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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MARZO 2017

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aggiornamento al 23.03.2017

aggiornamento al 15.03.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 23.03.2017

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVILa Corte dei Conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico, che, ai sensi dell'art. 1 della legge 07.08.1990, n. 241, devono essere ispirati a criteri di economicità e di efficacia -secondo il canone indicato nell'art. 97 Cost.- che assumono rilevanza sul piano della legittimità, non della mera opportunità, dell'azione amministrativa; pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni dell'agire amministrativo e, quindi, apprezzare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse pubbliche, e non potendo, comunque, prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
Sicché, sussiste
la possibilità di un'estesa applicazione della l. n. 241 del 1990, le cui clausole generali consentono in sede giurisdizionale un controllo di ragionevolezza sulle scelte operate dalla pubblica amministrazione.
Ne consegue che
il criterio di razionalità nella valutazione delle scelte cui si riferisce la giurisprudenza contabile non è strumento limitato all'esame del merito, che conserva la sua rilevanza solo se inserito in un metodo di valutazione che lo individua come summa di sintomi dell'eccesso di potere, ma investe nella sua interezza il percorso logico seguito dall'amministrazione, onde evitare la deviazione dell'attività amministrativa dai propri fini istituzionali, che devono essere perseguiti nel quadro complessivo degli equilibri della finanza pubblica cui il giudizio amministrativo-contabile è specificamente orientato.
L'irragionevolezza equivale al vizio della funzione; di contro, l'esigenza di razionalità insita nello svolgimento della funzione amministrativa corrisponde a correttezza e adeguatezza della funzione; di modo che la ragionevolezza consente di verificare la completezza dell'istruttoria, la non arbitrarietà e la proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché la logicità e l'adeguatezza della decisione finale allo scopo da raggiungere.

In questo contesto,
gli obblighi di servizio diventano obblighi di risultato e il mancato raggiungimento degli obiettivi, laddove comporti un danno per la pubblica amministrazione e sia imputabile al dolo o alla colpa grave degli operatori, può essere oggetto di valutazione in sede giurisdizionale di responsabilità.
Il giudice contabile ha il potere di accertare tutti i fatti e comportamenti causa di danno erariale e, pertanto,
valuta i modi di attuazione delle scelte discrezionali alla luce del parametro della conformità a criteri di efficacia ed economicità che, avendo acquistato "dignità normativa", assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione amministrativa.
---------------
Il motivo è infondato.
A decorrere dalla fondamentale sent. 14488/2003 la giurisprudenza di queste sezioni unite, applicando analoghi criteri adottati per delineare i limiti di sindacabilità della giurisdizione del giudice amministrativo, ha ripetutamente precisato che
la Corte dei Conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico, che, ai sensi dell'art. 1 della legge 07.08.1990, n. 241, devono essere ispirati a criteri di economicità e di efficacia -secondo il canone indicato nell'art. 97 Cost.- che assumono rilevanza sul piano della legittimità, non della mera opportunità, dell'azione amministrativa; pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni dell'agire amministrativo e, quindi, apprezzare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse pubbliche, e non potendo, comunque, prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti (sentt. nn. 4283 e 12102 del 2013, 831 e 20728 del 2012, 10069 e 12902/2011).
Nel richiamare, pertanto, i suindicati criteri,
queste Sezioni Unite hanno affermato la possibilità di un'estesa applicazione della l. n. 241 del 1990, le cui clausole generali consentono in sede giurisdizionale un controllo di ragionevolezza sulle scelte operate dalla pubblica amministrazione.
Ne consegue che
il criterio di razionalità nella valutazione delle scelte cui si riferisce la giurisprudenza contabile non è strumento limitato all'esame del merito, che conserva la sua rilevanza solo se inserito in un metodo di valutazione che lo individua come summa di sintomi dell'eccesso di potere, ma investe nella sua interezza il percorso logico seguito dall'amministrazione, onde evitare la deviazione dell'attività amministrativa dai propri fini istituzionali, che devono essere perseguiti nel quadro complessivo degli equilibri della finanza pubblica cui il giudizio amministrativo-contabile è specificamente orientato.
L'irragionevolezza equivale al vizio della funzione; di contro, l'esigenza di razionalità insita nello svolgimento della funzione amministrativa corrisponde a correttezza e adeguatezza della funzione; di modo che la ragionevolezza consente di verificare la completezza dell'istruttoria, la non arbitrarietà e la proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché la logicità e l'adeguatezza della decisione finale allo scopo da raggiungere.

In questo contesto,
gli obblighi di servizio diventano obblighi di risultato e il mancato raggiungimento degli obiettivi, laddove comporti un danno per la pubblica amministrazione e sia imputabile al dolo o alla colpa grave degli operatori, può essere oggetto di valutazione in sede giurisdizionale di responsabilità.
Il giudice contabile ha, per tale via, il potere di accertare tutti i fatti e comportamenti causa di danno erariale e, pertanto, ferma restando la scelta dell'amministratore di apprestare gli strumenti più idonei al soddisfacimento degli obiettivi dell'ente, valuta i modi di attuazione delle scelte discrezionali alla luce del parametro della conformità a criteri di efficacia ed economicità che, avendo acquistato "dignità normativa", assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione amministrativa.
Alla stregua dei richiamati principi, deve escludersi che nella fattispecie vi sia stato, da parte del giudice contabile, alcun superamento dei limiti della propria giurisdizione.
Nel verificare, infatti, se la esternalizzazione dei compiti o servizi necessari all'attività istituzionale dell'ente pubblico consortile rispondesse ai requisiti dettagliatamente previsti dalla legge, la Corte dei conti si è mantenuta nell'ambito di valutazione della legittimità, in rapporto a parametri normativi definiti, dell'azione amministrativa, essendosi limitata, nel negare che il soggetto (la s.r.l. Se.) così liberamente concepito e creato dall'autorità amministrativa, privo di personale e financo di sede sociale e in concreto fornitore di servizi ugualmente effettuati dall'ente pubblico, avesse soddisfatto parametri minimi di economicità ed efficacia, al (doveroso) accertamento dei fatti rilevanti ai fini dell'applicazione della norma: è chiaramente da escludere, pertanto, che la Corte abbia espresso valutazioni di opportunità, o di mera non condivisione, della scelta operata (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 15.03.2017 n. 6820).

UTILITA'

TRIBUTI: IL CONTENZIOSO TRIBUTARIO (Agenzia delle Entrate, gennaio 2017).

VARI: GUIDA ALLE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LE PERSONE CON DISABILITA’ (Agenzia delle Entrate, gennaio 2017).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 22.03.2017 n. 68 "Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" (D.P.R. 13.02.2017 n. 31).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 21.03.2017, "Secondo aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 14.03.2017 n. 2691).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 20.03.2017, "Integrazione delle disposizioni per l’efficienza energetica degli edifici approvate con decreto n. 176 del 12.01.2017 e riapprovazione complessiva delle disposizioni relative all’efficienza energetica degli edifici e all’attestato di prestazione energetica" (decreto D.U.O. 08.03.2017 n. 2456).

VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 16.03.2017, "Aggiornamento del registro della Regione Lombardia dei laboratori che effettuano analisi nell’ambito delle procedure di autocontrollo delle industrie alimentari" (decreto D.U.O. 07.03.2017 n. 2406).

VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 16.03.2017, "Aggiornamento del documento «Manuale operativo delle autorità competenti locali» relativo ai controlli ufficiali in materia di sicurezza alimentare, di cui al regolamento (CE) n. 882/2004" (deliberazione G.R. 06.03.2017 n. 6299).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 15.03.2017 n. 62 "Regolamento concernente modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30.04.1999, n. 162, per l’attuazione della direttiva 2014/33/UE relativa agli ascensori ed ai componenti di sicurezza degli ascensori nonché per l’esercizio degli ascensori" (D.P.R. 10.01.2017 n. 23).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia: pubblicato il decreto che aggiorna le norme sull'efficienza energetica degli edifici.
La nuova procedura per calcolare l’energia rinnovabile estratta dall’ambiente con le pompe di calore entrerà in vigore il 03.04.2017. (...continua) (22.03.2017 - link a www.casaeclima.com).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legge regionale 7/2017 per il recupero dei seminterrati esistenti (Ance di Bergamo, circolare 17.03.2017 n. 65).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Chiarimenti ministeriali sul decreto sottoprodotti (Ance di Bergamo, circolare 17.03.2017 n. 63).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 7 – anno 2017 (Ance di Bergamo, circolare 17.03.2017 n. 62).

APPALTI: Oggetto: Antimafia – White list: iscrizione obbligatoria per chi opera nei settori a maggiore rischio (Ance di Bergamo, circolare 17.03.2017 n. 58).

APPALTI: Oggetto: Contributo di gara ANAC per l’anno 2017 – Importi invariati (Ance di Bergamo, circolare 17.03.2017 n. 57).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEL’articolo 113 del d.lgs. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici) riconosce il compenso incentivante anche per lo svolgimento, da parte dei dipendenti pubblici, di funzioni tecniche nell’ambito degli appalti di servizi e di forniture.
Di conseguenza, le risorse finalizzate a remunerare le funzioni tecniche svolte nell’ambito degli appalti di servizi e forniture possono essere attinte anche dagli stanziamenti di spesa corrente che li finanziano.
Relativamente alle attività incentivabili, il menzionato articolo 113 riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”.
La predisposizione del programma biennale degli acquisti di beni e servizi, benché coincidente parzialmente con l’attività di programmazione della spesa di investimento, all’evidenza, non si identifica con essa, presentando un contenuto ulteriore, che attiene alla programmazione della spesa corrente (quella impiegata per l’acquisto dei servizi, in generale, e dei beni diversi da quelli descritti dall’art. 3, comma 18, lett. c) della Legge n. 350/2003, ovvero “acquisto di impianti, macchinari, attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e altri beni mobili ad utilizzo pluriennale”).
Non trattandosi di un’attività assimilabile ad alcuna di quelle contemplate dall’articolo 113, nessun compenso incentivante può essere riconosciuto per lo svolgimento della stessa
(massima tratta da www.self-entilocali.it).

---------------
Il Sindaco del Comune di Nove (VI) ha presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando i seguenti quesiti:
- “se nella determinazione del fondo per gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del D.lgs. n. 50/2016, si possano ricomprendere anche gli importi posti a base di gara degli appalti di forniture e servizi non finanziati con spese per investimenti”;
- in caso di risposta affermativa al precedente quesito, “se tra le funzioni tecniche possano essere considerate anche le attività di programmazione biennale degli acquisti di beni e servizi di cui all’art. 21 del D.lgs. 50/2016”.
...
Entrambi i quesiti formulati dal Sindaco del Comune di Nove, inoltre, possono essere considerati sufficientemente generali ed astratti.
Il primo di essi ha ad oggetto l’utilizzabilità, ai fini della determinazione del fondo destinato agli incentivi per le funzioni tecniche, degli importi posti a base di gara, oltre che degli appalti di lavori, anche degli appalti di forniture e servizi.
Il comma 2 dell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici) dispone che il suddetto fondo venga costituito “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1” ossia sugli “stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”; il successivo comma 3 dispone che l’ottanta per cento delle risorse del fondo debba essere ripartito “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura, con le modalità previste dalla contrattazione decentrata”.
Al di là del riferimento agli stanziamenti previsti per la realizzazione “dei singoli lavori”, contenuto nel primo comma ed espressamente richiamato in quello successivo,
appare evidente che la norma riconosca il compenso incentivante anche per lo svolgimento, da parte dei dipendenti pubblici, di funzioni tecniche nell’ambito degli appalti di servizi e di forniture (in tal senso, vedasi Sezione regionale di controllo per la Lombardia parere 16.11.2016 n. 333).
Siffatta conclusione trova conferma anche nella menzione, nel primo comma, di alcune attività di natura tecnica proprie di tali tipologie di appalto: ivi si prevede, infatti, che, nell’ambito dei relativi stanziamenti di spesa, debbano essere computati anche gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell’esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, ecc., ossia a funzioni, quale quella della direzione dell’esecuzione e della verifica di conformità, tipiche degli appalti di servizi e di forniture, riportate accanto e correlativamente a quelle omologhe (e tipiche) dei lavori pubblici (direzione dei lavori e collaudo tecnico amministrativo).
L’art. 113 cit., peraltro, nell’elencazione delle funzioni per le quali prevede il riconoscimento degli incentivi, riporta proprio le attività appena menzionate, comprese quelle riferibili specificamente agli appalti di servizi e forniture.
Posto che, alla luce della interpretazione letterale e logico-sistematica della norma, non sembrano esservi dubbi circa l’estensione della disciplina degli incentivi anche alle suddette tipologie di appalto, occorre stabilire se le risorse finalizzate a remunerare le funzioni tecniche svolte nell’ambito degli stessi possano essere attinte anche dagli stanziamenti di spesa corrente che li finanziano.
Sempre sulla scorta di argomenti di carattere logico-sistematico,
questa Sezione ritiene che il riferimento agli “stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori” debba intendersi come comprensivo anche degli stanziamenti previsti per il singolo servizio e la singola fornitura. Se, come appare chiaro, la norma estende gli incentivi anche agli appalti di servizi e forniture, non può non farne gravare gli oneri sugli stanziamenti che finanziano le relative procedure.
Del resto, non può ritenersi che gli stanziamenti relativi ai lavori pubblici finanzino l’intero fondo, ivi compresa la parte destinata a remunerare le funzioni tecniche afferenti ai contratti di servizi e di forniture, laddove la norma espressamente prevede che le risorse a tal fine necessarie debbano essere attinte dagli stanziamenti relativi ai “singoli lavori” (commi 1 e 2), in misura pari al due per cento dell’importo posto a base di gara e che l’ottanta per cento delle stesse venga ripartito “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura”, lasciando intendere chiaramente che esiste una correlazione tra gli oneri previsti per lo svolgimento delle funzioni tecniche, gli stanziamenti che finanziano la specifica opera, servizio o fornitura e la composizione ed entità del fondo.
Deve considerarsi, inoltre, che l’art. 102 del Codice, nel disciplinare la fase del controllo sulla esecuzione dei contratti pubblici, caratterizzata da una serie di attività non tutte comuni ad ogni tipologia di appalto, al comma 6°, prevede, per lo svolgimento delle stesse ed in maniera indifferenziata, il diritto all’incentivo (Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204).
Com’è stato correttamente rilevato, dunque,
il riferimento ai soli lavori e non anche alle altre tipologie di appalto, contenuto in alcuni passaggi dell’art. 113 cit., deve essere inteso in senso “atecnico (deliberazioni Sezione Lombardia e Sezione Puglia, cit.).
In conclusione, esaminata nel complesso e nella sua attuale formulazione,
la disciplina degli incentivi consente di fornire una risposta positiva al primo quesito.
Con il secondo quesito, l’ente chiede, se, nell’attività di programmazione della spesa per investimenti, rientri anche la predisposizione del programma biennale degli acquisti di beni e servizi, previsto e disciplinato dall’art. 21 del D.lgs. n. 50/2016.
In proposito, deve rilevarsi che il menzionato art. 113 riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”.
L’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa (così anche deliberazione Sezione Puglia cit., che richiama Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via incidentale, sottolinea che la nuova disposizione ha abolito “gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter, introducendo nuove forme di incentivazione per funzioni tecniche … svolte dai dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate”).
Sotto questo specifico profilo, ossia quello della individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica remunerazione,
la disciplina degli incentivi, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, tra l’altro, è da considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica.
Ciò premesso,
occorre verificare se la programmazione della spesa per l’acquisizione, da parte dell’ente, di beni e di servizi rientri o meno nell’elencazione delle attività sopra riportate ed, in particolare, se sia identificabile con l’attività di programmazione della spesa per investimenti, espressamente prevista.
Pur dovendo riconoscere che, nel caso specifico dell’acquisto di beni, ove questi siano sussumibili nella previsione di cui al comma 18, lett. c), dell’art. 3 della L. n. 350 2003 (“acquisto di impianti, macchinari, attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e altri beni mobili ad utilizzo pluriennale”) ed abbiano determinato un accrescimento del patrimonio dell’ente, la relativa spesa debba classificarsi quale spesa di investimento, analoga qualificazione non può essere attribuita all’acquisto di beni che non presentino dette caratteristiche né all’acquisto di servizi, i quali, per ovvi motivi, neppure compaiono nell’elencazione delle spese di investimento contenuta nel menzionato art. 3.
La predisposizione del programma biennale degli acquisti di beni e servizi, benché coincidente parzialmente con l’attività di programmazione della spesa di investimento, all’evidenza, non si identifica con essa, presentando un contenuto ulteriore, che attiene alla programmazione della spesa corrente (quella impiegata per l’acquisto dei servizi, in generale, e dei beni diversi da quelli descritti dall’art. 3, comma 18, lett. c), della Legge n. 350/2003).
Non trattandosi di un’attività assimilabile ad alcuna di quelle contemplate dall’art. 113, questa Sezione ritiene che nessun compenso incentivante possa essere riconosciuto per lo svolgimento della stessa (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 02.03.2017 n. 134).

GIURISPRUDENZA

PATRIMONIO: Giurisdizione del giudice ordinario se lo sgombero riguarda un bene appartenente al patrimonio disponibile.
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Giurisdizione – Demanio e patrimonio – Patrimonio disponibile – Ordine sgombero locale occupato – Controversia – Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l’ordinanza con la quale il Comune ha diffidato a sgomberare un locale occupato, appartenente al proprio patrimonio disponibile, trattandosi di ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, quindi, nulla (1).
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   (1) Il Tar –premesso che il Comune ha inteso esercitare un potere autoritativo e non inviare una semplice diffida iure privatorum– ha richiamato, a supporto delle conclusioni cui è pervenuto, la giurisprudenza secondo cui:
   a) l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'Amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi solo per tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile; di conseguenza, l'eventuale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere, trattandosi di bene che appartiene al patrimonio disponibile dell'ente, va qualificata come atto nullo secondo i principi sanciti dall'art. 21-septies, l. 07.08.1990, n. 241;
   b) l'atto nullo non produce alcun effetto degradatorio delle posizioni soggettive di cui si assume la lesione, e se dall’esecuzione del provvedimento sono derivati effetti pregiudizievoli, gli stessi vanno considerati come violazioni di diritti soggettivi la cui tutela appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario (Cons. St., sez. V, 08.03.2010, n. 1331);
   c) la controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale di proprietà comunale facente parte del patrimonio disponibile dell'ente territoriale appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un rapporto di matrice negoziale, da cui derivano in capo ai contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in termini di diritto soggettivo, nel cui ambito l'Amministrazione agisce iure privatorum -al di fuori cioè dell'esplicazione di qualsivoglia potestà pubblicistica- non soltanto nella fase genetica e funzionale del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più specificamente, si traduce nell'assenza di poteri autoritativi sia sul versante della chiusura del rapporto stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene (Tar Napoli, sez. VII, 06.02.2015, n. 931) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 20.03.2017 n. 1531 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Giurisdizione del giudice tributario per le controversie sulla restituzione di canoni per installazione di mezzi pubblicitari non dovuti.
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Giurisdizione – Pubblicità – Canone installazione di mezzi pubblicitari – Restituzione somma indebitamente versata – Diniego del Comune – Controversia – Art. 19, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 546 del 1992 – Giurisdizione giudice tributario.
Rientra nella giurisdizione del giudice tributario, ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. g), d.lgs. 31.12.1992, n. 546, la controversia avente ad oggetto il diniego, opposto da un Comune, restituzione del canone, previsto dall'art. 62, d.lgs. 31.12.1997, n. 446, di installazione dei mezzi pubblicitari, asseritamente versato in eccedenza al dovuto nel periodo 2005/2013, costituendo una mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità e conservando, quindi, la qualifica di tributo propria di quest'ultima (1).
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   (1) Ad avviso del Tar sussiste quindi la giurisdizione del giudice tributario ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. g, d.lgs. 31.12.1992, n. 546, il quale annovera tra gli atti impugnabili innanzi alla Commissione tributaria “il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti”.
Il Tar ha escluso possa richiamarsi, a sostegno della propria giurisdizione, l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui deve essere affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di impugnazione di regolamenti o di deliberazioni comunali di determinazione delle tariffe relative agli impianti pubblicitari, in quanto il ricorso in questione si incentra sulla natura indebita del pregresso pagamento del tributo e sull’obbligo di restituzione da parte del Comune, stante la dedotta illegittimità del canone fissato relativamente al periodo 2005/2013 (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 20.03.2017 n. 438 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Esclusione dell’obbligo del curatore fallimentare di smaltire i rifiuti su immobile di proprietà del fallito.
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Inquinamento – Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi – Ingiunzione – Indirizzata al curatore fallimentare – Esclusione.
Il curatore fallimentare non è custode degli immobili di proprietà del fallito, con la conseguenza che non è assoggettabile agli obblighi previsti dall'art. 192, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (1).
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   (1) Il Tar ha richiamato precedenti del giudice di appello (sez. V, 30.06.2014, n. 3274; 16.06.2009, n. 3885; 12.06.2009, n. 3765) secondo cui “il fallimento non può essere reputato un subentrante, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio…e correlativamente il fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munuspubblico rivestito dagli organi della procedura (art. 31, r.d. 16.03.1942, n. 267: Il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite)”.
E’ stato aggiunto dal Consiglio di Stato che “il fatto che alla curatela sia affidata l’amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il r.d. n. 267 del 1942, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito…poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell’espletamento della pubblica funzione non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono gli obblighi del fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né di quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell’inizio della procedura concorsuale…”.
Conclusivamente “nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 192, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152” (secondo cui “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni) della legittimazione passiva che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o in colpa” (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.03.2017 n. 93 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Le questioni sottoposte al vaglio del Collegio investono precipuamente la posizione della curatela fallimentare in riferimento ai beni del fallito -acquisiti dalla procedura- direttamente definibili rifiuti o comunque contenenti fattori di inquinamento ambientale tali da richiedere, secondo la normativa di settore, un intervento di bonifica.
2. Su tale delicato problema, involgente non solo la disamina della normativa (in primis contenuta nel d.lgs. n. 152/2016) di derivazione comunitaria che disciplina la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale, ma anche l’analisi della legge fallimentare (r.d. n. 267/1942) e dei correlati doveri posti a carico del curatore, non sussiste un’univoca interpretazione giurisprudenziale.
3.
La questione è stata tuttavia affrontata in termini sistematici dal Consiglio di Stato (sez. V, 30.06.2014 n. 3274; 16.06.2009, n. 3885; 12.06.2009, n. 3765) che, in accoglimento dell’appello promosso da una curatela (non autorizzata alla prosecuzione dell’attività della società fallita) avverso ordinanze sindacali imponenti la rimozione, l’avvio a recupero o smaltimento di rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ne ha escluso la legittimazione passiva, atteso che “il fallimento non può essere reputato un subentrante, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio…e correlativamente il fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus pubblico rivestito dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: Il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite)”.
In specifico, nella medesima pronuncia viene affermato quanto segue: “
il fatto che alla curatela sia affidata l’amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n. 267, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito…poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell’espletamento della pubblica funzione non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono gli obblighi del fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né di quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell’inizio della procedura concorsuale… ”. E conclusivamente: “Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit.” (da intendersi d.lgs. n. 152/2006), della legittimazione passiva che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o in colpa”.
3.1. Detto insegnamento è stato ripreso in termini del tutto condivisi in diverse pronunce del giudice di prime cure (cfr. Tar Campania Napoli n. 5203/2014; Tar Puglia Lecce n. 504/2014; Tar Toscana n. 774 e 118/2014).
4.
In precedenza (cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 3885/2009 e n. 4328/2003) il giudice d’appello aveva riscontrato che il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili richiedenti, per la presenza di fattori inquinanti, la bonifica, e che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell’imprenditore, a meno che non vi sia una prosecuzione nell’attività, da ciò conseguendo “che non può accettarsi che la legittimazione passiva sia del curatore (poiché ciò, inoltre, determinerebbe un sovvertimento del principio di matrice comunitaria del “chi inquina paga” scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l’inquinamento)”, nel mentre l’affermazione del predetto principio “consiste, in definitiva nell’imputazione dei costi ambientali …al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita”, rammentando infine che “nel caso di mancata individuazione del responsabile, o nell’assenza di interventi volontari, le opere di bonifica saranno realizzate dalle Amministrazioni competenti (art. 250 d.lgs. n. 152/2006) salvo, a fronte delle spese sostenute, l’esistenza di un privilegio speciale immobiliare sul fondo, a tutela del credito per la bonifica e la qualificazione degli interventi relativi come onere reale sul fondo stesso, destinato a trasmettersi unitamente alla proprietà del terreno (art. 253)”.
5. Orbene: in stretta relazione al surriferito insegnamento, che condivide, il Collegio annota aggiuntivamente che, nella fattispecie in esame, da un lato è del tutto pacifico che la curatela ricorrente non sia stata autorizzata all’esercizio provvisorio ai sensi dell’art. 104 della legge fallimentare, e dall’altro, come si evince dalla documentazione versata in causa (doc. 11 fasc. ricorrente), che la custodia del compendio immobiliare -tra cui rientra il capannone sito in p.ed. 1214/1- risulta affidata ex art. 32 L.F., fin dal momento della redazione dell’inventario, al legale rappresentante della società fallita (An.Ce.), nei cui esclusivi confronti le prime ordinanze contingibili e urgenti adottate dell’autorità sindacale erano state in effetti rivolte.
6. Sulla scorta di quanto precede, attesa la ricostruzione sistematica del rapporto intercorrente fra la legislazione fallimentare (e del ruolo assunto nell’ambito della stessa dal curatore) e quella dettata dal legislatore in materia di tutela ambientale dai rifiuti, nonché le appena viste connotazioni che caratterizzano la procedura fallimentare in esame, le ragioni sostenute dalla ricorrente con i primi motivi dovrebbero trovare pacifico accoglimento.
7. Tuttavia, oltre al citato insegnamento deve riscontrarsi la sussistenza di un orientamento giurisprudenziale diverso,
secondo cui sussisterebbe la legittimazione passiva della curatela fallimentare, rispetto agli obblighi connessi alla bonifica di inquinamenti ambientali, non solo nel caso di autorizzazione all’esercizio provvisorio, ma anche nelle ipotesi di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore nell’abbandono dei rifiuti (cfr. Tar Lombardia Brescia 09.01.2017 n. 38; Tar Toscana sez. II 19.03.2010 n. 700): detto orientamento ha trovato poi particolare applicazione nella materia dell’inquinamento derivato dalla presenza di amianto nei beni acquisiti dalla curatela, e nello sviluppo di questo filone va annoverata la pronuncia del Tar Friuli Venezia Giulia n. 441/2015 (conforme Tar Lombardia Brescia n. 669/2016), citata nell’ordinanza sindacale qui impugnata.
8. In base al ragionamento seguito in tali ultime pronunce “
l’eternit diviene pericoloso per la salute pubblica solo a certe condizioni, il che implica una continua evoluzione della situazione e quindi anche il passaggio delle responsabilità fra cedente e cessionario dei beni immobili in cui sia presente l’amianto”, di talché “la continua sorveglianza imposta dalla legge e il fatto che l’amianto divenga pericoloso per l’ambiente e la salute solo a certe condizioni consentono di scindere le responsabilità e obbligano passivamente il soggetto che detiene il bene nel momento in cui si verificano le condizioni per l’applicazione della normativa speciale”: in forza di quanto precede, nelle menzionate sentenze il giudice di prime cure è giunto ad affermare la legittimazione passiva del curatore fallimentare (“detentore attuale”) negli obblighi di sanificazione del sito inquinato.
9.
Il Collegio, a seguito del necessario riesame e approfondimento proprio della fase di merito, non ritiene condivisibile tale orientamento, e comunque non lo ritiene suscettibile di applicazione al caso di specie.
10. Sotto un primo profilo, infatti,
l’affermazione di tale principio condurrebbe ad affermare la legittimazione passiva della curatela oltre i limiti che contraddistinguono l’assolvimento del munus pubblico che la connota, individuato –come sopra visto- nella gestione dei beni del fallito sotto la vigilanza e direzione degli organi fallimentari, in primis del giudice delegato, ma solo ai fini della liquidazione del patrimonio secondo le regole stabilite dalla legge fallimentare volte alla soddisfazione paritetica dei creditori, e per il resto obnubilerebbe l’effettiva applicazione del principio di derivazione comunitaria del “chi inquina paga”, in quanto prescinderebbe dall’individuazione dell’effettivo responsabile dell’inquinamento.
11. In secondo luogo
non appare persuasiva l’affermazione secondo cui l’amianto, sostanza insidiosa anche per quel che riguarda la sua precisa identificazione ed individuazione nell’ambito di edifici variamente compositi, non costituisce di per sé un rifiuto ma lo diventa solo a seguito del superamento di determinati livelli di concentrazione nella struttura che lo contiene, posto che l’art. 2, co. 1 lett. c, della legge 27.03.1992 n. 257/1992 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”) nella definizione di rifiuto ricomprende “qualsiasi sostanza o qualsiasi oggetto contenente amianto che abbia perso la sua destinazione d’uso e che possa disperdere fibre d’amianto nell’ambiente in concentrazioni superiori a quelle ammesse dall’art. 3”, con ciò dovendosi ritenere che fin dall’origine della struttura contenente amianto sussista la pericolosità idonea alla qualificazione dello stesso come rifiuto.
11.1 Nella fattispecie in esame la copertura del capannone preesiste ovviamente al fallimento della società Ce.Pr. s.a.s, e quest’ultima è da presumersi, in assenza di qualsivoglia elemento contrario, soggetto costruttore ed a lungo utilizzatore (oltre che proprietario e come visto custode nella persona di Ce.An.) dell’edificio e della sua copertura, nonché a conoscenza -nelle persone del legale rappresentante e dei soci- dell’effettiva composizione della struttura dell’edificio e dei materiali impiegati, ivi compreso l’amianto, il che rileva anche in ordine al necessario riscontro dell’individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento (“chi inquina paga”) e dell’accertamento del profilo soggettivo del dolo o della colpa nel comportamento commissivo o omissivo.
12. Infine, pur volendo aderire al predetto orientamento, deve osservarsi che non appare sufficiente rilevare come il mero accertamento dell’avvenuto superamento dei limiti di amianto tabellarmente consentiti sia stato effettuato in data successiva alla dichiarazione di fallimento, intervenuta nell’anno 2011, per poter validamente escludere che, nel corso dei pochi anni intercorsi, e non già prima, i limiti di tollerabilità fossero ecceduti: è proprio la contestuale affermazione, pure rinvenibile nell’orientamento da ultimo citato, secondo cui l’autonoma responsabilità del curatore andrebbe accertata secondo criteri di univocità e chiarezza, ad inficiare ulteriormente, qui sotto il profilo del difetto di motivazione, i presupposti dell’ordinanza impugnata.
12.1 Questa, infatti, sul punto in esame si limita a richiamare l’accertamento dell’indice di degrado operato dagli uffici dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari, intervenuto in data successiva alla dichiarazione di fallimento, senza tuttavia che le amministrazioni interessate, in primis il Comune, abbiano condotto -in vista dell’emissione dell’ordinanza assunta nei confronti della curatela- alcuna indagine in ordine alla datazione dell’edificio e della sua copertura, nonché agli effetti del tempo trascorso dalla realizzazione sulla concentrazione dell’amianto poi computata.
13.
In conclusione, per le suesposte ragioni, l’orientamento giurisprudenziale da ultimo citato, posto alla base dell’ordinanza sindacale impugnata, per un verso non appare condivisibile e, sotto altro profilo, si rileva inapplicabile alla fattispecie in esame, dovendosi contrariamente aderire al qui condiviso e surriferito insegnamento proveniente dal giudice d’appello, ed alla conseguente affermazione, per la materia de qua, del difetto di legittimazione passiva della curatela fallimentare.
14. Il ricorso merita dunque accoglimento, essendo precipuamente fondati il primo motivo e la prima parte del secondo, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte nel gravame, da ciò conseguendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
15. Per quanto riguarda la posizione sostanziale e processuale rivestita dal pure convenuto Ministero dell’interno, appare condivisibile quanto sostenuto nella memoria della difesa erariale, secondo cui l’ordinanza impugnata rientra, per la materia de qua (art. 32 TU delle leggi regionali sull’ordinamento dei Comuni della Regione autonoma Trentino- Alto Adige), nelle competenze proprie del Sindaco quale rappresentante dell’ente comunale, e non nella qualità di ufficiale di governo (cfr. in termini Cons. di Stato, sez. V, 25.02.2016 n. 765), e da ciò deriva l’estromissione del Ministero dal presente giudizio.

EDILIZIA PRIVATALa pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato.
Invero,
trattasi di una piana applicazione del generale principio affermato da tempo per il quale le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo.
L'eventuale accertamento della legittimità del titolo abilitativo della costruzione da parte del giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione dell'illegittimità della condotta del privato nella controversia intentata da altro privato a tutela del diritto di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto puntuale applicazione dei suesposti principi non appare meritevole di censura.
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Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla base della loro formulazione letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un'interpretazione che ne limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di più contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte.
D'altronde,
proprio la carenza di una specifica disciplina impone di ritenere come già affermato in passato che
la nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che,
una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell'accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.
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La previsione di un'area di distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare l'illegittimità dal punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a quella legale o regolamentare sul fondo di un unico proprietario
(per un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a mente della quale il principio della prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore della meta di quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria fabbrica fino all'altrui costruzione, giovandosi dei rimedi offertigli dall'art. 875 cod. civ.- presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come attributo della costruzione con caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati, principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti non sono legittimati a dolersi della violazione delle distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della previsione regolamentare che nega la possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi l'illegittimità dell'opus dal punto di vista amministrativo, ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere il rispetto delle distanze legali, essendo tale conclusione una piana applicazione del su riferito principio dell'autonomia tra profili pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti interprivatistici.
Ne consegue che
anche laddove una parte del manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di distacco prevista per il fabbricato principale, la violazione della norma regolamentare legittima se del caso la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei ricorrenti doveva porsi a distanza legale.
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2. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione di legge e precisamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 15 e ss. delle NTA del PRG del Comune di Cassino, nonché la violazione e falsa applicazione della voce 17 dell'art. 23 del regolamento edilizio, e la violazione e falsa applicazione dell'art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 e dell'art. 9 del DM n. 1444 del 1968 e dell'art. 873 c.c., nonché l'insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza.
Si dolgono i ricorrenti che la Corte territoriale abbia ritenuto sussistente la violazione delle distanze tra fabbricati anche in relazione al fabbricato cd. accessorio di parte attrice, sebbene gli artt. 15 e ss. citati stabiliscano il rispetto delle distanze solo per gli edifici a carattere principale.
In assenza di una specifica disciplina contenuta negli strumenti urbanistici locali avrebbe dovuto quindi trovare applicazione la previsione di cui all'art. 9 del menzionato DM che, prevedendo una distanza di metri 10 tra pareti finestrate, avrebbe comportato la legittimità della costruzione dei ricorrenti, in quanto posta a distanza maggiore.
Lo stesso Tar del Lazio nella sentenza pronunziata in merito all'impugnativa della concessione avanzata da parte del Co., aveva manifestato il convincimento circa l'inapplicabilità del regime delle distanze previste dallo strumento urbanistico locale in relazione all'edificio avente carattere accessorio, sicché la Corte d'Appello non avrebbe potuto decidere trascurando la rilevanza di giudicato esterno di tale provvedimento giurisdizionale.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, partendo dall'ultima affermazione di parte ricorrente relativa all'efficacia vincolante della pronuncia del giudice amministrativo, e ricordato che si tratta di statuizione emessa in relazione all'impugnativa della concessione edilizia rilasciata in favore dei ricorrenti e concernente il fabbricato oggetto di causa, giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte a mente della quale (cfr. Cass. n. 9869/2015)
la pronuncia del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà determinata dalla violazione della normativa in tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi generali ma anche della posizione soggettiva del privato.
Ed, invero,
trattasi di una piana applicazione del generale principio affermato da tempo per il quale (cfr. Cass. S.U. n. 13673/2014) le controversie tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. (nella specie, il Comune) per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo (in termini ex multis Cass. n. 13170/2001; Cass. S.U. n. 333/1999).
L'eventuale accertamento della legittimità del titolo abilitativo della costruzione da parte del giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione dell'illegittimità della condotta del privato nella controversia intentata da altro privato a tutela del diritto di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto puntuale applicazione dei suesposti principi non appare meritevole di censura.
Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla base della loro formulazione letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici aventi carattere cd. accessorio, come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti, non consente di optare per un'interpretazione che ne limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere principale, posto che anche i manufatti di più contenute dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni, intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 5753/2014).
D'altronde,
proprio la carenza di una specifica disciplina impone di ritenere come già affermato in passato che (cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che,
una volta ricondotti gli edifici accessori al novero delle costruzioni in senso civilistico e nell'accezione propria della disciplina in materia di distanze, le previsioni regolamentari che prevedono un distacco tra costruzioni risultano evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che, anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a quelle di legge.
Il motivo deve quindi essere disatteso.
3. Con il secondo motivo si denunzia l'insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 29 del regolamento edilizio del Comune di Cassino.
Assume parte ricorrente che la Corte d'Appello ha omesso di rilevare l'illegittimità del manufatto cd. accessorio dell'attore, in quanto situato nell'area di distacco che occorreva rispettare in relazione al fabbricato principale, area nella quale gli strumenti urbanistici vietano qualsivoglia costruzione (art. 29 regolamento edilizio che prevede solo la realizzazione di giardini, parcheggi e rampe di accesso).
La motivazione della sentenza sarebbe altresì insufficiente, in quanto per giustificare la legittimità del manufatto rispetto al quale sono state valutate le distanze del fabbricato dei ricorrenti, si è affermato che lo stesso si trovava "per larga parte" al di fuori dell'area che costituisce il distacco ideale, riconoscendosi quindi che parte di esso si colloca all'interno della detta area di distacco, risultando pertanto illegittimo.
Anche tale motivo è ad avviso del Collegio privo di fondamento.
La Corte d'appello ha in primo luogo ribadito che fabbricato preveniente era quello di parte attrice, il quale all'epoca della sua realizzazione doveva solo attenersi alla distanza dal confine (distanza che non risulta del tutto rispettata, ma la questione esula dal presente giudizio, non avendo i convenuti lamentato la violazione delle distanze ad opera della costruzione di parte attrice).
Quanto al fabbricato cd. accessorio del Co., di cui non si denunzia la violazione delle norme dal confine, la sentenza ha ritenuto che lo stesso fosse posto in una zona del fondo per la quale le distanze dal confine dell'edificio principale erano ampiamente rispettate e che risultava pertanto in massima parte al di fuori dell'area di distacco quale imposta dallo strumento urbanistico.
Ritiene però la Corte che anche l'eventuale realizzazione in parte del manufatto in oggetto all'interno dell'area di distacco non possa determinare un esito diverso della controversia.
Ed, infatti,
la previsione di un'area di distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare l'illegittimità dal punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a quella legale o regolamentare sul fondo di un unico proprietario (per un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a mente della quale il principio della prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore della meta di quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria fabbrica fino all'altrui costruzione, giovandosi dei rimedi offertigli dall'art. 875 cod. civ.- presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come attributo della costruzione con caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati, principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti non sono legittimati a dolersi della violazione delle distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della previsione regolamentare che nega la possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi l'illegittimità dell'opus dal punto di vista amministrativo, ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere il rispetto delle distanze legali (cfr. Cass. n. 17339/2003; Cass. n. 10850/1998), essendo tale conclusione una piana applicazione del su riferito principio dell'autonomia tra profili pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti interprivatistici.
Ne consegue che
anche laddove una parte del manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di distacco prevista per il fabbricato principale, la violazione della norma regolamentare legittima se del caso la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei ricorrenti doveva porsi a distanza legale come appunto disposto dalla Corte distrettuale (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.03.2017 n. 6855).

