizzazione di mezzi e personale.
La gestione del contenzioso in sede giudiziale e stragiudiziale
L'Anac afferma pertanto che, indipendentemente dalla qualificazione civilistica del contratto di affidamento dell'incarico per la prestazione di servizi legali, l'affidamento deve essere ricondotto alla categoria degli appalti di servizi e, a seconda della tipologia lo stesso dovrà essere inquadrato nell'elenco di cui all'articolo 17 del Dlgs 50/2016 oppure nella categoria residuale di cui all'Allegato IX.
L'esclusione dall'applicazione del codice riguarda non solo la gestione del contenzioso in sede giudiziale e stragiudiziale, ma anche i servizi di consulenza legale prodromici ad un'attività di difesa in un procedimento di arbitrato, di conciliazione o giurisdizionale, prestati da avvocati e necessari per valutare la possibilità di tutela di una propria posizione giuridica soggettiva attraverso la promozione di uno dei procedimenti in sede giurisdizionale o stragiudiziale o per valutare l'eventuale fondatezza di una pretesa da altri vantata nei propri confronti e le possibili strategie difensive (compresa l'opportunità di pervenire ad una conciliazione).
Alcune specificità
L'affidamento dei servizi legali esclusi dall'applicazione del codice deve avvenire comunque nel rispetto dei principi comunitari (secondo quanto indicati dall'articolo 4 del Dlgs 50/2016), potendo considerare anche alcune specificità (es. per l'affidamento di un servizio di rappresentanza in giudizio, la presenza di un pregresso contenzioso che si è concluso con esito positivo per la stessa amministrazione).
L'Anac precisa come per tali affidamenti le amministrazioni debbano richiedere preventivi per una valutazione comparativa, potendo selezionare gli avvocati da elenchi previamente costituiti mediante una procedura trasparente e aperta, potendo così restringere tra i soggetti iscritti il confronto concorrenziale al momento dell'affidamento. Gli elenchi devono essere costituiti in base a un avviso pubblicato sul sito istituzionale dell'amministrazione e possono essere eventualmente suddiviso per settore di competenza.
Nell'ipotesi di costituzioni in giudizio impellenti e non conciliabili con i tempi sia pur stretti e semplificati richiesti dall'attuazione dei principi comunitari, l'autorità considera ammissibile un'estrazione a sorte dall'elenco o una scelta diretta, ma motivata.
Il documento di consultazione precisa anche gli elementi interpretativi per l'individuazione dei servizi legali compresi nell'allegato IX, sottoposti alle regole di affidamento previste dal codice dei contratti pubblici, con le possibilità di semplificazione previste dagli articoli 142 e 143. In tale novero secondo l'Anac rientrano soprattutto quei servizi che si realizzano prevalentemente mediante la produzione di pareri e di atti di assistenza legale non connessa alla difesa in giudizio.
Si tratta, quindi, di attività stragiudiziale non riservata agli avvocati, ma che può essere svolta anche da altre categorie professionali dotate di formazione equivalente (consulenti del lavoro, commercialisti, eccetera) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.04.2017).

INCARICHI PROFESSIONALI: No all'affidamento fiduciario ai legali. L'Anac sull'assegnazione dei servizi.
Gli incarichi agli avvocati non possono essere assegnati intuitu personae per via fiduciaria, né se si tratti della difesa in giudizio, né se si tratti di altri servizi legali, come le consulenze. Inoltre, la circostanza che un servizio possa essere configurato come prestazione d'opera individuale non può essere sufficiente per escludere l'applicazione dei principi del diritto comunitario, che ispirano le regole contenute nel codice dei contratti.
L'Anac, con il documento sui servizi legali posto in consultazione (del 10.04.2017) sul suo sito allo scopo di emanare uno specifico atto di regolazione, interviene in maniera chiara e definitiva sull'annosa questione dell'assegnazione dei servizi legali.
Secondo l'Autorità «non può più considerarsi attuale» la teoria, sostenuta anche dal Consiglio di stato con la sentenza della Sezione V, 11.05.2012, n. 2730 secondo cui si dovrebbe distinguere il conferimento di un singolo incarico di patrocinio legale dall'attività di assistenza e consulenza giuridica. Il primo caso era sottratto alla disciplina del dlgs. n. 163/2006 in quanto.
Secondo tale teoria, la difesa in giudizio sarebbe un «contratto d'opera intellettuale», nell'ambito del quale il legale opera in via principalmente personale e con lavoro proprio senza organizzazione imprenditoriale, sicché sfuggirebbe alla qualificazione di «appalto». Invece, l'attività di assistenza e consulenza giuridica, comprendente l'organizzazione di una serie di servizi legali tra cui plurime difese in giudizio, in quanto caratterizzata dalla complessità dell'oggetto e dalla predeterminazione della durata, sarebbe un appalto e, quindi soggetta alle regole codicistiche.
Il documento posto in consultazione dall'Anac è tranciante nel negare che col dlgs 50/2016 tale distinzione (molto dubbia anche nel precedente regime normativo) sia ulteriormente applicabile e che, quindi, si possano affidare gli incarichi di difesa in giudizio per via fiduciaria. L'Anac insiste sulla circostanza che il codice dei contratti recepisce le direttive comunitarie, a loro volta espressione di un ordinamento che offre dell'appalto un'accezione lata e molto più ampia di quella definibile dall'ordinamento civilistico interno e tale da ricomprendere, nella sostanza, ogni prestazione di servizi, anche se resa da persone fisiche con lavoro proprio. Dunque, le «prestazioni d'opera intellettuale» finiscono per restare attratte nella disciplina dei contratti.
In particolare, spiega l'Anac, la difesa in giudizio non può essere regolata dal codice civile, ma dall'articolo 17 del dlgs 165/2001. Pertanto, la difesa in giudizio è da considerare senza alcun dubbio come «appalto di servizi», anche se escluso dall'applicazione delle regole puntuali procedurali previste dal codice e, dunque, soggetto solo ai principi enunciati dall'articolo 4 del codice. L'attuazione dei quali impone comunque una scelta motivata, trasparente e competitiva.
Il documento in consultazione propone un'interessante definizione dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, il rispetto dei quali impedisce affidamenti intuitu personae. In particolare, il principio di imparzialità fa sì che «la stazione appaltante maturi la sua decisione finale da una posizione di terzietà rispetto a tutti i concorrenti, senza essere indebitamente influenzata nelle sue decisioni da interessi politici di parte»: il che esclude radicalmente gli affidamenti fiduciari.
L'Anac suggerisce di raccogliere manifestazioni di interesse degli avvocati ad essere iscritti in albi sempre aperti, ai quali attingere nel rispetto dei criteri di rotazione per attivare una competizione concorrenziale. La procedura selettiva dovrà rispettare criteri qualitativi, ma anche inevitabilmente economici: l'Anac considera inevitabile, nel rispetto del principio di economicità, chiedere anche un ribasso sulla base di gara, determinabile in base all'esame di incarichi analoghi conferiti dalle p.a. o dalle tariffe professionali vigenti.
Molte amministrazioni si mostrano restie a procedure selettive per i legali, soprattutto perché preoccupate da non infrequenti casi nei quali occorre procedere con urgenza. L'Anac evidenzia che ciò non crea alcun problema: l'urgenza può consentire un affidamento diretto tramite estrazione a sorte dall'albo eventualmente costituito dalla singola pubblica amministrazione o una scelta diretta ma motivata (del resto, è applicabile anche l'articolo 63 del codice).
Per questi affidamenti, l'Anac ritiene indispensabile verificare i requisiti generali dei legali, in applicazione dell'articolo 80 del codice, sia pure in forma attenuata. Gli «altri servizi legali», tra i quali i servizi di certificazione o di consulenza, sono indicati dall'allegato IX e, pertanto, sono ricompresi nella disciplina del codice, con una soglia comunitaria di 750.000 euro, in quanto si applicano gli articoli da 140 e 144 del codice, se sopra soglia. Si può applicare l'articolo 32, invece, se sotto soglia (articolo ItaliaOggi del 12.04.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di prevenzione della corruzione (delibera 29.03.2017 n. 330 - link a www.anticorruzione.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza sul rispetto degli obblighi di pubblicazione di cui al decreto legislativo 14.03.2013 n. 33 (delibera 29.03.2017 n. 329 - link a www.anticorruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi nonché sul rispetto delle regole di comportamento dei pubblici funzionari (delibera 29.03.2017 n. 328 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Comune di Forlì – quesito giuridico acquisito al protocollo n. 86620 del 01.06.2016 - Procedura aperta per l’affidamento del servizio di manutenzione del verde pubblico – Istanza di accesso agli atti di gara presentata da consiglieri comunali ai sensi dell’art. 43, D.lgs. 18.08.2000, n. 267, recante Testo unico sull’ordinamento degli anti locali - Differibilità dell’accesso agli atti di gara di verifica dell’anomalia dell’offerta nei riguardi di consiglieri comunali istanti – Accesso civico cd generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, del Dlgs. 14.03.2013, n. 33, smi - AG 01/2017/AP.
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Accesso agli atti di gara – Consigliere comunale – Procedimento ad evidenza pubblica – Anomalia dell’offerta – Fase di verifica - Differimento – Legittimo.
La disciplina dettata dall'art. 13 D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice degli appalti), in tema di accesso agli atti di gare pubbliche, è più restrittiva di quella generale di cui all'art. 24 L. 07.08.1990 n. 241, sia sotto il profilo soggettivo, atteso che nel primo caso l'accesso è consentito solo al concorrente che abbia partecipato alla selezione, che sul piano oggettivo, essendo l'accesso condizionato alla sola comprovata esigenza di una difesa in giudizio, laddove il citato art. 24 offre un ventaglio più ampio di possibilità, consentendo l'accesso ove necessario per la tutela della posizione giuridica del richiedente, senza alcuna restrizione sul piano processuale. Il diritto di accesso agli atti di gara è norma speciale rispetto al diritto di accesso della l. 241/1990.
Procedimento ad evidenza pubblica – Consigliere comunale – Diritto di accesso agli atti – Differimento – Legittimità.
In ragione della tutela del regolare esercizio dell’azione amministrativa e della tutela del principio di segretezza delle offerte, che tutela il principio di libera concorrenza nel mercato delle gare pubbliche, ai consiglieri comunali non può essere opposto un diniego assoluto di accesso agli atti, ma può essere legittimamente riconosciuto un differimento dell’accesso ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. d), del D.lgs. 50/2016.
Accesso civico cd generalizzato – Accesso agli atti di gara – Codice dei contratti pubblici - Esclusioni – Limiti.

Le disposizioni del Codice dei contratti pubblici in materia di accesso agli atti delle procedure di affidamento rientrano nell’ambito dei limiti e delle condizioni alle quali è subordinato l’accesso civico generalizzato di cui agli artt. 5 e 5-bis del D.lgs 33/2013.
Con riguardo a tale disciplina, si deve ritenere che -prima dell’aggiudicazione- il diritto di accesso civico generalizzato possa essere legittimamente escluso in ragione dei divieti di accesso previsti dall’art. 53 del D.lgs. 50/2016; successivamente all’aggiudicazione della gara, il diritto di accesso debba essere consentito a chiunque, ancorché nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 5-bis, commi 1 e 2, del D.lgs. 33/2013.

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Art. 13, comma 2, lett. c-bis, del D.lgs. 12.04.2006, n. 163
Art. 53, comma 2, lett. d), del D.lgs. 50/2016
Art. 43, D.lgs. 18.08.2000, n. 267
Art. 5, comma 2, del D.lgs. 14.03.2013, n. 33 (Parere sulla Normativa 29.03.2017 n. 317 - rif. AG 01/2017/AP  - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Oggetto: chiarimenti sull’iscrizione all’Albo dei componenti delle commissioni giudicatrici (comunicato del Presidente 22.03.2017 - link a www.anticorruzione.it).
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A seguito delle numerose richieste di iscrizione all’Albo dei commissari di gara, di cui all’articolo 78 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, si rende necessario, con il presente Comunicato, approvato dal Consiglio dell’Autorità nell’adunanza del 22.03.2017, fornire alle pubbliche amministrazioni e a tutti i soggetti pubblici e privati interessati all’applicazione del predetto istituto, alcuni chiarimenti e indicazioni circa la relativa disciplina transitoria.
Si precisa che l’articolo 78 citato, al primo comma prescrive che: “È istituito presso l’A.N.AC., che lo gestisce e lo aggiorna secondo criteri individuati con apposite determinazioni, l'Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici”; il medesimo comma, ultimo periodo, prescrive che: “Fino all'adozione della disciplina in materia di iscrizione all'Albo, si applica l'articolo 216, comma 12”.
A tal fine si rammenta che l’A.N.AC., con Determinazione 16/11/2016 n. 1190 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 03/12/2016, n. 283), ha emanato le pertinenti Linee guida (n. 5/2016) recanti i criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici, rimandando l’entrata in vigore dell’Albo all’adozione di un Regolamento ANAC teso a disciplinare le procedure informatiche per garantire la casualità della scelta, la corrispondenza delle professionalità richieste, la rotazione degli esperti, nonché le modalità di comunicazione tra l’Autorità, le stazioni appaltanti e i commissari di gara, stabilendo altresì i termini del periodo transitorio da cui scatta l’obbligo del ricorso all’Albo.
Considerato che ad oggi il predetto Regolamento non è stato adottato, stante anche il procedimento legislativo di correzione che investe l’Istituto in oggetto, si chiarisce che, ai sensi degli articoli 77, comma 12, e 216, comma 12, del citato decreto, la nomina della commissione giudicatrice continua ad essere di esclusiva spettanza delle pubbliche Amministrazioni secondo regole di organizzazione, competenza e trasparenza preventivamente individuate.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Come sapere se il prezzo è giusto. Procedure d'urgenza: all'affidatario anticipo del 50%. Verifica dell'Anac entro 60 giorni sulla congruità di quanto pagato per forniture e servizi.
Assoluta trasparenza per le verifiche di congruità dei prezzi relativi alle forniture e ai servizi affidati in regime di urgenza per calamità naturali; possibili controlli successivi da parte dell'Anac.

È quanto chiede l'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato del Presidente 15.02.2017 (Oggetto: presupposti di ammissibilità e modalità di presentazione delle istanze per il rilascio del parere sulla congruità del prezzo, ai sensi dell’art. 163 del d.l.gs. n. 50/2016), reso pubblico il 2 marzo, che riguarda un nuovo compito affidato dal decreto 50 all'Anac e codificato all'articolo 163, comma 9.
Nell'articolo suddetto si prevede che per le procedure di somma urgenza e di protezione civile per appalti di forniture e servizi, se non sono disponibili «elenchi di prezzi definiti mediante l'utilizzo di prezzari ufficiali di riferimento, gli affidatari si impegnano a fornire i servizi e le forniture richiesti a un prezzo provvisorio stabilito consensualmente tra le parti e ad accettare la determinazione definitiva del prezzo a seguito di apposita valutazione di congruità».
In questi casi il responsabile del procedimento deve comunicare «il prezzo provvisorio, unitamente ai documenti esplicativi dell'affidamento, all'Anac che, entro sessanta giorni rende il proprio parere sulla congruità del prezzo».
La disposizione prevede anche che, in attesa dell'acquisizione del parere di congruità, la stazione appaltante corrisponde all'affidatario, intanto, il 50% del prezzo provvisorio.
Il comunicato siglato da Raffaele Cantone, verificato che molte richieste «sono risultate del tutto prive dei necessari presupposti di ammissibilità, ovvero carenti di documentazione, con conseguente aggravio di istruttoria per l'Anac», ha quindi dettato alcuni chiarimenti dell'Autorità, finalizzati anche a razionalizzare l'attività degli uffici incaricati di gestire questo nuovo adempimento.
L'Anac richiama innanzitutto le fattispecie che legittimano l'applicazione dell'articolo 163 che, in particolare, riguardano anche «le calamità naturali o connesse con l'attività dell'uomo che, in ragione della loro intensità ed estensione, debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo».
In questi casi, il comunicato specifica che il parere deve riguardare l'acquisizione di servizi o forniture e devono essere indicati i motivi o le cause che hanno determinato lo stato di urgenza a cui la stazione appaltante ha dovuto far fronte senza indugio; deve essere inoltre attestata la mancanza di prezzari ufficiali di riferimento, «documentando di avere svolto, al riguardo, le necessarie verifiche». Infine, al parere dovranno essere allegate tutte le informazioni e gli elementi essenziali sull'acquisto effettuato che permettono di procedere alla valutazione di congruità del prezzo.
L'Autorità, che dovrà concludere la procedura in 60 giorni, informerà le amministrazioni nel caso la comunicazione risulti incompleta, ma potrà svolgere il controllo sulla effettiva sussistenza della ragioni di urgenza anche successivamente nell'ambito dell'esercizio dell'attività di vigilanza. Questo perché è il comma 10 dell'articolo 163 a prevedere la massima trasparenza di questi affidamenti di cui si devono pubblicare gli atti con la specifica dell'affidatario, delle modalità della scelta e delle motivazioni che non hanno consentito il ricorso alle procedure ordinarie.
Il comunicato chiarisce che le amministrazioni che fanno ricorso alle procedure d'urgenza di cui all'art. 163 citato, per l'acquisizione sia di lavori che di servizi e forniture, anche qualora non abbiano formulato una richiesta di parere di congruità, sono comunque tenute a trasmettere all'Anac la relativa documentazione, entro il termine che sarà indicato nel nuovo Regolamento in materia di attività di vigilanza sui contratti pubblici (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017).

QUESITI & PARERI

PATRIMONIO: Alienazione terreno comunale.
Prima della stipula del rogito l'Ente è tenuto al rispetto delle procedure e dei termini posti a tutela dei terzi, ai sensi dell'articolo 58 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, nella considerazione che l'Ente è tenuto una sola volta ai suddetti adempimenti con riferimento al medesimo bene.
Il Comune informa che nel piano di valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale inserito nel Documento unico di programmazione (DUP), allegato al bilancio di previsione 2016-2018, era stato inserito un bene comunale la cui alienazione risulta iniziata ma non ancora conclusa. L'Ente ha previsto nel nuovo piano di valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale inserito nel DUP, allegato al bilancio di previsione 2017-2019, l'alienazione del medesimo terreno.
Pertanto, l'Ente chiede un parere per conoscere se, prima della stipula del rogito del terreno suddetto, si debbano attendere le necessarie pubblicazioni e conseguenti adempimenti connessi all'approvazione del nuovo piano di valorizzazione e alienazione del patrimonio comunale, riferito al triennio 2017-2019.
La normativa in materia di ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare degli enti locali è contenuta nell'articolo 58 del D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito con modifiche dalla legge 06.08.2008, n. 133.
[1].
In particolare, l'articolo 58 del D.L. 112/2008 prevede che attraverso una delibera dell'organo di Governo venga redatto un apposito elenco degli immobili non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione, costituendo in tal modo il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (comma 1).
L'inserimento degli immobili nel piano su richiamato ne determina la loro classificazione come patrimonio disponibile. Con successiva deliberazione il consiglio comunale approva il piano delle alienazioni e valorizzazioni, determinando le destinazioni d'uso urbanistiche degli immobili ivi contenuti (comma 2).
Gli elenchi degli immobili devono essere pubblicati nelle forme previste da ciascun Ente e hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644
[2] del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto. A tutela dell'interesse di eventuali soggetti terzi, è ammesso ricorso amministrativo contro l'iscrizione del bene nell'elenco, entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Pertanto, prima della stipula del rogito l'Ente è tenuto al rispetto delle procedure e dei termini posti a tutela dei terzi, ai sensi della normativa sopra richiamata, nella considerazione che l'Ente è tenuto una sola volta ai suddetti adempimenti con riferimento al medesimo bene.
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[1] Art. 58 (Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali)
<<1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, nonché di società o Enti a totale partecipazione dei predetti enti, ciascuno di essi, con delibera dell'organo di Governo individua, redigendo apposito elenco, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione nel quale, previa intesa, sono inseriti immobili di proprietà dello Stato individuati dal Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del demanio tra quelli che insistono nel relativo territorio.
2. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile, fatto salvo il rispetto delle tutele di natura storico-artistica, archeologica, architettonica e paesaggistico-ambientale. Il piano è trasmesso agli Enti competenti, i quali si esprimono entro trenta giorni, decorsi i quali, in caso di mancata espressione da parte dei medesimi Enti, la predetta classificazione è resa definitiva. La deliberazione del consiglio comunale di approvazione, ovvero di ratifica dell'atto di deliberazione se trattasi di società o Ente a totale partecipazione pubblica, del piano delle alienazioni e valorizzazioni determina le destinazioni d'uso urbanistiche degli immobili. Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, disciplinano l'eventuale equivalenza della deliberazione del consiglio comunale di approvazione quale variante allo strumento urbanistico generale, ai sensi dell'articolo 25 della legge 28.02.1985, n. 47, anche disciplinando le procedure semplificate per la relativa approvazione. Le Regioni, nell'ambito della predetta normativa approvano procedure di co-pianificazione per l'eventuale verifica di conformità agli strumenti di pianificazione sovraordinata, al fine di concludere il procedimento entro il termine perentorio di 90 giorni dalla deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si applica il comma 2 dell'articolo 25 della legge 28.02.1985, n. 47. Le varianti urbanistiche di cui al presente comma, qualora rientrino nelle previsioni di cui al paragrafo 3 dell'articolo 3 della direttiva 2001/42/CE e al comma 4 dell'articolo 7 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e s.m.i. non sono soggette a valutazione ambientale strategica.
3. Gli elenchi di cui al comma 1, da pubblicare mediante le forme previste per ciascuno di tali enti, hanno effetto dichiarativo della proprietà, in assenza di precedenti trascrizioni, e producono gli effetti previsti dall'articolo 2644 del codice civile, nonché effetti sostitutivi dell'iscrizione del bene in catasto.
4. Gli uffici competenti provvedono, se necessario, alle conseguenti attività di trascrizione, intavolazione e voltura.
5. Contro l'iscrizione del bene negli elenchi di cui al comma 1 è ammesso ricorso amministrativo entro sessanta giorni dalla pubblicazione, fermi gli altri rimedi di legge.
Omissis>>
[2] 2644. Effetti della trascrizione.
Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno effetto [c.c. 509] riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto [c.c. 507, 2659, 2667] o iscritto [c.c. 2839] anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi [c.c. 2643, 2652, n. 3, 2653, n. 1, 2685, 2827, 2857, 2914, n. 1].
Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui che ha trascritto [c.c. 2666] alcuna trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l'acquisto risalga a data anteriore [c.c. 1380, 2649, 2655, 2812, 2848, 2866, 2913, 2915]
(11.05.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: I diritti edificatori.
DOMANDA:
Vorremmo sapere se i cosiddetti diritti edificatori, ossia quelle cubature non legate ad una specifica area edificabile ma che possono essere utilizzate in altre zone del territorio comunale oppure essere acquistate e vendute, siano o meno soggette ad IMU ed eventualmente in che misura.
RISPOSTA:
Il diritto urbanistico statale o regionale prevede diversi istituti giuridici volti a trasferire le capacità edificatorie, che sono suscettibili di incidere sul valore venale dell’area fabbricabile, tra i quali si menzionano i seguenti:
   - Trasferimento di cubatura; in virtù delle prescrizioni dello strumento urbanistico, è possibile cedere una quota di cubatura edificabile per consentire ad un altro soggetto di disporre della minima estensione di terreno richiesta per l’edificazione, oppure di realizzare una volumetria maggiore di quella consentita dalla superficie del suo fondo,
   - Traslazione del diritto ad edificare; il titolare del diritto ad edificare già assentito (tramite permesso di costruire o altro titolo), quando non possa più esercitare tale diritto a causa di un sopravvenuto vincolo non urbanistico (ad esempio, di tipo paesaggistico), ha facoltà di chiedere di esercitarlo su un’altra area del territorio comunale, della quale abbia disponibilità,
   - Diritto di rilocalizzazione, in base al quale il proprietario di un edificio, che dovrà essere demolito, o la cui esistenza è incompatibile con la realizzazione di opere pubbliche, potrà ricostruirlo in un’altra zona di sua proprietà nell’ambito dello stesso comune, anche in deroga alle limitazioni derivanti dal piano regolatore generale. Il diritto, con il consenso del comune, è trasferibile a terzi.
La natura di tali diritti è stata a lungo controversa; a proposito del diritto di rilocalizzazione previsto dalla legge regionale dell’Emilia Romagna, n. 38 del 01.12.1998, l’Agenzia delle Entrate, con R.M. 233/E del 20.08.2009 ha chiarito che esso è strutturalmente assimilabile alla categoria dei diritti reali di godimento. E’ questa la strada seguita recentemente dal legislatore: l’art. 5, co. 3, del d.l. 70/2011 ha stabilito la trascrivibilità nei registri immobiliari dei contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, integrando le previsioni dell’art. 2643 c.c.
In ogni caso, il trasferimento dei diritti edificatori ha effetto sulla determinazione dell'IMU: con tali negozi giuridici, si modifica la valutazione del suolo fabbricabile, la cui base imponibile è determinata anche in funzione delle potenzialità edificatorie; i diritti trasferiti non costituiscono un’area fabbricabile autonoma, ma viene inciso, unicamente, il valore venale dei terreni interessati. In conclusione, i diritti edificatori non hanno una tassazione autonoma ma sono rilevanti nella valutazione dell’area fabbricabile, quando sono ad essa legati (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le graduatorie concorsuali degli altri enti.
DOMANDA:
Esiste un criterio per individuare l'ente con cui stipulare l'accordo postumo per l'utilizzo della graduatoria per assunzione a tempo indeterminato (es. stessa provincia 7 comuni confinanti ecc)? Il regolamento dell'ente richiedente nulla dispone in merito ovvero non specifica se devono essere o meno limitrofi. Abbiamo richiesto agli enti confinanti che stanno svolgendo o hanno svolto concorsi di categoria e profilo corrispondente all'assunzione da effettuare, in base alle nostre conoscenze (ad oggi non abbiamo avuto risposta).
L'Ente ha un accordo già stipulato, ma la graduatoria è esaurita. Un idoneo di un concorso (che in passato ha lavorato a tempo determinato presso di noi) ha segnalato il Comune in cui è validamente collocato in graduatoria, si tratta però di un ente non limitrofo, di altra provincia. Attingendo alla stessa, laddove il Comune addivenga all'accordo, violiamo regole di trasparenza ed imparzialità, potrebbe essere illegittima l'assunzione la finalità dell'amministrazione, piccolo ente è coprire il posto nel più breve periodo.
RISPOSTA:
In riscontro al quesito proposto è necessario premettere quanto segue. Il DL 90/2014 (art. 3, c. 5-ter) ha esteso anche agli enti locali la regola valida per lo stato secondo cui prima di avviare la procedura concorsuale è necessario esaurire le proprie graduatorie (idonei), salvo comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate (art. 4, c. 3, L. 125/2013).
Nel caso in cui non disponga di proprie graduatorie valide, l’ente può anche utilizzare le graduatorie di altri enti (artt. 14, c. 4-bis DL 95/2012 e 3 c. 61 L 350/2003) purché: - abbia previsto tale modalità assunzionale nel proprio regolamento di organizzazione; - stipuli una convenzione (anche mediante semplice scambio di lettere) con l’amministrazione titolare della graduatoria (art. 3, c. 61, L 350/2003).
Al termine di un lungo dibattito sul tema, secondo l’orientamento più recente l’accordo può anche essere successivo all’approvazione della graduatoria (C. Conti Umbria 124/2013), anche se per il Ministero dell’Interno resta comunque preferibile che esso intervenga prima della formale approvazione della graduatoria (parere n. 15700 5A3 0004435).
La questione su cui verte la querelle di cui si è fatto cenno relativa al momento della stipula della convenzione, attiene alla necessità che nell’utilizzo di graduatorie altrui non venga pregiudicata l’imparzialità dell’azione amministrativa, rendendo il processo di scelta maggiormente leggibile e trasparente, così da evitare azioni arbitrarie ed illegittime.
Venendo alla concreta questione posta nel quesito, questa stessa esigenza di imparzialità impone all’ente di predeterminare i criteri di scelta anche nel caso, ed anzi soprattutto nel caso, in cui si provveda a stipulare la convenzione successivamente all’approvazione della graduatoria, come nel caso prospettato essendo esaurita la graduatoria dell’ente già convenzionato. In tal senso la costante giurisprudenza che, appunto, considera presupposto fondamentale, per evitare scelte discrezionali che potrebbero invalidare la procedura, la predeterminazione dei parametri di utilizzo delle graduatorie nel regolamento di organizzazione, specialmente con riguardo ai criteri di individuazione degli enti da interpellare (numero e ordine). La prassi e la giurisprudenza, invece, non stabiliscono particolari vincoli in ordine ai criteri di scelta che il comune può adottare per individuare concretamente l’ente con cui convenzionarsi.
In sintesi, per quanto detto, con il proprio regolamento il comune dovrà prevedere l’utilizzo delle graduatorie di altri enti tra le modalità assunzionali e fissare i criteri di scelta della P.A con cui accordarsi, rispettando in tale ambito il solo principio dell’imparzialità del proprio agire e, dunque, senza ulteriori limitazioni sui concreti criteri da usare. Potrà così autonomamente decidere se prevedere come requisito prioritario, ad esempio, la distanza tra gli enti ovvero l’analogia di dimensioni, le caratteristiche geografiche o di funzionamento simili; se, ancora, limitare la scelta al solo ambito della propria provincia/regione o ampliare i confini all’intero territorio nazionale e, per altro verso, se interpellare solo enti del proprio comparto o anche enti pubblici che applicano contratti differenti.
Sotto quest’ultimo aspetto, resta da evidenziare che la giurisprudenza ha più volte ribadito che elemento necessario ai fini dello scorrimento della graduatoria di altri enti è che vi sia omogeneità tra il posto richiesto e quello in graduatoria con riguardo a profilo, categoria professionale e regime giuridico (ad es. part-time – tempo pieno) (C. Conti e Ministero Int. citati, Tar Veneto 864/2011).
A tal fine è pertanto necessario confrontare con attenzione la declaratoria del profilo della graduatoria con quello che si ricerca in quanto nei singoli enti possono essere diversi.
Infine, per completezza, si ritiene utile ricordare che anche nel caso di scorrimento delle graduatorie di altri enti si ritiene necessario la preventiva attivazione delle mobilità volontaria e di quella prevista dall’art. 34-bis D.Lgs. 165/2001 (F.P. parere 215/2005; circolari 4/2008 e 11786/ 2011) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Autorizzazione paesaggistica - Termine di efficacia (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 27.04.2017 n. 13204 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. n. 81172 del 16.02.2016, con la quale si chiede, in relazione ad una fattispecie rappresentata dal Comune di Rocca Priora, se sia possibile rilasciare un titolo abilitativo edilizio in base ad un'autorizzazione paesaggistica rilasciata nel 2007 "in applicazione della previsione dell'ultimo periodo dell'art. 146 del D.lgs. n. 42 del 2004 ....che, nell'attuale formulazione, fa decorrere il termine di efficacia dell'autorizzazione paesaggistica dal giorno in cui acquista efficacia il titolo edilizio eventualmente necessario per la realizzazione dell'intervento" .
Al riguardo, codesta amministrazione prospetta la tesi secondo cui "l'efficacia differita dovrebbe interessare le autorizzazioni rilasciate successivamente al 01.06.2014 (entrata in vigore delle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2014) in quanto i provvedimenti rilasciati anteriormente avevano già acquistato efficacia in virtù della normativa previgente".
La soluzione proposta appare senz'altro condivisibile.
La disposizione che prevede l'abbinamento del dies a quo di efficacia ... (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comune di Robbiate - Procedimento semplificato autorizzazione paesaggistica (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 26.04.2017 n. 13008 di prot.).
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Con nota prot. n. 3974 del 30.03.2017, il Comune di Robbiate ha rivolto a questo Ufficio un quesito relativo alle modalità di individuazione degli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, isolati o ricompresi nei centri storici sottoposti a vincolo provvedimentale ai sensi dell'articolo 136, comma 1, lettere c) del codice, al fine della esclusione dall'esonero dalla previa autorizzazione paesaggistica per particolari categorie di interventi ricadenti su tale tipologia di immobili, atteso il rinvio a tale esclusione più volte operato dal d.P.R. n. 31 del 2017.
Il Comune richiedente, nella richiesta che qui si allega, rappresenta che il centro storico risulta sottoposto a un vincolo generalizzato, apposto nel 1969, riconducibile alle lettere c) e d) dell'articolo 136 del codice.
La prospettazione contenuta nella richiesta di parere sembra comprendere due distinte questioni: da un lato, se e come sia possibile distinguere, all'interno di un unico provvedimento di vincolo riconducibile in modo indifferenziato ad entrambe le categorie di "vincolo d'insieme" oggi suddistinte ... (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI: Permessi agli amministratori locali. Riproporzionamento.
Si ritiene che all'amministratore locale che svolge attività lavorativa quale dipendente in regime di part time spettino interamente i permessi previsti per l'espletamento della carica. Tale orientamento, sostenuto a livello ministeriale, non è, tuttavia, condiviso dall'Aran la quale, invece, applica, nel caso di specie, il principio del riproporzionamento dei periodi di assenza spettanti al lavoratore a tempo parziale.
Il Comune chiede un parere in materia di permessi spettanti agli amministratori locali. In particolare, chiede se, qualora un assessore svolga l'attività lavorativa quale dipendente in regime di part-time verticale, tali permessi debbano o meno essere riproporzionati in relazione allo status lavorativo.
L'articolo 79, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede che: 'I componenti degli organi esecutivi dei comuni [...] hanno diritto, oltre ai permessi di cui ai precedenti commi, di assentarsi dai rispettivi posti di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative al mese [...].' Il successivo comma 5 dispone, poi, che: 'I lavoratori dipendenti di cui al presente articolo hanno diritto ad ulteriori permessi non retribuiti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili qualora risultino necessari per l'espletamento del mandato'.
La Corte dei Conti ha, anche di recente, ribadito che «la norma costituisce parte della disciplina dei permessi e delle licenze, retribuite o gratuite, concedibili ai lavoratori dipendenti chiamati ad espletare funzioni elettive/di governo presso enti locali, in aderenza al precetto posto dall'art. 51, comma 3, Cost., in base al quale "chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro"».
[1]
Il Ministero dell'Interno, investito di una questione analoga a quella in esame, ha ritenuto che 'all'amministratore in questione spettino interamente i permessi previsti per l'espletamento della carica, in quanto la norma conserva la propria autonomia a prescindere dalla tipologia del rapporto specificando, al riguardo, che i permessi di cui può fruire l'amministratore trovano legittimazione qualora l'espletamento delle funzioni connesse con la carica elettiva ricoperta coincida temporalmente con l'obbligo della prestazione lavorativa e sono, pertanto, strettamente correlati alla specifica condizione di lavoratore dipendente'.
[2]
Anche l'ANCI, nell'affrontare la tematica in esame, ha affermato che: 'L'amministratore ha diritto a fruire integralmente dei permessi retribuiti e non retribuiti stabiliti dall'art. 79 del Testo Unico, senza alcuna riduzione per la posizione di lavoratore a part-time'.
[3]
In senso diverso da quello sopra riportato si è, invece, espressa l'Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) la quale ha affermato che: 'Siamo del parere che i permessi disciplinati nell'art. 79, comma 4, del D.Lgs. n.267/2000 spettino anche ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale (verticale o orizzontale) perché non esiste, in proposito, alcuna espressa disposizione contraria.
Il vero problema, però, è quello di stabilire se detti permessi, spettanti in ragione di un massimo di 24 o 48 ore mensili, a seconda dell'incarico ricoperto, debbano essere riproporzionati e come.
In proposito, a nostro avviso, non può non trovare applicazione il principio generale del riproporzionamento dei periodi di assenza spettanti al lavoratore a tempo parziale di cui all'art. 6, comma 8, del CCNL del 14.09.2000.
Infatti, se esso vale a ridurre i periodi di assenza di alcuni istituti, tutelati anche a livello costituzionale (come per le ferie), non può non trovare applicazione anche nel caso in esame.
In materia, pertanto, il principio di riproporzionamento dovrebbe operare come segue:
[...]
tempo parziale verticale che preveda periodi lavorativi consecutivi inferiori al mese (ad esempio, una settimana di lavoro ed una di riposo): le ore di permesso vanno riproporzionate in funzione della durata complessiva della prestazione riferita la mese
.'
[4]
La tesi sostenuta dall'ARAN è stata fatta propria anche da certa dottrina
[5] la quale, dopo aver riportato le affermazioni sostenute dall'Agenzia ha, altresì, affermato che 'alcuni autori, in verità non molti, sono contrari alla tesi del riproporzionamento dei permessi ex art. 79, comma 4, TUEL per il dipendente con rapporto di lavoro a tempo parziale, in quanto, a loro giudizio, verrebbe leso il principio di non discriminazione che deve assicurare al lavoratore a tempo parziale di poter beneficiare degli stessi diritti di un lavoratore a tempo pieno'.
A parere di chi scrive, in assenza di una specifica disposizione di legge che preveda il riproporzionamento dei permessi spettanti agli amministratori locali che svolgono attività lavorativa dipendente in regime di part-time, pare maggiormente condivisibile l'orientamento ministeriale.
[6] A sostegno di un tanto militano diversi argomenti: in primis, si consideri che esso è diretta esplicazione del diritto politico alla libera e piena esecuzione del mandato elettivo. Tale principio, sancito a livello costituzionale dall'articolo 51, comma 3, Cost., è ribadito e specificato dall'articolo 77, comma 1, del TUEL.
Tale norma, dopo aver affermato che 'La Repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nelle amministrazioni degli enti locali ad espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessari ed usufruendo di indennità e di rimborsi spese nei modi e nei limiti previsti dalla legge', al comma 2, annovera, in un rapporto di genus a species, anche la disciplina dei permessi spettanti agli amministratori locali, successivamente analiticamente regolamentata all'articolo 79 del D.Lgs. 267/2000. Segue l'indisponibilità del diritto in riferimento e la connessa inammissibilità di ipotesi di suo ridimensionamento, se non per via legislativa ed in modo espresso.
Infatti, stante il disposto di cui all'articolo 1, comma 4, TUEL,
[7] per poter derogare alle disposizioni di cui all'articolo 79 in commento, sarebbe necessaria un'esplicita espressione di volontà legislativa in tal senso, che, allo stato attuale, risulta non esistente.
Da ultimo, si rileva che l'ARAN, nell'applicare il principio del riproporzionamento, rinvia alle norme della contrattazione collettiva: al riguardo si evidenzia che la materia dei permessi per l'espletamento del mandato elettivo non pare riconducibile a quella relativa al contratto di lavoro né alla disciplina delle relazioni sindacali
[8] 'trattandosi invece di istituto che, tanto per la sua collocazione normativa quanto per i suoi contenuti, afferisce invece, [...] ad un ambito prettamente pubblicistico.' [9]
Stante, tuttavia, la diversità di orientamenti esistenti sulla tematica in oggetto, si ritiene che solo un giudice, eventualmente investito della questione, potrebbe fornire una risposta puntuale con riferimento al caso concreto.
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[1] Così, Corte dei Conti, Lombardia, sez. contr., delibera del 02.02.2016, n. 21.
[2] Ministero dell'Interno, parere del 04.12.2007.
[3] ANCI, parere dell'01.06.2010. Nello stesso senso si veda anche parere del 03.02.2005.
[4] ARAN, orientamento applicativo RAL 937 del 07.12.2011.
[5] Così, Nicola e Monica Laudisio, 'L'amministratore locale', Maggioli editore, 2014, pag. 66.
[6] A sostegno della non riproporzionabilità dei permessi spettanti amministratori locali che svolgono attività lavorativa dipendente in regime di part-time, si veda l'approfondita analisi di A. Le Donne e E. D'Urso, 'I permessi dell'amministratore locale per lo svolgimento del mandato elettivo in caso di rapporto di lavoro part-time', in Nuova Rassegna, 2007, n. 2, pagg. 127 e seg., le cui considerazioni sono in parte riprodotte nel prosieguo del parere. Tali autori rilevano, tuttavia, che 'l'opposta tesi (prospettata dai suoi sostenitori in modo peraltro estremamente dogmatico) appare oggi maggiormente condivisa.'
[7] Recita l'articolo 1, comma 4, del TUEL: 'Ai sensi dell'articolo 128 della Costituzione le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni.'
[8] Si ricorda che, ai sensi dell'articolo 40, comma 1, prima parte, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165: 'La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali.'
[9] Così, A. Le Donne e E. D'Urso, 'I permessi dell'amministratore locale per lo svolgimento del mandato elettivo in caso di rapporto di lavoro part-time', citati in nota 6, pag. 133
(26.04.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Interventi edilizi realizzati prima dell'apposizione del vincolo paesaggistico - Permesso di costruire in sanatoria - Disciplina paesaggistica (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 20.04.2017 n. 12633 di prot.).
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Con la nota n. prot. 81219 del 16.02.2016, codesta Amministrazione regionale ha posto un quesito riguardante la disciplina applicabile ai casi di sanatoria edilizia ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001 relativi ad abusi edilizi commessi antecedentemente all'apposizione del vincolo paesaggistico (è stato rappresentato il caso di un abuso edilizio commesso nel comune di Sutri, antecedentemente alla data di pubblicazione del VIR adottato, in area posta all'interno della "fascia di rispetto di un bene lineare tipizzato di interesse archeologico, di cui all'art. 13, lett. a), L.r. n. 24 del 1998", e per il quale è stato richiesto il permesso di costruire in sanatoria).
In particolare, è stato chiesto di chiarire ... (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI: D.Lgs. 14.03.2013, n. 33. Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici delle ASP.
In considerazione delle funzioni svolte dai consigli di amministrazione delle Aziende pubbliche di servizi alla persona, che coincidono in tutto o in parte con quanto descritto dall'Autorità nazionale anticorruzione nelle FAQ in materia di trasparenza e nella delibera n. 241/2017, si ritiene che i membri dei CDA delle ASP siano soggetti agli obblighi di pubblicazione indicati all'art. 14, comma 1, del D.Lgs. 33/2013.
Parimenti, considerata l'estensione di tali obblighi anche ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, le aziende devono pubblicare i dati e i documenti di cui all'art. 14, comma 1, anche con riguardo alle figure dirigenziali, quale quella del direttore generale.
AGGIORNAMENTO: L'ANAC, con l'emanazione della delibera n. 382 del 12.04.2017, ha sospeso l'efficacia della delibera n. 241/2017, limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione dell'art. 14, comma 1, lett. c) ed f), del d.lgs. 33/2013, per tutti i dirigenti pubblici. Pertanto, al momento attuale, non sussiste l'obbligo di pubblicazione dei documenti ivi richiamati, con riguardo alle figure dirigenziali.

L'Azienda di servizi alla persona chiede un chiarimento sull'applicazione dell'art. 14 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, così come modificato dal decreto legislativo 24.05.2016, n. 97. In particolare, l'Azienda chiede di sapere quali siano gli obblighi di pubblicazione della situazione reddituale e patrimoniale dei consiglieri dell'ASP e del direttore generale dell'Azienda, nominato dallo stesso consiglio di amministrazione.
Il novellato art. 14 del d.lgs. 33/2013 stabilisce gli obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione e di governo e i titolari di incarichi dirigenziali. In particolare, per quanto qui di interesse, il comma 1, alla lett. f), dispone che i titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, sono tenuti alla pubblicazione delle 'dichiarazioni di cui all'art. 2
[1], della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e le dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della stessa legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso (...).' [2]
Con riguardo all'ambito soggettivo di applicazione della norma, si osserva che, come chiarito dall'ANAC
[3], le disposizioni di cui all'art. 14 si applicano, negli enti diversi da quelli territoriali (come le ASP), anche agli organi non espressione di rappresentanza politica ma che svolgono una funzione di indirizzo. Ritiene infatti l'ANAC che, nell'individuazione dei titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, vadano annoverati anche i componenti degli organi che, pur non espressione di rappresentanza politica, siano titolari di poteri di indirizzo generale con riferimento all'organizzazione e all'attività dell'amministrazione cui sono preposti [4].
Per facilitare l'individuazione degli organi tenuti ad osservare la norma in parola, l'ANAC ha chiarito che 'Negli enti pubblici diversi da quelli territoriali, dove di norma non si hanno organi elettivi, (...) occorrerà considerare gli organi nei quali tendono a concentrarsi competenze, tra le quali, tra l'altro, l'adozione di statuti e regolamenti interni, la definizione dell'ordinamento dei servizi, la dotazione organica, l'individuazione delle linee di indirizzo dell'ente, la determinazione dei programmi e degli obiettivi strategici pluriennali, l'emanazione di direttive di carattere generale relative all'attività dell'ente, l'approvazione del bilancio preventivo e del conto consuntivo, l'approvazione dei piani annuali e pluriennali, l'adozione di criteri generali e di piani di attività e di investimento.'
[5]
Dunque, in considerazione delle funzioni svolte dai consigli di amministrazione delle ASP, che coincidono in tutto o in parte con quanto descritto dall'Autorità, si ritiene che anche i membri di tali CDA siano soggetti agli obblighi di pubblicazione su indicati. Peraltro, non si reputa rilevante il fatto che le nomine dei consiglieri vengano effettuate dal sindaco di un comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti. Infatti, l'esclusione dall'obbligo di pubblicazione dei documenti di cui all'art. 14, comma 1, lett. f), del d.lgs. 33/2013, opera solo nei confronti dei titolari di incarichi politici
[6] di tali enti, e non già per soggetti da questi a qualsiasi titolo nominati in altre amministrazioni.
Per quanto concerne, infine, il direttore generale dell'Azienda, si osserva innanzitutto che, per effetto delle modifiche al d.lgs. 33/2013 apportate dal d.lgs. 97/2016, i titolari degli incarichi dirigenziali rientrano ora fra i soggetti individuati dall'art. 14
[7]. Ne deriva che, ai sensi dell'art. 14, comma 1-bis, le pubbliche amministrazioni sono tenute alla pubblicazione dei dati di cui al comma 1 anche 'per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti'. Inoltre, ai sensi del comma 1-ter, i dirigenti sono tenuti anche a comunicare all'amministrazione presso la quale prestano servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, dati che poi devono essere pubblicati sul sito istituzionale [8].
AGGIORNAMENTO
Con riferimento alla nota prot. 3542 del 19 aprile scorso, per quanto concerne i dati relativi al direttore generale dell'Azienda, si segnala che l'ANAC, con l'emanazione della delibera n. 382 del 12.04.2017, ha sospeso l'efficacia della delibera n. 241/2017, limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione dell'art. 14, comma 1, lett. c) ed f), del d.lgs. 33/2013, per tutti i dirigenti pubblici.
Tale intervento si è reso necessario in seguito all'ordinanza cautelare n. 1030/2017, emanata il 2 marzo scorso dalla sezione I-quater del TAR Lazio, che, su ricorso presentato da dirigenti del Garante della privacy, ha sospeso atti del Segretario generale del Garante medesimo sull'attuazione dell'articolo 14. All'ANAC è inoltre stato notificato un ricorso per l'annullamento, previa sospensiva, delle Linee guida di cui alla determinazione n. 241/2017.
L'ANAC ha quindi comunicato che: 'Alla luce di quanto sopra, tenuto conto del contenzioso in atto, delle motivazioni dell'ordinanza del TAR del Lazio divenuta definitiva in data 02.04.2017 nonché al fine di evitare alle amministrazioni pubbliche situazioni di incertezza sulla corretta applicazione dell'art. 14 con conseguente significativo contenzioso e disparità di trattamento fra dirigenti appartenenti a amministrazioni diverse, il Consiglio dell'Autorità in data 12.04.2017 ha deciso di sospendere l'efficacia della delibera n. 241/2017 limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. c) ed f) del d.lgs. n. 33/2013 per tutti i dirigenti pubblici, anche per quelli del SSN, in attesa della definizione nel merito del giudizio o in attesa di un intervento legislativo chiarificatore.'
[9]
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[1] Si tratta, in sintesi e per quanto qui rilevante, di una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società e di copia dell'ultima dichiarazione dei redditi soggetti all'imposta sui redditi delle persone fisiche.
[2] Per completezza di informazione si segnala che il successivo comma 1-bis dispone che non sussiste l'obbligo di pubblicazione dei documenti e delle informazioni elencati al comma 1 nel caso in cui gli incarichi o le cariche di amministrazione, di direzione o di governo siano attribuiti a titolo gratuito.
[3] Delibera ANAC n. 241 dell'08.03.2017, recante 'Linee guida recanti indicazioni sull'attuazione dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall'art. 13 del d.lgs. 97/2016'.
[4] Tale interpretazione è coerente con quella già fornita dalla stessa Autorità nella delibera n. 144 del 2014.
[5] Punto 5.1 delle FAQ in materia di trasparenza (sull'applicazione del d.lgs. n. 33/2013 come modificato dal d.lgs. n. 97/2016), reperibili sul sito internet dell'Autorità nazionale anticorruzione.
[6] Nonché dei loro coniugi non separati e dei parenti entro il secondo grado.
[7] Mentre prima a questi si applicava l'art. 15, ora ristretto ai soli titolari di incarichi di collaborazione o consulenza.
[8] Con riferimento agli obblighi di pubblicazione riguardanti i titolari di incarichi dirigenziali, si rinvia ai chiarimenti e alle osservazioni formulati dall'ANAC al punto 2.3 delle Linee guida approvate nell'adunanza dell'08.03.2016 (delibera n. 241/2016).
[9] Si veda il Comunicato dell'ANAC del 12.04.2017
(19.04.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Obbligo di astensione ai sensi dell'articolo 78 TUEL.
L'obbligo di astensione degli amministratori locali costituisce principio di carattere generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali), che non ammette deroghe o eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta sussista una relazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile esito e la scelta fosse in concreto la più utile e opportuna per l'interesse pubblico; e tale dovere sussiste in tutti i casi in cui l'amministratore versa in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano - anche solo potenzialmente - idonee a minare la sua imparzialità.
Il Comune chiede un parere in merito all'obbligo di astensione di cui all'articolo 78, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, gravante sugli amministratori locali.
La vicenda, che si pone alla base della presente richiesta di parere, è originata da un atto di diniego di autorizzazione al mutamento di destinazione d'uso di un fabbricato assunto nell'anno 1998 dall'allora sindaco, padre dell'attuale vicesindaco, successivamente annullato con sentenza del giudice amministrativo.
Con successiva pronuncia del tribunale amministrativo regionale, emessa in sede di ottemperanza, è stato disposto, oltre all'obbligo di esecuzione della sentenza di primo grado, anche il risarcimento del danno a carico del Comune per il danno patito dal privato a causa del diniego provvedimentale di cui sopra. Premesso un tanto, l'attuale giunta comunale ha autorizzato il sindaco in carica
[1] a proporre ricorso innanzi al Consiglio di Stato contro la sentenza emessa in sede di ottemperanza, [2] con propria delibera alla quale ha preso parte anche il vicesindaco. [3]
Ciò premesso, il Comune desidera sapere se questi si sarebbe dovuto astenere dal partecipare alla discussione e dal votare la delibera giuntale in riferimento attesa la parentela (l'essere figlio) che lo lega al soggetto che, nell'anno 1998, ha emesso, in qualità di sindaco, l'atto provvedimentale che si pone alla base della vicenda giudiziaria sopra descritta.
In via preliminare, si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi in merito alla legittimità degli atti degli enti locali stante l'avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale 3/2001. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie di considerazioni generali circa il dovere di astensione che incombe sugli amministratori locali, che possano risultare di utilità al Comune in relazione alla vicenda realizzatasi, fermo che solo un giudice eventualmente investito della questione potrebbe fornire una risposta puntuale con riferimento al caso concreto.
L'articolo 78, comma 2, del D.Lgs. 267/2000 recita: 'Gli amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado'.
Come rilevato dalla giurisprudenza, «l'obbligo di astensione per incompatibilità del consigliere comunale, [è] espressione del principio generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.), al quale ogni Pubblica Amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione».
[4] Ancora, si è affermato che: «L'obbligo di astensione degli amministratori locali costituisce principio di carattere generale ex art. 78, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali), che non ammette deroghe o eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta sussista una correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, anche se la votazione potrebbe non avere altro apprezzabile esito e la scelta fosse in concreto la più utile e opportuna per l'interesse pubblico; e tale dovere sussiste in tutti i casi in cui essi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano -anche solo potenzialmente- idonee a minare l'imparzialità dei medesimi [5]
Con riferimento alla fattispecie in esame si tratta di definire se sussista o meno una 'correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione'. La giurisprudenza ha, infatti, sottolineato in diverse occasioni che: 'La norma è chiara nello stabilire in termini generali l'obbligo di astensione dei consiglieri in tutte le ipotesi in cui sia ravvisabile una relazione specifica tra l'oggetto della delibera approvata e gli interessi facenti capo all'amministratore o ai suoi parenti o affini entro il quarto grado'.
[6]
Al riguardo, si segnalano, di seguito, alcuni orientamenti formatisi in campo giurisprudenziale dai quali poter trarre elementi di utilità per affrontare la questione in esame.
In particolare, si riportano alcuni tratti della sentenza del Supremo Organo di Giustizia Amministrativa del 16.05.2016, n. 1969 che, in relazione all'esistenza del conflitto di interessi ha affermato: 'Per pacifica giurisprudenza, quest'ultimo sussiste allorché i componenti di un collegio amministrativo siano portatori di un interesse personale divergente da quello affidato alle cure dell'organo di cui fanno parte (Cons. Stato, Sez. III; 02/04/2014, n. 1577; Sez. V, 13/06/2008, n. 2970).
Nel caso di specie tale divergenza non è configurabile, in quanto, l'interesse dei componenti della Giunta Municipale e del Dirigente del Settore Personale, coincide con quello pubblico perseguito con l'atto di ritiro, ovvero evitare non dovuti esborsi di denaro pubblico per effetto di provvedimenti di stabilizzazione ritenuti illegittimi.
Giova soggiungere che la verifica della sussistenza del conflitto d'interessi, dovendo essere condotta sotto un profilo eminentemente oggettivo, non è influenzata dalle motivazioni soggettive poste a base dell'agire
.'
[7]
Se, dunque, secondo tale sentenza non sussisterebbe l'obbligo di astensione nel caso di interesse coincidente con quello pubblico, né rileverebbero le motivazioni soggettive che spingono l'amministratore locale ad agire, al contempo, si ritiene necessario segnalare, altresì, quelle pronunce giurisprudenziali che, invece, ritengono sussistente l'obbligo di astensione quando 'dalla situazione concreta emerga la mancanza di una posizione di neutralità rispetto a concreti interessi a contenuto patrimoniale facenti capo direttamente e indirettamente al consigliere comunale'.
[8] In tale alveo si pongono quelle sentenze che, in linea generale, affermano che il conflitto di interessi rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di astensione di cui all'articolo 78, comma 2, TUEL, 'a tutela dell'immagine dell'amministrazione', [9] è anche quello potenziale.
Circa la nozione di conflitto di interessi potenziale, elaborata in diversi settori del diritto, si rileva che essa ricomprende quelle 'situazioni in grado di compromettere, anche solo potenzialmente, l'imparzialità richiesta [...] nell'esercizio del potere decisionale.'
[10]
Costituiscono esplicazione di tale principio una serie di ulteriori affermazioni giurisprudenziali. In particolare, è stato affermato che: 'La regola della astensione del consigliere comunale deve trovare applicazione in tutti i casi in cui il consigliere, per ragioni obiettive, non si trovi in posizione di assoluta serenità rispetto alle decisioni da adottare di natura discrezionale; in tal senso il concetto di 'interesse' del consigliere alla deliberazione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire alla adozione di una delibera (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.11.2003, n. 7050)'.
[11]
Ancora, è stato rilevato che: 'In linea generale, è configurabile un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi o dei titolari di organi monocratici che si vengano a trovare in posizione di conflitto di interessi perché portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto anche potenziale con l'interesse pubblico. Il conflitto d'interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo istituzionale ed un altro di tipo personale. La ratio di tale obbligo va ricondotta al principio costituzionale dell'imparzialità dell'azione amministrativa sancito dall'art. 97 Cost., a tutela del prestigio dell'amministrazione che deve essere posta al di sopra del sospetto, e costituisce regola tanto ampia quanto insuscettibile di compressione alcuna (Conferma della sentenza del Tar Molise, sez. I, 04.09.2008, n. 718)'.
[12]
Corollario dei principi da ultimo espressi è che l'obbligo di astensione sussiste anche 'quando la votazione non potrebbe avere altro apprezzabile esito e quand'anche la scelta fosse in concreto la più utile e la più opportuna per lo stesso interesse pubblico.'
[13]
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[1] Si tratta di un soggetto diverso da quello che ha emesso l'atto di diniego di autorizzazione al mutamento di destinazione d'uso di un fabbricato assunto nell'anno 1998.
[2] Per completezza espositiva, si segnala che la delibera in riferimento ha, altresì, disposto l'autorizzazione al sindaco a proporre ricorso innanzi al Consiglio di Stato con riferimento ad altra sentenza, rispetto a quella citata nel testo del parere, relativa all'avvenuto annullamento, da parte del giudice di primo grado, di una ordinanza-ingiunzione di demolizione, nonché ha individuato il legale cui affidare l'incarico di patrocinio legale dei ricorsi in riferimento.
[3] Lo statuto del Comune prevede, infatti, che la giunta, tra l'altro, decida 'con proprio atto la costituzione in giudizio dell'Ente e la proposizione delle liti ed autorizza il Sindaco a stare in giudizio' [articolo 28, comma 4, lett. n)].
[4] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.09.2014, n. 4806.
[5] TAR Calabria, Reggio Calabria, sentenza del 09.01.2014, n. 18.
[6] TAR Veneto, Venezia, sez. II, sentenza del 27.01.2015, n. 92.
[7] Il caso sottoposto all'attenzione del Consiglio di Stato, che si è espresso riformando la precedente pronuncia del tribunale amministrativo regionale della Campania, riguardava l'avvenuto annullamento in autotutela di una delibera della giunta comunale che aveva stabilizzato alcuni dipendenti precari. Il provvedimento di ritiro era stato ritenuto viziato in quanto adottato col contributo del dirigente del Settore Personale e di alcuni componenti della giunta che, per essere personalmente coinvolti nell'indagine della Procura contabile instaurata con riferimento alla delibera di stabilizzazione, si sarebbero dovuti astenere trovandosi in situazione di conflitto di interesse.
[8] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza dell'08.07.2002, n. 3804. Sul medesimo concetto la sentenza in riferimento richiama anche altra giurisprudenza del medesimo Consiglio (Cons. Stato, IV, 28.01.2000, n. 442) secondo cui 'l'obbligo di astensione cui è soggetto il consigliere comunale in relazione alle delibere alle quali sia direttamente o indirettamente interessato, è giustificato dal coinvolgimento dell'interesse del consigliere stesso, indipendentemente dal vantaggio o svantaggio che in concreto possa derivargli, in conseguenza di quella serenità che egli deve avere all'atto dell'adozione di un provvedimento di natura discrezionale'.
[9] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.06.2008, n. 2970.
[10] Affermazione espressa dall'Autorità Nazionale Anticorruzione (orientamento n. 95 del 07.10.2014), con riferimento all'articolo 6-bis della legge 241/1990. Afferma, ancora, tale Autorità che 'il riferimento alla potenzialità del conflitto di interessi mostra la volontà del legislatore di impedire ab origine il verificarsi di situazioni di interferenza, rendendo assoluto il vincolo dell'astensione, a fronte di qualsiasi posizione che possa, anche in astratto, pregiudicare il principio di imparzialità.
L'obbligo di astensione, dunque, non ammette deroghe ed opera per il solo fatto che il dipendente pubblico risulti portatore di interessi personali che lo pongano in conflitto con quello generale affidato all'amministrazione di appartenenza'.
[11] Consiglio di Stato, sentenza 2970/2008, citata in nota 9.
[12] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 28.05.2012, n. 3133.
[13] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 26.05.2003, n. 2826
(18.04.2017 -
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ATTI AMMINISTRATIVIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'urgenza va motivata. Per le delibere di immediata eseguibilità. È necessaria un'autonoma votazione a maggioranza dei componenti.
Ai sensi dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, in materia di deliberazioni del consiglio e della giunta dichiarate immediatamente eseguibili, nel caso di urgenza, con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, è necessaria una specifica motivazione giustificativa della formula di «immediata eseguibilità»?

In linea generale, in base alla disposizione citata, la dichiarazione di immediata eseguibilità risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata votazione che la approvi con il voto favorevole della maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente distinta.
A tal proposito, il Tar Liguria, sez. II, con decisione n. 2/2007 ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la dichiarazione di immediata eseguibilità, per motivi di urgenza, di una delibera di consiglio o di giunta, sia oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa. Lo stesso tribunale ha puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale, basata sul requisito dell'urgenza, dell'amministrazione procedente.
Sullo specifico quesito, si condividono le osservazioni formulate dal Tar Piemonte nella sentenza n. 460 del 2014 circa la indefettibilità di una adeguata motivazione giustificativa della dichiarazione di immediata eseguibilità. Nella citata pronuncia il giudice amministrativo ha ritenuto che «la clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto» (articolo ItaliaOggi del 14.04.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: Commissioni consiliari e conferenze dei capigruppo.
1) La previsione circa la possibilità, per il consiglio comunale, di avvalersi di commissioni consiliari deve essere contenuta nello statuto comunale. Spetta, poi, al regolamento consiliare disciplinare la loro istituzione, composizione e funzionamento.
2) Non è possibile demandare alla conferenza dei capigruppo la discussione della bozza di un regolamento che spetterebbe, invece, alla commissione consiliare di riferimento, attesa sia la diversità dei compiti ordinariamente propri di tali due organi, sia la diversa composizione degli stessi, atteso che la conferenza dei capigruppo non rispecchia il criterio di rappresentatività richiesto, invece, per le commissioni consiliari.