PUBBLICO IMPIEGOIn tema di elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio non è richiesta la prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso dell'atto di ufficio, prova che può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, o anche anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge.
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3. Il ricorso è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.
4. Il G.u.p. ha motivato la propria decisione sul rilievo che:
   a) i provvedimenti amministrativi adottati non sono macroscopicamente illegittimi;
   b) il pubblico ufficiale aveva adottato i provvedimenti in base all'istruttoria favorevolmente condotta dal tecnico comunale che non aveva evidenziato alcuna illegittimità e sulle cui conclusioni aveva fatto ragionevole affidamento;
   c) il giudizio di conformità ambientale di cui agli artt. 181, comma 1-ter, e 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, era stato positivamente espresso relativamente alla piscina in base ad un'interpretazione non uniforme dell'autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo;
   d) il Ve., prima ancora di ricevere l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, non appena ricevuta l'informazione di polizia giudiziaria sugli abusi edilizi in corso ne aveva ordinato la sospensione;
   e) non v'è alcuna prova non solo di complicità con i privati ma addirittura di un qualsiasi rapporto di conoscenza tra di loro.
4.1. Il PG ricorrente devolve la questione in modo tale da limitare la cognizione di questa Corte al solo fatto dedotto: la mancanza della prova di collusione tra i tre imputati, ritenuto decisivo ai fini dell'annullamento della sentenza impugnata.
4.2. Questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio secondo il quale,
in tema di elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, non è richiesta la prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso dell'atto di ufficio (Sez. 6, n. 910 del 18/11/1999, Giansante, Rv. 215430; Sez. 6, n. 21085 del 28/01/2004, Sodano, Rv. 229806; Sez. F. n. 38133 del 25/08/2011, Farina, Rv. 251088), prova che può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233), o anche anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633).
4.3. Tuttavia, come detto, di tutti gli indizi complessivamente valutati dal G.u.p., il PG ne seleziona uno solo, perdendo di vista la completezza e l'organicità del ragionamento del Giudice sulla cui fondatezza questa Corte non può ovviamente interloquire, perché non investita sul punto.
Il PG, infatti, non eccepisce alcunché sulla natura non macroscopicamente illegittima degli atti amministrativi adottati, né sul legittimo affidamento fatto dal pubblico ufficiale sull'istruttoria del tecnico comunale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2017 n. 12397).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso un provvedimento amministrativo si basi su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), è sufficiente a sostenere la legittimità dello stesso la conformità a legge anche di una sola di esse, con la conseguenza che “nel giudizio promosso contro un siffatto provvedimento, il giudice, ove ritenga infondate le censure dedotte avverso una delle autonome ragioni poste alla base dell’atto impugnato, idonea, di per sé, a sorreggere la legittimità del provvedimento impugnato, ha la potestà di respingere il ricorso su tale base, con declaratoria di <assorbimento> delle censure dedotte contro altro capo del provvedimento, indipendentemente dall’ordine in cui le censure sono articolate dall’interessato nel ricorso, in quanto la conservazione dell’atto (indipendentemente dalla eventuale invalidità di taluna delle autonome argomentazioni che lo sorreggono) fa venir meno l’interesse del ricorrente all’esame dei motivi dedotti contro tali ulteriori argomentazioni”.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato che “Ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto della sua istanza”.

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Il terzo motivo, con cui parte ricorrente si duole dell’esclusione per omessa attivazione del soccorso istruttorio con riguardo all’omessa allegazione delle dichiarazioni in ordine al possesso dei requisiti di moralità professionale dei componenti collegio sindacale è destinato, infine, ad una declaratoria d’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse.
Il provvedimento di esclusione impugnato è sorretto, infatti, da due motivazioni, autonome tra loro, ciascuna di per sé astrattamente in grado di sorreggerlo: l’omessa dichiarazione di informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione e l’omessa dichiarazione di cui all’art. 80 del d.lgs. n 50/2016 per i componenti degli organi di vigilanza e controllo.
L’infondatezza, affermata da questo giudice, dei motivi svolti dalla ricorrente avverso la prima delle due cause d’esclusione, basta, tuttavia, a consolidare e a giustificare l’esclusione disposta, con conseguente irrilevanza dell’eventuale fondatezza delle censure rivolte all’ulteriore ragione addotta dalla stazione appaltante a motivazione e sostegno dei provvedimenti assunti e qui impugnati dalla ricorrente.
In giurisprudenza è stato, infatti, reiteratamente affermato che nel caso un provvedimento amministrativo si basi su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato), è sufficiente a sostenere la legittimità dello stesso la conformità a legge anche di una sola di esse (Consiglio di Stato, IV, 10.12.2007, n. 6325; Consiglio di Stato, V, 29.08.01994, n. 926), con la conseguenza che “nel giudizio promosso contro un siffatto provvedimento, il giudice, ove ritenga infondate le censure dedotte avverso una delle autonome ragioni poste alla base dell’atto impugnato, idonea, di per sé, a sorreggere la legittimità del provvedimento impugnato, ha la potestà di respingere il ricorso su tale base, con declaratoria di <assorbimento> delle censure dedotte contro altro capo del provvedimento, indipendentemente dall’ordine in cui le censure sono articolate dall’interessato nel ricorso, in quanto la conservazione dell’atto (indipendentemente dalla eventuale invalidità di taluna delle autonome argomentazioni che lo sorreggono) fa venir meno l’interesse del ricorrente all’esame dei motivi dedotti contro tali ulteriori argomentazioni” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.06.2005, n. 3052).
Il Cons. Stato, Sez. VI, 10.05.2013, n. 2543 ha, inoltre, precisato che “Ove l’atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto della sua istanza”.
Sulla scorta delle considerazioni svolte, vanno, in definitiva, respinti i primi due motivi di gravame e dichiarata l’improcedibilità del terzo.
Ne deriva anche la pacifica reiezione delle ulteriori domande avanzate dalla ricorrente, mancando, all’evidenza, il presupposto fondamentale per la declaratoria d’inefficacia del contratto eventualmente stipulato con la controinteressata e per dar corso al risarcimento invocato (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 15.03.2017 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIA norma dell’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016, assume autonomo rilievo -quale ipotesi che, rendendo dubbia l’integrità o l’affidabilità dell’operatore economico, ne giustifica l’esclusione dalla partecipazione alla procedura d’appalto- “il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
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Nel caso di specie, è pacifico che -a fronte del chiaro disposto del disciplinare di gara che stabiliva, per l’appunto, che “non è ammessa la partecipazione alla gara di concorrenti per i quali sussistano le cause di esclusione di cui all’art. 80 del d.lgs. 50/2016”- la ricorrente ha dichiarato di essere titolare di 1.208 servizi in 719 Comuni e di avere in corso (unicamente) “una rescissione contrattuale, una revoca di aggiudicazione e un’esclusione”, omettendo, però, di rappresentare spontaneamente la sussistenza di numerose ulteriori circostanze similari, che la stazione appaltante, una volta apprese, ha, peraltro, qualificato come “diffusi e reiterati inadempimenti contrattuali, sintomatici di errori professionali molto significativi e qualificabili come importanti e gravi”.
Nella determinazione dirigenziale, con cui è stata disposta l’esclusione della ricorrente, si legge, in particolare che “emergono diverse situazioni di inadempimento riferite a precedenti rapporti contrattuali”, che è stata rilevata “la serialità e la gravità riferite, in particolare, a mancate rendicontazioni, impossibilità di effettuare un controllo sulle riscossioni e mancato riversamento all’ente delle somme incassate nell’esercizio dell’attività di riscossione dei tributi”, che “tali evidenze dovevano essere segnalate per consentire le opportune valutazioni circa la rilevanza, incidenza ed affidabilità dell’impresa in relazione al complesso delle gestioni ad essa affidate, trattandosi di un servizio di riscossione delle entrate comunali, affidato in concessione” e che “vanno valorizzati, sotto il profilo del giudizio sull’affidabilità dell’impresa, la presenza di diversi provvedimenti di esclusione dalla gara, di applicazioni di penali, di contestazione di ritardi nei versamenti, da parte di altre Amministrazioni pubbliche in misura rilevante rispetto a quanto dichiarato in sede di gara”.
Peraltro, a nulla rileva che i precedenti professionali “negativi” non dichiarati sarebbero inconferenti ai fini delle valutazioni in ordine alla sua integrità e affidabilità ai sensi della norma di legge dianzi indicata, essendo evidente che la valutazione in ordine alla loro gravità e rilevanza compete alla (sola) stazione appaltante sulla base della piena cognizione di tutte le circostanze fattuali, nessuna esclusa, che potrebbero assumere rilievo e l’operatore economico non ha facoltà di scegliere quali dichiarare.
In tal senso confortano, invero, precedenti giurisprudenziali laddove affermano, per l’appunto, la legittimità dell’esclusione dalla gara pubblica dell’impresa che ha omesso di dichiarare di essere stata destinataria, in passato, di provvedimenti di risoluzione contrattuale, in quanto la dichiarazione “attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai rapporti dei partecipanti con la stazione appaltante”, nonché le stesse Linee Guida dell’ANAC n. 6 sull’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 50/2016, approvate con delibera 16.11.2016, n. 1293, ove, al § 4.2, affermano che la dichiarazione sostitutiva resa in sede di presentazione dell’offerta deve avere “ad oggetto tutte le notizie astrattamente idonee a porre in dubbio l’integrità o l’affidabilità del concorrente, essendo rimesso in via esclusiva alla stazione appaltante il giudizio in ordine alla gravità dei comportamenti e alla loro rilevanza ai fini dell'esclusione”.
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Circa il dolersi della mancata instaurazione del contraddittorio endo-procedimentale che, ad avviso della ricorrente, troverebbe fondamento nella disposizione di cui all’art. 80, comma 7, del d.lgs. n. 50/2016, ad avviso del Collegio pare che la disposizione de qua debba intendersi riferita solo alla prima ipotesi di grave illecito professionale contemplata dalla norma, atteso che, per espresso disposto di legge, l’operatore economico, o il subappaltatore, che si trovi in una delle situazioni di cui al comma 5 dell’art. 80, “è ammesso a provare di aver risarcito o di essersi impegnato a risarcire qualunque danno causato dal reato o dall'illecito e di aver adottato provvedimenti concreti di carattere tecnico, organizzativo e relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o illeciti”.
In caso di informazioni false o fuorvianti o di omessa informazione, è, però, proprio tale circostanza ad assumere specifico e autonomo rilievo, sicché non avrebbe alcun senso ammettere l’operatore a prova contraria, atteso che il tutto si sostanzierebbe in una sorta di sanatoria, lesiva dei principi di par condicio, trasparenza e buona fede, anche in considerazione del fatto che l’omissione della dichiarazione con riferimento a pregressi inadempimenti ed errori professionali non è emendabile tramite il soccorso istruttorio, dovendosi fare applicazione dell’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000.
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La ricorrente, società Du.G. s.r.l., ha chiesto l’annullamento, previa sospensione cautelare, dei provvedimenti in epigrafe indicati, con cui il Comune di Lignano Sabbiadoro, a seguito di verifica effettuata successivamente all’aggiudicazione:
   a) ha disposto la sua esclusione dalla procedura di gara per l’affidamento in concessione e riscossione dell’imposta sulla pubblicità, del diritto sulle pubbliche affissioni e del cosap – periodo 01/01/2017-31/12/2019 ovvero per non avere segnalato alla stazione appaltante una serie di inadempimenti e di risoluzioni di cui si sarebbe resa responsabile nell’esecuzione di alcuni contratti pubblici (art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016) e per avere omesso di dichiarare i soggetti del collegio sindacale e di conseguenza il possesso dei requisiti degli stessi di cui all’art. 80 del d.lgs. 50/2016;
   b) le ha revocato l’aggiudicazione della gara in precedenza disposta e dichiarato l’odierna controinteressata, società ST. Se.Te.En.Pu. s.r.l. quale nuova aggiudicataria del servizio.
Ha chiesto, inoltre, l’annullamento del verbale di gara in data 20.09.2016, nella parte in cui è stata disposta l’ammissione alla procedura ad evidenza pubblica di che trattasi della società controinteressata, nonché la declaratoria di inefficacia, ai sensi e per gli effetti degli artt. 121, comma 1, lett. d), 122 e 124 c.p.a., del contratto di concessione eventualmente medio tempore stipulato tra il Comune e la ST., con conseguente aggiudicazione della concessione a suo favore e subentro nel contratto, e, in subordine, la condanna dell’Amministrazione al risarcimento per equivalente monetario del danno asseritamente subito e subendo, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
...
Il primo motivo, con cui parte ricorrente deduce che gli atti assunti a fondamento dell’esclusione non sono sussumibili tra le ipotesi di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016, con conseguente insussistenza della ritenuta violazione dell’obbligo di dichiarazione contestata alla ricorrente, è privo di pregio.
La società Du. trascura, invero, di considerare che, a norma della disposizione dianzi citata, assume autonomo rilievo, quale ipotesi che, rendendo dubbia l’integrità o l’affidabilità dell’operatore economico, ne giustifica l’esclusione dalla partecipazione alla procedura d’appalto, “il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
Nel caso di specie, è, peraltro, pacifico che, a fronte del chiaro disposto del disciplinare di gara, che, al pt. 5, stabiliva, per l’appunto, che “non è ammessa la partecipazione alla gara di concorrenti per i quali sussistano le cause di esclusione di cui all’art. 80 del d.lgs. 50/2016”, la ricorrente ha dichiarato di essere titolare di 1.208 servizi in 719 Comuni e di avere in corso (unicamente) “una rescissione contrattuale, una revoca di aggiudicazione e un’esclusione”, omettendo, però, di rappresentare spontaneamente la sussistenza di numerose ulteriori circostanze similari, che la stazione appaltante, una volta apprese, ha, peraltro, qualificato come “diffusi e reiterati inadempimenti contrattuali, sintomatici di errori professionali molto significativi e qualificabili come importanti e gravi”.
Nella determinazione dirigenziale n. 862/2016, con cui è stata disposta l’esclusione della ricorrente, si legge, in particolare che “emergono diverse situazioni di inadempimento riferite a precedenti rapporti contrattuali”, che è stata rilevata “la serialità e la gravità riferite, in particolare, a mancate rendicontazioni, impossibilità di effettuare un controllo sulle riscossioni e mancato riversamento all’ente delle somme incassate nell’esercizio dell’attività di riscossione dei tributi”, che “tali evidenze dovevano essere segnalate per consentire le opportune valutazioni circa la rilevanza, incidenza ed affidabilità dell’impresa in relazione al complesso delle gestioni ad essa affidate, trattandosi di un servizio di riscossione delle entrate comunali, affidato in concessione” e che “vanno valorizzati, sotto il profilo del giudizio sull’affidabilità dell’impresa, la presenza di diversi provvedimenti di esclusione dalla gara, di applicazioni di penali, di contestazione di ritardi nei versamenti, da parte di altre Amministrazioni pubbliche in misura rilevante rispetto a quanto dichiarato in sede di gara”.
Peraltro, al di là di ogni considerazione sul giudizio poi comunque espresso a posteriori dalla stazione appaltante, a nulla rileva –come sostenuto dalla ricorrente– che i precedenti professionali “negativi” non dichiarati sarebbero inconferenti ai fini delle valutazioni in ordine alla sua integrità e affidabilità ai sensi della norma di legge dianzi indicata, essendo evidente che la valutazione in ordine alla loro gravità e rilevanza compete alla (sola) stazione appaltante sulla base della piena cognizione di tutte le circostanze fattuali, nessuna esclusa, che potrebbero assumere rilievo e l’operatore economico non ha facoltà di scegliere quali dichiarare.
In tal senso confortano, invero, i precedenti giurisprudenziali invocati dalla difesa della controinteressata, laddove affermano, per l’appunto, la legittimità dell’esclusione dalla gara pubblica dell’impresa che ha omesso di dichiarare di essere stata destinataria, in passato, di provvedimenti di risoluzione contrattuale, in quanto la dichiarazione “attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai rapporti dei partecipanti con la stazione appaltante” (C.d.S., V, 27.07.2016, n. 3375; 11.12.2014, n. 6105; Tar Sardegna, I, 25.06.2016, n. 529), nonché le stesse Linee Guida dell’ANAC n. 6 sull’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 50/2016, approvate con delibera 16.11.2016, n. 1293, ove, al § 4.2, affermano che la dichiarazione sostitutiva resa in sede di presentazione dell’offerta deve avere “ad oggetto tutte le notizie astrattamente idonee a porre in dubbio l’integrità o l’affidabilità del concorrente, essendo rimesso in via esclusiva alla stazione appaltante il giudizio in ordine alla gravità dei comportamenti e alla loro rilevanza ai fini dell'esclusione”.
Il motivo in esame va, in definitiva, respinto.
Ad analoga sorte è destinato il secondo motivo d’impugnazione, con cui parte ricorrente si duole della mancata instaurazione del contraddittorio endo-procedimentale, che, a suo avviso, troverebbe fondamento nella disposizione di cui all’art. 80, comma 7, del d.lgs. n. 50/2016.
Pare, invero, al Collegio che la disposizione, della cui mancata applicazione si duole la ricorrente, debba intendersi riferita solo alla prima ipotesi di grave illecito professionale contemplata dalla norma, atteso che, per espresso disposto di legge, l’operatore economico, o il subappaltatore, che si trovi in una delle situazioni di cui al comma 5 dell’art. 80, “è ammesso a provare di aver risarcito o di essersi impegnato a risarcire qualunque danno causato dal reato o dall'illecito e di aver adottato provvedimenti concreti di carattere tecnico, organizzativo e relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o illeciti”.
In caso di informazioni false o fuorvianti o di omessa informazione, è, però, proprio tale circostanza ad assumere specifico e autonomo rilievo, sicché non avrebbe alcun senso ammettere l’operatore a prova contraria, atteso che il tutto si sostanzierebbe in una sorta di sanatoria, lesiva dei principi di par condicio, trasparenza e buona fede, anche in considerazione del fatto che l’omissione della dichiarazione con riferimento a pregressi inadempimenti ed errori professionali non è emendabile tramite il soccorso istruttorio (C.d.S., III, 26.02.2016, n. 802), dovendosi fare applicazione dell’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000 (ex multis C.d.S., III, 10.08.2016, n. 3581) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 15.03.2017 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Prova dell’esistenza dell’avvalimento infragruppo societario.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Avvalimento infragruppo societario – Prova – Dichiarazione unilaterale dell’impresa capogruppo – Sufficienza.
E’ legittima l’aggiudicazione di una gara di appalto ad un concorrente che ha fatto ricorso all’istituto dell’avvalimento infragruppo societario ai sensi dell’art. 89, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 dimostrando l’avvalimento con una semplice dichiarazione unilaterale e non con il relativo contratto; trattandosi di avvalimento infragruppo societario è, infatti, sufficiente che l’impresa capogruppo dimostri, anche con una dichiarazione, il legame societario intercorrente tra essa stessa e l’impresa ausiliaria (1).
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   (1) Il Trga Bolzano, che ha richiamato giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 16.02.2012, n. 810; id., sez. V, 29.10.2014, n. 5377; id. 15.10.2015, n. 4764) in tal senso formatasi nella vigenza della disciplina dettata dal vecchio Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), ha chiarito che la ragione di questa semplificazione sta nel fatto che nell’ambito dell’avvalimento infragruppo l’obbligo dell’impresa ausiliaria controllata di mettere a disposizione dell’impresa concorrente controllante le risorse necessarie per tutta la durata del contratto, è dovuto proprio al controllo direzionale societario tra capogruppo e partecipata, che può essere comprovato da una dichiarazione unilaterale attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 14.03.2017 n. 99 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La censura principale fatta valere dalla ricorrente consiste, quindi, nella contestazione della validità dell’avvalimento, non avendo la T.S. depositato il relativo contratto di avvalimento, con il quale la T.S. si obbliga a mettere a disposizione della T.S. le proprie prestazioni.
La ricorrente non tiene però debitamente conto del fatto che nella fattispecie siamo di fronte ad un avvalimento infragruppo societario ai sensi dell’art. 89 D.Lgs. 50/2016 (art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006), per il quale è pacifico che non è necessaria la stipulazione di un contratto di avvalimento, ma è sufficiente che l’impresa capogruppo dimostri il legame societario intercorrente tra essa stessa e l’impresa ausiliaria.
Al riguardo si richiama la consolidata giurisprudenza, secondo la quale “
E’ chiaro che la disposizione normativa richiamata ha accordato un regime probatorio e documentale semplificato in favore delle imprese appartenenti al medesimo gruppo societario, senza limitarne la portata alle sole imprese ausiliarie “controllanti” o direttamente “partecipanti” e ancora “capogruppo”, come assume l’appellante principale. Tale impostazione risulta avvalorata dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012, n. 810) che ha chiarito che non sussiste l’obbligo di stipulare con l’impresa appartenente allo stesso gruppo un contratto di avvalimento, con il quale l’impresa ausiliaria si obbliga a mettere a disposizione del concorrente le risorse necessarie per tutta la durata del contratto, essendo sufficiente, in base alla disposizione di cui all’art. 49, co. 2, lett. g), cit., una dichiarazione unilaterale attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo. In conclusione, nell’attuale sistema normativo in materia di appalti pubblici ed in coerenza con le disposizioni comunitarie in tema di avvalimento, non sussistono limiti di tipo soggettivo in ordine all’impresa ausiliaria e ai legami tra essa e l’impresa ausiliata ed è consentito l’avvalimento all’interno del gruppo, qualunque sia la posizione nel gruppo, controllata o controllante” (Cons. Stato, Sez. V, 29.10.2014, n. 5377; idem Cons. Stato, Sez. V, 15.10.2015, n. 4764).
La ragione di questa semplificazione è chiara.
Nell’ambito dell’avvalimento infragruppo, infatti, l’obbligo dell’impresa ausiliaria controllata di mettere a disposizione dell’impresa concorrente controllante le risorse necessarie per tutta la durata del contratto, è dovuto proprio al controllo direzionale societario tra capogruppo e partecipata, che può essere comprovato da una dichiarazione unilaterale attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo.

EDILIZIA PRIVATA: Sugli obblighi del Comune a fronte del ritardo nel pagamento dei contributi di urbanizzazione si era registrato, nella giurisprudenza amministrativa, un marcato dissidio.
L’ordinanza cautelare aveva aderito alla tesi secondo cui il Comune avrebbe l'obbligo —in nome del dovere di cooperazione tra creditore e debitore previsto dall'art. 1175 cod. civ., e, comunque, del principio di imparzialità ed efficacia che presiede all'azione amministrativa— di escutere la garanzia prestata dal privato a tutela dell'adempimento dell'obbligo contributivo: pena la illegittimità delle sanzioni irrogate per il protrarsi dell'inadempimento oltre il primo periodo di mora.
Si contrapponeva la posizione secondo cui la prestazione di una fideiussione a garanzia del pagamento dei contributi di costruzione avviene nell'interesse esclusivo del Comune creditore e non anche dell'intestatario del permesso di costruzione (su cui grava in via principale l'obbligo di contribuzione); di conseguenza, di fronte al mancato versamento dei contributi concessori nel termine stabilito, l'Amministrazione non avrebbe l'obbligo di attivarsi immediatamente contro il fideiussore allo scopo di minimizzare le conseguenze negative a cui è esposto il debitore principale in conseguenza dell'inadempimento.
L’Adunanza Plenaria, con sentenza 07.12.2016, n. 24 ha risolto il contrasto, aderendo alla seconda posizione, affermando che “un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento, ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”.
Ha precisato che risulta sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del Comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.
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La prescrizione per la riscossione delle somme dovute a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione decorre dalla data di emanazione del provvedimento concessorio ed è decennale.
Ai sensi dell'art. 28, l. 24.11.1981, n. 689, applicabile ex art. 12 della stessa legge a tutte le sanzioni amministrative di tipo afflittivo, il termine di prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione e per il costo di costruzione è di cinque anni, e decorre dal giorno in cui è stata commessa la violazione.
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La disciplina degli abusi edilizi ha un carattere speciale e non è omologabile al sistema sanzionatorio previsto, per la generalità delle violazioni amministrative, dalla legge n. 689 del 1981.
E ciò sul rilievo che le sanzioni pecuniarie comminate per abusi edilizi non sono sanzioni punitive (cioè correlate esclusivamente alla responsabilità personale dell'autore della violazione), ma costituiscono misure con finalità ripristinatoria, di carattere meramente patrimoniale, trasmissibili agli eredi.
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1) Oggetto del presente ricorso è la richiesta di pagamento dei costi di costruzione e degli oneri di urbanizzazione, per un intervento di realizzazione di civile abitazione, attivata attraverso lo strumento dell’ordinanza ingiunzione ex art. 2 del r.d. n. 639 del 1910.
Con il presente ricorso viene chiesto l’annullamento delle ordinanze, pur non prospettando vizi specifici rispetto ai provvedimenti, né contestando il quantum, ma lamentando solo la violazione dell’art. 1175 c.c. e dell’art. 42 DPR 380/2001, perché in presenza delle polizze fidejussorie, il Comune avrebbe dovuto rivolgersi tempestivamente all’assicurazione, evitando in tal modo l’applicazione della sanzione di legge.
Viene poi eccepita la prescrizione di quanto richiesto.
2) Il primo motivo è infondato.
Sugli obblighi del Comune a fronte del ritardo nel pagamento dei contributi di urbanizzazione si era registrato, nella giurisprudenza amministrativa, un marcato dissidio.
L’ordinanza cautelare aveva aderito alla tesi secondo cui il Comune avrebbe l'obbligo —in nome del dovere di cooperazione tra creditore e debitore previsto dall'art. 1175 cod. civ., e, comunque, del principio di imparzialità ed efficacia che presiede all'azione amministrativa— di escutere la garanzia prestata dal privato a tutela dell'adempimento dell'obbligo contributivo: pena la illegittimità delle sanzioni irrogate per il protrarsi dell'inadempimento oltre il primo periodo di mora (Sez. V, 09.12.2013, n. 5880, 2013, Sez. IV, 17.02.2014, n. 731).
Si contrapponeva la posizione secondo cui la prestazione di una fideiussione a garanzia del pagamento dei contributi di costruzione avviene nell'interesse esclusivo del Comune creditore e non anche dell'intestatario del permesso di costruzione (su cui grava in via principale l'obbligo di contribuzione); di conseguenza, di fronte al mancato versamento dei contributi concessori nel termine stabilito, l'Amministrazione non avrebbe l'obbligo di attivarsi immediatamente contro il fideiussore allo scopo di minimizzare le conseguenze negative a cui è esposto il debitore principale in conseguenza dell'inadempimento (Cons. Stato, Sez. V, 20.11.2015 n. 5287, Sez. V 21.11.2014 n. 5734).
L’Adunanza Plenaria, con sentenza 07.12.2016, n. 24 ha risolto il contrasto, aderendo alla seconda posizione, affermando che “un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento, ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”.
Ha precisato che risulta sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del Comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.
Le ordinanze non risultano quindi censurabili, sotto i profili sollevati, poiché nessun obbligo si configurava in capo all’Amministrazione di escutere direttamente il fideiussore.
Il primo motivo va quindi respinto.
3) L’eccezione di prescrizione è in parte fondata.
La prescrizione per la riscossione delle somme dovute a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione decorre dalla data di emanazione del provvedimento concessorio (cfr.: Tar Sicilia Palermo II, 18.01.2012 n. 126) ed è decennale.
Ai sensi dell'art. 28, l. 24.11.1981, n. 689, applicabile ex art. 12 della stessa legge a tutte le sanzioni amministrative di tipo afflittivo, il termine di prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione e per il costo di costruzione è di cinque anni, e decorre dal giorno in cui è stata commessa la violazione.
Per le tre concessioni edilizie la situazione è pressoché simile, poiché i titoli sono stati rilasciati nel 1996; l’amministrazione ha chiesto il pagamento nel corso del 1999 e del 2000, ma poi, nonostante il mancato pagamento, il successivo sollecito è solo del 16.06.2008.
Non sono prescritte le somme ancora dovute per il costo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione; risultano invece prescritte le somme dovute a titolo di sanzione per ritardato pagamento, essendo l’Amministrazione rimasta inerte, dal 2000 al 2008, quindi per più di cinque anni.
La domanda di accertamento dell’intervenuta prescrizione va quindi accolta limitatamente alle somme richieste a titolo di sanzione.
4) Nell’atto di riassunzione gli eredi hanno introdotto una eccezione, sull’assunto che le sanzioni pecuniarie non si trasmettono agli eredi.
L’eccezione è infondata, in quanto la disciplina degli abusi edilizi ha un carattere speciale e non è omologabile al sistema sanzionatorio previsto, per la generalità delle violazioni amministrative, dalla legge n. 689 del 1981; e ciò sul rilievo che le sanzioni pecuniarie comminate per abusi edilizi non sono sanzioni punitive (cioè correlate esclusivamente alla responsabilità personale dell'autore della violazione), ma costituiscono misure con finalità ripristinatoria, di carattere meramente patrimoniale, trasmissibili agli eredi (TAR Milano, sez. I, 05/12/2014, n. 2940) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.03.2017 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza di questa Corte è pressoché concorde nel ritenere configurabile il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.) non solo per la falsificazione della dichiarazione di inizio attività (DIA), ma anche della relazione di accompagnamento, avendo quest'ultima natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
Dopo aver evidenziato che, con la DIA, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore e che il ricorso al procedimento della DIA, conseguentemente, porta con sé una peculiare assunzione di responsabilità, in relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento, si conclude, affermando:
- "Dalla delineata costruzione della DIA, come atto fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto qualificato, discende che la relazione asseverativa del progettista, sulla quale si fonda l'eliminazione dell'intermediazione del potere autorizzatorio dell'attività del privato da parte della pubblica amministrazione, assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi certificativo"
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Nella fattispecie in esame il falso riguarda la rappresentazione dello stato dei luoghi.
Si tratta, quindi, palesemente di una falsa rappresentazione dello stato oggettivo dei luoghi, finalizzata ad eseguire, con la mera presentazione di una DIA, un incremento volumetrico del fabbricato preesistente.
E tale falsa rappresentazione, per le ragioni in precedenza esposte, integra indubitabilmente il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.).

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3. In ordine al secondo motivo, contrariamente a quanto assumono i ricorrenti,
la giurisprudenza di questa Corte è pressoché concorde (a parte una decisione rimasta isolata) nel ritenere configurabile il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.) non solo per la falsificazione della dichiarazione di inizio attività (DIA), ma anche della relazione di accompagnamento, avendo quest'ultima natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio (sez. 3 n. 35795 del 17/04/2012, Palotta, Rv. 253666; conf. Sez. 3 n. 50621 del 18/06/2014, Cazzato, Rv. 261513; sez. 3 n. 27699 del 20/05/2010, Coppola, Rv. 247927; sez. 5 n. 35615 del 14/05/2010, D'Anna, Rv. 248878; sez. 3 n. 1818 del 21/10/2008, Baldassari, Rv. 242478).
Dopo aver evidenziato che, con la DIA, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore e che il ricorso al procedimento della DIA, conseguentemente, porta con sé una peculiare assunzione di responsabilità, in relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento, si conclude, affermando: "Dalla delineata costruzione della DIA, come atto fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto qualificato, discende che la relazione asseverativa del progettista, sulla quale si fonda l'eliminazione dell'intermediazione del potere autorizzatorio dell'attività del privato da parte della pubblica amministrazione, assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi certificativo" (sez. 3 n. 35795/2012 cit.).
Il contrasto giurisprudenziale derivante dall'unica pronuncia richiamata nella sentenza n. 37174/2014 (pag. 7 ricorso), a ben vedere, è più apparente che reale.
In effetti, con la sentenza della sez. 5 n. 23668 del 26/04/2005, Giordano, Rv. 231906, si escludeva la natura di "certificato" della relazione allegata alla DIA ma solo con riferimento alla parte progettuale (in quanto manifesta una intenzione e non registra una realtà oggettiva) ed alla eventuale attestazione di assenza di vincoli (dal momento che esprime un giudizio dell'agente, passibile anche di errore).
3.1.
Nella fattispecie in esame il falso riguarda non certo la manifestazione di una intenzione o l'espressione di un giudizio, ma la rappresentazione dello stato dei luoghi (si legge nella stessa imputazione: "con una falsa descrizione, nella tavola stato attuale, del manufatto oggetto dell'intervento ed in particolare disegnavano il manufatto con la stessa altezza in gronda di m. 3,40, allegando altresì una fotografia (o comunque la stampa di una fotografia digitale modificata in modo tale da far apparire il fabbricato in oggetto come avente la stessa altezza sui lati nord e sud e comunque una altezza maggiore rispetto al fabbricato confinante sul lato sud"). Si tratta, quindi, palesemente di una falsa rappresentazione dello stato oggettivo dei luoghi, finalizzata ad eseguire, con la mera presentazione di una DIA, un incremento volumetrico del fabbricato preesistente.
E tale falsa rappresentazione, per le ragioni in precedenza esposte, integra indubitabilmente il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.).