Il Comune chiede un parere in materia di commissioni consiliari anche in riferimento al distinguo tra l'attività svolta dalle stesse e quella propria della conferenza dei capigruppo.
Più in particolare, premesso che il vigente regolamento sul funzionamento del consiglio comunale nulla dispone in merito alle commissioni consiliari, la cui previsione è contenuta solo in sede statutaria, chiede se sia possibile istituire una commissione consiliare specifica, diretta ad analizzare i contenuti della bozza di un regolamento volto a disciplinare l'istituto del baratto amministrativo.
[1] Tale richiesta consegue ad un atto di assunzione di impegno da parte del consiglio comunale che, nel corso di una seduta avente ad oggetto la disamina di una bozza di regolamento afferente il baratto amministrativo, demandava la valutazione circa la fattibilità di tale atto di normazione secondaria alla successiva disamina della questione da parte di una apposita commissione consiliare.
In subordine, chiede se la bozza di regolamento di cui in oggetto possa essere discussa, invece che in sede di commissione consiliare, in seno alla conferenza dei capogruppo.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
L'articolo 38 dello statuto rubricato 'Commissioni consiliari' prevede che: '1. Il consiglio comunale può avvalersi di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale, secondo le modalità previste dal regolamento che ne disciplina altresì il funzionamento e le forme di pubblicità dei lavori.
2. Esse potranno avere natura sia permanente, che speciale
'.
Come già anticipato, il vigente regolamento per il funzionamento del consiglio comunale non contiene alcuna previsione sulle commissioni consiliari di talché, ad oggi, l'Ente risulta essere privo di una disciplina volta a definire quali siano e come debbano operare le stesse. Al contempo, va, altresì, rilevato che si tratta di organi non necessari dell'ente locale cosicché la loro istituzione è meramente facoltativa (sempreché esista nello statuto la previsione circa la loro esistenza)
[2]. Come rilevato dal Ministero dell'Interno, [3] 'esse non sono organi necessari dell'ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell'organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell'ambito della competenza dei consigli'.
Attesa la natura giuridica di tali commissioni, che sono delle articolazioni interne del consiglio, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso propria, considerata l'oggettiva impossibilità di loro costituzione, per assenza di una disciplina relativa alla loro istituzione, composizione e funzionamento, si ritiene che la questione da trattare in seno alla stessa debba essere affrontata dal consiglio comunale nell'ambito delle competenze ad esso proprie. In alternativa, questi dovrebbe integrare il proprio regolamento consiliare o, il che è lo stesso, introdurre una disciplina regolamentare specifica diretta alla loro regolamentazione.
Con riferimento alla seconda questione posta, si osserva, in generale, che i gruppi consiliari costituiscono aggregazioni di carattere politico all'interno del consiglio comunale la cui esistenza, benché non espressamente sancita da alcuna norma espressa, risulta tuttavia desumibile da diverse norme contenute nel TUEL.
[4]
In particolare, quanto alla conferenza dei capigruppo, in assenza di specifiche indicazioni normative circa il suo funzionamento ed attività, si ritiene che la fonte deputata a stabilire un tanto sia quella statutaria e/o regolamentare. Al riguardo, lo statuto dell'Ente dispone che 'É istituita la conferenza dei capigruppo, secondo le modalità di cui al regolamento' (articolo 37). L'atto regolamentare, all'articolo 49, poi, prevede che: 'Nei casi previsti dalla legge, dallo Statuto Comunale o qualora si renda necessario, il Sindaco provvede alla convocazione della conferenza dei capigruppo consiliari. L'avviso di convocazione con i relativi oggetti deve essere recapitato ai capigruppo consiliari almeno due giorni interi prima di quello fissato per la conferenza. Le funzioni di Segretario verbalizzante sono svolte dal segretario Comunale o, in caso di impedimento, da un suo delegato'.
Le disposizioni citate non declinano le competenze di tale conferenza dei capigruppo. Di conseguenza si ritiene che la stessa, in linea con le funzioni ordinariamente proprie di quest'organo, abbia competenza 'in materia di programmazione dei lavori del consiglio e di coordinamento delle attività delle Commissioni consiliari'
[5] nonché compiti rivolti a consentire di conseguire la finalità di garantire e sostanziare il diritto di informazione dei consiglieri, sia come singoli che come gruppo, previsto dall'articolo 39, comma 4, del D.Lgs. 267/2000. [6] Di qui l'impossibilità di equiparare l'attività dalla stessa svolta a quella propria delle commissioni consiliari che, invece, svolgono funzioni più propriamente 'consultive, istruttorie, di studio e di proposta direttamente finalizzate alla preparazione dell'attività del consiglio' [7].
Alla luce di quanto sopra espresso si ritiene che non sia possibile demandare alla conferenza dei capigruppo la discussione della bozza di regolamento sul baratto amministrativo che spetterebbe, invece, alla commissione consiliare di riferimento, o in sua mancanza, al consiglio comunale.
Per completezza espositiva, si segnala che a diverse conclusioni si potrebbe pervenire nel caso in cui il regolamento del consiglio comunale prevedesse la costituzione della conferenza dei capigruppo con le modalità di cui all'articolo 38, comma 6, TUEL, e con attribuzione alla stessa di poteri e funzioni coincidenti con quelli delle commissioni consiliari. In particolare, quanto a sua composizione, si ricorda che, ordinariamente, la conferenza dei capigruppo non rispecchia il criterio di rappresentatività richiesto, invece, per le commissioni consiliari.
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[1] Normativa di riferimento per la disciplina di tale istituto giuridico è l'articolo 24 del decreto legge 12.09.2014, n. 133, come sostituito dalla legge di conversione 11.11.2014, n. 164 e l'articolo 190 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
[2] Si veda, al riguardo, l'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo 18.08.20000, n. 267 il quale recita: 'Quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori'.
[3] Ministero dell'Interno, parere del 03.04.2014.
[4] Si consideri, al riguardo, l'articolo 38, comma 3, TUEL nella parte in cui demanda al regolamento sul funzionamento dei consigli comunali la disciplina, tra l'altro, anche della gestione delle risorse attribuite per il funzionamento dei gruppi consiliari regolarmente costituiti. Ancora, l'articolo 39, comma 4, TUEL, prevede che il presidente del consiglio comunale assicura una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari sulle questioni sottoposte al consiglio.
[5] Così Ministero dell'Interno, pareri del 29.02.2012; del 20.04.2010 e del 03.11.2009.
[6] Anche la dottrina ha rilevato che 'la conferenza dei capigruppo, all'interno dell'articolazione del consiglio comunale, costituisce una 'commissione' a cui vengono generalmente affidati compiti collaborativi con il presidente dell'assemblea per la redazione dell'ordine del giorno (una sorta di pre-informazione sugli argomenti da discutere); oppure, in funzione di apposite norme regolamentari, possiede compiti istruttori finalizzati alla stesura di atti regolamentari o alle modifiche statutarie o a specifiche materie'. (articolo dal titolo 'Niente gettoni ai componenti della conferenza dei capigruppo e doverosa contestazione in caso di mancato recupero della somma erogata', in Gazzetta degli enti locali, 08.09.2011).
[7] Così Ministero dell'Interno, pareri citati in nota 5
(07.04.2017 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Computo del periodo di pubblicazione delle deliberazioni degli enti locali.
Secondo il Ministero dell'interno, in conformità all'orientamento giurisprudenziale, nel periodo di 15 giorni consecutivi previsti per la pubblicazione delle deliberazioni comunali va computato il giorno iniziale.
Il Comune chiede di conoscere se il computo dei giorni utili al compimento dell'obbligo di pubblicazione delle deliberazioni degli enti locali, che costituisce presupposto per la loro esecutività
[1], includa, o meno, il giorno iniziale, rilevando che il Ministero dell'interno afferma che «nel periodo di 15 giorni consecutivi previsti per la pubblicazione delle deliberazioni comunali va computato il dies a quo [...]» [2].
Considerato che nel documento intitolato «Redazione di linee guida sulla pubblicità legale dei documenti e sulla conservazione dei siti web delle PA» (maggio 2016)
[3], che non risulta ancora essere stato approvato in via definitiva [4], l'Agenzia per l'Italia Digitale - AgID asserisce, invece, che il periodo di pubblicazione è di quindici giorni interi e consecutivi e che il computo dei giorni inizia dal giorno successivo alla data di pubblicazione [5], questo Ufficio ha ritenuto doveroso interpellare, in via collaborativa, la predetta Agenzia [6], al fine di conoscere le motivazioni giuridiche in base alle quali essa ritenga preferibile assumere tale orientamento.
Atteso il tempo trascorso dalla richiesta di parere avanzata dal Comune, nelle more di un auspicabile riscontro dell'AgID, a tutt'oggi non pervenuto, questo Ufficio ritiene di poter comunque rappresentare quanto segue.
L'avviso reso dal Ministero dell'interno si fonda sulle previsioni contenute nell'art. 124, comma 1
[7] e nell'art. 134, comma 3 [8], del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, mentre in questa Regione occorre fare riferimento alla disciplina recata dall'art. 1, comma 15, secondo periodo («Le deliberazioni [...] degli enti locali sono pubblicate, entro sette giorni dalla data di adozione [9], per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge.») e comma 19, primo periodo («Gli atti degli organi collegiali di governo degli enti locali diventano esecutivi il giorno successivo al termine della pubblicazione, salvo che, per motivi di urgenza, siano dichiarati immediatamente eseguibili con il voto espresso della maggioranza dei componenti dell'organo deliberante.») della legge regionale 11.12.2003, n. 21.
Si ritiene che l'interpretazione fornita dal Ministero dell'interno, in aperta adesione all'insegnamento giurisprudenziale
[10] [11], sia valida anche in riferimento alla normativa vigente in questo territorio regionale, atteso che l'espressione utilizzata «pubblicate [...] per quindici giorni consecutivi» è la medesima.
Secondo la Cassazione civile «il dies a quo del periodo di affissione
[12] non può che comprendere il giorno iniziale», in considerazione tanto del dato testuale della norma di legge, il quale prevede esattamente il periodo di durata della pubblicazione (quindici giorni consecutivi), quanto dell'osservazione che l'applicazione della regola generale posta dall'art. 2963 [13] del codice civile e dall'art. 155 [14] del codice di procedura civile incontra un limite oggettivo.
Il Giudice osserva, infatti, che la regola secondo la quale nel computo del termine si esclude il giorno iniziale costituisce senza dubbio un 'criterio generale per il computo del tempo', ma rileva che essa si riferisce ai termini che assumono come punto di riferimento un evento dal verificarsi del quale acquista rilevanza giuridica l'attività o l'inattività di un soggetto e non trova, invece, applicazione laddove una norma di legge prenda in considerazione o assegni rilevanza ad una situazione secondo la sua durata effettiva.
La suprema Corte afferma, perciò, che «ai fini del compimento del periodo di affissione indicato dall'art. 124 del d.lgs. n. 267 del 2000, e in relazione ad ogni effetto giuridico connesso all'affissione, il giorno iniziale non può non restare compreso nel periodo, atteso che esso, come, peraltro, si ricava espressamente dal testo della norma, è uno dei giorni utili alle finalità (conoscenza legale per la generalità dei cittadini) dell'affissione stessa».
Qualora l'AgID fornisca considerazioni sulla questione in esame, sarà cura dello scrivente Ufficio darne tempestiva informazione.
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[1] Si tratta, perciò, delle deliberazioni 'ordinarie', vale a dire di quelle non dichiarate immediatamente eseguibili.
[2] V. parere del 13.09.2006.
[3] V. qui
[4] V. www.agid.gov.it/documentazione/linee-guida
[5] V. par. 7, pag. 7.
[6] Tanto informalmente via mail, quanto con nota prot. n. 12461 del 14.12.2016.
[7] «Tutte le deliberazioni del comune e della provincia sono pubblicate [...] per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge.».
[8] «Le deliberazioni [...] diventano esecutive dopo il decimo giorno dalla loro pubblicazione.».
[9] Le deliberazioni dichiarate immediatamente eseguibili sono, invece, pubblicate entro cinque giorni dalla loro adozione (art. 1, comma 19, secondo periodo, della legge regionale 11.12.2003, n. 21).
[10] V. Cassazione civile - Sez. I, 08.06.2004, n. 12240.
[11] In dottrina, l'orientamento è ricordato, tra gli altri, in:
- La gestione degli atti amministrativi. Principi, procedure, competenze e aspetti teorico pratici, Halley editrice, settembre 2011;
- La gestione dell'albo pretorio. Modalità, adempimenti e tempistica delle pubblicazioni nell'albo pretorio on-line, Halley editrice, dicembre 2011;
- Agenda dei Comuni 2012 - Guida normativa, Grafiche E. Gaspari Ed., dicembre 2011.
[12] Da intendersi ora come 'pubblicazione'.
[13] La norma, trattando dei termini di prescrizione, dispone che «Non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell'ultimo istante del giorno finale.» (secondo comma).
[14] L'articolo, nel disciplinare i termini processuali, prevede che «Nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l'ora iniziali.»
(primo comma) (03.04.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori locali obblighi di comunicazione e relativo regime sanzionatorio nel D.Lgs. n. 33/2013.
L'art. 14, D.Lgs. n. 33/2013, disciplina gli obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali, da parte delle pubbliche amministrazioni, per i dati e le informazioni ivi previsti.
Ai sensi dell'art. 47, comma 1, D.Lgs. n. 33/2013, la mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati di cui all'articolo 14, concernenti la situazione patrimoniale complessiva del titolare dell'incarico al momento dell'assunzione in carica, la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti entro il secondo grado, nonché tutti i compensi cui dà diritto l'assunzione della carica, dà luogo a una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10.000 euro a carico del responsabile della mancata comunicazione e il relativo provvedimento è pubblicato sul sito internet dell'amministrazione o organismo interessato.
Le modalità di attuazione dell'art. 47 richiamato sono state dettate da ultimo nella delibera ANAC 15.03.2017, n. 241.

L'Amministratore locale chiede di sapere se il provvedimento col quale è stata irrogata la sanzione per violazione degli obblighi di trasparenza previsti dalla L. n. 441/1982
[1], dal D.L. n. 174/2012 [2] e dal D.Lgs. n. 33/2013 [3], debba intendersi riservato. L'Amministratore chiede inoltre chiarimenti in ordine all'obbligo di riportare il codice fiscale del soggetto sanzionato.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L'art. 14, D.Lgs. n. 33/2013, disciplina gli obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali, da parte delle pubbliche amministrazioni, per i dati e le informazioni ivi previsti
[4].
Per quanto riguarda il primo aspetto del quesito, si osserva che il provvedimento sanzionatorio non risulta coperto da riservatezza, ai sensi dell'art. 47, comma 1, D.Lgs. n. 33/2013, il quale prevede che la mancata o incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati di cui all'articolo 14, concernenti la situazione patrimoniale complessiva del titolare dell'incarico al momento dell'assunzione in carica, la titolarità di imprese, le partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei parenti entro il secondo grado, nonché tutti i compensi cui dà diritto l'assunzione della carica, dà luogo a una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10.000 euro a carico del responsabile della mancata comunicazione e il relativo provvedimento è pubblicato sul sito internet dell'amministrazione o organismo interessato.
Si rileva in proposito che le modalità di attuazione dell'art. 47 richiamato sono state dettate da ultimo nella delibera ANAC 15.03.2017, n. 241
[5].
Per quanto concerne la necessità dell'indicazione del codice fiscale, si osserva che il Garante per la protezione dei dati personali, con riferimento agli obblighi di pubblicazione previsti dal D.Lgs. n. 33/2013 -tra i quali, ad esempio, quelli relativi alle dichiarazioni dei redditi, ex art. 14- ha affermato che i soggetti destinatari degli obblighi di pubblicazione contenuti nel D.Lgs. n. 33/2013 sono tenuti al rispetto dei principi di pertinenza e non eccedenza (art. 11, comma 1, lett. d) del Codice), sicché non risulta giustificato diffondere, tra l'altro, i recapiti personali oppure il codice fiscale dell'interessato
[6].
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[1] L. 05.07.1982, n. 441, recante: 'Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche elettive di alcuni enti'.
[2] Con riferimento alle province e ai comuni, il D.L. n. 174/2012 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 07.12.2012, n. 213, aveva introdotto l'art. 41-bis del D.Lgs. n. 267/2000, che disciplinava gli obblighi di trasparenza dei titolari di cariche elettive e di governo negli enti locali con popolazione superiori a 15.000 abitanti, e che è stato abrogato dal D.Lgs. n. 33/2013.
[3] D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, recante: 'Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte della pubblica amministrazione'.
[4] L'elenco contiene, tra l'altro, le dichiarazioni di cui all'art. 2, L. n. 441/1982, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli artt. 3 e 4 della medesima legge, relative alla situazione reddituale dell'interessato e a quella del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano (art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 33/2013).
[5] 'Linee guida recanti indicazioni sull'attuazione dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013 'Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali' come modificato dall'art. 13 del d.lgs. 97/2016'.
[6] Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento n. 243 del 15.05.2014, recante: 'Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati'
(24.03.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori locali obblighi di trasparenza ai sensi del D.Lgs. n. 33/2013.
Ai sensi dell'art. 14, D.Lgs. n. 33/2013, i titolari di incarichi politici e gli altri soggetti indicati hanno l'obbligo di comunicare i dati e le informazioni previsti, tra cui, alla lett. f), le dichiarazioni di cui all'art. 2, L. n. 441/1982, e dunque, tra l'altro, le dichiarazioni dei redditi soggetti all'imposta sul reddito delle persone fisiche (art. 2, comma 2, L. n. 441/1982).
L'ANAC ha precisato che gli obblighi di pubblicazione delle dichiarazioni reddituali e patrimoniali dei titolari di incarichi politici valgono per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Ciò, in ragione della previsione di cui all'art. 1, comma 1, n. 5, L. n. 441/1982 -che viene in considerazione essendo stato abrogato dal D.Lgs. n. 33/2013 l'art. 41-bis del D.Lgs. n. 267/2000-, secondo cui le disposizioni della legge medesima si applicano ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia ovvero con popolazione superiore a 15.000 abitanti.

L'amministratore locale, consigliere in un comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, chiede chiarimenti in ordine all'obbligo di dichiarare i propri redditi, ai sensi del D.Lgs. n. 33/2013.
L'art. 14, D.Lgs. n. 33/2013, disciplina gli obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali, da parte delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, ai sensi del comma 1, lett. f, dell'art. 14 richiamato, gli enti locali pubblicano, con riferimento ai titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, le dichiarazioni di cui all'art. 2, L. n. 441/1982, e dunque, tra l'altro, le dichiarazioni dei redditi soggetti all'imposta sul reddito delle persone fisiche (art. 2, comma 2, L. n. 441/1982).
L'art. 1, comma 1, n. 5, L. n. 441/1982, come novellato dall'art. 52, comma 1, lett. a), n. 4), D.Lgs. n. 33/2013, prevede che le disposizioni della legge medesima si applicano ai consiglieri di comuni capoluogo di provincia ovvero con popolazione superiore ai 15.000 abitanti.
Peraltro, l'art. 14 del D.Lgs. n. 33/2013, pur richiamando l'art. 2, L. n. 441/1982 (applicabile nei comuni al di sopra dei 15.000 abitanti), non differenzia espressamente la disciplina degli obblighi di pubblicazione ivi previsti a seconda della dimensione demografica dei comuni, essendo rivolto in generale alle pubbliche amministrazioni.
I chiarimenti in proposito sono stati forniti dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT)
[1], con la delibera 31.07.2013, n. 65.
In particolare, la Commissione ha affermato che, con specifico riferimento all'individuazione dei comuni a cui si applica l'art. 14, comma 1, lett. f), stante l'abrogazione dell'art. 41-bis
[2] del d.lgs. n. 267/2000 da parte del D.Lgs. n. 33/2013, occorre considerare il riferimento all'art. 1, comma 1, n. 5) della L. n. 441/1982.
Pertanto, ai sensi della richiamata norma, sono soggetti agli obblighi di pubblicazione relativamente alla situazione reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche elettive i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, fermo restando l'obbligo di pubblicazione per tutti i comuni, indipendentemente dal numero di abitanti, dei dati e delle informazioni di cui alle lettere da a) ad e) del medesimo art. 14, comma 1.
Questa posizione è stata confermata dall'ANAC, dapprima nella delibera 07.10.2014 n. 144 e da ultimo nella recente delibera 15.03.2017, n. 241
[3], ove l'Autorità ribadisce l'esclusione dall'obbligo della pubblicazione dei dati di cui all'art. 14, c. 1, lett. f) (dichiarazioni reddituali e patrimoniali) per i titolari di incarichi politici nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, fermo restando, anche in questi comuni, l'obbligo di pubblicare i dati e le informazioni di cui alle lett. da a) ad e) del medesimo art. 14, c. 1.
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[1] Ai sensi dell'art. 1, comma 1, L. n. 190/2012, la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche, di cui all'art. 13 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, è individuata e opera quale Autorità nazionale anticorruzione.
Dal 31.10.2013, con l'entrata in vigore della legge n. 125 del 2013, di conversione del decreto legge 31.08.2013, n. 101, la CIVIT ha assunto la denominazione di 'Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche' (A.N.AC.) (art. 5, c. 3, D.L. n. 101/2013).
[2] La norma, introdotta dal D.L. n. 174/2012, disciplinava gli obblighi di trasparenza dei titolari di cariche elettive e di governo negli enti locali con popolazione superiore a 15.000 abitanti.
[3] 'Linee guida recanti indicazioni sull'attuazione dell'art. 14 del d.lgs. 33/2013 'obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali' come modificato dall'art. 13 del d.lgs. 97/2016'
(20.03.2017 -
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APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Durata rinnovo contratto di appalto.
Secondo l'orientamento della giurisprudenza e dell'ANAC, è consentito il rinnovo del contratti pubblici, purché detta eventualità sia prevista nel bando di gara, e il rinnovo avvenga alle stesse condizioni del contratto originario, per un tempo predeterminato e limitato, in modo espresso e con adeguata motivazione.
Queste considerazioni fanno ritenere che il rinnovo del contratto, ove previsto negli atti di gara, debba avvenire per il tempo espressamente indicato. Un tanto, in considerazione dell'esigenza di tutela della concorrenza, che richiede di mantenere, in sede di rinnovo, le condizioni rese evidenti in sede di gara, che hanno determinato le valutazioni dei concorrenti di partecipare alla gara stessa e potersi assumere l'impegno di eseguire il contratto per tutta la sua durata comprensiva di quella eventuale.

Il Comune riferisce di avere in corso un contratto di appalto per la gestione di servizi afferenti alla locale casa di riposo, che prevede espressamente la durata di 24 mesi, in scadenza il 31.05.2017, e la possibilità di rinnovo per ulteriori 24 mesi, ad insindacabile giudizio dell'Ente Appaltante. L'Ente chiede se sia possibile un rinnovo di durata inferiore (nel caso, di 7 mesi).
Si premette che l'attività di questo Servizio consta nel fornire un supporto giuridico generale sulle questioni poste dagli enti locali, senza entrare nel merito dei casi rappresentati e lungi dall'interferire sull'interpretazione dei contenuti degli atti negoziali o unilaterali dei comuni. Ciò premesso, in via collaborativa, si esprimono sul caso in esame le seguenti considerazioni.
Il contratto dell'Ente ricade nell'ambito temporale di applicazione del previgente D.Lgs. n. 163/2006, ai sensi dell'art. 216, comma 1, D.Lgs. n. 50/2016
[1].
Inoltre, l'ANAC
[2] ritiene che continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti anche agli affidamenti aggiudicati prima della data di entrata in vigore del nuovo codice, per i quali, sia disposto -fermo restando il divieto generale di rinnovo tacito del contratto e di proroga del contratto- il rinnovo del contratto già previsto nel bando di gara.
Con quest'ultima precisazione, l'ANAC risulta allineare la sua posizione, in tema di rinnovo dei contratti pubblici, a quella della giurisprudenza che distingue l'ipotesi in cui la possibilità del rinnovo non è stata espressamente indicata nella lex specialis, da quella in cui il bando contempla detta eventualità, facendone discendere, in tale secondo caso, la possibilità che le amministrazioni dispongano la 'proroga' dei rapporti in corso, alle medesime condizioni, purché per un tempo predeterminato e limitato, in modo espresso e con adeguata motivazione
[3].
Secondo il Consiglio di Stato
[4], un argomento positivo a favore dell'ammissibilità del rinnovo contrattuale, se espressamente previsto dalla lex specialis di gara, si trae dall'art. 29 del (previgente n.d.r.) Codice dei contratti pubblici, che a proposito del valore stimato degli appalti e dei servizi pubblici prescrive che si tenga conto di qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto [5].
Per il Supremo giudice amministrativo, posto che il principio del divieto di rinnovo è ispirato alla finalità di scongiurare affidamenti reiterati allo stesso soggetto in elusione del principio di concorrenza, che più di ogni altro garantisce la scelta del miglior contraente, nessuna lesione alle regole di trasparenza, concorrenzialità, parità di trattamento è possibile riscontrare, allorché la facoltà di rinnovo sia resa nota ai concorrenti sin dall'inizio delle operazioni di gara, cosicché ognuno possa formulare le proprie offerte in considerazione della durata eventuale del contratto. Inoltre, l'inserimento della clausola di rinnovo consente all'amministrazione di rivalutare la convenienza del rapporto in essere alla sua scadenza e di confermare il medesimo contraente del quale è già comprovata l'idoneità tecnica e la capacità economica.
Venendo al quesito posto dall'Ente, circa la possibilità di operare il rinnovo del contratto per un periodo inferiore a quello espressamente previsto negli atti di gara e nel contratto, si rileva che le riflessioni della giurisprudenza richiamata farebbero propendere per un'interpretazione della clausola di durata del contratto dell'Ente in senso rigorosamente letterale, con la conseguenza che qualora l'Ente intendesse avvalersi della facoltà del rinnovo, dovrebbe farlo per l'ulteriore periodo di tempo espressamente stabilito in detta clausola, cioè per 24 mesi.
In proposito, viene in considerazione l'esigenza di tutela della concorrenza, che richiede di mantenere, in sede di rinnovo, le condizioni rese evidenti in sede di gara, specificamente in ordine alla durata eventuale. Dette condizioni, infatti, hanno determinato le valutazioni dei concorrenti di partecipare alla gara e potersi assumere l'impegno di eseguire il contratto per tutta la sua durata, comprensiva di quella dell'eventuale rinnovo. Il rinnovo del contratto per un periodo inferiore a quello previsto negli atti di gara potrebbe avere l'effetto di alterare questa par condicio dei concorrenti. Ed invero, se la clausola del rinnovo fosse stata prevista nel bando di gara per una durata inferiore, ciò avrebbe potuto avere l'effetto di modificare la platea dei partecipanti alla gara.
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[1] Il D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, ha abrogato, all'art. 217, c. 1, lett. e), il previgente D.Lgs. n. 163/2006 e ha stabilito, all'art. 216, che le disposizioni del decreto medesimo si applicano alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla sua entrata in vigore (19.04.2016).
[2] ANAC, Comunicato del Presidente dell'11.05.2016.
[3] Consiglio di Stato, Sez. III, 05.07.2013, n. 3580; Sez. VI, 24.11.2011, n. 6194; Sez. VI, 16.02.2010, n. 850; Sez. V, 27.04.2012, n. 2459
[4] Consiglio di Stato n. 3580/2013 cit., che richiama, in tal senso, Consiglio di Stato nn. 850/2010 e 2459/2012 citt..
[5] In proposito, si osserva che l'art. 35, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016, in attuazione della Direttiva 26.02.2014, n. 2014/24/UE (art. 5), prevede che 'Il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e forniture è basato sull'importo totale pagabile, al netto dell'IVA, valutato dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore. Il calcolo tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei documenti di gara. [...]'
(16.03.2017 -
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NEWS

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIUn solo placet ambientale. Potrà sostituire Via e autorizzazione all'attività. Lo prevede un dlgs varato, in prima lettura, dal consiglio dei ministri.
Arriva il provvedimento unico ambientale e spunta la «Vinca» (valutazione d'incidenza) nella Via (Valutazione d'impatto ambientale). Uno schema di dlgs, approvato venerdì in consiglio dei ministri (prima lettura), va a modificare la parte seconda del dlgs 152/2006, introducendo una nuova disciplina degli istituti soggetti alla verifica di assoggettabilità alla Via.
In particolare, il dlgs ribattezza come «Vinca» la vecchia Via e introduce nell'ordinamento italiano un nuovo istituto: una sorta di provvedimento unico ambientale che in colpo solo sostituisce sia la vecchia Via, sia la successiva autorizzazione ambientale all'esercizio delle attività.

Lo schema di dlgs (Atto del Governo n. 401 - Schema di decreto legislativo recante attuazione della direttiva 2014/52/UE che modifica la direttiva 2011/92/UE concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati) punta a recepire nell'ordinamento italiano la direttiva 2014/52/Ue del parlamento europeo del 16/04/2014.
Gli obiettivi dichiarati sono: efficientare le procedure, innalzare i livelli di tutela ambientale e contribuire a sbloccare il potenziale derivante dagli investimenti in opere, infrastrutture e impianti per rilanciare la crescita sostenibile. Ma andiamo con ordine.
Semplificazioni. Per i progetti assoggettati a Via statale, viene prevista la facoltà per il proponente di richiedere, in alternativa al provvedimento di Via ordinario (comprensivo della sola valutazione d'incidenza, la «VINCA», ove necessaria), il rilascio di un provvedimento unico ambientale, che coordini e sostituisca tutti i titoli abilitativi o autorizzativi comunque riconducibili ai fattori «ambientali» da prendere in considerazione ai fini della Via. La bozza di decreto (che dovrà ora passare al vaglio della Conferenza stato-regioni e delle commissioni parlamentari) prevede, inoltre:
- razionalizzazione del riparto delle competenze amministrative tra stato e regioni e contrattazione al livello statale delle procedure di Via per infrastrutture e impianti energetici, considerata la loro rilevanza nazionale, salvo limitate eccezioni sui progetti di interesse locale;
- la previsione di una procedura più snella per l'adozione finale del provvedimento di Via di competenza statale (affidata al ministero dell'ambiente, di concerto con i beni culturali), con eliminazione della sottoscrizione dei ministri;
Riorganizzazione. La bozza di dlgs snellisce anche le modalità di funzionamento della commissione Via, da tempo tallone d'Achille dei procedimenti. Per migliorare le performances di questo organismo e assicurare l'integrale copertura dei costi di funzionamento verranno utilizzati solo proventi tariffari versati dai proponenti. La proposta prevede anche la costituzione di un Comitato tecnico a supporto della commissione per le istruttorie.
Altri miglioramenti riguardano il procedimento in sé stesso. Ad esempio, l'eliminazione della fase di consultazione formale del pubblico della procedura di verifica di assoggettabilità a Via, non richiesta dalla normativa europea. Anche la tentazione di approcci dilatori e defatigatori verrà contrastata con la riduzione complessiva dei tempi per la conclusione dei procedimenti, abbinata alla qualificazione di tutti i termini come «perentori», ai sensi e per gli effetti della disciplina generale sulla responsabilità disciplinare e amministrativo contabile dei dirigenti; nonché prevedendo la sostituzione amministrativa in caso di inadempienza.
Queste regole, assieme alle altre previste, costituiranno un quadro omogeneo per il procedimento di Via su tutto il territorio nazionale, e la conseguente rimodulazione delle competenze normative delle Regioni, alle quali viene attribuito esclusivamente il potere di disciplinare l'organizzazione e le modalità di esercizio delle proprie funzioni amministrative, con la facoltà di delegarle agli enti territoriali sub-regionali e di prevedere forme e modalità ulteriori di semplificazione e coordinamento.
C'è poi la completa digitalizzazione degli oneri informativi a carico dei proponenti i progetti, con eliminazione integrale degli obblighi di pubblicazione sui mezzi di stampa; cosa, a ben vedere, non positiva perché ignora il tema del «digital divide». Infine, in ragione delle numerose agevolazioni e semplificazioni procedimentali introdotte dallo schema di decreto, la proposta consente al proponente di richiedere all'autorità competente l'applicazione della nuova disciplina anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto (articolo ItaliaOggi del 14.03.2017).

EDILIZIA PRIVATAL'istanza di condono è uno stop. Demolizione sospesa fino al termine del procedimento. Il Tar Lazio: impossibile acquisire nel patrimonio edilizio del comune l'opera abusiva.
Il comune non può acquisire gratuitamente l'opera abusiva al suo patrimonio se nel frattempo il responsabile dei lavori contro legge ha chiesto il condono: fino a che non è stato definito il procedimento, infatti, l'amministrazione locale non può assumere iniziative repressive che renderebbero inutile l'eventuale rilascio della concessione in sanatoria.

È quanto emerge dalla sentenza 07.02.2017 n. 2056, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso dei proprietari: annullata la determinazione adottata dal dirigente del comune che investe anche l'area di sedime, oltre che l'immobile, dopo l'inottemperanza all'ordine di demolizione delle opere abusive. L'efficacia del provvedimento che impone di abbattere i manufatti contro legge risulta sospesa dalla presentazione della domanda di condono: deve dunque ritenersi preclusa la formazione della fattispecie acquisitiva.
Dopo l'istanza, infatti, l'amministrazione locale ha l'obbligo di pronunciarsi sulla vicenda, stabilendo se l'opera può essere sanata o meno. Mentre la trascrizione dell'acquisizione gratuita al patrimonio vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria: la concessione renderebbe lecita la costruzione dal punto di vista urbanistico. Insomma: la determinazione dell'ente risulta assunta in violazione dell'articolo 38 della legge 47/1985.
Ma non è l'unica pronuncia in tal senso.
Il comune non può annullare in autotutela la Dia concessa a suo tempo e dare il via all'iter per reprimere l'abuso edilizio se non motiva il provvedimento sull'interesse pubblico al ripristino dell'originario stato dei luoghi. E ciò perché più passa il tempo, più si consolida la posizione del destinatario del titolo abilitativo.
È quanto emerge dalla sentenza 23.02.2017 n. 2809, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma, che ha accolto il ricorso del proprietario dell'opera: sono annullate le due note dell'amministrazione con cui si dichiara i lavori eseguiti con la Dia privi di titolo edilizio e si dispone l'iter che porta alla demolizione degli abusi edilizi.
Il ricorrente sostiene che sarebbe scaduto il termine di diciotto mesi ex articolo 21-nonies della legge 241/1990, introdotto dalla riforma Madia. Ma non è questo il punto. Anche in materia edilizia il provvedimento in autotutela costituisce la manifestazione di un potere discrezionale da parte dell'amministrazione: quando il comune decide di esercitarlo, dunque, deve motivare mostrando che al momento in cui si procede l'interesse pubblico ad abbattere il manufatto contro legge prevale su quello del privato a conservare l'atto illegittimo.
Il tutto mentre il decorso del tempo fa insorgere in capo all'interessato uno stato di affidamento sulla Dia con la quale ha realizzato i lavori. Bisogna, quindi, spiegare a chi giova demolire. Inutile poi invocare la relazione del perito allegata alla comunicazione con cui l'ente annuncia l'avvio del procedimento anti abuso edilizio se mancano riferimenti all'interesse pubblico.
Analogamente
il provvedimento conclusivo del comune non può bocciare il condono edilizio per l'opera contro legge per motivi non indicati nel preavviso di rigetto. E ciò perché così facendo si vanifica lo scopo dell'istituto di cui alla legge 10-bis della legge sulla trasparenza, che prevede la partecipazione dell'interessato al procedimento: quando le motivazioni dello stop non coincidono in pieno con quelle annunciate si finisce per rendere inutili le memorie difensive presentate in precedenza dal proprietario del manufatto.
È quanto emerge dalla sentenza 27.08.2017 n. 4111, pubblicato dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli con la quale si accoglie il ricorso del titolare del manufatto, che pure è stato sequestrato.
Il parere dell'ufficio condono del comune spiega come la sanatoria possa essere concessa per le porzioni di immobile oggetto dell'istanza originaria e non per la parte restante, che si ritiene realizzata soltanto dopo la presentazione della domanda: si traccia una netta linea di demarcazione, dalla quale tuttavia si discosta del tutto il dirigente che pronuncia il no definitivo al colpo di spugna.
Ed è proprio questo che fa sorgere dubbi sull'istruttoria condotta dall'amministrazione. Risulta evidente la violazione del principio del contraddittorio perché chi ha realizzato i lavori si vede privato da una fondamentale garanzia tipica del giusto procedimento: articolare valide controdeduzioni ai motivi che secondo il comune impediscono il condono.
Altri precedenti.
Il condono copre le opere edilizie contro legge e non anche la lottizzazione abusiva. È così che se il reato è prescritto ma la confisca risulta confermata, il comune ordina al proprietario di consegnargli l'immobile: la sanatoria delle opere, infatti, è compatibile con la misura ablativa penale ma soltanto con l'eventuale autorizzazione a lottizzare concessa in sanatoria l'ente locale può rinunciare ad acquisire le aree al patrimonio indisponibile comunale.
È quanto emerge dalla sentenza 10.03.2016 n. 668, pubblicata dal TAR Sicilia-Palermo - Sez. II.
L'amministrazione si convince a non demolire i fabbricati. È evidente che l'autorizzazione a lottizzare in sanatoria non può estinguere il reato, ma dimostra soltanto ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici.
E non conta che sia intervenuta nelle more la concessione in sanatoria per le opere edilizie realizzate sui singoli lotti: il titolo abilitativo che è sopravvenuto, infatti, legittima soltanto il manufatto interessato, ma non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione rispetto alle scelte generali di pianificazione urbanistica; la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue invece soltanto all'adozione di un provvedimento esplicito che «legittima» la lottizzazione, emesso dall'autorità amministrativa competente.
Nel nostro caso il Comune concede appunto la sanatoria per le opere abusive, ma non per la lottizzazione. E dunque rispetta l'articolo 19 della legge 47/1985 che vincola l'ente ad acquisire al proprio patrimonio le opere realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di lottizzazione abusiva, benché oggetto di condono (articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017).

INCARICHI PROFESSIONALIUn paracadute per l'avvocato. Può rivolgersi alla controparte se il cliente non paga. Recenti sentenze della Corte di cassazione individuano spiragli sulle parcelle difficili.
Tra date rilevanti ai fini della liquidazione del compenso e valore delle cause, si apre per il legale una sorta di ombrello che gli consente di rivolgersi alla controparte in caso di inadempienza del proprio cliente.
Ci sono tre recentissime sentenze della Cassazione che diventano per la quotidianità della professione legale una sorta di vademecum, da un lato perché hanno come tema comune l'onorario dell'avvocato e dall'altro perché fanno luce sia sulle norme da applicare per la liquidazione del compenso e sia offrono all'avvocato (ed al giudice) una chiara linea guida su come comportarsi in caso di domande di diverso valore, alcune determinato altre indeterminato.
Onorario: è rilevante la data di liquidazione del compenso. Circa l'onorario dell'avvocato è noto che le previsioni tariffarie vengano determinate alla luce di due decreti ministeriali, il n. 127/2004 e il n. 140/2012, ebbene, i giudici della II Sez. civile della Corte di cassazione, con l'ordinanza 27.02.2017 n. 4949, hanno affermato che andrà ad applicarsi una previsione piuttosto che un'altra anche in base alla data in cui avverrà la liquidazione del compenso.
Nella stessa sentenza gli Ermellini, commentando l'art. 41 del dm n. 140 del 2012, in ossequio anche ad un orientamento dettato dalle sezioni unite, hanno ribadito che tale articolo dovrà leggersi nel senso che «i nuovi parametri debbano trovare applicazione ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante a un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate (Cass. S.u. n. 17405/2012)».
È, altresì, ovvio che, come osservato anche dai giudici di Piazza Cavour, il presupposto per l'applicazione dei nuovi parametri dovrà ricollegarsi, oltre che all'intervento della liquidazione in epoca successiva all'entrata in vigore del menzionato dm n. 140/2012, anche alla ulteriore circostanza che alla stessa data, il professionista non abbia ancora completato la propria prestazione professionale.
L'avvocato può rivolgersi alla controparte per il pagamento. Ed ancora a febbraio di questo anno, precisamente il 17, sempre la II Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 17.02.2017 n. 4250, in tema di solidarietà del compenso professionale, ha affermato che l'avvocato ha facoltà di rivolgersi alla controparte per il pagamento dei propri compensi se non sarà stata espressamente prevista l'esclusione con sottoscrizione dei difensori.
Nella stessa sentenza è stato anche citato il principio dettato dalla Cassazione medesima, secondo il quale affinché possa sussistere l'obbligazione solidale ed il difensore possa richiedere il pagamento degli onorari ed il rimborso delle spese nei confronti della parte avversa al proprio cliente, si renderà necessaria la definizione del giudizio con una transazione (o con un accordo equivalente) che vada a sottrarre al giudice la definizione del giudizio e la pronuncia in ordine alle spese.
Inoltre il fatto che la ratio dell'articolo 68 rd 1578/1933 consista nell'intento di prevenire il rischio che il credito professionale dell'avvocato possa essere vanificato da comportamenti elusivi delle parti non significa che detto intento elusivo faccia parte della fattispecie costitutiva dell'obbligazione solidale di ciascuna delle parti in causa per la soddisfazione dei crediti professionali dei difensori delle altre parti.
È stato, quindi, richiamato quanto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione (nn. 13047/2009 e 13135/2006), secondo cui: «L'art. 68 del rdl 27.12.1933, n. 1578, modificato dalla legge 22.01.1934, n. 36, stabilendo che tutte le parti, le quali abbiano transatto una vertenza giudiziaria, sono tenute solidalmente al pagamento degli onorari degli avvocati, è operante -in ragione della latitudine della formula normativa e della sua finalità, diretta a evitare intese tra le parti indirizzate a eludere il giusto compenso e il rimborso delle spese ai loro difensori- anche nel caso di accordo (che assume, nei riguardi del professionista, la valenza di un presupposto di fatto ai fini, appunto, dell'ottenimento degli onorari e delle spese), stipulato con o senza l'intervento del giudice o l'ausilio dei patroni, dalle parti stesse, le quali abbiano previsto semplicemente l'abbandono della causa dal ruolo o rinunciato ritualmente agli atti del giudizio (come nella specie, con derivante estinzione del processo), e prescinde, perciò, dalla persistenza del ministero difensivo».
Come comportarsi tra più domande di diverso valore. Ed, infine, con la sentenza 16.02.2017 n. 4187, sempre i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione hanno affermato che, per quanto riguarda la determinazione dello scaglione per la liquidazione degli onorari degli avvocati, nel caso in cui vengano proposte più domande, alcune di valore indeterminabile ed altre di valore determinato, bisognerà considerare di valore indeterminabile l'intera causa, solo ed esclusivamente nel caso in cui ponendo in atto tale criterio venga agevolato il riconoscimento di compensi maggiori rispetto al cumulo delle domande di valore determinato.
Opinare diversamente, a parere degli Ermellini, e cioè reputare che debba sempre applicarsi il criterio di liquidazione previsto per le controversie di valore indeterminabile, anche nel caso in cui ciò non rechi alcun vantaggio al professionista, «porterebbe alla conclusione, del tutto priva di razionalità e giustificazione, secondo cui l'attività professionale connotata da maggiore complessità (in quanto contemplante la necessità di approntare difese, oltre che per le domande di valore determinato, anche per quella di valore indeterminabile) sarebbe compensata con una somma inferiore rispetto a quella riconoscibile per l'attività difensiva relativa alle sole domande di valore determinato».
Inoltre, sempre nella stessa sentenza, i giudici hanno evidenziato come nel caso di contestazione relativa all'effettuazione delle prestazioni di redazione della comparsa (consultazioni col cliente e trasferte) non si metta in discussione l'esistenza del rapporto professionale, né l'esistenza del credito, ma soltanto la quantificazione di quest'ultimo, in relazione alle specifiche attività compiute dall'avvocato (articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017).

ENTI LOCALI: Delibere consiliari ai raggi X. Fusioni, va valutata la valenza giuridica ed economica. L’accorpamento di società di gestione del servizio idrico offre utili spunti di riflessione.
Se il collegio dei revisori viene chiamato a esprimere un parere su una proposta di delibera del consiglio comunale su un progetto di accorpamento societario, deve verificare la valenza giuridica ed economica dell’operazione? La risposta non può che essere positiva.

Proviamo ad analizzare un caso di studio.
Si propone di accorpare a una società che gestisce il servizio idrico e il servizio di igiene ambientale per conto di comuni facenti parte di un ambito, altre società similari operanti nello stesso bacino al fine di ottenere un unico soggetto gestore. La motivazione economica è abbastanza chiara: a seguito della fusione per incorporazione aumenterà la base richiedente i servizi e di conseguenza si potranno attuare, con maggiori ricavi a parità di costi fissi, economie di scala con possibilità di reimpiego delle risorse risparmiate per ulteriori investimenti o rinnovi di impianti esistenti.
La società incorporante propone il progetto di fusione al comitato di controllo di bacino, formato dai rappresentanti degli enti interessati, il quale si esprime favorevolmente. Nella proposta, però, che prevede l’aumento di capitale a seguito dell’incorporazione e conseguente ingresso dei nuovi soci, ovvero i comuni soci delle società incorporate per quote corrispondenti al valore riconosciuto al patrimonio delle stesse, si prevede anche un contestuale aumento di capitale a seguito conferimento di beni da parte del socio di maggioranza dell’incorporante, che non intende, con l’ingresso dei nuovi soci, ridurre la sua percentuale di partecipazione al di sotto del 50%. I beni sono terreni soggetti a bonifica. Non si conoscono, però, i costi per la bonifica, ma il socio conferente si dichiara disposto a manlevare la conferitaria da ogni rischio e costo conseguente.
La proposta di aumento di capitale da parte della società incorporante agli altri soci entranti, riporta un valore attribuito ai terreni oggetto del conferimento, pari a quello indicato dal perito nominato dal tribunale e la sottoscrizione di patti parasociali tra i vecchi e i nuovi soci per garantire una governance che rispetti anche le piccole partecipazioni.
A questo punto la società incorporante, forte del consenso espresso dal comitato di controllo di bacino, avvia il procedimento di fusione, rassicurando gli enti che in ogni caso, anche in presenza di costi aggiuntivi per la bonifica di detti terreni, ci sarebbe una rideterminazione dei valori conferiti, da parte dell’organo amministrativo della società conferitaria, in ossequio al terzo comma dell’art. 2343 c.c., entro 180 giorni dalla data dell’atto di conferimento.
Di fronte a tale quadro di proposte, che tipo di considerazioni deve fare il revisore di un ente socio chiamato a esprimersi con un parere sulla proposta di delibera del consiglio comunale sull’approvazione del progetto di fusione e sulla partecipazione all’atto? Ci sono due considerazioni da fare. La prima è di carattere giuridico. In presenza di eventuali costi di bonifica da sostenere in futuro nei beni oggetto del conferimento, al momento dell’atto, il valore dei beni conferiti non è determinato in quanto detti costi non sono quantificati e di conseguenza si è in presenza di un atto aleatorio, non possibile per gli enti pubblici, perché, qualora si dovessero sostenere, poi, detti costi, si potrebbe verificare un danno patrimoniale a carico degli enti soci, che si vedrebbero ridurre sostanzialmente il valore reale (anche se non nominale) della loro quota di partecipazione nella società partecipata.
Potrebbe essere risolto questo problema, se a fronte di dette passività potenziali ci fosse da parte dell’ente socio conferente dei beni, una garanzia fideiussoria di terzi, come ad esempio una banca, ma resterebbe sempre il problema del quantum. La seconda è di carattere economico. Il valore dei beni deve essere prima di tutto oggetto di valutazione sulla valenza economica dell’operazione.
Di fatto il conferimento vale come cessione e quindi si potrebbe ipotizzare da parte della conferitaria un acquisto alternativo di un altro bene con migliori caratteristiche o, a parità di caratteristiche, con un prezzo inferiore. Per soddisfare tale esigenza, è necessario che gli enti soci si esprimano prima della proposta di aumento di capitale con conferimento di beni, con l’approvazione di un progetto preliminare, che indichi le motivazioni economiche dell’operazione e il prezzo dei beni, compreso eventuali costi aggiuntivi come quelli, nel caso in esame, di bonifica. Solo dopo tale approvazione della maggioranza degli enti soci, con apposita delibera dei rispettivi consigli comunali, si potrà dare avvio all’operazione di conferimento.
A nulla, invece, serve in tal senso, la perizia redatta dal perito nominato dal tribunale, che ha, come scopo, la tutela dei terzi e dei soci, come stabilito dal primo comma dell’art. 2343 c.c., così come è sempre a tutela degli stessi la revisione della stima da parte degli amministratori, da porsi in essere entro sei mesi, come sopra richiamato.
Ma la stima indica il valore massimo iscrivibile nel patrimonio netto della società conferitaria e non anche il valore economico del bene oggetto del conferimento, che deriva, invece, da una trattativa ovvero da una proposta unilaterale accettata dai soggetti che partecipano all’operazione. È chiaro che nel caso in cui non vengano rispettate tali condizioni di salvaguardia e di rispetto della valenza economica, l’organo di revisione non potrà che esprimersi (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni, la mobilità è neutra. Non comporta nuova o maggiore spesa di personale. Chiuso il ricollocamento degli esuberi provinciali, si aprono nuovi spazi per gli enti.
La mobilità torna a essere neutra sul piano finanziario e non consuma né spazi né resti assunzionali.

Chiusasi la procedura complicatissima di ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero (anche se ancora per la gran parte dei 6 mila addetti ai servizi per il lavoro, l'avventura della ricollocazione è tutt'altro che finita), il 2017 è l'anno nel quale gli enti possono ricominciare ad assumere senza gli impedimenti derivanti dalla legge 190/2014.
Ci sono ovviamente da rispettare i tetti posti al turn-over, ma si sono riaperti comunque spazi alle assunzioni.
Torna, dunque, in auge l'utilizzo della mobilità. Infatti, le procedure concorsuali debbono essere tutte precedute da due tipi di mobilità.
La prima è comunemente denominata «obbligatoria» ed è quella disciplinata dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001, il quale impone alle amministrazioni, a pena di nullità delle assunzioni effettuate, di verificare con i servizi per il lavoro operanti nelle regioni e col Dipartimento della funzione pubblica se vi sia personale in esubero, iscritto nelle liste di disponibilità.
È una misura rivolta a evitare che questi dipendenti con rapporto di lavoro sospeso fino ad un massimo di 24 mesi (la disponibilità è una specie di cassa integrazione del lavoro pubblico) siano licenziati: uno strumento di prevenzione della disoccupazione che prevale necessariamente sul reclutamento di nuovo personale.
Il secondo tipo di mobilità da esperire, anche in ordine cronologico, è quella «volontaria», prevista dall'articolo 30, comma 2-bis, ai sensi del quale «le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità».
Questa mobilità è volontaria, però, solo per i dipendenti che hanno facoltà di presentare la loro domanda alle amministrazioni che intendono assumere; queste, al contrario, sono obbligate ad attivare tale mobilità, come si dimostra l'utilizzo, nel comma 2-bis, del verbo dovere.
Dunque, anche se in questo caso non è prevista la nullità dell'assunzione in via espressa, la violazione del dovere giuridico di procedere mediante mobilità espone le amministrazioni quanto meno al rischio di danno erariale; il legislatore intende dare priorità alle assunzioni per mobilità proprio perché non comportano nuova maggiore spesa di personale, ma sono neutre sul piano finanziario.
Da questo punto di vista, non può considerarsi corretto e va senz'altro disapplicato il parere 27.04.2016 n. 127 della Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Lombardia, che suggerisce: «In questo caso, ove l'esito del bando di mobilità sia positivo, la conseguente assunzione deve incidere sui budget assunzionali dell'ente (determinati dall'art. 3, comma 5, del citato decreto-legge n. 90 del 2014) e non essere, invece, considerata neutra (come previsto, in linea generale, dall'art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2004)».
La Corte dei conti esprime questo avviso sul presupposto che questa mobilità «volontaria» è presupposto doveroso e necessario dei concorsi e, dunque, viene utilizzata, di fatto, per consumare le disponibilità assunzionali.
L'assunto, però, non può considerarsi corretto. Si è visto prima che scopo della mobilità è evitare (per quanto possibile) la nuova spesa di personale derivante dal reclutamento di dipendenti dall'esterno, perché col trasferimento di persone che dipendono già da pubbliche amministrazioni gli oneri complessivi della spesa del personale restano invariati.
Tale conseguenza, cioè l'invarianza della spesa di personale, si ha sia che la mobilità sia disposta ai sensi dell'articolo 30, comma 1, del dlgs 165/2001 (la mobilità volontaria vera e propria, quella disposta senza che vi sia una programmazione di concorsi connessi), sia che venga attivata ai sensi del comma 2-bis.
Comunque, infatti, l'ente che avvia la mobilità ai sensi del comma 2-bis non inserisce nuovi lavoratori nei ruoli pubblici. Inoltre, il comma 2-bis conclude disponendo che «il trasferimento può essere disposto anche se la vacanza sia presente in area diversa da quella di inquadramento assicurando la necessaria neutralità finanziaria».
Il riferimento esplicito alla «neutralità finanziaria» è la conferma indubitabile che anche il comma 2-bis dà vita ad una mobilità neutra che, come tale, non erode le capacità assunzionali (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017).

INCARICHI PROGETTUALIPagamenti dei progettisti, è la somma che fa il totale. Provincia di Trento su corrispettivi per i progetti divisi in lotti.
Per progetti ripartiti in lotti il corrispettivo del progettista viene calcolato come somma degli onorari di ogni lotto; previsto compenso ulteriore per il coordinamento della progettazione; più trasparenza negli atti di gara per il calcolo dei corrispettivi.

Sono queste alcune delle indicazioni che vengono fornite con la deliberazione 23.02.2017 adottata dalla giunta provinciale di Trento che contiene il regolamento attuativo della legge provinciale 2/2016.
Il provvedimento, che deve essere formalmente emanato dal presidente della Provincia e pubblicato sul bollettino ufficiale, stabilisce in primo luogo che l'onorario professionale, quando il progetto prevede la ripartizione dell'opera in appalti sequenziali, è costituito dalla somma degli onorari calcolati sull'importo di ciascun lotto; inoltre si prevede che le spese siano calcolate sul totale degli appalti sequenziali oggetto di ciascun incarico.
Un'altra disposizione regolamentare specifica poi che, sempre nei casi di ripartizione dell'opera in appalti sequenziali, l'amministrazione può affidare l'attività di coordinamento della progettazione (consistente nelle funzioni di responsabile di progetto come definito dalla medesima legge provinciale), ma in questo caso per l'attività di coordinamento della progettazione sarà riconosciuto un corrispettivo ulteriore.
Importante è anche una indicazione in tema di trasparenza delle spese, profilo per cui si stabilisce che la stazione appaltante deve riportare nella documentazione necessaria per l'affidamento il procedimento adottato per il calcolo dei corrispettivi inteso come elenco dettagliato delle prestazioni e dei relativi corrispettivi.
Per la determinazione dei compensi dei commissari esterni all'amministrazione nei concorsi di idee e nei concorsi di progettazione si utilizzano le stesse voci del decreto parametri (dm 17.06.2016) utilizzate per la progettazione, cioè le voci Qb.I.19, Qb.II.26, Qb.III.08 e Qb.III.10, Qc.I.13, del decreto parametri, con diversi gradi di complessità, quando tali voci non sono già riconosciute per la medesima attività, oltre al rimborso delle eventuali spese di viaggio, vitto e pernottamento, a presentazione dei relativi titoli giustificativi.
Sui pagamenti, il regolamento prevede l'obbligo per il fornitore dell'appaltatore o del subappaltatore o il subcontraente dell'appaltatore di inviare all'amministrazione e all'affidatario copia delle fatture inevase. Sarà poi il responsabile del procedimento ad invitare l'appaltatore o il subappaltatore a comunicare le proprie controdeduzioni o a depositare le fatture quietanzate entro un termine non inferiore a 15 giorni; in tale periodo resta sospeso il pagamento dello stato avanzamento lavori successivo.
Decorso inutilmente il termine previsto dal comma 4, l'amministrazione sospende il pagamento dello stato di avanzamento dell'appalto principale o il pagamento del subappalto per una somma corrispondente al doppio dell'importo delle fatture inevase. Sarà quindi l'amministrazione aggiudicatrice a pagare la somma sospesa solo previa trasmissione delle fatture quietanzate da parte del fornitore o dal subcontraente diverso dal subappaltatore o di specifica liberatoria del medesimo (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARIAllattamento al seno, niente ostacoli nella Pa. Direttiva in Gazzetta.
Le pubbliche amministrazioni e i dipendenti non devono ostacolare l’allattamento delle madri lavoratrici della Pa.
A sottolinearlo è la direttiva 03.02.2017 n. 1/2017 della presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento funzione pubblica, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale numero 55 del 7 marzo, vigilia dell’8 marzo..
Con la direttiva «si richiama l’attenzione delle pubbliche amministrazioni e dei singoli dipendenti nella propria attività di erogazione dei servizi alla collettività, sulla necessità di assumere azioni positive, comportamenti collaborativi o comunque di non adottare atti che ostacolino le esigenze di allattamento».
La direttiva arriva subito dopo la denuncia lanciata via Twitter dal ministro per la Pubblica amministrazione, Marianna Madia: «In alcun luogo dovrebbe essere vietato #allattamento. Subito direttiva per tutta la #Pa». Il ministro aveva anche denunciato su Facebook quanto le era accaduto in un ufficio postale di Biella, dove le avevano detto che poteva allattare solo con il biberon e non al seno.
Il provvedimento ricorda che l’allattamento al seno costituisce la «modalità di alimentazione naturale nella prima infanzia e che il latte materno fornisce tutti i nutrienti di cui il lattante ha bisogno nei primi sei mesi di vita» e menziona anche la direttiva 2006/141/Ce della Commissione del 22.12.2006, che richiama il principio della promozione e della protezione dell’allattamento al seno e la necessità di non scoraggiare questa pratica.
Inoltre, si sottolineano anche i benefici che l’allattamento al seno apporta alla salute della donna
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017).

ENTI LOCALIPensionati coperti dall’Inail. In caso di affidamento di incarichi gratuiti dalla Pa.
In caso di affidamento di incarichi gratuiti a dipendenti in pensione da parte delle pubbliche amministrazioni, ai fini dell’applicazione ad essi della copertura assicurativa ciò che pesa non è la gratuita dell’incarico, ma la qualificazione dello stesso effettuata dall’amministrazione interessata.

A sottolinearlo è l’Inail, con la nota 08.03.2017 n. 4856 di prot..
L’articolo 5, comma 9, del Dl 95/2012, convertito dalla legge 135/2012, ha fatto divieto a tutte le amministrazioni dello Stato, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico della Pa e alle autorità indipendenti, inclusa la Consob, di attribuire incarichi di studio e consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, se non a titolo gratuito.
In questo contesto -evidenzia l’Inail- ai fini della copertura assicurativa da applicare al pensionato ciò che conta è solo «la qualificazione che la stessa amministrazione conferente intende dare al rapporto che va ad instaurare con il soggetto in relazione all’oggetto della prestazione dedotta nell’atto di conferimento o nel contratto».
Per l’assolvimento degli obblighi assicurativi si applicheranno, quindi, le solite modalità della speciale “gestione per conto” o della gestione assicurativa ordinaria, a seconda che il soggetto assicurante sia destinatario dell’una o dell’altra modalità e, nel caso delle amministrazioni pubbliche rientranti nella gestione per conto, della natura del rapporto instaurato.
Se l’amministrazione conferente qualificherà l’incarico come collaborazione coordinata e continuativa scatterà l’obbligo assicurativo nella forma della gestione ordinaria nel caso in cui sussistano i requisiti per la stessa, ossia il coordinamento con il committente, la personalità e la continuità delle prestazioni lavorative. La stessa regola si applicherà anche per le amministrazioni rientranti nella gestione per conto, in quanto quest’ultima non ricomprende i lavoratori parasubordinati.
Se, viceversa, gli incarichi gratuiti sono inquadrati come rapporto di lavoro autonomo, non potrà trovare attuazione l’obbligo assicurativo in assenza di una apposita norma di riferimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017).

ENTI LOCALIPer le telecamere del Comune occorre la Scia. Sicurezza urbana. Nota prefettizia.
Le telecamere di videosorveglianza sono sostanzialmente fuorilegge, se sono del Comune: in questo caso, vanno trattate come impianti privati e quindi necessitano di un’autorizzazione, che in molti casi manca. Lo stesso vale per altri impianti di trasmissione, tra cui quelli per le radio di servizio dei vigili urbani.
Lo afferma chiaramente la Prefettura di Pordenone, nella nota 06.03.2017 n. 6104 di prot., dopo una segnalazione di «ripetute problematiche» da parte del ministero dello Sviluppo economico. E quella della provincia friulana è una realtà in linea col resto del territorio nazionale, anche perché non risulta che finora qualcuno avesse segnalato la questione in maniera così evidente.
Che il problema scoppi adesso è un paradosso: il nuovo decreto legge sulla sicurezza urbana (Dl 14/2017) ha l’intento di rafforzare le attività del Comuni, anche se non ha rimosso ostacoli che da anni le rendono difficili (come l’accesso delle polizie locali alla banca dati Sdi di quelle nazionali e la mancata equiparazione del trattamento dei vigili a quello degli altri agenti, in caso di infortuni in servizio). La segnalazione del ministero è datata 16 febbraio, mentre il decreto è del 20 ed è entrato in vigore il giorno dopo.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, sono proprio le telecamere dei Comuni a coprire la maggior parte del territorio. Tanto che i corpi di polizia nazionali se ne avvalgono sistematicamente nelle loro indagini.
Tecnicamente, il ministero dello Sviluppo economico ha ricordato che «l’attività di installazione ed esercizio di reti o servizi di comunicazione elettronica ad uso privato (... ) sono soggetti ad un’autorizzazione generale che si consegue con le modalità prescritte dall’articolo 99, comma 4, e dall’articolo 107 del Codice delle comunicazioni elettroniche». Quindi, tra le altre cose, occorre presentare all’ufficio competente del ministero una dichiarazione, a titolo di Scia (segnalazione certificata di inizio attività). L’interessato è abilitato iniziare l’installazione o l’esercizio degli impianti solo dopo che la dichiarazione è stata presentata.
La circolare della Prefettura di Pordenone afferma esplicitamente che queste regole valgono anche per i Comuni, perché le loro reti di comunicazione elettronica sono da considerarsi ad uso privato. Anche se esse sono «a supporto delle proprie attività istituzionali e/o lavorative».
La Prefettura cita anche alcuni esempi di tali impianti pubblici equiparati a quelli ad uso privato: «le reti per la trasmissione di immagini a circuito chiuso (videosorveglianza del traffico veicolare) o per la trasmissione di dati o fonia tra differenti uffici o sedi».
La nota non fa alcun cenno agli apparecchi di rilevazione delle infrazioni stradali (come i misuratori di velocità o i documentatori di passaggi con semaforo rosso o in zone a traffico limitato). Per prassi essi vengono considerati a sé, perché sono omologati secondo le procedure prescritte dal Codice della strada
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017).

ENTI LOCALIVideosorveglianza, i comuni pagano. Circolare della prefettura di Pordenone.
Per il Mise gli impianti di videosorveglianza urbana sono assimilabili ai sistemi di trasmissione dati in disponibilità dei privati cittadini e quindi per l'esercizio di queste tecnologie il comune deve presentare una dichiarazione ad hoc. E pagare il contributo annuo dovuto allo Stato per non incorrere nelle sanzioni previste dal codice delle comunicazioni elettroniche.

Lo ha chiarito la Prefettura di Pordenone con la circolare 06.03.2017 n. 6104 di prot..
Nonostante gli indiscutibili successi investigativi che derivano dall'uso condiviso tra polizia, carabinieri e vigili dei moderni sistemi di videosorveglianza urbana in dotazione alle città lo stato ora mette un freno burocratico a questi sistemi.
Oltre all'autorizzazione preventiva del comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica d'ora in poi il sindaco che vorrà dotarsi di un moderno sistema di analisi dei flussi veicolari e dei soggetti pericolosi dovrà presentare una dichiarazione preventiva al ministero dello sviluppo economico per non incorrere nelle pesanti sanzioni previste dal codice della comunicazioni elettroniche. E pagare ogni anno il contributo previsto per l'attività di vigilanza e controllo ai sensi dell'art. 34 del dlgs 259/2003. Una bella doccia fredda per i sindaci appena promossi al ruolo di controllori delle città più sicure con il dl 14/2017, in corso di conversione in legge alla camera.
Del resto la nota della prefettura friulana è molto chiara. L'ispettorato territoriale del Mise ha segnalato di aver riscontrato numerose irregolarità in materia di sistemi di videosorveglianza urbana. Anche questi impianti ricadono nelle disposizioni degli artt. 99 e 107 del codice delle comunicazioni elettroniche, trattandosi per il mise di reti di comunicazione elettronica ad uso privato.
Quindi occorre presentare una apposita Scia al ministero prima di accendere le telecamere a caccia di ladri e delinquenti. Solo lo stato, ai sensi dell'art. 100 del dlgs 259/2003, può infatti agire in deroga a queste previsioni. I comuni non si occupano prioritariamente di ordine pubblico e sicurezza e quindi devono pagare dazio. Oppure spegnere i sistemi (articolo ItaliaOggi del 09.03.2017).