3.2. Con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, la Corte territoriale ha ritenuto che dalle risultanze processuali emergesse, in modo inequivocabile, la sussistenza, sul piano oggettivo, del falso ideologico così come contestato.
Ha evidenziato, infatti, che dalle dichiarazioni pienamente attendibili del Cu., che trovavano puntuale riscontro nei rilievi fotografici e nella perizia d'ufficio dell'ing. Ga., emergeva chiaramente che nella DIA n. 1180/2007 era stata rappresentata una situazione dello stato dei luoghi, preesistente all'intervento, difforme dalla realtà ("e cioè come già esistente la sopraelevazione del lato sud del tetto del fabbricato, così riportandolo alla stessa altezza del tetto lato nord, mentre invece la sua realizzazione avveniva in corso di esecuzione dei lavori assentiti con DIA"). Tale falsa rappresentazione dello stato preesistente dei luoghi, comportava, come accertato dal perito d'ufficio, un aumento di volumetria di circa 40,20 metri cub (pag. 6 e 7 sent.).
Ha fatto riferimento la Corte territoriale anche alle deposizioni degli agenti verbalizzanti (isp. Lu.) ed ha disatteso motivatamente le valutazioni dei consulenti di parte, perché smentite da non equivoche risultanze probatorie: il falso e, quindi, l'abuso edilizio che ne era derivato erano talmente macroscopici da essere rilevabili ad "occhio nudo in base al semplice raffronto di tali foto riproducedi lo stato dei luoghi, prima, durante e dopo .. (pag. 8)".
Quanto all'elemento soggettivo (dolo generico), dalla complessiva motivazione della sentenza emerge che la rappresentazione falsa dello stato dei luoghi avvenne consapevolmente, essendo essa finalizzata ad ottenere un incremento volumetrico del fabbricato preesistente.
I ricorrenti, attraverso una formale denuncia di vizi di motivazione e travisamento della prova, richiedono sostanzialmente una rilettura delle risultanze processuali non consentita nel giudizio di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.2017 n. 11051).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di risarcimento del danno, "il soggetto legittimato all'azione civile è il danneggiato che non necessariamente si identifica con il soggetto passivo del reato in senso stretto, ma è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del soggetto attivo del reato (fattispecie relativa a vicino di casa parte civile in processo per abuso edilizio".
In particolare,
il proprietario confinante è legittimato a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni (art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni (art. 872 cod. civ.); vale a dire quando la realizzazione dell'abuso edilizio violi non solo le norme, poste a tutela del regolare assetto del territorio, ma anche le norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema di distanze, volumetria ed altezza delle costruzioni, essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo all'azione di risarcimento del danno.
E' stato sottolineato che
colui che edifica nei modi consentiti è immune da responsabilità nei confronti dei vicini; "le conseguenze sono diverse, invece, se la edificazione sia avvenuta in contrasto con la disciplina concernente l'assetto del territorio: vale a dire se le norme relative all'edilizia, in funzione della tutela degli interessi generali ad un ordinato regime urbanistico e territoriale, quali le limitazioni del volume, dell'altezza, della densità degli edifici, le esigenze dell'igiene e della viabilità, la conservazione dell'ambiente o la tutela delle bellezze naturali garantiscono (sia pure indirettamente) il vantaggio del panorama e, implicitamente, vietano che il panorama sia diminuito od escluso dalle nuove costruzioni. Da siffatte norme dettate nell'interesse pubblico, anche gli interessi privati vengono a beneficiare. La concezione tradizionale, secondo cui le norme urbanistiche, in favore dei privati avvantaggiati, danno luogo ad una situazione di interesse legittimo e dalla lesione di un interesse legittimo non ha origine il diritto al risarcimento del danno, risulta superata dal disposto testuale dell'art. 872, comma 2, cod. civ., da cui scaturisce un diritto soggettivo perfetto, indipendentemente dal fatto che le norme urbanistiche richiamate siano o non integrative del codice civile....".
Sicché "
La violazione delle norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli strumenti urbanistici ... è fonte di responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno oggettivo o "in re ipsa": tale danno non consiste solo nel deprezzamento commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di esso (aspetti che vengono superati dalla tutela ripristinatoria) ma anche dalla indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale.
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4. In ordine alla dedotta mancata indicazione nell'atto di costituzione di parte civile della causa petendi e del petitum (terzo motivo di ricorso), l'eccezione era stata già proposta in primo grado.
Il Tribunale, con ordinanza del 05/11/2009, aveva ammesso la parte civile, respingendo le eccezioni difensive, dal momento che l'atto di costituzione conteneva "gli elementi essenziali e sufficienti per individuare, non solo l'entità della pretesa risarcitoria, ma anche i presupposti della stessa: la persona offesa asserisce di essere comproprietaria di un fondo confinante -la circostanza non è contestata-; l'imputazione riguarda un asserito ampliamento di volume con sopraelevazione".
La Corte territoriale, richiamando le statuizioni sul punto del Tribunale, ha ribadito che la costituzione della parte civile era perfettamente ammissibile.
I Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi più volte affermati, in proposito, da questa Corte, secondo cui,
in tema di costituzione di parte civile, l'indicazione delle ragioni che giustificano la domanda risarcitoria è funzionale esclusivamente all'individuazione della pretesa fatta valere in giudizio non essendo necessaria un'esposizione analitica della "causa petendi", sicché per soddisfare i requisiti di cui all'art. 78 lett. d), cod. proc. pen., è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto, allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza (tra le altre: Sez. 6, n. 32705 del 17/04/2014, Coccia, Rv. 260325; sez. 5 n. 22034 del 07/03/2013, Boscolo, Rv. 256500).
Nell'atto di costituzione di parte civile (venendo eccepita una nullità è consentito l'accesso agli atti) erano riportate integralmente le imputazioni dalle quali emergeva chiaramente, come si è visto in precedenza, una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, al fine, di consentire un incremento volumetrico (sopraelevazione) del fabbricato preesistente; inoltre il Cu. si dichiarava comproprietario, unitamente al figlio Giacomo, di una casa per abitazione, con terreno, posta al confine del fabbricato di proprietà dei geom. Ma. e Si., per il quale era stata presentata la DIA con una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, realizzando così "un'opera edilizia abusiva che lede i diritti del comparente quale comproprietario del fondo limitrofo".
Il Cu. chiedeva, quindi, avendone titolo per i motivi prima indicati, di costituirsi in giudizio per ottenere il risarcimento del danno-patrimoniale ed extrapatrimoniale- subito a seguito dell'attività illecita posta in essere dagli imputati.
Risultava, pertanto, sufficientemente chiaro dall'atto di costituzione, emergendo dalla esposizione e dal contenuto stesso delle imputazioni, che il Cu. assumeva di essere stato danneggiato dalla sopraelevazione dl fabbricato, confinante con la sua proprietà, eseguita attraverso la presentazione di una DIA in cui era stato rappresentato falsamente lo stato originario del fabbricato medesimo (in modo cioè da farlo apparire come avente la stessa altezza sui lati nord e sud e comunque una altezza maggiore rispetto al fabbricato confinante).
Lamentava, cioè, il Cu., quale proprietario del fondo confinante di essere stato danneggiato dalla condotta illecita (sopraelevazione con incremento volumetrico del fabbricato preesistente) posta in essere dagli imputati (causa petendi) e chiedeva, pertanto di essere risarcito dai danni subiti per effetto di siffatta condotta (petitum).
5. Altrettanto correttamente i Giudici di merito hanno condannato gli imputati al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
in tema di risarcimento del danno, "il soggetto legittimato all'azione civile è il danneggiato che non necessariamente si identifica con il soggetto passivo del reato in senso stretto, ma è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del soggetto attivo del reato (fattispecie relativa a vicino di casa parte civile in processo per abuso edilizio" -cfr. Cass. sez. V n. 5613 dell'11.04.2000-Toscano).
In particolare,
il proprietario confinante è legittimato a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni (art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni (art. 872 cod. civ.) - (sez. 3 n. 45285 del 21/10/2009), Vespa, Rv. 245270); vale a dire quando la realizzazione dell'abuso edilizio violi non solo le norme, poste a tutela del regolare assetto del territorio, ma anche le norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema di distanze, volumetria ed altezza delle costruzioni, essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo all'azione di risarcimento del danno (sez. 3 n. 10106 del 21/01/2016, Torzini, Rv. 266290; sez. 3 n. 21222 del 04/04/2008, Chianese, Rv. 240044).
E' stato sottolineato (sez. F. del 31/07/2008, Valente, non massimata) che
colui che edifica nei modi consentiti è immune da responsabilità nei confronti dei vicini; "le conseguenze sono diverse, invece, se la edificazione sia avvenuta in contrasto con la disciplina concernente l'assetto del territorio: vale a dire se le norme relative all'edilizia, in funzione della tutela degli interessi generali ad un ordinato regime urbanistico e territoriale, quali le limitazioni del volume, dell'altezza, della densità degli edifici, le esigenze dell'igiene e della viabilità, la conservazione dell'ambiente o la tutela delle bellezze naturali garantiscono (sia pure indirettamente) il vantaggio del panorama e, implicitamente, vietano che il panorama sia diminuito od escluso dalle nuove costruzioni. Da siffatte norme dettate nell'interesse pubblico, anche gli interessi privati vengono a beneficiare. La concezione tradizionale, secondo cui le norme urbanistiche, in favore dei privati avvantaggiati, danno luogo ad una situazione di interesse legittimo e dalla lesione di un interesse legittimo non ha origine il diritto al risarcimento del danno, risulta superata dal disposto testuale dell'art. 872, comma 2, cod. civ., da cui scaturisce un diritto soggettivo perfetto, indipendentemente dal fatto che le norme urbanistiche richiamate siano o non integrative del codice civile....".
Sicché "
La violazione delle norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli strumenti urbanistici ... è fonte di responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno oggettivo o "in re ipsa": tale danno non consiste solo nel deprezzamento commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di esso (aspetti che vengono superati dalla tutela ripristinatoria) ma anche dalla indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale (Sez. 2, 17.05.2000, n. 6414)".
Per la costituzione di parte civile del proprietario confinante nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi si è positivamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell'uomo (17.07.2007, c. 6970/03, Vitello).
Tanto premesso è indubitabile che dall'abuso edilizio, posto in essere dagli imputati, possa essere derivato, attraverso la sopraelevazione dell'immobile preesistente, un danno alla proprietà confinante sotto il profilo della compressione del diritto al pieno godimento della stessa in termini di visuale ed areazione.
Infine, ineccepibilmente, ha ricordato la Corte di merito che la condanna generica al risarcimento del danno postula per il suo accoglimento l'accertamento di un fatto da ritenersi, alla stregua di un giudizio di probabilità, anche solo potenzialmente produttivo di conseguenze dannose.
E' onere della parte civile dare, poi, la prova, nel separato e susseguente giudizio civile, della sussistenza in concreto del danno e del suo ammontare.
6. La manifesta infondatezza del ricorso non consentendo l'instaurazione di un valido rapporto processuale, preclude la possibilità di rilevare la prescrizione, maturata dopo la sentenza impugnata. Gli stessi ricorrenti rilevano che, risultando il reato commesso in data 25/05/2007 (data di presentazione della DIA), il termine massimo di prescrizione sarebbe maturato il 25/11/2014 (la sentenza della Corte di Appello è stata emessa in data 25/09/2014 e quindi prima del maturare di detto termine).
In ogni caso, non avrebbero potuto venir meno le statuizioni civili: l'art. 578 cod. proc. pen. prevede infatti che, ove nei confronti dell'imputato sia stata pronunciata condanna anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare la prescrizione, debbano decidere sugli effetti civili.
7. Va, infine, rilevato che l'omessa espressa revoca dell'ordine di demolizione da parte della Corte di Appello, che ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380 del 2001, al quale detto ordine era "collegato", non comporta alcun vizio della sentenza.
Invero,
l'estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera , indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorìo che trova la propria giustificazione nella accessorietà alla sentenza di condanna. La revoca dell'ordine si produce, cioè, ex lege, a prescindere da una esplicita statuizione di revoca (Sez. 3 n. 756 del 02/12/2010, Sicignano, Rv. 249154; sez. 3 n. 10209 del 02/02/2006, Cirillo, Rv. 233673; sez. 3 n. 3099 del 06/10/2000, Bifulco, Rv. 217853) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.2017 n. 11051).

EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: la disciplina antisismica si applica a prescindere dai materiali e dalle relative strutture. Non conta la natura precaria o permanente dell'intervento.
"Forati" è termine generico che si riferisce al fatto che l'elemento utilizzato per la costruzione sia vuoto e non al tipo di materiale. Del resto lo stesso termine "mattone", dal punto di vista tecnico, è generico e si tipizza per il materiale usato per la sua realizzazione, tra cui la terra, il calcestruzzo, il gesso etc.
Il termine "mattone" prescinde dal materiale usato mentre il termine "forato" si riferisce esclusivamente alla presenza di fori.
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Secondo l'orientamento consolidato,
la speciale disciplina antisismica si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità, a prescindere dai materiali e dalle relative strutture nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche.
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2. Con il primo motivo di ricorso, lamentano la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione alla disposizione di servizio n. 235 del 26.08.2008 emessa dal Genio civile di Messina nonché agli art. 93, 94 e 95 DPR 380/2001, perché la predetta disposizione escludeva l'autorizzazione dell'Ufficio per la realizzazione di muri di semplice recinzione in forati e cordolo di fondazione in cemento armato di altezza non superiore a 3 metri, mentre il Giudicante aveva ritenuto integrata la violazione perché sul cordolo di cemento armato gli imputati avevano apposto dei blocchi di calcestruzzo e non dei mattoni forati.
Precisano che il termine "forati" non deve e non può essere inteso come sinonimo di "mattone forato", ma come termine generico indicante qualsiasi blocco di costruzione che al suo interno sia cavo e privo di armatura. Affermano che la ratio della disposizione risiede nel fatto che il muro di recinzione non ha funzione di contenimento e sostegno di altre strutture e perciò non abbisogna di armatura.
...
3. Il ricorso è fondato.
E' corretta e condivisibile la deduzione dei ricorrenti secondo cui
"forati" è termine generico che si riferisce al fatto che l'elemento utilizzato per la costruzione sia vuoto e non al tipo di materiale. Del resto lo stesso termine "mattone", dal punto di vista tecnico, è generico e si tipizza per il materiale usato per la sua realizzazione, tra cui la terra, il calcestruzzo, il gesso etc.
Il Giudice di prime cure, senza censurare il contenuto della disposizione del Genio civile, dopo aver accertato che il muro era stato realizzato con blocchi di calcestruzzo al di sopra del cordolo in cemento armato, ha ritenuto l'illiceità della condotta, perché risultava evidente come ben diverso fosse il carico dell'uno o dell'altro tipo di materiale, con ragionevole spiegazione del diverso tipo di disciplina prevista e con un'interpretazione che vista la natura derogatoria della regolamentazione citata, deve essere rigorosa e strettamente aderente al suo tenore letterale.
Tale motivazione non convince, perché
il termine "mattone" prescinde dal materiale usato mentre il termine "forato" si riferisce esclusivamente alla presenza di fori.
L'osservazione sul maggiore o minore carico è del tutto apodittica e prescinde da accertamenti di tipo tecnico- scientifico.
Secondo l'orientamento consolidato,
la speciale disciplina antisismica si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità, a prescindere dai materiali e dalle relative strutture (Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 ud, dep. 11/12/2015, Baio, Rv. 266033 e sentenze ivi citate, nonché Sez. 3, n. 48005, del 17/09/2014 ud, dep. 20/11/2014, Rv 261156, in un caso di chiusura di verande con mattoni forati secondo la disciplina della Regione Sicilia),  nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche (si vedano per i riferimenti ai precedenti la citata Sez. 3, n. 48950/15).
La prescrizione dell'Ufficio invocata dai ricorrenti a proprio favore ben può essere sindacata dal giudice penale, sebbene gli imputati abbiano riferito che il muro di  recinzione realizzato non aveva funzioni di sostegno né di contenimento, sicché la prescrizione era da considerarsi giustificata.
La sentenza impugnata, però, non ha evidenziato alcun elemento che consenta questo sindacato, quale ad esempio la collocazione del muro, la natura del terreno, etc., da cui desumere l'integrazione del presupposto dell'art. 83 D.P.R. 380/2001, limitandosi, come detto, ad interpretare arbitrariamente l'espressione usata dall'Ufficio come riferita al solo "mattone forato", inteso, forse, come "laterizio".
In definitiva, il fatto contestato non sussiste (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.02.2017 n. 9126).

AGGIORNAMENTO AL 15.03.2017

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ANNULLAMENTO ATTI AMMINISTRATIVI:
il discrimen per l'applicazione del termine dei 18 mesi (come contenuto nel nuovo art. 21-nonies) è la data di emissione del provvedimento di primo grado oggetto di annullamento: se essa è precedente all'entrata in vigore della Legge 214/2015 (28.05.2015), questa non troverà applicazione, se invece è successiva, l'eventuale provvedimento di annullamento dovrà rispettare il termine dei 18 mesi.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Annullamento d'ufficio: il termine dei 18 mesi si riferisce ai provvedimenti emanati dopo l'entrata in vigore della novella.
Il TAR Campania-Napoli ha nuovamente affrontato il tema dell'ambito temporale di applicazione della legge n. 124/2015, che ha modificato il testo dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 introducendo il limite temporale di 18 mesi per procedere all’annullamento d’ufficio di alcune tipologie di provvedimenti (tra cui gli atti autorizzativi).
Oggetto della decisione è il provvedimento di annullamento d'ufficio emesso da un Comune nei confronti di un permesso di costruire rilasciato prima dell'entrata in vigore della novella di cui alla Legge n. 124/2015 sull'assunto dell'emissione del titolo all’esito della falsa rappresentazione della realtà fattuale, indotta dalla parte privata richiedente.
In primo luogo, il Collegio affronta il tema dei presupposti per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio.
In termini generali viene affermato che
anche in materia edilizia i presupposti del potere di annullamento d’ufficio sono costituiti dall’illegittimità originaria del provvedimento e dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle contrapposte posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai privati.
Principio che, ricorda il Tribunale, soffre un’eccezione nel caso -quale è quello di specie- in cui l’operato dell’amministrazione sia stato fuorviato dall’erronea o falsa rappresentazione dello stato di fatto posta in essere dal privato al momento della richiesta del titolo edilizio.
In tale ipotesi non occorre una particolare motivazione sull’interesse pubblico perseguito in sede di autotutela, di per sé coincidente con l’implicita esigenza di ripristinare la legalità urbanistico-edilizia fraudolentemente compromessa, così come perde meritevolezza l’affidamento (non incolpevole) del privato circa il mantenimento della situazione abusiva. Affidamento da considerare di per sé recessivo di fronte all’interesse pubblico alla ricostituzione della cornice di rispetto della disciplina urbanistica violata.

Accertata sotto questo profilo la legittimità del provvedimento impugnato, il Collegio passa a vagliarne la tenuta nei confronti della novella legislativa di cui alla Legge n. 124/2015.
Richiamando un proprio precedente di qualche mese prima (TAR Campania Napoli, Sez. II, 17.10.2016 n. 4737), il Tribunale amministrativo campano conferma il carattere innovativo della novella in esame, dal quale consegue la sua applicazione soltanto ai provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla sua entrata in vigore.
Con la pronuncia in commento il TAR Campania conferma dunque il proprio orientamento secondo cui
il discrimen per l'applicazione del termine dei 18 mesi come contenuto nel nuovo art. 21-nonies è la data di emissione del provvedimento di primo grado oggetto di annullamento: se essa è precedente all'entrata in vigore della Legge 214/2015 (28.05.2015), questa non troverà applicazione, se invece è successiva, l'eventuale provvedimento di annullamento dovrà rispettare il termine dei 18 mesi.
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TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.10.2016 n. 4737.
Sul punto si veda anche la
sentenza 31.08.2016 n. 3762 -Sez. VI- del Consiglio di Stato con la quale è stato affermato che il termine dei 18 mesi rileva ai fini interpretativi anche se non applicabile retroattivamente (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 20.02.2017 n. 1033 - tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
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MASSIMA
1. La presente controversia si incentra sulla contestazione dell’ordinanza dirigenziale del Comune di Quarto n. 7/2015 del 12.11.2015, con cui è stato annullato in autotutela il permesso di costruire n. 4/2014 del 28.01.2014, ottenuto dal ricorrente per l’intervento di ristrutturazione edilizia di cui in narrativa, nonché è stato ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi.
2. Si premette, in punto di fatto, che l’atto di autotutela, nell’assumere che il permesso di costruire era stato rilasciato sulla base di una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi contenuta nella domanda di parte e nei relativi allegati tecnici, ritiene tale permesso illegittimo per le seguenti due ragioni ostative, ciascuna di per sé idonea ad impedire il rilascio dell’atto ampliativo:
   i) “Negli atti presentati si dichiara che il manufatto da abbattere e ricostruire risale ad una data precedente al 1967. A supporto della dichiarazione di esistenza del manufatto allegano un rilievo fotografico. L’esame documentale e comparativo, tra gli atti presentati e la cartografia di P.R.G. nonché con le varie aerofotogrammetrie regionali, hanno rilevato che il manufatto non è presente nella aerofotogrammetria del 1981. Nella documentazione presentata a supporto della domanda per P.d.C. in oggetto non è riportata nessuna altra prova documentale a sostegno di quanto affermato circa la sua data di realizzazione. Per quanto concerne il rilievo fotografico del 02/10/2013 n. di prot. 26557, si rileva che non inquadra il manufatto inserito nel suo contesto ma lo riprende a distanze ravvicinate rendendo impossibile, a posteriori e ad avvenuta demolizione, il suo posizionamento all’interno del lotto. Il rilievo fotografico, inoltre, riporta solo inquadrature esterne e parziali.”;
   ii) “La parte ha espressamente dichiarato, con nota n. 31865 del 13/11/2013, che la zona oggetto dell’intervento non rientra nel vincolo di P.R.G. denominato H2 – area soggetta a vincolo non aedificandi per rispetto archeologico. I tecnici comunali, mediante sovrapposizione della cartografia catastale con i grafici del P.R.G. hanno constatato che l’area oggetto dell’intervento ricade nella zona omogenea di P.R.G. denominata H2. La presente circostanza inficia l’applicazione dell’art. 5 della L.R. 19/2009, impropriamente applicato stante la dichiarazione resa dalla parte.”.
Inoltre, giova aggiungere, quanto all’interesse pubblico perseguito nello specifico, che l’ordinanza in questione si sofferma sui seguenti argomenti: “Ritenuto: Che è in capo alla Pubblica Amministrazione la difesa del territorio che si esplica attraverso una corretta pianificazione urbanistica; Che il controllo della pianificazione urbanistica rappresenta un interesse pubblico da tutelare; Che la falsa rappresentazione di luoghi ha profilo di violazione di legge e nella presente fattispecie, è violazione sostanziale in quanto momento determinante per il rilascio del P.d.C. n. 4/2014; Che vi è obbligo da parte della P.A. di procedere al ripristino dello stato dei luoghi che avviene mediante annullamento ex tunc del titolo giuridico, P.d.C. n. 4/2014, che si poggia, per i motivi sopra riportati, su falsa ed errata rappresentazione; Che è preminente l’interesse pubblico da tutelare e che le opere sono poco più che allo stadio di mera configurazione del cantiere;”.
3. Ciò premesso, le censure complessivamente articolate avverso il provvedimento impugnato sono così compendiabili:
   a) quanto alla ritenuta illegittimità del permesso di costruire, va evidenziato, da un lato, “che è stata depositata presso il Comune fotogramma dell’I.G.M. (Istituto Geografico Militare, ndr.) risalente addirittura al 1974 dalla quale si evince che il fabbricato esisteva a quella data e pertanto, è falso affermare che il fabbricato non esisteva alla data del 1981” e, dall’altro, che, in forza della documentazione più volte depositata presso la sede comunale, è stato dimostrato che “l’immobile non ricade in zona H2 e pertanto nessun vincolo esiste”;
   b) il “provvedimento impugnato è certamente carente dei presupposti di fatto e di diritto in quanto si fonda su motivi superati dalla medesima amministrazione nel corso di una istruttoria lunga (durata circa due anni!) conclusasi con il rilascio del permesso di costruire originariamente legittimo”;
   c) nella fattispecie “non è rinvenibile alcuna falsa rappresentazione della realtà fattuale, svolta da parte ricorrente ed idonea a trarre in inganno l’amministrazione nello svolgimento della propria attività di controllo e di valutazione”;
   d) “nel provvedimento finale di annullamento del titolo edilizio de quo, l’amministrazione comunale non ha provveduto alla analitica confutazione delle osservazioni presentate dal ricorrente”;
   e) in violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e del dovere di motivazione, l’amministrazione comunale non ha dato conto, nel corredo motivazionale dell’atto di autotutela, dell’interesse pubblico specifico alla rimozione del titolo edificatorio, ritenuto prevalente sul contrapposto interesse privato consolidatosi nel tempo.
In particolare, nella specie “il provvedimento di autotutela emanato, in primo luogo, ha omesso di specificare in quale modo la trasformazione edilizia avrebbe inciso negativamente sull’ambiente e sull’assetto urbanistico del territorio, effettuando unicamente un generico richiamo agli interessi pubblici prevalenti, senza svolgere un’attenta disamina della situazione di fatto concernente l’area in questione. In ogni caso, l’Amministrazione non ha in alcun modo valutato, nel processo comparativo delle situazioni giuridiche coinvolte nel procedimento, l’affidamento ingenerato nel ricorrente, con il rilascio del permesso de quo, che ha comportato la completa demolizione (nell’anno e mezzo intercorso dal rilascio), del manufatto oggetto di intervento”;
   f) l’annullamento d’ufficio è stato disposto dopo circa due anni dal rilascio del permesso di costruire, ossia oltre il termine massimo di intervento, pari a 18 mesi, previsto dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, come recentemente modificato dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), della legge n. 124/2015.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate.
4. A differenza di quanto dedotto dal ricorrente, non è seriamente controvertibile che il permesso di costruire fosse stato rilasciato sul falso ed erroneo presupposto della preesistenza del fabbricato da demolire al 1967, cioè all’epoca a partire dalla quale sarebbe stato necessario in ogni caso che l’attività edificatoria in ambito comunale fosse assistita dal corrispondente titolo edilizio.
Né convince in senso opposto l’invocato fotogramma dell’I.G.M. risalente al 1974. Al riguardo, è sufficiente richiamare gli esiti degli accertamenti compiuti dal CTU, come illustrati nella sua relazione tecnica, che il Collegio condivide e fa propri ritenendoli frutto di approfondita e scrupolosa attività valutativa: “Per l’anno 1981, l’indagine presso i suddetti Enti deputati al controllo del territorio ha accertato a tale data l’esistenza della sola aerofotogrammetria anno 1981, che è stata acquisita dallo scrivente presso l’U.T.C. del Comune di Quarto nel corso dell’accesso del 06/06/2016.
Da tale cartografia (All. n. 3) non si evince l’esistenza dell’immobile oggetto di ricorso (vedi area cerchiata in rosso). Al fine di facilitare la comprensione del corretto inquadramento spaziale degli edifici presenti nell’aerofotogrammetria anno 1981, si è ritenuto utile allegare lo stralcio aerofotogrammetrico anno 1994 (All. n. 4.1) ed il relativo fotogramma levata aerea 30/11/1994 (All. n. 4.2) –acquisiti presso il Comune di Quarto– dove risulta particolarmente evidente la posizione dell’immobile oggetto di ricorso ed il posizionamento degli edifici limitrofi allo stesso. Su tali documenti gli immobili seguono la medesima numerazione precedentemente assegnata.
Inoltre, poiché l’aerofotogrammetria del 1981 è stata contestata dalla parte ricorrente, lo scrivente ha ricercato altra documentazione con date prossime a quella del 1981. In conseguenza di tale indagine il CTU ha acquisito, con protocollo n. 0387097 del 07/06/2016 presso il SIT della Regione Campania, il fotogramma n. 0182 relativo al volo anno 1985 (All. n. 5). Da quest’ultimo risulta, in modo chiaro (vedi area cerchiata in rosso), l’inesistenza dell’immobile oggetto di ricorso alla data del 1985.
Per l’anno 1974, accertata l’assenza di altra documentazione presso gli Enti deputati al controllo del territorio, lo scrivente ha richiesto all’I.G.M. (Istituto geografico militare) un ingrandimento del fotogramma volo 1974 relativo all’area oggetto di ricorso (All. n. 6).
Da un’approfondita analisi del fotogramma, raffrontandola anche con il fotogramma levata aerea 30/11/1994 (All. n. 4.2) e con gli aerofotogrammetrici del 1981 (All. n. 3) e del 1994 (All. n. 4.1), l’immobile oggetto di ricorso non risulta presente. Infatti, l’immobile che il ricorrente cerchia nel medesimo fotogramma I.G.M. 1974, allegato agli atti di causa, non può essere l’edificio oggetto di demolizione sia per le dimensioni (molto più piccole), che per la collocazione quasi in asse con la linea di riferimento, costruita dallo scrivente, che parte dal lato sinistro dell’immobile individuato con il n. 2.
L’immobile indicato dal ricorrente sembrerebbe corrispondere al più esterno dei piccoli manufatti contraddistinti con i numeri 4/5 nell’All. n. 3. Invece, come si evince sia dal fotogramma levata aerea 30/11/1994 che dallo stralcio aerofotogrammetrico anno 1994, acquisiti presso il Comune di Quarto, l’immobile oggetto di ricorso risulta tutto spostato sulla sinistra rispetto all’edificio inquadrato con il n. 2 (vedi linea di riferimento – Allegati nn. 4.1 e 4.2) e molto più grande
.”.
4.1 Discende dalle superiori osservazioni che resiste alle critiche attoree il primo motivo di illegittimità del permesso di costruire individuato nell’atto di autotutela, atteso che si palesa assolutamente plausibile la riscontrata inesistenza del fabbricato oggetto di demolizione al 1981 (ed addirittura al 1985) nonché, a maggior ragione, al 1967, a fronte, peraltro, della sostanziale convergenza in senso negativo degli stralci aerofotogrammetrici detenuti dagli enti territoriali con il fotogramma dell’I.G.M. del 1974.
4.2 Quanto sopra esposto riveste carattere assorbente ed esime il Collegio dall’esaminare la rimanente censura, con cui parte ricorrente intende contestare l’ordinanza impugnata in ordine al profilo motivazionale dell’illegittimità del permesso di costruire per mancato rispetto del vincolo di inedificabilità di cui alla zona H2, dal momento che comunque l’impianto complessivo dell’ordinanza risulta validamente sorretto, quanto al presupposto dell’illegittimità dell’atto da rimuovere, dall’inesistenza del fabbricato da demolire in epoca precedente al 1967.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il quale,
laddove una determinazione amministrativa di segno negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall’annullamento (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 29.02.2016 n. 5; Consiglio di Stato, Sez. V, 06.03.2013 n. 1373 e 27.09.2004 n. 6301; Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010 n. 4243).
5.
La pur lunga istruttoria che ha condotto al rilascio del permesso di costruire ha tenuto conto solo del materiale documentale e tecnico fornito dalla parte privata richiedente, come pacificamente emerge dalle evidenze processuali.
Ebbene,
non è sicuramente illogico, né attiene a situazioni ormai superate dalla pregressa istruttoria, che l’amministrazione abbia rivisto le proprie precedenti determinazioni alla luce di una nuova istruttoria frutto di più approfondite verifiche, che abbiano fatto tesoro di rilievi e cartografie dotati di maggiore ufficialità.
6.
Certamente il permesso di costruire annullato è stato emesso all’esito della falsa rappresentazione della realtà fattuale, indotta dalla parte privata richiedente, circa l’epoca di costruzione del fabbricato da demolire, dal momento che è incontestato che la collocazione temporale del manufatto a data antecedente al 1967 discende da apposita dichiarazione contenuta nella documentazione a corredo dell’istanza.
7.
L’obbligo, ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso dell’iter procedimentale, non impone all’amministrazione una formale ed analitica confutazione di ogni argomento utilizzato dagli stessi, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della legge medesima, un’esternazione motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei privati, come puntualmente avvenuto nella fattispecie (cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.05.2012 n. 3210; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.2010 n. 7472; TAR Campania Napoli, Sez. III, 08.06.2016 n. 2885; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 15.09.2011 n. 4402).
8. Inoltre,
se è vero, secondo un diffuso e condivisibile orientamento (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.12.2015 n. 5830; Consiglio di Stato, Sez. VI, 30.09.2015 n. 4552), che anche in materia edilizia i presupposti del potere di annullamento d’ufficio sono costituiti dall’illegittimità originaria del provvedimento e dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle contrapposte posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai privati, è altrettanto vero che tale principio soffre un’eccezione nel caso in cui l’operato dell’amministrazione sia stato fuorviato dall’erronea o falsa rappresentazione dello stato di fatto posta in essere dal privato al momento della richiesta del titolo edilizio; invero, in tale ipotesi non occorre una particolare motivazione sull’interesse pubblico specifico perseguito in sede di autotutela, di per sé coincidente con l’implicita esigenza di ripristinare la legalità urbanistico-edilizia fraudolentemente compromessa, così come perde meritevolezza l’affidamento (non incolpevole) del privato circa il mantenimento della situazione abusiva, affidamento da considerare di per sé recessivo di fronte all’interesse pubblico alla ricostituzione della cornice di rispetto della disciplina urbanistica violata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691 e 03.08.2012 n. 4440; TAR Toscana, Sez. III, 27.05.2015 n. 825).
8.1 Ebbene,
il caso concreto rientra senza dubbio nell’esposta ipotesi eccettuativa, se solo si pone mente alla pacifica circostanza, già illustrata al precedente paragrafo 6, che l’annullato permesso di costruire era stato rilasciato sulla base di una non fedele dichiarazione della parte richiedente in ordine all’epoca di costruzione del fabbricato da demolire.
Ne discende che, non essendo individuabile in capo al ricorrente alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, deve ritenersi correttamente giustificato l’intervento in autotutela posto in essere dall’amministrazione comunale, la quale comunque appare aver tenuto in debita considerazione, pur ritenendole soccombenti atteso lo stato di avanzamento del cantiere, le contrapposte esigenze private al mantenimento del titolo edilizio.
9. Infine,
il permesso di costruire annullato è stato emesso il 28.01.2014, ossia prima dell’entrata in vigore della legge n. 124/2015, che ha modificato il testo dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 introducendo il limite temporale di 18 mesi per procedere all’annullamento d’ufficio di alcune tipologie di provvedimenti (tra cui gli atti autorizzativi): ciò depone per l’inapplicabilità al caso di specie della novella legislativa, che propriamente si attaglia a tutti i provvedimenti di primo grado emanati dopo la sua entrata in vigore.
Soccorre, al riguardo, una recente pronuncia in termini della Sezione, che il Collegio recepisce integralmente ritenendola preferibile, atteso il persuasivo percorso argomentativo utilizzato, a qualche orientamento contrario nel frattempo intervenuto: “È infondata anche la censura con cui si denuncia la violazione dell’art. 6 della Legge n. 124/2015.
La modifica all’art. 21-nonies introdotta dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1 della predetta legge (“comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20”), infatti, non ha carattere interpretativo dell’inciso che precede (“entro un termine ragionevole”) perché, se così fosse, si dovrebbe considerare comunque e sempre “ragionevole” l’autoannullamento effettuato dall’Amministrazione entro 18 mesi, laddove nulla vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in autotutela adottato entro il predetto termine.
D’altra parte
nemmeno può attribuirsi ad esso carattere sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della Legge n. 124/2015).
La norma in esame ha, dunque, sicuramente carattere innovativo, sicché si applica soltanto ai provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale rigido di annullabilità dell’atto amministrativo– non può che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla vigenza della legge.
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che essere successivo alla sua entrata in vigore– del provvedimento autorizzativo (di primo grado) (cfr. sul punto questa Sezione, 12.09.2016 n. 4229)
.” (Così TAR Campania Napoli, Sez. II, 17.10.2016 n. 4737).
10. In conclusione, resistendo il provvedimento impugnato a tutte le censure prospettate, il ricorso deve essere respinto siccome infondato.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATASalvi i casi espressamente previsti dalla legge (in cui è previsto che il silenzio dell'Amministrazione comporta l'accoglimento ovvero la reiezione di una istanza), il superamento del termine massimo di durata di un procedimento comporta le conseguenze previste dagli artt. 2 e 2-bis della Legge n. 241/1990 (tra le altre, costituisce "elemento di valutazione della performance individuale" e consente di proporre innanzi al giudice amministrativo il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione), ma di per sé non incide sulla legittimità del provvedimento conclusivo del procedimento.
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La modifica all’art. 21-nonies introdotta dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1 della legge 124/2015 (“comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20”) non ha carattere interpretativo dell’inciso che precede (“entro un termine ragionevole”) perché, se così fosse, si dovrebbe considerare comunque e sempre “ragionevole” l’autoannullamento effettuato dall’Amministrazione entro 18 mesi, laddove nulla vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in autotutela adottato entro il predetto termine.
D’altra parte nemmeno può attribuirsi ad esso carattere sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della Legge n. 124/2015).
La norma in esame ha, dunque, sicuramente carattere innovativo, sicché si applica soltanto ai provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale rigido di annullabilità dell’atto amministrativo- non può che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla vigenza della legge.
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che essere successivo alla sua entrata in vigore– del provvedimento autorizzativo (di primo grado).
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L’errata o insufficiente (non importa se dolosa o colposa) rappresentazione di circostanze di fatto esposte nella domanda di permesso a costruire costituisce ragione determinante e sufficiente a giustificare un provvedimento di annullamento del rilasciato titolo edilizio, in considerazione del fatto che ogni provvedimento amministrativo è legittimo solo se fondato sulla situazione di fatto e di diritto realmente esistente al momento della sua adozione.
In sostanza, nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica, atteso che «in sede di adozione di un atto in autotutela, la comparazione tra interesse pubblico e quello privato è necessaria nel caso in cui l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all'amministrazione, non già quando lo stesso è dovuto a comportamenti del soggetto privato che hanno indotto in errore l'autorità amministrativa».
Invero, il Collegio ritiene di condividere quel prevalente orientamento giurisprudenziale secondo il quale, quando l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea rappresentazione della realtà in capo all’Amministrazione procedente per come causata dal comportamento del richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell’atto può ritenersi sussistente in re ipsa, non opponendosi a ciò posizioni di interesse del privato degne di particolare tutela.
D’altronde, avendo parte ricorrente omesso nell’istanza di sanatoria di dichiarare l’esistenza dell’atto unilaterale d’obbligo –anzi si era affermata la “piena disponibilità” dei portici in questione- nel caso concreto si è materializzato un errore sulla rappresentazione della realtà causato dalla parte privata; ora è pacifico che l'Amministrazione ha sempre la piena facoltà di verificare la veridicità del dichiarato ai sensi dell’art. 71 del DPR n. 445/2000, in quanto, in ragione della finalità semplificatoria che l'istituto persegue, il contenuto dell'autocertificazione resta sempre necessariamente esposto alla prova contraria; una volta che l'Amministrazione abbia acquisito la certezza della non veridicità del dichiarato, ha il dovere di trarne le necessarie conseguenze, nella corretta e doverosa applicazione del principio generale di buona amministrazione.
La peculiarità del presupposto a base della contestata determinazione, siccome riconnesso alla accertata falsità delle dichiarazioni sulle quali si fonda il rilascio dei titoli edilizi oggetto di autotutela, fa sì che la sua natura vada riguardata in termini di doverosità che non offre quindi spazi alla discrezionalità naturalmente riflessa nell’adozione di atti di secondo grado; da tanto consegue sia il ridimensionamento dell’onere motivazionale, sia la riespansione del principio di dequotazione dei vizi formali attesa la sostanziale inutilità dell’obliterato apporto partecipativo.
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3.2 Ora non ha pregio il motivo con cui si lamenta la violazione dell'art. 2 della Legge n. 241/1990 per superamento del termine massimo di durata del procedimento: salvi i casi espressamente previsti dalla legge (in cui è previsto che il silenzio dell'Amministrazione comporta l'accoglimento ovvero la reiezione di una istanza), il superamento del termine massimo di durata di un procedimento comporta le conseguenze previste dagli artt. 2 e 2-bis della Legge n. 241/1990 (tra le altre, costituisce "elemento di valutazione della performance individuale" e consente di proporre innanzi al giudice amministrativo il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione), ma di per sé non incide sulla legittimità del provvedimento conclusivo del procedimento (cfr., da ultimo, Cons. Stato, III, 18.05.2016 n. 2019).
3.3 È infondata anche la censura con cui si denuncia la violazione dell’art. 6 della Legge n. 124/2015.
La modifica all’art. 21-nonies introdotta dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1 della predetta legge (“comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20”), infatti, non ha carattere interpretativo dell’inciso che precede (“entro un termine ragionevole”) perché, se così fosse, si dovrebbe considerare comunque e sempre “ragionevole” l’autoannullamento effettuato dall’Amministrazione entro 18 mesi, laddove nulla vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in autotutela adottato entro il predetto termine.
D’altra parte nemmeno può attribuirsi ad esso carattere sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della Legge n. 124/2015).
La norma in esame ha, dunque, sicuramente carattere innovativo, sicché si applica soltanto ai provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale rigido di annullabilità dell’atto amministrativo- non può che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla vigenza della legge.
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che essere successivo alla sua entrata in vigore– del provvedimento autorizzativo (di primo grado) (cfr. sul punto questa Sezione, 12.09.2016 n. 4229).
3.4 Quanto, poi, all’asserita, incongrua motivazione dell’interesse pubblico sotteso all’annullamento degli atti di condono ed all’omessa ponderazione degli opposti interessi, è appena il caso di osservare che l’errata o insufficiente (non importa se dolosa o colposa) rappresentazione di circostanze di fatto esposte nella domanda di permesso a costruire costituisce ragione determinante e sufficiente a giustificare un provvedimento di annullamento del rilasciato titolo edilizio, in considerazione del fatto che ogni provvedimento amministrativo è legittimo solo se fondato sulla situazione di fatto e di diritto realmente esistente al momento della sua adozione (cfr., ex multis, TAR Firenze, III, 05.05.2015 n. 825; TAR Milano, III, 12.02.2013 n. 843; TAR Salerno, II, 29.11.2012 n. 171): ebbene, nel caso di specie, in sede di richiesta degli atti di condono il Comune è stato fuorviato -rilasciando le sanatorie- dalla errata rappresentazione della realtà effettuata dalla società istante la quale, anziché esplicitare l’esistenza del vincolo di destinazione d’uso pubblico a cui il porticato era assoggettato (in virtù di un atto unilaterale d’obbligo che costituiva, fra l’altro, condicio sine qua non per il rilascio dei permessi di costruire del 2002), aveva invece affermato espressamente (e mendacemente) la “piena disponibilità” del porticato di cui è causa, inducendo in errore l’Amministrazione che, proprio in funzione di tali omissioni, rilasciava i titoli edilizi in sanatoria.
In sostanza, nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (Tar Basilicata, n. 238 del 2006; Cons. Stato, V, n. 5691 del 2012), atteso che «in sede di adozione di un atto in autotutela, la comparazione tra interesse pubblico e quello privato è necessaria nel caso in cui l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all'amministrazione, non già quando lo stesso è dovuto a comportamenti del soggetto privato che hanno indotto in errore l'autorità amministrativa».
Nella fattispecie è pacifica –per come anche relazionato dal CTU- la mancata indicazione nella istanza di concessione edilizia in sanatoria dell'esistenza di un atto di vincolo a destinazione d'uso pubblico del portico rogato dal dott. Vi.Pu. in data 23/10/2001 e con il quale la “Di.Ca.” ed il sig. Am.Gi. sottoponevano i porticati al piano terra a vincolo di destinazione d’uso pubblico, ragion per cui per il rilascio della sanatoria sarebbe stato necessario rinegoziare l'atto –avente evidente carattere contrattuale- di vincolo a destinazione d'uso pubblico precedentemente sottoscritto dalle parti.
Ora il Collegio ritiene di condividere quel prevalente orientamento giurisprudenziale (ex multis, TAR Lombardia, Milano, n. 841 del 2013) secondo il quale, quando l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea rappresentazione della realtà in capo all’Amministrazione procedente per come causata dal comportamento del richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell’atto può ritenersi sussistente in re ipsa, non opponendosi a ciò posizioni di interesse del privato degne di particolare tutela (cfr. Cons. Stato, IV, 28.05.2012 n. 3150; 24.12.2008, n. 6554).
D’altronde, avendo parte ricorrente omesso nell’istanza di sanatoria di dichiarare l’esistenza dell’atto unilaterale d’obbligo –anzi si era affermata la “piena disponibilità” dei portici in questione- nel caso concreto si è materializzato un errore sulla rappresentazione della realtà causato dalla parte privata; ora è pacifico (TAR Campania, Salerno, n. 171 del 2013) che l'Amministrazione ha sempre la piena facoltà di verificare la veridicità del dichiarato ai sensi dell’art. 71 del DPR n. 445/2000, in quanto, in ragione della finalità semplificatoria che l'istituto persegue, il contenuto dell'autocertificazione resta sempre necessariamente esposto alla prova contraria; una volta che l'Amministrazione abbia acquisito la certezza della non veridicità del dichiarato, ha il dovere di trarne le necessarie conseguenze, nella corretta e doverosa applicazione del principio generale di buona amministrazione (ex multis, Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781; IV, 06.11.2009, n. 6948).
La peculiarità del presupposto a base della contestata determinazione, siccome riconnesso alla accertata falsità delle dichiarazioni sulle quali si fonda il rilascio dei titoli edilizi oggetto di autotutela, fa sì che la sua natura vada riguardata in termini di doverosità che non offre quindi spazi alla discrezionalità naturalmente riflessa nell’adozione di atti di secondo grado; da tanto consegue sia il ridimensionamento dell’onere motivazionale, sia la riespansione del principio di dequotazione dei vizi formali attesa la sostanziale inutilità dell’obliterato apporto partecipativo (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.10.2016 n. 4737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAnnullamento d'ufficio del titolo illegittimo: il termine dei 18 mesi rileva ai fini interpretativi anche se non applicabile retroattivamente.
Il Consiglio di Stato si pronuncia sui presupposti dell'annullamento in autotutela alla luce del limite temporale di 18 mesi introdotto dal Decreto Sblocca Italia del 2014.
I giudici di Palazzo Spada (Sez. VI, sentenza 31.08.2016 n. 3762) sono stati chiamati a
vagliare l'annullamento d'ufficio di una D.I.A. disposto a distanza di quattro anni dal suo consolidamento e ne hanno dichiarato l'illegittimità anche alla luce della novità legislativa, pur non applicabile ratione temporis alla fattispecie.
Ricordando in via di principio che il riconoscimento di un errore tecnico tale da inficiare la validità del titolo avrebbe consentito all'Amministrazione di intervenire adottando un provvedimento inibitorio/ripristinatorio entro il termine di decadenza (30 giorni) previsto dall'art. 23, comma 6, D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
nel caso di specie il Collegio ha esaminato la problematica connessa alla verifica della sussistenza delle condizioni richieste dall'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per l'adozione del provvedimento repressivo d'ufficio adottato dopo la scadenza di detto termine.
Detto articolo, nella formulazione vigente al momento dell'adozione del provvedimento impugnato, consentiva l'intervento postumo di annullamento d'ufficio ricorrendone le ragioni di interesse pubblico e sempreché il provvedimento fosse disposto entro un termine ragionevole, tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Successivamente, il D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, ha modificato il testo introducendo il limite dei 180 giorni: "1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge".
Nel caso in esame, il Collegio evidenzia la carenza sia dell'esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) che della valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio.
In particolare
viene sottolineata l'importanza della tutela dell'affidamento del privato, che nel caso era particolarmente qualificata in ragione del lungo tempo trascorso dall'adozione della D.I.A. annullata (4 anni).
Prendendo spunto da quest'ultima considerazione, il Consiglio di Stato ricorda la novella legislativa del 2014 e lo sbarramento temporale posto con questa all'esercizio del potere di autotutela e
pur riconoscendo l'inapplicabilità della previsione ratione temporis -implicitamente confermando l'irretroattività della novità normativa- il Collegio conferma l'orientamento già espresso in un proprio precedente di dicembre (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.12.2015 n. 5625) e le attribuisce una vis che trascende il mero dato letterale ("rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti"), portandola a costituire parametro di riferimento, se non addirittura principio informatore, per tutte le fattispecie di annullamento d'ufficio, comprese quelle alla quali a stretto rigore la norma non sarebbe applicabile (tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
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MASSIMA
1. Con separati appelli il Comune di Dolzago ha impugnato le sentenze rese del Tar Lombardia, Milano, entrambe pubblicate il 07.08.2012, n. 2180 e n. 2182.
2. Le sentenze appellate, accogliendo i ricorsi rispettivamente proposti da Fa.Sp. e Va.Sp. (sentenza n. 2180/2012) e da Se.Fu., Le Nu.Co. s.r.l., Br.Co. s.r.l. e Ro.Co. (sentenza n. 2181/2012), hanno annullato il medesimo provvedimento amministrativo: l’ordinanza, a firma del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Dolzago, n. 11, datata 21.04.2011, avente ad oggetto l’annullamento della d.i.a. relativamente alle opere “riguardanti l’innalzamento del tetto con modifica della sagoma e del volume dell’edificio, come rappresentato nella d.i.a. prot. n. 2066 del 05.03.2007 rispetto alla d.i.a. prot. n. 9640 del 10.12.2005” e l’ordine di demolizione “delle opere che hanno comportato l’innalzamento del tetto ed il conseguente incremento volumetrico del sottotetto, come eseguite, abusivamente, in difformità ed in aggiunta a quelle risultanti dalla d.i.a. prot. n. 9640 del 10.12.2005”.
...
6. Gli appelli non meritano accoglimento.
7. Giova evidenziare che il provvedimento impugnato si basa sull’assunto secondo cui la d.i.a. prot. n. 2066/2007 conterrebbe una falsa dichiarazione nella misura in cui quanto rappresentato nel progetto in variante sezione 3-3 (ove si indica l’altezza del sottotetto in m. 2,29) non corrisponderebbe all’altezza effettiva del sottotetto. Ciò in quanto, la misura di m. 2,29 sarebbe stata ottenuta escludendo la computo il controsoffitto che, per contro, secondo l’Amministrazione, avrebbe dovuto essere necessariamente conteggiato.
Come correttamente e condivisibilmente evidenziato dal Tar, tuttavia, la tavola allegata alla d.i.a. n. 2066/2007, allorché raffigura l’altezza in sezione del sottotetto escludendo dal computo lo spessore sottostante l’intradosso di copertura, non pone in essere una falsa rappresentazione, integrando, al più, una valutazione tecnica erronea.
Infatti, in base alla disciplina comunale (articolo 10 NTA del P.R.G., cui fa riscontro l’articolo 8 delle stesse NTA sul computo del volume edificabile), l’altezza degli edifici si misura a partire dalla quota di terreno natura sino all’intradosso del solaio di copertura. L’intradosso del solaio di copertura, a sua volta, deve intendersi al netto di extra-spessori non strutturali, sì da rimanere indifferente alle opere interne realizzate in aderenza al tetto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.05.2001, n. 3228).
Nel caso di specie, quindi, la rappresentazione grafica allegata alla d.i.a. nella misura in cui esclude il controsoffitto è contraria agli articoli 8 e 10 delle N.T.A. citate, i quali stabiliscono la non computabilità nel calcolo del volume complessivo degli spazi di sottotetto soltanto quando l’altezza media ponderale di essi non superi 2,40 m.
8. L’errore tecnico in esame, inficiando la validità della d.i.a., avrebbe consentito all’Amministrazione di intervenire sul titolo, adottando un provvedimento inibitorio/ripristinatorio o entro il termine di decadenza previsto dall’art. 23, comma 6, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, oppure, scaduto infruttuosamente tale termine, soltanto ricorrendo le condizioni alle quali l’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241, subordina l’esercizio del potere di autotutela.
Nel caso di specie,
poiché il provvedimento repressivo è stato adottato dopo la scadenza del termine perentorio di cui all’art. 23, comma 6, d.P.R. n 380 del 2001, occorre verificare la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.
9.
L’art. 21-nonies cit. prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l’esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) sia la valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio. Nel caso in esame tale affidamento era, peraltro, particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando trascorsi ben quattro anni dal suo consolidamento.
Va aggiunto sotto tale profilo che
il decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, ha posto uno sbarramento temporale all'esercizio del potere di autotutela, rappresento da “diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di evidenziare, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
10. Alla luce delle considerazioni che precedono gli appelli devono, pertanto, essere respinti (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 31.08.2016 n. 3762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Annullamento in autotutela: il "criterio dei 18 mesi" introdotto dalla legge n. 124/2015 e il principio del "tempus regit actum”.
Nel caso di rilascio di un permesso a costruire fondato su una rappresentazione non veritiera dello stato di fatto da parte del richiedente, appare evidente la sussistenza di una situazione permanente “contra ius”, nella quale la preminenza dell’interesse pubblico è tale per cui non occorre una specifica ed esplicita motivazione sull'interesse pubblico attuale e concreto, da contemperare con l’interesse privato, all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio del titolo edilizio.
L’interesse pubblico alla eliminazione dell’atto illegittimo va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Invero, l'interesse pubblico all'eliminazione dell'atto illegittimo è da considerarsi “in re ipsa” “nelle ipotesi di intervento in autotutela a fronte di una falsa, infedele, erronea o comunque inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell'interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini dell'adozione del provvedimento ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest'ultimo imputabile non già all'autorità promanante, bensì al privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'amministrazione.
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Il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6 della l. n. 124 del 2015, non può trovare applicazione nella fattispecie in discussione sulla base del principio "tempus regit actum", che riguarda un provvedimento adottato nel 2012.
Semmai, può essere utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine -ragionevole- entro il quale la Regione può annullare provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso, quale “parametro temporale” di legittimità e congruità dell’azione amministrativa di annullamento in via di autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito all’esercizio del potere comunale di autoannullamento in relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e annullato nel maggio del 2012.
In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato richiedente, la circostanza che tra il rilascio del “permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento comunale di annullamento in via di autotutela siano trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado.
Il profilo di censura attinente alla omessa analisi della possibilità di adottare atti diversi dall’annullamento in via di autotutela (ad esempio, la convalida), sembra poi travalicare i limiti del controllo giudiziale di legittimità demandato a questo giudice amministrativo sconfinando nel merito delle opzioni riservate all’autorità amministrativa.
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6.4. Anche i motivi di appello sub V) e VI) sono infondati e vanno respinti.
6.4.1. Quanto al motivo dedotto sub V), imperniato essenzialmente su eccesso di potere per carenza di motivazione, omessa ponderazione degli interessi in gioco, esorbitanza del provvedimento di annullamento rispetto alle finalità sue proprie e tardività del disposto annullamento d’ufficio, anzitutto, come si è accennato sopra al p. 6.3., nel caso di rilascio di un permesso a costruire fondato su una rappresentazione non veritiera dello stato di fatto da parte del richiedente, appare evidente la sussistenza di una situazione permanente “contra ius”, nella quale la preminenza dell’interesse pubblico è tale per cui non occorre una specifica ed esplicita motivazione sull'interesse pubblico attuale e concreto, da contemperare con l’interesse privato, all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio del titolo edilizio.
L’interesse pubblico alla eliminazione dell’atto illegittimo va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica: conf., su fattispecie analoghe, riguardanti proprio annullamenti d’ufficio di concessioni edilizie, le sentenze Cons. Stato n. 3150 del 2012 e n. 6554 del 2004, alle quali si rinvia anche ai sensi degli articoli 74 e 88, comma 2, lett. d), del cod. proc. amm. .
Bene quindi la sentenza impugnata:
   - ha richiamato la giurisprudenza per la quale l'interesse pubblico all'eliminazione dell'atto illegittimo è da considerarsi “in re ipsa” “nelle ipotesi di intervento in autotutela a fronte di una falsa, infedele, erronea o comunque inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell'interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini dell'adozione del provvedimento ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest'ultimo imputabile non già all'autorità promanante, bensì al privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'amministrazione…” (cfr. sent. appellata, p. 4.2.); e
   - ha rilevato che il Comune, “nel disporre l'avversato annullamento d'ufficio, ha espressamente evidenziato che il De Iu., con la richiesta di realizzazione del parcheggio pertinenziale pervenuta in data 06.06.2007, prot. n. 6367, che ha prodotto il rilascio del permesso di costruire commissariale del 02.10.2008, ha, tra l'altro, dichiarato 'libera' l'area interessata, producendo un'erronea rappresentazione dello stato di fatto preesistente al rilascio dell'atto autorizzativo edilizio"; stato dei luoghi contrassegnato, come si è detto, da ingenti opere di sbancamento e di fondazione già eseguite.
A fronte di (dette opere), ha proseguito il Tar, “il ricorrente, nella domanda di permesso di costruire prot. n. 6367 del 06.06.2007, ha infedelmente o erroneamente rappresentato l'area di sedime come 'libera', così inducendo in errore l'amministrazione procedente circa la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 ai fini dell'applicabilità del regime derogatorio in materia di parcheggi pertinenziali…”.
Inoltre, il contestato annullamento in autotutela, intervenuto circa tre anni e otto mesi dopo l’avvenuto rilascio del permesso a costruire (anche se pare corretto ricordare che l’avviso di avvio del procedimento è stato comunicato al De Iu. alla fine del mese di marzo del 2012), a differenza di quanto ritiene l’appellante non può considerarsi tardivo.
In primo luogo, il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6 della l. n. 124 del 2015, richiamato dal signor De Iu. nella memoria conclusiva, sulla base del principio “tempus regit actum”, non può trovare applicazione nella fattispecie in discussione, che riguarda un provvedimento adottato nel 2012.
Semmai, come il Comune non manca di segnalare, può essere utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine -ragionevole- entro il quale la Regione può annullare provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso, quale “parametro temporale” di legittimità e congruità dell’azione amministrativa di annullamento in via di autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito all’esercizio del potere comunale di autoannullamento in relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e annullato nel maggio del 2012.
In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato richiedente, la circostanza che tra il rilascio del “permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento comunale di annullamento in via di autotutela siano trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado (cfr., sulla ragionevolezza del tempo, di circa quattro anni –gennaio 2009/marzo 2005- entro il quale è stato disposto l’annullamento in autotutela di un permesso di costruire assentito in modo illegittimo, la già citata sentenza Cons. Stato, sez. IV, n. 3150 del 2012).
Il profilo di censura attinente alla omessa analisi della possibilità di adottare atti diversi dall’annullamento in via di autotutela (ad esempio, la convalida), sembra poi travalicare i limiti del controllo giudiziale di legittimità demandato a questo giudice amministrativo sconfinando nel merito delle opzioni riservate all’autorità amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2016 n. 3403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, febbraio 2017).

EDILIZIA PRIVATA: IL FASCICOLO DEL FABBRICATO - Per una cultura della prevenzione e della sicurezza integrata (Consiglio Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati, Linee Guida 03 - 01.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA: LA REDAZIONE DELLA DICHIARAZIONE DI RISPONDENZA - Ai sensi del DM 37/2008 (Consiglio Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati, Linee Guida 02 - 25.02.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Termoregolazione e contabilizzazione in ambito condominiale - Progettazione ed esecuzione (Consiglio Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati, Linee Guida 01 - luglio 2016).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

COMPETENZE PROGETTUALI: COMPETENZE PROFESSIONALI – AFFIDAMENTO DEI LAVORI DI COMPLETAMENTO DELLE OPERE DI URBANIZZAZIONE DEL PIANO DEGLI INSEDIAMENTI PRODUTTIVI DEL COMUNE DI PUGLIANELLO - PROGETTAZIONE DELLE OPERE VIARIE NON CONNESSE AI SINGOLI FABBRICATI – SENTENZA TAR CAMPANIA, NAPOLI, 20.02.2017 N. 1023 – INCOMPETENZA DEGLI ARCHITETTI - COMPETENZA ESCLUSIVA DELL’INGEGNERE - CONSIDERAZIONI (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 09.03.2017 n. 26).
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Con la presente si trasmette in allegato l’importante sentenza del TAR Campania, Napoli, I Sez., 20.02.2017 n. 1023, che ha riconosciuto –a proposito di una gara d’appalto integrato– che in materia di progettazione delle opere viarie non connesse ai singoli fabbricati vi è la competenza esclusiva dell’Ingegnere, dichiarando la illegittimità in parte qua del bando di gara che prevedeva l’obbligo di associare “almeno un progettista architetto” per i concorrenti privi della qualificazione SOA per la progettazione delle classi e categorie indicate nel bando. (...continua).

ENTI LOCALI: Oggetto: Decreto Legislativo 01.08.2003, n. 259 (Codice delle Comunicazioni Elettroniche) - Reti e servizi di comunicazioni elettronica ad uso privato (Prefettura di Pordenone, nota 06.03.2017 n. 6104 di prot.).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: Competenze professionali degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati in materia di pianificazione, progettazione, direzione lavori e consulenza nel settore forestale (Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati, nota 01.03.2017 n. 1105 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Applicazione disposizioni delibera n. 5 del 03.11.2016, recante criteri e requisiti per l'iscrizione all'Albo, con procedura ordinaria , nelle categorie 1, 4 e 5 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, nota 24.02.2017 n. 229 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modulistica per la comunicazione dell’iscrizione e rinnovo dell’iscrizione all’Albo con procedura semplificata di cui all’articolo 16 del D.M. 03.06.2014, n. 120 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, deliberazione 22.02.2017 n. 3).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modulistica per l’iscrizione all’Albo e autocertificazione per il rinnovo dell’iscrizione all’Albo con procedura ordinaria, nelle categorie 1, 4, 5, 8, 9 e 10 di cui all’articolo 8 del D.M. 03.06.2014, n. 120 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, deliberazione 22.02.2017 n. 2 di prot.).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: Competenze professionali nelle attività di pianificazione, progettazione, direzione lavori, valutazione e della consulenza nel settore selvicolturale. Conferma delle esclusive (Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali, nota 16.02.2017 n. 734 di prot.).

ENTI LOCALI: OGGETTO: Esposizione delle bandiere all'interno degli edifici pubblici (Prefettura di Avellino, nota 02.02.2017 n. 3915 di prot.).

INCARICHI PROFESSIONALI: M. A. Morelli e A. Di Gialluca, L'accertamento delle prestazioni rese a titolo gratuito dal professionista (Fondazione Nazionale dei Commercialisti, 31.01.2017).
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Sommario: Premessa. – 1. Il quadro normativo di riferimento – 2. I precedenti giurisprudenziali – 2.1. La giurisprudenza precedente alla sentenza della Cassazione n. 21972 del 2015 – 2.2. La sentenza della Corte di Cassazione del 28.10.2015, n. 21972 – 2.3. La giurisprudenza successiva alla sentenza della Cassazione n. 21972 del 2015 – 3. Considerazioni conclusive.

ENTI LOCALI - VARI: OGGETTO: Decreto del Ministro dell'Interno 16.08.2016 recante "modificazioni agli articoli 1 e 3 del Capitolo VI dell'Allegato B al regio decreto 06.05.1940, n. 635, in materia di leggi di pubblica sicurezza" - Prodotti pirotecnici (Prefettura di Avellino, nota 08.11.2016 n. 27219 di prot.).

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Pubblicazione del decreto del Ministero dell'Interno 16.08.2016 recante "modificazioni agli articoli 1 e 3 del Capitolo VI dell'Allegato B al regio decreto 06.05.1940, n. 635, in materia di leggi di pubblica sicurezza" (Ministero dell'Interno, nota 14.10.2016 n. 557 di prot.).

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Ordinanze emesse dai Sindaci ex art. 54 TUEL in occasione dei festeggiamenti del 31.12.2015 e/o inserimento dei Regolamenti Comunali di divieto permanente di accensione fuochi d'artificio (Sindacato Nazionale Operatori Pirotecnici, nota ottobre 2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 14.03.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 28.02.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 09.03.2017 n. 41).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 11 del 13.03.2017, "Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti" (L.R. 10.03.2017 n. 7).
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Si legga anche:
- Consiglio Regionale approva nuove norme per il recupero di vani e locali seminterrati (28.02.2017 - link a www.lombardiaquotidiano.com).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 10.03.2017 n. 58 "Adeguamento delle soprintendenze speciali agli standard internazionali in materia di musei e luoghi della cultura, ai sensi dell’articolo 1, comma 432, della legge 11.12.2016, n. 232, e dell’articolo 1, comma 327, della legge 28.12.2015, n. 208" (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, decreto 12.01.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 07.03.2017 n. 55 "Comportamenti e atti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 ostativi all’allattamento (Direttiva n. 1/2017)" (Dipartimento della Funzione Pubblica, direttiva 03.02.2017 n. 1/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: G.U. 07.03.2017 n. 55 "Adozione dei criteri ambientali minimi da inserire obbligatoriamente nei capitolati tecnici delle gare d’appalto per l’esecuzione dei trattamenti fitosanitari sulle o lungo le linee ferroviarie e sulle o lungo le strade" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare, decreto 15.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 06.03.2017 n. 54 "Disposizioni in materia di rifiuti di prodotti da fumo e di rifiuti di piccolissime dimensioni" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare, decreto 15.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 03.03.2017 n. 52 "Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi per le attività di autorimessa" (Ministero dell'Interno, decreto 21.02.2017).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 02.03.2017, "Criteri e modalità per la presentazione delle domande di autorizzazione in deroga al regime proprio delle riserve naturali, per la manutenzione e l’adeguamento funzionale e tecnologico, nonché la realizzazione di opere di rilevante interesse pubblico (art. 13, comma 7, l.r. 86/1983)" (deliberazione G.R. 27.02.2017 n. 6278).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 9 dell'01.03.2017, "Rete escursionistica della Lombardia" (L.R. 27.02.2017 n. 5).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 dell'01.03.2017, "Aggiornamento delle disposizioni per l’efficienza energetica degli edifici, approvate con d.g.r. n. 3868 del 17.07.2015, in relazione alle modalità per calcolare il contributo delle fonti rinnovabili mediante l’uso delle pompe di calore" (deliberazione G.R. 27.02.2017 n. 6276).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 28.02.2017 n. 49, suppl. ord. n. 14/L, "Testo del decreto-legge 30.12.2016, n. 244, coordinato con la legge di conversione 27.02.2017, n. 19, recante: «Proroga e definizione di termini»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI: G.U. 28.02.2017 n. 49 "Testo del decreto-legge 29.12.2016, n. 243, coordinato con la legge di conversione 27.02.2017, n. 18, recante: “Interventi urgenti per la coesione sociale e territoriale, con particolare riferimento a situazioni critiche in alcune aree del Mezzogiorno”.

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 23.02.2017 n. 45 "Regolamento recante i criteri operativi e le procedure autorizzative semplificate per il compostaggio di comunità di rifiuti organici ai sensi dell’articolo 180, comma 1-octies , del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, così come introdotto dall’articolo 38 della legge 28.12.2015, n. 221" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 29.12.2016 n. 266).

ENTI LOCALI: G.U. 22.02.2017 n. 44, suppl. ord. n. 12, "Adozione delle note metodologiche relative alla procedura di calcolo per la determinazione dei fabbisogni standard ed il fabbisogno standard per ciascun comune delle regioni a statuto ordinario relativi alle funzioni di istruzione pubblica, alle funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente - servizio smaltimento rifiuti, alle funzioni nel settore sociale - servizi di asili nido, alle funzioni generali di amministrazione e controllo, alle funzioni di polizia locale, alle funzioni di viabilità e territorio, alle funzioni nel campo dei trasporti (trasporto pubblico locale) ed alle funzioni nel settore sociale al netto dei servizi di asili nido" (D.P.C.M. 29.12.2016).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione di impatto ambientale (VIA): approvato in Consiglio dei Ministri il decreto di riforma.
Modificata l’attuale disciplina della verifica di assoggettabilità a VIA e della stessa VIA in attuazione della direttiva 2014/52/UE (13.03.2017 - link a www.casaeclima.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Dati patrimoniali dei dirigenti: il Tar Lazio dice stop alla loro pubblicazione (12.03.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Lombardia: legge per il recupero dei vani e locali seminterrati esistenti.
E' in attesa di pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia la proposta di legge approvata dal Consiglio Regionale nella seduta del 28.02.2017 e intitolata "Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti" (...continua) (11.03.2017 - link a http://studiospallino.blogspot.it).

APPALTI: L. Costanzo, Il controllo del giudice amministrativo sull’informativa antimafia (08.03.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. L’evoluzione della tutela delle situazioni soggettive da parte del giudice amministrativo (osservazioni generali). 3. Le nuove cause di esclusione dagli appalti pubblici (rilievi essenziali). 4. L’informativa antimafia, le garanzie procedimentali ed il giusto processo (un punto di osservazione privilegiato).

ATTI AMMINISTRATIVI: N. Posteraro, Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento d’ufficio come potere doveroso (08.03.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Dal nuovo 21-nonies alla doverosità dell’annullamento d’ufficio. 2. Sul dovere di provvedere a fronte d’una richiesta di annullamento avanzata da un amministrato. 3. L’annullamento doveroso a fronte d’una raccomandazione vincolante: la generalizzazione del dovere di provvedere dell’ANAC nel caso di sollecitazione dei suoi poteri d’ordine.

APPALTI: R. Caponigro, Il principio del favor partecipationis e la tutela delle piccole e medie imprese nell’affidamento degli appalti pubblici (08.03.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: M. Lipari, La nuova tutela cautelare degli interessi legittimi: il “rito appalti” e le esigenze imperative di interesse generale (08.03.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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SOMMARIO: 1. La nuova fisionomia dell’interesse legittimo nel giudizio cautelare. Il declino della teoria delle situazioni giuridiche soggettive e il consolidamento del processo d’urgenza.
2. L’autonomia formale dell’interesse legittimo nel Codice del processo amministrativo. Un sistema di tutela unitario per diritti e interessi incentrato sulle azioni, piuttosto che sulle situazioni giuridiche soggettive.
3. La rilevanza dinamica dell’interesse legittimo nell’azione di annullamento.
4. L’autonomia concettuale dell’interesse legittimo e le ragioni della speciale disciplina dell’azione risarcitoria: termini di decadenza e principio di autoresponsabilità.
5. La tutela cautelare generale dell’interesse legittimo ha esaurito, oggi, la sua “spinta propulsiva”? Il processo può aggiungere nuovi elementi di caratterizzazione dell’interesse legittimo? La “frammentazione” della tutela. le norme speciali e la casistica giurisprudenziale. esiste ancora un “sistema” cautelare unitario?
6. Il criterio dell’interesse pubblico quale fondamento e limite della tutela cautelare. La “bilateralità” del periculum: Il bilanciamento di valori e la natura dell’interesse legittimo.
7. La tesi “negazionista” secondo cui il “bilanciamento” non rileva: il codice non contempla, in generale, il criterio autonomo dell’interesse pubblico. L’art. 55 CPA si riferisce, unilateralmente, al solo pregiudizio grave e irreparabile allegato dal ricorrente. La decisione delle Sezioni Unite n. 11750 del 2004.
8. La ricerca della giustificazione sistematica della valutazione cautelare dell’interesse pubblico e dell’apprezzamento bilaterale del periculum. Un’indagine da approfondire. Il principio di proporzionalità. Il collegamento tra interesse pubblico e interesse legittimo.
9. L’irreversibilità degli effetti materiali e dell’esecuzione della misura cautelare favorevole al ricorrente come limite implicito della tutela. La disciplina positiva della cauzione è indice del principio di bilateralità del periculum.
10. I confini dell’onere della cauzione. La natura della posizione giuridica tutelata; i diritti fondamentali e i beni di “primario rilievo”. La rilevanza del principio di effettività nella tutela cautelare.
11. La limitata tipizzazione giurisprudenziale dei casi di prevalenza di interessi pubblici qualificati. Il caso dell’urgenza e la problematica specifica del bilanciamento cautelare. La riparabilità del pregiudizio del ricorrente per equivalente.
12. Le ipotesi speciali e “codificate” di bilanciamento della protezione cautelare con l’interesse pubblico. La differenziazione dei riti e delle tutele: una nuova tendenza dell’ordinamento? La regola dell’art. 119 CPA: il requisito della estrema gravità ed urgenza.
13. La tutela cautelare nel rito appalti secondo l’originaria versione del codice del processo amministrativo (art. 120 CPA): la sospensione automatica della stipulazione del contratto.
14. I limiti eccezionali alla tutela cautelare nelle procedure per l’affidamento delle infrastrutture strategiche (art. 125 CPA).
15. Le modifiche al rito appalti realizzate con il D.L. n. 90/2014. La cauzione e il superamento del requisito della irreversibilità degli effetti della misura cautelare.
16. La limitazione temporale delle misure cautelari nel rito appalti secondo il comma 8-bis dell’art. 120 del CPA, introdotto dal DL n. 90/2014.
17. Il processo speciale in materia di provvedimenti di conferimento di incarichi giudiziari direttivi: i limiti alla ottemperanza sostitutiva e alla eseguibilità delle pronunce non passate in giudicato. Una limitazione indiretta della tutela cautelare.
18. La rilevanza esplicita dell’interesse pubblico nel giudizio in materia di provvedimenti della Banca d’Italia concernenti la risoluzione e il risanamento degli enti creditizi. Le indicazioni del diritto europeo e la portata innovativa della norma.
19. Le esigenze imperative di tutela della incolumità pubblica nel decreto legge n. 133/2014. Regola eccezionale o principio generale di prevalenza degli interessi pubblici qualificati? Il coordinamento con la regola della conservazione dell’efficacia del contratto già stipulato anche in caso di accertate gravi violazioni.
20. Lo sfavore crescente verso la tutela cautelare in presenza di interessi pubblici qualificati e la disciplina positiva. La necessità della riconduzione della regola al sistema.
21. La tutela cautelare speciale degli interessi legittimi nel nuovo codice dei contratti pubblici n. 50/2016. Il comma 8-ter dell’art. 120 CPA e la sua portata sistematica. Il Problema del rispetto della delega.
22. La giustificazione razionale e sistematica della normativa: il favore per l’accelerazione del merito; la realizzazione sollecita delle opere pubbliche.
23. I dubbi di legittimità e di opportunità della disciplina di cui al comma 8-ter. Una lettura restrittiva e “minimale” della nuova disciplina. Il necessario coordinamento con i principi di effettività della tutela europei e nazionali.
24. I punti critici della nuova disciplina. Il giudizio prognostico sulla sorte del contratto compiuto nella fase cautelare. L’opportunità di verificare le conseguenze della pronuncia sul successivo sviluppo del rapporto. I concreti problemi applicativi della delibazione.
25. Il contenuto delle “esigenze imperative” rilevanti ai fini della decisione cautelare: una nozione ristretta, coerente con le regole del diritto europeo.
26. L’interesse generale all’esecuzione del contratto quale limite della tutela cautelare. e la sua razionale delimitazione. La necessaria individuazione di una specifica esigenza qualificata e tipizzata di interesse pubblico.
27. La rilevanza delle esigenze imperative connesse alla esecuzione delle prestazioni contrattuali nelle ipotesi di violazioni “non gravi” di cui all’art. 122 del CPA: una reale innovazione?
28. L’accertamento della prevalenza di esigenze imperative che impediscono l’accoglimento della domanda cautelare: gli oneri di allegazione e prova delle parti e i poteri del giudice.
29. La tutela cautelare nel rito superspeciale in materia di ammissioni ed esclusioni di cui ai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 CPA. ulteriori aspetti problematici: la compatibilità delle norme acceleratorie con il giudizio cautelare.
30. La sorte dell’art. 125 del CPA e della normativa speciale riguardante gli affidamenti dei contratti per la pubblica incolumità. La necessità di un coordinamento espresso. La persistente vigenza delle regole.
31. Conclusioni. La rilevanza dell’interesse legittimo in trasformazione e la problematica espansione dell’interesse pubblico: verso una limitazione della tutela?

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenza pubblica: superato il congelamento disposto dalla legge 208/2015. Erroneo il parere 23/2017 della Sezione Emilia Romagna (07.03.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenza pubblica. A cosa servono davvero gli incarichi a contratto a dirigenti di fiducia? (05.03.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: M. Nico, L’ESERCIZIO DEL POTERE DI AUTOTUTELA NON ESIME L’ENTE DALL’OBBLIGO DI COMUNICAZIONE DELL’AVVIO DI PROCEDIMENTO (03.03.2017 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Corrado, Il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di accesso civico generalizzato: quale possibile tutela processuale (01.03.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. L’accesso generalizzato e la disciplina introdotta dal d.lgs. 97/2013. 2. Il diritto a conoscere e la tutela degli interessi previsti dal legislatore. 3. Il ruolo delle amministrazioni in materia di disclosure. 4. La novella al codice del processo amministrativo in tema di trasparenza e accesso civico (c.p.a.). 5. Inerzia della P.A.: quale azione a favore del richiedente.

APPALTI - AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: In Gazzetta Ufficiale la legge Milleproroghe 2017.
Slittamento al 30.06.2017 per la termoregolazione condominiale, proroga del Sistri e degli adempimenti antincendio, rinvio al 31.12.2017 dell'aumento delle rinnovabili termiche negli edifici, reintrodotto per il 2017 il taglio Iva al 50% per case ad alta efficienza energetica (01.03.2017 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia, è legge il recupero dei seminterrati per uso abitativo, commerciale o terziario.
Colombo Clerici (Assoedilizia): “Si amplia l’offerta di funzioni e non si consuma nuovo suolo. Calcoliamo che, nel tempo, potranno prevedersi circa 40 mila interventi ai sensi di questa legge” (01.03.2017 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: Appalti: quando il Simog si aggiornerà al d.lgs. 50/2016? (27.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Reintegra dei dipendenti pubblici licenziati: non chiamatelo conferma dell’articolo 18 (26.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Capo di Gabinetto di Roma, davvero la Corte dei conti ha “smentito” l’Anac? (26.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI - AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Il Milleproroghe 2017 è legge: tutti i rinvii punto per punto.
Slittamento al 30.06.2017 per la termoregolazione condominiale, proroga del Sistri e degli adempimenti antincendio, rinvio al 31.12.2017 dell'aumento delle rinnovabili termiche negli edifici, reintrodotto per il 2017 il taglio Iva al 50% per case ad alta efficienza energetica (23.02.2017 - link a www.casaeclima.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Produttività del lavoro pubblico: le solite ricette fuori mira dei “super esperti” (19.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti, non serve la velocità ma la certezza dei tempi (18.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Assenteisti e stakanovisti. La deriva della stampa che si occupa di PA (18.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Anticorruzione: più le responsabilità formali per i funzionari che l'efficacia nella lotta al malaffare (05.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni: il ginepraio delle regole da rispettare (05.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Adempiere o funzionare? (01.02.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Il nuovo codice dei contratti regala un nuovo contenzioso sulla competenza a gestire le gare (30.01.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi ad avvocati: sono appalti di servizio perfino le consulenze (18.01.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Codice contratti: la lunga strada verso la stipulazione (14.01.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Attestazioni OIV, o strutture con funzioni analoghe, sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione al 31.03.2017 e attività di vigilanza dell’Autorità:
comunicato del Presidente 01.03.2017
delibera 01.03.2017 n. 236
(link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici  (regolamento 15.02.2017 - link a www.anticorruzione.it).
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Nuovo Regolamento di vigilanza sui contratti pubblici.
Fra le novità, raccomandazioni vincolanti per inadempienze gravi e segnalazioni positive per buone prassi delle stazioni appaltanti.

A seguito dei nuovi poteri affidati all’Anac dalla riforma del Codice degli appalti, l’Autorità ha proceduto a una revisione generale del Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici. Approvato il 15 febbraio scorso, l’atto entrerà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e mira a consentire un intervento tempestivo su questioni attinenti alla tutela della trasparenza, della concorrenza e della legittimità delle procedure di gara.
Fra le novità più significative rispetto al precedente Regolamento, tutte dettagliatamente descritte nella relazione che lo accompagna, va segnalata la cosiddetta “raccomandazione vincolante”. Nei casi in cui l’istruttoria non viene archiviata, oppure se la stazione appaltante non si adegua alle indicazioni dell’Anac, possono essere infatti adottati quattro tipi di provvedimenti a conclusione del procedimento di vigilanza (art. 12): un atto dirigenziale in caso di procedimento in forma semplificata; un atto con cui l’Autorità registra che la stazione appaltante ha adottato buone pratiche amministrative meritevoli di essere segnalate; un atto di raccomandazione oppure una raccomandazione vincolante. Quest’ultima tipologia è adottata per le violazioni più gravi, che possono andare dai frazionamenti artificiosi agli affidamenti senza previa pubblicazione del bando in Gazzetta ufficiale.
A seguito di una raccomandazione vincolante (art. 22) l’Anac invita la stazione appaltante ad agire in autotutela annullando gli atti della procedura di gara affetti da vizi di legittimità e a rimuovere gli eventuali effetti. Se entro 15 giorni la stazione appaltante non si adegua o non risponde alle richieste di informazioni, l’Autorità avvia un procedimento sanzionatorio.

APPALTI: Linee guida n. 7, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 recanti «Linee Guida per l’iscrizione nell’Elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall’art. 192 del d.lgs. 50/2016» (determinazione 15.02.2017 n. 235 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Oggetto: presupposti di ammissibilità e modalità di presentazione delle istanze per il rilascio del parere sulla congruità del prezzo, ai sensi dell’art. 163 del d.l.gs. n. 50/2016 (comunicato del Presidente 15.02.2017 - link a www.anticorruzione.it)

APPALTIAnac, così i compensi.
Fissati dall'Autorità nazionale anticorruzione gli importi dovuti per assicurarne il funzionamento da stazioni appaltanti, organismi di attestazione etc.

A provvedervi è la delibera 21.12.2016 n. 1377 di «Attuazione dell'articolo 1, commi 65 e 67, della legge 23.12.2005, n. 266, per l'anno 2017», pubblicata ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 43.
Per fare un esempio, per appalti oltre i 20 milioni di euro le stazioni appaltanti sono tenute a pagare 500 euro all'Anac, appena 30 tra 40 e 150 mila.
Le società organismo di attestazione sono invece tenute a versare a favore dell'Autorità un contributo pari al 2% dei ricavi risultanti dal bilancio relativo all'ultimo esercizio finanziario (articolo ItaliaOggi del 22.02.2017).

APPALTI: Attuazione dell’art. 1, commi 65 e 67, della legge 23.12.2005, n. 266, per l’anno 2017 (delibera 21.12.2016 n. 1377 - link a www.anticorruzione.it).
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Contributi in sede di gara.
In Gazzetta Ufficiale i contributi dovuti da stazioni appaltanti, operatori economici e SOA.

Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 43 del 21.02.2017 la delibera dell’Autorità, già in vigore dal 01.01.2017, con le quali sono fissati i termini e le modalità dei versamenti dovuti da stazioni appaltanti, operatori economici e Società Organismi di Attestazione per la partecipazione alle gare pubbliche.