PUBBLICO IMPIEGOAvvocati senza l'esclusiva. Ai legali incarichi dirigenziali senza paletti. L'Anci non condivide la tesi del Cnf e chiede chiarimenti al ministro Madia.
Il conferimento di incarichi dirigenziali agli avvocati comunali senza vincolo di esclusività deve essere compatibile con l'iscrizione nell'elenco speciale degli avvocati dipendenti pubblici e con il mantenimento dello «ius postulandi» nell'interesse dell'ente.

È quanto prevede il comma 221 della legge di stabilità 2016 (legge n. 208/2015) che è da considerarsi norma speciale rispetto alle previsioni dell'ordinamento forense.
A sostenerlo è l'Anci in una lettera inviata dal presidente Antonio Decaro al ministro della funzione pubblica Marianna Madia a seguito della querelle sul conferimento di incarichi dirigenziali agli avvocati civici che ha visto contrapposti i comuni da un lato e il Consiglio nazionale forense dall'altro.
Come si ricorderà (si veda ItaliaOggi del 02/03/2017) è stata proprio l'Associazione dei comuni a chiamare in causa il Cnf affinché fornisse indicazioni univoche ai consigli locali dopo che alcuni ordini territoriali hanno cancellato dall'elenco speciale i legali ai quali erano stati conferiti incarichi dirigenziali dalle amministrazioni, proprio in applicazione del comma 221.
Ma la risposta del Consiglio nazionale forense non è stata quella che l'Anci si attendeva. Il Cnf infatti (si veda ItaliaOggi del 02/03/2017) ha ritenuto il vincolo di esclusività «condicio sine qua non» per l'attribuzione di incarichi dirigenziali. Senza esclusività, quindi, scatterebbe necessariamente la cancellazione dall'elenco speciale e la conseguente impossibilità a svolgere le mansioni di avvocato.
Tuttavia, secondo l'Anci, questa tesi non è accettabile, in primis perché condurrebbe a una «sostanziale disapplicazione del comma 221». E poi perché, osserva Decaro nella missiva inviata a palazzo Vidoni, «a fronte della riduzione degli organici e del contenimento delle spese di personale, per molti comuni l'unica possibilità per mantenere in essere l'avvocatura ed evitare la completa esternalizzazione dei servizi legali, è data proprio dalla possibilità di attribuire al dirigente avvocato anche compiti ulteriori, pur nella piena garanzia dell'autonomia dell'ufficio legale».
Per questo, l'Anci ha chiesto ufficialmente un chiarimento al ministro Madia, attraverso una circolare interpretativa della Funzione pubblica o attraverso una norma correttiva del comma 221 della Manovra 2016. La proposta di emendamento dell'Anci, che potrebbe trovare posto nel decreto enti locali chiesto a gran voce dalle autonomie (si veda altro pezzo in pagina), renderebbe applicabile il comma 221 in materia di avvocature civiche chiarendo che tale previsione si pone in rapporto di specialità con la disciplina prevista in generale per gli avvocati dipendenti pubblici dall'art. 23 della legge sull'ordinamento forense (legge n. 247/2012) (articolo ItaliaOggi del 09.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTISubappalto, Ance ricorre alla Ue. No al tetto del 30%, ai tre nomi con l’offerta, alla scelta gara per gara.
Lavori pubblici. Esposto dell’associazione costruttori a Bruxelles contro i paletti imposti dal nuovo codice.

Varca i confini italiani, arrivando fino a Bruxelles, la protesta dei costruttori contro i paletti sul subappalto imposti dal nuovo codice dei contratti pubblici. L’associazione nazionale delle imprese edili (Ance) ha presentato un esposto alla Commissione europea contestando l'aderenza delle nuove regole al diritto dell’Unione e chiedendo, di conseguenza, «di dar corso urgentemente alla procedura di infrazione» prevista dal Trattato.
Nel mirino dei costruttori ci sono soprattutto tre aspetti della nuova disciplina del subappalto delle opere pubbliche, entrata in vigore il 19.04.2016. Il primo aspetto riguarda il tetto ai subaffidamenti, al momento individuato nel 30% dell'importo complessivo dei lavori. Per i costruttori imporre un tetto per legge è contrario alle direttive europee che regolano il settore. Per suffragare questa tesi l'esposto cita in particolare una sentenza della Corte di Giustizia pubblicata lo scorso 14 luglio (caso «Wroclaw») che ha bocciato le norme che, in Polonia, obbligano le imprese vincitrici di appalti a eseguire in proprio almeno il 25% delle opere.
Per i giudici europei, si ricorda nell’esposto, «la direttiva ammette il ricorso al subappalto, senza indicare limitazioni». Seppure importante non è, però, il tetto la questione centrale. «Noi non siamo per il subappalto al 100% -spiega Edoardo Bianchi, vicepresidente Ance, con delega alle opere pubbliche-. Si rischierebbe la smobilitazione delle imprese. Tra un estremo e un altro si può trovare un punto di equilibrio». Piuttosto sono altri due i punti più contestati dai costruttori. Al primo posto c'è la scelta di assegnare alle stazioni appaltanti il compito di decidere, gara per gara, se autorizzare o meno, l'esecuzione di una parte di lavori in subappalto.
«È una scelta contraria al principio di libera organizzazione dei fattori della produzione, che rischia di spazzare via un intero sistema -attacca Bianchi-. Quale politica industriale si può impostare sulla base di un'indicazione simile? Devo organizzarmi per fare tutto in casa o posso affidarmi a degli specialisti, se il caso lo richiede? L’impresa è in grado di adeguarsi a qualsiasi scelta, ma una scelta ci deve essere? Per paradosso, allora sarebbe stato meglio vietare del tutto il subappalto, anche se nel 2017 sarebbe una decisione davvero anacronostica, oltre che contraria al diritto europeo».
L’ultimo passaggio riguarda l’obbligo di indicare tre nomi di possibili subappaltatori con l’offerta. Qui l'obiezione riguarda i tempi, molto anticipati rispetto alla fase di cantiere. Ma anche i possibili condizionamenti che potrebbero arrivare da imprese specializzate in un particolare tipo di lavorazione. «In alcune gare si rischia che siano i subappaltatori a decidere chi può partecipare o meno», sottolinea Bianchi.
Una parziale modifica di questa impostazione arriverà con il decreto correttivo al Codice che il governo ha licenziato in prima lettura a fine febbraio e che ieri è arrivato in Parlamento per il giro di pareri. Il provvedimento confina il divieto di subbappaltare più del 30% delle opere solo ai lavori prevalenti in cantiere (come accadeva prima della riforma) e lascia alle stazioni appaltanti il compito di decidere se chiedere o meno la «terna» dei subaffidatari con l’offerta. Resta però inalterato il punto-chiave contestato dai costruttori: la scelta sul subappalto «gara per gara». Difficile, dunque, che senza ulteriori aggiustamenti l’esposto venga ritirato
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2017).

ATTI AMMINISTRATIVISocietà senza privacy. Richieste di accesso civico: niente freni. Pareri del garante su istanze relative al Freedom of information act.
Le società non hanno una privacy. Le richieste di accesso civico ad atti e documenti detenuti dalla p.a. relativi a persone giuridiche non possono essere stoppate dalla normativa sulla protezione dei dati. Questa tutela espressamente le persone fisiche.

Lo ha precisato il garante della privacy con due pareri (provvedimento 09.02.2017 n. 49 e provvedimento 16.02.2017 n. 58) su altrettante istanze di accesso, formulate ai sensi dell'articolo 5, comma 2, del dlgs 33/2013 (il Foia-Freedom of information act italiano).
Si aggiunge, però, che se la privacy (articolo 5-bis, comma 2, lett. c, dlgs 33/2013) non è di per sé uno scudo per società e persone giuridiche, queste, però, potrebbero invocare a schermare i propri dati gli interessi economici e commerciali, compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali (articolo 5 bis, comma 2, lett. c, dlgs 33/2013). Ma vediamo i casi esaminati dal collegio presieduto da Antonello Soro.
Il primo parere ha riguardato un richiesta di accesso civico avente a oggetto l'elenco degli esercizi commerciali che hanno ricevuto sanzioni amministrative per aver violato le norme sull'igiene e la sicurezza alimentare, includendo importo e motivo della sanzione. Nel proprio parere il garante ha ricordato l'esclusione delle persone giuridiche dall'elenco dei soggetti cui si applica il Codice della privacy e, quindi, la normativa sulla riservatezza fa un passo indietro.
Peraltro i nominativi dei soggetti sanzionati e, in alcuni casi anche i nominativi degli esercizi commerciali sanzionati (ad esempio le ditte individuali) possono essere identificativi, direttamente o indirettamente, di persone fisiche, e rientrano pertanto nella definizione di dato personale: sta, a riguardo delle persone fisiche, ai singoli enti valutare se sussistano pregiudizi alla riservatezza, tali da bloccare l'accesso civico.
Il secondo caso ha posto all'attenzione del garante i verbali di una società a responsabilità limitata. In questa ipotesi un provvedimento di diniego all'accesso civico non è da fondare proprio sulla tutela dei dati in quanto tale, poiché una srl non beneficia della tutela del Codice della privacy e, di conseguenza, nemmeno della tutela di cui all'articolo 5-bis, comma 2, lett. a), del dlgs n. 33/2013.
Alla srl possono applicarsi gli altri limiti e cioè gli interessi economici e commerciali, compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl Foia non alza il velo sugli avvocati.
Il Foia (Freedom of information act) italiano non alza il velo sui procedimenti disciplinari nei confronti degli avvocati.
L'accesso civico generalizzato (articolo 5 dlgs 33/2013), infatti, non è la scorciatoia per aggirare i paletti dell'accesso documentale (legge 241/1990).

Così il garante della privacy, con il provvedimento 09.02.2017 n. 50. Il garante è stato chiamato a dare il suo parere su una richiesta di accesso civico avente ad oggetto tutti gli atti relativi a un procedimento disciplinare concluso nei confronti di un avvocato.
Il problema è se un caso di questo tipo può rientrare in quanto previsto dall'articolo 5, comma 2, del dlgs 33/2013 sulla trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Questo articolo, da un lato, assicura l'accesso ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, a chiunque e senza bisogno di una particolare motivazione; dall'altro lato però si individua la tutela della privacy della persona fisica (concreto pregiudizio alla riservatezza) quale limite alla trasparenza.
Quindi, vista da un lato, il Foia italiano dovrebbe far aprire tutti gli archivi pubblici all'istante essendo sufficiente la mera richiesta immotivata; ma dall'altro lato bisogna vedere se e come il diritto alla privacy può giocare un ruolo in senso contrario. La materia è stata sviscerata dalle Linee guida, approvate dall'Anac, Autorità nazionale anticorruzione, d'intesa con il garante per la protezione dei dati personali (determinazione n. 1309 del 28/12/2016, in G.U. n. 7 del 10/01/2017).
Nel caso in esame il garante ha ravvisato che la stessa natura disciplinare del procedimento sembrerebbe suscettibile di determinare, nel caso di accoglimento dell'istanza, il pregiudizio concreto al diritto alla protezione dei dati personali tale da legittimarne il diniego dell'istanza d accesso civico. Tra l'altro si legge nel provvedimento del garante, quando si tratta di procedimenti disciplinari, ci sono limiti anche all'accesso documentale (legge 241/1990). Limiti, che, però, si aggiunge possono essere superati nel caso di accesso strumentale all'esercizio del diritto di difesa.
Da un punto di vista generale, è encomiabile il tentativo del garante di dare una mano alle p.a. cercando di uniformare l'attuazione di una norma, che invece abbandona ciascun ente pubblico alla valutazione caso per caso (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI mozziconi finanzieranno nuovi cassonetti. Gazzetta Ufficiale. Proventi delle multe a ministero e Comuni.
Le multe per chi butta per terra le sigarette spente serviranno per comprare nuovi raccoglitori per i mozziconi. Il che dovrebbe -negli obiettivi del ministero dell’Ambiente- ridurre il fenomeno dell’abbandono dei piccolissimi rifiuti come scontrini, fazzoletti di carta, gomme da masticare
e sigarette.

A convincere i cittadini a non lasciare per strada i mozziconi ci dovrebbe pensare il decreto legislativo n. 152 del 2006 che ha introdotto una multa da 25 a 155 euro per chi abbandona piccoli rifiuti sul suolo.
Quante siano le sanzioni comminate finora non si sa. Si sa, però, che i proventi di queste multe verranno ripartiti in parti uguali tra i Comuni e un fondo istituito presso lo stato di previsione del ministero dell’Ambiente.
Il 50% destinato alle amministrazioni sarà utilizzato per l’installazione nelle strade, nelle piazze, nei parchi, nelle aree a verde e nei luoghi di alta aggregazione sociale di «appositi raccoglitori per la raccolta dei mozziconi dei prodotti da fumo» e per la pulizia di caditoie e tombini, oltre che per la promozione di campagne di comunicazione su scala locale. Il 50% delle multe sarà, invece, utilizzato dal ministero per l’attuazione di campagne di informazione su scala nazionale.
L’impiego dei proventi è stato regolato dal decreto ministeriale del 15 febbraio, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 54 di ieri.
Resta adesso da capire quante multe sono state effettivamente comminate: in assenza di dati dei Comuni, per scoprirlo basterà contare il numero di raccoglitori per mozziconi che verranno istallati. Pochi raccoglitori significherà poche multe. Poche multe significherà che le persone non si toglieranno il brutto vizio di usare i marciapiedi come cassonetti
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIAMozziconi in terra, dalle multe piani informativi e raccoglitori.
Metà delle multe per chi lascia mozziconi, fazzoletti e gomme da masticare per strada andranno a finanziare l'acquisto di raccoglitori, l'altra metà, campagne di sensibilizzazione nazionali sui danni che simili gesti provocano all'ambiente.

A dare attuazione all'articolo 40 della legge sulla Green economy (221/2015), che dal 02.02.2016 prevede per chi venga pizzicato a gettare in terra i mozziconi una sanzione dai 30 ai 300 euro è il decreto dell'Ambiente 15.02.2017, recante «Disposizioni in materia di rifiuti di prodotti da fumo e di rifiuti di piccolissime dimensioni», pubblicato ieri sulla Gazzetta ufficiale n. 54.
Il 50% delle somme derivanti dai proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie andrà dunque a finanziare un apposito Fondo istituito presso lo stato di previsione del ministero dell'ambiente per l'attuazione di campagne di informazione su scala nazionale. Il restante cinquanta è invece destinato ai comuni nel cui territorio sono state accertate le violazioni.
Tali somme sono impiegate, in via prioritaria, per le attività di installazione nelle strade, nelle piazze, nelle aree a verde, nei parchi nonché nei luoghi di alta aggregazione sociale di appositi raccoglitori per la raccolta dei mozziconi dei prodotti da fumo e, in via residuale e secondo le specifiche esigenze, per la pulizia di caditoie e di tombini facenti parte del sistema fognario nonché per le campagne di informazione su scala locale. Ma l'apporto di risorse non finisce qui.
Anche i produttori di prodotti da fumo attuano, infatti, in collaborazione con il ministero dell'ambiente, campagne di informazione al fine di sensibilizzare i consumatori sulle conseguenze nocive per l'ambiente derivanti dall'abbandono di mozziconi dei prodotti da fumo.
Le campagne di informazione sensibilizzano le amministrazioni, la cittadinanza e i consumatori sulle tematiche della raccolta dei mozziconi dei prodotti da fumo ed in particolare: sugli effetti nocivi arrecati all'ambiente dall'abbandono dei rifiuti dei prodotti da fumo; sull'obbligo di non gettare ed abbandonare i mozziconi dei prodotti da fumo sul suolo, nelle acque, nelle caditoie stradali e nel sistema fognario, e i conseguenti benefici in termini economici e ambientali; sulle sanzioni in caso di violazione dei divieti di abbandono dei rifiuti; sulla possibilità di attivare per i rifiuti di prodotti da fumo specifiche procedure di raccolta differenziata atte a destinare i rifiuti di prodotti da fumo a specifiche filiere di recupero, piuttosto che al conferimento in discarica.
I comuni, con i soldi recuperati dall'operazione, installano una rete di raccoglitori per la raccolta di mozziconi dei prodotti da fumo nelle strade, nei parchi nonché nei luoghi di alta aggregazione sociale, segnalandone la collocazione e il corretto utilizzo (articolo ItaliaOggi del 07.03.2017).

EDILIZIA PRIVATANuove regole antincendio in autorimesse.
Procedure più rapide per la prevenzione incendi dell'autorimessa. Le semplificazioni si possono applicare alle attività di superficie complessiva coperta superiore a 300 metri quadrati. Non sono considerate autorimesse le aree destinate al parcamento di veicoli ove ciascun posto auto sia accessibile direttamente da spazio scoperto o con un percorso inferiore due volte l'altezza del piano parcamento. E gli spazi destinati all'esposizione, alla vendita o al deposito di veicoli siano provvisti di quantitativi limitati di carburante per la semplice movimentazione nell'area.

È con il decreto del 21.02.2017 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 03.03.2017 n. 52) che sono state approvate le norme tecniche di prevenzione.
Tali norme (in vigore dal 01.04.2017) si applicano alle attività riportate all'allegato 1, che costituisce parte integrante del decreto stesso, nell'ambito delle norme tecniche di cui al decreto del ministero dell'Interno del 03.08.2015, recante «approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi, ai sensi dell'art. 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139».
Al fine di non costituire pericolo durante l'operazione di estinzione dell'incendio, deve essere previsto in zona segnalata e di facile accesso, un dispositivo di sezionamento di emergenza che con una sola manovra tolga tensione a tutto l'impianto elettrico dell'autorimessa, compreso quello di eventuali box, alimentati da un impianto elettrico separato.
La protezione dai sovraccarichi e dai guasti a terra dell'impianto elettrico e il dispositivo di sezionamento di emergenza devono essere installati del compartimento antincendio (articolo ItaliaOggi del 07.03.2017).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Riparametrazione delle offerte tecnica e economica.
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Contratti della pubblica amministrazione – Offerta – Riparametrazione – Possibilità.
In sede di gara pubblica la scelta di procedere o meno alla riparametrazione dei punteggi dell’offerta economica si inserisce nel più ampio ambito dell’individuazione, da parte della stazione appaltante, degli elementi di valutazione e comparazione delle offerte nelle gare da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa; la riparametrazione, in particolare, ha la funzione di garantire l’equilibrio tra elementi qualitativi e quantitativi di giudizio, in modo da assicurare la completa attuazione della volontà manifestata al riguardo dalla stazione appaltante: applicando la riparametrazione a una delle componenti dell’offerta, o a entrambe, il peso ne viene valorizzato, nel senso che il concorrente titolare dell’offerta anche di poco migliore rispetto alle altre si vede assegnato il punteggio massimo astrattamente previsto, come se si trattasse di un’offerta tecnicamente eccellente, ovvero considerevolmente conveniente sul piano economico (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che, tale essendo il ruolo della riparametrazione, non è discutibile che appartenga alla discrezionalità della stazione appaltante stabilire quale debba essere il punto di equilibrio tra la componente tecnica e quella economica dell’offerta e fino a che punto si imponga (o, di contro, non si imponga) la tutela dell'equilibrio astratto corrispondente ai massimali di punteggio da essa stessa contemplati, non essendovi peraltro alcuna norma di carattere generale, nel sistema degli appalti pubblici, che imponga alla stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta il punteggio massimo previsto in relazione ai diversi criteri valutativi (Cons. St., sez. III, 27.09.2016, n. 3970; id. 25.02.2016, n. 749; id., sez. V, 27.01.2016, n. 266) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 16.05.2017 n. 689 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2.1. Con il primo motivo di gravame, la cooperativa La Sp. di Gr. –gestore uscente del servizio oggetto di causa– lamenta che l’aggiudicazione sarebbe viziata da un errore metodologico commesso dalla stazione appaltante. La commissione giudicatrice, infatti, avrebbe proceduto all’assegnazione dei punteggi relativi alle offerte economiche previa riparametrazione degli stessi al punteggio massimo previsto dalla legge di gara, mentre i punteggi relativi alle offerte tecniche sarebbero stati attribuiti senza riparametrazione. Questo modo di procedere avrebbe alterato l’esito del confronto tra i concorrenti e lo stesso rapporto tra elemento economico ed elemento tecnico espresso dalla lex specialis attraverso la previsione dei rispettivi punteggi massimi. Eseguendo la riparametrazione delle offerte tecniche, sarebbe la ricorrente a risultare vincitrice.
Per l’ipotesi in cui la mancata riparametrazione dovesse ritenersi imposta dalla lettera di invito, dal capitolato o comunque dalla legge di gara, la ricorrente deduce altresì l’illegittimità di quest’ultima (e quella dell’aggiudicazione in via derivata).
La censura è infondata.
Il paragrafo 3) dell’avviso pubblico a manifestare interesse e della lettera di invito predisposti dalla centrale unica di committenza dei Comuni resistenti prevede l’assegnazione di un massimo di 30 punti per l’offerta economica, da attribuirsi attraverso la formula X = (Rx30)/Rmax, comportante la riparametrazione del miglior punteggio al punteggio massimo e la conseguente attribuzione di punteggi proporzionalmente ridotti alle offerte rimanenti. Diversamente è a dirsi per il punteggio da assegnare alle offerte tecniche, frutto della sommatoria semplice dei punteggi conseguiti dai concorrenti per ciascuno dei criteri e subcriteri di valutazione, senza riparametrazione del miglior punteggio a quello massimo di 70.
Ciò posto,
la scelta di procedere o meno alla riparametrazione dei punteggi si inserisce nel più ampio ambito della individuazione, da parte della stazione appaltante, degli elementi di valutazione e comparazione delle offerte nelle gare da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. La riparametrazione, in particolare, ha la funzione di garantire l’equilibrio tra elementi qualitativi e quantitativi di giudizio, in modo da assicurare la completa attuazione della volontà manifestata al riguardo dalla stazione appaltante: applicando la riparametrazione a una delle componenti dell’offerta, o a entrambe, il peso ne viene valorizzato, nel senso che il concorrente titolare dell’offerta anche di poco migliore rispetto alle altre si vede assegnato il punteggio massimo astrattamente previsto, come se si trattasse di un’offerta tecnicamente eccellente, ovvero considerevolmente conveniente sul piano economico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.08.2014, n. 4359).
Se questo è il ruolo della riparametrazione, non è discutibile che appartenga alla discrezionalità della stazione appaltante stabilire quale debba essere il punto di equilibrio tra la componente tecnica e quella economica dell’offerta e fino a che punto si imponga (o, di contro, non si imponga) la tutela dell'equilibrio astratto corrispondente ai massimali di punteggio da essa stessa contemplati, non essendovi peraltro alcuna norma di carattere generale, nel sistema degli appalti pubblici, che imponga alla stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta il punteggio massimo previsto in relazione ai diversi criteri valutativi (solo per le più recenti, cfr. Cons. Stato, sez. III, 27.09.2016, n. 3970; id., 25.02.2016, n. 749; id., sez. V, 27.01.2016, n. 266).
Erra, pertanto, la ricorrente nell’affermare che la commissione sarebbe incorsa in un vizio metodologico nel riparametrare i soli punteggi inerenti le offerte economiche, e non anche quelli assegnati alle offerte tecniche. La mancata riparametrazione è frutto di una pedissequa applicazione della lex specialis, nei cui confronti la ricorrente si limita a critiche generiche, inidonee a evidenziare obiettivi profili di manifesta illogicità o irragionevolezza delle scelte discrezionali compiute dalla stazione appaltante.

APPALTI I provvedimenti di autotutela impugnati con il ricorso sono caratterizzati dall’evidente violazione dell’art. 21-nonies, 1° comma, della l. 07.08.1990 n. 241, non contenendo una qualche motivazione in ordine alle <<ragioni di interesse pubblico>> legittimanti l’annullamento in sede di autotutela del provvedimento, ma solo l’indicazione del (presunto) vizio di legittimità riscontrato (di per sé insufficiente a legittimare l’annullamento, non potendo essere ravvisato l’interesse pubblico all’annullamento dell’atto nella mera esigenza di ripristino della legalità violata).
Per di più uno dei due appare essere caratterizzato anche da evidente difetto di motivazione in ordine al vizio di legittimità legittimante l’annullamento in sede di autotutela non potendo ovviamente essere considerato sufficiente il generico riferimento a <<vizi procedurali tali da poter inficiare ab origine la procedura di gara>>, non accompagnato da una qualche specificazione del vizio riscontrato.
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La mancata nomina del R.U.P. di cui all’art. 31 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 deve essere inquadrata nel più generale orientamento giurisprudenziale che ha escluso che <<l'omessa indicazione …. del responsabile del procedimento …(possa dare) luogo a vizio di legittimità, salvo che sia dimostrato un concreto pregiudizio (ciò che nella specie non è), applicandosi la norma suppletiva di cui all'art. 5 della citata legge nr. 241 del 1990, a tenore della quale nella prospettata ipotesi è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all'unità organizzativa competente>>.
Del resto, l’applicabilità alla nuova previsione di cui all’art. 31 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 della giurisprudenza sopra richiamata non è certo esclusa dal riferimento all’atto formale di nomina del R.U.P. previsto dalla disposizione (la necessità dell’atto formale di nomina sarebbe, infatti, comunque desumibile dai principi generali, anche in mancanza di previsione espressa) o dalla mancanza, nella disposizione impugnata, dell’espresso richiamo della l. 07.08.1990, n. 241, apparendo di tutta evidenza come si tratti di una particolare articolazione (con aspetti di particolarità che, in questa sede, non rilevano) dell’istituto del responsabile del procedimento prevista dalla legge generale sul procedimento.
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La società ricorrente partecipava alla gara per l’affidamento con durata annuale del servizio di fornitura bevande calde, fredde e snack mediante distributori automatici indetta dal Liceo Statale “Coluccio Salutati” di Montecatini Terme, con lettera di invito 16.12.2016 prot. n. 4821/D9; all’esito delle operazioni di gara conseguiva la prima posizione in graduatoria con complessivi 60 punti avanti alla C. Ve. s.r.l., che conseguiva la seconda posizione con punti 47,66.
Invece di procedere all’aggiudicazione, il Dirigente scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati” di Montecatini Terme, con provvedimento 19.01.2017 prot. n. 182/D9, disponeva l’annullamento in autotutela dell’intera procedura, sulla base della seguente motivazione: <<verificata la sussistenza nel procedimento selettivo di vizi procedurali tali da poter inficiare ab origine la procedura di gara>>.
A seguito delle contestazioni della Su. s.p.a., il Dirigente scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati” di Montecatini Terme emanava il successivo provvedimento 10.02.2017 prot. 550/D9 che sostituiva il precedente, disponendo l’annullamento della gara sulla base della seguente e diversa motivazione: <<verificata la sussistenza nel procedimento selettivo di vizi procedurali tali da poter inficiare ab origine la procedura di gara (mancata individuazione del RUP ex art. 31 del D.Lgs 50/2016); Sussistendo pertanto l’interesse pubblico ad annullare atti procedimentali viziati; In assenza di posizioni giuridiche consolidate>>.
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Nel merito, il ricorso è poi fondato e deve pertanto essere accolto.
Tutti e due i provvedimenti di autotutela impugnati con il ricorso sono caratterizzati dall’evidente violazione dell’art. 21-nonies, 1° comma, della l. 07.08.1990 n. 241, non contenendo una qualche motivazione in ordine alle <<ragioni di interesse pubblico>> legittimanti l’annullamento in sede di autotutela del provvedimento, ma solo l’indicazione del (presunto) vizio di legittimità riscontrato (di per sé insufficiente a legittimare l’annullamento, non potendo essere ravvisato l’interesse pubblico all’annullamento dell’atto nella mera esigenza di ripristino della legalità violata: TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.02.2017, n. 127; TAR Friuli-Venezia Giulia, 25.11.2013, n. 614).
Per di più il provvedimento 19.01.2017 prot. n. 182/D9 del Dirigente scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati” di Montecatini Terme appare essere caratterizzato anche da evidente difetto di motivazione in ordine al vizio di legittimità legittimante l’annullamento in sede di autotutela non potendo ovviamente essere considerato sufficiente il generico riferimento a <<vizi procedurali tali da poter inficiare ab origine la procedura di gara>>, non accompagnato da una qualche specificazione del vizio riscontrato.
Al contrario, il secondo provvedimento di autotutela (il provvedimento 10.02.2017 prot. 550/D9 del Dirigente scolastico del Liceo Statale “Coluccio Salutati” di Montecatini Terme) deve ritenersi sufficientemente motivato per quello che riguarda il vizio di legittimità riscontrato (ma non per l’interesse pubblico all’annullamento, per quanto già rilevato), ma del tutto erroneo in diritto.
La mancata nomina del R.U.P. di cui all’art. 31 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 deve, infatti, essere inquadrata nel più generale orientamento giurisprudenziale che ha escluso che <<l'omessa indicazione …. del responsabile del procedimento …(possa dare) luogo a vizio di legittimità, salvo che sia dimostrato un concreto pregiudizio (ciò che nella specie non è), applicandosi la norma suppletiva di cui all'art. 5 della citata legge nr. 241 del 1990, a tenore della quale nella prospettata ipotesi è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all'unità organizzativa competente>> (Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2013, n. 1632; TAR Toscana, sez. III, 30.01.2012, n. 197; TAR Campania, Napoli, VII, 14.01.2011, n. 164; TAR Lazio, Roma, III, 09.09.2010, n. 32207; Cons. Stato, sez. II, 16.05.2007, parere n. 866).
Del resto, l’applicabilità alla nuova previsione di cui all’art. 31 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 della giurisprudenza sopra richiamata non è certo esclusa dal riferimento all’atto formale di nomina del R.U.P. previsto dalla disposizione (la necessità dell’atto formale di nomina sarebbe, infatti, comunque desumibile dai principi generali, anche in mancanza di previsione espressa) o dalla mancanza, nella disposizione impugnata, dell’espresso richiamo della l. 07.08.1990, n. 241, apparendo di tutta evidenza come si tratti di una particolare articolazione (con aspetti di particolarità che, in questa sede, non rilevano) dell’istituto del responsabile del procedimento prevista dalla legge generale sul procedimento.
In definitiva, i due provvedimenti di autotutela devono essere annullati, senza che sussista una qualche necessità di procedere all’annullamento anche della clausola della lettera di invito 16.12.2016 prot. n. 4821/D9 prevedente la possibilità dell’annullamento della gara ad <<insindacabile giudizio>> della Stazione appaltante; la detta clausola non può, infatti, assumere il valore di una preventiva rinuncia a chiedere il sindacato giudiziale dei provvedimenti di annullamento d’ufficio e pertanto non rileva nella presente vicenda (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 12.05.2017 n. 672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Acquisto della proprietà del bene illegittimamente espropriato per effetto della rinuncia abdicativa implicita nella richiesta di risarcimento del danno.
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Espropriazione per pubblica utilità - Irreversibile trasformazione del bene – Richiesta risarcimento danni – Implicita rinuncia abdicativa – Acquisto della proprietà da parte dell’Amministrazione – Esclusione.
In caso di procedura espropriativa divenuta illegittima con irreversibile trasformazione del bene, l’Ente espropriante non può acquistare la proprietà del bene per effetto della rinuncia abdicativa che sarebbe implicita nella richiesta di risarcimento del danno (1).
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   (1) Con tale conclusione il Tar si è motivatamente discostato dal recente arresto del Tar Catanzaro, sez. II, 12.05.2017, n. 438, secondo cui il ricorrente proprietario, sarebbe facoltizzato a formulare una domanda di mero risarcimento del danno per equivalente (a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo) e contestualmente rinunciare alla proprietà del bene (abdicando al diritto) ovvero alla sua restituzione.
Ad avviso del Tar Reggio Calabria la tesi urta contro un ostacolo giuridico evidente, laddove si riconnette il risarcimento del danno da perdita della proprietà all’esito di un comportamento volontario posto in essere discrezionalmente dal proprietario medesimo.
La rinuncia è infatti negozio unilaterale il cui solo effetto è quello dismissivo del diritto di proprietà, mentre l’effetto acquisitivo da parte dello Stato è solo effetto di secondo grado.
Né può configurarsi un illecito aquiliano dell’Amministrazione, se non nel limitato senso di ipotizzare un diritto al risarcimento del danno da occupazione illegittima temporanea (e cioè dall’inizio dell’occupazione illegittima con trasformazione del bene irreversibile sino alla rinuncia) ovvero ad altri ulteriori pregiudizi da provarsi a cura della parte istante.
E’ invece palese che non può essere ricollegato al comportamento illecito dell’Amministrazione il danno da perdita della proprietà legato ad un atto meramente dismissivo, posto che difetta il necessario nesso di consequenzialità diretta imposto dall’art. 1223 c.c.
Si ribadisce infatti che la rinuncia (la cui sola natura è abdicativa) è negozio unilaterale, con effetto dismissivo automatico, che non può far sorgere un illecito in capo al terzo acquirente a titolo originario (Stato ex art. 827 c.c.), né tanto meno a carico dell’ente espropriante, il cui acquisto avviene semmai in base ad un autonomo titolo provvedimentale (art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001).
Né possono trarsi argomenti dalla sentenza SS.UU. n. 735 del 2015 (atteso il generico riferimento alla rinuncia abdicativa che suona più come immotivato obiter) ovvero alla decisione della Adunanza plenaria n. 2 del 2016, nella quale la menzione della rinuncia abdicativa sembra da interpretarsi solo quale evento che, in linea astratta e generale, pone fine all’illecito permanente (si rinuncia al diritto e dunque cessa evidentemente la lesione del diritto stesso) ma non certo come vicenda giuridica che attribuisce direttamente il bene all’Amministrazione a fronte del versamento del controvalore.
Ciò sarebbe possibile, astrattamente, solo all’esito di una vicenda traslativa, che nulla ha a che vedere con l’istituto della rinuncia e che assume i contorni di una fattispecie complessa di natura contrattuale; inammissibile tuttavia, laddove tesa a poggiarsi sul medio di una pronuncia giudiziaria che accerti la cessione del bene dal privato alla P.A..
La funzione giudiziaria diverrebbe invero strumento ancillare rispetto all’esercizio di facoltà discrezionali del privato nonché rispetto ad una forma di circolazione del bene, invero inaudita, che porrebbe per altro serie criticità nei rapporti coi terzi.
Invero, ribadisce il Tar, dalla illegittima ablazione di un immobile per effetto di un procedimento espropriativo non conclusosi con un regolare e tempestivo decreto di esproprio sorge dunque (al di là dell’unica ipotesi alternativa costituita dalla possibilità di un contratto traslativo ovvero di un accordo transattivo), unicamente, l’obbligo per l’Amministrazione di sanare la situazione di illecito venutasi a creare, restituendo il terreno con la corresponsione del dovuto risarcimento per il periodo di illegittima occupazione temporanea ovvero, in via subordinata, adottando il decreto di acquisizione sanante ex art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 e versando il relativo indennizzo/risarcimento secondo i parametri ivi disciplinati (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 12.05.2017 n. 438 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Illegittimo subentro nel Raggruppamento temporaneo aggiudicatario.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Modifiche soggettive – Contratto d’affitto di ramo d’azienda – Mancanza di elementi del contratto d’affitto di ramo d’azienda – Conseguenza - Illegittimità del subentro.
E' illegittimo, per violazione degli artt. 38 e 51 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, il subentro a catena nell’appalto di due imprese a quella facente parte del raggruppamento temporaneo che aveva partecipato alla gara, risultandone aggiudicatario a seguito di ripetuti, successivi, provvedimenti in autotutela, qualora l'impresa originaria fosse in stato di decozione fin dal momento della presentazione dell'offerta, in ragione dell'accertata strumentalità del subentro e della inqualificabilità dello stesso in termini di affitto di ramo d'azienda (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar, richiamando un proprio precedente in termini (08.04.2016, n. 191), che il principio generale fissato dall'ordinamento è quello dell'immutabilità dei raggruppamenti dopo la presentazione dell'offerta (art. 37, comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006), principio il quale trova, nel successivo art. 51, una deroga affatto parziale e limitata, poiché l'imprenditore subentrante, secondo quanto la disposizione stabilisce, deve possedere, nel complesso, gli stessi requisiti del subentrato. D’altra parte, la cessione, per essere consentita, deve potersi riconoscere come attinente ad una entità organica, capace di vita economica propria, che l'affittuario deve gestire conservando l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti, giusta artt. 2561 e 2562 c.c.: organizzazione e impianti che, nella fattispecie posta all’esame del Tribunale, concernono limitate posizioni, e sono comunque certamente inidonei a configurare un autonomo organismo imprenditoriale, capace di vita propria (TRGA Trentino Alto Adige, sentenza 12.05.2017 n. 170 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Importanti principi espressi dall’Adunanza plenaria in tema di esecuzione del giudicato ed esecuzione in forma specifica.
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Processo amministrativo – Giudicato – Riconoscimento fondatezza pretesa sostanziale – Successivo esercizio del potere – In carenza di discrezionalità – Conseguenza.
Processo amministrativo – Giudicato – Obbligazione nascente dal giudicato – Esecuzione in forma specifica – Impossibilità sopravvenuta – Conseguenza.
Giurisdizione - Giudicato – Esecuzione in forma specifica – Impossibilità sopravvenuta – Domanda rivolta ad altra parte privata beneficiaria del provvedimento illegittimo – Giurisdizione Ago.
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Aggiudicazione – Illegittima mancata aggiudicazione - Lucro cessante – Individuazione.
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Aggiudicazione – Illegittima mancata aggiudicazione – Mancato utile – Spettanza - Condizione.
Dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione, un’obbligazione, il cui oggetto consiste nel concedere “in natura” il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza.
L’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente dal giudicato –che dà vita in capo all’amministrazione ad una responsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale, che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone peraltro ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina civilistica– non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica; l’insorgenza di tale obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre che dell’antigiuridicità della condotta.
In base agli artt. 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparato, con la conseguenza che la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto).
Spetta, in ogni caso, all’impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull’ammontare del danno.
Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum (1).
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   (1) La sentenza ha pronunciato sull’ottemperanza della sentenza del Cons. St., A.P., 29.02.2016, n. 6 (
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 12.05.2017 n. 2 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe contravvenzioni in materia antisismica possono essere commesse da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del preavviso e del deposito dei progetti e degli allegati tecnici e della richiesta al compente ufficio tecnico regionale, sicché, pur non trattandosi di un reato proprio del proprietario, la configurazione giuridica dello stesso può esser inquadrata in quelli a soggettività ristretta, giacché, oltre che da questi, può esser commesso dal committente, dal titolare della concessione edilizia ed, in genere, da chi ha la disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da quei soggetti che esplicano attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione senza accertarsi degli intervenuti adempimenti e, come tale, non è esonerato automaticamente da responsabilità per la presenza di un direttore dei lavori.
In tale contesto,
in materia di violazioni della legge antisismica il proprietario delle opere risponde, anche se abbia incaricato altra persona, della omessa presentazione al competente ufficio del progetto della costruzione e degli allegati, poiché, quale destinatario della predetta normativa, ha l'obbligo precipuo di accertarsi dell'avvenuto adempimento.
Ne consegue che
il proprietario non è esente da responsabilità per la violazione delle contravvenzioni antisismiche nel caso di affidamento a terzi della committenza e/o esecuzione delle opere.
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1. Con sentenza in data 02.09.2016, il Tribunale di Caltagirone, previa dichiarazione di estinzione del reato di cui all'art. 110 cod. pen. e 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, per essere lo stesso estinto per rilascio di concessione edilizia in sanatoria, ha condannato -per quanto qui di rilievo- Co.An. alla pena di € 350,00 di ammenda in relazione alla violazione degli artt. 93, 94 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 per avere omesso di dare preavviso, alle competenti autorità, della denuncia di inizio dei lavori e di deposito dei progetti. Accertato in Caltagirone il 23/06/2009.
...
5. Ciò posto, nel merito il motivo di ricorso è infondato.
Con riferimento al primo profilo, questa Corte ha ripetutamente affermato che
le contravvenzioni in materia antisismica in oggetto possono essere commessa da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del preavviso e del deposito dei progetti e degli allegati tecnici e della richiesta al compente ufficio tecnico regionale, sicché, pur non trattandosi di un reato proprio del proprietario, la configurazione giuridica dello stesso può esser inquadrata in quelli a soggettività ristretta, giacché, oltre che da questi, può esser commesso dal committente, dal titolare della concessione edilizia ed, in genere, da chi ha la disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da quei soggetti che esplicano attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione senza accertarsi degli intervenuti adempimenti e, come tale, non è esonerato automaticamente da responsabilità per la presenza di un direttore dei lavori.
In tale contesto è stato precisato, per quanto qui di rilievo in connessione con la censura, che
in materia di violazioni della legge antisismica il proprietario delle opere risponde, anche se abbia incaricato altra persona, della omessa presentazione al competente ufficio del progetto della costruzione e degli allegati, poiché, quale destinatario della predetta normativa, ha l'obbligo precipuo di accertarsi dell'avvenuto adempimento (Sez. 3, n. 4578 del 11/02/1986, Ferrara, Rv. 172892).
Ne consegue che
il proprietario non è esente da responsabilità per la violazione delle contravvenzioni antisismiche nel caso di affidamento a terzi della committenza e/o esecuzione delle opere.
La sentenza impugnata risulta correttamente motivata e la condanna fondata sulla qualifica di proprietaria soggetto destinatario degli obblighi informativi sanzionati dall'art. 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 a nulla rilevando che costei non fosse committente e/o esecutrice dei lavori compiuti da terzi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2017 n. 22281).

EDILIZIA PRIVATA: Dichiarazione di ultimazione dei lavori – Efficacia probatoria – Termini per l’impugnazione del titolo da parte del terzo.
La dichiarazione sostitutiva rilasciata dal direttore dei lavori ai sensi degli artt. 47 e 76 d.p.r. n. 445/2000, sebbene non costituisca elemento probatorio dirimente in ordine alla data di ultimazione dei lavori, rappresenta un importante elemento di valutazione che, unitamente ad altri elementi, anche indiziari, possono indurre a determinare la data di decorrenza del termine per l’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.05.2017 n. 2063 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse.
Tale obbligazione nasce poi nel momento del rilascio del titolo per costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo.

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9.2.2. Come rilevato pacificamente dalla giurisprudenza, infatti, il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse.
Tale obbligazione nasce poi nel momento del rilascio del titolo per costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2015, n. 5412) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.05.2017 n. 2055 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa domanda di accesso deve essere accolta anche con riguardo agli esposti e alle segnalazioni dalle quali ha preso avvio l’attività amministrativa che ha dato luogo agli addebiti contestati alla parte ricorrente, in quanto l’ordinamento non “tollera le denunce segrete e colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce o esposti” dato che, ove sussistenti, eventuali esigenze di riservatezza a tutela dello sviluppo dell’istruttoria possono trovare riscontro in un eventuale breve differimento del diritto di accesso.
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In materia di accesso la qualità di controinteressato, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. c), legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall'articolo 15, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15 (per il quale per "controinteressati" si intendono "tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza"), non è riconosciuta più a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza, ed una tale evenienza non è configurabile in capo alle aziende vinicole.
Infatti in materia di rilascio dei titoli edilizi esistono specifiche disposizioni di legge e regolamentari che, sulla scorta della nota disposizione di cui all'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dalla legge 06.08.1967, n. 765, prevedono un regime di pubblicità molto più esteso di quello contemplato dalla legge 07.08.1990, n. 241, riscontrabile nell'art. 20, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, nella parte in cui stabilisce che dell'avvenuto rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all'albo pretorio che è funzionale a consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento in ragione di quel controllo "diffuso" sull'attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire e che è espressamente contemplato nell'art. 27, comma 3, del DPR 06.06.2001, n. 380.
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Benché nella domanda non vi sia una specifica menzione degli atti di cui è richiesta l’ostensione, nondimeno in base agli elementi offerti dall’istante (che chiede di visionare le pratiche edilizie inerenti gli interventi di ampliamento delle tre aziende vinicole univocamente identificate in base all’ubicazione della loro sede) è possibile individuare i documenti richiesti senza che ciò implichi lo svolgimento di un’attività di ricerca o di elaborazione dati dal parte del Comune, e non può ritenersi che costituisca un onere del richiedente l'esatta indicazione dei dati identificativi di ciascun documento di cui è chiesto l’accesso trattandosi di elementi che ordinariamente non sono nell' ordinaria disponibilità e cognizione del privato.
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Quanto all’insussistenza di un interesse concreto ed attuale all’ostensione dedotto dal Comune perché ormai è decorso il termine per l’eventuale impugnazione degli atti di cui è chiesto l’accesso che disvelerebbe la volontà di svolgere un controllo generalizzato sull’operato del Comune, vi è da osservare che non spetta all’Amministrazione ingerirsi nell’apprezzamento dell’effettiva e concreta utilità che l’istante intende trarre dalla domanda di accesso che compete al solo interessato, dovendosi la stessa limitarsi ad un giudizio estrinseco sull'esistenza di un legittimo e differenziato bisogno di conoscenza in capo a chi richiede i documenti che nella fattispecie sussiste, atteso che la parte ricorrente ha rappresentato la necessità di verificare la correttezza o meno degli oneri e contributi dalla stessa versati in occasione dell’ampliamento del proprio stabilimento, la cui eventuale restituzione può essere richiesta, come è noto, nel termine ordinario di prescrizione, e ciò integra un interesse attuale e giuridicamente rilevante utile alla difesa della propria posizione soggettiva.
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La ricorrente è proprietaria di uno stabilimento enologico denominato “Bo.Ro.Sv.” nel Comune di Soave, in cui periodicamente svolge delle serate di promozione dei propri prodotti.
Il Comune con comunicazioni prot. n. 12974 del 15.09.2015, e prot. n. 3938 del 03.03.2016, ha contestato il superamento dei valori di immissione acustica dovuto alla rumorosità dei predetti eventi di promozione dei prodotti, e con nota prot. n. 11269 del 29.06.2016, ha contestato l’esercizio abusivo dell’attività temporanea di somministrazione di alimenti e bevande.
La ricorrente con domanda dell’11.07.2016 in relazione a tali addebiti ha presentato un’istanza di accesso volta a visionare ed estrarre copia di tutta la documentazione afferente a tali contestazioni per tutelare i propri diritti ed interessi.
La ricorrente espone altresì di aver stipulato con il Comune una convenzione urbanistica per l’ampliamento e la ristrutturazione del proprio stabilimento sito in viale Vittoria, e di aver maturato dei dubbi circa la correttezza degli oneri posti a suo carico rispetto ad analoghi interventi edilizi svolti da soggetti svolgenti la medesima attività.
Con domanda del 12.07.2016, la ricorrente ha quindi chiesto di poter accedere alla documentazione amministrativa (convenzioni, permessi di costruire pareri ecc.) relativa alle pratiche edilizie urbanistiche di realizzazione ed ampliamento di stabilimenti enologici siti in via Circonvallazione, in località Monti (nel prosieguo di via Matteotti) e in località Monte Tondo, specificando che la conoscenza di tale documentazione è necessaria per effettuare un confronto tra tali posizioni e la pratica urbanistica conclusasi con la stipula in data 21.01.2016 della convenzione urbanistica tra la ricorrente ed il Comune per l’ampliamento del proprio stabilimento, al fine di potersi eventualmente tutelare nelle opportune sedi.
Il Comune non ha risposto alle istanze e la ricorrente con il ricorso in epigrafe chiede sia dichiarata l’illegittimità del silenzio diniego ed ordinata l’esibizione dei documenti richiesti.
Si è costituito in giudizio il Comune di Soave eccependo l’inammissibilità del ricorso relativamente alla prima richiesta di accesso agli atti, in quanto il Comune prima della proposizione dell’atto introduttivo del giudizio ha manifestato la propria disponibilità a consentire l’accesso agli atti richiesti, e l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso relativamente alla seconda domanda, perché il ricorso non è stato notificato ai controinteressati, e la domanda di accesso è generica perché non individua né i titolari delle pratiche edilizie cui si riferisce, né in modo puntuale gli atti di cui è chiesta l’ostensione, e deve comunque essere respinta perché volta a svolgere un inammissibile controllo generalizzato sull’attività dell’ente, non essendo sorretta da un concreto interesse in quanto sono già spirati i termini per un eventuale ricorso di tipo impugnatorio volto ad ottenere l’annullamento degli atti relativi alle pratiche edilizie rispetto alle quali è richiesto l’accesso.
Alla Camera di consiglio del 13.04.2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto relativamente ad entrambe le domande di accesso.
Quanto alla prima istanza di accesso deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità motivata con riferimento alla circostanza che l’Amministrazione si è resa disponibile ad esibire i documenti richiesti prima ancora della proposizione del ricorso.
Infatti come è stato chiarito nel corso del giudizio, tale disponibilità non è satisfattiva delle richieste della ricorrente, perché limitata ai documenti di cui la stessa è già in possesso, ed il Comune ritiene invece non ostensibili gli esposti e le segnalazioni che la ricorrente intende invece conoscere.
Sul punto il Collegio osserva che la domanda di accesso deve essere accolta anche con riguardo agli esposti e alle segnalazioni dalle quali ha preso avvio l’attività amministrativa che ha dato luogo agli addebiti contestati alla parte ricorrente, in quanto l’ordinamento non “tollera le denunce segrete e colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce o esposti” dato che, ove sussistenti, eventuali esigenze di riservatezza a tutela dello sviluppo dell’istruttoria possono trovare riscontro in un eventuale breve differimento del diritto di accesso (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 12.07.2016, n. 980; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 10.09.2015 n. 11188; Consiglio di Stato, Sez. V, 19.05.2009, n. 3081; Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.06.2007 n. 3601).
Per quanto concerne la seconda istanza di accesso il Collegio osserva quanto segue.
Deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso perché non notificato ai controinteressati, atteso che in materia di accesso la qualità di controinteressato, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. c), legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall'articolo 15, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15 (per il quale per "controinteressati" si intendono "tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza"), non è riconosciuta più a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.06.2016, n. 2863; Tar Puglia, Bari, Sez. III, 09.04.2015, n. 572; Tar Veneto, Sez. III, 12.12.2008, n. 3840), ed una tale evenienza non è configurabile in capo alle aziende vinicole.
Infatti in materia di rilascio dei titoli edilizi esistono specifiche disposizioni di legge e regolamentari che, sulla scorta della nota disposizione di cui all'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dalla legge 06.08.1967, n. 765, prevedono un regime di pubblicità molto più esteso di quello contemplato dalla legge 07.08.1990, n. 241, riscontrabile nell'art. 20, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, nella parte in cui stabilisce che dell'avvenuto rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all'albo pretorio che è funzionale a consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento in ragione di quel controllo "diffuso" sull'attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire e che è espressamente contemplato nell'art. 27, comma 3, del DPR 06.06.2001, n. 380.
Anche le ulteriori eccezioni sollevate dal Comune sono infondate, in quanto, benché nella domanda non vi sia una specifica menzione degli atti di cui è richiesta l’ostensione, nondimeno in base agli elementi offerti dall’istante (che chiede di visionare le pratiche edilizie inerenti gli interventi di ampliamento delle tre aziende vinicole univocamente identificate in base all’ubicazione della loro sede) è possibile individuare i documenti richiesti senza che ciò implichi lo svolgimento di un’attività di ricerca o di elaborazione dati dal parte del Comune, e non può ritenersi che costituisca un onere del richiedente l'esatta indicazione dei dati identificativi di ciascun documento di cui è chiesto l’accesso trattandosi di elementi che ordinariamente non sono nell' ordinaria disponibilità e cognizione del privato (cfr. Consiglio di Stato, Se. VI, 07.04.2010, n. 1962).
Quanto all’insussistenza di un interesse concreto ed attuale all’ostensione dedotto dal Comune perché ormai è decorso il termine per l’eventuale impugnazione degli atti di cui è chiesto l’accesso che disvelerebbe la volontà di svolgere un controllo generalizzato sull’operato del Comune, vi è da osservare che non spetta all’Amministrazione ingerirsi nell’apprezzamento dell’effettiva e concreta utilità che l’istante intende trarre dalla domanda di accesso che compete al solo interessato, dovendosi la stessa limitarsi ad un giudizio estrinseco sull'esistenza di un legittimo e differenziato bisogno di conoscenza in capo a chi richiede i documenti (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 12.02.2013, n. 793) che nella fattispecie sussiste, atteso che la parte ricorrente ha rappresentato la necessità di verificare la correttezza o meno degli oneri e contributi dalla stessa versati in occasione dell’ampliamento del proprio stabilimento, la cui eventuale restituzione può essere richiesta, come è noto, nel termine ordinario di prescrizione, e ciò integra un interesse attuale e giuridicamente rilevante utile alla difesa della propria posizione soggettiva.
In definitiva pertanto il ricorso va accolto dovendosi dichiarare il diritto di accedere agli atti oggetto di entrambe le istanze nei termini sopra indicati e l’obbligo per l’Amministrazione comunale di renderli disponibili mediante estrazione di copia degli stessi (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.05.2017 n. 451 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di appalto, le variazioni di cui all'art. 1660 cod. civ. sono quelle non previste nel progetto, ma rese necessarie dall'esecuzione dell'opera; ove si tratti di variazioni strettamente necessarie alla realizzazione a regola d'arte dell'opera commessa in appalto, deve ritenersi consentito all'appaltatore darvi esecuzione senza preventiva autorizzazione del committente, ma in tal caso, in mancanza di accordo fra le parti, spetta al giudice accertare la detta necessità delle variazioni e determinare il corrispettivo delle relative opere, parametrandolo ai prezzi unitari previsti nel preventivo ovvero ai prezzi di mercato correnti.
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Sotto il secondo profilo, relativo alla mancata comunicazione della necessità di opere aggiuntive, i giudici di appello -nel ritenere che il pagamento delle opere aggiuntive eseguite è dovuto indipendentemente dal fatto che l'appaltatore ne abbia avvertito il committente- si sono conformati alla giurisprudenza di questa Suprema Corte richiamata nella sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. 1, n. 349 del 29/01/1966) e il ricorrente non ha fornito argomenti validi per mutare orientamento.
Va in proposito ricordato che
la diligenza nell'adempimento, cui è tenuto ogni debitore ai sensi dell'art. 1176, primo comma, cod. civ., si connota in modo peculiare per l'appaltatore, assumendo costui un'obbligazione di risultato (e non di mezzi) ed essendo pertanto tenuto a realizzare l'opera a regola d'arte, osservando, nell'esecuzione della prestazione, la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176, 2° comma, cod. civ. quale modello astratto di condotta, che si estrinseca (sia egli professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili eventi dannosi.
Sul punto, va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, ha statuito che
la responsabilità dell'appaltatore per i vizi dell'opera sussiste ancorché tali vizi siano riconducibili ad una condizione posta in essere da un terzo (come nel caso in cui egli sia chiamato ad eseguire un progetto predisposto dal committente), essendo l'appaltatore tenuto verso il committente -per aver assunto un'obbligazione di risultato e non di mezzi- a realizzare l'opera a regola d'arte e rispondendo anche per le condizioni imputabili allo stesso committente o a terzi se, conoscendole o potendole conoscere con l'ordinaria diligenza, non le abbia segnalate all'altra parte, né abbia adottato gli accorgimenti opportuni per far conseguire il risultato utile, salvo che, in relazione a tale situazione, ottenga un espresso esonero di responsabilità (Cass., Sez. 2, n. 10927 del 18/05/2011).
Si è affermato perciò che
l'appaltatore, anche laddove si attenga alle previsioni del progetto altrui, può comunque essere ritenuto responsabile per i vizi dell'opera se, nell'eseguire fedelmente il progetto e le indicazioni ricevute, non segnali eventuali carenze ed errori, giacché la prestazione da lui dovuta implica anche il controllo e la correzione degli eventuali errori del progetto, mentre egli va esente da responsabilità laddove il committente, pur reso edotto delle carenze e degli errori, gli richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o gli ribadisca le indicazioni, in tale ipotesi risultando l'appaltatore stesso ridotto a mero nudus minister, cioè passivo strumento nelle mani del primo, direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico (Cass., Sez. 2, n. 1981 del 02/02/2016; Sez. 1, n. 22036 del 17/10/2014; Sez. 2, n. 10927 del 18/05/2011; Sez. 3, n. 12995 del 31/05/2006).
Pertanto,
ove l'appaltatore non fornisca la prova di aver manifestato al committente il proprio dissenso dalle previsioni progettuali per gli errori in esse contenuti e di essere stato cionondimeno indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo, egli è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori (Cass., Sez. 2, n. 8016 del 21/05/2012).
In altri termini,
l'obbligazione di risultato assunta dall'appaltatore (salvo il caso in cui lo stesso operi quale mero nudus minister) implica che egli osservi comunque i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli e sia obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente, essendo responsabile nei confronti di quest'ultimo per i vizi dell'opera ove le previsioni progettuali siano palesemente errate.
Questo è il senso della previsione di cui all'art. 1160 cod. civ., secondo cui «Se per l'esecuzione dell'opera a regola d'arte, è necessario apportare variazioni al progetto e le parti non si accordano, spetta al giudice di determinare le variazioni da introdurre e le correlative variazioni del prezzo».
Quando si tratti di variazioni al progetto strettamente necessarie alla realizzazione a regola d'arte dell'opera commessa in appalto, deve ritenersi consentito all'appaltatore darvi esecuzione senza preventiva autorizzazione del committente (in tal senso, (Cass., Sez. 1, n. 349 del 29/01/1966). In tal caso, in mancanza di accordo fra le parti, spetterà al giudice accertare la necessità delle variazioni e determinare il corrispettivo di tali lavori, parametrandolo ai prezzi unitari previsti nel preventivo ovvero ai prezzi di mercato correnti.
Sul punto va enunciato, ai sensi dell'art 384 primo comma, cod. proc. civ., il seguente principio di diritto: «
In tema di appalto, le variazioni di cui all'art. 1660 cod. civ. sono quelle non previste nel progetto, ma rese necessarie dall'esecuzione dell'opera; ove si tratti di variazioni strettamente necessarie alla realizzazione a regola d'arte dell'opera commessa in appalto, deve ritenersi consentito all'appaltatore darvi esecuzione senza preventiva autorizzazione del committente, ma in tal caso, in mancanza di accordo fra le parti, spetta al giudice accertare la detta necessità delle variazioni e determinare il corrispettivo delle relative opere, parametrandolo ai prezzi unitari previsti nel preventivo ovvero ai prezzi di mercato correnti».
Avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione di tale principio, il motivo in esame risulta infondato (Corte di Cassazione,  Sez. II civile, sentenza 04.05.2017 n. 10891).

ATTI AMMINISTRATIVI: La Corte costituzionale giudica legittimo il termine decadenziale di 120 giorni, per la proposizione della domanda risarcitoria autonoma.
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Giustizia amministrativa – Codice del processo amministrativo - Domanda risarcitoria autonoma – Termine decadenziale di 120 giorni – Questione infondata di costituzionalità
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 3, del d.lgs. 02.07.2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18.06.2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui stabilisce che la «domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo», sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 12.12.2000, e agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1).

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   (1) I.- Con la sentenza in epigrafe, la Consulta ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar per il Piemonte (cfr. sez. II, ordinanza 17.12.2015 n. 1747) con riferimento alla disciplina del codice del processo amministrativo, nella parte in cui è stato introdotto un ristretto termine decadenziale per l’esercizio dell’azione risarcitoria autonoma nei confronti della p.a.; tale previsione, secondo l’ordinanza di rimessione, potrebbe configurare un privilegio per la pubblica amministrazione responsabile di un illecito, con ciò risultando in contrasto con il principio del giusto processo e con quelli in tema di effettività della tutela, nonché (per il tramite dell’art. 117, primo comma, della Costituzione) con il diritto ad un processo equo e ad un ricorso effettivo sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti UE e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
II.- Con la sentenza in epigrafe la Consulta respinge i diversi profili dedotti.
In primo luogo, in relazione al principio di ragionevolezza, secondo la Consulta la previsione del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione risarcitoria non può ritenersi il frutto di una scelta viziata da manifesta irragionevolezza, ma costituisce l’espressione di un coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria, secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta anche in diritto privato (art. 2377, sesto comma, del codice civile). La ragionevolezza emerge anche a fronte del bilanciamento operato con l’interesse, di rango costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni (artt. 81, 97 e 119 Cost.) e di non esporli, a distanza rilevante di tempo, a continue modificazioni incidenti sulla coerenza e sull’efficacia dell’azione amministrativa.
In secondo luogo, in relazione al principio di uguaglianza, la Consulta esclude la sussistenza del presupposto dell’identità di situazioni. Infatti, alla necessità che davanti al giudice amministrativo sia assicurata al cittadino la piena tutela, anche risarcitoria, non consegue che detta tutela debba essere del tutto analoga all’azione risarcitoria del danno da lesione di diritti soggettivi.
In terzo luogo, in relazione all’introduzione di un termine breve per l’esercizio della difesa ex artt. 24 e 113 Cost., secondo la Consulta il termine di centoventi giorni è significativamente più lungo di molti dei termini decadenziali previsti dal legislatore sia nell’ambito privatistico che in quello pubblicistico, e per ciò solo non può dirsi in alcun modo inidoneo a rendere la tutela giurisdizionale effettiva.
Infine, in merito ai parametri di ordine sovranazionale, mentre il principio di equivalenza è rispettato in quanto la norma censurata riguarda sia la posizione dei titolari di posizioni giuridiche fondate sul diritto dell’Unione sia i titolari di posizioni giuridiche fondate sul diritto interno, per ciò che concerne il principio di effettività, il termine di centoventi giorni, di per sé ed in assenza di problemi legati alla conoscibilità dell’evento dannoso, non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.
III.- In materia di azione risarcitoria davanti al G.A. vanno richiamati gli orientamenti già espressi dalla Consulta e dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in particolare:
   a) Corte cost., sentenza 12.12.2012, n. 280, in Foro it., 2013, I, 1065 con nota di Travi (cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui: “È inammissibile, in quanto priva di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, 5º comma, cod. proc. amm., nella parte in cui assoggetta a un termine di decadenza di centoventi giorni la domanda di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, in riferimento agli art. 3, 24, 103 e 113 cost.
   b) Corte cost., sentenza 31.03.2015, n. 57, in Foro it., 2015, I, 3063 con nota di Travi (cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui:
«È manifestamente inammissibile la q.l.c. dell'art. 30, comma 5, d.lgs. 02.07.2010 n. 104, censurato, in riferimento agli art. 3, 24, 103 e 113 cost., nonché all'art. 117, comma 1, cost., in relazione all'art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), in quanto prevede che l'azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi (connessa a quella di annullamento del provvedimento lesivo), ove non formulata nel corso dello stesso giudizio di annullamento, possa essere proposta "sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza»; il rimettente, nel presupporre che il denunciato art. 30, comma 5, si applichi, in ragione della sua natura processuale, anche nel giudizio a quo, introdotto anteriormente alla sua entrata in vigore, non ha tenuto conto della disposizione di cui all'art. 2 del Titolo II dell'Allegato 3, la quale -nel prevedere che per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti- non è altrimenti interpretabile che nel senso della sua riferibilità anche all'ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual è quello di prescrizione, ed un termine processuale precedentemente non previsto, quale appunto il termine di decadenza sub art. 30 censurato, risultando una diversa lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo, della sua riferibilità solo a termini processuali "in corso”) innegabilmente contra constitutionem, sicché il rimettente avrebbe dovuto avere riguardo al regime di prescrizione quinquennale di diritto comune (art. 2947 c.c.) vigente al momento della proposizione dell'azione risarcitoria; omissione, questa, che si risolve in una carente motivazione sulla rilevanza della questione;
   c) Cons. St., Ad. plen., sentenza 06.07.2015, n. 6, in Foro it., 2015, III, 501 con nota di TRAVI (cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui: “Il termine decadenziale di centoventi giorni previsto, per la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi, dall'art. 30, comma 3, c.p.a., non è applicabile ai fatti illeciti anteriori all'entrata in vigore del codice”.
IV.- Per completezza si segnala:
   d) Tar Napoli, sez. III, 24.10.2016 n. 4866, secondo cui: “L'azione risarcitoria ex art. 30, comma 3, c.p.a. di condanna dell'Amministrazione al risarcimento da comportamento o provvedimento illegittimo segue un regime processuale diverso da quello dell'azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato, contemplata in seno al giudizio di ottemperanza dall'art. 112, comma 3, c.p.a.. La prima soggiace, infatti, a una differente disciplina processuale, sia in termini di proposizione; sia sotto il rilevante profilo tipologico del rito, che è quello ordinario, con i relativi tempi di calendarizzazione e conseguente fissazione dell'udienza di trattazione del merito (in dipendenza del ruolo e del relativo carico) e di deposito della sentenza e non quello celere e preferenziale dell'ottemperanza, trattata con il rito camerale; sia per il diverso ammontare del contributo unificato; sia sotto il considerevole aspetto del termine decadenziale di proposizione sancito dall'art. 30, comma 3, c.p.a., che, nel caso di specie, di azione non contestuale al ricorso demolitorio, è di 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento causativo del danno” (
Corte Costituzionale, sentenza 04.05.2017 n. 94 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Non si può negare che la parte lesa da un comportamento disciplinarmente rilevante abbia un interesse qualificato all’ostensione degli atti del relativo procedimento; rilevano, in proposito, esigenze di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, rinvenibili prima e indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale, rispetto alle quali può essere utile acquisire gli atti dell’istruttoria disciplinare.
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, impone al giudice di accertare se la conoscenza della documentazione amministrativa richiesta è potenzialmente utilizzabile a fini di difesa, giudiziale o stragiudiziale, di interessi giuridicamente rilevanti.
Dunque, l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso, e non anche la ricevibilità, l’ammissibilità o la rilevanza dei documenti richiesti rispetto al giudizio principale, sia esso pendente o meno, purché, in chiave di attualità e pertinenza dell’interessa alla pretesa ostensiva, questi ultimi abbiano una qualche incidenza sulla misura disciplinare.
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe convincersi della correttezza dell'operato dell’Amministrazione e rinunciare all'azione giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.
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1.1. La ricorrente, dipendente dell’Istituto scolastico comprensivo “Moro Pascoli”, insorge avverso il parziale diniego di accesso agli atti del procedimento disciplinare a suo carico, da lei richiesto con istanza del 31.05.2016.
1.2. L’Istituto Scolastico, in effetti, riscontrava l’istanza della ricorrente con una nota di reiezione (prot. N. 80/ris.) relativamente agli atti di cui al n. 5 dell’istanza suddetta (“segnalazioni dei docenti e genitori”), motivata sulla base del fatto che “nel corredo motivazionale del provvedimento disciplinare irrogato” non vi fosse alcun riferimento ai documenti di cui si negava l’accesso.
1.3. Tale conclusione, viene censurata in questa sede per violazione dell’art. 97 Cost., nonché per violazione degli artt. 22 e 24, co. 7, della L. 241/1990.
1.4. L’Amministrazione, costituitasi in giudizio, difende il proprio operato sostenendo che gli atti relativi alle segnalazioni dei docenti e genitori non hanno avuto alcuna valenza istruttoria nel procedimento disciplinare; inoltre, e più in generale, si denuncia l’assenza di un interesse giuridicamente rilevante della ricorrente ad ottenere l’ostensione degli atti in discorso.
2.1 Il ricorso è infondato e va respinto per le ragioni che seguono.
2.2. Non si può negare che la parte lesa da un comportamento disciplinarmente rilevante abbia un interesse qualificato all’ostensione degli atti del relativo procedimento; rilevano, in proposito, esigenze di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, rinvenibili prima e indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale, rispetto alle quali può essere utile acquisire gli atti dell’istruttoria disciplinare (cfr. Cons. St., sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
Nondimeno, il principio di cui all'art. 24, comma 7, della L. 241/1990, secondo cui “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, impone al giudice di accertare se la conoscenza della documentazione amministrativa richiesta è potenzialmente utilizzabile a fini di difesa, giudiziale o stragiudiziale, di interessi giuridicamente rilevanti.
Dunque, l’autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso, e non anche la ricevibilità, l’ammissibilità o la rilevanza dei documenti richiesti rispetto al giudizio principale, sia esso pendente o meno, purché, in chiave di attualità e pertinenza dell’interessa alla pretesa ostensiva, questi ultimi abbiano una qualche incidenza sulla misura disciplinare (cfr. Cons. St., sez. III, 13.01.2012, n. 116).
In quest’ottica, la conoscenza degli atti è anche funzionale ad una riduzione del contenzioso, in quanto, a seguito della visione dei documenti, l’odierna parte ricorrente potrebbe convincersi della correttezza dell'operato dell’Amministrazione e rinunciare all'azione giurisdizionale, peraltro già proposta nelle sedi ordinarie.
2.3. Orbene, nel caso di specie, gli atti di cui si è negato l’accesso non solo non sono stati posti alla base del procedimento disciplinare, non contribuendo in alcun modo alla formazione della volontà amministrativa, concretizzatasi nel provvedimento emanato all’esito del procedimento; ma, come emerso dalla disposta istruttoria e dal chiarimento in tal senso reso dall’amministrazione resistente in un’ottica di autoresponsabilità e collaborazione processuale, indicati solo in sede di contestazione in quanto afferenti il generale sistema di organizzazione dei rapporti tra docenza e discenza, senza alcuna specifica incidenza sulla vicenda de qua.
Ne consegue che deve escludersi che la ricorrente abbia un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” alla conoscenza di tali atti di carattere pianificatorio-programmatorio (art. 24, 1° co., lett. c L. 241/1990) e in nessun modo incidenti sullo sviluppo concreto del procedimento disciplinare.
3.1. Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 03.05.2017 n. 2371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Indicazione degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice dei contratti pubblici.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Indicazione degli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni - Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Necessità – Mancata indicazione – Esclusione dalla gara.
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Indicazione degli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni - Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Necessità – Mancata indicazione - Soccorso istruttorio – Esclusione.
Ai sensi dell’art. 95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, l’indicazione nell’offerta economica degli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni si prefigura quale obbligo ineludibile di legge, cosicché legittimamente è disposta l’esclusione del concorrente la cui offerta ne sia priva, senza che possa rilevare che gli atti di gara non contengano un’espressa previsione di esclusione, trattandosi di obbligo discendente dalla norma primaria ed operando quindi il meccanismo dell’eterointegrazione (1).
Il concorrente che ha omesso di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni non può invocare il c.d. soccorso istruttorio, ammesso dalla giurisprudenza per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e non applicabile in presenza dell’espressa previsione di legge e trattandosi di elemento essenziale dell’offerta.
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   (1) Ha chiarito il Tar che non è conferente l’ordinanza della Corte di giustizia (sez. VI) del 10.11.2016, trattandosi di decisione emessa nei riguardi della normativa previgente ed in relazione alla Direttiva abrogata 2004/18 (come esplicitato ai punti 21, 22 e 23 dell’ordinanza nella causa C-697/15). Difatti, in relazione al regime antecedente, la Corte di giustizia ha ritenuto contrastante con il principio della parità di trattamento e con l’obbligo di trasparenza l’esclusione per omessa separata indicazione nell’offerta dei costi aziendali, la quale sia frutto di un’interpretazione e non risulti espressamente, oltre che dai documenti di gara, “dalla normativa nazionale” (cfr. punto 34 ord. cit.).
Viceversa, con l’entrata in vigore del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è superata ogni incertezza interpretativa, nel senso dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10. In presenza di una così esplicita disposizione di legge, è del tutto irrilevante se né la lex specialis di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante hanno previsto la dichiarazione separata di tali oneri, discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge l’obbligo (rectius, l’onere) di effettuare la dichiarazione stessa: il ché è proprio il quid novi contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95, comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.05.2017 n. 2358 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2- La controversia involge principalmente la legittimità dell’esclusione dalla suddetta gara, per insussistenza della dichiarazione relativa agli oneri di sicurezza aziendali interni, in base a quanto dispone l’art. 95, comma 10, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, a tenore del quale: <<Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro>>.
Il ricorso è infondato.
Il menzionato comma 10 dell’art. 95 pone l’onere di indicare nell’offerta economica gli oneri di sicurezza c.d. aziendali o interni, il cui mancato rispetto comporta l’esclusione dalla gara, senza che possa invocarsi la necessità di far ricorso al soccorso istruttorio.
È, difatti, acclarato che:
   -
la nuova disciplina fissa un obbligo legale inderogabile a carico dei partecipanti alla gara pubblica, cosicché resta ininfluente che gli atti della procedura non dispongano espressamente al riguardo, operando piuttosto il meccanismo dell’eterointegrazione con l’obbligo discendente dalla norma primaria;
   -
non può ammettersi il soccorso istruttorio (previsto dall’art. 83, nono comma, del d.lgs. n. 50 del 2016 per “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica), in quanto gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente all’offerta economica e, per la loro finalità di tutela della sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale" (cfr. TAR Campania, sez. I di Salerno, 05/01/2017 n. 34 e TAR Veneto, sez. I, 21/02/2017 n. 182).
Le argomentazioni della ricorrente vanno disattese, fondandosi su un orientamento maturato nel regime previgente, in base alla citata sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 19 del 2016 (orientamento di recente ribadito, ma pur tuttavia con esplicito riferimento alle “gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del c.d. nuovo Codice dei contratti pubblici”: Cons. Stato, sez. V, 07/03/2017 n. 1073; conf., Cons. Stato, sez. V, 07/11/2016 n. 4646).
Neppure rileva il richiamo alle ordinanze C.G.U.E. (Sesta Sezione) del 10/11/2016, trattandosi anche in tal caso di decisione emessa nei riguardi della normativa previgente ed in relazione alla Direttiva abrogata 2004/18 (come esplicitato ai punti 21, 22 e 23 dell’ordinanza nella causa C-697/15; idem per le ulteriori ordinanze CGUE, in differenti punti).
Difatti, in relazione al regime antecedente, la Corte di Giustizia ha ritenuto contrastante con il principio della parità di trattamento e con l’obbligo di trasparenza l’esclusione per omessa separata indicazione nell’offerta dei costi aziendali, la quale sia frutto di un’interpretazione e non risulti espressamente, oltre che dai documenti di gara, “dalla normativa nazionale” (cfr. punto 34 ord. cit.).
Viceversa,
con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 è superata ogni incertezza interpretativa, nel senso sopra illustrato dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10 [cfr. TAR Campania, sez. I di Salerno, 06/07/2016 n. 1604: “tale disposizione configura un preciso ed ineludibile obbligo legale in sede di predisposizione dell’offerta economica”; cfr., altresì, TAR Veneto, sez. I, 21/02/2017 n. 182, cit.: “in presenza di una così esplicita disposizione di legge, è del tutto irrilevante che né la lex specialis di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante avessero previsto la dichiarazione separata di tali oneri, discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge l’obbligo (rectius, l’onere) di effettuare la dichiarazione stessa: il ché –occorre aggiungere– è proprio il quid novi contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95, comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo; (…) né, va infine rimarcato, emergono allo stato profili di incompatibilità fra le disposizioni di diritto interno che impongono, ora in modo tassativo, l’indicazione degli oneri in questione ed il pertinente paradigma normativo eurounitario (C.d.S., Sez. V, ord. n. 5582/2016, cit.)”].
2.1- La censura avverso l’aggiudicazione non può trovare ingresso per difetto di interesse, non potendo la ricorrente vantare alcuna pretesa a contestare l’esito della gara da cui è stata legittimamente esclusa.
3- Alla stregua delle motivazioni che precedono, il ricorso va dunque complessivamente respinto.
In ragione della parziale novità della questione introdotta dal nuovo Codice dei contratti pubblici, con riferimento alle incertezze interpretative ingenerate dalla previgente disciplina, sussistono valide ragioni per disporre la compensazione per l’intero tra tutte le parti degli onorari e delle spese di giudizio, restando a carico della Società ricorrente il contributo unificato versato.

PUBBLICO IMPIEGO: L’amicizia su Facebook non è cause di incompatibilità del componente la commissione di concorso.
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Concorso – Commissione di concorso – Cause di incompatibilità – Amicizia su Facebook – Non è tale.
Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 c.p.c., senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma, proprio per detto motivo, possano essere oggetto di estensione analogica (nel caso di specie, non è stata ritenuta rilevante l’amicizia su Facebook) (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che Facebook implica una possibile diffusione del materiale pubblicato sul profilo dell'utente a un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti se l’utente stesso non provvede ad effettuare restrizioni che peraltro il social network consente. Le cosiddette “amicizie” su Facebook sono del tutto irrilevanti poiché lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute.
Né si può pretendere che gli utenti (escluso un utilizzo sconveniente del mezzo) debbano controllare ogni possibile controindicazione del social network posto che esso, per come si è evoluto, costituisce ormai una modalità di comunicazione difficilmente classificabile (ognuno ne fa l’utilizzo che ritiene più appropriato ma per lo più si tratta di attività ludica e ricreativa). Pertanto, non può concretizzare una delle cause di incompatibilità previste dall’art. 51 c.p.c..
In ordine alle foto “scaricate” dal social network la conclusione non muta. Esse non valgono a provare alcuna “commensalità abituale” quale prevista dall’art. 51 c.p.c. (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 03.05.2017 n. 281 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il primo motivo è infondato alla luce di pacifica giurisprudenza anche di questa Sezione.
La sussistenza di una situazione di incompatibilità tale da imporre l’obbligo di astensione deve essere valutata ex ante, in relazione agli effetti potenzialmente distorsivi che il sospetto difetto di imparzialità è idoneo a determinare in relazione alla situazione specifica, ma anche con estrema cautela in relazione alla sua portata soggettiva, onde evitare che la sussistenza dell’obbligo di astensione possa essere estesa a casi e fattispecie in alcun modo contemplate dalla normativa di riferimento (Consiglio di Stato, sez. VI, 19.03.2015, n. 1411).
Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 del c.p.c., senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma, proprio per detto motivo, possano essere oggetto di estensione analogica (Cons. Stato, sez. V, 24.07.2014, n. 3956, Tar Sardegna, Cagliari, Sez. I, 28.12.2016, n. 986).
L’incompatibilità tra esaminatore e concorrente implica quindi o l’esistenza di una comunanza di interessi economici o di vita tra i due soggetti [di intensità tale da far ingenerare il sospetto che il candidato sia giudicato non in base alle risultanze oggettive della procedura, ma in virtù della conoscenza personale con l’esaminatore (Cons. Stato, sez. VI, 04.03.2015, n. 1057) ed idonea a far insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento (comunque inquadrabile nell’art. 51, comma 2, del c.p.c.)], ovvero la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di una causa pendente tra le parti, o la sussistenza di grave inimicizia tra di esse.
Poiché l’impossibilità del ricorso alla analogia è giustificata dall’esigenza di tutela di certezza dell’azione amministrativa e della stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici, è stato ritenuto dalla giurisprudenza che neppure la presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del commissario di concorso costituisce causa di legittima ricusazione, perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente o di grave inimicizia (Cons. Stato, sez. III, 02.04.2014 n. 1577).
Questi principi sono stati affermati recentemente dalla Sezione con sentenza n. 986 del 28.12.2016.
Occorre effettuare ulteriori precisazioni, data la particolarità del caso.
Anche sui rapporti di “colleganza” (qui oggetto di specifica contestazione) la giurisprudenza si è pronunciata ripetutamente.
E’ stato per esempio affermato che “
i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni componenti della commissione e determinati candidati ammessi alla prova orale non sono sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione stessa, non potendo le cause di incompatibilità previste dall'art. 51 (tra le quali non rientra l'appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza) essere oggetto di estensione analogica, in assenza di ulteriori e specifici indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale; pertanto, la conoscenza che alcuno dei membri di una commissione di concorso abbia di un candidato, ove non ricada nelle suddette fattispecie tipiche, non implica di per sé la violazione delle regole dell'imparzialità e nemmeno il sospetto della violazione di tali regole” (Consiglio di Stato, sez. III, 28/04/2016, n. 1628 e , in senso conforme, Consiglio di Stato, sez. III, 20/01/2016, n. 192, Consiglio di Stato, sez. VI, 23/09/2014, n. 4789).
Veniamo all’ultimo singolare profilo contestato dai ricorrenti e cioè “l’amicizia sul social network Facebook”.
Anche questa contestazione, in assenza di ulteriori e solide prove, non può essere positivamente apprezzata dal Collegio.
Come è noto, Facebook implica una possibile diffusione del materiale pubblicato sul profilo dell'utente a un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti se l’utente stesso non provvede ad effettuare restrizioni che peraltro il social network consente. Le cosiddette “amicizie” su Facebook sono del tutto irrilevanti poiché lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute.
Né si può pretendere che gli utenti (escluso un utilizzo sconveniente del mezzo) debbano controllare ogni possibile controindicazione del social network posto che esso, per come si è evoluto, costituisce ormai una modalità di comunicazione difficilmente classificabile (ognuno ne fa l’utilizzo che ritiene più appropriato ma per lo più si tratta di attività ludica e ricreativa). Insomma, non è certo Facebook in sé che può concretizzare una delle cause di incompatibilità previste dall’art. 51 c.p.c.. La questione è talmente pacifica che non necessita di particolare approfondimento.
In ordine alle foto “scaricate” dal social network la questione non muta. Esse non valgono a provare alcuna “commensalità abituale” prevista dall’art. 51 c.p.c..
E qui il Collegio deve effettuare ancora alcune precisazioni.
Torniamo al “nocciolo della questione”.
Come già riferito,
secondo la tradizionale interpretazione giurisprudenziale dell’art. 51 c.p.c., i casi di astensione obbligatoria sono tassativi e non suscettibili di interpretazione né analogica, né estensiva. Essi sfuggono ad ogni tentativo di manipolazione analogica, vista l'esigenza di assicurare la certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici.
Soprattutto in dottrina è stato ampiamente dibattuto il significato da attribuire alla locuzione convivente o commensale abituale.
Per la maggior parte della dottrina, l'espressione deve intendersi in senso lato, vale a dire quale soggetto appartenente ad una cerchia di persone che hanno una certa affectio familiaritatis, ossia che vivono in famigliarità e hanno interessi comuni. Altri autori ritengono invece che si debbano assumere le espressioni convivenza e commensalità nel loro significato letterale.
Quel che è certo è che tale motivo di astensione è ravvisabile quando vi è prova che il membro della commissione abbia con il candidato frequenza di contatti e di rapporti di tale continuità da far dubitare della sua imparzialità e serenità di giudizio. Il riferimento alla “abitualità” della commensalità esclude per l’appunto, per pura e semplice logica, l’occasionalità della stessa.
E della abitualità occorre dare prova. Prova che non può essere certo fornita mediante Facebook. Non è chi non veda che nell’odierno modo di comunicare, qualunque occasione conviviale anche del tutto episodica, può essere “catturata” con il telefono cellulare e repentinamente pubblicata sul social network. Non può, questo, essere considerato indice di una commensalità abituale.
L’art. 51 c.p.c. se correttamente interpretato, non può condurre a tale illogico risultato.
Il ragionamento quindi va concluso tenuto conto che per le stesse caratteristiche del social network Facebook, sopra ampiamente descritte, né le argomentazioni dei ricorrenti né le produzioni dei medesimi (fotografie tratte dal social network) possono essere positivamente apprezzate dal Collegio perché non provano nulla circa la commensalità abituale tra membri della commissione e candidati.

APPALTI: Impugnazione immediata della clausola del bando che prevede l’aggiudicazione con il criterio del massimo ribasso.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Atto impugnabile – Bando – Criterio del massimo ribasso – E’ immediatamente impugnabile.
Il bando di gara, che prevede il sistema di aggiudicazione della gara del massimo ribasso, è immediatamente impugnabile, sussistendo tutti i presupposti per non rinviare all’avvenuta aggiudicazione il ricorso, quali:
   a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale interesse sostanziale, la competizione secondo meritocratiche opzioni di qualità oltre che di prezzo;
   b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del massimo ribasso in difetto dei presupposti di legge;
   c) l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità concretamente ritraibile da una pronuncia demolitoria che costringa la stazione appaltante all’adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ritenuto dalle norme del nuovo codice quale criterio “ordinario” e generale (1).

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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’attuale normativa consente di ritenere in parte superato l’arresto della Adunanza plenaria 29.01.2003, n. 1, secondo cui “Non può essere condiviso quell'indirizzo interpretativo che è volto ad estendere l'onere di impugnazione alle prescrizioni del bando che condizionano, anche indirettamente, la formulazione dell'offerta economica tra le quali anche quelle riguardanti il metodo di gara e la valutazione dell'anomalia. Anche con riferimento a tali clausole, infatti, l'effetto lesivo per la situazione del partecipante al procedimento concorsuale si verifica con l'esito negativo della procedura concorsuale o con la dichiarazione di anomalia dell'offerta. L'effetto lesivo è, infatti, conseguenza delle operazioni di gara, e delle valutazioni con essa effettuate, dal momento che è solo il concreto procedimento negativo a rendere certa la lesione ed a trasformare l'astratta potenzialità lesiva delle clausole del bando in una ragione di illegittimità concreta ed effettivamente rilevante per l'interessato: devono pertanto ritenersi impugnabili unitamente all'atto applicativo, le clausole riguardanti i criteri di aggiudicazione, anche se gli stessi sono idonei ad influire sulla determinazione dell'impresa relativa alla predisposizione della proposta economica o tecnica, ed in genere sulla formulazione dell'offerta, i criteri di valutazione delle prove concorsuali, i criteri di determinazione delle soglie di anomalie dell'offerta, nonché le clausole che precisano l'esclusione automatica dell'offerta anomala”.
Il nuovo Codice appalti –ed in particolare gli artt. 95, 204 (nella parte in cui prevede l’immediata impugnabilità dell’ammissione di altri operatori economici), 211, comma 2 (sull’autotutela “doverosa”) – rende, infatti, chiaro che vi sono elementi fisiologicamente disciplinati dal bando o dagli altri atti di avvio della procedura, che assumono rilievo sia nell’ottica del corretto esercizio del potere di regolazione della gara, sia in quella dell’interesse del singolo operatore economico ad illustrare ed a far apprezzare il prodotto e la qualità della propria organizzazione e dei propri servizi, così assicurando, nella logica propria dell’interesse legittimo (figlio della sintesi di potere e necessità) la protezione di un bene della vita che è quello della competizione secondo il miglior rapporto qualità prezzo; un bene, cioè, diverso, e dotato di autonoma rilevanza rispetto all’interesse finale all’aggiudicazione.
Ha aggiunto la Sezione che una diversa soluzione –più aderente alla lettera che alla ratio dell’Adunanza Plenaria del 2003 ed all’esigenza della sua interpretazione in chiave evolutiva– finirebbe per svilire e depontenziare le due architravi del nuovo impianto normativo:
   a) da un lato il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa -assunto da legislatore ad elemento di rilancio di una discrezionalità “sana e vigilata” da porre a disposizione di amministrazioni qualificate sì da renderle capaci di selezionare le offerte con razionalità ed attenzione ai profili qualitativi– sarebbe destinato a rimanere privo di garanzie di effettività, posto che, la sua correzione si avrebbe solo all’esito della procedura concorsuale e della sua appendice giurisdizionale, in presenza di un operatore (quello offerente il massimo ribasso) in capo al quale si sono tra l’altro già ingenerate aspettative;
   b) dall’altro sarebbe irragionevolmente derogata la logica bifasica (ammissioni/esclusioni prima fase; aggiudicazione seconda fase) che ha caratterizzato il nuovo approccio processuale in tema di tutela, poiché è evidente che l’illegittimità del bando, sub specie del criterio di aggiudicazione, è un prius logico giuridico rispetto alle ammissioni, condizionandole e rendendole illegittime in via derivata. Con il risultato che l’intento di affrancare il contenzioso sull’aggiudicazione da tutte le questioni sollevabili in via incidentale dal controinteressato (e fra queste anche quelle relative all’illegittimità del bando, strumentali all’utilitas della riedizione della gara) che ha ispirato la formulazione delle nuove norme processuali, risulterebbe tradito proprio in relazione ad aspetti basilari della prima fase.
Altro argomento a riprova dell’irrazionalità della tesi dell’impugnazione postergata del criterio di aggiudicazione, è che il ricorrente, costretto ad attendere, quale dies a quo per l’impugnativa, il momento dell’aggiudicazione ad altri, non è vincolato dalla correlazione tra criterio del massimo ribasso e la mancata aggiudicazione, non dovendo egli dimostrare un rapporto di causalità tra effetto lesivo del bene “aggiudicazione” e lex gara: la lesione, nell’orientamento giurisprudenziale tradizionale varato dall’Adunanza Plenaria nel 2003, è infatti solo l’elemento, che integrando una delle condizioni dell'azione, abilita alla tutela dell'interesse legittimo attraverso l'esperimento dell'azione demolitoria.
Una volta realizzatasi la condizione dell'azione, il ricorrente è ammesso a far valere la violazione dell’obbligo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, insieme a tutti gli altri vizi di legittimità del bando che non attengano a clausole escludenti, a prescindere se la mancata aggiudicazione sia riferita, o meno, proprio all'operare di quella o di quelle clausola (si pensi, oltre che al criterio di aggiudicazione, alla difettosa composizione del seggio di gara o alle previsioni sulle modalità di apertura delle buste o, in generale, alle norme sul modus procedendi).
In questi casi non è cioè necessaria la dimostrazione che, in assenza del vizio, l'aggiudicazione sarebbe stata senz'altro riconosciuta al ricorrente, costituendo, la violazione delle norme di legge, un sintomo della cattiva organizzazione e gestione della gara e conseguentemente dell'erroneità dei suoi esiti. Se così è, allora, non v’è ragione alcuna per attendere, al fine di invocare tutela, che la procedura di concluda con l’aggiudicazione a terzi.
Tale soluzione non risponderebbe a finalità deflattive ed anzi inficerebbe quelle legate al pur contemplato onere di impugnazione delle ammissioni; non risponde del resto a finalità di coerenza giuridica o dogmatica, poiché il postergare l'impugnazione della lex gara finanche quando la violazione è già conclamata, può avere un senso solo in relazione a clausole che non violino immediatamente l’interesse del singolo imprenditore, è così certamente non è per quelle che gli impediscono di concorrere sulla qualità; è inoltre contraria al dovere di leale collaborazione ed al rispetto del principio di legittimo affidamento, immanenti anche nell’ordinamento amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.05.2017 n. 2014 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Annullamento d’ufficio di un bando di concorso per incompetenza: profili di giurisdizione e limiti all’autotutela.
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Giurisdizione – Concorso – Annullamento in autotutela – Impugnazione – giurisdizione giudice amministrativo.
Concorso – Bando – Revoca – Discrezionalità – Limiti.
Concorso – Bando – Concorso Enti locali – Approvazione – Competenza – Art. 107, t.u. n. 267 del 2000 – E’ del dirigente.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto il provvedimento che, in autotutela, ha annullato una procedura concorsuale terminata con l’approvazione della graduatoria (1).
La revoca di un bando di concorso pubblico rientra nei normali ed ampi poteri discrezionali della pubblica amministrazione che, fino a quando non sia intervenuta la nomina dei vincitori, può provvedere in tal senso (2).
Ai sensi dell’art. 107, t.u. 18.08.2000, n. 267, rientra nella competenza del dirigente, e non della Giunta, l’approvazione di un bando di concorso (3).

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   (1) Ha ricordato il Tar che in regime di impiego pubblico privatizzato, le controversie seguono, quanto al riparto di giurisdizione, le regole previste dall’art. 63, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, essendo, quindi, attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte quelle inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro e il conferimento di incarichi dirigenziali, giacché la riserva, in via residuale, alla giurisdizione amministrativa, contenuta nel comma 4 del citato art. 63, concerne esclusivamente le procedure concorsuali, strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., che si sviluppano fino all'approvazione della graduatoria dei vincitori e degli eventuali idonei, ma non riguardano la fase successiva a detta approvazione.
La procedura concorsuale, infatti, termina con la compilazione della graduatoria finale e la sua approvazione, spettando alla giurisdizione ordinaria il sindacato, da esplicare con la gamma dei poteri cognitori del giudice civile, sui comportamenti successivi, riconducibili alla fase di esecuzione, in senso lato, dell'atto amministrativo presupposto (Cass. civ., ss.uu., n. 20126 del 2005).
Peraltro, se è vero, in via generale, che l'approvazione della graduatoria segna il limite temporale oltre il quale sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, è pur vero che permane la giurisdizione del giudice amministrativo nell’ipotesi in cui sia stato posto in essere un atto di autotutela della graduatoria stessa o comunque della procedura concorsuale, mediante l’adozione di un contrarius actus, la cui legittimità deve essere verificata dal giudice amministrativo (Cass. civ., ss.uu., 26.02.2010, n. 4648).
Nel caso all’esame del Tar, parte ricorrente non chiede il riconoscimento del diritto all’assunzione, né mette in discussione i principi giurisprudenziali attinenti all’assenza di un obbligo al reclutamento di un dipendente pur in presenza di una graduatoria (di cui, nel caso, la giunta non aveva operato la “presa d’atto” prevista dal bando); contesta, invece, la legittimità dell’atto di autotutela con il quale l’amministrazione ha annullato propri atti precedentemente adottati relativi alla procedura in questione e precisamente il bando introduttivo e la deliberazione di programmazione del fabbisogno del personale, adducendo diverse doglianze, dimodoché la giurisdizione è quella del giudice amministrativo.
   (2) Cons. St., sez. III, 01.08.2011, n. 4554.
In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che, sino all’immissione in servizio e alla nomina, l’amministrazione ha il potere di non procedere alla nomina e financo di annullare la procedura concorsuale e la relativa graduatoria in presenza di valide e motivate ragioni di interesse pubblico che facciano venire meno la necessità o l’opportunità di copertura del posto, dovendo il giudice adito valutare la ragionevolezza di tali scelte e la coerenza delle scelte successivamente compiute (Cons. St., sez. VI, 03.07.2014, n. 3359).
   (3) Ha chiarito il Tar che il bando, adottato dalla Giunta, non può essere annullato se il dirigente ha ratificato l’operato dell’organo collegiale.
Nel caso all’esame del Tribunale il dirigente preposto ha esplicitamente rivendicato la paternità dell’atto embrionale, ne ha asseverato la legittimità ed ha, nei fatti, convalidato l’atto, rendendo finanche parere negativo rispetto alla scelta di ritirare la procedura concorsuale.
Ne consegue l’illegittimità dell’annullamento in autotutela del bando per incompetenza, atteso che, comunque, l’avvenuta ratifica dell’operato della giunta da parte del dirigente competente, rivendicata con il detto parere dallo stesso, ha comunque superato il vizio di incompetenza dell’originaria deliberazione di giunta (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 02.05.2017 n. 709 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La questione sottoposta all’esame di questo Collegio investe la legittimità o meno della deliberazione con cui la Giunta comunale del Comune di Crotone ha revocato la delibera n. 336 del 2014 -con cui si dava mandato al dirigente del settore personale di dare attuazione alla procedura concorsuale inerente la copertura di un posto a tempo pieno e indeterminato di dirigente di area tecnica, approvando il relativo bando– ed ha modificato la delibera n. 131 del 2016, ad oggetto “Piano triennale del fabbisogno del personale anni 2016/2017/2018 – linee di indirizzo”, rendendo indisponibile il posto dirigenziale in contestazione, vacante alla data del 15.10.2015, ai sensi e per gli effetti del comma 219 della legge 208/2015.
1.1. Preliminarmente il Collegio rileva la fondatezza delle eccezioni sollevate da parte ricorrente in udienza relative alla tardività del deposito da parte dell’amministrazione comunale, della memoria del 28.03.2017 e della memoria di replica del 22.03.2017, in quanto entrambe tardive rispetto ai termini di cui all’art. 73, co. 1, del cod. proc. amm., con la conseguenza che le stesse vanno considerate tamquam non essent.
1.2. Va premesso che,
secondo giurisprudenza consolidata, in regime di impiego pubblico privatizzato, le relative controversie seguono, quanto al riparto di giurisdizione, le regole previste dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, essendo, quindi, attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte quelle inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro e il conferimento di incarichi dirigenziali, giacché la riserva, in via residuale, alla giurisdizione amministrativa, contenuta nel quarto comma del citato art. 63, concerne esclusivamente le procedure concorsuali, strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., che si sviluppano fino all'approvazione della graduatoria dei vincitori e degli eventuali idonei, ma non riguardano la fase successiva a detta approvazione. La procedura concorsuale, infatti, termina con la compilazione della graduatoria finale e la sua approvazione, spettando alla giurisdizione ordinaria il sindacato, da esplicare con la gamma dei poteri cognitori del giudice civile, sui comportamenti successivi, riconducibili alla fase di esecuzione, in senso lato, dell'atto amministrativo presupposto (cfr. Cass. sez. un., n. 20126 del 2005).
Se è dunque vero, in via generale, che l'approvazione della graduatoria segna il limite temporale oltre il quale sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, è pur vero che permane la giurisdizione del giudice amministrativo nell’ipotesi in cui sia stato posto in essere un atto di autotutela della graduatoria stessa o comunque della procedura concorsuale, mediante l’adozione di un "contrarius actus", la cui legittimità deve essere verificata dal giudice amministrativo (cfr. Cass. S.U. 26.02.2010 n. 4648).
Nel caso di specie, parte ricorrente non chiede il riconoscimento del diritto all’assunzione, né mette in discussione i principi giurisprudenziali attinenti all’assenza di un obbligo al reclutamento di un dipendente pur in presenza di una graduatoria (di cui, nel caso, la giunta non aveva operato la “presa d’atto” prevista dal bando); contesta, invece, la legittimità dell’atto di autotutela de quo con il quale l’amministrazione (precisamente la giunta comunale) ha annullato propri atti precedentemente adottati relativi alla procedura in questione e precisamente il bando introduttivo e la deliberazione di programmazione del fabbisogno del personale, adducendo diverse doglianze, dimodoché la giurisdizione è quella del giudice amministrativo.
1.3. In merito alla possibilità di intervenire in autotutela su un bando allorché sia stata già approvata la graduatoria (anche se nel caso, come detto, è mancata la prevista presa d’atto della giunta), è stato affermato che “p
er principio pacifico …la revoca di un bando di concorso pubblico rientra nei normali ed ampi poteri discrezionali della pubblica amministrazione che, fino a quando non sia intervenuta la nomina dei vincitori, può provvedere in tal senso” (così Cons. Stato, sez. III, 01.08.2011, n. 4554).
In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che,
sino all’immissione in servizio e alla nomina, l’amministrazione ha il potere di non procedere alla nomina e financo di annullare la procedura concorsuale e la relativa graduatoria in presenza di valide e motivate ragioni di interesse pubblico che facciano venire meno la necessità o l’opportunità di copertura del posto, dovendo il giudice adito valutare la ragionevolezza di tali scelte e la coerenza delle scelte successivamente compiute (Cons. St. VI, 03.07.2014, n. 3359).
Tanto premesso in ordine all’astratta ammissibilità della revoca/annullamento della procedura selettiva indetta dal Comune di Crotone, occorre valutare se sussistono in concreto i presupposti per l’adozione di un siffatto atto nel caso di specie.
2. Occorre, quindi, passare all’esame delle doglianze avverso la scelta di ritirare la delibera di giunta comunale n. 336 del 29.12.2014.
Con tale deliberazione, l’amministrazione aveva dato mandato al Responsabile del servizio Personale di dare attuazione alla procedura concorsuale inerente la copertura di un posto a tempo pieno e indeterminato di dirigente dell’area tecnica, approvando l’allegato schema bando con relativo schema di domanda di partecipazione.
La deliberazione impugnata annulla la precedente in quanto ritenuta viziata da incompetenza, essendo l’approvazione del bando di competenza dell’organo gestionale.
Parte ricorrente si duole dell’illegittimità della deliberazione in parte qua, in quanto la stessa sarebbe viziata da illogicità, contraddittorietà e da violazione dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, specie alla luce del parere negativo reso dal dirigente del settore VI al riguardo.
2.1. La doglianza è fondata.
Infatti,
quanto alla competenza ad approvare il bando in vigenza dell’art. 107 del t.u.e.l., nessuno dubita che “a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, ai dirigenti è attribuita la competenza esclusiva nella gestione dell’attività amministrativa, compresa l’adozione degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno mentre agli organi di governo sono rimaste le funzioni di indirizzo politico (Cons. St. n. 6267/2012); tanto discende, prima ancora che dai principi giurisprudenziali, dalla normativa vigente (art. 107 del t.u.e.l.), che espressamente attribuisce ai dirigenti (o -nei comuni privi di dirigenti- ai responsabili con funzioni dirigenziali) la responsabilità delle procedure di concorso e gli atti di amministrazione e di gestione del personale, quale è evidentemente il bando di concorso.
Ne consegue che nessuna competenza spetta alla giunta in ordine all’approvazione del bando di concorso, essendo quest’ultimo una tipica espressione di atto gestionale del dirigente/responsabile competente.
Vero ciò, è pur vero che il dirigente preposto ha esplicitamente rivendicato la paternità dell’atto embrionale, ne ha asseverato la legittimità ed ha, nei fatti, convalidato l’atto, rendendo finanche parere negativo rispetto alla scelta di ritirare la procedura concorsuale.
Il soggetto competente, in particolare, con il parere negativo reso alla deliberazione impugnata per la parte relativa alla decisione di ritirare la deliberazione n. 336 del 29.12.2014, ha fatto presente di avere pubblicato a propria cura il bando e che la fase di gestione della procedura di concorso ha riguardato le varie fasi della stessa (dall’individuazione e nomina dei commissari alla determinazione di criteri di valutazione, fino alla fase conclusiva di redazione della graduatoria e della sua successiva approvazione); ha fatto presente, altresì, che ha avallato, mediante parere ex art. 49 del t.u.e.l., la regolarità amministrativa dell’atto embrionale, che “è agli atti della procedura una ratifica dell’operato della stessa da parte dello scrivente” ed infine che la mobilità prevista dall’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 è regolarmente avvenuta con avviso a firma dello stesso dirigente.
Peraltro, nel detto parere, il dirigente, assumendosene la relativa responsabilità, non si è limitato a convalidare l’atto della giunta ma si è spinto ad effettuare una comparazione dell’interesse sotteso all’atto da convalidare con quelli pubblici attuali, ritenendo prevalenti “le esigenze di economicità e di economia procedimentale che il compimento della procedura concorsuale determina”.
Ne consegue la illegittimità della deliberazione sotto tale profilo, atteso che, comunque, l’avvenuta ratifica dell’operato della giunta da parte del dirigente competente, rivendicata con il detto parere dallo stesso, ha comunque superato il vizio di incompetenza dell’originaria deliberazione di giunta.

LAVORI PUBBLICI: Risarcimento per equivalente in caso di irreversibile trasformazione del fondo.
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Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione illegittima - Mancanza di un legittimo atto di acquisizione – Irreversibile trasformazione del fondo – Risarcimento per equivalente – Possibilità.
A fronte di un’occupazione illegittima e della mancanza di un legittimo atto di acquisizione (come nel caso ove, a seguito della dichiarazione di p.u., non abbia fatto seguito il decreto di espropriazione nei termini), il proprietario, fermo restando il diritto alla restituzione del bene occupato, può formulare una domanda di mero risarcimento del danno per equivalente a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo (1).
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   (1) La sentenza affronta la questione della proponibilità della sola domanda risarcitoria anche alla luce della sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2016.
Aderendo ai recenti approdi giurisprudenziali in materia, il Tar ha ritenuto che l’illecito permanente può venire a cessare anche a seguito della rinunzia abdicativa (e non traslativa) da parte del proprietario, implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo.
Ha sottolineato, altresì, che la rinuncia abdicativa su suolo irreversibilmente trasformato, che muove la richiesta risarcitoria, ha carattere meramente abdicativo e non traslativo, donde da essa non può conseguire, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione, che, sulla base dell’attuale assetto normativo e giurisprudenziale, può sicuramente avvenire sulla base del meccanismo di cui all’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, dichiarato compatibile con i principi CEDU, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 71 del 30.04.2015.
Altre sentenze, con riferimento all’ipotesi di rinuncia abdicativa, hanno previsto la trascrizione sui registri immobiliari della sentenza di accertamento della rinunzia abdicativa della proprietà (Tar Catanzaro, sez. I, 16.02.2017, n. 253), salva la facoltà di adottare il provvedimento di acquisizione sanante; oppure hanno affermato che il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno –rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto– costituisce esso stesso atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, comma 1, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia (Cons. St., sez. IV, 07.11.2016, n. 4636) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 02.05.2017 n. 708 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Impugnazione immediata di ammissione di Ati con componente privo di requisiti di partecipazione.
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● Processo amministrativo – Rito appalti – Rito superaccelerato – Impugnazione immediata ammissione di altro concorrente – Presupposto – Individuazione.
● Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Professionista membro dell’Ati – Mancata assegnazione specifica quota di esecuzione dell’appalto - Requisiti di partecipazione – Non occorrono.
● Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione – Presenza di qualifica professionale tra i dipendenti della società – Espressa previsione della lettera di invito - Contratto d’opera professionale con vincolo di esclusiva – Non è equipollente.
La nuova regola processuale del consolidamento dell’ammissione di un concorrente alla gara pubblica, conseguente alla mancata tempestiva impugnazione della stessa ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, presuppone che ci sia stata pubblicità degli atti di gara (cfr. in tal senso), occorrendo che ai candidati sia garantito il pieno e tempestivo accesso alla documentazione, non potendo altrimenti decorrere il termine per impugnare un atto (l’ammissione di un altro operatore) privo di diretta lesività e la cui piena conoscenza postula la verifica dei presupposti su cui si fonda (1).
Il giovane professionista che sia anche membro del Raggruppamento partecipante ad una gara pubblica ma al quale non sia stata assegnata una specifica quota di esecuzione dell’appalto non deve necessariamente possedere i requisiti di partecipazione, non potendosi configurare un interesse in tal senso nemmeno in capo all’Amministrazione, tenuto conto della sostanziale estraneità dello stesso professionista rispetto all’esecuzione (2).
La previsione della lettera di invito in una procedura negoziata, che prescrive la presenza, tra i dipendenti delle società partecipanti, di una determinata qualifica professionale non è soddisfatta allorché si indichi un professionista con il quale la società partecipante abbia stipulato un contratto d’opera professionale, anche se con vincolo di esclusiva (3).

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   (1) Cons. St., Comm. spec., 30.03.2017, n. 782
Ciò, ha chiarito il Tar, a differenza di quanto avviene secondo la regola ordinaria in cui la semplice conoscenza del provvedimento giustifica l’immediato decorso del termine di impugnazione, in quanto il destinatario è posto in grado fin da subito di apprezzarne la lesività, salvo l’esperimento di motivi aggiunti.
   (2) Cons. St., sez. IV, 23.04.2015, n. 2048; Tar Brescia 14.05.2015, n. 724
   (3) Ha chiarito il Tar che la figura del rapporto di lavoro subordinato e quella del contratto d’opera si distinguono nettamente atteso che l’art. 2094 cod. civ. definisce prestatore di lavoro subordinato chi "si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro, intellettuale o manuale, alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore". Nel rapporto di lavoro subordinato l'intensità di questo vincolo è particolarmente forte, tanto da caratterizzarsi per la continuità con la quale il lavoratore mette a disposizione del datore di lavoro le sue energie e le sue capacità, inserendosi all'interno dell'organizzazione produttiva.
Diversamente, l'art. 2222 cod. civ., sotto la rubrica contratto d'opera, sancisce che "quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV".
La differenza strutturale fra le due si riflette sull’intensità del potere del creditore di pretendere l’esecuzione della prestazione dal professionista, tenuto conto che la violazione degli obblighi sanciti nel contratto d’opera professionale conduce ad una responsabilità da inadempimento, mentre la violazione delle direttive del datore di lavoro da parte del dipendente può condurre, a certe condizioni, alla stessa risoluzione del rapporto di lavoro con conseguenze ben più gravi sul professionista in quanto incidenti sulla sua stessa condizione lavorativa, con un conseguente maggior incentivo alla corretta esecuzione della prestazione dell’appalto.
Né il vincolo di esclusiva inserito nel contratto d’opera potrebbe consentire un’effettiva assimilazione con il rapporto di lavoro subordinato, atteso che l’esclusiva non può che riferirsi al solo periodo di esecuzione dell’appalto con la conseguenza che il professionista non “avvertirà” il medesimo vincolo del dipendente ad eseguire la prestazione, come invece intendeva l’Amministrazione nell’introdurre la previsione statutaria in questione.
Infine ritenere assimilabili, ai fini del possesso del requisito di partecipazione, il rapporto derivante dal contratto d’opera professionale e quello di dipendenza significherebbe incidere sulla par condicio dei partecipanti, atteso il maggior costo sostenuto dalla struttura che ha proceduto all’assunzione del professionista, destinata ad avere efficacia durevole, rispetto a quella che ha stipulato il contratto d’opera da eseguire solo in caso di aggiudicazione dell’appalto e per la sola durata di questo (TAR Molise, sentenza 28.04.2017 n. 150 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl RUP è legittimato ad escludere l'offerente a seguito della verifica della documentazione amministrativa
Invero, tale attività costituisce competenza residuale conseguente alla preliminare attività di valutazione della documentazione amministrativa attestante il possesso dei requisiti indicati dalla lex specialis, non potendo tale compito essere assolto dalla Commissione giudicatrice che nelle gare, come quella oggetto del presente contenzioso, da aggiudicarsi sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa è chiamata a valutare le offerte sotto gli aspetti tecnici ed economici.

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Ciò premesso, palesemente infondato è il primo motivo di doglianza con cui è stata prospettata l'incompetenza del RUP ad adottare la contestata determinazione di esclusione.
Al riguardo, in linea con quanto dedotto in merito dalla resistente amministrazione, il Collegio osserva che:
   a) l'art. 31, comma 3, del D.lgvo n. 50/2016 prevede che "Il RUP, ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti";
   b) trattasi di una competenza residuale che comprende anche l'esclusione delle offerte conseguente alla preliminare attività di valutazione della documentazione amministrativa attestante il possesso dei requisiti indicati dalla lex specialis, non potendo tale compito essere assolto dalla Commissione giudicatrice che nelle gare, come quella oggetto del presente contenzioso, da aggiudicarsi sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa è chiamata a valutare le offerte sotto gli aspetti tecnici ed economici;
   c) tale interpretazione è stata, altresì suffragata dalle Linee Guida formulate dall'Autorità Anticorruzione la quale ha chiarito che il RUP è chiamato a controllare la documentazione amministrativa prodotta dai partecipanti e ad adottare le determinazioni conseguenti alle valutazioni effettuate;
   d) poiché nella vicenda in esame l'esclusione dell'offerta delle ricorrenti dalla procedura di gara è stata disposta a seguito della verifica della documentazione amministrativa da parte del RUP, ne discende che quest'ultimo era legittimato ad adottare la contestata esclusione (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 27.04.2017 n. 4951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per precedente risoluzione contrattuale non definitiva.
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Contratti della pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per gravi illeciti professionali – Art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 – Pendenza e non definitività del giudizio avente ad oggetto la contestazione di una risoluzione contrattuale – Non comporta l’esclusione.
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 80, afferente ai “gravi illeciti professionali”, deve essere inteso nel senso che la pendenza e la non definitività del giudizio, avente ad oggetto la contestazione di una risoluzione contrattuale pronunciata nei confronti dell’impresa, non giustifica l’esclusione dalla gara (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 80 consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti ad una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”, tra i quali … “le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata”.
Ad avviso della Sezione, sulla base dell’interpretazione letterale della norma (ex art. 12 delle preleggi), si richiede che al provvedimento di risoluzione sia stata prestata acquiescenza o che lo stesso sia stato confermato in sede giurisdizionale. E questa conferma non può che essere data da una pronuncia di rigetto nel merito della relativa impugnazione divenuta inoppugnabile, come si evince dalla locuzione (ancorché atecnica) “all’esito di un giudizio”. A questo stesso riguardo è invece da ritenersi evidentemente insufficiente la definizione di un incidente di natura cautelare (come nella fattispecie sottoposta all’esame della sezione), con decisione avente funzione interinale e strumentale rispetto a quella di merito.
La Sezioni ha poi escluso che la questione di conformità del diritto nazionale a quello europeo prospettata dall’appellante possa essere apprezzata in senso favorevole. La causa di esclusione su cui si controverte ha infatti carattere facoltativo.
Tale conclusione trova conferma nell’art. 57, par. 4, della direttiva 2014/24/UE. Questa disposizione prevede infatti che le situazioni da esso elencate relative agli operatori economici partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici sono quelle in presenza delle quali le amministrazioni aggiudicatrici “possono escludere”, oppure possono essere richieste da "gli Stati membri”, in sede di recepimento della direttiva, “di escludere dalla partecipazione alla procedura d’appalto” tali operatori.
Quindi, la norma europea facoltizza gli Stati membri a prevedere quale causa di esclusione da procedure di affidamento di contratti pubblici, senza porre a carico degli stessi alcun vincolo. A fortiori deve ritenersi pertanto che non vi siano vincoli quanto alla definizione normativa della causa di esclusione in questione a livello nazionale.
Non giova neanche richiamare il considerando 101, laddove si fa riferimento alla possibilità di escludere dalla gara l’operatore economico in caso di “grave violazione dei doveri professionali”, dimostrata dall’amministrazione “con qualsiasi mezzo idoneo”, “prima che sia stata presa una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori”. Quest’ultima previsione è infatti espressamente riferita ai motivi di esclusione “obbligatori”, ovvero a quelli previsti dall’art. 57 della direttiva, ai paragrafi 1 e 2, mentre nel caso di specie si verte nelle ipotesi contemplate dal paragrafo 4 della medesima disposizione.
Per essa vale dunque il rinvio a “qualsiasi mezzo idoneo”, che il legislatore nazionale nell’esercizio della sua discrezionalità rispetto ad un ambito del diritto dei contratti pubblici non vincolato a livello europeo può ritenere integrato solo in presenza di una decisione giurisdizionale definitiva, come avvenuto nel caso di specie con l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2017 n. 1955 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOE' illegittima la deliberazione giuntale con la quale si provvede a sopprimere l'avvocatura comunale laddove non risultano comprensibili le ragioni per cui l’Amministrazione abbia inteso escludere completamente la possibilità di una difesa interna dell’ente, né appare adeguatamente valutato l’impatto economico delle spese derivanti dalla necessità di affidare all’esterno tutto il contenzioso, presente e futuro.
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... per l'annullamento, previa sospensione nella prossima Camera di Consiglio in cui si chiede sin d'ora di poter partecipare:
- della deliberazione G.M. n. 27 del 09.02.2017, pubblicata dal 17.02.2017 al 04.03.2017 sull'Albo Pretorio on-line del Comune di Montalto Uffugo, avente ad oggetto “Approvazione Nuova Macrostruttura dell'Ente e riorganizzazione dei Servizi e degli Uffici. ….Soppressione avvocatura civica……………..”, assunta dalla Giunta Comunale di Montalto Uffugo, nonché degli allegati A) e B) aventi ad oggetto la nuova struttura Organizzativa e l'Organigramma dell'Ente;
...
- Rilevato che la ricorrente, responsabile dell’Avvocatura municipale di Montalto Uffugo, impugna le deliberazione di G.M. 09.02.2017 n. 26 e n. 27, che ha soppresso l’Avvocatura ed istituito, a far data dall’01.08.2017, il nuovo servizio denominato “Gare ed appalti, consulenza legale, controllo società concessionaria del servizio di riscossione coattiva delle entrate e contenzioso tributario”, con la funzione di redigere pareri legali, di trattare i ricorsi tributari e di operare il controllo sulla società concessionaria del servizio di riscossione coattiva delle entrate locali, mentre il contenzioso sarà gestito mediante avvocati esterni;
- Ritenuto che, dalla motivazione degli atti impugnati, non risultano comprensibili le ragioni per cui l’Amministrazione abbia inteso escludere completamente la possibilità di una difesa interna dell’ente, né appare adeguatamente valutato l’impatto economico delle spese derivanti dalla necessità di affidare all’esterno tutto il contenzioso, presente e futuro (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 26.04.2016 n. 811);
- Ritenuto, pertanto, che sussistono i presupposti per adottare una sentenza in forma semplificata di accoglimento, per vizio di motivazione;
- Ritenuto che la natura formale della decisione e, quindi, l’assenza di una soccombenza sostanziale, giustificano l’integrale compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla le deliberazione di G.M. 09.02.2017 n. 26 e n. 27, per quanto d’interesse (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 27.04.2017 n. 699 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIADeve convenirsi che l'attività concernente attivazione e gestione dei centri di raccolta, cui -come si vedrà- deve essere assimilata quella avente ad oggetto la istituzione e conduzione delle ecopiazzole, non sia più assoggettata alla autorizzazione regionale in quanto la realizzazione di essi è soggetta unicamente all'approvazione del Comune territorialmente competente; l'attivazione e la conduzione di un centro di raccolta, non richiede, pertanto, alcuna autorizzazione regionale non potendo questo essere classificato alla stregua degli impianti di smaltimento e/o recupero dei rifiuti, per i quali continua, invece, a rendersi necessaria l'autorizzazione regionale.
Va, tuttavia, osservato che
la nozione di centro di raccolta è nozione non di tipo naturalistico ma normativamente fissata, in quanto l'art. 1 del dm 08.04.2008, come modificato dal successivo dm 20.07.2009, ampiamente richiamando la ricordata lettera mm) dell'art. 183, del dlgs n. 152 del 2006, individua i centri di raccolta comunali o intercomunali come «costituiti da aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I, paragrafo 4.2, conferiti in maniera differenziata rispettivamente dalle utenze domestiche e non domestiche anche attraverso il gestore del servizio pubblico, nonché dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche».
Tanto premesso, rileva la Corte che
la pur legittima applicabilità alla cosiddette ecopiazzole attivate dai singoli Comuni nell'ambito del loro territorio della disciplina prevista per i centri di raccolta deve, tuttavia, intendersi subordinata alla presentazione da parte delle aree in questione della caratteristiche morfologiche e funzionali proprie dei centri di raccolta come normativamente individuati.
Deve conseguentemente escludersi che, al di fuori dell'ipotesi contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di ecopiazzola o isola ecologica possa ritenersi sottratta alla disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha ormai definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, un regime autorizzatorio e gestionale che, come si è visto, consente il conferimento ai centri di raccolta di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata.
In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con il modello dettato dal legislatore dovrà procedersi ad una valutazione dell'attività in tal modo posta in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti, ivi compreso l'assoggettamento della attività di loro raccolta ad apposita autorizzazione.

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Il Tribunale di Novara, a seguito di giudizio -celebrato col rito abbreviato- susseguente ad opposizione a decreto penale, ha condannato Vi.Ma., nella qualità di Sindaco del Comune di Vicolungo, alla pena di giustizia, avendola riconosciuta responsabile del reato di cui all'art. 256, comma 2, lettera a), del dlgs n. 152 del 2006, per avere, nella predetta qualità, allestito e gestito una cosiddetta isola ecologica, adibita a punto di conferimento e raccolta di talune tipologie di rifiuto urbano da inviare successivamente allo smaltimento, senza adempiere agli obblighi prescritti dal Decreto del Ministero dell'Ambiente del 08.04.2008.
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Il ricorso è infondato.
Osserva, infatti, la Corte che il presupposto da cui parte la difesa della imputata onde censurare la sentenza impugnata è che l'impianto di cui al capo di imputazione, gestito dal Comune di Vicolungo, debba essere considerato una "piazzola ecologica" e che, pertanto, ai fini della sua gestione non debbano essere richieste le autorizzazioni previste dall'art. 256 dlgs n. 152 del 2006.
Siffatto presupposto, pur corretto in linea di principio, è, peraltro nel tutto inconferente rispetto alla fattispecie ora in scrutinio.
Deve, infatti, rilevarsi che, alla luce della normativa primaria e secondaria susseguitasi in argomento, e costituita dal dlgs n. 4 del 2008, nella parte in cui esso ha modificato l'art. 183 del dlgs n. 152 del 2006, introducendo in esso la lettera mm), ove è dettata la nozione di centro di raccolta, nonché dal dm 08.04.2008 e 13.05.2009, parzialmente modificativo del precedente,
deve convenirsi che l'attività concernente attivazione e gestione dei centri di raccolta, cui -come si vedrà- deve essere assimilata quella avente ad oggetto la istituzione e conduzione delle ecopiazzole, non sia più assoggettata alla autorizzazione regionale in quanto la realizzazione di essi è soggetta unicamente all'approvazione del Comune territorialmente competente; l'attivazione e la conduzione di un centro di raccolta, non richiede, pertanto, alcuna autorizzazione regionale non potendo questo essere classificato alla stregua degli impianti di smaltimento e/o recupero dei rifiuti, per i quali continua, invece, a rendersi necessaria l'autorizzazione regionale (così, in termini: Corte di cassazione, Sezione III penale, 14.01.2013, n. 1690; idem Sezione III penale, 09.05.2011, n. 17864).
Va, tuttavia, osservato che
la nozione di centro di raccolta è nozione non di tipo naturalistico ma normativamente fissata, in quanto l'art. 1 del dm 08.04.2008, come modificato dal successivo dm 20.07.2009, ampiamente richiamando la ricordata lettera mm) dell'art. 183, del dlgs n. 152 del 2006, individua i centri di raccolta comunali o intercomunali come «costituiti da aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I, paragrafo 4.2, conferiti in maniera differenziata rispettivamente dalle utenze domestiche e non domestiche anche attraverso il gestore del servizio pubblico, nonché dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche».
Tanto premesso, rileva la Corte che
la pur legittima applicabilità alla cosiddette ecopiazzole attivate dai singoli Comuni nell'ambito del loro territorio della disciplina prevista per i centri di raccolta -ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte, una volta abbandonata la tesi sino ad allora prevalente secondo la quale esse andavano assimilate ai centri di stoccaggio come tali assoggettati alla relativa disciplina anche autorizzatoria sulla base della vigente legislazione (in tal senso infatti: Corte di cassazione Sezione III penale, 28.09.2005, n. 34665), in ragione proprio della qualificazione normativa attribuita al concetto di centro di raccolta (Corte di cassazione, Sezione III penale, 09.05.2011, n. 17864; idem Sezione III penale, 01.03.2011, n. 7950)- deve, tuttavia, intendersi subordinata alla presentazione da parte delle aree in questione della caratteristiche morfologiche e funzionali proprie dei centri di raccolta come normativamente individuati.
Deve conseguentemente escludersi che, al di fuori dell'ipotesi contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di ecopiazzola o isola ecologica possa ritenersi sottratta alla disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha ormai definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, un regime autorizzatorio e gestionale che, come si è visto, consente il conferimento ai centri di raccolta di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata.
In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con il modello dettato dal legislatore dovrà procedersi ad una valutazione dell'attività in tal modo posta in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti, ivi compreso l'assoggettamento della attività di loro raccolta ad apposita autorizzazione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 14.01.2013, n. 1690). Sulle basi di quanto riportato è, a questo punto, agevole, rilevare come il Tribunale di Novara abbia fatto corretta applicazione dei principi vigenti in materia dichiarando la penale responsabilità della prevenuta nella qualità di Sindaco del Comune di Vicolungo.
Invero,
ribadito il principio secondo il quale, in tema di rifiuti, pur a seguito della entrata in vigore del dlgs n. 267 dei 2000, il quale ha distinto fra poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo e poteri di gestione, attribuendo i primi agli organi di governo locale ed i secondi alle figure dirigenziali legate alla amministrazione da un rapporto non rappresentativo ma di servizio, tuttavia spetta al Sindaco un dovere di attivazione e di controllo sul corretto esercizio dalla attività gestite in sede comunale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 13.09.2013, n. 37544; idem Sezione III penale, 11.05.2009, n. 19882‘), va osservato che nel caso di specie il Tribunale di Novara ha riscontrato che l'area in questione risultava priva di pavimentazione e di sistemi di captazione delle acque meteoriche che, pertanto, in caso di pioggia ruscellavanci fra i rifiuti; lì più ampia parte di questi ultimi non avevano alcuna protezione dalie intemperie e risultavano accatastati, in assenza di idonee strutture di controllo, alla rinfusa con soltanto alcune grossolane differenziazioni per generi.
L'evidente ascrivibilità del sito di cui alla imputazione contestata alla Vi., attese le descritte caratteristiche di quello, alla categoria del deposito incontrollato, come peraltro puntualmente attribuito alla imputata nel libello introduttivo, ed il fatto che nessun dubbio sia stato avanzato dalla ricorrente sulla mancanza delle invece necessarie autorizzazioni, giustifica, conclusivamente sul punto, il rigetto del relativo motivo di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.04.2017 n. 19594).