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La mobilità volontaria.
DOMANDA:
Il Comune "A" ha portato a termine una procedura concorsuale. Il vincitore di concorso partecipa ad un bando di mobilità volontaria, con il parere favorevole dell'amministrazione che lo ha assunto e presso la quale sta prestando il periodo di prova.
Si chiede di conoscere: 1) Può una amministrazione rilasciare un parere favorevole alla mobilità volontaria durante il periodo di prova? 2) Il posto che si rende vacante presso il comune "A" a seguito di mobilità volontaria, può essere ricoperto assumendo il secondo classificato? 3) Se il neo vincitore di concorso presso il comune "A" dovesse vincere un nuovo concorso presso altro comune, ugualmente a quanto richiesto sopra, il posto reso vacante può essere ricoperto assumendo il secondo classificato?
RISPOSTA:
In ordine ai quesiti posti si osserva quanto segue. Il periodo di prova non costituisce un ostacolo alla mobilità. A tal proposito l’ARAN precisa che il dipendente in prova è comunque un dipendente a tempo indeterminato, anche se la stabilizzazione del suo rapporto è condizionata al superamento del periodo di prova, ed ha gli stessi diritti e doveri degli altri dipendenti, salvo quanto espressamente dall’art. 14-bis del CCNL del 06/07/1995 (RAL 418) Trattandosi di cessione di contratto, semplicemente, il dipendente trasferito, dovrà terminare il periodo di prova presso il nuovo ente.
Quanto alla possibilità di sostituire mediante scorrimento della graduatoria, il dipendente in prova transitato presso altro ente a seguito di mobilità o (si presume) di dimissioni in quanto vincitore di concorso, si evidenzia innanzitutto che la soluzione del quesito è complessa e non del tutto pacifica. La questione oggetto del parere, infatti, intreccia la tematica della capacità assunzionale -che nel nostro sistema è legata alle cessazioni intervenute nell'ente nell'anno precedente- e quella del periodo di prova, istituto che consente ad entrambe le parti di recedere senza obbligo del preavviso o di pagare la relativa indennità sostitutiva (decorsa la metà della sua durata). Artt. 14-bis del CCNL del 06.07.1995 e 2096 del C.C.
In estrema sintesi, per valutare la possibilità di procedere all’immediata sostituzione del neo assunto, è necessario verificare se il periodo di prova incida sul rapporto che ordinariamente sussiste tra mobilità/dimissioni e computo delle cessazioni ai fini della capacità assunzionale. A tal fine, è importante ribadire quanto già accennato: durante il periodo di prova il rapporto di lavoro, sebbene già perfezionatosi con l’immissione in servizio del dipendente, non può considerarsi consolidato, restando la sua stabilizzazione condizionata alla positiva conclusione del periodo stesso.
Ciò premesso, è necessario distinguere tra le due ipotesi individuate nel quesito:
   - Mobilità. Secondo la regola generale, se interviene (come di regola) tra enti soggetti a limitazioni alle assunzioni, non costituisce assunzione né cessazione ai fini della determinazione della capacità assunzionale (così detta, mobilità neutra).
Pertanto, il trasferimento di un dipendente per mobilità non consuma la capacità dell’ente ricevente, né la produce per quello cedente. Questa ricostruzione resta valida anche nel caso di mobilità del neo assunto in quanto anche in tal caso il rapporto di lavoro, ed il periodo di prova, non viene meno, ma prosegue presso altro ente. Ne consegue che, in caso di mobilità, l'ente non potrà procedere allo scorrimento di graduatoria se non attingendo ad ulteriore capacità assunzionale, proprio in quanto il trasferimento in mobilità non determina cessazione (v. nota circolare UPPA n. 1786 del 22/02/2011 - paragrafo 10);
   - le dimissioni del lavoratore, di regola, determinano invece una vera e propria cessazione che genera capacità assunzionale "spendibile", però, solo nell'anno successivo. Secondo lo schema ordinario, dunque, l’ente non potrebbe scorrere la graduatoria nell’'immediato, ma solo nell'anno successivo (e solo se risulterà sufficiente la capacità “residua” di cui disporrà, non potendo recuperare il budget originariamente utilizzato per l’assunzione del dimissionario). In tal senso, ad es., la non recentissima Corte Conti Lombardia n. 314/2011. Aderendo all'orientamento prevalente, tuttavia, si ritiene che in caso di periodo di prova lo schema descritto non sia applicabile e che, pertanto, sia possibile l'immediata sostituzione del dimissionario.
Infatti, come espresso con chiarezza nella citata nota circolare UPPA n. 1786 del 22/02/2011, le eventuali dimissioni o cessazioni dal servizio del neo assunto, che intervengano prima della conclusione del suo periodo di prova… consentono il riutilizzo delle risorse che hanno finanziato la relativa assunzione mediante scorrimento della stessa graduatoria, se vi sono idonei, oppure ricorrendo ad altra graduatoria in assenza di idonei.
E’ evidente che in questo caso la fattispecie sopra descritta non potrà essere annoverata tra le cessazioni che contribuiranno a determinare il budget assunzionale per l’anno successivo. Tale conclusione si fonda sulla considerazione che, come visto, il periodo di prova è istituto posto a tutela di entrambe le parti contraenti e che, pertanto, il recesso dell'amministrazione e quello del dipendente devono essere posti sullo stesso piano.
In altre parole anche in caso di dimissioni, come pacificamente ammesso in caso di mancato superamento della prova (e analogamente alla mancata presa di servizio), si determina l’incompletezza della procedura di reclutamento del pubblico impiegato, tale da evitare il verificarsi di una cessazione (Corte Conti Lombardia n. 314/2011).
Di conseguenza, la capacità assunzionale originariamente impiegata per l'assunzione del neo assunto non viene “consumata” e può così essere riutilizzata. D'altronde, diversamente opinando si determinerebbe l’incongrua situazione di consentire all'Amministrazione la sostituzione del neo assunto dimissionario solo nel caso in cui decida di negare il superamento della prova.
Infine, per completezza si rammenta che resta in ogni caso ferma la possibilità di sostituire il dipendente neo assunto dimissionario mediate mobilità neutra (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La capacità assunzionale dell'ente.
DOMANDA:
Presso questo Ente è cessato a metà dello scorso anno (per collocamento a riposo) un dipendente che era assegnato ad un servizio successivamente oggetto di esternalizzazione.
Nel calcolare la spesa del personale, a partire dal 2016, il costo annuo di quel dipendente viene computato ai fini della verifica del rispetto del limite (media del triennio 2011-2013) di cui all'art. 1, comma 557 e 557-quater, della l. 296/2006.
Si chiede se, tenuto conto di quanto dianzi esposto, è corretto considerare nell'anno 2017 –ai fini del calcolo della capacità assunzionale ex comma 228 dell’art. 1 della l. 208/2015– anche la spesa per il dipendente (di cui sopra) cessato lo scorso anno.
RISPOSTA:
La capacità assunzionale dell'anno è effettivamente data da una quota del risparmio prodotto dalle cessazioni intervenute nell'anno precedente. Tuttavia non tutte le cessazioni sono computabili ai fini del calcolo del budget assunzionale. Non lo sono ad es. le mobilità in uscita tra enti soggetti a limitazioni assunzionali (cd mobilità neutre) o quelle di personale disabile nella quota d’obbligo. Allo stesso modo si ritiene che non debba considerarsi cessato il personale trasferito ai sensi dell'articolo 31 del D.Lgs. 165/2001 in caso di esternalizzazione del servizio.
Lo stesso decreto legislativo, infatti, agli artt. 6-bis, comma 2, e 6, comma 3, impone il congelamento (nelle more) e la definitiva riduzione (ad operazione conclusa) dei corrispondenti posti in dotazione organica, proprio per evitare vacanze che possano essere coperte mediante nuove assunzioni. Diversamente si vanificherebbe lo scopo della norma diretta ad ottenere risparmi di spesa a fronte dell'esternalizzazione del servizio e della conseguente riduzione del fabbisogno complessivo di personale dell'ente.
Dunque, è lo stesso D.Lgs. 165/2001 che evidenzia la relazione "negativa" tra esternalizzazione, nuove assunzioni e, quindi, capacità assunzionale. Nel caso prospettato nel quesito, tuttavia, l'esternalizzazione è intervenuta solo successivamente al collocamento a riposo del dipendente che ha cessato la propria attività lavorativa nell’ente per pensionamento, e non per trasferimento al nuovo soggetto gestore della funzione esternalizzata. In altre parole, la cessazione del dipendente non si configura quale effetto diretto della cessione dell’attività da parte del comune richiedente (potrebbe, semmai, averla causata).
Pertanto, pur con qualche incertezza e fermo restando la necessità di provvedere alla riduzione della dotazione organica del numero di posti esternalizzati, si ritiene che la cessazione in tal caso possa essere computata ai fini della determinazione del budget assunzionale 2017, ovviamente finalizzandola a coprire posti vacanti presenti in altri servizi dell’ente.
In riferimento alla formulazione del quesito si ritiene utile fornire due ulteriori precisazioni:
   - si ricorda che la capacità assunzionale è data da una percentuale -25% o 75% per gli enti con popolazione inferiore a 10.000 abitanti e basso rapporto dipendenti/ abitanti- non della spesa effettivamente sostenuta per la retribuzione del cessato, ma del risparmio “virtuale” (Corte Conti Autonomie 28/2015 e circolare della Funzione Pubblica n. 46078/2010), calcolato su base annua in considerazione del trattamento fondamentale e -in presenza di una disciplina vincolistica sul fondo incentivante- da una quota media di salario accessorio (per l'operatività dei limiti del comma 236 della legge di stabilità 2016 anche nel 2017, vedi la recente Corte Conti Puglia 6/2017);
   - per ciò che attiene al computo del costo annuo relativo al dipendente cessato nella spesa di personale del 2016 ai fini del rispetto del tetto massimo (art. 1, comma 557, della legge finanziaria 2007 come modificata dal DL 90/2014), si evidenzia che la Corte dei Conti impone di calcolare solo la spesa effettivamente sostenuta -e più precisamente la spesa impegnata quale risulta a rendiconto- senza possibilità di conteggiare anche spese virtuali (principio di effettività. Corte conti Autonomie delibera 27/2013. Confr. anche Corte Conti Piemonte delibera 98/2014 con riferimento ad un caso di esternalizzazione). Si raccomanda pertanto di calcolare a tale fine i soli ratei di retribuzione effettivamente corrisposti (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI: DPR 05.10.2010, n. 207, art. 4, comma 3. Intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva di esecutore o subappaltatore.
L'art. 4, comma 3, del DPR 207/2010 dispone che sugli importi netti progressivi delle prestazioni la stazione appaltante deve operare una ritenuta dello 0,50 per cento, a garanzia dell'osservanza, da parte del datore di lavoro, della disciplina lavoristica e delle norme in materia di contribuzione previdenziale e assistenziale. La somma accantonata può essere svincolata solo in sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione del certificato di collaudo o della verifica di conformità, una volta accertata la regolarità contributiva dell'esecutore/subappaltatore.
Il Comune chiede un parere con riferimento all'obbligo di operare la ritenuta dello 0,50 per cento, prevista dall'art. 4, comma 3, del dPR 05.10.2010, n. 207, sull'importo corrisposto mensilmente al soggetto che gestisce il servizio di refezione scolastica.
L'Ente, nel lamentare la laboriosità della procedura, sia per la ditta, che deve scorporare tale percentuale prima di emettere le fatture, che per il comune, il quale può svincolare le somme accantonate soltanto a conclusione del contratto, chiede se sia possibile evitare tale adempimento e, in caso affermativo, ai sensi di quale normativa.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti osservazioni.
L'art. 4, comma 3, del dPR 207/2010, ora abrogato, stabiliva che 'In ogni caso sull'importo netto progressivo delle prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità, previo rilascio del documento unico di regolarità contributiva.'
Questo Servizio, in passato, ha già avuto modo di soffermarsi sulla natura dell'istituto in parola in una serie di pareri
[1], le cui considerazioni si possono ritenere ancora valide per tutti i contratti sottoscritti secondo le norme del d.lgs. 163/2006. Infatti, sebbene la norma in questione sia stata abrogata per effetto dell'entrata in vigore del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante la nuova disciplina in materia di appalti pubblici [2], pare opportuno ricordare che, ai sensi dell'art. 216, comma 1, del d.lgs. 50/2016, per le procedure e i contratti conclusi prima del 20.04.2016 continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al codice previgente.
Sull'obbligatorietà di questo istituto non pare vi siano dubbi, sia per la formulazione letterale del comma 3 ('In ogni caso'), sia per i chiarimenti forniti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali
[3] e dall'INPS [4]. Né risulta che siano intervenute norme atte a sospendere o modificare le modalità di attivazione di tale procedura.
Peraltro, si osserva che anche il nuovo Codice, all'art. 30, comma 5, pur nel modificare in alcune parti la disciplina dell'intervento sostitutivo della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva, conserva la previsione relativa alla ritenuta qui in trattazione. L'ultimo periodo del comma recita infatti: 'Sull'importo netto progressivo delle prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità, previo rilascio del documento unico di regolarità contributiva.' Un tanto a confermare la necessità di applicare detta ritenuta anche nei contratti sottoscritti ai sensi della nuova normativa in materia di appalti.
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[1] Si vadano i pareri prot. n. 7916 del 14.03.2014, n. 22351 del 24.07.2013, n. 27828 del 30.08.2012, n. 22950 del 03.07.2012, n. 11525 del 28.03.2012, reperibili sul Portale delle autonomie locali all'indirizzo http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[2] Cfr. in particolare l'art. 217, comma 1, lett. u), punto 2), relativo all'abrogazione, tra le altre, della parte I del dPR 207/2010, con effetto dalla data di entrata in vigore del nuovo codice.
[3] Circolare n. 3 del 16.02.2012.
[4] Circolare n. 54 del 13.04.2012
(23.02.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico generalizzato.
  
1) L'accesso civico generalizzato va tenuto distinto da quello documentale di cui alla legge 241/1990 essendone diversi i presupposti e l'ambito applicativo.
   2) Da un punto di vista di logica giuridica sostanziale pare non si possa dare seguito ad una richiesta di accesso agli atti, formulata ai sensi del D.Lgs. 33/2013, in ordine ai medesimi documenti per i quali la stessa è stata negata, nei confronti dello stesso soggetto, ai sensi della legge 241/1990.

Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso civico generalizzato. In particolare, riferisce che a seguito dell'avvenuto diniego da parte della Pubblica Amministrazione ad una richiesta di accesso agli atti formulata da un privato, ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241,
[1] per assenza dell'interesse qualificato richiesto dalla normativa medesima, [2] lo stesso ha ripresentato analoga domanda di accesso ma sulla base della normativa di cui al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33. [3]
Nello specifico, l'istanza avrebbe ad oggetto le concessioni edilizie e le pratiche edilizie risalenti agli anni '90 di un immobile confinante con quello di proprietà del richiedente l'accesso. L'Ente desidera sapere se la richiesta di accesso civico generalizzato soggiaccia o meno ai principi dell'accesso documentale di cui alla legge 241/1990 e se la normativa di cui al D.Lgs. 33/2013 in tema di accesso civico si applichi anche con riferimento a istanze aventi ad oggetto documentazione risalente agli anni '90, relative, dunque, a situazioni giuridiche ormai consolidatesi con carattere definitivo.
L'articolo 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013, come modificato dall'articolo 6 del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97
[4] prevede che: 'Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis'.
Con delibera del 28.12.2016, n. 1309 l'Autorità nazionale anticorruzione ha emanato le 'Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all'art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 33/2013' le quali, dopo aver chiarito il distinguo concettuale e terminologico tra accesso civico 'semplice' e accesso 'generalizzato'
[5] affrontano, in un paragrafo specifico [6] la questione della distinzione fra accesso generalizzato e accesso agli atti ex legge 241/1990.
In tale sede si afferma che 'l'accesso generalizzato deve essere anche tenuto distinto dalla disciplina dell'accesso ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 (d'ora in poi «accesso documentale»). La finalità dell'accesso documentale ex legge n. 241/1990 è, in effetti, ben differente da quella sottesa all'accesso generalizzato ed è quella di porre i soggetti interessati in grado di esercitare al meglio le facoltà -partecipative e/o oppositive e difensive- che l'ordinamento attribuisce loro a tutela delle posizioni giuridiche qualificate di cui sono titolari. [...]
Mentre la legge n. 241/1990 esclude, inoltre, perentoriamente l'utilizzo del diritto di accesso ivi disciplinato al fine di sottoporre l'amministrazione a un controllo generalizzato, il diritto di accesso generalizzato, oltre che quello «semplice», è riconosciuto proprio «allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico».
Dunque, l'accesso agli atti di cui alla legge n. 241/1990 continua certamente a sussistere, ma parallelamente all'accesso civico (generalizzato e non), operando sulla base di norme e presupposti diversi.
Tenere ben distinte le due fattispecie è essenziale per calibrare i diversi interessi in gioco allorché si renda necessario un bilanciamento caso per caso tra tali interessi. Tale bilanciamento è, infatti, ben diverso nel caso dell'accesso 241 dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti e nel caso dell'accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all'operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l'accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni.
In sostanza, come già evidenziato, essendo l'ordinamento ormai decisamente improntato ad una netta preferenza per la trasparenza dell'attività amministrativa, la conoscibilità generalizzata degli atti diviene la regola, temperata solo dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi (pubblici e privati) che possono essere lesi/pregiudicati dalla rivelazione di certe informazioni.
Vi saranno dunque ipotesi residuali in cui sarà possibile, ove titolari di una situazione giuridica qualificata, accedere ad atti e documenti per i quali è invece negato l'accesso generalizzato.
[...]
'.
In via preliminare, necessita evidenziare che data la recente entrata in vigore delle summenzionate linee guida non è dato, ad oggi, riscontrare la presenza di pronunce giurisprudenziali o di delucidazioni ulteriori anche da parte dell'ANAC sulla questione in oggetto: in particolare, benché la portata delle delibera 1309/2016 paia estendere in maniera considerevole l'ambito di applicazione dell'accesso civico generalizzato, pur tuttavia solo la prassi potrà dimostrare come, nella realtà, verrà effettivamente calibrato il rapporto tra il diritto di accesso di cui al D.lgs. 33/2013 e quello di cui alla legge 241/1990 e, più in generale, delimitare i confini, in maniera più o meno ampia, del diritto di accesso generalizzato.
Nell'intento, comunque, di fornire indicazioni che possano risultare di utilità al Comune, si formulano di seguito una serie di considerazioni giuridiche generali che si ritiene possano orientare lo stesso nella decisione da assumere circa il caso concreto in esame.
A favore dell'ampiezza che parrebbe essere riconosciuta al diritto di accesso civico generalizzato militano le espressioni contenute nella delibera 1309/2016 laddove si afferma che 'la conoscibilità generalizzata degli atti diviene la regola, temperata solo dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi (pubblici e privati) che possono essere lesi/pregiudicati dalla rivelazione di certe informazioni'. Si consideri, al riguardo, che i limiti che possono circoscrivere il libero esplicarsi del diritto di accesso civico generalizzato sono quelli di cui all'articolo 5-bis del D.Lgs. 33/2013, nel cui alveo non pare potersi ricondurre la fattispecie in esame.
In particolare, e per rispondere al primo quesito posto, non si ritiene possibile affermare che la richiesta di accesso civico generalizzato soggiaccia ai principi dell'accesso documentale di cui alla legge 241/1990, in particolare quanto al fatto che sia necessario sussista un interesse qualificato all'accesso. All'opposto, come chiarito in diverse occasioni,
[7] il diritto di accesso civico si caratterizza, tra l'altro, proprio per il fatto di consentire l'accesso a chiunque e senza obbligo di motivazione a sostegno dell'istanza avanzata (articolo 5, commi 2 e 3, D.Lgs. 33/2013).
Tuttavia, e con riferimento precipuo al caso in esame, pare non ammissibile, da un punto di vista di logica giuridica sostanziale, ritenere che si possa dare seguito ad una richiesta di accesso agli atti, formulata ai sensi del D.Lgs. 33/2013, in ordine ai medesimi documenti per i quali la stessa è stata negata, per di più nei confronti dello stesso soggetto, ai sensi della legge 241/1990.
Un tale comportamento parrebbe, infatti, contrastare con il principio di ragionevolezza cui è improntato il nostro ordinamento giuridico: infatti, se il diniego si è avuto per assenza di interesse, pare non sorretto da alcuna logica giuridica ritenere che la Pubblica Amministrazione sia tenuta a concedere quella medesima documentazione solo perché richiestagli in forza di una diversa norma giuridica che non presenta tra i requisiti di valutazione quello consistente nel possedere una situazione particolarmente qualificata.
Piuttosto, parrebbe che il distinguo tra le due forme di accesso risieda nella diversità di documentazione che può soggiacere all'una istanza piuttosto che all'altra. Come affermato nelle linee guida, l'ostensione ex D.Lgs. 33/2013 pare dover riguardare documentazione di natura più ampia, non riferentesi a situazioni specifiche e dettagliate per le quali invece sono richiesti i requisiti di cui alla legge 241/1990.
A ciò si aggiunga che ben potrebbe accadere nella prassi che si verifichino richieste di ostensione di documenti senza indicazione specifica, da parte del richiedente, della normativa di riferimento: in tale caso sarà compito dell'Ente valutare se una tale istanza ricada nell'una piuttosto che nell'altra normativa e, a tal fine, il principale criterio di demarcazione parrebbe essere quello dell'oggetto della documentazione richiesta che nel caso dell'accesso civico generalizzato deve avere come finalità un controllo diffuso dell'agère amministrativo e non deve, invece, riguardare pratiche specifiche che incidono su posizioni individuali per le quali è necessaria l'osservanza dei requisiti richiesti dalla legge sul procedimento amministrativo.
Da ultimo, e per fornire una risposta al secondo quesito posto, si ribadisce che la ratio sottesa alle norme di cui al D.Lgs. 33/2013 è quella di garantire la trasparenza amministrativa da intendersi 'come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche' (articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 33/2013). Con riferimento precipuo al diritto di accesso civico generalizzato l'articolo 5, comma 2, del decreto trasparenza, specifica, poi, che esso è riconosciuto 'allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico'.
Attesa la ratio della normativa posta a fondamento del diritto di accesso generalizzato, con riferimento al caso concreto in esame, potrebbe profilarsi il dubbio circa la sussistenza del diritto in questione in quanto lo stesso ha ad oggetto documentazione risalente nel tempo e relativa a situazioni i cui effetti giuridici si sono ormai consolidati con effetto definitivo.
Al riguardo, si consideri, altresì, come la giurisprudenza, benché con riferimento all'accesso civico semplice
[8] abbia affermato che 'se è vero che [...] il D.Lgs. n. 33 del 2013 deve trovare applicazione anche per gli atti anteriori alla sua entrata in vigore, [...], ciò nondimeno deve essere rimarcato che siffatta regula iuris resta valida solo limitatamente agli atti che, a quella data, sicuramente dispiegavano ancora i propri effetti'. [9]
Da ultimo, si ribadisce che le considerazioni sopra esposte necessitano di un avvallo che solo la giurisprudenza potrà fornire sulla base dei casi concreti che alla stessa verranno sottoposti.
---------------
[1] Recante 'Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi'.
[2] Ai sensi dell'articolo 22, comma 1), lett. b), della legge 241/1990 si intende per 'interessati' 'tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso'.
[3] Recante 'Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni'.
[4] Recante 'Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai sensi dell'articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche'.
[5] Al riguardo si evidenzia che mentre l'accesso civico 'semplice' risulta essere quello previsto nella formulazione originaria del D.Lgs. 33/2013 e riguarda gli atti, documenti e informazioni per i quali sussiste l'obbligo di pubblicazione, l'accesso generalizzato, invece, è stato introdotto dal D.lgs. 97/2016, in sede di modifica al D.Lgs. 33/2013 e si delinea come del tutto autonomo e indipendente da presupposti obblighi di pubblicazione.
[6] Si tratta del paragrafo 2.3.
[7] Al riguardo, le linee guida, al punto 2.1, espressamente affermano che 'tale nuova tipologia di accesso (d'ora in avanti «accesso generalizzato»), delineata nel novellato art. 5, comma 2, del decreto trasparenza, [...], si traduce, in estrema sintesi, in un diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti'.
[8] Quello, cioè, relativo ad atti, documenti e informazioni oggetto di obblighi di pubblicazione.
[9] TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del 14.01.2016, n. 188. Per completezza espositiva si segnala la posizione del Consiglio di Stato (sez. VI, sentenza del 20.11.2013, n. 5515) che, in maniera ancora più restrittiva, ha ritenuto che la documentazione oggetto di accesso civico non possa intendersi riferita anche a procedure antecedenti all'emanazione del D.Lgs. 33/2013
(21.02.2017 -
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ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Potestà regolamentare degli enti locali in materia di sanzioni amministrative. Autotutela esecutiva.
L'Ente locale, in caso di violazione delle norme dei propri regolamenti o ordinanze, qualora la legge non preveda apposite sanzioni, può prevedere l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in misura non superiore a diecimila euro.
Si ritiene che lo stesso possa disciplinare in via regolamentare l'irrogazione di sanzioni amministrative ripristinatorie (consistenti, pertanto, nell'imposizione di un obbligo di facère in caso di inosservanza di un precetto) per la violazione dei propri regolamenti o ordinanze solo qualora sussista una norma di legge che gli conferisca tale potere.

Il Comune chiede un parere in materia di limiti all'esercizio del potere regolamentare da parte degli enti locali. Più in particolare, desidera sapere se e in quale misura possano considerarsi legittime quelle norme regolamentari che oltre a prevedere l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria impongano, altresì, al trasgressore un obbligo di facère e, in caso di inazione, un intervento sostitutivo dell'amministrazione con rivalsa dei costi sostenuti.
In via generale, si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi in merito alla legittimità degli atti degli enti locali stante l'avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera della legge costituzionale 3/2001.
Ciò premesso, sulle questioni poste si formulano le seguenti considerazioni generali.
In via preliminare, si osserva che, in forza della potestà legislativa primaria in materia di ordinamento degli enti locali conferitale dallo Statuto di autonomia, la Regione Friuli Venezia Giulia ha disciplinato la materia delle sanzioni amministrative, per la violazione dei regolamenti comunali, con l'articolo 7 della legge regionale 12.02.2003, n. 4, il quale trova applicazione in luogo dell'articolo 7-bis del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
[1]
La menzionata norma regionale stabilisce che: 'Le violazioni delle norme dei regolamenti o delle ordinanze provinciali e comunali comportano, qualora la legge non preveda apposite sanzioni, l'irrogazione da parte dell'ente locale di sanzioni amministrative pecuniarie, in misura non superiore a diecimila euro, nonché di eventuali sanzioni accessorie sospensive o interdittive di attività derivanti da provvedimenti della medesima Amministrazione, determinate con proprie norme regolamentari'.
Segue che, una volta accertata da parte dell'Ente l'assenza di specifiche norme di legge che prevedano sanzioni per la violazione delle medesime fattispecie disciplinate dal regolamento comunale, questi potrà senz'altro stabilire all'interno del regolamento le summenzionate sanzioni pecuniarie, pur nel rispetto del limite di euro diecimila previsto dalla normativa regionale.
Quanto alla possibilità di introdurre in sede regolamentare norme sanzionatorie aventi contenuto più propriamente ripristinatorio si rileva, in via preliminare, come, in dottrina, risulti discussa la riconduzione di tali misure all'interno del concetto di 'sanzione in senso stretto' atteso che le stesse, consistenti nell'imposizione di un obbligo di facère al trasgressore sarebbero prive di specifico contenuto afflittivo.
[2] Al riguardo, certa dottrina le ha qualificate quali 'mere decisioni di autotutela'. [3]
In proposito, si ritiene di rilievo quanto stabilito dall'articolo 21-ter della legge 07.08.1990, n. 241 il quale, al comma 1, così recita: 'Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge.'.
Si tratta di una norma che riconosce la possibilità di esercizio da parte di una Pubblica Amministrazione dei poteri di autotutela esecutiva i quali, tuttavia, devono alla stessa essere attribuiti da una disposizione di legge specifica che consenta all'Ente pubblico, per l'appunto, di poter agire in via immediata e diretta per attuare i propri provvedimenti.
L'articolo 21-ter della legge 241/1990 detta, quindi, una disposizione generale che prescrive la necessità della previsione normativa per i singoli casi di autotutela esecutiva.
Come rilevato dalla dottrina,
[4] 'l'esecutorietà di cui all'articolo 21-ter della legge 241/1990 affonda le proprie radici nei caratteri tipici del provvedimento amministrativo quali l'autoritatività e l'imperatività che proiettano gli effetti dell'atto direttamente ed unilateralmente nella sfera giuridica del destinatario. Infatti, il principio di necessità impone il perseguimento dell'interesse pubblico cui è finalizzata l'attività amministrativa a prescindere da inerzie ed inottemperanze da parte dei privati che porterebbero ad una paralisi dell'attività senza la realizzazione dello scopo. [...] La funzione esecutiva della P.A. quindi trova la propria ratio fondante nel principio di legalità che attribuisce, in senso formale, il potere di curare uno specifico interesse, in sinergia con il principio di necessità'.
Con riferimento al quesito posto, seguirebbe che l'imposizione di un obbligo di facère in caso di inosservanza di un precetto, costituendo una forma di esercizio, da parte della pubblica amministrazione, di autotutela esecutiva, non può, in attuazione del principio di legalità, essere ammessa oltre i casi in cui la legge la prevede.
[5]
Si consideri, poi, che l'articolo 7 della legge regionale 4/2003, specificamente sulle misure sanzionatorie, prevede, in modo espresso, la possibilità per l'Ente locale di introdurre con proprie norme regolamentari sanzioni accessorie sospensive o interdittive di attività derivanti da provvedimenti della medesima Amministrazione, non citandosi, invece, quelle ripristinatorie in tal modo escludendosi le stesse dal novero delle sanzioni la cui introduzione è rimessa all'autonomia normativa regolamentare dell'Ente locale.
Da ultimo, a sostegno della ritenuta impossibilità di inserire in un regolamento la previsione generale di misure sanzionatorie consistenti in un facère e della impossibilità, altresì, di intervenire in via sostitutiva con rivalsa dei costi in caso di inadempimento dell'obbligo imposto consta il seguente ragionamento: a livello di normazione statale, la disciplina oggi contenuta nell'articolo 7-bis del TUEL era, precedentemente, contenuta nell'articolo 106 del regio decreto 03.03.1934, n. 383 abrogato dall'articolo 274 del D.Lgs. 267/2000.
A seguito di tale abrogazione il Consiglio di Stato
[6] ha affermato l'illegittimità delle norme regolamentari che disciplinassero le sanzioni amministrative derivanti dalla violazione dei regolamenti degli enti locali, ciò in quanto con l'abrogazione dell'articolo 106 del R.D. 383/1934 si era creato un vero e proprio vuoto normativo, colmabile esclusivamente attraverso una fonte di legge primaria.
Si legge, in particolare, nell'indicata sentenza: 'L'abrogazione dell'art. 106 t.u. com. prov. 1934 preclude la prospettazione della competenza dell'ente locale relativamente alla irrogazione di sanzioni, posto che l'art. 1 l. 24.11.1981 n. 689, dispone nel senso della comminazione di sanzioni amministrative solo in base a fonte primaria. Pertanto in assenza di altra fonte legislativa l'art. 1 è di ostacolo all'introduzione di fattispecie di illecito amministrativo mediante fonte regolamentare. [...]'.
In altri termini, risulta che gli Enti locali possono disciplinare in via regolamentare l'irrogazione di sanzioni amministrative ripristinatorie per la violazione dei propri regolamenti o ordinanze nei limiti previsti dalla norma di legge che conferisce loro tale potere. In assenza di una cornice normativa che giustifichi un tanto ed in ossequio al principio di legalità, trova applicazione il disposto di cui all'articolo 1 della legge 689/1981 il cui primo comma dispone: 'Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione'.
[7]
Da ultimo, si ritiene essenziale ribadire che le considerazioni sopra esposte attengono alla questione, oggetto di quesito, della possibilità per l'Ente locale di imporre, in via regolamentare, sanzioni amministrative consistenti in un obbligo di fare nel caso di violazione di disposizioni regolamentari o di ordinanze comunali 'ordinarie',
[8] cioè relativamente a situazioni prive del carattere della urgenza, contingenza e indifferibilità, che non siano, in altri termini, connotate dal requisito dell'emergenza, [9] e sempreché la disciplina sanzionatoria non sia contenuta in norme di legge. [10]
Tali ultime situazioni giustificherebbero la compressione della sfera individuale del singolo, che si determinerebbe imponendo allo stesso un obbligo di fare, attesa la necessità di tutelare altri valori costituzionalmente rilevanti.
---------------
[1] Recita l'articolo 7-bis del D.Lgs. 267/2000: '1. Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro.
1-bis. La sanzione amministrativa di cui al comma 1 si applica anche alle violazioni alle ordinanze adottate dal sindaco e dal presidente della provincia sulla base di disposizioni di legge, ovvero di specifiche norme regolamentari.
2. L'organo competente a irrogare la sanzione amministrativa è individuato ai sensi dell'articolo 17 della legge 24.11.1981, n. 689'.
[2] In proposito è stata affermata la configurabilità di sanzioni amministrative in senso stretto soltanto nei casi in cui l'ordinamento privilegi la tutela dell'interesse alla repressione della violazione della norma o del provvedimento, prescindendo dagli effetti lesivi (Benvenuti, Vigneri); mentre, qualora il fine di restaurazione dell'interesse pubblico violato prevalga su quello rivolto alla repressione della violazione in quanto tale, si configurerebbe una sanzione impropria o indiretta (Bassi), di tipo risarcitorio (De Roberto).
In questi termini si veda A. Fiale, E. Fiale, 'Abusi edilizi e sanzioni', edizione Simone, 2012, pag. 6. In giurisprudenza, si veda Cons. Stato, sez. VI, sentenza del 15.04.2015, n. 1927 il quale afferma che: 'L'ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi [...] ha carattere reale. Lo stesso è volto a ripristinare l'ordine prima ancora materiale che giuridico [...] e non già a sanzionare il comportamento che ha dato luogo a quella cosa. [...]'.
Si veda, anche, Cass. penale, sez. III, sentenza del 10.03.2016, n. 9949 ove si afferma che: 'La demolizione del manufatto abusivo [...] ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale [...]. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU [...]'.
[3] Si veda, anche, Benvenuti, voce Autotutela (dir. Amm.), in Enc. Diritto, Milano, pagg. 537 e seg.
[4] A. Imparato, 'La funzione sanzionatoria della Pubblica Amministrazione - Rapporti con gli illeciti edilizi e natura giuridica dei provvedimenti', in www.StudioCataldi.it
[5] A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, pag. 804.
[6] Consiglio di Stato, sez. I, sentenza del 17.10.2001, n. 885.
[7] Tale norma è applicabile anche nei casi in cui, in luogo della legge 689/1981 si applichi la legge regionale 17.01.1984, n. 1 (Norme per l'applicazione delle sanzioni amministrative regionali) stante il rinvio da questa operato (art. 1 legge regionale 1/1984) ai principi generali contenuti nella legge statale tra cui quello di cui all'articolo 1 della legge 689/1981.
[8] A.G. Massimo, 'Le ordinanze extra ordinem del Sindaco tra conferme e novità giurisprudenziali', in Dir. Amm, del 02.06.2011 definisce le ordinanze normali nei termini che seguono: 'Tali ordinanze vengono adottate dal sindaco nell'esercizio di funzioni attribuitegli dalla legge; l'obbligo di carattere generale fissato da un provvedimento normativo è applicabile al caso concreto: in questi casi vi è una perfetta corrispondenza tra la potestà ordinatoria e il principio di legalità'.
[9] Per fronteggiare situazioni aventi natura eccezionale il nostro ordinamento giuridico conosce l'istituto delle ordinanze contingibili e urgenti dette anche ordinanze extra ordinem.
[10] Ad esempio, si consideri che per la tutela delle strade comunali e vicinali il decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Nuovo Codice della strada) attribuisce al sindaco il potere di emanare ordinanze anche impositive di obblighi: si veda, al riguardo l'articolo 6, commi 4 e 5, del D.Lgs. 285/1992
(14.02.2017 -
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NEWS

APPALTI: Linee guida Anac n. 3 sul Rup, chiarimenti dal Mit sul regime transitorio.
La risposta del sottosegretario Del Basso De Caro a una interrogazione prefigurerebbe l’introduzione di un regime transitorio, di fatto superando le linee guida e le disposizioni degli articoli 9 e 10 del D.P.R. n. 207/2010.
Lo scorso 9 marzo il sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti Umberto Del Basso De Caro ha risposto, in commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera, a una interrogazione (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/10777) sul regime transitorio per il responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni.
Il question-time in esame si è soffermato sul ruolo, le funzioni e la nomina del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni ai sensi del nuovo Codice, rappresentando che per effetto dell’entrata in vigore delle Linee guida dell’Anac n. 3 recanti “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni” sono state superate le disposizioni di cui agli articoli 9 e 10 del decreto del Presidente della Repubblica n. 207 del 2010, come del resto chiarito anche con le precisazioni fornite dal Presidente dell’Anac con il comunicato del 14.12.2016.
L’interrogante chiede al Governo se non ritiene necessario prevedere l’introduzione di un regime transitorio che disciplini eventuali criticità nella fase di passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina.
In merito al quesito posto è stata interessata l’Autorità anticorruzione, che ha fornito precisazioni.
Del Basso De Caro ha spiegato che il comunicato del Presidente Anac del 14.12.2016 “chiariva che le indicazioni fornite con le Linee guida n. 3/2016, ivi comprese quelle riferite ai requisiti di professionalità del RUP, si applicano alle procedure per le quali i bandi o gli avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente all’entrata in vigore delle Linee guida medesime, nonché alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore delle Linee guida, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte. Ciò vale nei casi in cui la nomina del RUP sia intervenuta contestualmente all’atto di avvio della procedura di gara.
Per i casi in cui la nomina del RUP sia intervenuta in atti antecedenti l’indizione della procedura, deve ritenersi applicabile il principio del tempus regit actum. Ne consegue che per tali nomine valgono i requisiti previsti dal quadro normativo vigente al momento in cui le stesse sono state effettuate (articolo 9 del decreto del Presidente della Repubblica n. 207 del 2010).
Resta inteso che condizione di validità delle nomine ricadenti sotto il previgente regime è costituita dal rispetto dei requisiti previsti dalla normativa previgente
”.
Claudia Mannino (M5S), replicando, si è dichiarata soddisfatta della risposta che, se ben intesa, prefigurerebbe l’introduzione di un regime transitorio, di fatto superando, con un atto di sindacato ispettivo, le relative linee guida emanate dall’ANAC e le disposizioni degli articoli 9 e 10 del decreto del Presidente della Repubblica n. 207 del 2010
(13.03.2017 - commento tratto da www.casaeclima.com).

APPALTI: Codice Appalti: che fine hanno fatto i contributi dei RUP presentati nella consultazione?
La Presidenza del Consiglio dei ministri non ha disposto la pubblicazione dei contributi pervenuti e non ha pubblicato una nota di sintesi dei relativi contenuti. Presentata una interrogazione alla Camera.

Dal 16.12.2016 al 16.01.2017 si è svolta la consultazione –lanciata dalla Cabina di regia istituita dall’articolo 212 del nuovo Codice Appalti (Dlgs. 18.04.2016 n. 50)- rivolta ai RUP (Responsabili Unici dei Procedimenti) delle stazioni appaltanti e finalizzata a rilevare le principali difficoltà attuative del nuovo Codice Appalti e a raccogliere proposte di riformulazione normativa in vista dell’elaborazione del provvedimento correttivo.
Realizzata dalla Cabina di regia in collaborazione con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, l’Agid e l'Osservatorio regionale dei contratti pubblici, primo interlocutore di supporto delle stazioni appaltanti del territorio (Regioni, Enti locali, Enti territoriali), con il supporto del loro organo di coordinamento tecnico Itaca, la consultazione ha previsto la compilazione di un questionario, al quale i RUP hanno potuto accedere online tramite un link contenuto in una e-mail a loro indirizzata.
INTERROGAZIONE ALLA CAMERA. In proposito, il 03.03.2017 la deputata del M5S Claudia Mannino ha presentato alla Camera l'INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/15805 rivolta al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Nell'interrogazione si sottolinea come “la Presidenza del Consiglio dei ministri non abbia ritenuto di disporre la pubblicazione dei contributi pervenuti dai responsabili unici dei procedimenti, né tantomeno di procedere all'elaborazione di una nota di sintesi dei relativi contenuti”.
Si chiede quindi “se il Governo non ritenga opportuno, nell'ottica di favorire un concreto ed efficace percorso di collaborazione istituzionale ed assicurare maggiore trasparenza, pubblicare e rendere disponibili tutti i contributi che sono stati presentati dai responsabili unici dei procedimenti alla cabina di regia di cui in premessa relativamente alla consultazione sopra richiamata, nonché tutte le osservazioni comunque pervenute inerenti alle ipotesi di modifica della nuova disciplina dei contratti pubblici” (08.03.2017 - commento tratto da www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVIProcesso, Urp per chi è senza Pec. Al Tar e Cds.
Processo amministrativo telematico: al via un ufficio relazioni con il pubblico per i ricorrenti senza Pec e firma digitale.

Con la nota 21.02.2017 n. 2562 di prot., diffusa ieri, il segretario generale della giustizia amministrativa ha dato alcune disposizioni per il funzionamento dei cosiddetti mini Urp (Uffici relazioni con il pubblico).
Si tratta di un'iniziativa diretta a dare assistenza ai ricorrenti (e ai controinteressati) che non sono avvocati e che non sono in possesso della posta elettronica certificata e della firma digitale e che vogliono proporre ricorso al giudice amministrativo.
L'ufficio li aiuterà nel deposito degli scritti difensivi e dei documenti.
L'obiettivo, si legge in una nota del segretariato generale della giustizia amministrativa, è quello di evitare che le nuove tecnologie finiscano per ostacolare la possibilità dei cittadini di proporre ricorso in proprio, nei casi in cui il Codice del processo amministrativo lo prevede, come in materia di accesso ai documenti e di ricorso elettorale (articolo ItaliaOggi del 22.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAFascicolo del fabbricato non più rinviabile. Periti industriali.
Nessuno sconto su sicurezza e prevenzione. Soprattutto quando si tratta di abitazioni in un territorio, come quello italiano, spesso colpito da eventi sismici.

E in questa ottica un ruolo chiave può essere assunto dal Fascicolo del Fabbricato le cui potenzialità sono illustrate nella nuova Linee Guida 03 - 01.02.2017 sul punto realizzata dalla commissione Fascicolo del fabbricato istituita all'interno del Consiglio nazionale dei periti industriali.
Nel dettaglio, il documento punta a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'opportunità di dotarsi di uno strumento fondamentale per una corretta e programmata opera di prevenzione e di manutenzione, nel tempo, di tutti i fabbricati.
La prima parte del documento, in particolare, si focalizza sul contenuto del Fascicolo e sulla sua articolazione mentre la seconda, sugli obiettivi a cui esso punta, in termini di prevenzione e sicurezza, di semplificazione e di risparmi attesi. La terza parte, invece, si concentra sugli aspetti tecnici ed è dedicata agli indici di efficienza (degrado, invecchiamento e documentazione), capaci di valutare lo stato documentale e soprattutto di conservazione di un immobile, quindi su quale sia il loro valore scientifico e la loro utilità.
«Questo documento è il frutto di un attività portata avanti da circa un ventennio da parte del gruppo di lavoro appositamente istituito dal Cnpi», si legge nella nota diffusa dal Consiglio nazionale di categoria, «e ha l'obiettivo di mettere a disposizione della collettività un compendio in grado di dare un'esaustiva conoscenza di questo strumento indispensabile per ogni abitazione» (articolo ItaliaOggi del 22.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIVietato conservare la mail 10 anni. Il datore di lavoro non può archiviare la posta dell’ex dipendente per un lungo periodo.
Privacy. Il Garante ha fornito indicazioni concrete di applicazione delle regole riguardanti comunicazioni elettroniche e smartphone.

Il datore di lavoro non può accedere in maniera indiscriminata alla posta elettronica aziendale e ai dati personali contenuti negli smartphone forniti al personale: l’acquisizione di questi dati è lecita, infatti, solo se sono avviene nel rispetto dei criteri generali definiti dal codice della privacy.
Il provvedimento 22.12.2016 n. 547 del Garante della privacy, diffuso lo scorso 17 febbraio, conferma le indicazioni già desumibili dagli orientamenti precedenti, ma risulta comunque molto importante in quanto fornisce esempi concreti su come applicare tali orientamenti.
L’intervento del garante scaturisce dal reclamo proposto da un dipendente contro il trattamento di dati personali effettuato dall’ex datore di lavoro, il quale - anche dopo la fine del rapporto, intervenuta per licenziamento - non aveva disattivato immediatamente l’account di posta elettronica aziendale usato dal lavoratore, identificato con il suo nome e cognome.
Il datore di lavoro aveva conservato la possibilità di accedere a tutte le e-mail, in entrata e in uscita, e aveva prelevato alcuni file presenti sui sistemi aziendali ma contenenti informazioni personali relative al lavoratore; inoltre, l’azienda aveva collocato queste comunicazioni elettroniche presso un server destinato a conservarle per 10 anni.
Il Garante esclude che il datore di lavoro possa raccogliere i dati contenuti nelle comunicazioni elettroniche in transito sull’account usato dal dipendente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, senza averlo informato preventivamente circa le modalità e le finalità di raccolta e conservazione dei dati, e circa i tempi entro i quali l’account di posta elettronica continuerà a essere attivo dopo la fine del rapporto di lavoro.
Queste informazioni devono essere date in quanto sussiste l’obbligo, in capo al titolare del trattamento dei dati, di fornire una preventiva informativa circa le caratteristiche essenziali dei trattamenti effettuati, in attuazione del principio di correttezza fissato dal Codice della privacy.
Il Garante considera illecita anche la mancata disattivazione dell’account di posta elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro senza informazione adeguata all’interessato e ai terzi.
Confermando un orientamento già espresso in precedenti occasioni, il Garante stabilisce che la rimozione degli account riconducibili a persone identificate (o identificabili) deve essere accompagnata dall’adozione di sistemi automatici volti a informarne i terzi e a fornire a questi ultimi indirizzi alternativi, in modo che non si interrompano le comunicazione relative all’attività professionale del titolare del trattamento.
Viene inoltre censurata la durata eccessiva (10 anni) del periodo di conservazione sui server aziendali dei dati e dei contenuti delle comunicazioni elettroniche intrattenute dal dipendente.
Tale durata sarebbe lecita solo se l’azienda dimostrasse la sua coerenza con le ordinarie necessità di gestione dei servizi di posta elettronica. Nel caso esaminato manca questa prova e quindi la durata decennale viene giudicata non conforme ai principi di necessità, pertinenza e non eccedenza stabiliti dal Codice, oltre che lesiva dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, nella misura in cui consente alla società di effettuare un controllo massivo, prolungato e indiscriminato dell’attività del lavoratore.
Infine, il Garante rileva che è illecita la scelta del datore di lavoro che si riserva la facoltà di accedere da remoto ai documenti archiviati su un apparecchio telefonico portatile, in occasione del verificarsi di eventi genericamente indicati, se questa facoltà non è accompagnata da apposite procedure che attestino il rispetto dei principi di liceità, necessità, pertinenza e non eccedenza dei trattamenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALIPrefetti-sindaci Controlli a due. SICUREZZA URBANA/ Dl in G.U.
Forme di cooperazione rafforzata tra i prefetti e i comuni dirette a incrementare i servizi di controllo del territorio e a promuovere la sua valorizzazione e sono definite, anche mediante il rafforzamento del ruolo dei sindaci, nuove modalità di prevenzione e di contrasto all'insorgere di fenomeni di illegalità quali, per esempio, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il commercio abusivo e l'illecita occupazione di aree pubbliche.

Lo prevede il decreto legge 20.02.2017, n. 14, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città», pubblicato ieri sulla G.U. n. 42 e in vigore da oggi (si veda ItaliaOggi del 10 febbraio scorso).
Il decreto, che definisce la sicurezza urbana quale bene pubblico, è diretto, spiega una nota di Palazzo Chigi, a realizzare un modello trasversale e integrato tra i diversi livelli di governo mediante la sottoscrizione di appositi accordi tra stato e regioni e l'introduzione di patti con gli enti locali.
Il dl interviene altresì rafforzando l'apparato sanzionatorio amministrativo, al fine di prevenire fenomeni di criticità sociale suscettibili di determinare un'influenza negativa sulla sicurezza urbana, anche in relazione all'esigenza di garantire la libera accessibilità e fruizione degli spazi e delle infrastrutture delle città, prevedendo, tra l'altro, la possibilità di imporre il divieto di frequentazione di determinati pubblici esercizi e aree urbane ai soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale (articolo ItaliaOggi del 21.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole, l’ora di preventivi e delibere. Le attività preparatorie in vista della scadenza del 30 giugno per intervenire a impianti spenti.
Risparmio energetico. Previste ispezioni a campione e sanzioni da 500 a 2.500 euro per unità immobiliare a chi non si adegua.

Per inserire i sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore negli edifici con riscaldamento centralizzato è il momento di chiedere preventivi, valutare i costi e approvare le delibere di adozione. La nuova scadenza del 30.06.2017 fissata dal decreto legge Milleproroghe (Dl 244/2016) dà infatti qualche mese di tempo per mettersi in regola. Il decreto Milleproroghe (ora in fase di conversione da parte del Parlamento) ha spostato di sei mesi il precedente termine del 31.12.2016.
L’obbligo discende dalla direttiva europea sull’efficienza energetica 2012/27/CE (recepita, nel nostro Paese, dai decreti legislativi 102/2014 e 141/2016). Per chi non lo rispetta, sono previste sanzioni dai 500 ai 2.500 euro per unità immobiliare. E, secondo le proiezioni delle associazioni di categorie sono ancora molti i condomini in Italia che non si sono adegua.
Il timing dell’installazione
L’installazione delle termovalvole può avvenire solo se l’impianto è scarico di acqua. Tra marzo e aprile (in base al territorio di appartenenza) si spegneranno nelle diverse Regioni i riscaldamenti e, da quel momento fino al 30 giugno, scatterà la finestra utile per effettuare le opere.
Chi ha già deliberato i lavori e scelto la ditta che deve eseguirli, deve quindi aspettare qualche settimana.
Per chi, invece, non ha ancora deliberato in assemblea l’intervento o deve scegliere l’impresa cui affidare l’installazione, è bene accelerare e cominciare a raccogliere preventivi, comparare i costi e indire le assemblee di condominio necessarie per il via libera all’installazione. Anche per evitare la corsa all’adeguamento degli impianti prima dell’accensione stagionale che, lo scorso settembre, ha comportato un sovraccarico di richieste e la difficoltà, in alcuni casi, per le ditte specializzate di soddisfare la domanda.
L’approvazione
Ai fini della normativa di condominio, l’adozione dei sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore in condominio si approva con la maggioranza semplice (un terzo dei condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell’edificio). Il quadro cambia nel caso in cui si decida di applicare la ripartizione introdotta dal decreto 141/2016, derogando alla norma Uni 10200: in questo caso, è necessaria la maggioranza dei presenti che rappresentino almeno i 500 millesimi.
Installare valvole e contabilizzatori può essere, inoltre, l’occasione per analizzare l’efficienza dell’intero edificio e approvare altri lavori, come la sostituzione di una caldaia vecchia o la risoluzione di problemi di dispersioni di calore dal tetto, dalle facciate o dalle finestre.
I costi
Per ciò che riguarda l’ammontare delle spese da sostenere, dipende da che cosa si sceglie di installare. Sul mercato esistono diversi modelli di valvole termostatiche e cronotermostatiche che permettono di regolare le temperature a seconda delle ore del giorno. In media, ipotizzando una spesa di 100/120 euro a calorifero in un appartamento di 80/90 mq con 5 caloriferi, il costo a unità immobiliare resta comunque entro i mille euro. Senza considerare, poi, le detrazioni fiscali. Per coprire i costi, è possibile fruire anche della detrazione fiscale al 65% nel caso in cui l’intervento sia contestuale al cambio di caldaia e del 50% se riguarda il solo inserimento dei nuovi dispositivi.
I controlli
Per ciò che riguarda i controlli, occorre comunque considerate che il sistema di verifica è lo stesso che regola le ispezioni di efficienza energetica delle caldaie.
Ogni anno -nel caso degli apparecchi condominiali, che superano una certa potenza- il manutentore sottopone a un check l’impianto e stila il cosiddetto “rapporto di controllo”, che viene trasmesso alle Regioni.
Le ispezioni scattano a campione e sono disposte dalle Province e dai Comuni sopra i 40mila abitanti (e dagli organismi da questi incaricati): le ammende toccano all’ente regionale.
Laddove sono attivi i catasti che mappano lo stato dell’arte, ovviamente è più facile individuare i palazzi non a norma. Questo significa che, per come è impostata la verifica sugli impianti termici, è facile che le situazioni di non conformità inizino a venire al pettine dopo i mesi di settembre e ottobre. Quando i manutentori incaricati delle ispezioni verificheranno le caldaie e segnaleranno la cosa nei rapporti di controllo. Quindi, nella pratica, ancora un po’ di tempo per correre ai ripari (a riscaldamenti spenti) c’è.
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Niente obbligo quando i costi superano i benefici. Le esclusioni. Ma serve la perizia del professionista.
L’introduzione della termoregolazione e della contabilizzazione del calore equipara, in qualche misura, l’impianto centralizzato a un impianto di gestione autonoma o semi-autonoma.
Le due “azioni” sono sinergiche fra loro. I due sistemi servono, rispettivamente, a regolare i prelievi di acqua calda dalla caldaia per ogni singolo appartamento e a conteggiare, di conseguenza, i maggiori o minori consumi di ogni unità immobiliare.
La termoregolazione consiste nell’inserimento di una valvola, nel punto in cui i tubi che corrono dal sistema centralizzato si connettono con ogni radiatore. Questo dispositivo serve a regolare il flusso di acqua calda e, di conseguenza, a determinarne un maggiore o minore prelievo.
Nel caso di edifici con distribuzione orizzontale, dove una sola tubazione ripartisce l’acqua al sistema (sia esso a caloriferi o radiante), viene introdotto un dispositivo di regolazione del flusso nel punto di ingresso dell’acqua calda nell’appartamento e lo stesso viene collegato o a singole termovalvole -poste sui radiatori- o a un termostato o cronotermostato unico (proprio come quello delle caldaie autonome), capace di regolare l’accensione o spegnimento del flusso in funzione della temperatura impostata.
La contabilizzazione serve, invece, in modo complementare, a quantificare il consumo di ogni unità immobiliare (sulla base, proprio, di come ogni abitante avrà gestito durante hanno di riscaldamento l’impostazione delle valvole).
Anche in questo caso, a seconda che l’edificio sia a colonne montanti (cioè diversi tubi salgono verticalmente fra gli alloggi e servono ciascuno uno o più caloriferi per piano) o a distribuzione orizzontale, vengono inseriti sui singoli caloriferi piccoli apparecchi, che si chiamano ripartitori, oppure viene inserito un sottocontatore o contabilizzatore alla tubazione di ingresso in casa.
Due i motivi che permettono di non ottemperare all’obbligo di termoregolazione e contabilizzazione: l’impossibilità tecnica di eseguire i lavori di adeguamento e la sproporzione fra i costi necessari a installare il sistema e l’effettiva utilità.
Il primo caso riguarda ad esempio alcuni impianti con radianti vetusti, dove non c’è di fatto un tubo di ingresso nell’appartamento cui collegare una valvola per regolare i prelievi. Il secondo caso, invece, è quello dei palazzi ubicati in zone climatiche miti. Il Dlgs 102/2014 non indica esattamente le aree di esclusione ma rimette la valutazione sulla convenienza dell’installazione delle termovalvole ai tecnici. Spetta al professionista dimostrare con una relazione asseverata che il montaggio di valvole e ripartitori in un luogo in cui il riscaldamento viene acceso solo per brevi periodi all’anno non genererebbe risparmi ma una diseconomia contraria ai principi indicati dalla direttiva.
Anche nel caso di impianti vetusti per disattendere l’obbligo di legge è necessaria una perizia e la relativa dichiarazione del professionista che si assume la responsabilità di quanto certificato
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti, assunzioni verso la riapertura. Reclutamento. Le conseguenze dell’approvazione.
Con l’entrata in vigore della riforma del Testo unico delle leggi sul lavoro pubblico viene abrogato il vincolo dell’indisponibilità dei posti dirigenziali non coperti al 15.10.2015. Le disposizioni transitorie prevedono infatti espressamente l’abrogazione del comma 219 della legge 208/2015.
Va ricordato che questa disposizione aveva imposto alle pubbliche amministrazioni il divieto di coprire i posti dirigenziali che non erano coperti al momento della presentazione al Parlamento della proposta di legge di stabilità 2016. La durata del divieto era fissata direttamente dalla stessa disposizione non fino a una data certa, ma all’entrata in vigore dei decreti attuativi della legge 124/2015 in tema di dirigenza pubblica, di riforma delle amministrazioni statali e di riforma del testo unico sul pubblico impiego.
Dopo una serie di dubbi iniziali, la disposizione era stata ritenuta applicabile anche a regioni ed enti locali, mentre si sono manifestati contrasti non ancora superati tra alcune sezioni di controllo della Corte dei Conti (segnatamente Puglia e Veneto) e la Conferenza Unificata sugli ambiti di applicazione. In particolare, sull’esclusione o meno dal vincolo dei posti dirigenziali coperti a tempo determinato nei Comuni attraverso il ricorso all’articolo 110 del decreto legislativo 267/2000, oltre che sull’esclusione dei posti per i quali era stata prevista l’attivazione in sede di programmazione del fabbisogno del personale e per quelli necessari per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei municipi.
Con questa disposizione saranno del tutto superati i dubbi, dal momento che non manca chi ritiene già decaduti i vincoli alla luce della mancata emanazione del decreto di riforma della dirigenza delle pubbliche amministrazioni: a mancare, sul punto, è invece un’indicazione ufficiale.
Al momento dell’entrata in vigore del provvedimento, i Comuni potranno coprire i posti dirigenziali che non erano coperti alla data del 15.10.2015, superando una limitazione che impediva di coprire i posti vuoti e che era finalizzata a rendere immediatamente produttiva di effetti concreti la disposizione della legge Madia che voleva introdurre la assunzione dei dirigenti di tutte le pubbliche amministrazioni, compresi regioni ed enti locali, esclusivamente sulla base di corsi/concorsi o di concorsi nazionali.
Ma sulla concreta possibilità per i Comuni di dar corso ad assunzioni a tempo indeterminato di dirigenti pesano i dubbi sulla quantità di capacità assunzionali che possono essere destinate a queste finalità. In particolare, si deve chiarire se gli oneri per queste assunzioni sono compresi nel tetto delle disposizioni dettate per il reclutamento del personale, cioè il 25% dei risparmi delle cessazioni dell’anno precedente o il 75% per i Comuni con popolazione inferiore a 10mila abitanti e un numero ridotto di dipendenti in servizio rispetto alla popolazione residente. Oppure se occorra distinguere le capacità assunzionali destinate al reclutamento a tempo indeterminato dei dipendenti da quelle da riservare alle assunzioni dei dirigenti. Una lacuna che, nell’esame dello schema di decreto, andrebbe colmata
 (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2017).

INCARICHI PROFESSIONALIProfessionisti, sì a lavori gratis. Plausibile l'opera svolta per amici e parenti senza fatture. Il focus della Fondazione commercialisti sulla sentenza della Cassazione 21972/2015
Le prestazioni rese a titolo gratuito dai professionisti sono fiscalmente legittime, purché caratterizzate da «semplicità», in minoranza rispetto al totale delle prestazioni e rivolte a una ristretta cerchia di amici.

È questa la conclusione che emerge dallo documento 31.01.2017 «L'accertamento delle prestazioni resa a titolo gratuito dal professionista» che la Fondazione nazionale dei commercialisti ha pubblicato sul proprio sito lo scorso 31.01.2017, prendendo in esame una serie di altalenanti, e spesso non condivisibili, decisioni della giurisprudenza tributaria.
Risulta inoltre evidente che le «difese» del professionista di fronte a un accertamento induttivo appaiono più deboli nel caso di prestazioni gratuite rese a soggetti privati, rispetto a quelle rese nei confronti di società, la cui documentazione probatoria (delibere, risultanze bancarie e di cassa) risulta più difficilmente superabile dall'Agenzia delle entrate.
La Cassazione (sent. 21972/2015). La controversia ha origine da un accertamento, ai fini Irpef, Irap e Iva, effettuato dall'Agenzia delle entrate nei confronti di un consulente fiscale per non aver fatturato a 72 clienti talune prestazioni (invio telematico delle dichiarazioni).
Il contribuente ricorreva presso la Ctp deducendo che le prestazioni erano state rese a titolo gratuito nei confronti di parenti e amici; inoltre, che la maggior parte dei soggetti (il 70%), che avevano beneficiato gratuitamente dell'attività del professionista, già corrispondeva al medesimo il compenso per la tenuta della contabilità delle società a essi riconducibili, cosicché, la prestazione resa, anche in un'ottica di «incremento della clientela», era assorbita nella remunerazione complessivamente pattuita.
Sebbene in primo grado i giudici della Ctp avessero avallato l'operato dell'amministrazione finanziaria, in secondo grado, la decisione è stata ribaltata e poi resa definitiva in sede di giudizio legittimità. I giudici della Suprema corte (sentenza 28.10.2015, n. 21972), richiamando e confermando in toto la pronuncia di secondo grado, hanno affermato che in presenza della corretta tenuta della contabilità da parte del contribuente è plausibile, a fronte delle mere supposizioni dell'ufficio erariale, la gratuità dell'opera svolta dal professionista, in considerazione dei «rapporti di parentela e di amicizia» con gli stessi clienti, nonché del fatto che alcuni di tali clienti erano soci di società di persone, la cui contabilità era affidata alle cure del contribuente, per cui ogni eventuale compenso rientrava in quello già corrisposto dalla società di appartenenza.
Inoltre, la «plausibilità» delle prestazioni rese a titolo gratuito emerge, secondo la suprema Corte, della circostanza che l'attività svolta in loro favore riguardava «soltanto l'invio telematico delle dichiarazioni dei redditi ed era finalizzata all'incremento della clientela, cosicché la semplicità della prestazione in sé rende verosimile l'assunto del contribuente circa la sua gratuità».
Secondo la Cassazione, dunque, l'amministrazione finanziaria non può accertare un maggior reddito in capo a un consulente sulla base della semplice presunzione secondo cui i professionisti non sono soliti prestare i propri servizi a titolo gratuito. È plausibile, infatti, che un professionista possa svolgere parte della propria attività senza percepire alcun compenso, per ragioni di amicizia, parentela o di mera convenienza.
Sul punto, peraltro, la circostanza che non sia irragionevole che un professionista effettui prestazioni a titolo gratuito è stata espressamente riconosciuta anche dalla stessa Amministrazione finanziaria nella circ. 28/09/2001, laddove, a commento dei controlli da espletare nei confronti delle diverse tipologie di contribuenti, è stato affermato, con riguardo alle attività professionali di studi legali e notarili, che «la gratuità delle prestazioni può essere considerata verosimile nei confronti di parenti o di colleghi/amici».
Le difese del professionista. Anche sulla base di decisioni della giurisprudenza tributaria a contrariis rispetto alla citata sentenza della Cassazione (specie da parte di alcune Ctr e Ctp, le cui decisioni in alcuni casi sono ragionevolmente non condivisibili), l'accertamento induttivo teso a ricostruire i compensi del professionista e fondato esclusivamente sulla presunzione che le prestazioni gratuite nascondano compensi «in nero» non sembra potersi configurare come illegittimo.
Sebbene, infatti, risulti senza dubbio opportuno che l'amministrazione finanziaria supporti le proprie pretese attraverso ulteriori elementi, la giurisprudenza ha, per lo più, non dichiarato illegittimo un simile operato. In secondo luogo, la giurisprudenza sembra ritenere «plausibile» che un professionista effettui prestazioni a titolo gratuito nei confronti di parenti, amici o soggetti che già sono clienti (ad altro titolo), purché tali prestazioni siano in un rapporto di minoranza rispetto al totale delle prestazioni rese e che, inoltre, siano caratterizzate da «semplicità» (come nel caso degli invii telematici delle dichiarazioni).
Così, se l'onere della prova, posto a carico del contribuente sottoposto ad accertamento, può dirsi superato qualora le prestazioni rese gratuitamente (comunque in un rapporto di minoranza rispetto a quelle complessive), siano effettuabili, secondo l'id quod plerumque accidit, senza particolare complessità, dispendio di tempo o abbiano un «valore normale» ridotto, non è così per le prestazioni particolarmente laboriose o di valore ingente, soprattutto se rese nei confronti di soggetti diversi da coloro che sono con il professionista in stretto legame di parentela.
Ciò tuttavia non implica necessariamente che, qualora il numero di prestazioni rese gratuitamente sia in un rapporto di maggioranza rispetto a quelle a titolo oneroso e/o che tali prestazioni siano, per lo più, «complesse», il professionista debba essere necessariamente assoggettato a tassazione.
La sentenza della Corte di cassazione n. 1915/2008 ha, in effetti, offerto al contribuente dei possibili «strumenti di difesa».
In tal senso, sicuramente la predisposizione di lettere di incarico professionale ove si evinca chiaramente la gratuità della prestazione, può essere un valido elemento probatorio. In aggiunta, nel caso di prestazioni rese nei confronti di società, la documentazione societaria (delibere, lo statuto, mastrini contabili di cassa o banca e quelli riferiti al professionista) rappresenta un efficace elemento probatorio avverso le pretese dell'Agenzia delle entrate.
Rimane, però, particolarmente delicato il tema delle prestazioni rese dai professionisti nei confronti di soggetti privati, non tenuti a obblighi di contabilità e/o di conservazione di documenti. Nei confronti di questi soggetti, oltre alla predisposizione di lettere di incarico professionale e/o dichiarazioni rese dagli stessi, il contribuente non è in grado generalmente, di produrre ulteriore documentazione (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLegge Madia: fatti 11 decreti su 20, ma le partite vere sono ancora aperte.
Il cantiere dell’attuazione. Per il testo unico del pubblico impiego confronto con i sindacati - All’appello mancano i Dlgs su presidenza del consiglio, Prefetture e Aci - Senza lo stop della Consulta salirebbero a 16 le attuazioni definitive.

Con il Consiglio dei ministri di ieri il pallottoliere della riforma Madia incassa un’approvazione definitiva e due via libera in prima lettura: il conteggio si aggiorna quindi a 11 capitoli per i quali il cantiere delle regole si è chiuso del tutto, tre per i quali è ancora in corso dopo la riapertura forzosa imposta dalla Corte costituzionale e sei ancora da affrontare, al cui interno trova spazio anche qualche tema “minore” probabilmente destinato a cadere. Senza l’intervento della Consulta il conto sarebbe ormai salito a 16 provvedimenti attuati in via definitiva.
Quando si guarda al numero dei decreti, insomma, l’indicatore viaggia oltre la metà, ma se il calcolo prova a misurare il peso specifico dei temi la situazione cambia: le partite più importanti, con la riforma del pubblico impiego e l’avvio vero e proprio del «taglia-partecipate», sono ancora da affrontare, e il colpo inferto dalla Corte costituzionale ha fatto cadere le nuove regole sulla dirigenza e la liberalizzazione dei servizi pubblici. Il governo ha intenzione di recuperare con legge ordinaria almeno la riforma del trasporto locale, che occupava larga parte del decreto inciampato sulla Consulta proprio alle porte del Consiglio dei ministri, ma resta da capire se ci saranno gli spazi politici e parlamentari per farlo.
Calendario ed equilibri nell’attuazione dipendono dalla strategia iniziale scelta ai tempi della delega, finita sulla Gazzetta Ufficiale del 13.08.2015, che ha deciso di avviare i lavori dedicandosi a temi più leggeri e settoriali, rimandando al finale i colpi più grossi. Strategia rischiosa in un ambiente politico strutturalmente incerto come quello italiano, che infatti porta ad affrontare la sfida chiave della riforma del pubblico impiego nei giorni percorsi dalla tempesta nel Pd e dai venti elettorali scatenati dalla vittoria dei «no» al referendum.
Il barometro segnava invece tempo stabile nel giugno del 2016, quando a 10 mesi dalla legge delega è arrivato l’esordio operativo con l’entrata in vigore dell’«accesso civico generalizzato». Battezzato «Foia» per rimarcarne l’ambizione anglosassone con il richiamo al Freedom Of Information Act, il decreto sulla trasparenza punta a ribaltare la logica della trasparenza all’italiana, fissando la regola che tutto è accessibile a tutti salvo eccezioni dettate dalle esigenze di concorrenza o sicurezza dello Stato. Ma tra eccezioni, formalismi e resistenza passiva della macchina burocratica, la sfida è ancora da vincere anche perché passa attraverso un cambiamento di cultura amministrativa oltre che di norme.
Un mese dopo, a luglio, è stata la volta dei licenziamenti sprint per gli assenteisti, tornati giusto ieri sul tavolo del Consiglio dei ministri per rimediare ai buchi aperti dalla Consulta. In quel caso, l’accelerazione era arrivata dopo il «caso-Sanremo», quando il governo decise di dare una risposta immediata alla ridda di immagini di dipendenti più o meno sommariamente abbigliati che timbravano il cartellino senza poi andare in ufficio. Dopo quella prima incursione, però, il terreno delicato del lavoro pubblico, pilastro inevitabile per una riforma complessiva della Pa, è rimasto minato.
L’estate e l’autunno del 2016 sono stati infatti dominati da uno scontro sordo fra governo e vertici amministrativi sulla riforma della dirigenza, tramontata in extremis per il colpo arrivato dalla Corte costituzionale dopo una battaglia condotta con toni inediti nei compassati uffici dei ministeri.
Per il resto, con le eccezioni importanti ma limitate di Camere di commercio e Corpo forestale, la gestione del personale rimane tutta da affrontare, sia nella pubblica amministrazione sia nelle società controllate: il decreto correttivo sulle partecipate appena approvato in prima lettura allunga fino a giugno i termini per individuare gli esuberi, ma resta aperto il confronto sulle modalità con cui le Regioni e gli enti locali potranno gestirli all’interno della loro programmazione.
Oltre a questo, l’agenda scritta nella delega prevederebbe anche la riorganizzazione della presidenza del consiglio e dei ministeri, la ridefinizione della geografia delle Prefetture e la riforma di Aci e pubblico registro automobilistico: ma il 28 marzo, data ultima per ottenere almeno la prima approvazione dei decreti attuativi, si avvicina a grandi passi
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAFurbetti e partecipate, altro giro. I governatori potranno escludere le società regionali. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Ok preliminare ai decreti bis. La ricognizione si sposta al 30/6.
La riforma dei licenziamenti disciplinari e delle società partecipate torna al punto di partenza. Dopo la scure della Corte costituzionale che con la sentenza n. 251/2016 ha bocciato la legge delega di Marianna Madia (legge n. 124/2015) e i decreti attuativi per aver previsto il semplice parere, al posto dell'intesa con le regioni, il governo c'ha messo una pezza.

Ieri il cdm ha approvato in via preliminare i due decreti correttivi dei dlgs sui cosiddetti «furbetti del cartellino» e sul Testo unico delle partecipate pubbliche (dlgs n. 116 e n. 175/2016, già in vigore ma a forte rischio di essere travolti da nuovi ricorsi di costituzionalità), mentre il terzo decreto sul riordino della dirigenza medica delle Asl è slittato per cortesia istituzionale nei confronti del ministro della salute, Beatrice Lorenzin che non era presente alla riunione del consiglio.
Ora i due testi dovranno ricominciare nuovamente il lungo iter verso l'approvazione definitiva che, prima del sì finale del consiglio dei ministri, li vedrà sul tavolo del Consiglio di stato, delle commissioni parlamentari e della Conferenza Unificata per l'intesa con gli enti territoriali.
Il governo punta a fare presto anche per concentrarsi sul vero tema caldo dei prossimi mesi: la riforma del pubblico impiego e della valutazione che dovrebbe essere portata in cdm giovedì.
Ma tutto dipenderà dal parlamento e dall'atteggiamento più o meno collaborativo delle regioni.
Per addolcire il giudizio dei governatori l'esecutivo ha già fatto una prima, importante concessione nel decreto bis sulle partecipate, prevedendo che con decreto motivato i presidenti di regione possano escludere, totalmente o parzialmente, dall'applicazione della riforma le società a partecipazione regionale meritevoli di un trattamento di favore per la misura e la qualità della partecipazione pubblica, gli interessi pubblici connessi e il tipo di attività svolta.
Ulteriori aperture alle autonomie potrebbero essere chieste dal parlamento a cominciare dall'abbassamento (da un milione a 500 mila euro) della soglia di fatturato minima al di sotto della quale scatterà l'obbligo di razionalizzazione. Un correttivo chiesto a gran voce dai comuni e sempre rispedito al mittente dal governo che però, ora, dovendo ricevere l'intesa in Unificata, potrebbe cedere alle richieste degli enti locali.
Tra le altre modifiche inserite nel correttivo si segnala il via libera alle partecipazioni in società aventi per oggetto la produzione di energia da fonti rinnovabili e la possibilità per le università di costituire società per la gestione di aziende agricole con funzioni didattiche.
Novità anche in materia di governance. La regola resta quella dell'amministratore unico, ma per scegliere di essere amministrate da un cda di 3 o 5 membri, le società non dovranno più attendere il dpcm di palazzo Chigi (d'intesa col Mef e la Funzione pubblica) che avrebbe dovuto fissare i criteri per discostarsi dal modello di governance dell'amministratore unico. Saranno le stesse società con delibera assembleare a scegliere il modello di amministrazione più consono, giustificando la scelta sulla base di «specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi».
Cambia anche il cronoprogramma per l'applicazione della riforma. Sfumato il rinvio ad opera del decreto Milleproroghe, è il decreto bis, approvato ieri dal cdm, a far slittare dal 23 marzo al 30.06.2017 il termine per la ricognizione delle partecipazioni possedute, propedeutica alla razionalizzazione. Slitta al 30.06.2017 anche il termine entro il quale le società a controllo pubblico dovranno effettuare la ricognizione del personale in servizio, per individuare eventuali esuberi.
Per quanto riguarda, invece, l'adeguamento degli statuti, il termine del 31.12.2016, scaduto senza essere stato rispettato dalla maggior parte delle società (anche a causa dell'incertezza generata dalla sentenza della Consulta), viene sostituito con la nuova deadline del 31.07.2017.
Licenziamenti disciplinari. Il cuore del decreto legislativo contro i cosiddetti «furbetti del cartellino» resta immutato. Gli assenteisti colti in flagrante saranno sospesi dal servizio entro 48 ore e licenziati entro 30 giorni.
I ritocchi prevedono un extra time per esercitare l'azione di risarcimento per i danni di immagine alla p.a. provocati dalle condotte fraudolente punite dal licenziamento. La denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente Procura regionale della Corte dei conti avverrà entro 20 giorni (non più 15) dall'avvio del procedimento disciplinare, «in modo da evitare», spiega palazzo Chigi, «un eccessivo accavallamento dei termini e delle procedure poste a carico delle pubbliche amministrazioni».
Più tempo anche alle procure della Corte dei conti per procedere per danni all'immagine della p.a. contro il dipendente assenteista. I giudici erariali avranno 150 giorni (al posto degli attuali 120) dalla conclusione della procedura di licenziamento. La ratio, spiega il governo in una nota, è «garantire maggiore certezza e una più netta separazione tra il procedimento disciplinare a carico del dipendente e il conseguente procedimento per danni di immagine alla p.a.».
Infine, si prevede l'obbligo di comunicazione dei provvedimenti disciplinari all'Ispettorato per la funzione pubblica entro 20 giorni dall'adozione degli stessi: ciò, al fine di consentire il monitoraggio sull'attuazione della riforma.
Riforma del Comitato paralimpico. Sempre in attuazione della delega Madia, il cdm ha approvato in via definitiva il dlgs che riforma il Comitato italiano paralimpico facendolo diventare un ente autonomo di diritto pubblico. La costituzione del nuovo ente non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, in quanto saranno utilizzate parte delle risorse finanziarie attualmente in disponibilità o attribuite al Coni.
Codice appalti. In cdm il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Delrio ha svolto un'informativa sullo schema di decreto legislativo correttivo del Codice degli appalti, da adottare a norma dell'articolo 1, comma 8, della legge delega n. 11 del 2016.
Delrio ha chiarito che si tratta di un testo aperto che sarà sottoposto alle consultazioni con i principali portatori di interesse, per essere poi esaminato in via preliminare dal consiglio dei ministri. Successivamente sarà inviato alla Conferenza Stato-regioni, al Consiglio di Stato e alle Commissioni parlamentari competenti per l'acquisizione dei prescritti pareri.
Scioglimento di consigli comunali. Su proposta del ministro dell'interno, Marco Minniti, il cdm ha deliberato lo scioglimento per infiltrazioni mafiose il consiglio comunale del comune di Parabita (Le) e la proroga dello scioglimento del consiglio comunale di Mazzarà Sant'Andrea (Me) con affidamento della gestione dell'ente ad una commissione straordinaria (articolo ItaliaOggi del 18.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIAInquinamento acustico, l'Italia si intona alla Ue.
Sull'inquinamento acustico l'Italia s'intona all'Unione europea.

Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri in via definitiva due decreti legislativi in materia di inquinamento acustico, in attuazione della delega di cui all'articolo 19 della legge 30.10.2014, n. 161, con l'obiettivo, appunto, di armonizzare la normativa nazionale con la relativa disciplina dell'Unione europea. In particolare, spiega una nota di Palazzo Chigi, i due decreti prevedono:
   1. armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico (articolo 19, comma 2, lettere a), b), c), d), e), f) e h)) con la direttiva 2002/49/CE relativa alla determinazione e gestione del rumore ambientale - Si armonizza la normativa nazionale in materia di inquinamento acustico, con l'obiettivo specifico di ridurre le procedure di infrazione comunitaria aperte nei confronti dell'Italia in materia di rumore ambientale, operando una razionalizzazione della tempistica riguardante la trasmissione delle mappe acustiche e dei relativi piani d'azione, assicurando nel contempo anche l'informazione del pubblico.
L'intervento normativo, inoltre, risolve in modo definitivo alcune criticità, riguardanti in particolare l'applicazione dei valori limite, il coordinamento tra i vari strumenti di pianificazione, nonché la valutazione dell'impatto acustico nella fase progettuale delle infrastrutture, al fine del contenimento dell'inquinamento derivante dal rumore perla salvaguardia della popolazione.
Infine si prevede una specifica disciplina delle attività fonte di rumore ambientale, fino ad oggi escluse dalla normativa, quali gli impianti eolici, le aviosuperfici, le elisuperfici, le idrosuperfici, le attività e discipline sportive e le attività di autodromi e piste motoristiche;
   2. Armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico con la direttiva 2000/14/CE e con il regolamento CE n. 765/2008 [articolo 19, comma 2, lettere i), l) e m)] - Si razionalizza la disciplina sulle macchine rumorose operanti all'aperto, con particolare riguardo a quelle importate da Paesi extracomunitari e poste in commercio nella distribuzione di dettaglio, affidando la responsabilità in materia agli importatori presenti sul territorio comunitario, colmando così un vuoto normativo e garantendo maggiore sicurezza all'utenza.
Il provvedimento mira anche a raggiungere obiettivi di semplificazione nei procedimenti di autorizzazione e di certificazione, anche con una revisione dei requisiti richiesti agli organismi di certificazione. Viene infine rafforzata la disciplina sanzionatoria, conferendo ad Ispra maggiori poteri di accertamento e verifica (articolo ItaliaOggi del 18.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIE-mail, vietati i controlli indiscriminati.
Vietato estrarre informazioni private dalla e-mail e dal telefono aziendale in uso al lavoratore; vietato configurare la copia della posta elettronica per dieci anni; vietato mantenere attive le caselle e-mail dei dipendenti fino a sei mesi dopo la cessazione del contratto; vietato tenerle attive senza dare agli ex dipendenti la possibilità di consultarle o senza informare i mittenti che le lettere non sarebbero state visionate dai legittimi destinatari ma da altri soggetti; vietato accedere da remoto alle informazioni contenute negli smartphone in dotazione ai dipendenti, copiarle o cancellarle, o comunicarle a terzi. Obbligatorio informare su come funzionano i dispositivi elettronici.