APPALTI: Il soccorso istruttorio non si applica in caso di omessa presentazione della garanzia fideiussoria per l’esecuzione del contratto.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Garanzia fideiussoria per l’esecuzione del contratto – Art. 93, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016 – Omessa presentazione – Inapplicabilità del soccorso istruttorio.
L’omessa produzione, in violazione dell’art. 93. comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, della garanzia fideiussoria per l’esecuzione del contratto, qualora l’offerente risultasse affidatario non consente il soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50, trattandosi di elemento richiesto a pena di esclusione (1)
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   (1) Tar Lazio, sez. I-ter, 18.01.2017, n. 878.
Il Tar ha escluso che possano trovare applicazione i principi espressi dal Consiglio di Stato (sez. III, 02.03.2017, n. 975), in ordine al c.d. “soccorso istruttorio processuale” posto che “l’Amministrazione ha esplicitamente e erroneamente ritenuto che il requisito, invece richiesto dalla legge, non fosse dovuto” (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 21.04.2017 n. 275 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Competenza della Regione sulla localizzazione di impianti di energia da fonti rinnovabili.
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Energia elettrica – Fonti alternative – Impianti eolici – Localizzazione – Competenza - E’ della Regione – Competenze comunali – Sono escluse.
Nel sistema delineato dall’art. 12, d.lgs. 29.12.2003, n. 387 non è ravvisabile una funzione autonoma del Comune in materia di localizzazione degli impianti di energia da fonti rinnovabili (in specie degli impianti eolici), essendo il tema attratto (anche nelle regioni titolari di potestà legislativa esclusiva in materia di urbanistica e paesaggio, come la Regione Sardegna) nell’ambito della competenza regionale finalizzata alla individuazione dei siti non idonei alla localizzazione dei predetti impianti, con conseguente esclusione per il Comune della possibilità di utilizzare lo strumento urbanistico generale per condizionare tali profili (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar Sardegna che in tema di localizzazione degli impianti da fonti, come ha più volte chiarito la Corte costituzionale (sentenze n. 275 del 2011; n. 224 del 2012), il sistema delineato dall’art. 12, d.lgs. 29.12.2003, n. 387 (e in particolare nel comma 10, fondato sulla approvazione in conferenza unificata delle linee guida e sul riconoscimento alle regioni del potere di «procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti») è espressivo di una norma fondamentale di principio nella materia “energia”, vincolante anche per le Regioni a statuto speciale; e, nel contempo, costituisce un punto di equilibrio rispettoso di tutte le competenze, statali e regionali, che confluiscono nella disciplina della localizzazione degli impianti eolici.
Non è ravvisabile una funzione autonoma del Comune in materia di localizzazione degli impianti di energia da fonti rinnovabili. Conclusione, questa, che trova una ulteriore conferma anche in quanto previsto dall’art. 12, comma 3, d.lgs. n. 387 cit., nella parte in cui dispone che l’autorizzazione unica, rilasciata dalla Regione «costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico»; il che non può avere altro significato se non di rendere irrilevanti eventuali norme urbanistiche o norme tecniche di attuazione contrastanti con le scelte di localizzazione effettuate in sede di rilascio dell’autorizzazione unica; e, conseguentemente, esclude una competenza del Comune in punto di localizzazione di detti impianti.
Il Tar ha quindi ritenuto non condivisibile la posizione di chi ritiene che le disposizioni di cui al d.lgs. n. 387 del 2003 non escludono in alcun modo il potere del Comune di disciplinare l’uso del territorio al fine di assicurare una distribuzione equilibrata e razionale degli impianti eolici (da ultimo, Tar Catania, sez. II, 24.02.2017, n. 372).
Tale funzione di contemperamento (tra –da un lato- tutela del paesaggio e uso del territorio; e, dall’altro lato, l’esigenza di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili) si svolge, infatti, a un livello sovracomunale, secondo il sistema (conforme a Costituzione) di cui all’art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003 (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 21.04.2017 n. 271 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa copia completa della e-mail certificata per la notifica Pec. Processo telematico.
Notifica Pec da provare con le ricevute di accettazione e consegna più allegati in formato cliccabile. Le regole tecniche Pat impongono la copia completa della e-mail certificata consegnata: nel dubbio sulla firma digitale del ricorso il collegio intende verificare e invita la parte a mettersi in regola. I giudici concedono alla parte privata qualche giorno perché i suoi adempimenti non risultano in regola con le specifiche tecniche del processo amministrativo telematico: per dimostrare che il ricorso è stato notificato via Pec bisogna trasmettere in modalità informatica le ricevute di accettazione e di avvenuta consegna con allegati i documenti notificati via e-mail certificata al Comune controparte in formato “cliccabile” e verificabile dal collegio.

È quanto emerge dall'ordinanza 19.04.2017 n. 581 della I Sez. del TAR Campania-Napoli.
La controversia nasce da una differenza sul compenso che l'azienda vanta nei confronti del comune per lavori al verde pubblico. Ma nel fascicolo informatico ci sono due ricorsi: il primo è senza firma digitale, l'altro risulta depositato oltre 10 giorni dopo. Per provare l'avvenuta notifica la società deposita la scansione per immagini delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna dell'impugnazione mandata via Pec all'amministrazione locale.
L'art. 14, c. 3, del dpcm 40/2016 parla chiaro: per provare in giudizio la notifica via posta elettronica certificata le ricevute di avvenuta consegna devono contenere anche la copia completa del messaggio mail consegnato (articolo ItaliaOggi del 26.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIIn linea con la giurisprudenza, gli atti della gara non hanno specificato le modalità attraverso le quali sarebbero dovuti essere sigillati i plichi contenenti le offerta, ma hanno richiesto esclusivamente che tali modalità fossero idonee.
Proprio nell’ottica non formalistica indicata dagli stessi atti di gara, l’apposizione del nastro adesivo può ritenersi un modo di sigillatura idoneo (o comunque l’ha ritenuto tale la commissione, nell’esercizio non irragionevole dei suoi poteri discrezionali).
Diversamente le offerte escluse erano contenute in plichi privi di qualsiasi forma di sigillatura (secondo la ricostruzione operata in punto di fatto degli stessi ricorrenti), ma soltanto incollati, non potendosi certo ritenere equivalenti i termini chiusura e sigillatura.
Priva di rilevanza è poi la circostanza che sui lembi di tali plichi fossero state apposte le firme dei concorrenti, costituendo questo un ulteriore garanzia che si aggiunge e non sostituisce quella assicurata dalla loro sigillatura, sulla base della espressa indicazione degli atti di gara.
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Con ricorso notificato in data 06.08.2007, e depositato il successivo 7 agosto, i ricorrenti hanno impugnato il verbale indicato in epigrafe, articolando le censure di: Violazione e falsa applicazione della lex specialis – Violazione e falsa applicazione dell’art. 75 del R.D. 23.05.1924 n. 827 – Eccesso di potere per disparità di trattamento.
Rilevano in via preliminare i ricorrenti che, nella gara che ha avuto ad oggetto l’appalto per cui è causa, se le offerte indicate ai nn. 8 e 10 non fossero state escluse, sarebbe cambiata la media delle offerte ammesse e loro sarebbero divenuti gli aggiudicatari dell’appalto.
Deducono inoltre che l’esclusione di tali offerte sarebbe illegittima in quanto la mancanza del sigillo di ceralacca per la chiusura delle buste contenenti le offerte non costituisce legittimo motivo di esclusione dalla gara, come affermato dalla giurisprudenza che si è pronunziata in merito; inoltre l’operato della commissione di gara sarebbe intrinsecamente contraddittorio, poiché ha ammesso alla gara le offerte pervenute in buste non formalmente sigillate, col timbro di ceralacca, ma sigillate con nastro adesivo.
...
Il ricorso è infondato, alla stregua di quanto verrà precisato.
In via preliminare il collegio non ritiene di dover disporre l’istruttoria richiesta da parte ricorrente, in considerazione delle censure articolate e della ricostruzione in punto di fatto operata in ricorso.
In particolare in ricorso viene affermato che le offerte escluse “non erano aperte, erano pure incollate sui lembi di chiusura sui quali, peraltro, erano apposte le sottoscrizioni dei ricorrenti”, e tale ricostruzione non ha costituito oggetto di contestazione da parte del comune di Palermo.
Dati pertanto per acquisiti i presupposti in fatto da cui muove l’odierna controversia, il suo punto dirimente è stabilire se avere incollato la busta contenente l’offerta ed apposto, sui lembi, le sottoscrizioni dei concorrenti integri il requisito richiesto, a pena di esclusione, per la partecipazione alla gara per cui è causa e cioè la presentazione dei plichi “idoneamente sigillati, controfirmati sui lembi di chiusura”.
Posta nei suoi corretti termini, la tesi articolata dai ricorrenti è priva di fondamento.
In linea con la giurisprudenza che si è pronunziata in merito, gli atti della gara per cui è causa non hanno specificato le modalità attraverso le quali sarebbero dovuti essere sigillati i plichi contenenti le offerta, ma hanno richiesto esclusivamente che tali modalità fossero idonee.
Ciò considerato, proprio nell’ottica non formalistica indicata dagli stessi atti di gara, l’apposizione del nastro adesivo può ritenersi un modo di sigillatura idoneo (o comunque l’ha ritenuto tale la commissione, nell’esercizio non irragionevole dei suoi poteri discrezionali).
Diversamente le offerte escluse erano contenute in plichi privi di qualsiasi forma di sigillatura (secondo la ricostruzione operata in punto di fatto degli stessi ricorrenti), ma soltanto incollati, non potendosi certo ritenere equivalenti i termini chiusura e sigillatura.
Priva di rilevanza è poi la circostanza che sui lembi di tali plichi fossero state apposte le firme dei concorrenti, costituendo questo un ulteriore garanzia che si aggiunge e non sostituisce quella assicurata dalla loro sigillatura, sulla base della espressa indicazione degli atti di gara.
Ciò considerato le determinazioni assunte dalla commissione di gara, contestate dai ricorrenti, risultano legittime e non contraddittorie, sottraendosi alle censure da costoro articolate.
In conclusione il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 18.04.2017 n. 1069 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare l’ammissione alla gara se non sono state rispettate le forme di pubblicità sul portale della stazione appaltante.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – Impugnazione – Motivi avverso l’ammissione dell’aggiudicatario – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Irricevibilità.
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione di altro concorrente – Impugnazione – Termine – Mancato rispetto forme di pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 – Irrilevanza in caso di conoscenza aliunde.
Ai sensi del comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è irricevibile il ricorso proposto avverso l’aggiudicazione di una gara pubblica nel quale si sollevano censure contro il provvedimento di ammissione dell’aggiudicatario che, come tali, avrebbero dovuto essere tempestivamente proposte entro il termine previsto dal citato comma 2-bis (1).
Ai fini della tempestività del ricorso proposto avverso l’ammissione di altro concorrente ad una gara non rileva che la stazione appaltante non abbia provveduto alla pubblicazione del provvedimento di ammissione alla gara dei concorrenti con le modalità previste dall’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33, trovando in ogni caso applicazione il principio secondo cui in difetto della formale comunicazione dell'atto e nel caso in cui il ricorrente viene ad aver contezza dell'atto prima della sua comunicazione formale, il termine di impugnazione decorre dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto stesso purché siano percepibili quei profili che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato (2).
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   (1) Tar Napoli, sez. VIII, 02.02.2017, n. 696, Tar Lazio, sez. I, 04.04.2017, n. 4190.
   (2) Cons. St., sez. III, 17.03.2017, n. 1212; id., sez. IV, 19.08.2016, n. 3645 (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 18.04.2017 n. 582 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
ritenuto che:
- in linea di principio,
quando il ricorso incidentale è finalizzato a contestare la legittimazione del ricorso principale -ossia il c.d. ricorso incidentale escludente o paralizzante, essendo dedotte censure relative all'accertamento dei requisiti soggettivi di partecipazione alla gara del ricorrente principale o dei requisiti oggettivi della sua offerta,- il suo esame deve necessariamente assumere carattere pregiudiziale (TAR Toscana, Sez. I, 14.10.2016, n. 1460, Cons. Stato, ad. plen. n. 4/2011);
- tuttavia,
nel caso di palese infondatezza, irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso principale, il Giudice può, per ragioni di economia processuale, esaminarlo in via prioritaria e ciò in quanto l’accoglimento del ricorso incidentale dell'aggiudicatario non può comportare il rigetto del ricorso di un offerente escluso nell'ipotesi in cui la legittimità dell'offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell'ambito del medesimo procedimento, atteso che ciascuno dei concorrenti può far valere un analogo interesse legittimo all'esclusione dell'offerta degli altri al fine di far constatare l'impossibilità di procedere alla scelta di un'offerta regolare, con l’eventuale necessità di ripetizione della gara (Corte di Giustizia - 05.04.2016, n. 689, causa C-689/13);
- da quanto sopra segue che
la “dequotazione del tradizionale tema, affrontato ex professo dall’Adunanza Plenaria n. 9/2014 proprio sulla rima di tale verifica, dell'inversione dell'ordine di esame del ricorso incidentale escludente e di quello principale, potendo in conseguenza essere ristabilito l'ordine prioritario di esame del ricorso principale non soltanto per il caso di una sua manifesta infondatezza, ma anche in tutte le ipotesi, come quella oggi in discussione, nelle quali risulti applicabile il principio di marca europea più sopra richiamato" (Cons. Stato, sez. III, 26.08.2016 n. 3708; TAR Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 06.12.2016 n. 1012; TAR Lazio, sez. III, 30.06.2016 n. 7532)
- nel caso all’esame, come fatto cenno, il ricorso incidentale è volto proprio a contestare l’ammissione alla gara del RTI ricorrente di cui viene rilevata l’assenza di alcuni requisiti di ammissione nonché, invia subordinata, del bando di gara;
- tuttavia, l’irricevibilità e l’infondatezza del ricorso principale per le accennate ragioni di economia processuale impongono in via prioritaria il suo esame;
rilevato che:
- le censure di cui al primo motivo sono volte a contestare la mancanza, in capo al RTI aggiudicatario, dei requisiti di partecipazione avuto riguardo alla circostanza che il mandatario non sarebbe in possesso del requisito professionale richiesto dalla legge di gara, ossia la laurea specialistica in ingegneria civile;
-
l’art. 120, co. 2-bis, c.p.a. dispone che “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante” e “l'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale”;
-
la norma in parola non pone dubbi interpretativi conseguendone l’irricevibilità del ricorso proposto avverso l’aggiudicazione nel quale si sollevano censure contro il provvedimento di ammissione dell’aggiudicatario che, come tali, avrebbero dovuto essere tempestivamente proposte entro il termine di cui all’art. 120, comma 2-bis c.p.a. (TAR Campania, sez. VIII, 02.02.2017, n. 696, TAR Lazio, sez. I, 04.04.2017, n. 4190);
- non può convenirsi con la tesi di parte ricorrente secondo cui il ricorso sarebbe tempestivo non avendo la stazione appaltante provveduto alla pubblicazione del provvedimento di ammissione alla gara dei concorrenti con le modalità previste dall’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
- invero, anche a prescindere dalla pubblicazione del provvedimento de quo con le modalità di cui al citato art. 29 (che controparte contesta essere avvenuto) non può esservi dubbio che parte ricorrente ne fosse a conoscenza, dal momento che la stazione appaltante aveva provveduto ad informarla in data 27.10.2016 con comunicazione e-mail, allegando il verbale della seduta pubblica appena conclusa recante i punteggi conseguiti da ciascun operatore economico e dunque anche l’ammissione alla gara degli RTP partecipanti;
- in ogni caso in data 17.11.2016 la ricorrente contestava all’Amministrazione l’ammissione alla gara del RTP primo classificato mostrando così la piena conoscenza dell’ammissione alla gara del RTP Gh.;
-
la vigenza dell’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 non reca motivi per discostarsi, anche nella materia della contrattualistica pubblica, dal consolidato principio per cui in difetto della formale comunicazione dell'atto e nel caso in cui il ricorrente viene ad aver contezza dell'atto prima della sua comunicazione formale, il termine di impugnazione decorre dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto purché siano percepibili quei profili che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato (tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 17.03.2017 n. 1212; id., sez. IV, 19.08.2016 n. 3645;
- per conseguenza il ricorso proposto solo in data 24.02.2017 deve per tale profilo dichiararsi irricevibile;
considerato che:
- parte ricorrente propone un secondo ordine di censure finalizzate all’esclusione del Raggruppamento aggiudicatario in quanto la lettura della sua offerta tecnica dimostrerebbe la conoscenza di informazioni riservate che gli avrebbero consentito, violando palesemente la par condicio, di approntare un’offerta cui per tale motivo sarebbe stato attribuito un punteggio migliore;
- in particolare dalla “relazione tecnico-illustrativa sulle modalità di svolgimento delle prestazioni”, sarebbe evincibile che il controinteressato era stato posto a conoscenza degli elaborati dell’offerta tecnica e dell’offerta migliorativa presentati, dall’aggiudicatario provvisorio, nella gara per l’esecuzione dei lavori di realizzazione dell’impianto di teleriscaldamento, svoltasi parallelamente ed aggiudicata solo il 16.01.2017, in relazione ai quali è stata svolta la gara di cui si controverte per la direzione dei predetti lavori;
- la circostanza ora narrata è ammessa dalla stessa amministrazione quando (pag. 16 della prima memoria) si afferma che “il Geom. An.De., in qualità di soggetto autorizzato dall’operatore economico aggiudicatario dell’appalto di opere, ha concesso all’odierno controinteressato di prendere visione ed estrarre copia degli elaborati presentati per la partecipazione alla gara relativa all’esecuzione del teleriscaldamento del Comune di Chiusdino”;
- contrariamente all’assunto del Comune secondo cui quegli atti sarebbero stati ormai pubblici, in realtà, ai sensi dell’art. 53, co. 3, d.lgs. n. 50/2016, “gli atti di cui al comma 2”, ossia le offerte delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici “non possono essere comunicati a terzi o resi in qualsiasi altro modo noti” fino al momento dell’aggiudicazione che, nel caso di specie è avvenuta, come già anticipato, il 16.01.2017, cioè dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte della gara di cui si controverte;
osservato che:
- tuttavia, dall’esame degli atti di causa emerge, per un verso, che la Commissione di gara non ha tenuto conto in alcun modo nella valutazione dell’offerta tecnica delle informazioni irritualmente acquisite dal RTI Gh. e, per altro verso, che il disciplinare di gara non consentiva di acquisire alcun particolare vantaggio dalla conoscenza dell’offerta dell’impresa che si è aggiudicato l’appalto di lavori e, quindi, alcun punteggio ulteriore appare essere stato attribuito alle migliorie o alla particolare conoscenza del progetto dell’ATI aggiudicataria;
- in ogni caso posto che, per il criterio “Concrete modalità di espletamento del servizio”, è stato attribuito alla controparte il punteggio massimo previsto dal disciplinare (15 punti), solo ipotizzando l’assegnazione di un punteggio pari o inferiore a 2 la censura supererebbe la prova di resistenza in ordine all’interesse a dedurla giacché la differenza di punteggio tra i due concorrenti è risultata, a conclusione della gara, superiore a 13 punti, seguendone che la doglianza si palesa meramente dubitativa e non adeguatamente provata quanto al profilo dell’interesse alla sua allegazione;
considerato che:
- con il terzo motivo parte ricorrente lamenta che la commissione avrebbe sopravvalutato l’offerta dell’aggiudicataria sia in ordine all’elemento B) “Approccio metodologico” che all’elemento C) “Gruppo di lavoro, organizzazione e qualifica del personale effettivamente utilizzato nell’appalto” che, infine, in ordine all’elemento D) “Concrete modalità di espletamento del servizio” non avrebbe potuto essere attribuito alcun punteggio essendo il controinteressato venuto in possesso di notizie ulteriori e diverse da quelle degli altri candidati;
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nelle gare pubbliche le valutazioni operate dalle commissioni giudicanti in ordine alle offerte tecniche presentate dalle imprese concorrenti, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (ex multis, Cons. St., sez. V, 26.03.2014, n. 1468);
- nella fattispecie parte ricorrente si limita a contrapporre alle valutazioni della Commissione giudicatrice il proprio convincimento soggettivo circa la maggiore meritevolezza della sua offerta tecnica rispetto a quella dell’aggiudicatario e, dunque, articola censure che si svolgono nel campo della mera opinabilità di tali apprezzamenti;
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non è "sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte" (Cons. Stato, V, 28.10.2015, n. 4942, id., sez. V, 26.05.2015, n. 2615).

APPALTIIl DGUE è un modello autodichiarativo introdotto dal nuovo codice appalti (art. 85), volto a semplificare e ridurre gli oneri amministrativi che gravano sugli operatori economici, ma anche sugli enti aggiudicatori, che infatti sono tenuti ad accettarlo (v. comma 1 dell’art. 85), ma il suo mancato utilizzo non è previsto come causa di esclusione, a tal fine rilevando, ai sensi e nei limiti dell’art. 80, solo il contenuto delle dichiarazioni in esso riportate.
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3.1. Con la seconda censura la ricorrente afferma che Se. dovesse essere esclusa perché non si era avvalsa del DGUE. La censura è destituita di fondamento.
Il DGUE è un modello autodichiarativo introdotto dal nuovo codice appalti (art. 85), volto a semplificare e ridurre gli oneri amministrativi che gravano sugli operatori economici, ma anche sugli enti aggiudicatori, che infatti sono tenuti ad accettarlo (v. comma 1 dell’art. 85), ma il suo mancato utilizzo non è previsto come causa di esclusione, a tal fine rilevando, ai sensi e nei limiti dell’art. 80, solo il contenuto delle dichiarazioni in esso riportate.
La Se. ha presentato tutte le dichiarazioni e i documenti richiesti, sicché non vi era ragione di escluderla per il mancato utilizzo di un certo modello, peraltro ancora in fase di sperimentazione (v. circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti 18.07.2016, n. 3) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 14.04.2017 n. 1025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Presupposti per l'applicazione del rito superaccelerato.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito superaccelerato ex comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a. – Presupposto - Netta distinzione tra fase di ammissione o di esclusione e fase di aggiudicazione.
Il rito cd. “specialissimo” o “super speciale”, previsto al comma 6-bis dell’art. 120 c.p.a. per l’impugnazione dei provvedimenti contemplati dal precedente comma 2-bis, si applica solo nei casi in cui vi sia una netta distinzione tra fase di ammissione/esclusione e fase di aggiudicazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che nei casi in cui, invece, la suddetta distinzione non è ravvisabile, “le esigenze di rapida costituzione di certezze giuridiche poi incontestabili dai protagonisti della gara divengono attuali solo nel momento in cui il procedimento è giunto alla fase di aggiudicazione definitiva, soggetta all’usuale rito, pur speciale, disciplinato dai restanti commi dell’art. 120 c.p.a.”.
In termini, Cons. St., ord., sez. V, 14.03.2017, n. 1059, secondo cui “la novella all’art. 120 disegna per le gare pubbliche un nuovo modello complessivo di contenzioso a duplice sequenza, disgiunto per fasi successive del procedimento di gara, dove la raggiunta certezza preventiva circa la res controversa della prima è immaginata come presupposto di sicurezza della seconda”.
In difetto della contestuale ricorrenza di tutti i presupposti per la concreta applicazione della prescrizione processuale relativa al cd. rito superaccelerato, deve ritenersi che la medesima si riveli inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e cioè un sistema a duplice sequenza, “disgiunto per fasi successive del procedimento di gara”.
A tali dirimenti considerazioni si aggiunge quella per cui i dubbi circa l’applicazione delle nuove regole processuali debbono “essere risolti preferendo l’opzione ermeneutica meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa (e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24 e 113)” (Cons. St., sez. III, 25.11.2016, n. 4994) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 14.04.2017 n. 394 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASentenza della Corte costituzionale. Salvi i limiti agli interventi di nuova edificazione.
Vincoli edilizi. Con la sentenza 13.04.2017 n. 84 la Consulta ha salvato il Testo unico dell'edilizia nella parte in cui prevede limiti agli interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici.
In particolare le norme del T.u. Edilizia fanno salva l'applicabilità delle leggi regionali unicamente se queste prevedano limiti più restrittivi e stabiliscono che, comunque, nel caso di interventi a destinazione produttiva, si applica, in aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un decimo dell'area di proprietà), anche il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadrato.
Nel caso specifico la proprietaria di un terreno aveva chiesto il permesso di costruire un edificio, da adibire ad attività artigianali. La richiesta era stata rigettata dal comune, con la motivazione che la volumetria prevista in progetto eccedeva largamente quella realizzabile in base alla norma denunciata. La Consulta ha dato, in sostanza, torto all'interessata, salvando, appunto, le disposizioni restrittive
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2017).

EDILIZIA PRIVATA: La Consulta si pronuncia sui limiti agli interventi di nuova edificazione a destinazione produttiva, fuori dei centri abitati sprovvisti di strumenti urbanistici.
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Edilizia e urbanistica – Interventi di nuova edificazione a destinazione produttiva in assenza di pianificazione urbanistica – Limiti – Questione infondata di costituzionalità
Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 06.06.2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)», trasfuso nell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo comma, della Costituzione nella parte in cui, nel prevedere limiti agli interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici:
a) fanno salva l’applicabilità delle leggi regionali unicamente ove queste prevedano limiti «più restrittivi»;
b) stabiliscono che, «comunque», nel caso di interventi a destinazione produttiva, si applica –in aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un decimo dell’area di proprietà)– anche il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadrato.

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(1) I.- Con la sentenza n. 84 del 2017, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo comma, della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale di cui alla massima.
La questione è sorta nell’ambito di un giudizio in cui la richiesta di rilascio del permesso di costruire un edificio, da adibire ad attività artigianali, era stata respinta dal Comune, con la motivazione che la volumetria prevista in progetto eccedeva largamente quella realizzabile su detto fondo in base alla norma denunciata. Il fondo in questione risultava, infatti, inserito dal vigente piano regolatore generale del Comune in «zona F1, Zone di uso pubblico».
Essendo decorsi cinque anni dall’approvazione del piano, le relative prescrizioni avevano perso efficacia, con la conseguenza che la predetta zona F1 era divenuta “zona bianca”. Essa risultava, quindi, soggetta alle previsioni dell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si stabilisce che «Salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti: […] b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà».
Il Tar per la Campania, ritenendo di non poter superare il contrasto in via interpretativa, con ordinanza del 14.09.2015 ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma, sia nella parte in cui fa salvi i limiti stabiliti dalle leggi regionali solo se «più restrittivi», sia nella parte in cui sottopone gli interventi a destinazione produttiva al limite di densità fondiaria, in aggiunta a quello di copertura.
In particolare ha dedotto quanto segue:
   a) la violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega per avere il legislatore delegato introdotto una disposizione innovativa rispetto a quella dell’art. 4, ultimo comma, della legge 28.01.1977, n. 10 (che poneva le due condizioni in via alternativa, riferendo la prima all’edilizia residenziale, e la seconda alla edificazione a fini produttivi) laddove l’art. 7 della legge 08.03.1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998) ha affidato al Governo la redazione di testi unici delle norme legislative e regolamentari in una serie di materie –tra cui l’edilizia– con la finalità di coordinare le disposizioni vigenti, apportando eventuali modifiche solo se strettamente necessarie a garantire la coerenza logica e sistematica della normativa. Anche il tenore della clausola di cedevolezza sarebbe stato modificato dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale fa salva, non qualsiasi diversa normativa regionale (come previsto dall’art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977), ma solo i limiti più restrittivi da questa previsti;
   b) la clausola di cedevolezza si porrebbe in contrasto anche con l’art. 117, terzo comma, Cost., comprimendo la potestà legislativa delle Regioni in ordine al «governo del territorio», materia di competenza concorrente nella quale la legislazione dello Stato deve limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali, ciò in quanto la regola del doppio limite, posta dal legislatore statale, sarebbe norma di dettaglio;
   c) la disposizione impugnata violerebbe il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e quello di libera iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost. in quanto l’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di superficie penalizzerebbe oltre misura l’attività di produzione e di scambio di beni e servizi, richiedendo la disponibilità di un’area molto estesa per la costruzione di edifici utili ai fini dello svolgimento di una qualsiasi attività economica;
   d) sussisterebbe infine la violazione dell’art. 42, secondo e terzo comma, Cost., a fronte della significativa limitazione posta dal doppio limite all’edificabilità, introdotto dal legislatore statale con la norma in questione, in luogo della meno gravosa applicazione degli standard relativi alle “zone bianche” contemplati dall’art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977.
II.- La Corte costituzionale -dopo aver condiviso l’interpretazione prospettata dal giudice remittente nel senso della necessaria applicazione cumulativa dei due limiti in questione (superficiario e volumetrico per gli interventi a destinazione produttiva), in linea con il diritto vivente (in particolare Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2010, n. 1461, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 449, con nota di INVERNIZZI, secondo cui <<è legittimo il diniego del permesso di costruire, richiesto per la realizzazione di un insediamento produttivo ricadente in «zona bianca» e fuori dal perimetro del centro abitato, che non rispetti il doppio limite previsto dall’art. 9, 1º comma, lett. b), d.p.r. 06.06.2001 n. 380, riferito sia alla soglia di cubatura consentita, sia alla misura massima della superficie coperta realizzabile>>; 05.02.2009, n. 679 in Giurisdiz. amm., 2009, IV, 205, con nota di STELLATO, secondo cui <<l’art. 9, 1º comma, lett. b) d.p.r. 06.06.2001 n. 380, recante la disciplina degli interventi edilizi a destinazione produttiva al di fuori dei centri abitati in caso di assenza di pianificazione urbanistica, deve essere interpretato nel senso della necessità e concorrenza di entrambi i limiti (superficie coperta e densità massima fondiaria) previsti dalla norma; pertanto, è legittimo il diniego di permesso di costruire qualora l’intervento edilizio a scopi produttivi ricadente in zona bianca non rispetti sia il limite della densità fondiaria massima di zero virgola zero tre mc su metro quadrato, sia il limite di un decimo della superficie coperta rispetto all’area di proprietà del richiedente il titolo edilizio>>- ha ritenuto le questioni non fondate sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   e) l’inequivoca estensione ai complessi produttivi del limite volumetrico, operata dal legislatore delegato, trova giustificazione nell’esigenza di garantire la «coerenza logica e sistematica» della normativa considerata, in accordo con la direttiva del legislatore delegante, considerato che l’applicazione del solo limite di superficie coperta risultava incoerente con la ratio della previsione di standard di edificabilità nelle “zone bianche” (quella cioè di assicurare una edificabilità significativamente ridotta per non svuotare del tutto lo ius aedificandi senza pregiudicare al contempo i valori –di rilievo costituzionale– coinvolti dalla regolamentazione urbanistica), in quanto si risolveva, nel consentire un’attività edificatoria sostanzialmente senza limiti, tramite lo sviluppo in verticale dei fabbricati;
   f) la previsione di limiti invalicabili all’edificazione nelle “zone bianche”, per la finalità ad essa sottesa, ha le caratteristiche intrinseche del principio fondamentale della legislazione statale in materia di governo del territorio, coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali il paesaggio, l’ambiente e i beni culturali ed è coerente con la direttrice di delega del promovimento della coerenza logico-sistematica della disciplina, non pienamente evincibile dalla previgente disciplina che affermava la cedevolezza della più rigorosa disciplina statale rispetto a norme regionali più favorevoli alla tutela delle facoltà edificatorie ma suscettibili di recare pregiudizio a primari interessi costituzionali;
   g) la norma censurata –nonostante la puntuale quantificazione dei limiti di cubatura e di superficie in essa contenuta– non può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio fondamentale della materia in quanto finalizzata ad impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale; in quanto norma di principio deve ritenersi legittimamente posta dal legislatore statale nella materia di legislazione concorrente del governo del territorio cui afferiscono l’urbanistica e l’edilizia;
   h) quanto alla pretesa irragionevolezza degli effetti derivanti dall’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di superficie che penalizzerebbero oltre misura le attività produttive occorrendo allo scopo la disponibilità di aree molto estese, l’inconveniente che il giudice a quo lamenta rientra nella logica della disciplina di cui si discute, che è quella di riconoscere al privato –fin tanto che non intervenga la pianificazione dell’area– facoltà edificatorie significativamente compresse, proprio per non compromettere l’esercizio di quella funzione;
   i) la disciplina dei limiti di edificabilità nelle “zone bianche” non incide affatto sulla libertà di iniziativa economica privata, la quale non deve essere necessariamente garantita –per imperativo costituzionale– consentendo al privato di realizzare opifici su terreni non coperti dalla pianificazione urbanistica;
   j) quanto, infine, alla denunciata violazione della garanzia costituzionale del diritto di proprietà, la Corte reputa inconferente, rispetto al petitum, il richiamo alla propria giurisprudenza operato dall’ordinanza di rimessione in materia di vincoli di inedificabilità preordinati all’espropriazione o a contenuto sostanzialmente espropriativo, non venendo nel caso di specie in rilievo un problema di termine massimo di durata del regime delle “zone bianche” e di conseguente necessità di prevedere un indennizzo.
III.- Tutte le q.l.c. esaminate dalla Corte nella sentenza in commento erano state nella sostanza esaminate e dichiarate manifestamente infondate da Cons. Stato, sez. IV n. 1461 del 2010 cit., con argomenti che sono stati, in alcuni casi, testualmente ripresi dalla Consulta.
Per completezza si segnala:
   k) sulla natura del t.u. edilizia, sull’eccesso di delega da cui sarebbe affetto, sui rapporti Stato e Regioni in materia di governo del territorio, nonché sulla individuazione dei principi fondamentali all’interno del t.u. ed. (oltre ai precedenti citati nella sentenza in commento), cfr.:
I) Cons. Stato, Ad. plen., 07.04.2008, n. 2, in Urbanistica e appalti, 2008, 745, con nota di BASSANI, e Giust. amm., 2008, fasc. 2, 181 (m), con nota di ARDANESE;
II) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, n. STRAZZA e Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di VIPIANA PERPETUA;
III) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (oggetto della NEWS US in data 18.07.2016 cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento);
IV) A. RUSSO; e S. AMOROSINO, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano, 2015, 3 ss. e 25 ss.;
   l) sull’art. 9 t.u. edil., v. R. INVERNIZZI, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano, 2015, 259 ss., ivi ogni ulteriore riferimento di dottrina e giurisprudenza;
m) sulla mancata pianificazione attuativa in caso di decadenza di precedenti vincoli, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699 in Foro it., 2010, III, 484 con nota di CARLOTTI (Corte Costituzionale, sentenza 13.04.2017 n. 84 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche per i locali accessori bisogna rispettare le distanze di costruzioni tra edifici.
Anche se è vero che i locali accessori non necessitano dello stesso grado di illuminazione ed areazione dei quelli abitati, non è possibile consentire la realizzazione di una parete a distanza inferiore a 10 m. dalla parete finestrata che significherebbe limitare indebitamente le possibilità di trasformazione dell’immobile limitrofo.
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Il terzo motivo è ugualmente da respingere in quanto l’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 prevede che le pareti finestrate debbano godere di una fascia libera di rispetto di almeno 10 m. senza in alcun modo delimitare la natura dei locali ai quali esse garantiscono luce ed aria. Nessuna rilevanza possono avere eventuali difformi previsioni dei regolamenti locali, posto che, come è noto, la disciplina dettata dal menzionato articolo è inderogabile ed auto applicativa (Cass. 14953/2011).
Né interpretazioni riduttive possono essere ricavate dalla ratio igienico-sanitaria della norma, posto che anche se è vero che i locali accessori non necessitano dello stesso grado di illuminazione ed areazione dei quelli abitati, il carattere accessorio non è necessariamente destinato a permanere nel tempo, sempre essendo possibili interventi di ristrutturazione che modifichino la composizione interna dell’edificio.
Sicché, in tale ipotesi, consentire la realizzazione di una parete a distanza inferiore a 10 m. dalla parete finestrata significherebbe limitare indebitamente le possibilità di trasformazione dell’immobile limitrofo.
La circostanza che uno dei due edifici soggetti all’obbligo di distanza sia abusivo potrebbe assumere rilevanza allorché la violazione edilizia interessi l’intera costruzione o quantomeno il lato finestrato o fronteggiante la finestra.
Nel caso di specie, invece, il ricorrente afferma che la parete interessata sarebbe stata oggetto di una abusiva sopraelevazione senza tuttavia specificare se la finestra si trovi nella parte legittima della parete o in quella asseritamente realizzata senza titolo
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.04.2017 n. 558 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Contenuto della comunicazione di avvio del procedimento e motivazione dell’annullamento d’ufficio.
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Procedimento amministrativo – Comunicazione di avvio – Contenuto - motivi del provvedimento finale – Esclusione.
Annullamento d’ufficio e revoca – Motivazione – Mero riferimento a motivi di interesse pubblico – Sufficienza – Fattispecie in tema di locazione di immobili comunali.
Comunicazione d’avvio del procedimento è solo una comunicazione d’avvio, non deve già contenere i motivi del provvedimento finale (1)
Nel caso di annullamento d’ufficio della assegnazione in locazione di immobile comunale, l’interesse patrimoniale sotteso dalla determinazione dell’ente, finalizzata all’adeguamento del canone di locazione ai parametri di legge, costituisce ex se, senza necessità di ulteriori dissertazioni argomentative, una valida attestazione della sussistenza dell’interesse pubblico prevalente ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241; l’interesse dell’amministrazione al ripristino della legalità con riguardo ad un profilo di particolare rilevanza pubblica, e cioè l’utilizzazione del patrimonio immobiliare secondo modalità remunerative per le casse comunali, ben può ritenersi prevalente rispetto all’interesse dell’occupante a permanere nell’immobile in questione nel quale opera stabilmente da anni sulla base di un contratto di locazione (2).
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     (1) Ha chiarito il Tar, richiamando precedenti sul punto (Tar Brescia 18.02.2011, n. 314; Tar Napoli, sez. I, 25.09.2013, n. 4414) che il precetto contenuto nell’art. 8, l. 07.08.1990, n. 241 –secondo il quale la comunicazione di avvio del procedimento deve indicare l’oggetto del procedimento promosso– si deve intendere sufficientemente rispettato quando venga indicata la questione che sarà esaminata dall’amministrazione con l’apporto collaborativo e difensivo del privato, senza la necessità di una dettagliata specificazione delle ragioni poste a fondamento del procedimento attivato; difatti, la ratio della norma è di consentire la partecipazione dell’interessato al procedimento ed è nell’ambito di esso che questi può esercitare il diritto di difesa, dovendo la motivazione specifica della decisione amministrativa essere piuttosto contenuta nel provvedimento finale adottato all’esito del contraddittorio endoprocedimentale con il privato.
   (2) Il Tar ha altresì richiamato la normativa che regola la materia della locazione di immobili pubblici, id est l’art. 32, comma 8, l. 23.12.1994, n. 724 e l’art. 32, comma 8, 07.12.2000, n. 383, dalla quale si evince che la regola generale è quella della locazione degli immobili facenti parte del patrimonio comunale ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, con facoltà di deroga –con concessione addirittura in comodato- per il caso di perseguimento di scopi promozione sociale.
E’ dunque evidente che laddove l’ente comunale non ritenga di esercitare le anzidette facoltà, in relazione alle quali la decisione dell’amministrazione è connotata da ampia discrezionalità insindacabile come noto in sede giurisdizionale, deve trovare applicazione la regola generale di concessione in locazione al prezzo di mercato.
Sul punto v., in senso contrario, anche Tar Sardegna, sez. I, 07.02.2017, n. 92 (
TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 12.04.2017 n. 255 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Impugnazione del Piano urbanistico comunale e permesso di costruire per realizzare manufatti precari.
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Urbanistica – Pianificazione - Piano urbanistico comunale – Entrata in vigore – Individuazione – Conseguenza ai fini della tempestività della sua impugnazione.
Edilizia - Permesso di costruzione – Manufatto precario – Individuazione.
Il piano urbanistico comunale entra in vigore il giorno della pubblicazione del provvedimento di approvazione definitiva nel Bollettino Ufficiale (nella specie, della Regione Autonoma della Sardegna, che ha previsto tale adempimento con l’art. 20, comma 8, l. reg. n. 45 del 1989); tale forma di pubblicità, obbligatoria e non facoltativa, realizza la forma legale tipica di conoscenza di tale atto cui va ricollegata la decorrenza del termine per l'impugnazione delle disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi che in via immediata (come le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata.
Il carattere di precarietà di una costruzione, ai fini della esenzione dal permesso di costruire, non va desunto dalla possibile facile e rapida amovibilità dell'opera, ovvero dal tipo più o meno fisso del suo ancoraggio al suolo, ma dal fatto che la costruzione appaia destinata a soddisfare una necessità contingente ed essere poi prontamente rimossa; rientrano in tale nozione le opere destinate a soddisfare una necessità imprenditoriale contingente per essere poi prontamente ed integralmente rimosse; né tale connotazione può ritenersi preclusa dalla c.d. stagionalità (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar come la giurisprudenza abbia avuto modo di affermare al riguardo che, ai fini dell'esenzione del permesso di costruire, l'opera deve essere destinata ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e sollecita eliminazione, non essendo sufficiente che si tratti eventualmente di un manufatto smontabile e/o non infisso al suolo (Cass. pen., sez. III, 21.06.2011, n. 34763); si sostiene cioè che non implica precarietà dell'opera e richiede, pertanto, il permesso di costruire, il manufatto di carattere stagionale ossia la struttura utilizzata annualmente per soddisfare bisogni ricorrenti e non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (in termini Cass. pen., sez. III, 21.06.2011, n. 34763; Cons. St., sez. IV, 22.12.2007, n. 6615) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 12.04.2017 n. 254 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASuolo comune: dubbi sulla proprietà della costruzione. Rinvio alle Sezioni unite. Pro quota o di chi edifica.
C’è contrasto in Cassazione sul punto se la costruzione eseguita sul suolo comune appartenga pro-quota, ai comproprietari dell’area; oppure se appartenga al solo proprietario costruttore.
Al cospetto di questa incertezza, la Sez. II civile della Suprema corte, dovendosi nuovamente occupare della questione, con ordinanza interlocutoria 11.04.2017 n. 9316, ha trasmesso gli atti al primo presidente, affinché valuti la rimessione della causa alle Sezioni unite.
In difformità rispetto a decisioni precedenti, un più recente orientamento della Cassazione (che l’ordinanza invita a rimeditare) ha affermato che il principio di “accessione” (articolo 934 del Codice civile, in base al quale quanto edificato sul suolo appartiene al proprietario del suolo) si riferirebbe solo alle costruzioni su terreno altrui.
Secondo questo orientamento alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applicherebbe la disciplina dell’accessione (cioè l’estensione del diritto di proprietà del suolo a quanto edificato sul suolo stesso), ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se sia stata realizzata nel rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle cose comuni. Con la conseguenza, ad esempio, che le opere abusivamente edificate non possono considerarsi beni condominiali per accessione, ma devono considerarsi appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica (Cassazione 4120/2001 e 7523/2007).
Secondo l’ordinanza questa tesi dunque «desta perplessità», rispetto all’altra opinione, tradizionalmente sostenuta in Cassazione (sentenze n. 1297/1973, 3479/1978, 11120/1997), secondo la quale, per il principio di accessione, la costruzione su suolo comune è anch’essa comune, mano a mano che si innalza, salvo contrario accordo scritto tra i comproprietari del suolo.
A quest’ultima impostazione consegue ad esempio che:
   - la costruzione eseguita su area in comproprietà da parte di uno dei condomini ricade in comunione pro-indiviso a favore di tutti i comproprietari secondo quote ideali proporzionate alle quote di proprietà dell’area stessa, salvo che non si sia costituito nei modi e nelle forme di legge un altro diritto reale (ad esempio, un diritto di superficie) a favore del costruttore-condomino;
   - la costruzione eseguita dal comproprietario, sul suolo comune, diviene, per accessione, di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, restando esclusa l’applicabilità delle norme di cui agli articoli 936 e seguenti del codice civile, che riguardano la diversa ipotesi di opere eseguite da un terzo;
   - il principio dell’accessione, di cui all’articolo 934 del Codice civile implica che, quando il suolo è comune, ricade nella comunione anche l’edificio costruito su di esso, tranne che i comproprietari del suolo medesimo abbiano provveduto con atto scritto alla determinazione reciproca del loro diritto sulle singole porzioni del costruendo edificio, destinato a diventare, a costruzione ultimata, di rispettiva proprietà esclusiva
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2017).
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MASSIMA
1. - In ordine al secondo motivo di ricorso, va premesso che la Corte d'appello -nel confermare la statuizione con cui il Tribunale ha riconosciuto in capo alla committente Cà D'Oro 3, che ha pagato il corrispettivo della realizzazione di quanto realizzato nel sottosuolo del terreno in comunione ordinaria, l'acquisto a titolo originario della proprietà esclusiva dei locali ai piani primo e secondo interrato- ha fatto applicazione del principio secondo cui alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica la disciplina sull'accessione contenuta nell'art. 934 cod. civ., che si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova costruzione opera a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia realizzata in conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all'uso delle cose comuni, le opere abusivamente create non potendo considerarsi beni condominiali per accessione.
2. - Il motivo di ricorso consente di evidenziare un contrasto diacronico nella giurisprudenza di questa Corte.
2.1. - Un primo orientamento sottolinea che per il principio dell'accessione (art. 934 cod. civ.) la costruzione su suolo comune è anch'essa comune, mano a mano che si innalza, salvo contrario accordo scritto, ad substantiam (art. 1350 cod. civ.); pertanto, per l'attribuzione, in proprietà esclusiva, ai contitolari dell'area comune, dei singoli piani che compongono la costruzione, sono inidonei sia il corrispondente possesso esclusivo del piano, sia il relativo accordo verbale, sia il proporzionale diverso contributo alle spese (Cass., Sez. II, 11.11.1997, n. 11120).
In quest'ordine di idee, si è affermato che:
   - la costruzione eseguita su area in comproprietà da parte di uno dei condomini ricade in comunione pro indiviso a favore di tutti i comproprietari secondo quote ideali proporzionate alle quote di proprietà dell'area stessa, salvo che non si sia costituito nei modi e nelle forme di legge un altro diritto reale a favore del costruttore-condomino (Cass., Sez. I, 12.05.1973, n. 1297);
   - la costruzione eseguita dal comproprietario, sul suolo comune, diviene, per accessione, di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, restando esclusa l'applicabilità degli artt. 936 e ss. cod. civ., che riguardano la diversa ipotesi di opere eseguite da un terzo (Cass., Sez. II, 11.07.1978, n. 3479);
   - il principio dell'accessione di cui all'art 934 cod. civ. implica che, quando il suolo è comune, ricada nella comunione anche l'edificio costruito su di esso, tranne che i comproprietari del suolo medesimo abbiano provveduto con atto scritto alla determinazione reciproca del loro diritto sulle singole porzioni del costruendo edificio, destinato a diventare, a costruzione ultimata, di rispettiva proprietà esclusiva (Cass., Sez. II, 10.11.1980, n. 6034).
2.2. - Un altro e più recente orientamento ha invece affermato che la disciplina sull'accessione, contenuta nell'art. 934 cod. civ., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui: alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica tale disciplina, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità di detta disciplina, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all'uso delle cose comuni, cosicché le opere abusivamente create non possono considerarsi beni condominiali per accessione ma vanno considerate appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica (Cass., Sez. II, 22.03.2001, n. 4120; Cass., Sez. II, 27.03.2007, n. 7523).
3. -
Ritiene il Collegio che il più recente orientamento -che non è rimasto esente da critiche sollevate in dottrina- meriti di essere rimeditato nella sua portata, destando perplessità che l'edificazione sull'area comune da parte di uno solo dei comunisti in violazione degli artt. 1102 e ss. cod. civ., riceva il beneficio dell'assegnazione della proprietà esclusiva della costruzione, difficilmente inquadrabile in uno dei modi di acquisto stabiliti dall'art. 922 cod. civ..
Si tratterebbe semmai di tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina dell'accessione e della comunione, facendo convivere l'espansione oggettiva della comproprietà in caso di inaedificatio ad opera di uno dei comunisti (salvo che non si sia costituito nei modi e nelle forme di legge un altro diritto reale a favore del comproprietario costruttore) con la facoltà del comproprietario non costruttore di pretendere la demolizione della costruzione quando sia stata realizzata dall'altro comunista in violazione dei limiti posti dall'art. 1102 cod. civ. al godimento della cosa comune.

4. - Poiché la questione della sorte della costruzione realizzata su un fondo in comunione ordinaria tra il costruttore e un terzo e, in quest'ambito, dei modi attraverso i quali può riconoscersi in favore del comproprietario costruttore la proprietà esclusiva del manufatto edificato sul suolo comune, intercetta orientamenti giurisprudenziali non convergenti ed investe un tema di notevole impatto pratico anche sotto il profilo della circolazione della proprietà immobiliare, il Collegio ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

URBANISTICALa controversia attinente al rispetto di un dovere scaturito da una clausola di una convenzione inerente a un piano di lottizzazione urbanistica deve essere devoluta al giudice ordinario, trattandosi di questione relativa all'esercizio di diritti reali, che non coinvolgono l'esercizio di pubblici poteri, ma investono meri comportamenti dell'amministrazione comunale, non contemplati dal vigente art. 133 cod. proc. amm..
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Considerato che:
- viene in considerazione una controversia attinente al rispetto di un dovere scaturito da una clausola di una convenzione inerente a un piano di lottizzazione urbanistica, con la quale, a fronte della cessione a titolo gratuito di alcune aree destinate a verde pubblico da parte degli originari proprietari, "viene costituita, secondo le norme del Codice civile, servitù "non aedificandi" a carico di detto terreno ed a favore della residua proprietà Sp. o aventi causa sopradescritta nelle premesse; detta servitù non comprende le strutture necessarie per lo svolgimento di manifestazioni, la cui altezza massima non dovrà superare mt 3,50 dal piano di marciapiede del lungolago";
- la tesi secondo cui andrebbe dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo in quanto la domanda proposta dagli attori sarebbe volta "ad accertare l'inadempimento, da parte della p.a., di obbligo concepito (e pattuito) come strumentale rispetto al perfezionamento e all'esecuzione del rapporto di lottizzazione", impinge contro la natura reale del diritto fatto valere nel presente giudizio, che, benché scaturito dall'esecuzione della convenzione, sin dalla sua costituzione configura, per la sua intrinseca caratteristica di valenza erga omnes, una fonte autonoma di rapporti giuridici, ai quali va ricondotta l'azione proposta dagli attori e dagli intervenuti, sostanzialmente fondata sulle forme di tutela previste dall'art. 1079 cod. civ.;
- in altri termini, la nascita di un diritto reale, il quale, com'è noto, comporta la facoltà di godere del bene in maniera diretta, cui corrisponde un dovere di soggezione degli altri consociati, e non richiede, come avviene per i rapporti di natura obbligatoria, la cooperazione altrui, determina il superamento dei limiti di efficacia della convenzione (anche sotto il profilo soggettivo, tanto che nella specie agiscono gli aventi causa degli originari proprietari del terreno, in quanto proprietari del fondo dominante, e non quali parti della convenzione medesima), dalla quale, al di là del momento genetico, il diritto assoluto "in re aliena" totalmente prescinde, trovando nell'ordinamento specifiche e proprie forme di tutela;
- la tesi secondo cui, ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, dell'art. 11, comma 5, applicabile ratione temporis (non dissimile, per altro, dal vigente art. 133, comma 1, lett. a.2, del vigente cod. proc. amm.), è devoluta al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sostitutivi dei provvedimenti finali dei progetti di lottizzazione, confligge con la natura assoluta del diritto esercitato nella presente vicenda, non potendosi dubitare, sulla base del chiaro tenore del comma 2 di detta disposizione (secondo cui agli accordi in questione "si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili"), del carattere obbligatorio della materia riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo;
- non può poi omettersi di rilevare che, secondo un principio consolidato, l'elemento fondante della giurisdizione amministrativa, anche nell'ipotesi in cui sia attribuita in via esclusiva, è costituito dall'azione dell'amministrazione attraverso l'esercizio di pubblici poteri (Corte cost., nn. 179 del 2016; 191 del 2006 e 204 del 2004), nella specie non ravvisabile, posto che alla prospettata violazione della servitù di non edificare non risulta collegabile alcun provvedimento che in qualche modo incida, revocandola in tutto o in parte, sulla suddetta convenzione, con la conseguenza che nella specie il Comune agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri (Cass., Sez. U, 13.06.2012, n. 9592; Cass., Sez. U, 23.02.2010, n. 4319);
- in relazione alle azioni proposte dal privato nei confronti della P.A. in materia di servitù prediali, la giurisdizione del giudice ordinario, oltre che dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. U, 17.03.2010, n. 6406; Cass., Sez. U, 13.12.1993, n. 12267), è riconosciuta dalla stessa giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, 20.08.2013, n. 4179);
- che, pertanto, deve dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario, al quale si rimette la liquidazione delle spese del presente regolamento (Corte di cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 11.04.2017 n. 9284).

APPALTI: Alla Corte di giustizia la compatibilità alla disciplina comunitaria della normativa nazionale sugli accordi quadro.
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Contatti della Pubblica amministrazione – Accordi quadro – Artt. 59, commi 2, 3 e 4, d.lgs. n. 163 del 2006 e 54, d.lgs. n. 50 del 2016 – Prestazioni chieste da amministrazioni non firmatarie dell’accordo quadro – Quantità della prestazione – Compatibilità con la disciplina comunitaria – rimessione alla Corte di Giustizia Ue.
Devono essere rimesse alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, le questioni pregiudiziali:
   1) se gli artt. 2, comma 5, e 32 della direttiva 2004/18/UE e l’art. 33 della direttiva 2014/24/UE possano essere interpretati nel senso di consentire la stipulazione di un accordo quadro in cui: un’amministrazione aggiudicatrice agisca per essa stessa e per altre amministrazioni aggiudicatrici specificamente indicate, le quali però non partecipino direttamente alla sottoscrizione dell’accordo quadro stesso; non sia determinata la quantità delle prestazioni che potranno essere richieste dalle amministrazioni aggiudicatrici non firmatarie all’atto della conclusione da parte loro degli accordi successivi previsti dall’accordo quadro medesimo;
   2) nel caso in cui la risposta al quesito sub 1) fosse negativa, se gli artt. 2, comma 5, e 32 della direttiva 2004/18/UE e l’art. 33 della direttiva 2014/24/UE possano essere interpretati nel senso di consentire la stipulazione di un accordo quadro in cui: un’amministrazione aggiudicatrice agisca per essa stessa e per altre amministrazioni aggiudicatrici specificamente indicate, le quali però non partecipino direttamente alla sottoscrizione dell’accordo quadro stesso; la quantità delle prestazioni che potranno essere richieste dalle amministrazioni aggiudicatrici non firmatarie all’atto della conclusione da parte loro degli accordi successivi previsti dall’accordo quadro medesimo sia determinata mediante il riferimento al loro ordinario fabbisogno (1).

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   (1) La Sezione VI ha giudicato su due distinti appelli proposti contro un'unica sentenza, che ha deciso i ricorsi riuniti contro un unico provvedimento
Il provvedimento di primo grado impugnato è l'atto con il quale un'azienda, compresa nell'elenco allegato agli atti della gara originaria, aderisce al contratto già stipulato, ovvero stipula per sé senza una nuova gara, negoziando le quantità al momento dell'adesione.
Il primo ricorso in appello è stato proposto dell'Antitrust in sede di legittimazione straordinaria. Il secondo da un imprenditore del settore, il gestore uscente, che vuole una nuova gara.
La Sezione si è posta innanzitutto il problema di qualificare la fattispecie. L'ipotesi, appunto, è quella di un accordo quadro concluso per sé, da parte della prima stipulante, e in rappresentanza delle aziende dell'elenco. Ha chiarito che il rapporto fra la prima stipulante e queste ultime é irrilevante verso l'esterno: potrebbe esserci una procura a monte, ma se non ci fosse la successiva adesione varrebbe ratifica, equivalente a una procura originaria perché un appalto da eseguire in futuro non pone problemi di retroattività.
In base a tale qualificazione giuridica, la Sezione si è chiesta se l'oggetto del contratto concluso all'atto dell'adesione debba essere determinato da subito in tutti i suoi elementi - sia sotto l’aspetto soggettivo, con indicazione in modo specifico degli enti che se ne potrebbero avvalere, sia sotto l’aspetto oggettivo, nel senso di prevedere il “valore economico” della possibile estensione, anche nei termini di un importo massimo (Cons. St., sez. V, 11.02.2014, n. 664; id., sez. III, 04.02.2016, n. 442 e 20.10.2016 n. 4387), - oppure possa essere non determinato, o solo determinabile, quanto alle quantità da fornire.
Il diritto civile consente tutte queste soluzioni: l'oggetto del contratto pacificamente può essere determinabile, ma sarebbe valido anche un contratto in cui la quantità della prestazione non è determinata affatto, mentre lo sono i prezzi. In questo caso, infatti, l'accordo quadro avrebbe per oggetto la messa a disposizione di servizi a un dato prezzo, per la quantità richiesta al momento.
Il problema invece è dato dalle norme di settore, sull'obbligo di gara, che ove il contratto dell'aderente non sia già previsto per intero nell'accordo quadro, viene derogato.
La Sezione ha ritenuto che la deroga potrebbe essere contenuta nella norma sull'accordo quadro (artt. 59, commi 2, 3 e 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e 54, d.lgs. 18.04.2016, n. 50) ed ha formulato due quesiti alla Corte.
Il primo, ove assentito, porterebbe alla validità dell'adesione nell'ipotesi massima, in cui la quantità non è proprio determinata. Il secondo, prospettato in subordine, rinvia ad un accordo quadro ove la quantità è determinabile con riguardo al parametro indicato, comunque assai elastico (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 11.04.2017 n. 1690 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Agevolazione pubbliche ad impresa in concordato preventivo omologato.
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Contributi e finanziamenti – Esclusione – Impresa in concordato preventivo omologato – Legittimità.
E’ legittima l’esclusione di una impresa in concordato preventivo omologato dalla procedura finalizzata all’elargizione di agevolazioni pubbliche (1).
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   (1) Il Tar ha preliminarmente ricordato che la normativa comunitaria in materia di aiuti di stato di cui ai regolamenti della Commissione UE n. 651 e n. 702 del 2014 definisce in difficoltà una impresa oggetto di procedura concorsuale per insolvenza o che soddisfi le condizioni previste dal diritto nazionale per l’apertura nei suoi confronti di una tale procedura su richiesta dei creditori.
Il Tribunale ha quindi escluso che si possano utilmente invocare le disposizioni che consentono la partecipazione a procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici delle imprese in concordato preventivo con continuità aziendale, proponendone una lettura e applicazione per analogia. Le norme di cui agli artt. 80, comma 5, lett. b), e 110, commi 3, 4 e 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e dell’art. 186-bis, comma 5, r.d. 16.03.1942, n. 267, recanti il puntuale riferimento al concordato con continuità aziendale, costituiscono, infatti, una disciplina speciale, che, pur evidenziando il favor riservato dal legislatore verso l’istituto del concordato con continuità aziendale (che può permettere alle imprese in difficoltà di superare la fase di crisi e di soddisfare i diritti dei creditori, tra l’altro, anche e proprio attraverso i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività aziendale), si pone in deroga a regole di principio e non consente di essere utilizzata quale canone ermeneutico per l’applicazione di disposizioni concernenti il settore generale delle agevolazioni alle imprese
Ha infine concluso il Tar che riconoscere il diritto alle agevolazioni significherebbe consentire il raggiungimento della finalità del concordato (e così il soddisfacimento dei creditori) mediante risorse pubbliche, con ciò distorcendo la ratio sia del concordato stesso, teso al raggiungimento dell’equilibrio dell’impresa con le sue forze, sia del beneficio economico richiesto, funzionale all’espansione della nuova imprenditoria e al sostegno dell’economia (TRGA Trentino Anto Adige-Trento, sentenza 10.04.2017 n. 127 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso spese legali sostenute da impiegato assolto in sede penale.
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Pubblico impiego privatizzato – Spese legali – Rimborso – Presupposti – Art. 18, d.l. n. 67 del 1997 – Giudizi promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali – Necessità – Assoluzione in sede penale – Irrilevanza ex se – Fattispecie.
E’ legittimo il diniego di rimborso delle spese legali, ex art. 18, d.l. 25.03.1997, n. 67, sostenute da un assistente di polizia giudiziaria, sottoposto a procedimento penale, e poi assolto, per i reati di cui agli artt. 323 (abuso d’ufficio) e 340 (interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità) c.p. e all’art. 72 (abbandono del posto di servizio), l. 01.04.981, n. 121 -perché disattendendo le disposizioni e la prassi vigente e senza autorizzazione, si era recato in una sezione diversa da quella di assegnazione intrattenendosi a colloquiare con detenuti- non dipendendo i fatti che hanno portato a giudizio il ricorrente in diretta connessione con i fini dell’amministrazione e non essendo quindi dato riscontrare l’imprescindibile presupposto (giudizi promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali) che, oltre all’assenza di responsabilità definita con sentenza o provvedimento, condiziona il riconoscimento del rimborso delle spese legali ai dipendenti secondo le norme più volte richiamate (1).
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   (1) Ha preliminarmente ricordato il Tar che l’art. 18, d.l. 25.03.1997, n. 67, convertito nella l. 23.05.1997, n. 135, subordina il rimborso delle spese legali a favore di dipendenti di amministrazioni statali coinvolti in giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, non solo all’esclusione della loro responsabilità ma, altresì, alla circostanza che i predetti giudizi siano promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali.
Il rimborso di cui trattasi assolve, infatti, la funzione di ripristinare la situazione di esposizione economica del dipendente ingiustamente coinvolto in procedimenti giudiziari, addossando l’onere relativo all’amministrazione di appartenenza, implicitamente ma coerentemente riconoscendo l’immedesimazione tra l’azione del dipendente e la funzione dell’ente di appartenenza.
Perciò, l’interpretazione rigorosa dell’inciso “in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali”, comporta che l’assunzione a carico dell’amministrazione dei costi di difesa sconta la riconducibilità dei fatti nell’ambito puntuale dei doveri di istituto propri del dipendente. La mera prestazione lavorativa, pertanto, non rileva sufficientemente alla luce delle finalità del sistema che implica, viceversa, che i fatti e i comportamenti denotino una comunione degli interessi perseguiti dal dipendente e dall’amministrazione di appartenenza (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 10.04.2017 n. 126 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGara, il Rup non può fare il commissario. Se ha svolto ruoli per lo stesso concorso.
Il responsabile del procedimento che ha svolto funzioni tecniche e amministrative in una gara non può svolgere anche il ruolo di commissario di gara.

È quanto ha affermato il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la sentenza 06.04.2017 n. 603 concernente la compatibilità del ruolo di commissario di gara assunto da un responsabile del procedimento.
I giudici partono dalla presa in esame della giurisprudenza sviluppatasi sulla materia precisando che, ai sensi dell'art. 84, comma 4, del vecchio codice appalti nelle gare pubbliche i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. L'obiettivo della disposizione è quello di assicurare due concorrenti ma distinti valori: quello dell'imparzialità e quello dell'oggettività.
In altre parole, l'articolo 84 ha lo scopo di prevenire il pericolo concreto di possibili effetti discorsivi e favoritismi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura di gara definendo i contenuti e le regole della procedura.
Nella fattispecie sottoposta all'attenzione dei giudici la sentenza evidenzia che il Rup (Responsabile unico del procedimento) ha svolto le funzioni di responsabile del procedimento, e che in tale veste, ha predisposto e approvato gli atti di gara (determina a contrarre, bando e capitolato, tutti approvati con determinazione a contrattare).
Inoltre, lo stesso Rup ha curato tutti gli adempimenti amministrativi di sua competenza, adottando la determinazione di approvazione dei verbali di gara e di aggiudicazione definitiva e ha prontamente adottato e sottoscritto il verbale di consegna del servizio in via d'urgenza e sotto riserva di legge.
In conclusione, quindi, per i giudici la predisposizione di alcuni atti della procedura di gara non costituisce un'operazione di natura meramente formale, ma implica, necessariamente, un'analisi degli stessi, una positiva valutazione e, attraverso la formalizzazione, una piena condivisione (articolo ItaliaOggi del 14.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: E' illegittimo che il RUP sia anche membro della commissione di gara.
La giurisprudenza è unanime nel ritenere che, ai sensi dell’art. 84 comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nelle gare pubbliche i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta.
Tale prescrizione mira ad assicurare due concorrenti ma distinti valori: quello dell'imparzialità e quello dell'oggettività.
In sostanza, l’art. 84 citato è volto a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti discorsivi e favoritismi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale definendo i contenuti e le regole della procedura.

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... Per l'annullamento, previa idonea tutela cautelare, della determinazione n. 3 del 18.03.2016 della Centrale Unica di Committenza “Sersale – Cropani – Zagarise – Sellia Marina”, recante ad oggetto “Nomina della commissione di gara per il servizio di supporto agli uffici”;
...
3. Parte ricorrente impugna i provvedimento per l’illegittima composizione della commissione di gara di cui è stata nominata componente, con funzioni diverse da quelle di Presidente, il responsabile del procedimento e del settore amministrativo e tributi del Comune di Cropani, dott.ssa Gi.Fe..
Questo principale motivo ha natura assorbente in rapporto alle argomentazioni delle parti; infatti, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che, ai sensi dell’art. 84, comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nelle gare pubbliche i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta.
Tale prescrizione mira ad assicurare due concorrenti ma distinti valori: quello dell'imparzialità e quello dell'oggettività (cfr. Tar Lecce, sez. II, sentenza n. 93/2017 del 23.01.2017; Tar Lecce, sez. II, sentenza n. 1040 del 27.06.2016).
In sostanza, l’art. 84 citato è volto a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti discorsivi e favoritismi prodotti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale definendo i contenuti e le regole della procedura (cfr. Tar Latina, sez. I, 13.04.2016, n. 226; Cons. St. n. 3352/2015).
Nel caso in esame, è incontestato che la dott.ssa Fe. ha svolto le funzioni di responsabile del procedimento, e che in tale veste, ha predisposto e approvato gli atti di gara (determina a contrarre, bando e capitolato, tutti approvati con determinazione n. 19 del 26.02.2016), ha curato tutti gli adempimenti amministrativi di sua competenza e da ultimo ha adottato la determinazione n. 8 del 06.02.2017 di approvazione dei verbali di gara e di aggiudicazione definitiva e ha prontamente adottato e sottoscritto il verbale di consegna del servizio in via d’urgenza e sotto riserva di legge di cui al prot. n. 1063 dell’08.02.2017.
L’aver predisposto alcuni atti della procedura di gara non costituisce un’operazione di natura meramente formale ma implica, necessariamente, un’analisi degli stessi, una positiva valutazione e –attraverso la formalizzazione– una piena condivisione.
In sostanza, la dott.ssa Fe. ha effettuato una «funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta» il cui svolgimento è precluso ai componenti la Commissione giudicatrice che, pertanto, nel caso concreto, risulta viziata nella sua composizione.
Pertanto, vi è senz’altro violazione del citato art. 84 e tale violazione è idonea a determinare l’annullamento dei provvedimenti impugnati. Il fatto che la gara rientri in una delle categorie escluse dall’applicazione del Codice degli appalti non incide sull’esito della controversia, in quanto la disposizione costituisce espressione dei principi di imparzialità e oggettività ed è quindi applicabile anche ai contratti esclusi ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. 163/2006.
Ne discende che il ricorso deve trovare accoglimento (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 06.04.2017 n. 603 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Termine per impugnare l’ammissione di altro concorrente se è mancata la pubblicità sul profilo del committente.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione altro concorrente – Omessa pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 – Conseguenza.
Qualora siano mancate le forme di pubblicità sul profilo del committente, nella sezione trasparenza, previste dall’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il termine di trenta giorni previsto dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. per l’impugnazione dell’ammissione di altro concorrente comincia a decorrere solo dalla data di invio della Pec che comunica l’avvenuto affidamento dell’appalto, con conseguente applicazione del rito appalti ordinario in luogo di quello superaccelerato (1).

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   (1) Il Tar ha ricordato come tale conclusione sia conforme ai principi più volte ribaditi in ambito comunitario (Corte giust. comm. ue 26.11.2015, C-166/14 e 08.05.2014, C-161/13) che evidenziano la violazione del principio di effettività laddove la normativa nazionale obbliga alla proposizione di determinati ricorsi senza consentire una previa completa conoscenza degli atti (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 05.04.2017 n. 340 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
13.2. - Per tutto quanto rilevato, il Collegio ritiene che,
nel caso di specie, essendo mancata la pubblicazione sul profilo del committente, soltanto dalla data di invio della pec decorra il termine dei trenta giorni previsto per l’impugnativa dell’unico provvedimento che ha reso noto l’elenco delle ditte ammesse e di quella risultata aggiudicataria.
In tal senso depone quanto da ultimo ribadito dal Consiglio di Stato (sez. Cons. Sato, sez. III, sent. 4994 del 25.11.2016, richiamata anche dal ricorrente e riferita all’applicazione dell’art. 120, comma 6-bis, c.p.a, introdotto dall’art. 204 D.Lgs. n. 50 del 2016, seppure con riferimento al diverso profilo del regime temporale di applicazione delle nuove regole processuali) ai sensi del quale “in difetto del (contestuale) funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione –che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile- la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito” e che i dubbi circa l’applicazione delle nuove regole processuali debbono “essere risolti preferendo l’opzione ermeneutica meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa (e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24 e 113)”.
Tale orientamento, del resto, risulta conforme ai principi più volte ribaditi in ambito comunitario (il riferimento è alle più recenti sentenze della Corte di Giustizia 26.11.2015, C-166/14 e 08.05.2014, C-161/13 che evidenziano la violazione del principio di effettività laddove la normativa nazionale obbliga alla proposizione di determinati ricorsi senza consentire una previa completa conoscenza degli atti).

APPALTI: Termine per impugnare gli atti di gara.
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Processo amministrativo – Atto impugnabile – Comunicazione inizio procedimento annullamento in autotutela atti di gara – Omessa tempestiva impugnazione provvedimento definitivo di annullamento – Improcedibilità del ricorso.
Processo amministrativo – Rito appalti – Termine dimidiato impugnazione atti di gara – Dies a quo – Art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 – Dalla pubblicazione degli atti sul profilo del committente.
E’ improcedibile il ricorso proposto contro l’atto con il quale la stazione appaltante ha comunicato l’intenzione di procedere in autotutela all’annullamento della gara (per un'incongruenza fra quanto richiesto nell'avviso di manifestazione di interesse e quanto poi esplicitato negli elaborati di gara, tale da comportare un restringimento della platea dei possibili concorrenti) prima di disporre l’aggiudicazione provvisoria, ove non sia stata poi impugnata tempestivamente lo stesso provvedimento di annullamento d’ufficio (1).
Ai sensi dell’art. 120, comma 5, c.p.a., il termine dimidiato per impugnare gli atti di gara decorre, per le gare alle quali si applica il nuovo codice dei contratti pubblici (approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50), dalla pubblicazione di tali atti, con le modalità previste dall’art. 29, sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33, senza che quindi possa rilevare, al fine di far slittare in avanti il dies a quo del termine per l’impugnazione, il deposito in giudizio degli atti di gara da parte dell’Amministrazione resistente (2).
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   (1) Ha ricordato il Tar che gli atti endoprocedimentali sono impugnabili in via autonoma, in quanto la lesione della sfera giuridica del destinatario è di regola imputabile solo all'atto che conclude il procedimento. Peraltro, è ammissibile l’impugnazione anticipata di tali atti in via meramente eccezionale solo nei casi in cui, in ragione della natura vincolata, gli stessi siano idonei a conformare in maniera netta la determinazione conclusiva del procedimento, ovvero, quando questi spieghino in via diretta ed immediata una autonoma portata pregiudizievole della sfera giuridica dei destinatari.
Peraltro, ancorché possa ammettersi l'immediata impugnabilità degli atti preparatori immediatamente lesivi, allo scopo di garantire un'immediata tutela giurisdizionale, anche cautelare, tuttavia tale possibilità di immediata impugnazione dell'atto lesivo non può certo tradursi in un esonero dal dovere di impugnare anche l'atto finale.
Se, infatti, l'anticipazione della tutela di impugnazione costituisce un ampliamento degli strumenti di tutela degli interessati, attraverso la deroga alla regola generale secondo cui va impugnato solo l'atto finale e conclusivo del procedimento, ciò non esime gli interessati dal far valere anche contro il provvedimento che conclude il procedimento i vizi già sollevati avverso gli atti preparatori, ancorché in via derivata; diversamente, in assenza di impugnativa del provvedimento finale, questi si consoliderà nei suoi effetti e diverrà inoppugnabile.
   (2) Ha chiarito il Tar che è onere del concorrente, tanto più in pendenza di un contenzioso, verificare sul profilo del committente la pubblicazione degli atti di gara. Tale onere risultava nella specie rafforzato dalla pendenza del contenzioso e dall’avviso (gravato con l’atto introduttivo del giudizio) che sarebbe stato adottato l’atto definitivo di annullamento d’ufficio della gara, già preannunciato con l’atto oggetto del ricorso introduttivo, revoca poi puntualmente adottata e pubblicata in applicazione delle regole di trasparenza degli atti relativi alle procedure di affidamento previste ora dal nuovo codice dei contratti (
TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 04.04.2017 n. 4190 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Obbligo di provvedere su istanza che riguarda materia oggetto di contenzioso.
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Silenzio della P.A. – Obbligo di provvedere – Istanza su questione oggetto di ricorso straordinario al Capo dello Stato – Non sussiste.
La pendenza di un ricorso straordinario al Capo dello Stato legittima l’Amministrazione a non rispondere ad un’istanza del ricorrente, non essendo configurabile un obbligo di provvedere allorquando l'istanza riguardi materia oggetto di contenzioso, amministrativo o giudiziario, pendente fra l’amministrazione e lo stesso istante (1).
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   (1) Cons. St., sez. V, 22.10.2012, n. 5404.
Ha chiarito il Tar che diversamente opinando si avrebbe –attraverso la proposizione del giudizio contro il silenzio– la surrettizia introduzione di una lite avente oggetto sovrapponibile a quello del contenzioso già pendente, situazione inammissibile alla stregua dei principi generali sulla litispendenza, oltre che, nella specie, del già richiamato principio di separazione e autonomia fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale: separazione e autonomia che sarebbero certamente violate se, come chiesto dal ricorrente, il giudice accertasse la spettanza del bene della vita che costituisce l’oggetto sostanziale della pretesa già azionata con il ricorso straordinario (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 04.04.2017 n. 518 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La prospettazione è infondata.
2.1.
In virtù del principio di alternatività fra ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e ricorso giurisdizionale, il provvedimento pregiudizievole può essere impugnato dinanzi all’una o all’altra sede cui l’ordinamento affida la decisione della controversia, a discrezione dell’interessato.
Laddove al primo provvedimento, impugnato, ne faccia seguito un altro, consequenziale e parimenti lesivo, ancora una volta compete all’interessato scegliere se e in quale sede proporre una nuova impugnativa, senza peraltro essere condizionato dalla scelta operata in precedenza. Ne discende che le impugnative di atti fra loro in rapporto di presupposizione/consequenzialità ben possono pendere contestualmente in sedi differenti (giustiziale straordinaria per l’uno, giurisdizionale per l’altro, e viceversa).
Nella specie, in costanza del ricorso straordinario già proposto avverso il provvedimento che ne aveva disposto l’esclusione dal corso di specializzazione per incursori, il ricorrente ha chiesto ed ottenuto dinanzi al TAR l’annullamento della sanzione disciplinare, che dell’esclusione rappresentava il presupposto. Nondimeno, nel rispetto della reciproca autonomia delle sedi di impugnazione, il TAR nell’annullare la sanzione non si è in alcun modo pronunciato sulla legittimità della successiva esclusione dal corso, trattandosi di valutazione riservata al Consiglio di Stato e al Presidente della Repubblica investiti del ricorso straordinario.
La pendenza del ricorso straordinario avverso l’esclusione dal corso legittima poi, per quanto attiene al presente giudizio, il silenzio serbato dall’amministrazione resistente sulle istanze di rilascio del brevetto provenienti dall’interessato, non essendo configurabile un obbligo di provvedere allorquando l'istanza riguardi materia oggetto di contenzioso giudiziario pendente fra l’amministrazione e lo stesso istante (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.10.2012, n. 5404).
Diversamente, si avrebbe –attraverso la proposizione del giudizio contro il silenzio– la surrettizia introduzione di una lite avente oggetto sovrapponibile a quello del contenzioso già pendente, situazione inammissibile alla stregua dei principi generali sulla litispendenza, oltre che, nella specie, del già richiamato principio di separazione e autonomia fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale: separazione e autonomia che sarebbero certamente violate se, come chiesto dal ricorrente, il giudice accertasse la spettanza del bene della vita (l’attribuzione della qualifica di incursore) che costituisce l’oggetto sostanziale della pretesa già azionata con il ricorso straordinario.

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria:
- piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario;
- eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori;
- lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori;
- la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria;
- il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.

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Costituisce ius receptum, il principio secondo cui, in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa (Sez. 3, 27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi; 10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013, Rv. 257676; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv.261522) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.04.2017 n. 16544).

EDILIZIA PRIVATAAree colpite da sisma - Realizzazione di alloggio abitativo antisismico - Disciplina emergenziale - Rispetto del principio di legalità - Abuso di ufficio - Art. 97 Costituzione - Fattispecie: ottenimento illeciti benefici preclusi nelle situazioni ordinarie.
La normativa emergenziale non rende legibus solutus chi deve fare fronte ad eventi così devastanti per la collettività e non affranca alcuno dal rispetto del principio di legalità, che anzi deve maggiormente e soprattutto in questi casi, così dirompenti e distruttivi per la vita delle popolazioni colpite, costituire l'essenza dell'attività amministrativa, secondo il paradigma costituzionale declinato dall'articolo 97 della Costituzione, in maniera da evitare che tali disastri si risolvano in favoritismi assicurati a soggetti che alcun danno dal sisma abbiano subito e che, approfittando invece della situazione emergenziale, mirino ad ottenere illeciti benefici a loro preclusi nelle situazioni ordinarie (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni edilizie e illecito edilizio - Garanzia circa la regolare esecuzione dei lavori - Responsabilità del direttore dei lavori - Esclusione della responsabilità - Ottemperanza all'obbligo di comunicazione e rinuncia tempestiva all'incarico - Artt. 11, 12, 29 e 44 d.p.r. n. 380/2001.
In tema di costruzioni edilizie abusive, il direttore dei lavori ha una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione dei lavori, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente soltanto ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in via obiettiva, ovvero non appena avuta conoscenza che le direttive impartite erano state disattese o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005, Scimone) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio - Macroscopica illegittimità dell'atto compiuto - Accertamento dell'accordo collusivo - Esclusione - Prova del dolo intenzionale - Art. 323 codice penale.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Cass. Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta).
Abuso d'ufficio - Concorso nel reato di estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio - Configurabilità - Compartecipazione all'attività criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio - Responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio.
Anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio possono concorrere nel reato di abuso d'ufficio, quando vi sia compartecipazione di questi all'attività criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, n. 2140 del 25/05/1995, Tontol), in quanto per la configurabilità della responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio, è sufficiente, da un lato, la cooperazione materiale ovvero, come nel caso in esame, la determinazione o l'istigazione a commettere il reato, ed è indispensabile, dall'altro, che l'intraneo, esecutore materiale del delitto di abuso d'ufficio, sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità (Sez. 6, n. 40303 del 08/07/2014, Zappia) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATARIFIUTI - Materiali provenienti da demolizione - Deposito temporaneo - Luogo di produzione rilevante - Disponibilità dell'impresa produttrice funzionalmente collegato al luogo di produzione - Requisiti minimi e condizioni di sicurezza - Fattispecie - Artt. 183 e 256, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, per luogo di produzione rilevante ai fini della nozione di deposito temporaneo, ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006, deve intendersi quello in cui i rifiuti sono prodotti, ovvero che si trovi nella disponibilità dell'impresa produttrice e nel quale gli stessi sono depositati, purché funzionalmente collegato al luogo di produzione e dotato dei necessari presidi di sicurezza.
Nella specie non ravvisabili, in considerazione sia della diversa titolarità dell'area di produzione e dell'area di deposito (essendo irrilevante al riguardo la riferibilità delle due società proprietarie del cantiere e del luogo di deposito alla medesima persona fisica), sia della insussistenza di un collegamento funzionale tra l'area di produzione dei rifiuti e quella di deposito (non ravvisabile nella sola difficoltà di eseguire il trasporto dei rifiuti dal luogo di produzione, che non determina un nesso derivante dalla attività a seguito della quale sono stati prodotti i rifiuti); proprio sulla base della ricostruzione compiuta dal ricorrente il deposito in esame risulta privo delle caratteristiche di deposito temporaneo, non essendo stato chiarito il titolo in base al quale esso sia nella disponibilità dell'impresa produttrice, e non essendo tale luogo funzionalmente, cioè sulla base di un collegamento con l'attività produttiva, legato a quello di produzione dei rifiuti, con la conseguenza che risultano evidentemente insussistenti i presupposti per poter ravvisare un deposito temporaneo di rifiuti.
RIFIUTI - Nozione di deposito controllato o temporaneo - Raggruppamento di rifiuti nel luogo in cui sono stati prodotti - Requisiti normativi - Assenza anche di uno dei requisiti normativi - Qualificazione a deposito preliminare, messa in riserva o abbandono di rifiuti.
Per deposito controllato o temporaneo si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, nel rispetto delle condizioni dettate dall'art. 183, comma 1, lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006 (secondo cui costituisce deposito temporaneo "il raggruppamento dei rifiuti e il deposito preliminare alla raccolta ai fini del trasporto di detti rifiuti in un impianto di trattamento, effettuati, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, da intendersi quale l'intera area in cui si svolge l'attività che ha determinato la produzione dei rifiuti o, per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del codice civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci, alle seguenti condizioni:
   1) i rifiuti contenenti gli inquinanti organici persistenti di cui al regolamento (CE) 850/2004, e successive modificazioni, devono essere depositati nel rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio e l'imballaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e gestiti conformemente al suddetto regolamento;
   2) i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;
   3) il "deposito temporaneo" deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
   4) devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose;
   5) per alcune categorie di individuate con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministero per lo sviluppo economico, sono fissate le modalità di gestione del deposito temporaneo
"): ne consegue che, in difetto anche di uno dei requisiti normativi, il deposito non può ritenersi temporaneo (cfr. Sez. 3, n. 38676 del 20/05/2014, Rodolfi), ma deve essere qualificato, a seconda dei casi, come "deposito preliminare" (se il collocamento di rifiuti è prodromico ad un'operazione di smaltimento), come "messa in riserva" (se il materiale è in attesa di un'operazione di recupero), come "abbandono" (quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero) o come "discarica abusiva" (nell'ipotesi di abbandono reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16441 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOPermesso di costruire rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Configurabilità del reato di abuso di ufficio.
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Effettiva estensione dell'area boscata - Area sottoposta a vincolo - False attestazioni del tecnico progettista - Art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. 42/2004 - Art. 13, 44, lett. b), d.P.R. 380/2001.

L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo; conf., Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino).
Fattispecie: in relazione ai reati di cui agli artt. 323 cod. pen. (per avere rilasciato un permesso di costruire, mediante il quale era stata assentita la costruzione di un nuovo fabbricato, illegittimo per violazione di legge) e 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 (per avere concorso con il proprietario del fondo alla realizzazione di scavi di fondazione con platea in cemento e movimentazione terra, sulla base di permesso di costruire illegittimo), e con riferimento al tecnico progettista e redattore di una relazione tecnico progettuale, contenente false attestazioni circa l'effettiva estensione dell'area boscata di un fondo in relazione al quale era stato chiesto il rilascio di permesso di costruire, in relazione al reato di cui all'art. 481, comma 2, cod. pen. (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16436 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Residui da demolizione - Ambito di classificazione - Limiti alla riconducibili alle categorie delle materie prime secondarie o dei sottoprodotti - Giurisprudenza.
I residui da demolizione non sono riconducibili alle categorie delle materie prime secondarie o dei sottoprodotti, quando non sono destinati, fin dalla loro produzione, all'integrale riutilizzo senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale (ex multis, Cass. Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015). Fattispecie: realizzazione di una discarica abusiva per lo smaltimento di materiale proveniente da demolizione di un capannone.
RIFIUTI - Materiali provenienti da demolizione - Nozione di processo di produzione - Distinzione tra rifiuti e sottoprodotti - Presupposti normativi e onere della prova - Artt. 183, 184-bis e 256, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256, commi 1-3, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015).
E ciò perché l'attività di demolizione di un edificio non può ordinariamente essere definita un "processo di produzione" quale quello indicato dall'art. 184-bis, comma 1, lettera a), del d.lgs. 152 del 2006; con la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti (Cass., Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015; Sez. 3, n. 42342 del 09/07/2013).
CODICE DELL'AMBIENTE - RIFIUTI - Nozione di deposito temporaneo - Condizioni per lo stoccaggio.
In tema di rifiuti, rientra nella nozione di deposito temporaneo, esclusivamente, lo stoccaggio effettuato in presenza delle condizioni di qualità, di tempo, di quantità, di organizzazione tipologica e di rispetto delle norme tecniche richieste ai sensi dell'art. 183, comma primo, lett. m) (ora lettera bb), del d.lgs. n. 152 del 2006 (Sez. 3, n. 47991 del 24/09/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16431 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALa decadenza del permesso di costruire è un provvedimento tipico che può legittimamente essere emanato soltanto in presenza delle due ipotesi tassativamente disciplinate dall'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, ossia nel caso di inutile decorso dei termini stabiliti dalla legge per l'inizio e la fine dei lavori, ovvero qualora sopravvengano previsioni urbanistiche contrastanti con il permesso rilasciato, purché i lavori non siano iniziati.
Ne deriva che non è consentito all'amministrazione comunale determinare autonomamente ulteriori cause di decadenza automatica del permesso di costruire.

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Ed invero occorre innanzitutto evidenziare che il Comune di Castel Volturno si è pronunciato sulla decadenza dei permessi di costruire in esecuzione di quanto disposto da questa Sezione con sentenza n. 3011 del 15.06.2016 in ordine alla sussistenza dell’obbligo di provvedere sulla argomentata istanza di accertamento della decadenza dei permessi di costruire n. 212/06 e n. 143/08, contenuta nelle diffide sopra richiamate presentate da parte ricorrente.
Al riguardo si osserva che, alla luce del chiaro tenore della suddetta disposizione normativa e della prevalente giurisprudenza dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, la decadenza del permesso di costruire è un provvedimento tipico che può legittimamente essere emanato soltanto in presenza delle due ipotesi tassativamente disciplinate dall'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, ossia nel caso di inutile decorso dei termini stabiliti dalla legge per l'inizio e la fine dei lavori, ovvero qualora sopravvengano previsioni urbanistiche contrastanti con il permesso rilasciato, purché i lavori non siano iniziati; ne deriva che non è consentito all'amministrazione comunale determinare autonomamente ulteriori cause di decadenza automatica del permesso di costruire (cfr. ex multis TAR Napoli, Sez. II, 02.11.2016, n. 5026, Consiglio di Stato, Sez. III, 04.04.2013 n. 1870; TAR Puglia Bari, Sez. III, 14.01.2009 n. 33)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 29.03.2017 n. 1721 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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Deve altresì ritenersi infondato il secondo motivo di ricorso con il quale parte ricorrente lamenta la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento da parte del Comune di Castel Volturno.
Al riguardo va rilevato che, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (cfr. ex multis TAR Napoli, Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538, 07.01.2015 n. 44; Consiglio di Stato, VI Sezione, 08.05.2014, n. 2363 e 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, Sezione IV, 23.01.2012, n. 282, 10.08.2011, n. 4764, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 29.03.2017 n. 1721 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Inammissibili le azioni di accertamento dei giudizi proposti avverso le procedura di gara pubblica.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Accertamento insufficienza economica dell’offerta della controinteressata – Azione di accertamento – Inammissibilità – Ratio.
E' inammissibile il ricorso con il quale è contestata la sufficienza economica dell’offerta presentata dalla controinteressata, già esclusa dalla procedura ma per il solo rilievo della non distinguibilità dei costi di sicurezza aziendale, finendo così per proporre un’azione di accertamento da parte del giudice in ordine all'adeguatezza dell'offerta stessa, in assenza di espressa pronuncia sul punto della commissione di gara, mentre la normativa contempla nei ricorsi proposti avverso gli atti di gara pubblica solo azioni di tipo impugnatorio, volte all’annullamento degli atti della procedura ad evidenza pubblica (1).
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   (1) Soffermandosi sull’esclusione del concorrente dalla gara per la non distinguibilità dei costi di sicurezza aziendale, il Tar ha ricordato che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata con ordinanza 10.11.2016, n. 697, riconoscendo l’illegittimità dell’esclusione di offerte economiche dalle procedure di affidamento di appalti pubblici disposta per la sola ragione dell’omesso scorporo degli oneri di sicurezza aziendale, senza consentire che in sede istruttoria i costi della sicurezza possano essere specificamente distinti.
Ad avviso dei Giudici comunitari “il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che(essi) ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice” (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 29.03.2017 n. 675 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia la legittimazione ad impugnare l'aggiudicazione da parte dell'operatore economico che non ha partecipato alla gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti - Legittimazione a ricorrere – Mancata presentazione della domanda di partecipazione alla gara – Impugnazione dell’aggiudicazione - Difetto di legittimazione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia ue la questione se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (25.02.2014, n. 9) afferma che, con riferimento alle controversie aventi ad oggetto gare di appalto, sia legittimato a proporre il ricorso esclusivamente l’operatore economico che abbia partecipato alla procedura oggetto di contestazione, giacché solo in tale ipotesi il ricorrente sarebbe titolare di una situazione differenziata e dunque meritevole di tutela. A tale regola generale fanno eccezione talune ipotesi tra le quali, per quel che rileva nel caso in esame, l’eventualità in cui il ricorrente contesti in radice la procedura di gara, atteso che, in tale caso, “la mancata partecipazione alla gara, ostativa all’ammissibilità del ricorso, è del tutto equiparabile alla situazione di chi ne sia stato legittimamente escluso" (v. anche Cons. St., sez. IV, 20.04.2016, n. 1560).
La sentenza della Corte costituzionale 22.11.2016 n. 245 propone un’interpretazione del requisito processuale dell’interesse ad agire tale per cui sarebbe inammissibile il ricorso proposto dalla impresa che non ha partecipato alla gara quando non sarebbe assolutamente certo ma soltanto altamente probabile che, per effetto della strutturazione della gara (ad esempio dimensione dei lotti) ovvero per effetto della normativa di gara l’impresa stessa non potrebbe conseguire l’aggiudicazione.
Sul punto v anche Cons. St., sez. IV 06.02.2017, n. 481 e id., sez. III, 03.02.2017, n. 474, onde il consolidarsi di un’interpretazione che può preludere alla formazione del diritto vivente nel senso, restrittivo della possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale, stabilito dalla pronuncia della Corte costituzionale italiana. Evidenti appaiono le conseguenze sull’effettività della tutela del diritto alla concorrenza di tale ultimo orientamento.
La possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale sarebbe condizionata alla partecipazione alla gara, partecipazione che comporta di per sé rilevanti oneri, e ciò anche nel caso in cui l’impresa intendesse contestarne la legittimità per essere la gara stessa eccessivamente restrittiva della concorrenza, partecipazione che si renderebbe del tutto inutile dal momento che le chances di aggiudicazione sarebbero, fin dall’inizio, inesistenti o estremamente limitate (TAR Liguria, Sez. II, ordinanza 29.03.2017 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAccesso agli atti anche se il termine è spirato. Il Tar del Lazio interviene in materia di gare d'appalto.
Nella gara d'appalto si può chiedere l'accesso ai documenti sui requisiti soggettivi anche se è spirato il termine per impugnare l'ammissione dell'aggiudicataria provvisoria.

Lo ha sancito il TAR Lazio-Roma, Sez. III, con la sentenza 28.03.2017 n. 3971.
La seconda classificata non aveva potuto visionare il carteggio dei verbali e delle offerte. L'accesso era stato in parte differito (offerte economiche e tecniche) fino all'aggiudicazione definitiva e in parte definitivamente negato (busta A), in assenza del ricorso entro il termine (30 giorni) del rito superaccelerato. Il collegio ha bacchettato la p.a. valutando insufficiente il fatto che non fosse stata presentata l'impugnativa, anche perché non era precluso all' interessato di rivolgersi all'Anac per ottenere un parere di regolarità.
I giudici hanno quindi rifiutato l'idea che «l'accesso alla documentazione amministrativa presentata in sede di gara goda di un regime diversificato in ragione del trascorrere del tempo nel senso cioè che, all'inizio, è accessibile mentre, una volta scaduto il termine di cui all'art. 120, comma 2-bis, del cpa, diventa non più ostensibile fino a quando non sia stato adottato il provvedimento definitivo di aggiudicazione».
Quindi l'operatore economico può accedere alla busta A già nella fase iniziale della procedura selettiva (senza attendere cioè quella finale di aggiudicazione), mentre il differimento previsto dall'art. 53, comma 2, lett. c), dlgs n. 50 del 2016 è oramai limitato alle buste della proposta che contengono le offerte tecniche e economiche (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2017).
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MASSIMA
2. Ciò premesso in punto di fatto, va anzitutto chiarito che, da quanto emerge dalla documentazione depositata in giudizio, il Ministero resistente, da un lato (con la nota del 22.12.2016), ha negato l’accesso alla documentazione amministrativa (busta A) della società controinteressata (necessaria per verificare il possesso dei requisiti soggettivi per l’ammissione in gara) e, dall’altro (con nota del 02.12.2016), con riferimento alla richiesta di prendere visione dell’offerta tecnica ed economica dell’aggiudicataria, ne ha differito l’ostensione al momento dell’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, come dispone l’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016.
2.1 Ora, partendo dal diniego opposto dall’amministrazione aggiudicatrice con riferimento alla documentazione amministrativa della controinteressata, va osservato che
il Ministero resistente ha motivato il diniego in ragione del fatto che erano spirati i termini previsti dall’art. 120, comma 2-bis, del CPA (d.lgs. n. 104 del 2010) per proporre ricorso giurisdizionale avverso l’ammissione in gara dell’aggiudicatario.
Al riguardo,
ritiene il Collegio che tale ragione non sia sufficiente a giustificare il diniego opposto con la nota del 22.12.2016, non essendo condivisibile l’assunto del Ministero resistente secondo cui l’accesso alla documentazione amministrativa è consentito solo fino a quando non sia spirato il termine per proporre ricorso giurisdizionale ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, del CPA e che, una volta spirato, si ricadrebbe nei limiti di cui all’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016 (secondo cui l’accesso alle offerte degli altri concorrenti, compresa la busta A, è differito fino al momento dell’aggiudicazione).
Ora,
seguendo il ragionamento della stazione appaltante, si arriverebbe al paradosso che l’accesso alla documentazione amministrativa presentata in sede di gara goda di un regime diversificato in ragione del trascorrere del tempo nel senso cioè che, all’inizio, è accessibile mentre, una volta scaduto il termine di cui all’art. 120, comma 2-bis, del CPA, diventa non più ostensibile fino a quando non sia stato adottato il provvedimento definitivo di aggiudicazione della gara.
Una tale interpretazione sconta un profilo di irragionevolezza che non la rende condivisibile, in particolare se rapportato alle esigenze tipiche del diritto di accesso che costituisce, come noto, applicazione del più generale principio di trasparenza, di derivazione costituzionale.

Del resto,
la richiesta di accedere alla documentazione amministrativa, anche in questa fase di aggiudicazione provvisoria (recte: proposta di aggiudicazione, ex artt. 32 e 33 del d.lgs. n. 50 del 2016), non è subordinata alla sola tutela giurisdizionale in quanto proprio il fatto di aver partecipato alla gara costituisce un motivo valido per giustificare l’accesso a tale documentazione contenuta normalmente nella busta A e che costituisce una fase prodromica alla valutazione vera e propria dell’offerta presentata in sede di gara, funzionale all’individuazione del migliore offerente al quale aggiudicare l’appalto; in altre parole, la parte relativa alla valutazione dei requisiti soggettivi dei concorrenti non giustifica, proprio alla luce della nuova normativa in materia di contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 (che impone –come noto- l’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni dalla gara, pena l’inammissibilità dell’azione), alcuna esigenza di differimento delle richieste di accesso a tale documentazione, al contrario di quanto avviene nella fase di valutazione delle offerte laddove l’esigenza di differire l’accesso trova la propria giustificazione nell’intento di non rallentare e non “influenzare” l’attività della commissione.
Non va poi sottaciuto, come rappresentato anche da parte ricorrente, che l’art. 211, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 attribuisce all’ANAC poteri tali da sindacare, in ogni momento (quantomeno fino alla fase di inizio dell’esecuzione del contratto di appalto), la legittimità della gara anche relativamente alla fase di ammissione dei concorrenti alla procedura di evidenza pubblica, il che non esclude che l’istante, anche in relazione a tale possibilità prevista dalla norma citata, continui a mantenere un interesse concreto ad accedere alla documentazione comprovante i requisiti soggettivi degli ammessi alla gara di che trattasi anche una volta spirato il termine di proposizione dell’azione giurisdizionale di cui al c.d. “rito superaccelerato” (cit. art. 120, comma 2-bis, del CPA).
Del resto, come detto, è proprio il (nuovo) regime diversificato di impugnazione previsto dal citato art. 120, comma 2-bis, del CPA, introdotto nel 2016, che impone una tale interpretazione nel senso cioè che l’operatore economico possa accedere alla busta A già nella fase iniziale della procedura selettiva (senza attendere cioè quella finale di aggiudicazione, come era previsto nel vecchio regime di cui al D.lgs. n. 163 del 2006) e che il differimento previsto dall’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016 sia ormai limitato alle buste della proposta che contengono le offerte tecniche e economiche.
2.2 Né può essere condivisa l’opposizione all’accesso formulata dal raggruppamento controinteressato in quanto quest’ultimo non ha chiarito quali segreti commerciali sarebbero lesi dal rendere noti alla ricorrente i nominativi ed i dati identificativi dei soggetti terzi indicati dall’aggiudicataria a supporto del possesso dei requisiti di gara; in effetti, la parte controinteressata opera un generico riferimento a segreti commerciali di cui non è dato conoscere la consistenza, il che impedisce al Collegio di operare una valutazione basata su dati concreti e verificabili.
2.3 In ragione di quanto sopra, il ricorso deve essere in questa parte accolto e, pertanto, va ordinato all’amministrazione resistente di consentire alla ricorrente l’accesso alla documentazione amministrativa (busta A) presentata in sede di gara dalla parte controinteressata, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza ovvero dalla notifica, se antecedente.
3. L’istanza va invece respinta con riferimento alla richiesta di accedere all’offerta tecnica ed economica della controinteressata, condividendo il Collegio il riferimento operato dalla stazione appaltante alla preclusione contenuta nell’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016 (riguardanti le ipotesi di differimento).
Al riguardo, deve convenirsi con la prospettazione del Ministero resistente secondo cui
il riferimento all’aggiudicazione ivi contenuto per giustificare il differimento dell’accesso alle offerte dei candidati deve intendersi al provvedimento definitivo adottato dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 32, comma 5, del d.lgs n. 50 del 2016.
Ora,
posto che, allo stato, la gara risulta ancora nella fase di aggiudicazione provvisoria (recte: proposta di aggiudicazione), il differimento opposto dalla stazione appaltante con nota del 02.12.2016 (nella parte in cui si riferisce alla richiesta della ricorrente di accedere all’offerta tecnica ed economica del RTI controinteressato) risulta giustificato dalla previsione contenuta nel citato art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016; resta fermo che, una volta intervenuto il provvedimento di aggiudicazione, l’amministrazione dovrà consentire alla ricorrente l’accesso alla restante documentazione richiesta con l’istanza del 29.11.2016.
4. In conclusione, il ricorso deve essere accolto in parte, ordinando all’amministrazione resistente di consentire alla ricorrente l’accesso alla documentazione amministrativa (busta A) presentata in sede di gara dalla parte controinteressata, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza ovvero dalla notifica, se antecedente.

EDILIZIA PRIVATA: Violazione della disciplina antisisimica - Violazioni di natura formale e sostanziale - Potere-dovere da parte del giudice penale di ordinare la demolizione - Artt. 24, 25, 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95 e 98 D.P.R. n. 380/2001 - RISARCIMENTO DEL DANNO - Quantificazione del danno patito dalla parte civile - Prova dell'esistenza di un danno e del pregiudizio risarcibile.
In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere da parte del giudice penale di ordinare ai sensi dell'art. 98, comma 3, del D.P.R. 380/2001 la demolizione dell'immobile in caso di condanna per i reati previsti dalla stessa legge ricorre soltanto nelle ipotesi delle violazioni cd. "sostanziali", ovverossia per la inosservanza delle norme tecniche, e non invece per le violazioni meramente formali, quali quelle contestate nella fattispecie in esame (v. Sez. 3, 19.12.2003, n. 48685, Munafò; idem 03.07.2007 n. 37322, Borgia e altro; idem 07.11.2013 n. 6371, De Cesare).
Inoltre, con riferimento al tema della quantificazione del danno patito dalla parte civile costituita in materia di reati edilizio-urbanistici, occorre fornire la prova dell'esistenza di un danno e la dimostrazione delle conseguenze dannose che diano luogo a fattispecie di pregiudizio risarcibile (Sez. 3, 23.05.1997 n. 6875, Ciotti e altri).
Costruzioni in zona sismica - Denuncia al competente ufficio - Necessità - Presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato - Direzione dei lavori - Professionista abilitato - Configurabilità dei reati di cui all'art. 95 del d.P.R. n. 380/2001.
In tema di costruzioni in zona sismica, integra la contravvenzione di cui all'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 qualsiasi intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, effettuato in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato (in termini tra le tante, Sez. 3, 08.10.2008 n. 46081, Sansone, Rv. 241783; idem, 17.09.2014 n. 48005, Gulizzi e altro, Rv. 261155; idem 14.01.2015 n. 19185, Garofano, Rv. 263376) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2017 n. 14807 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 2135 del cod. civ. ricomprende nell’attività dell’imprenditore agricolo “l’allevamento di animali”, ciò a seguito della novella di cui al d.lgs. n. 228 del 2001, che ha sostituito la precedente previsione riferita “all’allevamento del bestiame”.
Tale modificazione testuale è stata interpretata dalla giurisprudenza come comportante un ampliamento dei confini dell’attività agricola, superando l’idea originaria secondo cui rientrava in agricoltura solo l’allevamento di animali destinati all’alimentazione o ai lavori agricoli e comunque legati al fattore produttivo della terra, e giungendo invece a comprendere nell’agricoltura le attività comunque correlate al ciclo vitale di animali, compreso l’allevamento di cavalli da corsa.

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L’art. 2135 del cod. civ. ricomprende nell’attività dell’imprenditore agricolo “l’allevamento di animali”, ciò a seguito della novella di cui al d.lgs. n. 228 del 2001, che ha sostituito la precedente previsione riferita “all’allevamento del bestiame”; tale modificazione testuale è stata interpretata dalla giurisprudenza come comportante un ampliamento dei confini dell’attività agricola, superando l’idea originaria secondo cui rientrava in agricoltura solo l’allevamento di animali destinati all’alimentazione o ai lavori agricoli e comunque legati al fattore produttivo della terra, e giungendo invece a comprendere nell’agricoltura le attività comunque correlate al ciclo vitale di animali, compreso l’allevamento di cavalli da corsa (TAR Bologna, sez. 1^, n. 968 del 2015; TAR Perugia, sez. 1^, n. 96 del 2014; TAR Torino, sez. 1^, n. 1241 del 2014; TAR Campobasso, sez. 1^, n. 503 del 2013; Cass. n. 24495/2010).
Alla luce della richiamata evoluzione normativa non si comprendono le ragioni per le quali l’allevamento di cavalli ad uso maneggio non possa rientrare nel concetto di allevamento, compreso nell’agricoltura, di cui all’art. 25 del Piano di Gestione (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.03.2017 n. 463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Abbandono o deposito di rifiuti da parte di terzi - Proprietario del terreno - Mancata partecipazione al reato - Assenza di contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti - Responsabilità di posizione - Esclusione - Natura di reati permanenti e condotta concorsuale mediante condotta omissiva - Art. 256 decreto legislativo 03.04.2006 n. 152.
Il proprietario del terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato non possa andare incontro a una responsabilità di posizione, in difetto di elementi di diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che essi non possono consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza (Sez. U, n. 12753 del 05/10/1994, Zaccarelli), salvo che risulti integrata una condotta concorsuale mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l'obbligo giuridico di impedire la realizzazione od il mantenimento dell'evento lesivo (Sez. F, n. 44274 del 13/08/2004, Preziosi).
Gestione illecita di rifiuti - Proprietario di un terreno estraneo al reato - Inconfigurabilità della forma omissiva per il reato di cui all'art. 256, c. 2, d. l.vo n. 152/2006.
In materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella).
Riesame del sequestro probatorio - Sindacato del giudice - Limiti - Fattispecie: Decreto di convalida del sequestro di polizia giudiziaria emesso dal pubblico ministero con riferimento al reato previsto dall'articolo 256, c. 3, d. L.vo n. 152/2006.
in sede di riesame del sequestro probatorio, il tribunale è chiamato a verificare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato, valutando il "fumus commissi delicti" in relazione alla congruità degli elementi rappresentati, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla concreta fondatezza dell'accusa, bensì con esclusivo riferimento alla idoneità degli elementi, su cui si fonda la notizia di reato, a rendere utile l'espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell'autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 15254 del 10/03/2015, Previtero) sicché, in materia di riesame del vincolo probatorio, il sindacato del giudice non può investire la concreta fondatezza dell'accusa, ma è circoscritto alla verifica dell'astratta possibilità dì sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato e al controllo circa la qualificazione dell'oggetto sequestrato come corpus delicti e, quindi, all'esistenza di una relazione di immediatezza tra il bene stesso e l'illecito penale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.03.2017 n. 14503 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVIConservazione? Non all'infinito. Consiglio di stato sui documenti p.a..
I documenti amministrativi non possono essere conservati all'infinito: pertanto l'Amministrazione può stabilire un tempo massimo di detenzione prima dello loro distruzione.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 24.03.2017 n. 1332.
La vicenda riguardava il diniego parziale di accesso alle prove di certificazione del livello di conoscenza di una lingua straniera, in quanto una parte della documentazione richiesta era stata mantenuta «in vita» per un periodo limitato. Il Tar aveva dato ragione al pubblico dipendente ma l'Amministrazione ha appellato.
Il collegio ha in primo luogo stabilito che anche nel caso di una procedura solo idoneativa si applica la disciplina di settore. In secondo luogo il diritto di accesso va contemperato con le esigenze di buon andamento ed efficienza della stessa azione amministrativa.
Quindi la p.a. può disciplinare il tempo massimo di messa a disposizione dei documenti, purché di tali disposizioni siano informati gli interessati e la decorrenza sia ancorata a data certa. Lo stesso regolamento sull'accesso prevede che la visione o l'estrazione di copie sia possibile sul presupposto dell'esistenza materiale dei documenti al momento della richiesta. Nonostante il progredire delle potenzialità tecnologiche non è perciò immaginabile una generale e sconfinata conservazione di ogni documento amministrativo, a meno che non si tratti di carteggi a valenza storica o segreti.
In conclusione è legittima la temporalizzazione della disponibilità dei documenti, una volta che il procedimento si sia concluso (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2017).
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MASSIMA
5.1. A favore della prima censura vi è innanzitutto la considerazione che
il diritto di accesso va contemperato con le esigenze di buon andamento ed efficienza della stessa azione amministrativa.
E’ vero che il diritto di accesso costituisce il precipitato del principio di trasparenza, oramai entrato a far parte dei principi generali che regolano l’azione amministrativa accanto a quelli di legalità e imparzialità. E’ vero che il diritto di accesso attua quello di trasparenza e che, a garanzia di questo, per evitarne la frustrazione, è posto l’obbligo dell’Amministrazione, cui i documenti richiesti ineriscono per via delle proprie competenze, di detenere i documenti o di costituire la detenzione della relativa documentazione o, comunque, di svolgere ogni azione idonea a reperirla (salva la motivata esplicitazione dell’impossibilità di utilmente provvedere).
Ma, non può negarsi che tutti i principi che regolano l’azione amministrativa siano finalizzati all’obiettivo del buon andamento e dell’efficienza dell’amministrazione per garantirne l’efficacia.
Ritiene il Collegio che, in nome di tale contemperamento, sia configurabile un potere dell’Amministrazione di disciplinare il tempo massimo di detenzione dei documenti a condizione che di tali disposizioni siano informati gli interessati e che la decorrenza del tempo massimo sia ancorata a data certa.
5.1.1. Il dato letterale da cui prendere le mosse si rinviene proprio nell’art. 2, comma 2, del regolamento, che disciplina le modalità di esercizio del diritto di accesso ai documenti (d.P.R. n. 184 del 2006, emanato in attuazione dell’art. 23 della l. n. 15 del 2005), secondo il quale, <<Il diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una pubblica amministrazione…>>.
La disposizione regolamentare trova la propria base legislativa nella previsione (art. 22, comma 6, della legge n. 241 del 1990) che <<il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere>>. Allora, è la stessa legge che prevede astrattamente un termine all’obbligo di detenere i documenti.
Inoltre,
diversi elementi inducono a ritenere sostenibile, al di là del mero dato letterale, una interpretazione che consenta la distruzione del documento dopo un certo periodo.
5.1.2.
L’esigenza esiste, atteso che –nonostante il progredire delle potenzialità tecnologiche– non è immaginabile una generale conservazione tendente all’infinito di ogni documento amministrativo. Una conservazione, quindi, che prescinda dalle tematiche collegate, e qui non rilevanti, dei documenti a valenza storica e dai documenti segreti.
E’ sufficiente considerare che
i termini decadenziali per l’accesso alla tutela giurisdizionale avverso le determinazioni e il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti (art. 116 c.p.a.) pongono una limitazione temporale a valle, mentre resta completamente libero il termine a monte, affidato unicamente alla perdita fattuale dell’interesse per le vicende naturali del corso della vita.
Tanto più che, secondo la giurisprudenza consolidata (CdS, VI n. 3147 del 2009),
il diritto di accesso, come interesse ad un bene della vita autonomo, deve essere accordato anche se l’interessato non può più (oltre che se non può ancora) agire in sede giurisdizionale. Con la conseguenza che non funziona come delimitazione temporale a monte il termine per l’impugnazione dell’atto lesivo cui il documento richiesto possa riferirsi, collegato al momento di acquisto di efficacia dello stesso (art. 29 c.p.a., art. 21-bis, della legge n. 241 del 1990).
L’esigenza suddetta si coniuga con l’interesse dell’Amministrazione ad efficientare l’utilizzo delle risorse materiali ed umane che ha a disposizione, il quale non è cosa diversa dall’interesse generale alla celerità dell’azione amministrativa, comune al privato e all’amministrazione, atteso che il miglior utilizzo delle prime quantomeno concorre ad assicurare la realizzazione della seconda.
5.1.3.
Il legislatore si è dimostrato non insensibile a tali tematiche laddove:
   a)
ha considerato il potere di differire l’accesso se l’immediata ostensione possa turbare il regolare svolgimento dell’azione amministrativa, oppure, quale extrema ratio, di rifiutarlo espressamente; fermo restando che rifiuto, differimento e limitazione devono essere specificamente motivati (art. 25, comma 3, l. n. 241 del 1990);
   b)
ha previsto che la pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso (lo stesso articolo 2 del regolamento in argomento).
5.1.4. Peraltro, la stessa previsione del termine decadenziale per l’esercizio dell’azione giurisdizionale è stata ritenuta compatibile con la posizione soggettiva tutelata -strumentale e funzionale al bene della vita finale che l’istante intende tutelare- anche in nome della esigenza di stabilità e certezza, caratterizzante i rapporti amministrativi (CdS A.P. nn. 6 e 7 del 2006). Queste stesse esigenze possono concorrere a fondare una interpretazione che consenta la delimitazione temporale della disponibilità dei documenti per l’accesso.
5.1.5. L’interpretazione sostenuta non trova ostacolo nello stesso art. 2, comma 2 cit., laddove, a proposito dell’autorità competente cui indirizzare la richiesta, si dice <<… nei confronti dell'autorità competente a formare l'atto conclusivo o a detenerlo stabilmente.>>.
La suddetta norma, in linea con l’art. 22 della legge n. 241 del 1990, indica i soggetti in direzione dei quali può essere esercitato il diritto di accesso, specificando che può trattarsi <<dell'autorità competente a formare l'atto conclusivo>>, ossia deputata a concludere il procedimento amministrativo con l’adozione del relativo provvedimento, ovvero dell’autorità competente a <<detenerlo stabilmente>>, ossia non in via provvisoria, e che può coincidere con la prima.
All’evidenza, il termine <<stabilmente> è contrapposto a <<in via provvisoria>> e si riferisce alla detenzione con riferimento al corso del procedimento e alle diverse amministrazioni che possono essere coinvolte, ai fini della individuazione dell’amministrazione cui le richieste possono essere indirizzate.
5.1.6.
La temporalizzazione della detenzione dei documenti, una volta che il procedimento si sia concluso, non trova ostacolo neanche nell’esigenza, posta dall’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, di garantire comunque l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Infatti, per assicurare l’effettività della garanzia non vi è bisogno di una disponibilità a tempo indeterminato, prestandosi ad essere idonea la concreta possibilità di accesso per un tempo ragionevolmente determinato.
5.1.7. Infine, ostacoli non derivano neanche dalla pregressa giurisprudenza di questo Consiglio. In alcune rilevanti pronunce (CdS, sez. IV, n. 1312 del 2013; sez. VI n. 3743 del 2015) l’affermazione dell’obbligo di detenzione per evitare la frustrazione del diritto di accesso mediante il diniego fondato sul mancato possesso dei documenti, anche quando si utilizzano espressioni generalizzanti, quali <<assenza per qualsivoglia ragione>> (CdS, sez. IV, n. 2379 del 2014), si collega sempre alla riconducibilità della detenzione ad una determinata amministrazione e alla individuazione della amministrazione su cui grava l’obbligo di detenere, nell’ambito del procedimento. Mai alla regolazione temporale del tempo di detenzione dei documenti dopo la conclusione del procedimento.
5.2. Come prima accennato,
la ritenuta legittimità della regolamentazione temporale della disponibilità dei documenti per consentirne l’accesso deve completarsi, proprio per evitare la frustrazione del diritto, con l’ancoraggio del tempo stabilito a termini di decorrenza certi e con la preventiva informazione in ordine agli stessi.
Requisiti che, nella specie, risultano soddisfatti.

INCARICHI PROFESSIONALIResponsabilità perimetrata. Contestabile solo la violazione del dovere di diligenza. AVVOCATI/ La Corte di cassazione si è recentemente soffermata su un tema caldo.
Responsabilità professionale dell'avvocato: solo la violazione del dovere di diligenza sarà contestabile.
La Corte di Cassazione si è recentemente soffermata sul tema della responsabilità dell'avvocato, e quanto emerge dalle ultime pronunce va a confermare che, sebbene ci sia una differenza tra procura alle liti e contratto di patrocinio e che sebbene l'avvocato sia chiamato a porre in atto tutte le strategie per giungere ad un risultato favorevole al cliente, resta immutato che la responsabilità professionale dell'avvocato rappresenti una obbligazione di mezzi e non di risultato, pertanto solo la violazione del dovere di diligenza sarà contestabile.
Contratto di patrocinio e procura alle liti. I giudici della Corte di Cassazione, Sez. III civile, con sentenza 23.03.2017 n. 7410 si sono espressi in ordine alla interpretazione del contratto di mandato professionale, nonché alla distribuzione dell'onere probatorio fra clienti e avvocato circa l'esistenza (od inesistenza od estinzione) di un tale mandato professionale per la tutela giudiziale anche davanti alla Corte di cassazione.
Secondo i giudici di piazza Cavour in tema di attività professionale svolta da avvocati risulta essere fondamentale la differenza che corre tra contratto di patrocinio e procura alle liti, poiché, mentre quest'ultima è un negozio unilaterale col quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il contratto di patrocinio è un negozio bilaterale col quale il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera secondo lo schema del mandato.
Pertanto, tale assunto avrà le seguenti conseguenze: non si può escludere che il rilascio di una procura alle liti assolva all'onere di forma eventualmente richiesto per il contratto e, al contempo, ne fornisca la prova. Però, di norma, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell'attività processuale, e non è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di forma.
Ed inoltre a parere degli Ermellini non rileverà neppure, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, il versamento, anticipato o durante lo svolgimento del rapporto professionale, di un fondo spese o di un anticipo sul compenso, sia perché il mandato può essere anche gratuito, sia perché, in caso di mandato oneroso, il compenso e l'eventuale rimborso delle spese sostenute possono essere richiesti dal professionista durante lo svolgimento del rapporto o al termine dello stesso.
Sulla diligenza professionale. In altra recente pronuncia i giudici (Sez. II civile, sentenza 22.03.2017 n. 7309) hanno evidenziato come l'avvocato nella prestazione dell'attività professionale, sarà sempre obbligato a usare la diligenza del buon padre di famiglia e la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale e, la perdita del diritto al compenso.
Gli stessi giudici hanno però evidenziato come l'eccezione d'inadempimento potrà essere opposta dal cliente all'avvocato che abbia violato l'obbligo di diligenza professionale a patto che la negligenza sia stata tale da incidere sugli interessi del cliente, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, ed essendo contrario a buona fede l'esercizio del potere di autotutela ove non sia pregiudicata la «chance» di vittoria in giudizio.
Pertanto, legittimamente il cliente potrà rifiutare di corrispondere il compenso all'avvocato quando costui abbia espletato il proprio mandato incorrendo in omissioni dell'attività difensiva che, sia pur sulla base di criteri necessariamente probabilistici, risultino tali da aver impedito di conseguire un esito della lite altrimenti ottenibile.
E inoltre, in ossequio anche a un ormai consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza, la responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art. 1176, secondo comma, cod. civ., da commisurare alla natura dell'attività esercitata.
Inoltre, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata e immune da vizi logici e giuridici.
Obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività professionale. Infine, la stessa Cassazione (Sez. III civile, sentenza 14.02.2017 n. 3765) ha osservato come la diligenza professionale dell'avvocato lo dovrebbe indurre a compiere gli atti interruttivi della prescrizione in rapporto al termine più breve di questa, infatti le obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo.
Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176, secondo comma, cod. civ., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione.
Quindi rientrerà nella ordinaria diligenza dell'avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine. Non ricorre tale ipotesi nel caso in cui l'incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell'incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.04.2017).

APPALTI: Limiti esterni della giurisdizione amministrativa in caso di declaratoria di inefficacia del contratto di appalto conseguente ad annullamento dell’aggiudicazione per vizi comportanti la rinnovazione della gara.
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Giustizia amministrativa – Consiglio di Stato – Sentenza – Declaratoria di inefficacia del contratto di appalto in presenza di vizi comportanti la rinnovazione della gara – Eccesso di potere giurisdizionale – Inconfigurabilità
Non sussiste violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa in caso di declaratoria di inefficacia del contratto di appalto ai sensi dell’art. 122 cod. proc. amm., conseguente ad annullamento dell’aggiudicazione per vizi comportanti la rinnovazione della gara (1).
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   (1) I.- La pronuncia è stata resa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in sede di ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 2157 del 27.04.2015 che, in riforma della statuizione di primo grado, ha accolto il ricorso promosso da un’impresa, in materia di affidamento di un appalto pubblico di servizi, volto a far accertare la illegittimità dell’operato della commissione di gara per avere integrato i criteri di valutazione delle offerte dopo averle prese in considerazione. Annullata l’aggiudicazione, il Consiglio di Stato disponeva altresì la perdita di efficacia del contratto, ai sensi dell’art. 122 cod. proc. amm., essendovi sul punto domanda espressa della parte ricorrente.
L’impresa soccombente in appello ricorreva per cassazione per l’annullamento della sentenza denunciando eccesso di potere giurisdizionale per avere il Consiglio di Stato privato di effetti il contratto in un’ipotesi in cui siffatta decisione, stando al disposto letterale di cui all’art. 122, sarebbe stata invece riservata alla stazione appaltante, comportando il vizio accertato non il subentro di altro concorrente bensì la rinnovazione della gara. Pacifica essendo, nella fattispecie controversa, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, cod. proc. amm., l’impresa ricorrente per cassazione sosteneva che la dichiarazione di inefficacia del contratto, a seguito di annullamento dell'aggiudicazione, sarebbe soggetta ai limiti previsti dall'art. 122 dello stesso codice, i quali, al di fuori dei casi di violazioni gravi, di cui all'art. 121 del codice, abiliterebbero il giudice amministrativo, quando annulla l'aggiudicazione, a dichiarare l'inefficacia del contratto soltanto nei casi in cui il vizio rilevato non comporti la rinnovazione della gara e poiché invece nel caso di specie il vizio accertato implicava proprio una siffatta rinnovazione, il Consiglio di Stato sarebbe incorso in una illegittima invasione della sfera di merito della pubblica amministrazione, alla cui scelta sarebbe stato rimesso di mantenere il contratto, nel pubblico interesse alla prosecuzione del servizio, ovvero di procedere alla sua risoluzione.
   II.- Le Sezioni unite non accedono a tale prospettazione escludendo la sussistenza del dedotto eccesso di potere giurisdizionale sulla scorta delle seguenti motivazioni:
a) premesso che affinché si configuri il vizio di eccesso di potere giurisdizionale da parte del giudice amministrativo sotto la specie dell'esercizio di una attività decisoria implicante l'adozione di una statuizione corrispondente ad un'attività provvedimentale, il cui compimento l'ordinamento riserva all'amministrazione, è necessario che quella statuizione abbia un contenuto corrispondente a quello del potere riservato alla pubblica amministrazione, si osserva che nel caso di specie non sussiste alcun potere amministrativo di declaratoria di inefficacia del contratto pubblico, attribuito all'amministrazione, né nell’ambito della disciplina del D.Lgs. n. 163 del 2006 né nel sistema di cui al d.lgs. n. 50/2016; si aggiunge che anche a voler prospettare l’esistenza di un potere di scioglimento unilaterale del contratto da parte della stazione appaltante, tale potere involgerebbe un rapporto paritetico sicché la prospettata usurpazione di potere dovrebbe configurarsi non rispetto ad un potere riservato alla p.a. quanto rispetto al giudice ordinario, questione tuttavia non dedotta nel caso di specie;
b) il precedente rappresentato da Cons. Stato, sez. IV, n. 140 del 2015 (che ha escluso in simili ipotesi il potere del giudice di privare di effetti il contratto), è stato successivamente superato da una serie di sentenze -dalla n. 1126 alla n. 1137 del 2016 della IV sezione- che, in linea con l'esegesi dell'art. 122 fornita con la decisione n. 13 del 2011 dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, hanno affermato il principio per cui laddove debba essere rinnovata l'intera gara ciò implichi la potestà del giudice di caducare l'atto negoziale medio tempore stipulato;
c) l’interpretazione letterale dell’art. 122 prospettata dalla ricorrente non viene condivisa stante:
   I) la portata generale del potere di privare il contratto degli effetti prevista dall’art. 122 rispetto alle fattispecie speciali di cui agli artt. 121 e 123, comma 3, in tutti i casi in cui il giudice annulla l’aggiudicazione definitiva;
   II) la possibilità –comunque ritenuta preferibile- di interpretare l’art. 122 nel senso che sia nel caso in cui debba rinnovarsi la gara, sia nel caso contrario, il potere di privare il contratto degli effetti sia soggetto sempre e comunque alla valutazione "degli interessi delle parti, dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto", mentre nel solo caso in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentro sia stata proposta, il detto potere sia soggetto, oltre che a quelle stesse valutazioni, a quella della possibilità di subentrare nel contratto e della proposizione della domanda di subentrare in esso;
d) la tesi che propone di leggere la norma nel senso che il potere di dichiarare l’inefficacia del contratto non trovi applicazione nel caso in cui l'annullamento dell'aggiudicazione presenti profili tali da implicare che si debba rinnovare la gara e che sia riservato alla pubblica amministrazione di decidere della sorte del contratto, si presenta del tutto ingiustificata ed anche priva di ragionevolezza in quanto comporterebbe che sia lasciato il potere di scelta all'amministrazione nel caso più grave e le sia negato in quelli meno gravi.
   III.- La sentenza in rassegna si segnala in quanto interviene, a quanto consta, per la prima volta, sulla esegesi degli artt. 121, 122 e 123 c.p.a. puntualizzando in quali casi ed a quali condizioni il G.A. dichiara inefficace il contratto, e tenendo presente anche il nuovo codice degli appalti.
L’interpretazione accolta dalle Sezioni unite avvalora l’indirizzo espresso dalla IV sezione del Consiglio di Stato con le sentenze dalla n. 1125 alla 1137 del 21.03.2016 (la prima commentata, in Contratti Stato e enti pubbl., 2016, fasc. 2, 45, con nota di SINIGAGLIA), in linea con Cons. Stato, Ad. plen., 28.07.2011, n. 13, in Foro it., 2012, III, 13, con nota di D’ANGELO; e Giur. it., 2012, 707 (m), con nota di PAOLANTONIO, secondo cui non è applicabile l’art. 122 cod. proc. amm. sull’inefficacia del contratto nei casi di violazioni non gravi se il vizio dell’aggiudicazione comporti l’obbligo di rinnovare la gara; pertanto, va confermata la sentenza di primo grado che, accertata la necessità di rinnovare la procedura, abbia annullato il contratto senza esporre le ragioni idonee ad escludere che il contratto stipulato potesse conservare efficacia.
Ne segue che alle ipotesi di inefficacia automatica di cui all’art. 121, conseguenti alle violazioni gravi ivi tipizzate, dovrebbe aggiungersi il caso in cui il vizio dell’aggiudicazione comporti l’obbligo di rinnovare la procedura: in tale circostanza infatti secondo l’Adunanza Plenaria il giudice non sarebbe tenuto ad effettuare l’apprezzamento previsto dall’art. 122 cod. proc. amm., ma dovrebbe sempre disporre l’inefficacia del contratto.
Sulla c.d. «inefficacia flessibile» nell’attuale disciplina, si veda altresì LIPARI, Il recepimento della «direttiva ricorsi»: il nuovo processo super-accelerato in materia di appalti e l’inefficacia «flessibile» del contratto, in www.giustamm.it.
   IV.- Sulla medesima problematica si segnalano altresì:
e) Cons. Stato, Sez. V, 30.11.2015, n. 5404 relativa al connesso tema del subingresso a seguito del giudicato di annullamento dell’aggiudicazione, ex artt. 122 c.p.a. e 140 d.lgs. n. 163/2006, dove si affronta il tema della qualificazione del subingresso in termini di successione nel medesimo rapporto o di novazione soggettiva;
f) Cons. Stato, Sez. IV, 20.04.2016, n. 1559 relativa alla insussistenza dell’obbligo per la stazione appaltante, a seguito di giudicato di annullamento di un’aggiudicazione, di stipulare col secondo classificato;
g) per ulteriori approfondimenti sul punto della caducazione del contratto si veda DE NICTOLIS; Codice del processo amministrativo commentato, III ed., Milano, 2015, 2087 ss (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 22.03.2017 n. 7295 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASuap, no al diniego del permesso per rischi ambientali. Tar sull'urbanistica.
Impossibile negare all'azienda il permesso di costruire sulla base di rischi ambientali e sanitari. Si configura lo sviamento di potere nel diniego dello sportello unico che blocca il progetto della raffineria pronunciandosi non sulla compatibilità edilizia ma su profili che non gli competono.
È illegittimo il no del comune al permesso di costruire chiesto dall'azienda perché lo sportello unico per le attività produttive lo motiva sulla base di rischi ambientali e sanitari che esulano dalla sua competenza: l'attività dell'amministrazione pubblica, infatti, risulta vincolata e lo Suap non pone a fondamento del diniego la valutazione di compatibilità edilizia dell'opera che invece gli compete.