Il catalogo dei divieti e degli obblighi, sintetizzabili nella prescrizione di evitare controlli indiscriminati su e-mail e smartphone aziendali, è stilato dal Garante della privacy (provvedimento 22.12.2016 n. 547, diffuso ieri con la newsletter istituzionale n. 424), che analizza gli effetti del Jobs Act e la disciplina del controllo a distanza sui lavoratori. Nel caso specifico il garante ha vietato a una multinazionale l'ulteriore utilizzo dei dati personali trattati in violazione di legge: la società potrà solo conservarli per la tutela dei diritti in sede giudiziaria.
Ma come bilanciare i diversi interessi in gioco? Da un lato anche il garante riconosce che il datore di lavoro ha la facoltà di verificare l'esatto adempimento della prestazione professionale e il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro da parte dei dipendenti. Dall'altro lato il datore deve rispettare la dignità dei dipendenti e, ad esempio, astenersi da attività idonee a realizzare, anche indirettamente, il controllo massivo, prolungato e indiscriminato dell'attività del lavoratore. Sul punto non ha cambiato le carte in tavola nemmeno l'articolo 23 del dlgs 151/2015 (Jobs Act).
I lavoratori, poi, devono essere sempre informati in modo chiaro e dettagliato sulle modalità di utilizzo degli strumenti aziendali ed eventuali verifiche. Tra l'altro, aggiunge il Garante, l'assenza di una esplicita policy aziendale può determinare una legittima aspettativa del lavoratore, o di terzi, di confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione.
Marketing a strascico. È vietato il telemarketing con i numeri di telefono pescati in internet e contattati senza il consenso informato dei destinatari (provvedimento n. 4 del 12.01.2017). Il garante privacy lo ha stabilito stoppando una società attiva nell'offerta di servizi in Internet (costruzione e gestione di siti web, posizionamento nei motori di ricerca, vendita di spazi pubblicitari e attività di social media marketing).
La società in questione contattava telefonicamente le utenze reperite in rete, in genere numeri di telefono di liberi professionisti e imprese individuali presenti nell'area «contatti» dei siti. Ma il fatto che i numeri di telefono sono presenti in internet non significa che possano essere legittimamente usati per finalità (come il marketing) diverse da quelle per cui sono stati pubblicati online.
Altro punto interessante del provvedimento è quello in cui si prescrive di predisporre nei form una casella apposita, da eventualmente flaggare per consentire il trattamento di dati per fini pubblicitari, ricerche di mercato e sondaggi via mail (articolo ItaliaOggi del 18.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti. Nella qualificazione dei residui ciò che conta è la volontà.
I residui di produzione sono considerati sottoprodotti e non rifiuti quando il produttore dimostra che, non essendo stati prodotti volontariamente e come obiettivo primario del ciclo produttivo, sono destinati a essere utilizzati nello stesso o in un successivo processo, dal produttore medesimo o da parte di terzi. Resta ferma l'applicazione della disciplina in materia di rifiuti, qualora, in considerazione delle modalità di deposito o di gestione dei materiali o delle sostanze, siano accertati l'intenzione, l'atto o il fatto di disfarsi degli stessi.

Il decreto del 13.10.2016 n. 264 del ministero ambiente (in G.U. 15.02.2017, n. 38) delinea i criteri per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti.
Il requisito della certezza dell'utilizzo è dimostrato dal momento della produzione del residuo fino al suo impiego. Il produttore e il detentore assicurano l'organizzazione e la continuità di un sistema di gestione, ivi incluse le fasi di deposito e trasporto, che, per tempi e per modalità, consente l'identificazione e l'utilizzazione effettiva del sottoprodotto.
In ogni fase della gestione del residuo, è necessario dimostrare che la sostanza è originata da un processo di produzione senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale e di cui costituisce parte integrante (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGOAddio alle fasce di valutazione. In soffitta le gabbie della Brunetta. Spazio ai contratti. RIFORMA MADIA/ Il cdm potrebbe iniziare l'esame dei due dlgs. All'odg anche i tre correttivi.
Addio per sempre alle fasce di valutazione. La riforma Madia manda in pensione le gabbie di valutazione imposte dall'articolo 19 del dlgs 150/2009 (riforma Brunetta) prima ancora che esse siano mai entrate in funzione.

È quanto prevede lo schema di decreto legislativo, atteso, assieme al restyling del Testo unico sul pubblico impiego, sul tavolo del consiglio dei ministri di oggi.
Tuttavia, i due provvedimenti non sono ricompresi nell'ordine del giorno di palazzo Chigi, il che farebbe pensare a uno slittamento alla prossima settimana dell'approvazione in via preliminare. All'ordine del giorno del consiglio dei ministri ci saranno invece i tre decreti correttivi dei dlgs già varati in materia di razionalizzazione delle società partecipate (n. 175/2016), dirigenza sanitaria (n. 171/2016) e licenziamenti disciplinari (n. 116/2016).
Provvedimenti già in vigore ma travolti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016 che aveva dichiarato la parziale illegittimità della legge delega di riforma della p.a. laddove prevedeva il parere, e non l'intesa, delle regioni. Tornando ai decreti su valutazione e riforma del dlgs 165/2001, non è escluso che il cdm possa avviarne comunque l'esame, anche se, come detto, l'ok preliminare potrebbe slittare alla prossima settimana.
La legge Brunetta. La normativa del 2009 per forzare le amministrazioni a differenziare in maniera significativa i premi di produttività ed evitare distribuzioni a pioggia, impose di destinare il 50% delle risorse legate alla produttività al 25% del personale con le valutazioni più elevate; il 50% al 50% del personale con valutazioni medie, così che al restante 25% del personale non andasse alcun incentivo.
Un meccanismo eccessivamente rigido, sempre oggetto di contestazioni molto forti dei sindacati, che ora incassano la sua cancellazione a vantaggio della riacquisita forza normativa degli accordi.
Saranno, infatti, i contratti collettivi nazionali di lavoro a occuparsi di due aspetti fondamentali dei premi di risultato. Da un lato, infatti, stabiliranno l'entità della quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente, la performance organizzativa e quella individuale. Soprattutto, i contratti nazionali collettivi fisseranno criteri idonei a garantire che alla significativa differenziazione dei giudizi sulla produttività dei dipendenti pubblici, espressi dai dirigenti, corrisponda un'effettiva diversificazione dei trattamenti economici correlati.
La riforma modifica anche in maniera significativa le modalità di valutazione e i soggetti competenti. Gli organismi indipendenti di valutazione conservano la valutazione dell'ente nel suo complesso e della dirigenza. Anche per i dirigenti si conferma la competenza a valutare i risultati dei propri dipendenti (e saranno valutati in maniera preponderante in riferimento ai risultati complessivi delle strutture da loro dirette. La novità eclatante consiste nell'entrata in scena dei cittadini, nel ruolo di valutatori.
La riforma prevede, infatti, che cittadini o utenti finali partecipano alla valutazione della performance organizzativa dell'ente in rapporto alla qualità dei servizi resi. Inoltre, ciascuna amministrazione, allo scopo di permettere questa sorta di valutazione diffusa, adotterà sistemi di rilevazione del grado di soddisfazione degli utenti e dei cittadini in relazione alle attività e ai servizi erogati, favorendo ogni più ampia forma di partecipazione e collaborazione dei destinatari dei servizi. I risultati delle indagini di soddisfazione saranno utilizzati dagli organismi indipendenti di valutazioni, per determinare il grado di raggiungimento degli obiettivi dell'ente e dei dirigenti.
Gli obiettivi saranno distinti in generali e specifici per ciascun ente. Gli obiettivi generali identificano le priorità strategiche delle pubbliche amministrazioni, tenendo conto del comparto di contrattazione di appartenenza, coerentemente con le politiche e saranno fissati con apposite linee guida adottate su base triennale con decreto del ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa intesa in sede di conferenza unificata.
Gli obiettivi specifici di ciascuna pubblica amministrazione sono quelli fissati dai piani della performance che ognuno deve approvare, vanno programmati, in coerenza con gli obiettivi generali, su base triennale e definiti, prima dell'inizio del rispettivo esercizio, da parte degli organi di indirizzo politico-amministrativo, sentiti i vertici amministrativi e i dirigenti o responsabili di servizio (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGOLa p.a. stabilizza i precari. Assunzione diretta o tramite concorso con riserva di posti. RIFORMA MADIA/ Il presupposto è la pianificazione triennale dei fabbisogni.
La stabilizzazione dei precari non può mai mancare nelle riforme sul lavoro pubblico.
E così, anche lo schema di decreto legislativo attuativo della delega contenuta nell'articolo 17 della legge 124/2015 ripropone una nuova edizione delle stabilizzazione.
Limite ai contratti a termine. Lo schema di decreto modifica l'articolo 36 del dlgs 165/2001, che contiene le regole speciali del lavoro flessibile, nell'ambito della pubblica amministrazione.
La norma vorrebbe coordinare la disciplina particolare della p.a. con quella del privato, ma nell'attuale versione non pare vi riesca. L'intento è limitare l'utilizzo del lavoro a termine e flessibile. A questo scopo, si conferma che, a differenza del settore privato, il lavoro flessibile nella p.a. è «causale»: deve essere giustificato, cioè da comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale.
La norma, tuttavia, dispone che al tempo determinato nel pubblico impiego si applicano gli articoli 19 e seguenti del dlgs 81/2015, che però prevedono la «acausalità» del contratto. Unica eccezione espressamente prevista è l'esclusione del diritto di precedenza, riservato solo al personale assunto tramite chiamata dai centri per l'impiego, per le qualifiche esecutive.
Stabilizzazioni. Per l'ennesima volta si stabilisce che la p.a. deve «superare il precariato» e allo scopo la riforma indica una serie di strade.
Sostanzialmente si indica alle amministrazioni di introdurre nella pianificazione triennale dei fabbisogni di personale l'assunzione con contratti a tempo indeterminato di dipendenti già assunti con contratto a tempo determinato, purché a suo tempo selezionati con procedure concorsuali, e che abbiano maturato un certo numero di anni di servizio (ancora da definire, ma pare saranno tre) alle dipendenze dell'amministrazione che effettua la stabilizzazione.
Da queste stabilizzazioni saranno esclusi i dirigenti e i componenti degli staff politici. La norma pare non richiedere alcuna selezione particolare: unico presupposto è la programmazione e, ovviamente, la verifica dei requisiti di anzianità.
Un secondo tipo di stabilizzazione riguarderà tutti gli altri dipendenti che abbiano condotto rapporti di lavoro flessibile di altro tipo, sempre per una durata da definire con l'amministrazione procedente. In questo caso, nel triennio 2018-2020 si dà modo alle amministrazioni di bandire concorsi con riserva di posti non inferiore al 50% appunto in favore dei precari.
Risorse. Similmente a quanto già previsto nel dl 113/2016 in tema di piano straordinario di stabilizzazione del personale scolastico, la riforma intende favorire le stabilizzazioni anche mediante un'operazione di autofinanziamento.
Si tratta, cioè, della possibilità di «travasare» la spesa per lavori flessibili prevista dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, trasformandola da spesa limitata nel tempo, in fissa e continuativa, per finanziare appunto il passaggio dei dipendenti dallo stato di precari a quello di dipendenti a tempo determinato.
Proroga. Le amministrazioni potranno prorogare i corrispondenti rapporti di lavoro flessibile con i soggetti che partecipano alle procedure di stabilizzazione, fino alla loro conclusione, nei limiti delle risorse utilizzabili per le assunzioni a tempo indeterminato.
Blocco del lavoro flessibile. Per agevolare il salto dei precari verso il lavoro stabile, lo schema di decreto impone alle amministrazioni che si attivano per la stabilizzazione il divieto di attivare lavori flessibili, finché non si siano concluse le procedure di stabilizzazione.
Contestualmente, si prevede l'abolizione delle proroghe dei contratti a tempo determinato a vario titolo disciplinate dall'articolo 4, comma 9-bis, del dl 101/2013.
Collaborazioni. Restrizioni anche per l'utilizzo del lavoro autonomo. La riforma contiene l'espresso divieto alle p.a. di stipulare contratti di collaborazione che si concretino in prestazioni esclusivamente personali, fortemente condizionate dal datore pubblico nella fissazione di modalità tempi e luoghi di lavoro.
Verrebbe, così, esteso alle p.a. il divieto di utilizzo delle co.co.co. previsto dall'articolo 2 del dlgs 81/2015, la cui estensione al lavoro pubblico è stata esclusa per tutto il 2017 dal dl 244/2016 (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALILe ordinanze dei sindaci avranno effetti stabili.
Razionalizzare i poteri di ordinanza dei sindaci, individuando meglio le fattispecie in cui i primi cittadini possono intervenire nel loro duplice ruolo di rappresentanti delle comunità locali e di ufficiali del governo.

È uno degli obiettivi principali del decreto legge sicurezza, approvato la scorsa settimana dal consiglio dei ministri. Oltre a estendere l'efficacia temporale delle ordinanze, che da «contingibili e urgenti» potranno assumere anche effetti stabili nel tempo (si veda ItaliaOggi del 10/02/2017), il provvedimento voluto dal ministro dell'interno, Marco Minniti, e condiviso dall'Anci punta a mettere ordine in una materia la cui disciplina ha sempre presentato confini labili, dando talora la stura a interventi anche scomposti da parte di amministratori interessati più alla visibilità mediatica che all'efficacia delle misure adottate. A tal fine, viene prevista la parziale riscrittura degli artt. 50 e 54 del Tuel (dlgs 267/2000).
I correttivi muovono da un'attenta analisi delle fattispecie di cui all'articolo 2 del dm 05.08.2008 concernente il potere di ordinanza del sindaco in qualità di ufficiale del governo per la tutela della sicurezza urbana, previsto dall'art. 54: ne è emerso che le stesse fattispecie, ricondotte all'attuazione di tale norma presentano elementi di disomogeneità, facendo riferimento anche a situazioni non strettamente correlate alla sfera della sicurezza primaria, bensì ad aspetti che si collegano a funzioni proprie dell'ente locale e quindi che rimandano all'art. 50.
Per definire meglio i confini, nel nuovo testo sono indicate situazioni legittimanti che fanno capo sia alla prima sia alla seconda ipotesi, unificate, tuttavia, dal dato comune che sarà comunque il sindaco a doversi fare interprete della domanda locale di sicurezza e optare per l'uno o l'altro degli strumenti a disposizione.
Laddove il sindaco, dunque, si farà carico di fronteggiare situazioni di inciviltà strettamente connesse alla rimozione di situazioni di grave incuria o degrado, alla cura del decoro urbano, nonché alla tutela della tranquillità e del riposo dei residenti (prima in parte postulate dal citato dlgs in quanto ricondotte all'alveo dei poteri sindacali di cui all'art. 54), i provvedimenti adottati andranno a integrare una nuova potestà di autonomo intervento, riconosciuta al primo cittadino quale rappresentante della comunità locale (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).

APPALTIAppalti, le revisioni pericolose. Riforma 2016 a rischio con l'introduzione delle modifiche. Il primo decreto correttivo del codice dei contratti pubblici oggi all'esame del cdm.
Decreto correttivo del codice dei contratti pubblici oggi in consiglio dei ministri per una prima informativa, con contestuale avvio della consultazione pubblica con gli operatori del settore; forti perplessità dal parlamento che teme il superamento dei principi fondamentali della riforma del 2016.

È questa la sintesi della situazione riguardante il primo correttivo del codice dei contratti pubblici che dovrà essere portato a termine entro il 19 aprile e sul quale il ministro Graziano Delrio ha riferito mercoledì nel corso dell'audizione svolta presso le commissioni riunite ambiente e lavori pubblici di Camera e Senato.
Sui contenuti dello schema, che circola da una settimana, in realtà il ministero aveva chiarito già una settimana fa che si trattava di un «testo aperto» e non definitivo. E mercoledì ne ha dato conferma anche il ministro delle infrastrutture che ha ribadito che la bozza diffusa il 9 febbraio rappresentava solo «un testo preliminare, non essendo ancora passata dal consiglio dei ministri e avendo davanti a se ancora diversi passaggi». Più certezza si avrà soltanto a valle della pubblicazione del testo che avverrà oggi da parte della presidenza del consiglio che avvierà la consultazione pubblica.
Poi, una volta sentita l'Anac, sarà necessario acquisire il parere della Conferenza unificata e delle regioni, delle commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato. Il tutto entro la scadenza del 18 aprile. Complessivamente il lavoro non è affatto semplice come è risultato chiaro anche dal dibattito parlamentare svoltosi mercoledì in commissione.
Un attacco piuttosto duro è arrivato dal relatore della legge delega e del decreto 50 in senato, Stefano Esposito che non ha nascosto quello che ha definito il suo «profondo imbarazzo per un testo che supera in molti punti le indicazioni della delega» fra cui le deroghe concernenti l'appalto integrato «che rimettono in discussione la centralità del progetto», un argomento toccato anche da altri esponenti della maggioranza, oltre che dell'opposizione.
Su questo argomento il ministro ha replicato sottolineando che non c'è alcun ribaltamento del principio per cui si va in gara con il progetto esecutivo (che ha determinato «un aumento degli incarichi di progettazioni del 50%») e che la volontà è stata quella di utilizzare l'appalto integrato alle sole «amministrazioni che al momento di entrata in vigore del codice avevano già un progetto approvato; si tratta quindi di un'apertura per casi limitati e definita nel tempo».
Altro tema delicato è quello del subappalto per il quale il ministro ha precisato che la proposta di tornare al limite del 30% sulla sola categoria prevalente è stato previsto perché «c'è una sentenza della Corte europea».
Sulla questione della qualificazione delle stazioni appaltanti la relatrice della legge delega e del codice, Raffaella Mariani, ha evidenziato che «si ampliano le stazioni appaltanti che si autocertificano, il che non è corretto perché va nella direzione opposta a quella prefissata con il codice e cioè la riduzione e aggregazione delle stazioni appaltanti».
Critiche e perplessità un po' da tutti i gruppi parlamentari sono poi giunte sulla disciplina delle deroghe per la protezione civile (che andrebbero ben definite), sui fondi per la progettazione e sui ritardi nell'attuazione del codice, elemento sul quale il ministro ha ammesso che «ci sono sicuramente degli aspetti su cui sono in ritardo, imputabili alla necessità di coordinamento con gli altri ministeri: infatti sono alla quarta revisione che torna in dietro dal Mef» (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Appalti, promozione con riserva. Ance: gare più semplici - Professionisti: separare progetto e lavori.
Il decreto correttivo. Le reazioni alla bozza Mit con le modifiche al nuovo codice verso la consultazione.

Promosso, ma con riserva. Dopo la prima informativa di venerdì scorso in Consiglio dei ministri, il decreto correttivo del Codice appalti ha incassato una lunga sequenza di reazioni di imprese e progettisti. E la notizia è che, nonostante la bozza sia stata costruita con il criterio del massimo ascolto possibile del mercato, gli operatori non hanno risposto solo con un coro di assensi. Anzi. Se molti elementi sono piaciuti, almeno altrettanti sono finiti nel mirino e sono già oggetto di richieste di correzione. Così, la consultazione che il Governo sta per aprire non si preannuncia come un passaggio indolore: sulla Cabina di regia di Palazzo Chigi pioveranno parecchie obiezioni. E il testo che andrà in Cdm all’esito di questa fase potrebbe risultare parecchio modificato rispetto alla prima bozza.
I costruttori dell’Ance, per il tramite del presidente Gabriele Buia, mostrano di apprezzare il «grande lavoro» svolto dalle Infrastrutture, senza però nascondere che rimangono «alcuni punti critici». Tra le richieste quella di innalzare a 2,5 milioni il tetto per l’assegnazione degli appalti con il metodo antiturbativa per garantire trasparenza e semplificare l’assegnazione degli interventi meno complessi, oltre a e maggiore chiarezza sulle opere a scomputo. Resta inoltre da sciogliere il nodo del sorteggio delle imprese da invitare alle procedure negoziate senza bando, «che -sottolinea Buia- svilisce la qualificazione degli operatori e rende impossibile la programmazione dell'attività di impresa» .
I produttori di acciaio per le costruzioni rappresentati da Unicmi, tra cui i fabbricanti di barriere stradali, hanno scritto al ministro Delrio per contestare la scelta di escludere le manutenzioni dagli appalti che le concessionarie autostradali dovranno affidare per forza con gara. I gestori citati dal codice, ricorda l’associazione, «hanno ottenuto la concessione senza aver vinto una gara». Per questo «dovrebbero avere l’obbligo di affidare all’esterno il 100% dei contratti, senza neanche il limite dei 150.000 euro»
Gli impiantisti di Assistal e Cna impianti, dal canto loro, contestano gli interventi sul subappalto che «non fanno bene né alle imprese né alle stazioni appaltanti». Per il presidente di Assistal, Angelo Carlini le correzioni sul subappalto sono un ritorno al passato che «stravolge in maniera inaspettata il nuovo approccio alla regolazione del mercato che il Dlgs 50/2016 ha introdotto». Mentre per il presidente di Cna impianti, Carmine Battipaglia questa correzione è una «incredibile inversione di marcia» che «è immotivata ed in quanto tale incomprensibile».
I progettisti, invece, concordano sull’impatto positivo che avrà l’obbligo di utilizzare le tabelle del ministero della Giustizia per calcolare gli importi da porre a base delle loro gare. Ma contestano le novità sull’appalto integrato, l’affidamento contemporaneo di progetto e lavori. Lo dice il presidente dell’Oice (società di ingegneria), Gabriele Scicolone: «Le numerose deroghe che consentono l’appalto integrato sono un elemento del tutto negativo, di forte ambiguità per gli enti che da otto mesi lanciano gare di progettazione esecutiva le quali, a breve, porteranno a molti appalti di lavori. Ci appare un passo indietro troppo macroscopico».
Per il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Armando Zambrano le novità in tema di appalto integrato sono «in palese contrasto con la delega attribuita al Governo». Se fossero confermate, «sparirebbe uno dei principi cardine del nuovo Codice e cioè la distinzione tra progettazione ed esecuzione». Durante la consultazione il Cni chiederà al Governo di tornare indietro.
Perplessità sull’appalto integrato c’è anche tra gli architetti. Ma non solo, come spiega il loro vicepresidente Rino La Mendola: «Serviranno piccole modifiche per chiarire meglio le procedure di affidamento dei livelli successivi della progettazione al vincitore di un concorso e per ridurre l’impatto del cosiddetto accordo quadro sui servizi di architettura e ingegneria». In questo caso il pericolo è che lo strumento tagli fuori i piccoli professionisti.
Intanto, una novità di prossima applicazione (l’entrata in vigore è fissata al prossimo 28 febbraio) arriva dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto del ministero delle Infrastrutture sui requisiti per l’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura. Tra le altre cose, chiarisce la questione del contributo integrativo per le società di ingegneria: andrà regolarmente versato alla loro Cassa di riferimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIProgettisti, più spazio ai giovani. Presenza obbligatoria nei raggruppamenti di professionisti. Il decreto del Mit sulle società di ingegneria. Contributo integrativo del 4% a Inarcassa.
Obbligo di presenza di giovani professionisti nei raggruppamenti temporanei di progettisti che partecipano a gare pubbliche. Torna il contributo integrativo del 4% Inarcassa per le società tra professionisti e per le società di ingegneria. Nuovi obblighi di comunicazione di dati al casellario Anac. Presenza obbligatoria di un direttore tecnico per le società di ingegneria.
Queste alcune delle novità contenute nel decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti n. 263 del 02.12.2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 33 del 13.02.2017, che, in attuazione del nuovo Codice dei contratti pubblici (articolo 24), contiene il regolamento sui requisiti che devono possedere i professionisti e le società che si candidano per l'affidamento di servizi di ingegneria e architettura.
Le novità. Fra le novità va senz'altro segnalata la reintroduzione dell'onere del 4% di contributo integrativo a carico delle società tra professionisti e delle società di ingegneria (che dovranno esporlo in fattura). Una disposizione prevista dal 1998 e fino alla vigenza del decreto 163/2006.
Il contributo sarà dovuto sulle attività professionali prestate dalle società (tra professionisti e di ingegneria) «qualora previsto dalle norme legislative che regolano la Cassa di previdenza di categoria cui ciascun firmatario del progetto fa riferimento in forza dell'iscrizione obbligatoria» e sarà versato por quota alle singole Casse dei professionisti firmatari.
Giovani professionisti. Dal testo arriva anche un segnale forte a favore dei giovani professionisti. E' ripristinata, infatti, una disciplina che era stata abrogata ad aprile scorso: l'obbligo di prevedere la presenza, nell'ambito dei raggruppamenti temporanei di progettisti, di un giovane professionista (un laureato o un diplomato, abilitato da meno di cinque anni all'esercizio della professione e iscritto all'albo).
Dal punto di vista dei requisiti, il testo prevede che un professionista, singolo o associato, possa assumere incarichi se è laureato (se non è prevista la laurea è invece sufficiente il diploma, ad esempio il geometra), ha superato l'esame di Stato e se è iscritto all'albo professionale.
Le società tra professionisti devono invece predisporre un organigramma dei soci, amministratori, dipendenti e consulenti a partita Iva su base annua firmatari dei progetti o dei rapporti di verifica e facenti parte dell'ufficio di direzione lavori, con le indicazioni delle competenze e responsabilità dei singoli soggetti inseriti nell'organigramma.
Società di ingegneria. Più stringente e dettagliata, invece, la disciplina delle società di ingegneria che devono disporre di un direttore tecnico che interagisce sul piano tecnico e strategico con la società e che deve essere laureato in ingegneria o architettura o altra disciplina tecnica.
Le società di ingegneria devono anch'esse tenere un organigramma e comunicarlo all'Anac unitamente all'atto di nomina del direttore tecnico, all'atto costitutivo. Le società che svolgono attività diverse da quelle tecnico-professionali (esempio general contracting) devono comunicare il fatturato specifico concernente queste attività.
Importante notare che tutte queste informazioni, comunicate e inserite nel casellario dell'Anac confluiranno nella banca dati nazionale degli operatori economici e saranno utilizzate per la verifica dei requisiti e delle capacità economico- finanziarie e tecnico-organizzative di cui all'articolo 83, del Codice in sede di gara per gli affidamenti di servizi di architettura e di ingegneria (articolo ItaliaOggi del 15.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

LAVORI PUBBLICI: All’Adunanza plenaria alcune questioni sull’attestazione Soa in caso di cessione di ramo di azienda.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione – Cessione di ramo di azienda – In mancanza di nuova richiesta di Soa – Conseguenza – Effetti dell’accertamento effettuato dalla SOA – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Vanno rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni:
   a) se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza dell’attivazione del procedimento ivi contemplato (nuova richiesta di attestazione SOA), la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione, contemplate dalla disposizione, solo a quelle che, in quanto suscettibili di dare vita ad un nuovo soggetto e di sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il cessionario se ne sia definitivamente spogliato, ed invece esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle parti come trasferimento di “rami aziendali”, si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cedente di ottenere la qualificazione;
   b) se l’accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità (1).

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   (1) La Sezione ha dato atto dei contrasti giurisprudenziali insorti in ordine all’effetto della cessione di un ramo di azienda sui requisiti di qualificazione.
Una parte della giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 811, n. 812 e n. 813) ha affermato che, in mancanza dell’attivazione del procedimento previsto dall’art. 76, comma 11, d.P.R. n. 207 del 2010, la cessione del ramo d’azienda comporta, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione.
Altra parte della giurisprudenza (Cons. St., sez. V, 18.10.2016, n. 4347 e n. 4348) ha invece sostenuto che non merita condivisione la tesi secondo la quale ogni trasferimento di ramo aziendale comporta comunque, anche se il cedente non perde la consistenza che gli ha consentito di ottenere le attestazioni SOA, l’automatica decadenza dalla loro titolarità.
La Sezione -nel rimettere, a fronte di tale contrasto giurisprudenziale, la questione all’Adunanza plenaria- ha affermato di aderire all’orientamento espresso nelle sentenze della sez. V, secondo il quale non ogni trasferimento di ramo di azienda comporta, sempre e comunque, l’automatica decadenza dalla qualificazione, potendo tale conclusione essere sostenuta solo nell’ipotesi in cui il cedente abbia concretamente perso la consistenza aziendale che gli aveva consentito di ottenere le attestazioni SOA.
Nessun automatismo acquisitivo vige dunque per il cessionario.
La Sezione ha rimesso all’Adunanza Plenaria, anche la questione se, ai fini della conservazione della qualificazione SOA, possa assumere rilevanza l’attestazione successiva con cui l’organismo SOA accerti che, anche in seguito alla cessione di una parte del compendio aziendale, l’impresa cedente mantenga tutti i prescritti requisiti.
Al riguardo, una parte della giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 811, n. 812 e n. 813) ha sostenuto che, in caso di cessione di un ramo d’azienda, né il cedente né il cessionario potrebbero avvalersi della qualificazione posseduta dall’azienda ceduta, pur potendo richiederne una nuova. Ne deriverebbe la conseguenza che l’accertamento effettuato dalla SOA potrebbe valere solo per il futuro, senza alcuna idoneità “sanante” della perdita dell’attestazione, derivante automaticamente dalla cessione.
La Sezione ha affermato di non condividere questa tesi interpretativa, la quale potrebbe prestarsi a sospetti di incostituzionalità, nella misura in cui giunge ad equiparare irragionevolmente la situazione del cessionario a quella del cedente, trascurando di considerare che:
   a) il cessionario, in quanto soggetto nuovo, “nato” dalla cessione, è giustamente impedito nella spendita della qualificazione,con conseguente impossibilità di partecipare nelle more alle gare -trattandosi di un nuovo soggetto che intende qualificarsi sulla base di requisiti che prima oggettivamente non possedeva- sino a quando la SOA non abbia attestato che i requisiti acquistati siano in concreto sufficienti a conseguire la qualificazione;
   b) il cedente è invece un soggetto che possedeva i requisiti e che si presume continui a possederli sino a quando la SOA in sede di verifica non lo escluda, con il corollario che, ove invece la verifica confermi la permanenza dei requisiti, nessun dubbio dovrebbe porsi circa il diritto a spendere la qualificazione senza soluzione di continuità. L’accertamento in questa specifica ipotesi, seppur operato ex post, sostanzia -a differenza del caso del cessionario che aspira ad un quid novi- la conferma di una qualificazione già posseduta (Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 13.03.2017 n. 1152 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali: rimessione all’Adunanza plenaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Offerta al prezzo più basso – Taglio delle ali – Calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali – Criterio – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Vanno rimesse all’Adunanza plenaria le questioni se, quando il criterio dell’aggiudicazione è quello del prezzo più basso, ai fini del calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali:
   a) nel calcolo del 10% delle offerte aventi maggiore e/o minore ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, occorra computare tutte le offerte aventi medesimo valore (e, dunque, medesimo ribasso) singolarmente una ad una o, invece, quale unica offerta (c.d. blocco unitario), facendo detta disposizione riferimento, letteralmente, all’esclusione del 10% delle offerte aventi maggiore e minore ribasso e non dei singoli ribassi;
   b) la disposizione regolamentare dell’art. 121, comma 1, secondo periodo, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, nel prevedere che «qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’art. 86, comma 1, del Codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia», intenda o, comunque, presupponga che le offerte aventi eguale valore rispetto a quelle da accantonare siano considerate “accantonate” e accorpate come un’unica offerta o, invece, si limiti a prevedere solo che debbano essere escluse (“accantonate”) dal calcolo della soglia di anomalia le offerte che, pur non rientrando nella quota algebrica del 10%, abbiano tuttavia eguale valore rispetto a quelle da accantonare e cioè, per logica necessità, a quelle situate al margine estremo delle ali (c.d. offerte a cavallo) (1).

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   (1) Ha preliminarmente ricordato la Sezione che per individuare la soglia di anomalia oltre la quale le offerte sono considerate anormalmente basse nelle gare aggiudicate secondo il criterio del prezzo più basso, il legislatore ha prestabilito un meccanismo secondo cui, dopo l’ammissione delle offerte, sono previste le seguenti fasi:
   - il c.d. taglio delle ali e, cioè, un operazione aritmetica di accantonamento che comporta l’esclusione, dal successivo calcolo della soglia, del dieci per cento, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso;
   - il calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le residue offerte;
   - il calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che in tali offerte superano la predetta media;
   - la somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo scarto medio aritmetico, con la conseguente determinazione della soglia di anomalia.
L’art. 121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 ha ulteriormente precisato, nel primo periodo, che «ai fini della individuazione della soglia di anomalia di cui all’art. 86, comma 1, del Codice, le offerte aventi un uguale valore di ribasso sono prese distintamente nei loro singoli valori in considerazione sia per il calcolo della media aritmetica, sia per il calcolo dello scarto medio aritmetico» e, nel secondo periodo, che «qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’art. 86, comma 1, del Codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia».
Ha quindi affermato il Consiglio di Stato che mentre la prima parte della disposizione è chiara e non pare suscitare particolari dubbi interpretativi, nel senso che le offerte residue devono essere considerate singolarmente, «distintamente», una ad una, per calcolare sia la media aritmetica che lo scarto medio aritmetico, anche se alcune di esse presentino ribassi di eguale valore, meno chiara, invece, appare la formulazione della seconda parte dell’art. 121, comma 1, laddove prevede che, nell’effettuare il c.d. taglio delle ali e nell’escludere dal calcolo il 10% delle offerte aventi il maggiore e minore ribasso, qualora vi siano una o più offerte di eguale valore rispetto a quelle comprese nel 10%, anche dette offerte devono essere accantonate nel meccanismo di calcolo della soglia di anomalia.
La Sezione ha quindi affermato che sulla questione si sono registrati diversi orientamenti.
Secondo un primo orientamento (Cons. St., sez. V, 28.08.2014, n. 4429) di questo Consiglio, da ritenersi prevalente almeno fino al 2014, nel caso in cui siano state presentate due o più offerte, aventi la medesima riduzione percentuale, che si trovino nella fascia delle imprese rientranti nel 10%, ogni offerta deve essere considerata individualmente (c.d. criterio assoluto), perché la soluzione opposta comporterebbe il superamento del limite, fissato dal legislatore nel 10%, e si porrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, in assenza di ragioni sostenibili o ispirate all’interesse pubblico.
Non vi sarebbero elementi, secondo tale orientamento, dai quali possa desumersi, come regola generale, che in caso di offerte con identico ribasso le stesse vadano considerate unitariamente come unica entità (c.d. criterio relativo).
L’unica eccezione a questa regola viene desunta per le offerte che, nel calcolo per il taglio delle ali, vengono a trovarsi a cavallo della percentuale del 10% in quanto, secondo tale consolidato orientamento, si fonderebbe su due considerazioni:
   a) la ratio dell’esclusione, dal novero delle offerte prese in considerazione, di quelle collocate ai margini estremi dell’ala sta nell’intento di eliminare in radice l’influenza che possono avere, sulla media dei ribassi, offerte disancorate dai valori medi, in modo da scoraggiare la presentazione di offerte al solo fine di condizionare la media;
   b) nel caso in cui siano più di una le offerte che presentino la medesima percentuale di ribasso collocate a cavallo della soglia del dieci per cento e l’ampiezza dell’ala non consenta di escluderle tutte, non resta quindi altra strada che quella di attribuire alla parola «offerte» un significato non assoluto ma relativo, intendendola come espressione del ribasso percentuale in essa contenuto.
La presenza di più offerte che presentino la medesima percentuale di ribasso, collocate a cavallo della soglia del 10%, non può che comportare l’effetto giuridico della loro integrale esclusione dal computo delle successive operazioni. In tutti gli altri casi, per dato letterale inequivocabile, opera invece il c.d. criterio assoluto, con considerazione distinta e separata delle singole offerte, anche se aventi lo stesso ribasso, essendo stabilito in particolare, per quanto qui rileva, che la media aritmetica riguarda i ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse e non i ribassi in essi contenuti (Cons. St., sez. V, 15.10.2009, n. 6323).
Un secondo orientamento, più recente -sostenuto dall’allora Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nel parere n. 133 del 24.07.2013 e, poi, dall’ANAC nel parere n. 87 del 23.04.2014 e recepito, infine, dal Consiglio di Stato (sez. V, 08.06.2015, n. 2813; id., sez. IV, 29.02.2016, n. 818)– ha affermato che il “taglio delle ali” intercetta il problema delle offerte identiche in due situazioni e, precisamente, quando vi siano più offerte identiche all’interno delle ali e quanto vi siano più offerte identiche a cavallo delle ali.
Il primo aspetto è stato generalmente risolto (Cons. St., sez. V, 15.10.2009, n. 6323) con l’applicazione del criterio assoluto e il secondo con l’applicazione del criterio assoluto, ritenendosi che all’interno delle ali le offerte debbano essere considerate e computate nella loro individualità, indipendentemente dalla natura dei ribassi, in quanto la disposizione fa riferimento alle offerte e non al valore delle stesse, con l’unica deroga, che pure si è vista, delle offerte identiche situate a cavallo del 10%, che devono essere considerate come un’unica offerta (criterio relativo), per evitare una contraddizioni logica e, cioè, che un ribasso venga accantonato, in quanto fuorviante, ma contemporaneamente sia utilizzato per il calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico perché inserito, identico, in un’altra offerta che fuoriesce dal numero di quelle da accantonare.
Una volta ammesso, però, che il tenore letterale dell’art. 86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 possa essere superato in via interpretativa per le offerte a cavallo delle ali, non vi sono ragioni, secondo l’ANAC, per non applicare lo stesso metodo al caso delle offerte che rimangono interne alle ali. Identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso, accorpando le offerte con valori identici, consente, nella fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo dai ribassi effettivamente marginali, definiti ex lege nel limite del 10%, superiore e inferiore, di oscillazione delle offerte.
Tale orientamento ha affermato che l’art. 121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in cui, nel secondo periodo, prevede che «qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia», ha affrontato espressamente il problema del taglio delle ali, specificando che le offerte identiche a quelle da accantonare (senza distinzione tra ribassi a cavallo o all’interno delle ali) devono essere parimenti accantonate, ciò che equivale a dire che le offerte identiche devono essere considerate, in questa fase, come un’offerta unica, mentre il primo periodo dell’art. 121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 al contrario, nel disciplinare il calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico, precisa che le offerte identiche sono prese in considerazione distintamente nei loro singoli valori.
In questo modo, secondo l’ANAC, per individuare le offerte da accantonare, si fa riferimento ai valori di ribasso, accorpando i valori identici, mentre nella fase successiva, calcolando la media aritmetica e lo scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte, anche quelle con valori identici, essendo ragionevole che, allorché sia stato circoscritto in modo rigoroso l’intervallo dei ribassi attendibili ai fini del calcolo della soglia di anomalia, alla definizione delle medie partecipino tutte le offerte non accantonate (parere n. 87 dell’08.05.2014).
Cons. St., sez. V, 08.06.2015, n. 2813 ha ritenuto le argomentazioni dell’Autorità più garantiste dell’interesse pubblico, prevenendo manipolazioni della gara e del suo esito, ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso.
Più in particolare, poi, il tradizionale orientamento è stato contestato e ritenuto, ormai, superato da una più recente pronuncia (Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 818), che ha fatto leva sulla considerazione che «in ogni caso le offerte identiche devono essere considerate ai suddetti fini come una offerta unica, essendo di carattere generale la finalità di evitare che identici ribassi (a cavallo e all’interno delle ali) limitino l’utilità dell’accantonamento e amplino eccessivamente la base di calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico, rendendo inaffidabili i risultati» (parere n. 133 del 02.08.2013).
Nella ipotesi in cui, all’interno dell’ala, si collochi una offerta con un determinato ribasso (che, per rientrare nel 10%, è già ritenuta dal legislatore “inaffidabile”) appare evidente, secondo tale pronuncia, che tutte le eventuali offerte di identico ribasso –sia collocate individualmente nell’ambito del 10% del numero delle offerte complessivamente presentate, sia collocate al di fuori di un 10% così “individualmente” calcolato– debbano essere «accantonate» e, dunque, rese ininfluenti ai fini della soglia, considerandole come un’unica offerta.
E ciò in quanto, «onde pervenire ad un risultato affidabile della soglia di anomalia, non ha alcun senso considerare le offerte solo nella misura in cui, numericamente, saturino la percentuale del 10%, ma occorre anche considerare le offerte che –presentando un identico ribasso certamente non affidabile, per effetto dell’applicazione del criterio normativo primario (limite del 10%)– devono essere unitariamente considerate (che si trovino all’interno o a cavallo dell’ala)». Solo in questo modo il criterio del taglio delle ali consentirebbe di conseguire l’affidabilità del risultato.
D’altra parte, ha ancora osservato tale pronuncia, è appena il caso di notare che il legislatore, nel riferirsi alle offerte, solo apparentemente indica una offerta singolarmente intesa, a prescindere dal valore del ribasso che la caratterizza, poiché è proprio tale valore ciò che il legislatore in realtà considera, perché è solo tale valore (ove sproporzionato per eccesso o per difetto) ad essere inaffidabile (non l’offerta individualmente e formalmente considerata).
In tal senso, dunque, il 10% costituirebbe solo il limite numerico delle offerte il cui valore è giudicato inaffidabile, ma «poiché, come si è detto, inaffidabili sono i valori e non le offerte, è del tutto evidente che, in presenza di più offerte con identico valore, queste non possono essere intese che come unica offerta, a prescindere dalla loro collocazione (all’interno o a cavallo dell’ala)» (Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 13.03.2017 n. 1151 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIAi sensi dell’art. 52, co. 2, r.d. n. 2537/1925, “…le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Sicché, sul punto costituisce principio riconosciuto dalla giurisprudenza quello per il quale: “… la parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la totalità degli interventi concernenti immobili di interesse storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di intervento di edilizia civile che implichino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell'ambito delle attività di restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di immobili …”.