Lo stabilisce la sentenza 21.03.2017 n. 469, pubblicata dalla I Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso dell'azienda petrolifera: la realizzazione delle opere on-shore della raffineria risulta già oggetto di richiesta di autorizzazione unica. Il progetto della società ha suscitato polemiche per i pericoli connessi alle emissioni di vapori e il consiglio comunale vuole garanzie precise di tutela dell'ecosistema. Ma il punto è che lo Suap nel negare il titolo edilizio all'impresa va oltre i suoi poteri perché non compie alcuna valutazione urbanistica sui profili dell'opera: si sofferma invece sugli aspetti sanitari che sono estranei alle sue attribuzioni.
Il comune ha già espresso le sue considerazioni sui rischi per l'ambiente e la salute delle persone nell'ambito di un procedimento amministrativo di altra natura e ha partecipato agli iter durante i quali si sono pronunciati gli altri enti competenti (articolo ItaliaOggi del 26.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
In particolare, la ricorrente sostiene che il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo per sviamento di potere, in quanto finalizzato a paralizzare ogni iniziativa della Società, in relazione al progetto Tempa Rossa, esclusivamente sulla base di un atto di indirizzo politico e di considerazioni relative a profili non pertinenti con il procedimento amministrativo di cui trattasi.
La censura è fondata.
Secondo questo collegio, infatti,
con il provvedimento impugnato l’Amministrazione ha respinto l'istanza al rilascio del titolo edilizio con riferimento a valutazioni e considerazioni del tutto ultronee e non riconducibili al corretto esercizio del potere del SUAP in materia di scelte urbanistico-edilizie.
Come già affermato in sede cautelare, infatti,
l'Amministrazione comunale, negli atti impugnati, non riporta alcuna valutazione in ordine alla compatibilità sul piano edilizio-urbanistico dell'intervento relativo alle opere on-shore del progetto di adeguamento della raffineria di Taranto, ponendo a fondamento delle proprie scelte valutazioni estranee alla sfera di attribuzione che le spetta limitandosi ad affermare che risulterebbero ancora “irrisolti i profili di criticità relativi in particolare alla valutazione di incidente sanitario, all’incremento di emissioni di VOC, relativamente all’installazione di impianti di recupero vapori, e del rischio di incidenti rilevanti”.
Si ritiene, quindi, che il Comune di Taranto abbia formulato valutazioni in materia ambientale e sanitaria nell’ambito di un procedimento amministrativo di altra natura e, per di più, esprimendo pareri che si vanno a sovrapporre a quelli già espressi da parte delle Amministrazioni competenti all'esito di procedimenti in cui il Comune è stato comunque messo in grado di partecipare.
Le valutazioni espresse dal Comune resistente nell’ambito del procedimento in materia edilizia non sono riconducibili al corretto esercizio del potere attribuito dalla norma considerato che nella materia predetta, l'attività della P.A. è del tutto vincolata, nel senso che essa può legittimamente negare il titolo abilitativo richiesto solo in quanto contrastante con la specifica normativa di settore e non con valutazioni attinenti a profili di diversa materia.

Per i motivi predetti, assorbita ogni altra censura, il ricorso deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire illegittimo - Atto abilitativo improduttivo di validi effetti - Provvedimenti amministrativi di sanatoria o condono - Verifiche e poteri del giudice penale - Valutazione in ordine alla sussistenza del reato - Giurisprudenza - Artt. 12, 36, 44, d.P.R. 380/2001.
Nell'individuare quelle situazioni di illegittimità che rendono l'atto abilitativo improduttivo di validi effetti, non può che farsi riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, che l'art. 12 del d.P.R. 380/2001 individua, tra l'altro, nella conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.
Ne consegue che, in disparte l'ipotesi dell'illiceità del provvedimento, la illegittimità rilevante per il giudice penale non può che essere quella derivante dalla non conformità del titolo abilitativo alla normativa che ne regola l'emanazione o alle disposizioni normative di settore, dovendosi, al contrario, radicalmente escludersi la possibilità che il mero dato formale dell'esistenza del permesso di costruire possa precludere al giudice penale ogni valutazione in ordine alla sussistenza del reato.
A conclusioni analoghe la giurisprudenza è pervenuta anche per ciò che concerne i provvedimenti amministrativi di sanatoria o condono, osservando come il mancato effetto estintivo non sia riconducibile ad una valutazione di illegittimità del provvedimento cui consegua la disapplicazione dello stesso, ma alla verifica della inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell'estinzione del reato in sede di esercizio del doveroso sindacato della legittimità del fatto estintivo, incidente sulla fattispecie tipica penale (Sez. 3, n. 23080 del 16/04/2008, Proietti; conf. Sez. 3, n. 26144 del 22/04/2008, Papa; Sez. 3, n. 12869 del 05/02/2009, Fulginiti; Sez. 3, n. 27948 del 10/06/2009, Sabbatini; Sez. III n. 31479, 29/07/2008).
Titolo abilitativo edilizio illegittimo - Macroscopica illegittimità del provvedimento amministrativo e profili assolutamente eclatanti di illegalità - Poteri del giudice penale - Limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato - Giurisprudenza - Artt. 12, 36, 44, d.P.R. 380/2001.
L'attività svolta dal giudice in presenza di un titolo abilitativo edilizio illegittimo consiste nel valutare la sussistenza dell'elemento normativo della fattispecie e non nel disapplicare l'atto amministrativo o effettuare comunque valutazioni proprie della P.A. (Sez. U. n. 5115 del 28/11/2001 (dep. 2002), Salvini).
Sicché, la "macroscopica illegittimità" del provvedimento amministrativo non è condizione essenziale per la configurabilità di un'ipotesi di reato ex art. 44 d.P.R. 3890/2001, mentre, (a prescindere da eventuali collusioni dolose con organi dell'amministrazione) l'accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un significativo indice di riscontro dell'elemento soggettivo della contravvenzione contestata anche riguardo all'apprezzamento della colpa (Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, P.M. in proc. Tantillo e altro), pertanto, la non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto medesimo sia illecito, cioè frutto di attività criminosa ed a prescindere da eventuali collusioni dolose del soggetto privato interessato con organi dell'amministrazione, ma anche nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge, o in quella di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere (Sez. 3, n. 40425 del 28/09/2006, Consiglio).
Anche le pronunce successive sono pervenute a conclusioni analoghe (v., ad es., Sez. 3, n. 41620 del 02/10/2007, Emelino; Sez. 3, n. 28225 del 09/05/2008, Di Stefano; Sez. 3, n. 35389 del 27/06/2008, Gallo, non massimata; Sez. 3, n. 9177 del 13/01/2009, Corvino; Sez. 3, n. 14504 del 20/01/2009, Sansebastiano e altri; Sez. 3, n. 34809 del 02/07/2009, Giombini e altro; Sez. 3, n. 35391 del 14/07/2010, Di Domenico; Sez. 3, n. 28545 del 16/2/2012, Cinti; Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sorini; Sez. 3, n. 36366 del 16/06/201 5, Faiola) chiarendo, altresì, che il potere del giudice penale di accertare la conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione edilizia trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell'opera (Sez. 3, n. 1894 del 14/12/2006 (dep. 2007), P.M. in proc. Bruno e altro; Sez. 3, n. 39707 del 05/06/2003, Lubrano di Scorpianello) e che anche nell'accertare che per un determinato intervento occorre il permesso di costruire, in luogo del diverso titolo ritenuto sufficiente dall'amministrazione, il giudice penale non esercita alcun sindacato sull'attività della pubblica amministrazione medesima (Sez. 3, n. 19076 del 24/03/2009, Piparo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2017 n. 12389 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di strutture galleggianti - Permesso di costruire - Necessità - Strutture stabilmente installate - Artt. art. 3, 5, 10, 35 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
Per la realizzazione di strutture galleggianti stabilmente ancorate alle sponde di un fiume ed utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro ovvero di ristorazione, ritrovi, depositi, magazzini e simili e, quindi, non destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, è necessario il permesso di costruire.
Specificando come la rilevanza urbanistica sia evidenziata dalla sua destinazione durevole e dalla sua funzione di insediamento nel territorio con carattere di stabilità, (in giurisprudenza Cass. Sez. 3, n. 354 del 25/01/2000, Carrodano; Sez. 1, n. 8920 del 20/11/2000 (dep. 2001 ), Fusaro e altri; Sez. 3, n. 21413 del 03/03/2010, Parisi e altri; Sez. 3, n. 7047 del 04/12/2014 (dep. 2015), Gaietto).
Strutture galleggianti - I fondali subacquei costituiscono suolo - Significato del verbo installare - Giurisprudenza.
La collocazione in uno spazio fluviale di una imbarcazione va qualificata come realizzazione di una nuova costruzione, per la cui legittimità è necessario il previo rilascio del permesso di costruire, rilevando che anche i fondali subacquei costituiscono suolo, in questo caso demaniale e che pertanto le strutture su di esso stabilmente installate sono per ciò stesso "strutturalmente" assoggettabili al regime di cui agli artt. 3, 10 e 35 del testo unico sull'edilizia, ciò in quanto il verbo installare significa, "sistemare stabilmente in un luogo" e, quindi, si riferisce anche ad impianti fissi collocati in uno spazio acquatico e non solo terrestre, tanto che anche nel linguaggio comune e tecnico si parla di installazione di piattaforme, banchine, pontili, cioè classiche strutture in ambiente marino, lacuale o fluviale (cfr. Cons. Stato, sez. IV n. 4673 del 23/07/2009 e Sez. IV n. 2636 del 06/05/2010).
Condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva - Inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie - Inevitabilità dell'errore.
La condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile l'erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del 02/05/1988, Rurali).
Più in generale, si è precisato che l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (Sez. 5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2017 n. 12387 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Urbanistica. Realizzazione di strutture galleggianti.
Per la realizzazione di strutture galleggianti stabilmente ancorate alle sponde di un fiume ed utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro ovvero di ristorazione, ritrovi, depositi, magazzini e simili e, quindi, non destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, è necessario il permesso di costruire.
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5. Il secondo e terzo motivo di ricorso, afferenti entrambi alla necessità o meno del permesso di costruire per la realizzazione degli intervento oggetto di contestazione, possono essere trattati congiuntamente.
Occorre osservare, in primo luogo, che il ricorso contiene plurimi riferimenti ad atti e documenti acquisiti nel corso del procedimento ai quali, come è noto, questa Corte non ha accesso e che, pertanto, non potranno essere oggetto di disamina in questa sede.
Va altresì rilevato come la questione inerente il titolo abilitativo sia stata già affrontata e risolta da questa Corte in una precedente pronuncia (Sez. 3, n. 37718 del 11/10/2006, Preziosi, non massimata) decidendo un ricorso avverso l'ordinanza con la quale il Tribunale del riesame aveva confermato il decreto di sequestro preventivo dell'edificio realizzato dall'odierno ricorrente.
Si osservava, in quel contesto, che le opere richiedevano, per la loro realizzazione, il permesso di costruire, specificando come la sua rilevanza urbanistica fosse evidenziata dalla sua destinazione durevole a una funzione di insediamento nel territorio con carattere di stabilità, richiamando, a tale proposito, precedenti pronunce aventi ad oggetto situazioni analoghe, concernenti la realizzazione di pontili galleggianti (Sez. 3, n. 354 del 25/01/2000, Carrodano, Rv. 21768601; Sez. 1, n. 8920 del 20/11/2000 (dep. 2001), Fusaro e altri, Rv. 21822001), alle quali hanno peraltro fatto seguito altre del medesimo tenore (Sez. 3, n. 21413 del 03/03/2010, Parisi e altri, Rv. 24930401; Sez. 3, n. 7047 del 04/12/2014 (dep. 2015), Gaiotto, Rv. 26263101).
Nell'occasione si escludeva, inoltre, ogni rilievo al fatto che dalla competente autorità era stato rilasciato il titolo concessorio di occupazione di specchio acqueo e ciò considerando che il permesso di costruire ha diversa entità, portata e finalità, dando altresì atto del fatto che i giudici del riesame avevano posto in evidenza come in una nota della Direzione Abusivismo Edilizio del comune di Roma, nel descrivere l'opera edilizia, venisse precisato che l'edificazione era avvenuta in assenza del permesso di costruire, nella specie ritenuto necessario, rilevando anche come dovesse, quindi, ritenersi violato l'art. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001, trattandosi di intervento realizzato sul fiume Tevere.
Dandosi infine atto del contenuto delle memorie difensive depositate, veniva altresì ritenuto irrilevante, ai fini della configurabilità dell'illecito edilizio, il rilevo secondo il quale "il PRG non prevede alcuna zonizzazione del fiume Tevere e le relative norme tecniche di attuazione non contengono disposizioni edilizie sulle grandezze o sulle destinazioni d'uso ammesse in tale porzione di territorio" e quello secondo cui "il PRG adottato nel 2006 individua il fiume Tevere come Ambito di programmazione strategico e nell'elaborato n. 14, comma 2, è prevista la necessità di predisporre programmi per localizzare e regolamentare nuove attività da svolgere direttamente sul fiume, su strutture galleggianti che potrebbero essere dedicate a svago, ristoro e cultura, come parti di un sistema coerente teso a legare le due differenti quote urbane", rilevandosi, da un lato, il contenuto meramente programmatico della previsione e, dall'altro, l'impossibilità, anche per le norme di pianificazione comunale, di incidere sulla normazione nazionale, ribadendo che l'opera realizzata richiedeva il permesso di costruire, pur tralasciando di esaminare la questione concernente l'elemento soggettivo del reato, in quanto estranea a quel giudizio.
6. Le medesime questioni sono state riproposte, nella sostanza, nei motivi di appello e nuovamente prospettate nei motivi di ricorso in esame.
Ciò posto, ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per discostarsi da quanto in precedenza affermato, seppure nel diverso ambito del giudizio cautelare e che le considerazioni svolte sul punto dalla Corte territoriale siano giuridicamente corrette ed assistite da adeguata motivazione.
Il ricorrente analizza, nel dettaglio, tutta una serie di disposizioni e di atti amministrativi che ritiene evidentemente sufficienti per la realizzazione delle opere, ma così non è.
Si tratta, come correttamente ha rilevato la Corte di appello, di atti e provvedimenti aventi finalità diverse.
Segnatamente, come si ricava dalla sentenza impugnata e dal ricorso, la determinazione della Regione Lazio (B1673 del 03/05/2005) riguarda l'occupazione temporanea (fino al 31/12/2007) di specchi acquei del fiume Tevere per mq 284, di cui 262 coperti "allo scopo di mantenervi degli edifici galleggianti adibiti a bar e cure elioterapiche".
Il provvedimento dell'A.R.D.I.S. (del 13/12/2002) autorizzava "ai soli fini idraulici e senza esonero dal richiedere ogni altra licenza o permesso previsto dalle norme vigenti" la ricostruzione di una struttura galleggiante, simile alla preesistente, consistente in un edifico "ad un unico piano con locale bar, sala fisioterapica ed alloggio custode, nonché solarium sul tetto". La seconda autorizzazione (dell'ottobre 2003) di variante al progetto per la realizzazione di un secondo piano dell'edificio "destinato ad uso bar e cure elioterapiche", veniva rilasciata "al fine della salvaguardia delle opere e pertinenze idrauliche", con specifica indicazione dell'onere di acquisire, prima dell'inizio dei lavori, "anche tutte le altre autorizzazioni, pareri o assensi previsto dalla normativa vigente".
Il parere tecnico sanitario dell'AUSL RM/E (del 07/12/2005) veniva rilasciato "fatto salvo il rispetto della normativa edilizio urbanistica".
7. A fronte di ciò, si rileva, nella sentenza impugnata, che il sopralluogo effettuato dalla polizia giudiziaria evidenziava la presenza di otto appartamenti e la modifica dell'originaria destinazione d'uso, da ricreativa ad abitativa.
Quanto alla normativa citata in ricorso, si rileva che la legge 06.05.1906, n. 200 disciplina la navigazione del Tevere fra Roma ed il mare, così come il regolamento per l'esecuzione, contenuto nel R.D. 10.08.1934, n. 1452 e che, pur considerando anche l'esecuzione di opere, prendono entrambi in considerazione gli aspetti prettamente concernenti la navigazione ed il regime del fiume e delle sue sponde.
Tutti gli atti autorizzativi in precedenza menzionati, per ciò che si ricava dai loro contenuti, richiamati nella sentenza impugnata, attengono ad aspetti prettamente idraulici e fanno comunque salve le altre disposizioni vigenti.
Esse, inoltre, riguardano una struttura del tutto diversa da quella effettivamente realizzata, che consta, come si è detto, anche di appartamenti ed ha, dunque, destinazione residenziale.
È pertanto del tutto destituita di fondamento l'affermazione del ricorrente, secondo il quale le opere realizzate sarebbero autonomamente disciplinate per ciò che concerne il profilo urbanistico.
8.
Quanto alla necessità del permesso di costruire, va ribadito quanto evidenziato nella sentenza emessa da questa Sezione nell'ambito del giudizio cautelare, rilevando come, in ogni caso, le caratteristiche del manufatto lo qualificano come intervento di nuova costruzione ai sensi del d.P.R. 380/2001, in quanto comportante una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e rientrante tra le opere definite, a titolo esemplificativo, dall'art. 3, comma 1, lett. e5 e, segnatamente, tra le strutture o imbarcazioni utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, non dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Va altresì osservato come la necessità del permesso di costruire per le strutture galleggianti insistenti sul fiume Tevere sia stata più volte riconosciuta, dalla giurisprudenza amministrativa, con riferimento a casi analoghi, come peraltro ricordato nella sentenza impugnata, stabilendo che la collocazione in uno spazio fluviale di una imbarcazione va qualificata come realizzazione di una nuova costruzione, per la cui legittimità è necessario il previo rilascio del permesso di costruire, rilevando che anche i fondali subacquei costituiscono suolo, in questo caso demaniale e che pertanto le strutture su di esso stabilmente installate sono per ciò stesso "strutturalmente" assoggettabili al regime di cui agli artt. 3, 10 e 35 del testo unico sull'edilizia, ciò in quanto il verbo installare significa, "sistemare stabilmente in un luogo" e, quindi, si riferisce anche ad impianti fissi collocati in uno spazio acquatico e non solo terrestre, tanto che anche nel linguaggio comune e tecnico si parla di installazione di piattaforme, banchine, pontili, cioè classiche strutture in ambiente marino, lacuale o fluviale (cfr. Cons. Stato, sez. IV n. 4673 del 23/07/2009 e Sez. IV n. 2636 del 06/05/2010).
9. Va conseguentemente affermato che
per la realizzazione di strutture galleggianti stabilmente ancorate alle sponde di un fiume ed utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro ovvero di ristorazione, ritrovi, depositi, magazzini e simili e, quindi, non destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, è necessario il permesso di costruire.
A tali conclusioni è motivatamente pervenuta anche la Corte territoriale, sicché la sentenza impugnata risulta, sul punto, del tutto immune da censure.
11. Per ciò che riguarda, infine, il quarto motivo di ricorso, va richiamato quanto già evidenziato dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di ignoranza o erronea interpretazione della legge urbanistica.
Si è rilevato (Sez. 3, n. 11045 del 18/02/2015, De Santis e altro, Rv. 26328801) come questa Corte abbia specificato (Sez. 3, n. 23998 del 12/05/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv. 250608) che
la condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile l'erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del 02/05/1988, Rurali, Rv. 178593).
Più in generale, si è precisato che
l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (Sez. 5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384).
12. Nel caso in esame incombeva, pertanto, in capo all'imputato, uno specifico onere di informazione, non superabile per il fatto del rilascio di altri atti autorizzatori, i quali, come si è visto, avevano finalità diverse e facevano comunque salva la necessità di altri titoli abilitativi, senza contare che gli stessi riguardavano opere del tutto diverse da quelle poi effettivamente realizzate, aventi anche diversa destinazione d'uso come accertato dai giudici del merito.
Anche in questo caso la Corte territoriale ha fornito adeguata motivazione, conforme ai principi ricordati, richiamando il contenuto degli atti amministrativi e ponendo in evidenza come l'imputato, architetto ed imprenditore, non poteva equivocarne il significato ed osservando, altresì, che questi non risultava aver comunque interloquito con i competenti ufficio comunali al fine di assolvere all'onere di informazione su di lui incombente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2017 n. 12387).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Concorso nel reato di gestione di discarica abusiva (Sindaco e capo pro tempore dell'ufficio tecnico del Comune) - Trasformazione con condotta omissiva dell'area di raccolta e "stazione di trasferenza" in discarica.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Culpa in vigilando - Individuazioni delle responsabilità - Art. 6, c. 1, lett. e), L. n. 210/2008.

La gestione di una discarica abusiva può comportare il concorso di contributi attivi o passivi da parte di più soggetti, concorrenti tra loro oppure agenti in un quadro di cooperazione colposa, venendo tutti tali soggetti chiamati a rispondere per gli apporti dati alla realizzazione del reato.
Escluso che, la responsabilità del Sindaco possa per ciò solo comportare la esclusione di concorrenti profili di responsabilità in capo al dirigente dell'ufficio tecnico comunale, ognuno di essi dovendo rispondere in dipendenza dei compiti rientranti nelle rispettive attribuzioni.
Fattispecie: Realizzazione e gestione, in qualità di Sindaco del Comune di Ustica e in qualità di capo pro tempore dell'ufficio tecnico del Comune, una discarica non autorizzata di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, omettendo di avviare i rifiuti ad impianti di recupero e smaltimento (dando luogo ad un incendio controllato da quattro operai dipendenti del Comune).
RIFIUTI - Concetto ampio di "gestione" di una discarica abusiva - Soggetti che possono concorrere a titolo di dolo o colpa - Responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti propri, i responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti di terzi, i trasportatori, i proprietari dell'area interessati, e i pubblici amministratori.
Il concetto di "gestione" di una discarica abusiva, già previsto dall'art. 25 del d.P.R. 10.09.1982, n. 915 e successivamente recepito dall'art. 256, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 e, da ultimo, per quanto qui di rilievo, dall'art. 6, comma 1, lett. e), del d.l. n. 172 del 2008, convertito in L. n. 210 del 2008, deve essere inteso in senso ampio; nello stesso deve infatti includersi qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente.
Sicché più soggetti possono concorrere, a titolo di dolo o colpa, nella "gestione" di una discarica abusiva, quali i responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti propri, i responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti di terzi, i trasportatori, i proprietari dell'area interessati, nonché, per quel che rileva nella specie, i pubblici amministratori (Sez. 3, n. 163 del 04/11/1994, dep. 13/01/1995, Zagni) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.03.2017 n. 12159 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività edilizia oggetto di ordinanza di sospensione sebbene non necessiti del previo rilascio del permesso di costruire - Prosecuzione dei lavori nonostante l'ordine di immediata sospensione - Artt. 27, 37, 44, 93 e 95 DPR 380/2001.
In tema di reati edilizi, la contravvenzione consistente nella prosecuzione dei lavori nonostante l'ordine di immediata sospensione adottato dal Sindaco ex art. 4, comma 3, L. 28/02/1985 n. 47 (oggi adottato dal dirigente o responsabile dell'Ufficio comunale competente ex art. 27, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380) è configurabile anche nel caso in cui l'attività edilizia oggetto dell'ordinanza di sospensione non necessiti del previo rilascio del permesso di costruire, in quanto la norma sanzionatoria mira a punire il comportamento di chiunque contrasti l'intervento cautelare della P.A..
Attività incompatibili con le esigenze di tutela dell'assetto del territorio - Esercizio del potere di autotutela - Ordine amministrativo di sospensione dei lavori - Reato ha carattere plurioffensivo - Sindacato del giudice penale - Poteri e limiti.
L'ordine amministrativo di sospensione dei lavori non si correla soltanto alle opere soggette a concessione edilizia (oggi permesso di costruire) ma ben può inerire a tutte le attività incompatibili con le esigenze di tutela dell'assetto del territorio.
Pertanto, nel caso in cui sia stato contestato all'imputato di avere dato corso a lavori edilizi in assenza di concessione e di aver proseguito tali lavori malgrado l'intervenuta ordinanza di sospensione, qualora il giudice abbia ritenuto che l'esecuzione di quei lavori, non essendo assoggettata al regime concessorio, non è prevista dalla legge come reato, non altrettanto può affermarsi relativamente alla prosecuzione dei lavori nonostante l'ordine di sospensione.
Il reato ha carattere plurioffensivo, in quanto l'interesse protetto dalla norma incriminatrice, in uno con quello del regolare assetto del territorio, insito nel provvedimento preso ed in tutta la disciplina urbanistica, è quello specifico del rispetto delle prescrizioni adottate dalla pubblica amministrazione nell'esercizio del potere di autotutela. Il giudice penale non può sindacare il merito del provvedimento comunale di sospensione dei lavori, bensì solo la sua legittimità, con riferimento alla classica tripartizione delle ipotesi di illegittimità dell'atto amministrativo.
La "ratio" è quella del rispetto dei provvedimenti cautelari adottati dalla P.A. nell'esercizio del potere di autotutela e non può essere fatta alcuna distinzione a seconda che le opere vengano realizzate in assenza di permesso di costruire o di DIA o SCIA, ovvero in difformità dalle stesse.
Ordine di sospensione dei lavori edilizi abusivi - Prosecuzione delle opere edilizie - Configurabilità del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
L'ordine di sospensione dei lavori edilizi abusivi, disposto dall'autorità comunale ex art. 27 d.P.R n. 380 di 2001, ha effetto sino alla emanazione dei provvedimenti definitivi, indipendentemente dallo scadere del termine di giorni quarantacinque fissato nel citato art. 27, trattandosi di un termine ordinatorio che ha il solo scopo di sollecitare la P.A. all'adozione dei provvedimenti definitivi (sez. 3 n. 12278 del 21/03/2007, Rosafio).
Ne consegue che la prosecuzione delle opere edilizie, attuata durante il periodo di vigenza dell'ordinanza comunale di sospensione dei lavori, integri la fattispecie di reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, indipendentemente dalla successiva decorrenza del termine di efficacia dell'ordinanza medesima (Sez. 3 n. 28132 del 12/02/2013, Cinque; sez. 3, n. 41884 del 09/10/2008, Civita) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.03.2017 n. 11568 - link a www.ambientediritto.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATASottotetto comune quando serve all’uso del condominio. Diritto di proprietà. Gli spazi sopra l’ultimo piano.
I giudici hanno dibattuto e sono stati chiamati più volte a decidere a chi appartenesse il sottotetto in condominio: è una parte comune dell’edificio condominiale che rientra in quei beni, seppur senza farne espressa menzione, indicati nell’articolo 1117 del Codice civile, oppure è di proprietà del proprietario dell’appartamento dell’ultimo piano?
La Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con ordinanza 10.03.2017 n. 6314 (relatore Antonio Scarpa) affronta ancora una volta questa tematica. Un condòmino aveva proposto ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Firenze che, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Pisa, aveva rigettato la sua richiesta di rivendica di due locali sottotetto al terzo e ultimo piano del condominio.
La Corte di Firenze, in particolare, affermava che le due soffitte avessero una specifica destinazione pertinenziale al servizio del terzo piano, e non una destinazione comune a servizio dell’edificio condominiale e, quindi, non rientravano tra i beni di cui all’articolo 1117 del Codice civile.
I giudici della Cassazione, partendo da questo assunto, ricostruiscono la vicenda.
Il condominio, così come regolato dagli articoli 1117 del Codice civile e seguenti, viene a strutturarsi dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad un altro soggetto. Da questo momento inizia a operare la presunzione legale (articolo 1117) di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti dell’edificio che per ubicazione e/o struttura, sono destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze del condominio, salvo che dal titolo, ovvero dall’atto di trasferimento immobiliare, non risulti una chiara e manifesta volontà di riservare al condomino la proprietà di alcune di queste parti.
Le soffitte/sottotetti sono beni non espressamente indicati nell’elenco esemplificativo contenuto nell’articolo 1117 del Codice civile.
La Cassazione, secondo un consolidato indirizzo, reputa i sottotetti di proprietà comune quando sono destinati, per le loro caratteristiche funzionali e strutturali, all’uso comune (si veda anche l’articolo sul Sole 24 Ore del 03.01.2017, dove si illustra la sentenza della Cassazione 23902/2016). Se, invece, il sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall’umidità, l’appartamento dell’ultimo piano e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’uso come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento.
La proprietà del sottotetto si determina, dunque, in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto.
Nel caso in esame la Cassazione ha rigettato il ricorso, avendo la Corte d’appello di Firenze accertato, con apprezzamento di fatto, insindacabile in Cassazione, che i due sottotetti sono di pertinenza dell’appartamento del terzo piano
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2017).
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MASSIMA
La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice Civile, si attua sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall'originario unico proprietario ad altro soggetto.
Secondo le emergenze documentali del giudizio, il Condominio di Via ..., 37, Pisa, deve intendersi sorto con l'atto di frazionamento dell'iniziale unica proprietà Ma. in data 29.11.1989. Originatasi a tale data la situazione di condominio edilizio, dallo stesso momento doveva intendersi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione "pro indiviso" di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero -in tale momento costitutivo del condominio- destinate all'uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal titolo del 29.11.1989 non risultasse, in contrario, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente alla venditrice o ad alcuno dei condomini la proprietà di dette parti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 18/12/2014).
L'art. 1117 c.c. attribuisce, invero, ai titolari delle singole unità immobiliari dell'edificio la comproprietà di beni, impianti e servizi -indicati espressamente o per "relationem"- in estrinsecazione del principio "accessorium sequitur principale", per propagazione ad essi dell'effetto traslativo delle proprietà solitarie, in quanto necessari all'uso comune, ovvero destinati ad esso, se manca o non dispone diversamente il relativo titolo traslativo.
Nella specie, si controverte ancora di soffitte-sottotetto e di un gabinetto posto tra il secondo ed il terzo piano dell'edificio. Si tratta di beni tutti non espressamente nominati nell'elenco esemplificativo contenuto nell'art. 1117 c.c. (formulazione applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11.12.2012, n. 220).
Secondo consolidata interpretazione di questa Corte,
sono comunque oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, agli effetti dell'art. 1117 c.c. (in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con modifica, in parte qua, di natura interpretativa, dalla legge 11.12.2012, n. 220) i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6143 del 30/03/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8968 del 20/06/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7764 del 20/07/1999).
Altrimenti, ove non sia evincibile il collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà supposto dall'art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la destinazione all'uso comune o all'esercizio di un servizio di interesse comune, giacché lo stesso sottotetto assolva all'esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo, dal freddo e dall'umidità l'appartamento dell'ultimo piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, esso va considerato pertinenza di tale appartamento.
La proprietà del sottotetto si determina, dunque, in base al titolo e, in mancanza, in base alla funzione cui esso è destinato in concreto
: nel caso in esame, la Corte di Appello di Firenze, con apprezzamento di fatto spettante in via esclusiva al giudice del merito, ha accertato che i locali sottotetto fossero posti in destinazione pertinenziale a servizio del terzo piano e sottratti all'uso comune.

COMPETENZE PROGETTUALIOpere artistiche, interventi aperti anche agli ingegneri.
Interventi su opere artistiche aperti agli ingegneri. Secondo una sentenza del Tar Puglia, infatti, non è riservata agli architetti la possibilità di intervento in tema di opere ritenute di rilevante carattere storico e artistico.

È quanto emerge dalla sentenza 10.03.2017 n. 411, I Sez., TAR Puglia-Lecce, che ha annullato l'avviso pubblico bandito dal comune di Martano, in provincia di Legge, per realizzare un'indagine di mercato per l'affidamento di servizi professionali di riqualificazione del centro storico, riservata ai soli architetti.
Lo ha reso noto il Consiglio nazionale degli ingegneri, con la circolare n. 35 dove è allegata la sentenza. In particolare, l'Ordine degli ingegneri di Legge aveva impugnato l'avviso pubblico bandito dal comune nella parte in cui era indicato quale requisito di idoneità l'iscrizione nell'albo degli architetti, sostenendo la sua illegittimità perché immotivatamente limitativo della facoltà, per gli ingegneri, di concorrere per la successiva aggiudicazione.
Secondo i giudici, in particolare, nel caso di specie le autorità competenti hanno definito nei minimi dettagli i profili di tutela dell'opera e il modo di esercizio dell'opera, per cui «l'attività oggetto di gara si risolve in una mera ingegnerizzazione del progetto stesso, con conseguente esclusione di scelte che fuoriescano dalla ordinaria competenza di un ingegnere» (articolo ItaliaOggi del 04.04.2017).

CONSIGLIERI COMUNALINiente sospensione per il sindaco. Reati contro la Pa. La misura non è applicabile nel caso di uffici ricoperti per diretta investitura popolare.
Non ci sono margini. La sospensione dalla funzione di sindaco non è possibile. Neppure dopo la legge Severino e la ancora più recente riforma dei reati contro la pubblica amministrazione. Il Codice penale parla chiaro e vieta l’applicazione della misura per tutti gli «uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare».
Lo chiarisce, con una punta di rammarico, una Corte di Cassazione -Sez. VI penale- che, con la sentenza 06.03.2017 n. 10940, ha annullato l’ordinanza del giudice del riesame di Bari che aveva invece sospeso dall’esercizio delle funzioni di sindaco un politico al quale erano contestati i reati di induzione indebita e violenza privata.
La Cassazione mette in evidenza come la disposizione, articolo 289, comma 3, del Codice di procedura penale, sia estremamente stringente e, nello stesso, tempo, abbia sollevato nella dottrina un dibattito acceso. Si introduce infatti una sorta di immunità o esenzione dalla misura interdittiva proprio in un settore come quello dei delitti contro la Pa dove, più di altri forse, l’applicazione della sospensione potrebbe avere un’efficacia importante.
A volere tacere dell’incoerenza di un sistema che ammette nei confronti dei titolari di uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare forme di restrizione della liberta personale anche detentive e, nello stesso tempo, lascia in vigore una sorta di “scudo” da provvedimenti interdittivi.
Certo, la Cassazione si è mossa per un bilanciamento tra rispetto della volontà legislativa e tutela del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La norma del Codice non può cioè essere interpretata, avverte la sentenza, come una sorta di salvacondotto cautelare. E tuttavia la disposizione è passata indenne attraverso i due principali interventi di riforma che hanno investito la materia in questi anni: la legge Severino e la legge n. 47 del 2015.
Il riesame di Bari, dopo aver valutato l’esistenza degli indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, ha ritenuto sufficiente applicare una misura interdittiva al posto di quella più pesante, detentiva, chiesta dal pm. Ha cioè applicato la sospensione, ritenendo che le condotte delittuose poste in essere, secondo il quadro accusatorio, fossero legate in maniera indissolubile all’esercizio della funzione.
Un errore che non può non essere corretto e che porta all’annullamento dell’ordinanza, anche perché il divieto ha una portata ampia e si estende anche ai casi in cui la sospensione è adottata al posto di un’altra misura coercitiva precedentemente adottata
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.03.2017).

VARITestamento a mano guidata ko. L'intervento di un'altra persona esclude l'autografia. CASSAZIONE/ Gli Ermellini confermano quanto affermato dalla Corte distrettuale.
Nullità del testamento redatto con «mano guidata»: è quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 06.03.2017 n. 5505.
Il caso su cui è intervenuto il Supremo consesso aveva ad oggetto la nullità di un testamento olografo dichiarata a seguito di domanda giudiziale proposta dalle sorelle del de cuius, le quali, in sede di merito, avevano lamentato il forte tremolio delle mani del fratello e la conseguente impossibilità di scrivere da solo. Avverso tale decisione il coniuge superstite ricorre per cassazione, censurando l'erroneità delle affermazioni dei giudici del merito e l'omessa disamina della permanenza, alla data di redazione del testamento, della capacità di scrivere del testatore.
Di parere contrario sono stati gli ermellini, i quali, a conferma di quanto detto dalla Corte distrettuale, hanno definito puntuali le indicazioni fornite nella sentenza di appello e ricordato come, per la redazione di un testamento olografo, l'intervento da parte di una terza persona quale aiuto e guida della mano del testatore «di per sé, escluda il requisito dell'autografia di tale testamento, indispensabile per la validità del testamento olografo, a nulla rilevando l'eventuale corrispondenza del contenuto della scheda alla volontà del testatore».
Così argomentando hanno quindi rigettato il ricorso, condannato la ricorrente alle spese di giudizio e chiarito, nelle motivazioni, che deve ritenersi «decisamente più corrispondente alla ratio della norma la soluzione che perviene alla nullità per difetto di olografia per ogni ipotesi di intervento del terzo che guidi la mano del testatore, trattandosi di condotta che appare in ogni caso idonea ad alterare la personalità e l'abitualità del gesto scrittorio, requisiti indispensabili perché possa parlarsi di autografia, laddove la diversa soluzione ( ) condizionerebbe l'accertamento della validità o meno del testamento alla verifica di ulteriori circostanze, quali l'effettiva finalità dell'aiuto del terzo, ovvero la verifica della corrispondenza effettiva del testo scritto alla volontà dell'adiuvato, che minerebbero in maniera evidente le finalità di chiarezza e semplificazione che sono alla base del testamento olografo» (articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’autodromo rumoroso paga i danni al «B&B». Tribunale di Firenze. Senza precedente.
Non sarà dimenticata la sentenza 06.03.2017 n. 721 del TRIBUNALE di Firenze, Sez. II civile, con il quale ha creato un precedente giurisprudenziale disponendo per la prima volta, nel nostro Paese, la condanna di un autodromo per immissioni rumorose. Di fatto, anticipando in parte la più restrittive norme sul rumore contenute nei decreti legislativi 41 e 42 (pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale» del 4 aprile e in vigore dal 19), che riordinano le norme in materia di tutela dell’ambiente, in particolare sull’inquinamento acustico.
Nel caso in questione, a chiedere risarcimento sono stati i componenti di una famiglia residente in una villa adibita, anche a Bed & Breakfast, nelle vicinanze dell’autodromo.
Il Tribunale di Firenze, ha dapprima accertato il superamento delle soglie di tollerabilità delle immissioni acustiche verificatisi in concomitanza di alcuni degli eventi motoristici che si svolgono nell’impianto. In seguito, ha disposto la condanna della società, che gestisce l’autodromo, a indennizzare gli attori per la sofferenza subita a causa dei rumori.
Le esorbitanti pretese economiche avanzate, in sede di domanda giudiziale, dalla famiglia residente nel B&B non hanno però trovato completa attuazione. Il giudice, infatti, ha ridimensionato molto le pretese. Questo, in ragione di un’importante circostanza. Se da un lato gli attori hanno affermato di essere impossibilitati a svolgere in maniera serena le loro attività quotidiane, dall’altro è anche vero che la compromissione della normale qualità della vita deve essere contemperata con il vantaggio che agli stessi deriva dall’attività commerciale svolta attraverso il B&B.
L’alloggio, infatti, risulta notevolmente favorito dalla vicinanza dell’autodromo, che lo rende la sede preferita da molti appassionati di motori che decidono di recarsi in zona per assistere alle gare. La presenza di eventi motoristici è, oltretutto, uno degli aspetti presenti negli elementi pubblicitari promossi dagli attori, per la visibilità commerciale dello stesso B&B, come il proprio sito web. Inoltre, l’attività ha avuto origine in un periodo temporale posteriore a quello della costruzione dell’impianto, per cui i componenti la famiglia erano a conoscenza dell’attività motoristica che si sarebbe svolta nell’autodromo.
Il superamento del limite consentito dalla normativa delle immissioni acustiche ha portato alla decisione di corrispondere ai componenti della famiglia un equo indennizzo. Tuttavia, il Tribunale ha comunque affermato che «la giurisprudenza è unanime nel ritenere che un’immissione intollerabile, ma non illecita, faccia sorgere il diritto a un indennizzo, e ciò attraverso l’applicazione analogica della disciplina, caratterizzata da identica ratio, di altre fattispecie, in ragione della valorizzazione del nesso tra limitazione al contenuto del diritto e rispondenza dell’attività immissiva all’interesse generale».
Del resto, «l’indennizzo rappresenta una prestazione patrimoniale che vale a compensare un soggetto a seguito di un pregiudizio patito che, però, non consegue ad un illecito, con il diverso fine di equilibrare una situazione che solo potenzialmente rischierebbe di diventare ingiusta» .
A ciascun membro della famiglia spetta, quindi, un indennizzo annuo di 5mila euro per l’assordante rumore prodotto durante gli eventi motoristici che si svolgono, nel corso dell’anno, nell’autodromo in questione, oltre al pagamento delle spese legali, quantificate in 7mila euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2017).

PUBBLICO IMPIEGOUffici disciplinari con un solo componente. Pubblico impiego. Non è richiesta una struttura collegiale e il procedimento può essere gestito dal dirigente dello stesso settore del dipendente.
Nel pubblico impiego l’ufficio per i procedimenti disciplinari può essere composto in modo monocratico e può farne parte il dirigente del settore in cui svolge la sua attività il dipendente oggetto del procedimento. Gli enti devono però necessariamente garantire che esso sia autonomo e distinto dalle altre strutture. Inoltre il termine imperativo di conclusione del procedimento disciplinare deve essere calcolato rispetto alla data di irrogazione della sanzione e non alla sua comunicazione e l’ente può assumere le risultanze di fatto del procedimento penale che ha interessato il dipendente per lo stesso fatto.
Possono essere così sintetizzate le principali indicazioni contenute nella sentenza 02.03.2017 n. 5317 della Corte di Cassazione - Sez. lavoro.
Tali principi sono importanti sia perché sottolineano gli spazi assai ampi di autonomia delle singole amministrazioni, sia alla luce delle disposizioni contenute nello schema di decreto legislativo di riforma del pubblico impiego, approvato in via preliminare dal governo settimana scorsa, che amplia il ruolo dell’ufficio procedimenti disciplinari assegnandogli la competenza alla adozione di tutti i provvedimenti disciplinari e non più solamente di quelli di maggiore gravità.
In primo luogo, la sentenza stabilisce che le amministrazioni pubbliche devono istituire l’ufficio per i procedimenti disciplinari ma che non sono richieste né specifiche formalità né che tale ufficio debba necessariamente essere costituito in modo collegiale: si può benissimo avere un ufficio costituito da un solo componente. Occorre inoltre considerare che le attività istruttorie possono essere svolte dal personale assegnato a tale ufficio per lo svolgimento delle necessarie attività di supporto.
Un ulteriore elemento centrale della sentenza è lo stabilire che il dirigente del settore in cui il dipendente destinatario del procedimento svolge la sua attività può far parte dell’ufficio per i procedimenti disciplinari. In tal caso non viene violato il vincolo della terzietà di tale ufficio, vincolo che costituisce un presupposto indispensabile per la legittimità della sua composizione.
La terzietà impone solamente che vi sia una distinzione tra questo ufficio e la struttura in cui il dipendente è utilizzato: nel rispetto di tale obbligo l’ente è dotato di una ampia autonomia operativa. Non si deve infatti dimenticare che siamo nell’ambito di una attribuzione comunque spettante al datore di lavoro, il che rende peculiari i principi posti a base dei procedimenti disciplinari e ne sottolinea l’autonomia organizzativa
Viene inoltre chiarito che la mancata comunicazione da parte del dirigente al dipendente della trasmissione degli atti all’ufficio per i procedimenti disciplinari non determina un vizio di legittimità del procedimento: la comunicazione ha una funzione meramente informativa e, comunque, l’ufficio per i procedimenti disciplinari si può attivare anche senza la trasmissione degli atti da parte del dirigente del settore.
Il termine imperativo di conclusione del procedimento disciplinare, che ricordiamo essere di 120 giorni nei casi più gravi, non si calcola dalla data di comunicazione dello stesso al dipendente, ma dalla data in cui il provvedimento viene adottato.
La sentenza ribadisce, infine, che l’ente può assumere le circostanze di fatto che sono state acclarate nel procedimento penale che si è svolto sullo stesso fatto, ivi comprese le intercettazioni telefoniche e le perizie
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.03.2017).

PUBBLICO IMPIEGOStop alla pubblicazione dei redditi. Pubbliche amministrazioni. Il Tar Lazio ha sospeso la diffusione dei dati di dirigenti e familiari.
Il decreto legislativo 33/2013, come rimaneggiato a seguito del decreto legislativo 97/2016, riceve, a pochi mesi di distanza dalla sentenza del Consiglio di Stato 3631/2016, un ulteriore colpo inferto, questa volta, dal Tar Lazio-Roma, Sez. I-quater, con l’ordinanza 02.03.2017 n. 1030.
La vicenda è semplice: alcuni funzionari dipendenti del Garante per la protezione dei dati personali si sono opposti alla pubblicazione dei loro dati reddituali prevista dalle disposizioni del nuovo articolo 14, comma 1-bis, del Dlgs 33/2013, il quale richiede che le pubbliche amministrazioni pubblichino i redditi dei titolari di incarichi dirigenziali, nonché del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano.
Va data evidenza dell’eventuale mancato consenso. Nell’opporsi alla pubblicazione hanno richiamato alcune pronunce dello stesso Garante della privacy il quale dal canto suo, costituendosi in giudizio, dimentico dei suoi precedenti ha stretto la mano ad Anac, citandone i provvedimenti a supporto della massima trasparenza nella pubblicazione dei redditi dei titolari di incarichi dirigenziali.
Al Tar Lazio è stato chiesto l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, di una serie di note del segretario generale del Garante della privacy, di ogni atto presupposto, conseguente o comunque connesso, eventualmente previa disapplicazione dell’articolo 14, comma 1-bis, del Dlgs 33/2013, ovvero, ove necessario, per la rimessione alla Corte Ue, alla Corte costituzionale della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni con la normativa
Il Tar ha rilevato, in particolare, «la consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate in ricorso» e ha valutato «l’irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti, discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa, da cui l’esigenza di salvaguardare la res adhuc integra nelle more della decisione del merito della controversia» e quindi ha ritenuto sussistenti i presupposti per la concessione della richiesta cautelare.
La norma oggetto di censura da parte del Tar è applicabile anche agli enti locali e l’ordinanza rischia di sollevare una reazione a catena da parte di tutti quelli toccati dagli obblighi di pubblicazione in base all’articolo 14. Apparirebbe opportuna, pertanto, una modifica della norma, così come ben potrebbe Anac, tenendo conto dell’ordinanza e in attesa della decisione definitiva, suggerire nelle linee guida concernenti l’articolo 14 (di cui si attende la pubblicazione) delle indicazioni in grado di contemperare i contrapposti interessi di chi è tenuto a pubblicare quelle informazioni e di chi, per contro, vedrebbe pubblicati i dati propri e degli altri soggetti
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2017).

EDILIZIA PRIVATACostruzione libera quando il soppalco è solo un ripostiglio. Consiglio di Stato. Permesso se c’è fruibilità.
Soppalchi liberi purché non fruibili ma meri ripostigli: lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 02.03.2017 n. 985.
È necessario, invece, un permesso di costruire per i soppalchi non modesti, che aumentino la superficie dell’immobile in modo significativo. Il soppalco deve essere uno spazio aggiuntivo la cui consistenza va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto che non deve apparire ristrutturato (articolo 3 comma 1, Dpr 380/2001), e quindi non deve generare un incremento delle superfici dell’immobile e del carico urbanistico (Cds sentenza 4468/2014).
Non è invece richiesto il permesso di costruire per interventi minori, quando cioè il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, ad esempio quando la struttura non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno. Nel caso esaminato, il Comune di Roma aveva emesso un’ordinanza di demolizione che i giudici hanno annullato perché l’intervento generava, al livello inferiore, un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta (mt. 1,50), tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone: si trattava di un ripostiglio.
Al livello superiore, vi erano invece due finestre, la superficie era di circa 20 mq, con attacchi per impianti idrici ed elettrici. La necessità di un titolo edilizio riemerge quando il soppalco realizzato abbia superficie di 20 mq. e sia posto a mt. 1,98 dal soffitto, ampliando in maniera significativa la superficie calpestabile di un immobile destinato ad attività commerciale, creando autonomi spazi: in questo caso, l’intervento è stato qualificato di ristrutturazione edilizia, con aggravio del carico urbanistico (sentenza 4468/2014).
Per gli edifici produttivi, alcune regioni (quali il Piemonte) hanno reso elastica, nei loro “piani casa”, la possibilità di realizzare soppalchi, estendendo principi di libera utilizzazione (attraverso il cambio di destinazione) all’interno della stessa categoria di immobili a destinazione produttiva.
Tornando alle ipotesi residenziali, anche nel caso di soppalco realizzato all’interno di una abitazione con putrelles di ferro della superficie di oltre 100 mq. è necessario un permesso di costruire, non bastando la presentazione di una Dia: la sanzione per abusività è la demolizione.
Più in dettaglio, se l’immobile è vincolato, è necessario anche il nulla-osta della Soprintendenza qualora il soppalco riguardi di un vano soggiorno, per una superficie pari alla metà dell’ alloggio: il provvedimento dell’autorità è necessario anche se la struttura può apparire come mero arredo interno, all’occorrenza eliminabile. Dimensioni e materiali, hanno quindi rilievo ai fini delle normative edilizie, e si sommano ad eventuali previsioni per caratteristiche locali, ad esempio di tipo antisismico
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.03.2017).
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MASSIMA
2. In base ad un rilievo logico, prima che giuridico,
la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
3. In linea di principio,
sarà necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico: così per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468. Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
4. Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di specie, in cui, come detto in narrativa, lo spazio realizzato con il soppalco è un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona sostanza, di un ripostiglio.
5. Quanto sopra è sufficiente per affermare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata, che va annullata, in riforma della sentenza di primo grado, perché fondata, in sintesi, su un presupposto non corretto.
6. Va invece assorbito il secondo motivo, che si fonda sul rapporto fra l’ordinanza impugnata ed un fatto ulteriore, la presentazione in un momento successivo della DIA. E’ evidente infatti che, annullata l’ordinanza stessa, la possibilità che rispetto alla demolizione da essa ordinata si sia prodotta una sanatoria è priva di rilievo.
Spetterà invece all’amministrazione, nel prosieguo della propria attività, valutare se l’opera compiuta integri un diverso e minore tipo di abuso, e in caso affermativo se esso sia stato sanato dalla DIA in questione. Ciò però rientra nel futuro esercizio di poteri amministrativi, sui quali il Giudice non può pronunciare.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAGià con la legge urbanistica n. 1142 del 1950, l’art. 31, c. 9, si stabiliva che chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto così riconoscendosi una posizione qualificata e differenziata in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa.
Parallelamente oggi l’art. 20, c. 6, del T.U. n. 380 del 2001, come inteso dalla giurisprudenza vigente, assicura a qualsiasi soggetto interessato (termine da intendersi non come sinonimo di un’azione popolare ma con riferimento ai proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa ed a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa) la possibilità di visionare gli atti del procedimento di rilascio di un permesso di costruire, in ragione del controllo diffuso sull'attività edilizia, che il legislatore ha inteso garantire ed atteso che in subiecta materia non può essere affermata l'esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati, sicché nel caso di specie non trova applicazione la norma dell’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006.
In sostanza, rispetto all’ostensione di un permesso di costruire o di altri titoli legittimanti l’esecuzione di interventi in edilizia, deve ritenersi pacifico e radicato in giurisprudenza il principio secondo il quale la sussistenza del requisito della vicinitas tra la proprietà dell'istante e quella del controinteressato fanno sì che debba riconoscersi la sussistenza in capo al ricorrente dell'interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è stato chiesto l'accesso, cosicché la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti.

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L’interesse attuale che presiede alla richiesta di accesso non corrisponde necessariamente all’interesse ad agire in giudizio per la tutela immediata della posizione sottostante la richiesta. Il diritto di accesso non è inscindibilmente collegato alla difesa in giudizio della situazione sottostante, ma ha una valenza autonoma non dipendente dalla sorte della lite per la quale o in vista della quale è esercitato.
Il principio dell’autonomia della tutela del diritto di accesso rispetto alla situazione giuridica sottostante comporta che la richiesta ostensiva è da ritenersi esperibile anche laddove sia decorso il termine utile per l’impugnazione dell’atto ritenuto lesivo, considerato che l’intento conoscitivo e difensivo non implica necessariamente il proposito di produrre un ricorso per l’annullamento dell’atto, ben potendo azionarsi altri rimedi anche giustiziali, a tutela delle proprie posizioni soggettive vulnerate, ivi incluse eventuali azioni di risarcimento del danno oppure la costituzione di parte civile nel caso di procedimenti penali.
Inoltre l’ostensibilità degli atti non può intendersi preclusa dalla pendenza di un giudizio, amministrativo o civile, nel corso del quale possa essere disposta l’acquisizione degli atti richiesti, dal momento che, si ribadisce, il diritto di accesso sussiste e va riconosciuto come posizione autonoma, tutelata indipendentemente dalla pendenza di un procedimento giurisdizionale.
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Del pari è irrilevante la questione se i documenti di cui si chiede l’ostensione siano determinanti o meno ai fini della decisione nel processo pendente, in quanto la norma che regola il diritto di accesso non collega il soddisfacimento di quest’ultimo alla soluzione nel merito delle vicende connesse, ma impone soltanto l’esistenza di un collegamento tra la richiesta di accesso ed un interesse giuridicamente rilevante del richiedente meritevole di tutela.
Di qui consegue che resta preclusa all’amministrazione adita in sede di accesso ogni eventuale previa delibazione sulla fondatezza e meritevolezza della situazione soggettiva sottostante, sicché irrilevante si appalesa l’eccezione che si fonda sull’intervenuto annullamento in autotutela di uno dei titoli edilizi oggetto di ostensione.
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Analogamente inconferente si appalesa la circostanza relativa alla risalenza nel tempo delle concessioni edilizie oggetto di ostensione, dal momento che la legge non pone alcun termine di durata all’esercizio del diritto di accesso, stabilendo che esso è esercitabile “fino a quanto la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere” (cfr art. 22, comma 6, della legge n. 241/1990).
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Neppure può considerarsi fondata la questione eccepita e non comprovata circa la previa conoscenza degli atti oggetto di ostensione da parte del ricorrente per averli visionati nel giudizio civile in corso dato che, anche a voler ammettere che parte ricorrente dia venuta in possesso degli atti richiesti, è stato evidenziato che le amministrazioni agiscono in via procedimentalizzata ed hanno l’onere di conservare copia degli atti inoltrati al privato, che potrebbe non esserne più in possesso per svariate ragioni (disordine, perdita del documento, malconservazione, trasloco, furto etc.).
Il privato che non è più in possesso di un atto –che pur doveva diligentemente conservare– non può essere mutilato nella propria difesa, a cagione di tale accadimento: ritrae dallo stesso una “sanzione” endemica (paga, infatti, il rilascio della copia) ma ha il diritto comunque ad ottenerne copia.
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2. Il ricorso è fondato e merita accoglimento nei termini che di seguito si vanno ad esporre.
Il ricorrente è proprietario di un fabbricato sito nel Comune di Durazzano alla via ... n. 26 posto a confine con una struttura alberghiera di pertinenza della controinteressata società La Si. s.n.c., con la quale è in corso un contenzioso civile per il rispetto delle distanze culminato da ultimo nella sentenza n. 493/2015, allegata in copia agli atti, con cui la Corte d’Appello di Napoli ordinava alla s.n.c. La Si. di arretrare il proprio corpo di fabbrica edificato sulla p.lla. n. 611 del fg. 8 fino alla distanza di metri dieci dai fabbricati di parte appellata ossia dell’odierno ricorrente.
Nel giudizio risulta impugnato il provvedimento prot. n. 2602 del 24.05.2016 con cui il Comune di Durazzano, accogliendo l’opposizione formulata dalla società controinteressata, respingeva l’istanza di accesso alla copia integrale delle c.c.e.e. n. 12/1990 e n. 6/2001 e relativi allegati inoltrata dal ricorrente, motivando il diniego sull’assenza di un interesse attuale all’ostensione degli atti richiesti trattandosi di titoli abilitativi risalenti nel tempo, e per l’assenza di alcuna concreta utilità trattandosi di provvedimenti che hanno formato oggetto del giudizio civile allo stato concluso con sentenza della Corte di Appello di Napoli oggetto di ricorso innanzi alla Suprema Corte di Cassazione.
2.1. Ciò posto, va innanzitutto premesso, che la domanda di accesso in esame riguarda atti che, per la loro diretta inerenza a provvedimenti amministrativi pubblici, non possono essere in alcun modo sottratti all'accesso. Ed infatti già con la legge urbanistica n. 1142 del 1950, l’art. 31, c. 9, si stabiliva che chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto così riconoscendosi una posizione qualificata e differenziata in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa.
Parallelamente oggi l’art. 20, c. 6, del T.U. n. 380 del 2001, come inteso dalla giurisprudenza vigente, assicura a qualsiasi soggetto interessato (termine da intendersi non come sinonimo di un’azione popolare ma, come sopra chiarito, con riferimento ai proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa) la possibilità di visionare gli atti del procedimento di rilascio di un permesso di costruire, in ragione del controllo diffuso sull'attività edilizia, che il legislatore ha inteso garantire ed atteso che in subiecta materia non può essere affermata l'esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati (cfr. Cons. St. n. 9158 del 2013), sicché nel caso di specie non trova applicazione la norma dell’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006.
In sostanza, rispetto all’ostensione di un permesso di costruire o di altri titoli legittimanti l’esecuzione di interventi in edilizia, deve ritenersi pacifico e radicato in giurisprudenza il principio secondo il quale la sussistenza del requisito della vicinitas tra la proprietà dell'istante e quella del controinteressato fanno sì che debba riconoscersi la sussistenza in capo al ricorrente dell'interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è stato chiesto l'accesso, cosicché la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti.
2.2 Per quanto concerne il profilo relativo alla dedotta carenza del requisito dell’attualità dell’interesse fatto valere, è il caso di evidenziare, innanzitutto, che l’interesse attuale che presiede alla richiesta di accesso non corrisponde necessariamente all’interesse ad agire in giudizio per la tutela immediata della posizione sottostante la richiesta. Il diritto di accesso non è inscindibilmente collegato alla difesa in giudizio della situazione sottostante, ma ha una valenza autonoma non dipendente dalla sorte della lite per la quale o in vista della quale è esercitato.
Il principio dell’autonomia della tutela del diritto di accesso rispetto alla situazione giuridica sottostante comporta che la richiesta ostensiva è da ritenersi esperibile anche laddove sia decorso il termine utile per l’impugnazione dell’atto ritenuto lesivo, considerato che l’intento conoscitivo e difensivo non implica necessariamente il proposito di produrre un ricorso per l’annullamento dell’atto, ben potendo azionarsi altri rimedi anche giustiziali, a tutela delle proprie posizioni soggettive vulnerate, ivi incluse eventuali azioni di risarcimento del danno oppure la costituzione di parte civile nel caso di procedimenti penali.
2.3 Inoltre l’ostensibilità degli atti non può intendersi preclusa dalla pendenza di un giudizio, amministrativo o civile, nel corso del quale possa essere disposta l’acquisizione degli atti richiesti, dal momento che, si ribadisce, il diritto di accesso sussiste e va riconosciuto come posizione autonoma, tutelata indipendentemente dalla pendenza di un procedimento giurisdizionale.
2.4 Del pari è irrilevante la questione se i documenti di cui si chiede l’ostensione siano determinanti o meno ai fini della decisione nel processo pendente, in quanto la norma che regola il diritto di accesso non collega il soddisfacimento di quest’ultimo alla soluzione nel merito delle vicende connesse, ma impone soltanto l’esistenza di un collegamento tra la richiesta di accesso ed un interesse giuridicamente rilevante del richiedente meritevole di tutela.
Di qui consegue che resta preclusa all’amministrazione adita in sede di accesso ogni eventuale previa delibazione sulla fondatezza e meritevolezza della situazione soggettiva sottostante, sicché irrilevante si appalesa l’eccezione che si fonda sull’intervenuto annullamento in autotutela di uno dei titoli edilizi oggetto di ostensione.
2.5 Analogamente inconferente si appalesa la circostanza relativa alla risalenza nel tempo delle concessioni edilizie oggetto di ostensione, dal momento che la legge non pone alcun termine di durata all’esercizio del diritto di accesso, stabilendo che esso è esercitabile “fino a quanto la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere” (cfr art. 22, comma 6, della legge n. 241/1990).
2.6 Neppure può considerarsi fondata la questione eccepita e non comprovata circa la previa conoscenza degli atti oggetto di ostensione da parte del ricorrente per averli visionati nel giudizio civile in corso dato che, anche a voler ammettere che parte ricorrente dia venuta in possesso degli atti richiesti, è stato evidenziato (cfr. Cons. Stato Sez. IV, n. 1705 del 31.03.2015) che le amministrazioni agiscono in via procedimentalizzata ed hanno l’onere di conservare copia degli atti inoltrati al privato, che potrebbe non esserne più in possesso per svariate ragioni (disordine, perdita del documento, malconservazione, trasloco, furto etc.).
Il privato che non è più in possesso di un atto –che pur doveva diligentemente conservare– non può essere mutilato nella propria difesa, a cagione di tale accadimento: ritrae dallo stesso una “sanzione” endemica (paga, infatti, il rilascio della copia) ma ha il diritto comunque ad ottenerne copia (arg. anche ex Cass. civ. Sez. VI - 5, Ord., 30.07.2013, n. 18252 in punto di necessità per le Amministrazioni di “provare” ciò che hanno comunicato al privato).
In definitiva per le ragioni esposte il ricorso merita accoglimento con conseguente annullamento del diniego impugnato ordinandosi all’amministrazione intimata di consentire la richiesta ostensione e di rilasciare nel termine di cui al dispositivo copia degli atti oggetto di richiesta di accesso.
Le spese processuali unitamente al rimborso del contributo unificato (da corrispondersi quest’ultimo al passaggio in giudicato della decisione) gravano sulle parti intimate soccombenti, ciascuna per metà, e vanno corrisposte nella misura liquidata in dispositivo, con distrazione in favore del procuratore dichiaratosi antistatario.
Va respinta la domanda di condanna delle parti intimate al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c. dato che, per giurisprudenza pacifica, essa si sostanzia in una forma di danno punitivo teso a scoraggiare l'abuso del processo e a preservare la funzionalità del “sistema giustizia” censurando iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie, sicché il presupposto per l'applicabilità della norma è la presenza, in capo al destinatario della condanna, della mala fede o della colpa grave previsti per la lite temeraria dal citato art. 96 c.p.c., ma tali presupposti nel caso in esame risultano insussistenti (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 01.03.2017 n. 1183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comune paga metà dei danni. L'impresa non può affidarsi alla p.a. se l'errore è evitabile. La Cassazione si pronuncia sulle responsabilità in merito a un permesso edilizio illegittimo.
Paga solo metà dei danni il comune che rilascia un permesso di costruire illegittimo. Chi l'ha chiesto è correo al 50% e non può rivalersi interamente sugli uffici municipali dei danni che ha contribuito a fare a se stesso. Chi chiede un permesso deve stare all'erta e aiutare l'amministrazione a non sbagliare.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. I civile (sentenza 28.02.2017 n. 5063), ripartendo le responsabilità tra chi chiede e chi adotta il titolo edilizio.
Nel caso specifico una snc edilizia ha chiesto il risarcimento del danno subito a seguito dell'annullamento di concessioni edilizie, pronunciato dal Tar su ricorso dei proprietari confinanti, e del ritardo che ne era derivato al programma costruttivo. In primo grado il tribunale decise che le responsabilità erano da dividere tra società che ha chiesto la concessione edilizia e il comune che l'ha rilasciata. Anche la Corte d'appello ha considerato corretta la ripartizione delle responsabilità. Chi chiede un permesso edilizio deve farsi carico di controllare la normativa edilizia e il piano regolatore e non può considerarsi esonerato da ogni obbligo di diligenza se sopraggiunge l'avallo dell'amministrazione con il suo permesso.
La parte essenziale della sentenza è quella in cui la Corte di cassazione sostiene che i danni da permesso edilizio annullato non possono essere addebitati a responsabilità esclusiva dell'amministrazione. Anche nei rapporti tra impresa e ufficio edilizio valgono i principi del codice civile: se viene accertato che i danni sono collegati anche al fatto dello stesso danneggiato va applicato l'articolo 1227, comma 1, codice civile, che impone la diminuzione del risarcimento. Nel caso specifico è vero che il comune ha attestato che l'area era edificabile, ma bisogna tener conto dell'incidenza degli spazi riservati a infrastrutture e servizi di interesse generale, secondo le prescrizioni dello strumento urbanistico attuativo, prescrizioni che il proprietario non può non rispettare.
La sentenza è di notevole importanza, perché impone al cittadino/impresa di non riporre fiducia nell'atto dell'amministrazione, quando sia riscontrabile un errore della p.a. stessa. Se l'errore era riconoscibile dal cittadino/impresa, allora questi avevano l'obbligo di farlo presente all'ente incappato in uno sbaglio. E così se un terzo riesce a fare azzerare l'atto amministrativo che accoglie l'istanza del cittadino/impresa, questi ultimi devono darsi da fare e dimostrare che hanno fatto affidamento sulle determinazione dell'ente pubblico e che non ci sono stati errori da loro evitabili con un surplus di attenzione.
Letto in positivo, il cittadino/impresa ha un dovere generale di soccorso nei confronti dell'amministrazione, affinché non commetta illegittimità. Se però l'affidamento del cittadino/impresa è incolpevole, allora la pubblica amministrazione dovrà risarcire i danni per intero (articolo ItaliaOggi del 26.04.2017).
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MASSIMA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La S.n.c. L'Ed. di Ca.Vi. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Reggio Emilia l'omonimo Comune per sentirlo condannare al risarcimento del danno subito a seguito dell'annullamento di concessioni edilizie, pronunciato dal giudice amministrativo su ricorso dei proprietari confinanti, e del ritardo che ne era derivato al programma costruttivo.
Il Tribunale adito, nel contraddittorio con l'Ente convenuto e con i predetti confinanti, dallo stesso chiamati in garanzia, in parziale accoglimento della domanda, ritenne sussistente la responsabilità del Comune e ravvisò il concorso di colpa dell'attrice nella misura del 50%, condannando il Comune al pagamento della residua metà, liquidata in via equitativa. Tale sentenza, che rigettò la domanda di rivalsa proposta dell'Ente, fu confermata dalla Corte d'appello di Bologna, con la sentenza indicata in epigrafe, che, dopo aver dato atto della mancata impugnazione del capo relativo ai chiamati, ritenne, per quanto d'interesse che:
   a) il comportamento della Società era censurabile al pari di quello del Comune, sicché era corretta la ripartizione di responsabilità in ragione del 50%, in quanto, da una parte, la stessa avrebbe dovuto esser consapevole dei limiti imposti dagli strumenti urbanistici che imponevano, per le strade interne a servizio del sistema insediativo/ l'adozione di due corsie di marcia di specifiche dimensione che, nella specie, non esistevano, e dall'altra aveva tentato di aggirare di aggirare l'ostacolo mediante la c.d. monetizzazione dei parcheggi, in ciò agevolata dal Comune;
   b) la determinazione del quantum era corretta, non potendo esser recepito in toto il conteggio predisposto dalla Società, che conteneva una mera elencazione di spese non verificabili, e dovendo il ritardo ascriversi anche alla stessa, che aveva insistito nel progetto non conforme alle previsioni urbanistiche; non potendo, poi, riconoscersi il minore utile d'impresa, perché fondato su dati opinabili e su un calcolo di parte, laddove l'espletamento di una CTU era poco opportuno, tenuto conto del decorso del tempo.
Per la cassazione della sentenza, la Società Edilizia ha proposto ricorso, con sette mezzi, ai quali il Comune di Reggio Emilia nonché Iv.lo. e consorti hanno resistito con controricorso. An.Pe. non ha svolto difese. La ricorrente e i confinanti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L'eccezione di nullità della notifica del ricorso va rigettata, essendo stata ogni dedotta invalidità sanata con la costituzione in giudizio dei chiamati, in riferimento ai quali, peraltro, è ormai definitiva la statuizione di assoluzione dalla chiamata in garanzia e dovendo il ricorso ritenersi notificato, solo, ai fini formali del contraddittorio processuale.
2. Col primo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 cc., 116 cpc, "in relazione all'art. 31 della L n. 1150 del 1942 e 10 del 1977 sul rilascio dei titoli per costruire in conformità al certificato di destinazione urbanistica previsto dall'art. 18, co 3, della L n. 47/1985". La Corte territoriale, lamenta la ricorrente, ha affermato la sua responsabilità, senza considerare la natura oppositiva della sua pretesa, desumibile dall'esistenza del titolo edilizio, che era stato annullato dal giudice amministrativo per errori a lei non imputabili, essendo la concessione edilizia coerente alle caratteristiche del lotto.
3. Col secondo motivo, si deduce la violazione dell'art. 2043 in relazione all'art. 1227 ed all'art. 18, co. 3, della L. n. 47/1985, per avere la Corte territoriale riconosciuto la rilevanza causale del comportamento della danneggiata, che aveva costruito in attuazione del certificato di destinazione urbanistica, mentre spettava al Comune di dotare la zona con adeguata rete stradale e subordinare eventualmente l'edificabilità in funzione di tale pianificazione.
4. Col terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2043 cc., 50 cp, 1326, 1338 e 1227 cc, ed afferma che la richiesta di rilascio di concessione edilizia -che non integra una proposta contrattuale sicché ad essa non sono applicabili i relativi principi- è conforme al certificato di destinazione urbanistica, sicché l'eventuale successivo annullamento è imputabile solo al Comune.
5. Col quarto motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1337 e 1175 cc, in relazione agli artt. 1 e 6 della 1 n. 241 del 1990 e lamenta esservi stata la lesione dell'affidamento generato dal rilascio di un provvedimento apparentemente legittimo,che la aveva indotta a sostenere spese nel ragionevole convincimento di poter edificare tempestivamente.
6. Col quinto motivo, si lamenta la violazione degli artt. 6 della L n. 241 del 1990 e 4 della L n. 493 del 1993, per essere stato affermato il suo concorso nella produzione del danno, in assenza di responsabilità del progettista dell'impresa, competendo ai tecnici comunali di valutare la conformità del progetto alle prescrizioni urbanistico-edilizie.
7. Col sesto motivo, si deduce la violazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2043, 2056, 2697, 2728 cc 115 e 115 cpc, per errata valutazione della percentuale di colpa e delle voci risarcibili. La somma a carico del Comune avrebbe dovuto esser determinata in ragione della differenza tra le spese sostenute alla ripresa dei lavori rispetto a quelle che sarebbero state sopportate se le costruzioni fossero state completate "senza l'ostacolo (per 42 mesi) rappresentato dall'annullamento (illegittimo) della licenza", oltre che dell'utile non tempestivamente percepito. La Corte d'appello, prosegue la ricorrente, ha liquidato il danno senza spiegare perché non lo ha determinato secondo le documentate affermazioni del consulente che riproducevano le dovute voci, laddove avrebbe potuto negare il risarcimento solo nella misura in cui si fosse ritenuto che la perdita avrebbe potuto essere evitata con l'uso dell'ordinaria diligenza.
8. Col settimo motivo, si lamenta la violazione degli artt. 1226, 2056, 1223, 1226 cc. Il ricorso alla valutazione equitativa non esonera il giudice dal dovere di dar conto dei criteri tenuti in considerazione per la concreta determinazione del danno, ed, al riguardo, la motivazione della sentenza era apodittica e contraddittoria.
9. I primi sei motivi, da valutare congiuntamente perché relativi alla medesima statuizione, riassunta al punto a) di parte narrativa, sono infondati.
10.
Premesso che la responsabilità dell'Amministrazione Comunale è ormai irrevocabile per averla affermata la sentenza d'appello e non averla contestata l'Ente soccombente, occorre osservare che la circostanza che la ricorrente godesse di un interesse oppositivo nei confronti della pA (essendo portatrice, quale titolare di due concessioni edilizie, di una situazione di vantaggio entrata a fare parte della sua sfera giuridica, cfr. Cass. n. 2705 del 2005; n. 21170 del 2011) non comporta tout court che i danni prodotti all'interesse alla conservazione di siffatta situazione giuridica siano da addebitare a responsabilità esclusiva dell'Amministrazione. Ed, infatti, quando, come in ogni altra ipotesi risarcitoria, venga accertato che i danni stessi siano collegati causalmente anche al fatto dello stesso danneggiato ricorre l'ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell'evento dannoso e va applicata la disposizione di cui all'art. 1227, co. 1, cc (in tema d'inadempimento delle obbligazioni), richiamata dall'art. 2056 cc (in materia di responsabilità aquiliana), che impone la diminuzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa ascrivibile al creditore o al danneggiato.
11. L'accertamento in tal senso compiuto da giudice del merito non viola affatto la norma di cui all'art. 18, co. 3, della L. n. 47 del 1985 (vigente all'epoca -1988 e 1993- delle concessioni, poi annullate dal giudice amministrativo), a cui si riducono in sostanza le censure della ricorrente sopra riassunte, tenuto conto che tale certificato attesta, bensì, l'inclusione di un suolo in una determinata zona del territorio comunale e ne certifica il carattere edificatorio o meno, ma non esaurisce le condizioni previste dall'ordinamento per il rilascio della concessione edilizia, che devono tener conto dell'incidenza degli spazi riservati ad infrastrutture e servizi di interesse generale, secondo le prescrizioni dello strumento urbanistico attuativo, prescrizioni che, a sua volta, proprio come affermato dalla Corte del merito, il proprietario non può non rispettare nel formulare istanza di concessione edilizia, né può aggirare presentando varianti, diversamente esponendosi al rischio di vederla annullata, come poi è avvenuto.
12. A tanto, va aggiunto che la percentuale del concorso di colpa della Società, accertata in egual misura tra le parti (e non in termini contrattualistici di proposta-accettazione), costituisce una tipica valutazione di merito, incensurabile in questa sede di legittimità.
13. Il settimo motivo, che pur formulato come violazione delle disposizione in tema di risarcimento del danno, maschera, in realtà, una censura avverso la motivazione della sentenza, è inammissibile. L'art. 360, 1° co., n. 5 cpc, nel testo applicabile ratione temporis (la sentenza stata pubblicata il 19.06.2013), ha, infatti, ridotto il controllo di legittimità sulla motivazione al minimo costituzionale (mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico; motivazione apparente; contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili; motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile), a prescindere, beninteso, dal confronto con le risultanze processuali, non integrando l'omesso esame di elementi istruttori di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (come nella specie) ancorché la sentenza non abbia, in tesi, dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. SU n. 8053 del 2014).
14. Il ricorso va rigettato, e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese sopportate dal Comune, che si liquidano come da dispositivo, mentre le spese sostenute da Ivana lotti e consorti vanno poste a carico del Comune, la cui pretesa è stata dichiarata ingiustificata (cfr. Cass. n. 7401 del 2016 e sentenze ivi citate) e si liquidano come da dispositivo.

ATTI AMMINISTRATIVIIn linea generale, il fisiologico e preferibile esito della notificazione è quello c.d. “a mani proprie”, che si verifica quando l'atto è ricevuto dal destinatario in persona.
Poiché scopo della notificazione è quello di provocare la conoscenza legale dell'atto in capo ad un determinato soggetto, la forma ideale è rappresentata dalla consegna della copia direttamente nelle sue mani, con conseguente coincidenza tra il destinatario e il consegnatario dell’atto: ai sensi dell’art. 138 del cpc, l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notifica “mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario, ovunque lo trovi nell'ambito della circoscrizione dell'ufficio giudiziario al quale è addetto”.
Ciò rende irrilevante l'indagine sulla residenza, domicilio o dimora, del medesimo, mentre l'identità personale tra consegnatario dell'atto e destinatario indicato è desumibile dalle dichiarazioni rese dal pubblico ufficiale.

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Anche nel processo amministrativo la regola generale per la notificazione alle persone fisiche è la consegna a mani proprie: infatti, ai sensi degli artt. 138 e 139 cpc, in materia di notifica di atti ai fini dell’acquisizione della loro piena conoscenza in capo ai destinatari e del conseguente consolidamento dei relativi effetti anche in relazione alla azionabilità delle previste misure di tutela, le regole generali impongono, secondo un criterio di successione preferenziale, la necessità della notifica a mani proprie.
Quando la notificazione avviene nella forma ordinaria, con la consegna dell’atto a mani del destinatario (o di altro soggetto abilitato), la relazione di notifica viene redatta contestualmente. Nella relata di notifica devono essere “certificate” tutte le operazioni compiute nell'esecuzione della notificazione e in particolare, ai sensi dell’art. 148 del cpc, sono indicati la persona alla quale è consegnata la copia e le sue qualità, nonché il luogo della consegna.
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1. Con riguardo al ricorso r.g. 1117/2009, il Comune ne ha eccepito l’inammissibilità per tardività, poiché sussiste la prova dell’avvenuta notifica del diniego di compatibilità paesaggistica in data 17/04/2008 (doc. 3) per cui la presentazione del ricorso straordinario (il 23/07/2009) è avvenuta oltre i termini di legge.
L’eccezione è fondata.
1.1 Osserva il Collegio in linea generale che il fisiologico e preferibile esito della notificazione è quello c.d. “a mani proprie”, che si verifica quando l'atto è ricevuto dal destinatario in persona.
Poiché scopo della notificazione è quello di provocare la conoscenza legale dell'atto in capo ad un determinato soggetto, la forma ideale è rappresentata dalla consegna della copia direttamente nelle sue mani, con conseguente coincidenza tra il destinatario e il consegnatario dell’atto: ai sensi dell’art. 138 del cpc, l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notifica “mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario, ovunque lo trovi nell'ambito della circoscrizione dell'ufficio giudiziario al quale è addetto”.
Ciò rende irrilevante l'indagine sulla residenza, domicilio o dimora, del medesimo, mentre l'identità personale tra consegnatario dell'atto e destinatario indicato è desumibile dalle dichiarazioni rese dal pubblico ufficiale.
1.2 Occorre sottolineare, in particolare, che anche nel processo amministrativo la regola generale per la notificazione alle persone fisiche è la consegna a mani proprie (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II – 15/01/2015 n. 245, che risulta appellata; Consiglio di Stato, sez. IV – 16/07/2014 n. 3735): infatti, ai sensi degli artt. 138 e 139 cpc, in materia di notifica di atti ai fini dell’acquisizione della loro piena conoscenza in capo ai destinatari e del conseguente consolidamento dei relativi effetti anche in relazione alla azionabilità delle previste misure di tutela, le regole generali impongono, secondo un criterio di successione preferenziale, la necessità della notifica a mani proprie (TAR Lazio Roma, sez. II-bis – 07/02/2017 n. 2054).
1.3 Quando la notificazione avviene nella forma ordinaria, con la consegna dell’atto a mani del destinatario (o di altro soggetto abilitato), la relazione di notifica viene redatta contestualmente (Corte di Cassazione, sez. V civile 12/12/2014 n. 26175). Nella relata di notifica devono essere “certificate” tutte le operazioni compiute nell'esecuzione della notificazione e in particolare, ai sensi dell’art. 148 del cpc, sono indicati la persona alla quale è consegnata la copia e le sue qualità, nonché il luogo della consegna (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.02.2017 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASottotetti, altezza discriminante. Lottizzazione da rifare: è mansarda l'area calpestabile. Il Tar Molise ha bloccato l'edificio perché va oltre la soglia di distanza dal suolo.
Stop all'edificio perché va oltre la soglia massima di distanza dal suolo prevista dal piano di lottizzazione. E la colpa è del sottotetto che non costituisce una vera e propria mansarda ma ben potrebbe diventarlo: nel suo punto più alto arriva a un metro e ottanta centimetri e dunque costituisce un'area calpestabile e praticabile per i futuri condomini. Al proprietario dell'immobile non resta che rielaborare per intero la proposta di lottizzazione.

È quanto emerge dalla sentenza 24.02.2017 n. 76, pubblicata dalla I Sez. del TAR Molise, che, quindi, ha bocciato il ricorso del proprietario.
Non sussiste alcuna violazione del piano di lottizzazione dell'area da parte dell'ente perché è dal progetto del privato che viene fuori un fabbricato troppo alto. E ciò perché nel calcolo il comune considera anche i sottotetti, che pure non sono adibiti a uso abitativo.
I locali, invero, non possono essere reputati meri volumi tecnici perché potenzialmente possono essere utilizzati anche come mansarda: il sottotetto, in questo caso, non serve dunque soltanto a isolare le unità immobiliari sottostanti alla copertura del fabbricato e non risulta avere una vocazione esclusiva alla buona funzionalità dell'edificio, ma può essere sfruttato a fini abitativi.
Va detto poi che è lo stesso progetto a indicare i locali come destinati a lavanderie e stenditoi, senza dimenticare che le aree hanno aperture verso l'esterno. Insomma: il proprietario avrebbe dovuto dimostrare l'errore di calcolo degli uffici comunali e produrre una perizia di parte o almeno chiedere la consulenza tecnica d'ufficio.
Spesso, i volumi tecnici, o presunti tali, alimentano il contenzioso amministrativo. Non basta per esempio Google Earth a bloccare i lavori di recupero del sottotetto.
Il niet di comune e soprintendenza all'autorizzazione paesistica scatta per le tasche di copertura dell'edificio, giudicate antiestetiche e visibilissime a chi guarda immagini satellitari e si collega a internet per esplorare i luoghi. Le strutture si rendono necessarie per dare aria e luce ai locali. E il fatto che ora grazie al web le costruzioni possono essere guardate anche dall'alto non impone di per sé un vincolo di immodificabilità rafforzato.
È quanto emerge dall'ordinanza 04.04.2016 n. 270, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lombardia-Brescia.
Accolta la domanda cautelare del responsabile dei lavori. È vero: c'è ragione di credere che la visione satellitare diventerà nel prossimo futuro la principale forma di fruizione delle bellezze paesistiche, dal momento che cresce ogni giorno il numero di persone in grado di accedere alle immagini via internet da ogni parte del mondo.
Ma anche in questo caso è necessario individuare una scala alla quale collegare il giudizio paesistico, che è sempre riferito a un insieme complesso e non a singoli dettagli messi in primo piano. E nella specie la presenza di tasche nelle coperture di quasi la metà degli edifici che compongono l'isolato permette comunque di apprezzare il pregio architettonico della zona: non sembra quindi ragionevole ritenere che le due nuove aperture a tasca progettate possano alterare l'equilibrio generale dell'area.
Attenzione, però:
se il vano tecnico diventa casa, il comune deve mostrare l'agibilità al vicino che vuol fare causa. Dopo la lite sull'appartamento all'ultimo piano, nonostante la sanatoria, l'ente non può negare le carte sulla conclusione dell'iter al condomino perché deve preparare la difesa in tribunale.
È quanto emerge dalla sentenza 26.05.2016 n. 898, pubblicata dal TAR Puglia-Lecce, Sez. II.
L'ufficio comunale resta in silenzio rispetto all'istanza del vicino. E sbaglia perché fra i condomini pendono ben due cause e quello del piano di sotto ha diritto a ottenere i documenti per preparare la difesa in giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 10.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATACome ripetutamente affermato in giurisprudenza, i provvedimenti di autotutela costituiscono, anche nella materia edilizia, manifestazioni dell’esercizio di una potestà discrezionale e, pertanto, impongono di regola –ossia, fatte salve rare eccezioni connotate dall’esistenza di evidenti esigenze di rispetto di principi fondamentali dell’ordinamento– che l’Amministrazione dia sufficientemente conto dell’avvenuta comparazione tra l’interesse pubblico all’annullamento e quello del privato alla conservazione dell’atto illegittimo o, ancora, rappresenti adeguatamente la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, tanto più nei casi in cui la posizione del destinatario possa essere considerata oramai consolidata a causa del tempo trascorso, con connessa insorgenza di uno stato di affidamento in capo all’interessato.
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Costituisce poi, principio assolutamente generale quello secondo cui ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, ossia deve porre il destinatario nella piena condizione di comprendere i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che hanno condotto all’adozione di esso.
Ciò detto, non può non prendersi atto che, per quanto attiene all’aspetto in trattazione, i provvedimenti impugnati risultano assolutamente carenti, atteso che –pur essendo stati adottati in autotutela e, per quanto riguarda la nota del 13.09.2016, anche a notevole distanza di tempo dall’adozione del provvedimento autoannullato– si basano esclusivamente sulla generica affermazione che l’intervento “risulta in contrasto con la normativa vigente, in quanto esclusa dal campo di applicazione della L.R. 21/2009 s.m.i.”.
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Considerato che:
   - con l’atto introduttivo del presente giudizio, notificato in data 18.11.2016 e depositato il successivo 12.12.2016, la ricorrente impugna le note con cui, in date 13 e 15.09.2016, Roma Capitale ha considerato prive di titolo DIA in precedenza presentate –precisamente, in data 23.02.2010 e relative varianti risalenti al 25.05.2010 e 09.08.2011, nonché in data 05.04.2016- e, quindi, annullato il “il titolo edilizio presentato”, dando, peraltro, evidenza dell’avvio del procedimento “per la repressione degli abusi edilizi”, nonché la D.D. n. 2764 del 19.09.2016, notificata il 04.11.2016, di immediata sospensione dei lavori, chiedendone l’annullamento;
   - a tali fini la ricorrente -in sintesi- denuncia la violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, così come modificato dall’art. 6 della legge n. 124 del 2015, per palese esercizio del potere di annullamento in autotutela ben oltre il termine di 18 mesi all’uopo fissato, e si duole, in via subordinata, del vizio di difetto di motivazione anche per mancata esplicitazione da parte dell’Amministrazione delle ragioni di pubblico interesse poste alla base delle decisioni adottate e, ancora, della mancata considerazione della già avvenuta ultimazione delle opere;
   - con atto depositato in data 27.12.2016 si è costituita Roma Capitale, la quale –nel prosieguo e precisamente in data 13.01.2017, ha prodotto documenti;
   - alla camera di consiglio del 18.01.2017 -previa verifica della completezza dell’istruttoria e del contraddittorio e sentite le parti sul punto, ai sensi dell’art. 60 del c.pr.amm.– il ricorso è stato trattenuto in decisione;
Ritenuto che, per quanto attiene all’impugnativa della determinazione n. 2764 del 19.09.2016 di sospensione dei lavori, il ricorso debba essere dichiarato improcedibile, atteso che il provvedimento di cui si discute –seppure pienamente operante alla data di notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio (stante la risalenza della notificazione della determinazione in questione alla data del 04.11.2016)– è divenuto privo di ogni effetto giuridico in ragione dell’intervenuta maturazione del termine di 45 giorni previsto dall’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001;
Ritenuto che, in relazione agli ulteriori provvedimenti impugnati, la censura afferente il vizio di difetto di motivazione sia meritevole di positivo riscontro, tenuto conto che:
   - come ripetutamente affermato in giurisprudenza, i provvedimenti di autotutela costituiscono, anche nella materia edilizia, manifestazioni dell’esercizio di una potestà discrezionale e, pertanto, impongono di regola –ossia, fatte salve rare eccezioni connotate dall’esistenza di evidenti esigenze di rispetto di principi fondamentali dell’ordinamento (cfr. TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 09.05.2016, n. 152)– che l’Amministrazione dia sufficientemente conto dell’avvenuta comparazione tra l’interesse pubblico all’annullamento e quello del privato alla conservazione dell’atto illegittimo o, ancora, rappresenti adeguatamente la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, tanto più nei casi in cui la posizione del destinatario possa essere considerata oramai consolidata a causa del tempo trascorso, con connessa insorgenza di uno stato di affidamento in capo all’interessato (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 28.06.2016, n. 2902; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 18.01.2017, n. 77; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.01.2017, n. 65);
   - costituisce poi, principio assolutamente generale -come dapprima statuito in ambito giurisprudenziale e, in seguito, formalmente riconosciuto dal legislatore con l’art. 3 della legge n. 241 del 1990– quello secondo cui ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, ossia deve porre il destinatario nella piena condizione di comprendere i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che hanno condotto all’adozione di esso (Cons. Giust. Amm. Sic., 05.05.2016, n. 126);
   - ciò detto, non può non prendersi atto che, per quanto attiene all’aspetto in trattazione, i provvedimenti impugnati risultano assolutamente carenti, atteso che –pur essendo stati adottati in autotutela e, per quanto riguarda la nota del 13.09.2016, anche a notevole distanza di tempo dall’adozione del provvedimento autoannullato– si basano esclusivamente sulla generica affermazione che l’intervento “risulta in contrasto con la normativa vigente, in quanto esclusa dal campo di applicazione della L.R. 21/2009 s.m.i.”, aggiungendo –per mera completezza– che non vale a sopperire a tale carenza quanto riportato nella nota del 21.06.2016, prodotta agli atti dall’Amministrazione, non solo perché redatta dal Geom. En.Za. in veste di “tecnico ausiliario di P.G.” ma anche e, anzi, primariamente in ragione del rilievo che la stessa nota –pur se citata nella comunicazione di avvio del procedimento– non è richiamata nelle note impugnate e, comunque, ragionevolmente riporta valutazioni afferenti esclusivamente alla conformità o meno degli interventi alla normativa vigente, senza riferimento alcuno a profili attinenti all’interesse pubblico;
Ritenuto che quanto in precedenza riportato sia sufficiente per l’accoglimento dell’impugnativa proposto avverso le note del 13 e 15.09.2016, con assorbimento delle ulteriori censure formulate;
Ritenuto che, per le ragioni illustrate il ricorso in parte vada dichiarato improcedibile e in parte vada accolto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 23.02.2017 n. 2809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa legittimazione dei soggetti terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <<vicinitas>>, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.
Non è pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi.
Si considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di chi, come i ricorrenti, proprietari di un immobile confinante a quello oggetto dell’intervento contestato, ha interesse a che il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o eventuale.
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Per pacifica giurisprudenza la legittimazione dei soggetti terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <<vicinitas>>, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.
Non è pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi.
Si considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di chi, come i ricorrenti, proprietari di un immobile confinante a quello oggetto dell’intervento contestato, ha interesse a che il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o eventuale (tra le tante: Consiglio di Stato sez. VI 21.03.2016 n. 1156; Consiglio di Stato sez. VI 09.05.2016 n. 1861)
(TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 23.02.2017 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e richiamata dalle norme tecniche di attuazione del Comune (art. 1.6.4 che a sua volta riferisce il computo della distanza alle “pareti finestrate”) è necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata.
E ciò si desume inequivocabilmente dal disposto normativo che si riferisce testualmente alla distanza minima assoluta “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.

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7.- Passando all’esame del ricorso nel merito, con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 2.7.5, comma 4, delle N.T.A., che, per le zone F4 (aree per spazi pubblici attrezzati a parco), ove rientra il parco degli eucalipti, le destinazioni d’uso ammesse sono, tra le altre, “le attrezzature complementari e di supporto”, purché però la distanza di tali strutture dai confini sia pari almeno a 5 metri”, requisito che, però, nel caso di specie non risulterebbe rispettato perché il basamento del chiosco, sporgente di un metro rispetto al limite della parete finestrata di nuova realizzazione, sarebbe posizionato ad una distanza di metri 4,18 (4,10 come risulta dalla perizia di parte dell’ing. Si.Ma.) rispetto al confine. La parete finestrata del chiosco, invece, sarebbe collocata ad una distanza di metri 9, 05 dell’edificio dei ricorrenti.
E’ inoltre dedotta la violazione dell’art. 9 del d.m. 1444/1968, riprodotto nelle N.T.A. (art. 1.6.4, comma 2) del Comune di Giulianova, che impone che gli edifici di nuova costruzione vadano costruiti ad una distanza di 10 metri.
7.1.- Il motivo è infondato.
La tesi di parte ricorrente muove dall’erroneo presupposto che la distanza minima dal confine andava calcolata con riferimento al limite esterno della pedana.
Invero, per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e richiamata dalle norme tecniche di attuazione del Comune di Giulianova (art. 1.6.4 che a sua volta riferisce il computo della distanza alle “pareti finestrate”) è necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata (Consiglio di Stato sez. IV 31.03.2015 n. 1670; Conferma TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, n. 1462/2014). E ciò si desume inequivocabilmente dal disposto normativo che si riferisce testualmente alla distanza minima assoluta “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
7.1.1.- Nella specie, non potendo configurare il basamento come una “parete finestrata” il rispetto della distanza minima tra costruzioni andava quindi verificato non con riferimento alla piattaforma del chiosco, ma con riferimento alla parete del chiosco, rispetto alla quale, come si desume dallo schema grafico allegato alla stessa relazione tecnica di parte ricorrente redatta dall’ing. Si.Ma., era rispettata la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate
(TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 23.02.2017 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAVarchi nel muro, limiti precisi. Ma va fatta attenzione al «pari uso» degli altri condòmini e al decoro.
Parti comuni. La Cassazione detta le regole per l’apertura di un passaggio diretto a un appartamento.
L’apertura di varchi o porte nel muro comune non costituisce, in linea di massima, abuso della cosa comune. Ogni condomino ha diritto di apportare le modifiche che gli consentono un’utilità supplementare rispetto agli altri condòmini.
Tale facoltà è concessa a condizione che non venga impedito il concorrente utilizzo del bene comune, che non ne sia alterata la naturale destinazione e che non venga pregiudicata la stabilità e il decoro dell’edificio condominiale.
Pertanto, l’apertura di un varco nel muro perimetrale che consenta l’accesso alla proprietà esclusiva di uno dei condòmini o realizzazione di porte (in questo caso la trasformazione da finestra in porta-finestra) o cancelli non costituisce, normalmente, un utilizzo improprio della cosa comune, atteso che non pregiudica la possibilità degli altri condòmini di farne parimenti uso, ferma restando la naturale destinazione del muro perimetrale, la solidità dell’edificio ed il suo decoro.

Questo il senso della sentenza 21.02.2017 n. 4437 della Corte di Cassazione - Sez. II civile (relatore Alberto Giusti).
Alla sentenza si è arrivati dopo un contenzioso in cui altri condòmini lamentavano pregiudizio per la stabilità e il decoro dello stabile, oltre all’illegittima appropriazione di parte del muro perimetrale.
Le osservazioni della Cassazione riguardano soprattutto una serie di principi che chiariscono aspetti controversi. Anzitutto, la Suprema Corte dice che «secondo la giurisprudenza di questa Corte (...), in tema di condominio, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro -ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi- e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale».
Con l’importante precisazione per cui «l’apertura di varchi e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell’edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all’unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102, primo comma cod. civ., e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare ad una interclusione dell’unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all’intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario».
Nel caso specifico è stato accertato come l’ampliamento della varco esistente, trasformato da finestra in porta carraia, ha costituito un mero uso più intenso della cosa comune che non impedisce agli altri comproprietari il concorrente utilizzo, e ciò in assenza di significativa alterazione del decoro. Anche alla luce del fatto per cui autore delle opere era il solo condomino che effettivamente poteva utilizzare più intensamente il muro perimetrale, essendo il proprietario esclusivo del vano prospiciente l’originaria finestra
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2017).
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MASSIMA
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., Sez. II, 25.09.1991, n. 10008; Cass., Sez. II, 26.01.1987, n. 703; Cass., Sez. II, 27.10.2003, n. 16097; Cass., Sez. VI-2, 14.11.2014, n. 24295),
in tema di condominio, il principio della comproprietà dell'intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all'apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell'esercizio dell'uso del muro -ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi- e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale.
Si è anche precisato (Cass., Sez. II, 29.04.1994, n. 4155; Cass., Sez. II, 26.03.2002, n. 4314) che
l'apertura di varchi e l'installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell'edificio condominiale, eseguite da uno dei condomini per creare un nuovo ingresso all'unità immobiliare di sua proprietà esclusiva, non integrano, di massima, abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini, non comportando per costoro una qualche impossibilità di far parimenti uso del muro stesso ai sensi dell'art. 1102, primo comma cod. civ., e rimanendo irrilevante la circostanza che tale utilizzazione del muro si correli non già alla necessità di ovviare ad una interclusione dell'unità immobiliare al cui servizio il detto accesso è stato creato, ma all'intento di conseguire una più comoda fruizione di tale unità immobiliare da parte del suo proprietario.
Negli edifici in condominio, i proprietari esclusivi delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l'esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 cod. civ., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato.

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso agli atti, il diniego costa. Il no sanzionato con il risarcimento anche dei danni erariali. Il Tar Toscana: il candidato deve poter visionare le correzioni prima della fine del concorso.
Rischia grosso l'ufficio scolastico regionale se nega al prof bocciato agli scritti del concorso a cattedra l'accesso ai suoi elaborati realizzati nella prova e alla relativa scheda di valutazione. Anche se l'ex provveditorato adempie in corso di causa al deposito dei documenti, il Miur è condannato a pagare le spese di lite e la pronuncia viene trasmessa alla Procura regionale della Corte dei conti: il danno erariale era «agevolmente evitabile» se solo l'ufficio avesse dato ingresso all'istanza del candidato. E ciò perché «l'accesso» dei cittadini agli atti «è la regola» per la pubblica amministrazione e «il rifiuto l'eccezione».

È quanto emerge dalla sentenza 10.02.2017 n. 200, pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
«Inspiegabile» il rifiuto opposto dall'amministrazione scolastica alla richiesta del prof: è una circolare emessa dallo stesso Miur il 18.05.2016 a specificare che il candidato a procedimento in corso può ottenere l'accesso alle sue prove corrette e alle griglie di valutazione, mentre deve aspettare la fine del concorso per ottenere atti relativi ad altri concorrenti. Né il docente chiede l'ostensione di documenti che contengono «informazioni di carattere psico-attitudinale» relativi a terzi, ciò che giustificherebbe il rifiuto opposto dall'ex provveditorato. La trasparenza sulle procedure amministrative va garantita a chi ha un interesse specifico e concreto da tutelare anche se non ha ancora promosso un'iniziativa giudiziaria in merito.
L'ostensione dei documenti deve essere concessa quando risulta strumentale a ogni forma di tutela, sia giudiziale sia stragiudiziale: il diniego può scattare soltanto per esigenze di riservatezza, mentre il cittadino può ottenere la tutela anche soltanto al fine di «conoscere per deliberare», cioè rendersi conto se è il caso o meno di rivolgersi al giudice.
Si tratta, scrive il giudice, di «regole semplici e fondamentali»: se funzionari e dirigenti le applicassero, si eviterebbe «una cospicua mole di inutile contenzioso», visto che c'è una «giurisprudenza ventennale» a favore dell'accesso agli atti. In «ogni vera democrazia», conclude la sentenza, la burocrazia deve essere «al servizio del cittadino» e «non di se stessa, secondo una logica perversa di autoreferenzialità».
Ora la parola passa alla Corte dei conti, che dovrà indagare sull'operato degli uffici scolastici (articolo ItaliaOggi del 04.04.2017).
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MASSIMA
6 - Il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa è nel senso che "
in virtù dell’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990, va garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici, senza che da parte dell’Amministrazione possa legittimamente sindacarsi la fondatezza ovvero la pertinenza delle azioni che l’interessato intenda intraprendere; sicché, sotto tale profilo, è sufficiente che l’istante fornisca elementi idonei a dimostrare in maniera chiara e concreta la sussistenza di un tale astratto interesse che ricolleghi comunque la domanda d’accesso ai documenti richiesti; inoltre, una volta che l’istante abbia dimostrato il proprio interesse, è illegittimo il divieto di estrarre copia e la limitazione dell’accesso alla sola visione degli atti, che spesso non è sufficiente a consentire la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi” (cfr., fra le tantissime, Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4286; TAR Torino, Sez. II, 29.08.2014, n. 1458).
7 -
Ai sensi del citato art. 24, quindi, l’accesso va in ogni caso garantito qualora sia strumentale e funzionale a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale. Pertanto, l’interesse all’accesso va valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza, plausibilità o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (tra le tante e per tutte: TAR Catania sez. VI, 12.05.2016, n. 1285).
8 - In linea di principio, dunque,
l’amministrazione detentrice dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili alla tutela –anche di carattere conoscitivo, preventivo e valutativo da parte del richiedente, di un interesse personale e concreto- non può limitare il diritto di accesso se non per motivate esigenze di riservatezza (Tar Lazio, Roma, Sez. III, 05.11.2009 n. 10838).
9 – Si tratta di acquisizioni consolidate ed ormai note (o almeno dovrebbero esserlo secondo criteri di perizia ed intelligenza) dopo quasi un ventennio di esperienze e affermazioni giurisprudenziali, che qui è inutile ripetere e dalle quali emerge un principio di fondo che dovrebbe guidare tutti i funzionari e dirigenti pubblici, la cui osservanza eviterebbe una mole cospicua di inutile contenzioso, come quello presente.
Tale principio può sintetizzarsi in ciò:
l’accesso è la regola ed il rifiuto è l’eccezione, da dimostrare sempre e comunque con chiara, esauriente e convincente motivazione. Corollario di tale regole è che il silenzio serbato su istanze d’accesso è ipotesi ancor più eccezionale, da circoscrivere in ambiti limitatissimi di domande palesemente pretestuose, incerte, vaghe, emulative.
10 –
Si tratta di regole semplici e fondamentali, ispirate, secondo l’ormai noto insegnamento dei giudici amministrativi, a valori fondanti di qualsiasi vera democrazia in cui la burocrazia è al servizio del cittadino e non di se stessa, secondo una logica perversa di autoreferenzialità in base alla quale il cittadine è suddito e non referente dell’azione amministrativa.
11 - Nella specie la citata regola è stata inspiegabilmente e slealmente violata dall’amministrazione scolastica con un silenzio tanto più inspiegabile a fronte dell’oggetto della richiesta, riguardante esclusivamente gli elaborati del solo richiedente e non quelli di altri: vicenda per la quale le stesse norme interne dell’amministrazione prevedevano l’immediata accessibilità.
Infatti, in base alla circolare dello stesso Ministero del 18.05.2016, singolarmente richiamata dal medesimo USR Toscana nella comunicazione/Avviso del 04.08.2016 (doc. 8 deposito ricorrente), l’accesso relativo agli “elaborati ed alle schede di valutazione è consentito in relazione alla conclusione delle varie fasi del procedimento… Fino a quando il procedimento non sia concluso, l’accesso è limitato ai soli atti che riguardino direttamente il richiedente, con esclusione degli atti relativi ad altri concorrenti”.
La violazione del principio di correttezza e lealtà, nonché la sussistenza degli elementi, costitutivi della colpa, di negligenza, imprudenza e imperizia non è certo affievolita dall’accoglimento tardivo della richiesta in corso di causa, il quale anzi evidenzia ancor di più l’intollerabile superficialità dell’azione amministrativa e del suo autore, il quale ha costretto senza ragione alcuna un cittadino a sopportare i costi di un processo per potersi vedere riconosciute le proprie ragioni, che un qualsiasi funzionario appena dotato di intelligenza ed umanità avrebbe subito compreso e soddisfatto.
12 – E’ per quanto detto che la richiesta di domanda alla condanna alle spese formulata dalla difesa del ricorrente va accolta nella misura coerente anche con il grado della colpa della parte soccombente virtualmente e per le stesse esposte ragioni
il Collegio invia copia della presente sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei Conti in conseguenza del ben prevedibile (art. 26 c.p.a.) ed agevolmente evitabile danno erariale per condanna alle spese che il comportamento dell’amministrazione scolastica ha recato alla finanza pubblica.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Condanna le amministrazioni resistenti, in solido, al pagamento di spese ed onorari del presente giudizio, che liquida in complessivi euro cinquemila, oltre accessori di legge.
Manda alla Segreteria perché invii copia della presente sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei Conti.

TRIBUTIÈ nulla la cartella notificata via Pec con l’allegato in «.pdf». Equitalia. Il caso in cui il destinatario contesta la genuinità del documento privo di firma digitale.
Alla vigilia dell’entrata in vigore della norma che, dal prossimo 1° luglio, consentirà anche alle Entrate di notificare gli accertamenti via Pec (articolo 7-quater, Dl 193/2016), prendono forma le prime pronunce sulle notifiche da parte di Equitalia che –già da tempo– utilizza la modalità telematica.
L’ultima, in ordine di tempo, è la sentenza 03.02.2017 n. 1023/1/2017 della Ctp Milano (presidente Roggero, relatore Donvito).
Il nodo della vicenda riguarda l’estensione del file allegato alla Pec, un semplice «.pdf» e non un «.p7m», che rappresenta l’equivalente del primo, ma firmato digitalmente. La società ricorrente contestava la genuinità del documento informatico previsto dall’articolo 20, comma 1, Dlgs 82/2005 e la sua conformità all’originale, come -in un certo senso- accade quando si contesta la conformità all’originale della copia consegnata dal messo.
Dopo aver passato in rassegna la normativa (articolo 26 Dpr 602/1973, articoli 20 e 71 Dlgs 82/2005, Dpcm 22.02.2013), la Ctp ha escluso che il semplice «.pdf» possa soddisfare i requisiti di integrità dell’allegato, dichiarando l’invalidità della notifica e, conseguentemente, l’illegittimità della cartella.
La questione ruota intorno all’articolo 149-bis del Codice di procedura civile (Cpc), il quale prevede l’utilizzo della firma digitale da parte dell’ufficiale giudiziario che si avvalga della Pec. Nella sua precedente versione (diversa da quella attuale, entrata in vigore il 03.12.2016), l’articolo 26 non prevedeva l’utilizzo della firma digitale da parte dell’ufficiale giudiziario che si avvalesse della Pec. Fino al 3 dicembre scorso, dunque, l’articolo 26 sulla riscossione ha sempre escluso l’applicabilità di questa norma, senza prevedere l’obbligo di apposizione della firma digitale da parte dell’agente della riscossione. Così come non era prevista nella versione introdotta dal Dlgs 159/2015, relativamente alle notifiche successive al 01.06.2016.
A far data dal 3 dicembre, però, l’inciso che escludeva l’applicazione dell’articolo 149-bis Cpc è venuto meno: da quel momento l’agente della riscossione è sempre tenuto ad apporre la propria firma digitale, inviando un file con estensione «.p7m» e non più un semplice «.pdf».
La questione relativa alla mancata apposizione della firma digitale dev’essere valutata alla stregua di una ipotesi di inesistenza stessa della notifica (e non di mera nullità, come tale sanabile dalla proposizione del ricorso). In quest’ottica, in futuro si potrebbe assistere alla riproposizione, nel moderno contesto della notifica a mezzo Pec, di una problematica antica, che la Cassazione ha risolto stabilendo la necessità, in caso di contestazione, della produzione dell’originale nell’ipotesi di notifica a mezzo ufficiale giudiziario (da ultimo, sentenza 23046/2016).
In questi casi si potrebbe anche valutare una verifica tecnica sulla conformità del «.pdf» al documento originale: la libera valutazione in giudizio “rafforzata” (contenuta nell’articolo 20, comma 1-bis, Dlgs 82/2005, richiamato dai giudici di Milano) indurrebbe a utilizzare una consulenza tecnica. È quanto accaduto, ad esempio, in una precedente vicenda di qualche giorno fa, su iniziativa di parte (Ctp Savona 100 e 101/1/2017)
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.03.2017).

EDILIZIA PRIVATANo a licenze per chiudere la strada.
Per installare una sbarra sulla strada privata chiusa al pubblico passaggio non servono licenze edilizie. E neppure particolari autorizzazioni specialmente se l'installazione risulta molto datata.

Lo ha chiarito il Tar Umbria, sez. I, con la sentenza 02.02.2017 n. 120.
Un comune ha ordinato la rimozione di due cartelli e di una sbarra indicante la proprietà privata posizionati in una strada vicinale chiusa al transito. Contro questa decisione gli interessati hanno proposto ricorso al Tar che ha annullato la determinazione comunale. La strada privata oggetto dell'intervento risulta chiusa al pubblico passaggio con una sbarra posizionata da tempo, specifica la sentenza.
A prescindere da un recente possibile vincolo paesaggistico sulla zona, prosegue la sentenza, questo tipo di installazione non richiede alcuna licenza edilizia essendo classificabile come un intervento di manutenzione ordinaria per il quale non è richiesto alcun titolo abilitativo (articolo ItaliaOggi del 26.04.2017).
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MASSIMA
1. Con il presente gravame viene in contestazione la legittimità del provvedimento con il quale è stata ordinato al ricorrente la rimozione dei manufatti abusivi ivi specificati.
2. Con il primo motivo, parte ricorrente lamenta che il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo per carenza di motivazione e contraddittorietà dell’istruttoria condotta dall’amministrazione comunale, in quanto le opere di cui è stata ordinata la demolizione sarebbero state realizzate prima del 1954, ossia prima dell’apposizione vincolo paesaggistico asseritamente violato.
2.1. Il motivo è fondato.
2.2. Dalla documentazione versata in atti e, in particolare, dalla relazione prodotta dall’Ufficio Servizi Operativi del Comune resistente (cfr., nota del 28.05.2015, prot. n. 28/2015 U.S.O) -peraltro non citata nelle premesse del provvedimento impugnato- risulta infatti che la strada in argomento, “è chiusa con una sbarra da tempo immemorabile” ed appare “utilizzata esclusivamente ad uso privato”.
2.3. Ciò conduce a ritenere inattendibile l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato secondo cui “la strada era libera da impedimenti al libero transito almeno dall’inizio degli anni 80”, trattandosi peraltro di determinazione alla quale l’amministrazione è giunta sulla scorta “di sommarie informazioni acquisite da tre persone” (cfr., verbale di polizia municipale in data 11.09.2015), che sul punto risultano contraddette da dichiarazioni prodotte da altri soggetti, concludenti, al contrario, per la presenza della sbarra in contestazione fin “dagli inizi degli anni 50” (cfr., dichiarazione di cui al doc n. 6 di parte ricorrente, acquisita agli atti del Comune di Assisi in data 03.02.2015).
2.4. Deve pertanto confermarsi, ad avviso del Collegio, la sussistenza del dedotto vizio di contraddittorietà dell’istruttoria, risultando invero inequivocabile la mancata ponderazione di tutte le risultanze probatorie istruttorie in possesso dell’amministrazione resistente, la quale ha trascurato di verificare mediante accertamenti attendibili e non contradditori, in merito all’apposizione della sbarra in questione nonché dei relativi cartelli di segnalazione di proprietà privata, dopo l’apposizione del vincolo paesaggistico del quale è stata contestata la violazione.
2.5. Occorre peraltro aggiungere che, a prescindere dal menzionato vincolo paesaggistico,
l’installazione di una sbarra metallica a delimitazione della proprietà privata è intervento che, “per la sua entità e tipologia, deve ricondursi in quelli di <<manutenzione ordinaria>> per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 20.11.2013, 5513, idem, sez. VI, 07.08.2015, n. 3898), per il che risulta parimenti sconfessata, sotto questo ulteriore profilo, la dedotta assenza dei necessari titoli abilitativi, anche con riferimento alla asserita sostituzione della sbarra stessa.
3. Tanto basta a disporre l’accoglimento del gravame con assorbimento delle altre censure dedotte.

ATTI AMMINISTRATIVIConsiglio nazionale forense doc. Poteri su legittimità costituzionale a disapplicazione atti. Le sezioni unite della Cassazione hanno definito il perimetro di competenza del Cnf.
Se, alla luce anche della giurisprudenza della Corte costituzionale, il Consiglio nazionale forense può sollevare questioni di legittimità costituzionale, potrà altresì a maggior ragione, disapplicare atti amministrativi nell'esercizio della propria funzione giurisdizionale.

Lo hanno evidenziato le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la recentissima sentenza 31.01.2017 n. 2481.
Peraltro, come sottolineato dalle stesse sezioni unite l'illegittimità di un atto amministrativo presupposto può, di regola, essere fatta valere sia in via autonoma, mediante impugnativa principaliter davanti al giudice amministrativo, e sia in via incidentale, sollecitandone la disapplicazione da parte del giudice ordinario nella controversia su diritti soggettivi pregiudicati da atti o provvedimenti consequenziali.
I due rimedi, cioè, possono in astratto concorrere, ovviamente con le limitazioni derivanti dalla pregiudizialità del processo amministrativo e dalla formazione del giudicato amministrativo sull'atto a contenuto generale, posto che l'annullamento di un atto regolamentare o di contenuto generale opera con efficacia «erga omnes». In una sentenza dello scorso anno, invece, il Consiglio di stato (sez. VI, 22/03/2016, n. 1164) si è interrogato sul fatto se il Consiglio nazionale forense fosse una «amministrazione pubblica» che adotta «atti amministrativi» lesivi della concorrenza ovvero un'«associazione di imprese» che potrebbe adottare «decisioni» lesive della concorrenza.
La giurisprudenza dello stesso Consiglio di stato ha già avuto modo di affermare che: «L'ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico», con la conseguenza che si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica.
Questa nozione «funzionale» di ente pubblico, si è sottolineato, «ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell'istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa».
La conseguenza che ne deriva è «che è del tutto normale, per così dire «fisiologico», che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all'applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali» (in questo senso, Cons. stato, sez. VI, 26.05.2015, n. 2660) (articolo ItaliaOggi Sette del 06.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIInvio via Pec, serve la doppia ricevuta. La ctp di Roma sulla avvenuta consegna.
Ricevute di «accettazione» e di «avvenuta consegna» indispensabili per provare la rituale notificazione della cartella via Pec. In tema di notificazione a mezzo Pec delle cartelle di pagamento, qualora il contribuente eccepisca in giudizio la illegittimità della procedura ex positivo iure prevista, l'ente riscossore dovrà versare agli atti del processo, copie conformi agli originali delle ricevute di «accettazione» e di «avvenuta consegna» del messaggio contenente l'atto notificando, pena l'accoglimento del ricorso del ricorrente.

Questo, in nuce, il principio sancito dalla Ctp di Roma, sentenza 26.01.2017 n. 1715/13/2017.
Nella fattispecie oggetto del decisum in commento, il ricorrente chiedeva l'annullamento di una intimazione di pagamento, per omessa rituale notificazione delle prodromiche cartelle. Indi, si costituiva in giudizio l'agente, producendo documentazione che i giudici ritenevano insufficiente e, ad ogni modo, inadeguata al fine di comprovare la ritualità della notificazione. I decidenti di prime cure, muovendo dalle disposizioni normative in vigore, rammentano le imprescindibili fasi della notificazione tramite Pec:
   i) invio telematico del messaggio con allegato l'atto da notificare, cui consegue, ex artt. 3 e 6, dpr n. 68/2005, la consegna dello stesso al proprio gestore del servizio Pec, il quale rilascerà la «ricevuta di accettazione», unico documento comprovante l'avvenuta spedizione del provvedimento, assumendo il medesimo valore probatorio proprio della «ricevuta di spedizione» nelle notifiche a mezzo posta;
   ii) trasmissione del messaggio al destinatario, cui consegue, in caso di esito positivo, l'invio al notificante di una «ricevuta di avvenuta consegna», solo documento idoneo a certificare la data e l'ora esatta di avvenuto recapito, nonché ad assicurare l'integrità della trasmissione, il tutto con valore legale garantito dall'apposizione della firma digitale, ex art. 24, dlgs n. 82/2005, purché sulla base di apposito certificato qualificato in corso di validità.
Pertanto, de iure condito, qualora il contribuente impugni un atto riscossivo contestando la mancata notificazione dell'atto presupposto, parte resistente dovrà produrre in giudizio, pena l'accoglimento del ricorso, sia le ricevute de quibus, sia il certificato legittimante l'apposizione della firma digitale da parte del gestore del servizio Pec.
Parimenti, merita condivisione la censura della Curia, laddove afferma che le mere stampe cartacee delle prefate ricevute, qualora sprovviste di «attestazione di conformità» apposta da pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell'art. 23, dlgs n. 82/2005, saranno prive della valenza probatoria invero propria degli originali in formato digitale, perciò valutabili alla stregua di «semplici fogli di carta dei quali non è possibile in alcun modo riconoscere l'origine», in quanto le stesse «ben potrebbero esser artatamente create attraverso programmi di redazione di testo oppure di fotoritocco» (articolo ItaliaOggi del 09.03.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Il parere postumo non «salva» l’abuso.
Le costruzioni edilizie realizzate in zone sismiche in assenza dell’autorizzazione da parte dell’Ufficio del genio civile competente integrano sempre il reato di abuso edilizio, anche in caso di successivo rilascio da parte dell’ente del parere favorevole che attesti la rispondenza della costruzione alla normativa antisismica. Il rilascio postumo del parere, infatti, non elide l’antigiuridicità penale della condotta.

Così ha disposto la Corte d’appello di Palermo, Sez. IV penale, sentenza 12.01.2017 n. 59 (articolo Il Sole 24 Ore del 06.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALII consiglieri comunali, in quanto tali, non sono di regola legittimati ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza dato che il giudizio amministrativo non è di norma aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri, pertanto, può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione (che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo), si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium.
Si è dunque ritenuto che vi sia legittimazione al ricorso solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare; b) violazione dell’ordine del giorno, c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito.
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In tale ipotesi rientra, dunque, senz’altro, il ricorso in trattazione, che ha per oggetto la lamentata violazione di norme procedurali concernenti il termine per il deposito della documentazione necessaria ai consiglieri per poter liberamente e consapevolmente concorrere all’adozione dell’atto deliberativo, inosservanza che ha indubbiamente comportato un’illegittima compressione delle prerogative istituzionali del ricorrente con specifico riferimento all’impossibilità di esercitare cognita causa il suo mandato elettivo.

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Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso in termini generali dal Collegio, i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono di regola legittimati ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza dato che il giudizio amministrativo non è di norma aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.
L’impugnativa di singoli consiglieri, pertanto, può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione (che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo), si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium (cfr. ex multis Cons. Stato, IV, 02.10.2012, n. 5184; V, 15.12.2005 n. 7122).
Si è dunque ritenuto (Cons. Stato, Sez. VI, n. 593 del 07.02.2014), con argomentazioni condivise dal Collegio, che vi sia legittimazione al ricorso solo quando i vizi dedotti attengano ai seguenti profili: a) erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare; b) violazione dell’ordine del giorno, c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare; d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito.
In tale ipotesi rientra, dunque, senz’altro, il ricorso in trattazione, che ha per oggetto la lamentata violazione di norme procedurali concernenti il termine per il deposito della documentazione necessaria ai consiglieri per poter liberamente e consapevolmente concorrere all’adozione dell’atto deliberativo, inosservanza che ha indubbiamente comportato un’illegittima compressione delle prerogative istituzionali del ricorrente con specifico riferimento all’impossibilità di esercitare cognita causa il suo mandato elettivo (in termini: TAR Campania, Napoli, n. 3374 del 25.06.2015)
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 02.05.2016 n. 387 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAFinestre, il Comune non può cambiare idea. Permessi edilizi. L’amministrazione deve verificare l’interesse prevalente in caso di richieste «concorrenti».
Non è legittimo il comportamento del Comune che prima autorizza il singolo condòmino ad aprire una finestra sulla pubblica via e, dopo l’esecuzione dei lavori, annulla l’autorizzazione concessa per l’esistenza di una precedente richiesta (mai resa nota) di altro condominio volta a ottenere l’autorizzazione per l’installazione di una piattaforma elevatrice in base alla legge 13/1989.

Questo il principio affermato nella sentenza 02.05.2016 n. 386 del TAR Sardegna - Sez. II.
Il caso nasceva quando un condòmino richiedeva al Comune il permesso di aprire una finestra al piano terra e primo sulla facciata -lato strada- del caseggiato. L’amministrazione comunale non si opponeva al progetto e i lavori venivano realizzati.
Dopo circa un anno, però, il Comune faceva marcia indietro e annullava il permesso concesso perché si rendeva conto dell’incompatibilità tra l’apertura della finestra e la richiesta di autorizzazione, antecedentemente presentata da altro condòmino dello stesso caseggiato, per l’installazione, sul medesimo prospetto, di un ascensore con i requisiti previsti dalla legge 13/1989 sulla disabilità.
Il comportamento dell’autorità comunale suscitava la reazione del partecipante al condominio che aveva già realizzato i lavori consentiti. Il Tar, esaminata la situazione, ha dato ragione al ricorrente, sottolineando, in primo luogo, come la decisione di annullare in autotutela un provvedimento amministrativo debba essere assunto solo entro un termine ragionevole (nella specie era trascorso oltre un anno), se non per valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico. Che nel caso di specie non esistevano.
In ogni caso, l’autorità comunale avrebbe dovuto procedere ad un accurato esame degli interessi in gioco per verificare la praticabilità di soluzioni alternative tecnicamente realizzabili che consentissero la coesistenza dei due interventi edilizi richieste dai condomini (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.04.2017).
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MASSIMA
La questione all’esame del Collegio attiene alla verifica della legittimità dell’atto di annullamento in autotutela dell’autorizzazione implicita conseguente alla DIA presentata dall’odierno ricorrente per la realizzazione di una finestra nell’immobile di sua proprietà sito in Cagliari, via ... 1/3 senza tempestiva adozione –da parte del Comune di Cagliari- di provvedimenti inibitori .
Come precisato nell’atto comunale di annullamento, infatti, tale intervento edilizio risulta incompatibile con la richiesta di autorizzazione edilizia presentata dalle controinteressate –antecedentemente alla presentazione della DIA- per la realizzazione di una piattaforma elevatrice ex L. n. 13/1989.
Il ricorso è fondato.
Ai sensi dell'art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, l'annullamento in autotutela presuppone oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico.
Alla stregua di tale previsione normativa, che ha peraltro codificato il consolidato orientamento già precedentemente espresso dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, l'annullamento del provvedimento amministrativo richiede, oltre all'illegittimità dell'atto, anche la sussistenza dell'interesse pubblico alla sua rimozione.
Quest'ultimo, dunque, deve trovare adeguata evidenziazione mediante un'idonea motivazione che dia conto della ponderazione degli interessi in gioco.
Inoltre il provvedimento deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da rimuovere
(cfr. Cons. stato, V, n. 1946 del 07.04.2010).
Nel caso di specie è incontestato che a seguito della presentazione della DIA (avvenuta il 21.12.2012), per circa un anno, non è intervenuto alcun provvedimento inibitorio da parte del Comune di Cagliari, con la conseguenza che gli odierni ricorrenti hanno realizzato l’intervento proposto consistente, come detto, nell’apertura di una finestre sul prospetto dell’immobile affacciato sulla via ... n. 3.
Il conseguimento del titolo edilizio ha dunque consolidato in capo ai signori La./Sp. una posizione qualificata di interesse alla conservazione dell’atto tacito di assenso, suscettibile di essere rimossa soltanto in caso di accertata sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Il procedimento di autotutela avviato con la comunicazione del 05.12.2013, dunque, si sarebbe dovuto svolgere nel solco di un rigoroso rispetto dell’affidamento suscitato nei ricorrenti al mantenimento del loro manufatto.
Come richiesto da questi ultimi in sede procedimentale, dunque, la prima verifica da svolgere al fine di evitare l’insorgere di un contenzioso tra i titolari di due titoli edilizi tra loro incompatibili era quella di accertare la praticabilità di soluzioni alternative tecnicamente realizzabili al fine di consentire la coesistenza dei due interventi edilizi per cui è causa.
E ciò anche tenuto conto che il procedimento avviato dalle sig.re De. per la realizzazione dell’elevatore risaliva alla presentazione dell’istanza in data 16.06.2010, ben antecedente, dunque, alla presentazione della DIA., è stato completato dall’ufficio comunale solo col provvedimento autorizzativo n. 114/2014 (oggetto dell’impugnazione aggiuntiva).
Ebbene, come già rilevato dal Tribunale in sede cautelare tale accertamento è per contro mancato “…non avendo il Comune -nel concedere alle controinteressate il titolo richiesto- verificato (e, tanto meno, tenuto conto della) possibilità di realizzare l’ascensore in un punto diverso da quello proposto (punto che, peraltro, neppure era stato specificato nella pregressa deliberazione condominiale di autorizzazione), così da non pregiudicare inutilmente l’apertura della nuova finestra di interesse dei ricorrenti…” (TAR Sardegna, ord. N. 79 del 15.04.2015).
Il Comune di Cagliari, cioè, è sostanzialmente intervenuto con un atto autoritativo nel pieno di una questione civilistica tra condomini esercitando illegittimamente un potere autoritativo, sia perché fondato su ben altri presupposti rispetto a quelli indicati nell’atto impugnato e sia perché adottato in assenza di uno specifico interesse pubblico all’esercizio del potere di autotutela.
Peraltro la finalità di eliminare le barriere architettoniche, a vantaggio dell’interesse dei contro interessati, viene prospettata in termini del tutto generici e senza che sia stato esternato né il compimento di un effettivo accertamento della sussistenza di una siffatta esigenza, né un’adeguata ponderazione discrezionale sugli ulteriori interessi privati rilevanti nella fattispecie, nella quale, come detto, si era in presenza del titolo edilizio di un terzo del quale non poteva non tenersi conto in sede di definizione dell’istanza presentata dalla sig.re De..
L’anzidetta carenza di istruttoria comporta, quindi, l’accoglimento del ricorso sotto tale assorbente profilo, con annullamento dei provvedimenti impugnati.
Eventuali ulteriori determinazioni dell’amministrazione comunale dovranno quindi essere precedute da una puntuale verificazione dello stato dei luoghi al fine di individuare, tenuto conto dell’assetto della proprietà dell’area condominiale esistente al momento dell’adozione del provvedimento di autotutela, possibili soluzioni alternative alla localizzazione dell’elevatore in posizione compatibile con il diritto dei ricorrenti al mantenimento della finestra realizzata.

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