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Nel caso di specie, la locale Soprintendenza ha predeterminato in termini di assoluto dettaglio il modo di esercizio dell’opera, i materiali da utilizzare, i recuperi di materiali da effettuare, la modalità di allocazione dei veicoli da ospitare a parcheggio, ecc.
Orbene, a fronte di un progetto avente contenuto così analitico, che definisce in termini di esaustività ogni possibile profilo di tutela degli aspetti culturali dell’opera in progetto, è evidente che l’attività oggetto di gara si risolve in una mera ingegnerizzazione del progetto stesso, con conseguente esclusione di scelte che fuoriescano dalla ordinaria competenza di un ingegnere.
Pertanto, la tipologia dell’opera, per come compiutamente definita dalla locale Soprintendenza, rende del tutto irragionevole –e dunque illegittima– la limitazione della partecipazione ai soli iscritti all’Albo degli Architetti, e non anche a quelli iscritti all’Albo degli Ingegneri.
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... per l'annullamento:
- dell'Avviso pubblico bandito dal Comune di Martano per l'indagine di mercato per l'affidamento dei servizi professionali di progettazione definitiva ed esecutiva, direzione lavori e coordinamento della sicurezza nella fase progettuale ed esecutiva per la "riqualificazione di via Marconi e Via degli Uffici";
- di ogni altro atto connesso, presupposto e/o consequenziale, ivi compresi: il parere reso dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Brindisi, Lecce e Taranto in data 10/12/2015 - 24/11/2016 (prot. n. 0007486 CL 34.19.04/68), ricevuto dal Comune di Martano il 24/11/2016 (prot. d'arrivo 0016507 del 24/11/2016);
...
1. È impugnato l'Avviso pubblico bandito dal Comune di Martano per l'indagine di mercato per l'affidamento dei servizi professionali di progettazione definitiva ed esecutiva, direzione lavori e coordinamento della sicurezza nella fase progettuale ed esecutiva per la "riqualificazione di via Marconi e Via degli Uffici", nella parte in cui (art. 7) indica quale requisito di idoneità quello della “Iscrizione nell’Albo professionale degli Architetti, giusto decreto MiBAC del 29.12.2011”.
A sostegno del ricorso, i ricorrenti hanno articolato i seguenti motivi di gravame, appresso sintetizzati: violazione dell’art. 52 r.d. n. 2537/1925; eccesso di potere per errore, difetto di motivazione, contraddittorietà manifesta.
Nella camera di consiglio dell’08.03.2017, fissata per la discussione della domanda cautelare, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, ha definito il giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a..
2. Con un ampio e articolato motivo di gravame, deducono i ricorrenti l’illegittimità dell’atto impugnato, in quanto immotivatamente limitativo della possibilità, per gli iscritti all’Albo degli Ingegneri, di concorrere per l’aggiudicazione della gara in questione.
Il motivo è fondato.
2.2. Ai sensi dell’art. 52, co. 2, r.d. n. 2537/1925, “…le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Tale essendo la previsione normativa di riferimento, occorre ora indagarne la portata.
2.2. Sul punto, costituisce principio riconosciuto dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, nonché di questo stesso TAR, quello per il quale: “… la parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la totalità degli interventi concernenti immobili di interesse storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di intervento di edilizia civile che implichino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell'ambito delle attività di restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di immobili …” (C.d.S, VI, 09.01.2014, n. 21).
3. Tanto premesso, e venendo ora al caso di specie, vi è in atti Parere MIBAC 24.11.2016, con il quale la locale Soprintendenza ha predeterminato in termini di assoluto dettaglio il modo di esercizio dell’opera, i materiali da utilizzare, i recuperi di materiali da effettuare, la modalità di allocazione dei veicoli da ospitare a parcheggio, ecc.
Orbene, a fronte di un parere avente contenuto così analitico, che definisce in termini di esaustività ogni possibile profilo di tutela degli aspetti culturali dell’opera in progetto, è evidente che l’attività oggetto di gara si risolve in una mera ingegnerizzazione del progetto stesso, con conseguente esclusione di scelte che fuoriescano dalla ordinaria competenza di un ingegnere.
Pertanto, la tipologia dell’opera, per come compiutamente definita dalla locale Soprintendenza, rende del tutto irragionevole –e dunque illegittima– la limitazione della partecipazione ai soli iscritti all’Albo degli Architetti, e non anche a quelli iscritti all’Albo degli Ingegneri.
4. Per tali ragioni, il ricorso è fondato.
Ne consegue l’annullamento dell’atto impugnato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 10.03.2017 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Impugnazione della disciplina di gara che prevede le modalità di assegnazione di un solo lotto in caso di offerta più conveniente per più lotti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Lotti – Offerta più conveniente presentata da uno stesso concorrente per entrambi i lotti - Affidamento - Modalità non prevista nel bando – Previsione, contenuta in una errata corrige del bando, di aggiudicare il lotto che determina la combinazione di punteggi più conveniente per la stazione appaltante – Impugnazione della errata corrige – Inammissibilità del ricorso.
Qualora la lex specialis di gara preveda l’assegnazione di uno solo dei due lotti in gara senza però indicare un criterio di aggiudicazione nel caso in cui uno stesso concorrente abbia presentato l’offerta più conveniente per entrambi i lotti, è inammissibile per carenza di interesse il ricorso con il quale detto concorrente impugna il bando e la successiva errata corrige dello stesso bando, che a fronte del delineato esito (la stessa concorrente classificata al primo posto in entrambi i lotti) prevede che sia assegnato il lotto che determina la combinazione di punteggi più conveniente per la stazione appaltante e non invece il lotto più conveniente per il concorrente, e ciò in quanto una volta espunta la clausola contestata non residuerebbe nella lex specialis di gara un diverso criterio in base al quale procedere, con la conseguenza che non sarebbe aggiudicabile nessuno die due lotti (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che non sarebbe neanche invocabile, a seguito di annullamento della errata corrige, l’applicabilità del chiarimento cronologicamente precedente poiché, a tacere del fatto che veniva posto nel nulla dalla successiva integrazione (il cui eventuale annullamento non ne determinerebbe comunque la riviviscenza), ai sensi della seconda parte del comma 3 dell’art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 il criterio in esame deve essere contenuto nella disciplina di gara (“Nei medesimi documenti di gara [le Stazioni appaltanti, ndr.] indicano …” con la conseguenza che, in assenza di una originaria previsione nella lex specialis, non può che procedersi con una espressa integrazione della stessa.
Integrazione che, introducendo elementi nuovi suscettibili di determinare una diversa formulazione delle offerte, richiede il ricorso alla procedura di cui all’art. 79, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016 che, in presenza di simili ipotesi, dispone che “le stazioni appaltanti prorogano i termini per la ricezione delle offerte in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie alla preparazione delle offerte nei casi seguenti: … b) se sono effettuate modifiche significative ai documenti di gara”.
Non vi è dubbio che un criterio incidente sulla individuazione dell’aggiudicatario in presenza di uno dei possibili esiti concorsuali non possa che considerarsi una modifica e/o integrazione significativa dei documenti di gara nei sensi di cui alla norma richiamata.
Ne deriva che l’eventuale annullamento della contestata integrazione non avrebbe potuto in ogni caso far rivivere il precedente chiarimento poiché, aderendo a tale tesi, si ammetterebbe l’astratta possibilità di aggirare l’illustrata disposizione normativa mediante integrazioni postume della lex specialis.
La Stazione appaltante, pertanto, in caso di accoglimento della domanda di parte ricorrente, si troverebbe nella condizione di non poter procedere all’aggiudicazione dei lotti causa l’assenza nei documenti di gara di uno specifico criterio applicabile la caso di specie (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 10.03.2017 n. 94 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia la possibilità di contemporanea partecipazione ad una stessa gara di diversi syndacates aderenti ai Lloyd’s of London con offerte sottoscritte da un’unica persona.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Gara – Partecipazione contemporanea di diversi syndacates aderenti ai Lloyd’s of London – Offerte sottoscritte da un’unica persona – Possibilità – Rimessione alla Corte di giustizia UE.
Va rimessa alla Corte di Giustizia dell'Unione europea la questione pregiudiziale se i principi sanciti dalla norme europee in materia di concorrenza, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, quali l’autonomia e la segretezza delle offerte, ostino ad una normativa nazionale, come interpretata dalla giurisprudenza, che ammette la contemporanea partecipazione a una medesima gara indetta da un’amministrazione aggiudicatrice di diversi syndacates aderenti ai Lloyd’s of London, le cui offerte siano state sottoscritte da un’unica persona, Rappresentante Generale per il Paese (1).

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   (1) La richiesta di rimessione alla Corte di giustizia si fonda sulla necessità di valutare la compatibilità, con i principi del diritto europeo e con gli artt. 101 e 102 TFUE dell’interpretazione, degli artt. 8 e 10 della Direttiva 73/239 CEE, dell’art. 32 della Direttiva 49/92/CEE, sostituiti dalla Direttiva 2009/138 CE, fatta propria dalla giurisprudenza amministrativa nazionale. Secondo tale interpretazione il Rappresentante Generale per l’Italia dei Lloyd’s of London (associazione riconosciuta di persone fisiche e giuridiche -members- che aderiscono ad essa singolarmente o in aggregazioni non costituenti associazioni –syndacates- e che, secondo la normativa interna del Regno Unito, operano nei vari Paesi mediante un unico Rappresentante Generale) può sottoscrivere la domanda di partecipazione e l’offerta economica di una pluralità di syndacates senza incorrere nella violazione dell’art. 38, comma 1, lett. m-quater, e comma 2, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, anch’esso di derivazione europea, in quanto attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.
Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza del giudice amministrativo (Tar Milano, sez. III, 29.09.1998, n. 2271; Tar Marche 26.04.2007 n. 649; Tar Umbria 09.02.2010, n. 60) ha ritenuto che la partecipazione a una stessa gara di più syndacates non implicasse la violazione dei principi posti dalle norme europee a presidio del principio di concorrenza, di cui costituiscono corollario i principi di autonomia e segretezza delle offerte. A sostegno di tale orientamento adottato le previsioni delle direttive applicabili alle fattispecie oggetto dei giudizi, tutte anteriori all’entrata in vigore della direttiva 2009/138/CE. In particolare, hanno richiamato la direttiva 73/239/CEE. L’art. 8 di tale direttiva, per quanto riguarda il Regno Unito, contemplava quale forma ammessa di impresa di assicurazione l’associazione di sottoscrittori denominata Lloyd’s.
Tali decisioni hanno, inoltre, evidenziato la previsione dell’art. 10 della stessa direttiva, che prevedeva esplicitamente che i sottoscrittori fossero rappresentati all’estero da un unico mandatario in ogni paese.
Questi principi sono stati confermati nella terza direttiva in materia di assicurazioni, la 92/49/CEE (Tar Milano, sez. III, 29.09.1998, n. 2271).
Da qui la conclusione secondo cui le norme europee contemplano espressamente i Lloyd’s of London, riconoscendoli quale istituzione diversa dagli assicuratori di tipo classico, nella quale i sottoscrittori sono costretti ad avvalersi di un unico rappresentante diverso in ogni Paese.
Ha ancora chiarito il Tar che la situazione a livello normativo non è sostanzialmente mutata con l’introduzione dell’ultima direttiva (2009/138/CE), che ha, anzi, ulteriormente precisato la necessità dell’indicazione del nominativo di una “...persona che sia dotata di poteri sufficienti ad impegnare nei confronti dei terzi l’impresa di assicurazione o, per quanto riguarda i Lloyd’s, i sottoscrittori interessati e a rappresentarla o a rappresentarli anche dinanzi alle autorità e agli organi giurisdizionali dello Stato membro ospitante («mandatario generale»)”.
La questione interpretativa che si rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea concerne la compatibilità della descritta normativa nazionale, come interpretata dalla giurisprudenza, con il principio di concorrenza che permea le norme dell’Unione Europea nella materia dell’affidamento dei contratti pubblici.
Ha osservato il Tar che le indicate norme della direttive sopra richiamate abilitano senz’altro i sottoscrittori dei Lloyd’s ad operare negli Stati dell’Unione Europea, mediante un unico Rappresentante Generale.
Ha tuttavia aggiunto il Tribunale che tali norme non sembrano implicare necessariamente che diversi syndacates aderenti ai Lloyd’s possano partecipare contemporaneamente a una medesima gara indetta da un’amministrazione aggiudicatrice.
Si deve certamente riconoscere che i vari syndacates operano in piena autonomia e in concorrenza fra di loro.
Occorre, però, tenere conto che i procedimenti di evidenza pubblica, cui partecipano in situazione di concorrenza una pluralità di soggetti economici, sono retti da norme imperative, rigidamente finalizzate al rispetto della par condicio competitorum.
In relazione ai procedimenti di evidenza pubblica, per la specificità degli interessi coinvolti, che devono trovare garanzia assoluta e oggettiva, deve ammettersi che la sottoscrizione da parte di una stessa persona di due o più offerte presentate da concorrenti diversi può determinare la compromissione dell’autonomia e della segretezza delle offerte stesse e ledere, perciò, il principio di concorrenza consacrato, tra l’altro, negli artt. 101 e 102 del TFUE (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, ordinanza 09.03.2017 n. 385 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Dichiarazione di impegno a costituire un Rti sottoscritto da soggetto non legittimato e valutazione della gravità di una condanna penale riportata dal concorrente.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese - Dichiarazione di impegno a costituire il Rti – Sottoscrizione di soggetto non legittimato – Ratifica – Inammissibilità.
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di ammissione – Condanna penale – Gravità – Valutazione della sola stazione appaltante – Motivazione – Quando occorre.
E’ inammissibile la ratifica della sottoscrizione della dichiarazione di impegno a costituire un raggruppamento temporaneo di imprese ai fini della partecipazione ad una gara per l’affidamento di un appalto servizi, da parte di un procuratore se la procura notarile a lui conferita è circoscritta alla firma di offerte e documenti relativi alla partecipazione alla procedure di gara su appalti di lavori e concessioni (1).
Nelle gare d'appalto la valutazione in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante nell'ambito dell'esercizio del potere discrezionale ad essa attribuito e deve essere effettuata mediante la disamina in concreto delle caratteristiche dell'appalto, del tipo di condanna, della natura e delle concrete modalità di commissione del reato; laddove l’Amministrazione non ritenga il precedente penale grave ovvero incisivo della moralità professionale del concorrente, non è tenuta ed esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale.
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   (1) Ha chiarito il Tar che l'art. 1399 cod. civ., nella parte in cui prevede la possibilità di ratifica del contratto concluso da un rappresentante senza averne i poteri o che ha agito eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è disposizione volta a regolare rapporti tra privati e non è estensibile alle gare ed ai contratti ad evidenza pubblica, settore nel quale operano norme dirette alla tutela di un interesse pubblico generale di sicura e preventiva riferibilità dell’offerta e del principio della par condicio, senza possibilità di esenzione dalla loro osservanza
Ha aggiunto il Tar che la sottoscrizione della dichiarazione di impegno a costituire il raggruppamento temporaneo e della domanda di partecipazione alla gara da parte di soggetto privo di potere non consente di imputare l’offerta alla persona giuridica.
La sottoscrizione dei documenti in argomento assolve all'ineludibile necessità di rapportare l'offerta al proponente e di impegnarlo nei confronti della stazione appaltante, cosicché alla sua mancanza non può supplirsi attraverso altre forme di riconducibilità dell'atto al suo autore. Pertanto, non è invocabile nel caso in esame il soccorso istruttorio, trattandosi di irregolarità essenziale attinente alla riconducibilità dell’offerta all’impresa mandante, la quale non ha sottoscritto validamente né la domanda di partecipazione né la dichiarazione di impegno a costituire l’a.t.i. ai fini della gara (
TAR Toscana, Sez. I, sentenza 09.03.2017 n. 363  - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Le censure in cui si articola il ricorso principale possono essere trattate congiuntamente, essendo connesse tra loro.
Con il primo mezzo l’istante lamenta il difetto di motivazione e deduce che le comunicazioni rese dai legali rappresentanti a seguito del trasferimento di ramo d’azienda, ai sensi dell’art. 116 del d.lgs. n. 163/2006, hanno valore di ratifica, idonea a sanare l’eventuale difetto di sottoscrizione; con la seconda censura la ricorrente lamenta l’illegittimità del mancato utilizzo dell’istituto del soccorso istruttorio ex artt. 46, comma 1-ter, e 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163/2006; con il terzo motivo la deducente fa leva su canoni interpretativi e circostanze di fatto che dovevano indurre a ritenere valida la sottoscrizione del procuratore Sa.St..
Le censure sono infondate.
Il contestato provvedimento di esclusione si richiama al precedente giurisprudenziale costituito dalla sentenza di questo TAR n. 871/2016 ed evidenzia che la domanda di partecipazione è stata formata da soggetto privo dei necessari poteri, coincidente con la persona cui faceva riferimento la controversia risolta dalla predetta sentenza (documenti n. 8 e 10 allegati al ricorso).
Infatti, la dichiarazione di impegno a costituire il raggruppamento temporaneo di imprese con Ma. ai fini della partecipazione alla gara de qua (avente ad oggetto il servizio di raccolta dei rifiuti) è stata sottoscritta, per conto della mandante CFT società cooperativa, dal signor Sa.St. quale procuratore, il quale ha anche firmato la domanda di partecipazione per conto della stessa CFT. Tuttavia, la procura notarile a lui conferita è circoscritta alla firma di offerte e documenti relativi alla partecipazione alla procedure di gara su appalti di lavori e concessioni, ovvero relativi a procedimenti selettivi cui è estranea la gara oggetto degli atti impugnati, riguardante l’appalto di servizi.
Orbene,
il chiaro tenore della predetta procura speciale esclude la possibilità di estenderne l’oggetto a gare (relative a servizi) del tipo di quella indetta da Ge. s.p.a.; inoltre, la natura di atto giuridico unilaterale avente forma scritta non consente di ricomprendervi un potere di rappresentanza non attribuito (Cons. Stato, V, 07.11.2016, n. 4645).
Non rilevano sul punto il conferimento di ramo d’azienda di CFT a Ge. s.r.l., le relative comunicazioni e la mancata opposizione della stazione appaltante al subentro, che non possono rilevare come ratifica.
Occorre infatti considerare che
il trasferimento di ramo d’azienda è avvenuto con atto del 29.03.2016, ovvero dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte previsto nel bando (08.02.2016, prorogato al 15.02.2016 in forza di avviso del 04.02.2016), allorquando si erano già verificati i presupposti di esclusione dalla gara e si era già cristallizzata la situazione risultante dai documenti prodotti dai concorrenti.
Inoltre,
la ratifica può riguardare il contratto stipulato dal falsus procurator, ma non l’offerta.
Invero, come evidenziato nella pronuncia richiamata nell’impugnata nota del 30.05.2016 (TAR Toscana, I, 19.05.2016, n. 871),
l'art. 1399 c.c., nella parte in cui prevede la possibilità di ratifica del contratto concluso da un rappresentante senza averne i poteri o che ha agito eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è disposizione volta a regolare rapporti tra privati e non è estensibile alle gare ed ai contratti ad evidenza pubblica, settore nel quale operano norme dirette alla tutela di un interesse pubblico generale di sicura e preventiva riferibilità dell’offerta e del principio della "par condicio", senza possibilità di esenzione dalla loro osservanza (Cons. Stato, sez. V, 17.12.2008 n. 6292, TAR Lazio, sez. II, 05.05.2014, n. 4643).
Pertanto, non può avere effetto sanante nemmeno l’atto di ratifica notarile del 21.06.2016, depositato in giudizio.
La sottoscrizione della dichiarazione di impegno a costituire il raggruppamento temporaneo e della domanda di partecipazione alla gara da parte di soggetto privo di potere non consente di imputare l’offerta alla persona giuridica.
La sottoscrizione dei documenti in argomento assolve all'ineludibile necessità di rapportare l'offerta al proponente (nel caso di specie, alla mandante CFT ed alla costituenda associazione temporanea di imprese) e di impegnarlo nei confronti della stazione appaltante, cosicché alla sua mancanza non può supplirsi attraverso altre forme di riconducibilità dell'atto al suo autore. Pertanto, non è invocabile nel caso in esame il soccorso istruttorio, trattandosi di irregolarità essenziale attinente alla riconducibilità dell’offerta all’impresa mandante CFT, la quale non ha sottoscritto validamente né la domanda di partecipazione né la dichiarazione di impegno a costituire l’a.t.i. ai fini della gara per l’affidamento dei servizi di raccolta differenziata dei rifiuti indetta da Ge. s.p.a. (documento n. 3 depositato in giudizio dai ricorrenti).
Non è applicabile alla fattispecie la possibilità di sanatoria prevista dall’invocato art. 46, comma 1-ter, del Codice dei contratti pubblici, la quale è testualmente riferita all’esistenza o al contenuto delle dichiarazioni di cui all’art. 38 dello stesso Codice. Peraltro, il soccorso istruttorio va contemperato con il principio della parità tra i concorrenti, anche alla luce dell’altrettanto generale principio dell'autoresponsabilità, per il quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione (Cons. Stato, V, 15.02.2016, n. 627; TAR Toscana, I, n. 871/2016).
Sussistono invece i presupposti di applicazione dell’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, secondo cui la stazione appaltante esclude i concorrenti nei casi di incertezza sulla provenienza dell'offerta.
Il ricorso principale deve quindi essere respinto.
...
3. Con la seconda censura aggiunta l’istante sostiene che la controinteressata doveva essere esclusa dalla gara, stante la condanna penale del suo legale rappresentante; aggiunge che è mancata la motivazione in ordine all’inidoneità del reato a determinare l’esclusione dalla procedura selettiva e che trattasi di illecito penale incidente sulla moralità professionale ex art. 38, comma 2, lett. c, del d.lgs. n. 163/2006, tale da comportare quindi l’estromissione.
Il rilievo non è condivisibile.
La predetta sentenza del giudice penale ha condannato il legale rappresentante dell’azienda ATI al pagamento di euro 300 di multa per fatti risalenti al 2008, costituiti dall’infortunio sul lavoro di un dipendente (che aveva riportato l’amputazione dell’apice del pollice di una mano), il quale infortunio, pur derivando da condotta di lavoro errata e imprudente del dipendente stesso, avrebbe potuto essere evitato con l’adozione, da parte dell’impresa, del sistema di protezione imposto per legge.
Ad esito dell’istanza ex art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006 presentata dalla ricorrente e dell’autocertificazione allegata al riguardo, in sede di gara, dalla controinteressata, la stazione appaltante ha chiesto chiarimenti (in data 05.08.2016), ed a fronte di tale richiesta la società cooperativa ATI ha fatto presente l’attuale conformità della flotta aziendale alle vigenti prescrizioni di legge sulla sicurezza ed ha precisato che la dotazione di mezzi e attrezzature da impiegare nell’appalto era in buona parte di nuova costruzione e appositamente allestita, e quindi “in regola con le più recenti disposizioni vigenti in materia” (documento n. 3 depositato in giudizio dall’aggiudicataria).
L’art. 38, comma 2, lett. c, del d.lgs. n. 163/2006 prevede l’esclusione dalla gara in caso di “reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale”.
Orbene,
nelle gare d'appalto la valutazione in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante nell'ambito dell'esercizio del potere discrezionale ad essa attribuito e deve essere effettuata mediante la disamina in concreto delle caratteristiche dell'appalto, del tipo di condanna, della natura e delle concrete modalità di commissione del reato.
Ad ogni modo, laddove l’Amministrazione non ritenga il precedente penale grave ovvero incisivo della moralità professionale del concorrente, non è tenuta ed esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale
(TAR Veneto, I, 01.09.2015, n. 953).
Nel caso di specie, considerato che l’infortunio si è verificato con il concorso di colpa del lavoratore leso e che la tenuità dell’illecito è dimostrata dalla tenuità della sanzione (300 euro di multa), appare ragionevole e immune da profili sintomatici di eccesso di potere la decisione di ammettere alla gara la società cooperativa ATI.
Secondo la ricorrente, la stazione appaltante deve motivare l’ammissione di un’impresa alla gara allorquando vi siano al riguardo contestazioni da parte di altri concorrenti.
Tale asserzione non è condivisibile, giacché l’unica contestazione riferita alla condanna subita dal legale rappresentante della società ATI è stata presentata (da Ma.) nella forma del preavviso di ricorso ex art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006 e, comunque, rileva l’oggettiva non gravità del reato commesso.
Nello stesso senso si poneva del resto la decisione del
l’Autorità Nazionale Anticorruzione, che con decisione del 28.04.2016, in relazione ad altre gare e per la diversa fattispecie dell’omessa indicazione della condanna penale in questione nell’autodichiarazione resa, ha convenuto sulla tenuità del reato de quo, dimostrata dal modesto importo della multa comminata e dalla acclarata imprudenza del lavoratore che aveva contravvenuto ad ogni regola di sicurezza (documento n. 4).
Peraltro, come visto,
la motivazione di non gravità del reato può risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale (TAR Lombardia, Milano, III, 03.11.2014, n. 2626).
4. La terza censura aggiunta si incentra sulla violazione dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 163/2006, in forza del quale devono essere escluse dalla gara coloro “che hanno commesso gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di sicurezza e a ogni altro obbligo derivante dai rapporti di lavoro, risultanti dai dati in possesso dell'Osservatorio”; secondo la ricorrente, inoltre, la stazione appaltante sarebbe incorsa, nell’ammettere la controinteressata alla gara senza valutare espressamente la riconducibilità del precedente penale al citato art. 38, lett. e), nel vizio di difetto di motivazione e di travisamento.
La doglianza è infondata, prestandosi alle stesse considerazioni espresse nella trattazione del precedente motivo.
La norma richiamata stabilisce, nella sua formulazione letterale, che,
ai fini dell’esclusione, non basta una qualsivoglia violazione delle norme di sicurezza ma occorre che la stessa sia grave. Al contrario, l’oggettiva esiguità dell’illecito, dimostrata dalla tenuità della pena e dal concorso di colpa del lavoratore infortunatosi, induce ad escludere la connotazione della gravità.
Trattasi, inoltre, di precedente penale che è stato preso in esame dalla stazione appaltante, la quale, alla luce delle circostanze in cui è avvenuto l’evento lesivo e forte anche di un precedente giudizio di irrilevanza espresso dall’Autorità Nazionale Anticorruzione in relazione ad altra gara, ha ammesso la controinteressata alla gara con valutazione che appare immune da profili di illogicità o travisamento.

Inoltre,
anche ai fini dell’applicazione del citato art. 38, lett. e), la motivazione di non gravità dell’infrazione può risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale.

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTILa violazione di circolari ministeriali non può costituire motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della violazione di legge; posto che esse non contengono norme di diritto, bensì mere disposizioni di indirizzo uniforme interno all'Amministrazione da cui promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di meri atti amministrativi non provvedimentali, e che escludono che esse possano fondare posizioni di diritto soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione stessa.
A questa regola non si sottraggono le circolari dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri discrezionali nella determinazione delle imposte dovute, regolata per legge), le quali non vincolano né i contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto, anch'esse esenti dal controllo di legittimità

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§ 3. Con il terzo motivo di ricorso ci si duole di violazione o falsa applicazione della circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 6/E del 06.02.2007, e dell'articolo 52 decreto legislativo 446/1997 (potestà regolamentare dei Comuni in materia di tributi locali); per avere la Commissione Tributaria Regionale ritenuto legittimo l'avviso di rettifica, nonostante che quest'ultimo -in violazione della circolare- si fosse basato, nella stima non di un fabbricato ma di un'area edificabile non urbanizzata, sui listini OMI, invece che sulle valutazioni rese dai Comuni a fini ICI.
La censura è inammissibile nella parte in cui intende far valere la violazione della circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 6/E del 06.02.2007; è invece infondata nella parte in cui deduce la violazione o falsa applicazione della disciplina legislativa in materia di determinazione del valore venale degli immobili e dei diritti reali immobiliari.
Per quanto concerne il primo aspetto, va qui riaffermato che la violazione di circolari ministeriali non può costituire motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della violazione di legge; posto che esse non contengono norme di diritto, bensì mere disposizioni di indirizzo uniforme interno all'Amministrazione da cui promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di meri atti amministrativi non provvedimentali, e che escludono che esse possano fondare posizioni di diritto soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione stessa. A questa regola non si sottraggono le circolari dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri discrezionali nella determinazione delle imposte dovute, regolata per legge), le quali non vincolano né i contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto, anch'esse esenti dal controllo di legittimità (Cass. n. 16612/2008; n. 11449/2005).
Né può omettersi di considerare come la stessa circolare qui invocata dai contribuenti comunque dettasse, nell'indicazione dei parametri valutativi di fabbricati e terreni edificabili, prescrizioni puramente indicative e non cogenti nemmeno per gli stessi uffici accertatori destinatari: "per le aree fabbricabili, gli uffici 'potranno' fare riferimento alle determinazioni di valore eventualmente adottate dai Comuni ..." (Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 08.03.2017 n. 5937).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione edilizia condizionata ad assunzione oneri manutenzione ordinaria e straordinaria.
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Edilizia – Permesso di costruire – Autorizzazione condizionata ad assunzione oneri manutenzione ordinaria e straordinaria – Illegittimità - Fattispecie.
E’ illegittimo il provvedimento comunale che sospende la definizione di un procedimento per il rilascio di una autorizzazione edilizia, richiesta per l’installazione di sbarre automatiche per regolamentare l’accesso alla proprietà condominiale della lottizzazione, subordinandolo all’assunzione, da parte del condominio, degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle reti di distribuzione idrica e raccolta fognaria all’interno delle strade private della lottizzazione, oltre agli oneri di raccolta dei rifiuti solidi urbani; le condizioni apposte per il rilascio dell’autorizzazione sono infatti contra legem perché in contrasto le disposizioni di legge vigenti in materia (art. 28, l. 17.08.1942, n. 1150) e perché nella specie le opere di urbanizzazione erano state cedute gratuitamente in favore del Comune il quale, dalla data di cessione, ne aveva assunto gli oneri di manutenzione (1).
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   (1) Il Tar ha osservato che ai sensi dell’art. 28, l. 17.08.1942, n. 1150 l’acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge, detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza, il sistema tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…), dunque, la loro proprietà necessariamente dev’essere del Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta.
La gestione di simili servizi deve quindi necessariamente essere garantita dall’ente locale vuoi con una gestione diretta, vuoi anche con la concessione, previa gara di appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo caso, con un appropriato disciplinare del servizio che, unitamente alla supervisione e controllo dell’ente concedente, assicuri una qualità delle prestazioni da rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Data la premessa, il Tar ha quindi accolto sia la domanda di annullamento del provvedimento di sospensione della definizione del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione edilizia, sia, per l’effetto, la domanda di accertamento dell’obbligo del Comune di assumere gli oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione presenti nel comparto in questione senza poter condizionare l’eventuale rilascio di titoli edilizi all’assunzione degli stessi da parte del condominio richiedente (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.03.2017 n. 168 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso si rivela anzitutto fondato con riguardo alla richiesta di annullamento del provvedimento col quale il Comune di Arbus ha sospeso la definizione del procedimento in attesa dell’attuazione della sentenza del TAR Sardegna n. 1336/2008 e dell’ottemperanza alle prescrizioni dell’autorizzazione n. 183/1998.
Ed invero la richiesta inoltrata all’ufficio comunale il 05.01.2009, è del tutto autonoma, anche per la diversa dislocazione territoriale delle sbarre, rispetto alla precedente sfociata nell’autorizzazione n. 183/1998, e non può non trovare, da parte dell’amministrazione comunale, una sua definizione conclusiva con la quale dovrà (anche) essere valutata, nel merito, l’accoglibilità dell’istanza stessa e la sua compatibilità con le esigenze pubblicistiche di accesso e transito pubblico nella rete viaria acquisita, per quanto si dirà appresso, al patrimonio comunale.
Il rilascio di detta autorizzazione non potrà, comunque, essere legittimamente subordinato a condizioni contra legem, non solo in contrasto col chiaro tenore letterale dell’atto consensuale stipulato tra le parti ma, prima ancora, con le disposizioni di legge vigenti in materia.
Ed invero il Condominio Co. è titolare dei diritti derivanti dal piano di lottizzazione Torre di Filimentorgiu in Arbus, Località Torre dei Corsari, oggetto della convenzione Rep. N. 434 registrata a Sanluri il 10.03.1975 al n. 408.
Per le opere di urbanizzazione previste nel Piano veniva prevista la cessione gratuita in favore del Comune di Arbus il quale, dalla data di cessione, ne assumeva gli oneri di manutenzione.
Dette opere venivano quindi realizzate e state positivamente collaudate dal tecnico incaricato dal Comune in data 19.06.1995.
Va precisato che la prevista cessione all’ente locale delle opere di urbanizzazione e degli oneri di manutenzione è del tutto conforme alle prescrizioni vigenti.
Quest’ultimo, infatti, deve gestire i pubblici servizi connessi alle opere di urbanizzazione esistenti (servizio viabilità, idrico, elettrico…) per le ragioni svolte nelle pronunce e condivise dal Collegio di questa Sezione: sentenze nn. 602/2013, 187/2010 e 880/2011 e ordinanza 316/2009.
Segnatamente con la sentenza n. 880/2011 la Sezione ha osservato che -ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942-
…l’acquisizione delle opere e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge nei termini sopra descritti, detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto necessario affinché possano poi concretamente operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione (che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti privati; in sostanza il sistema tende ad evitare che quelle opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore, quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale, all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla mano pubblica delle opere di urbanizzazione (e delle aree su cui esse insistono), secondo il regime del patrimonio indisponibile (perché destinato a pubblico servizio, secondo lo schema di cui all’art. 826, comma 3, del codice civile), è principio assolutamente consolidato in giurisprudenza
(ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 03.05.2011, n. 606; conformi TAR Puglia Bari, Sez. II, 01.07.2010, n. 2815; TAR Sardegna, Sez. II, 19.02.2010, n. 187 e Sez. II, 21.08.2009, n. 1464; TAR Venezia, sentenza n. 1373/2004; Consiglio Stato, Sez. V, 15.03.2001, n. 1514)…
”.
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…), dunque, la loro proprietà necessariamente dev’essere del Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta (cfr. in termini TAR Sardegna Sez. II, sentenza n. 990 del 2009).
La gestione di simili servizi deve quindi necessariamente essere garantita dall’ente locale vuoi con una gestione diretta, vuoi anche con la concessione, previa gara di appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo caso, con un appropriato disciplinare del servizio che, unitamente alla supervisione e controllo dell’ente concedente, assicuri una qualità delle prestazioni da rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Del resto sarebbe contraddittorio, se non addirittura paradossale, ritenere che l’ordinamento abbia dettato una precisa e rigorosa disciplina per la realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per l’erogazione dei servizi pubblici -con la previsione della necessità di un piano di lottizzazione ancorato a precise norme di legge e regolamentari quanto a contenuto e procedimento di approvazione- e abbia poi rimesso la gestione degli stessi alla assoluta discrezione di soggetti privati, così da lasciare i cittadini fruitori di detti servizi essenziali del tutto in balia dei gestori privati.
Nel caso di specie sussistono poi ulteriori aspetti che conducono all’inaccettabilità della tesi dell’assenza di un obbligo per lo stesso di assumersi l’onere di manutenzione delle opere di urbanizzazione.
Le opere di urbanizzazione del comprensorio, infatti, sono oramai entrate nel patrimonio del Comune per utilizzo pubblico delle stesse da oltre vent’anni, cosicché i danni derivanti dall’omessa o insufficiente manutenzione non potrebbero che gravare sullo stesso Comune.
Peraltro non si vede in base a quale titolo i ricorrenti potrebbero essere obbligati a sostenere gli oneri per la loro manutenzione, tenuto anche conto che non hanno alcuna quota di proprietà sulle stesse.
Per le suesposte considerazioni va quindi accolta la domanda di accertamento dell’obbligo del Comune di Arbus di assumere gli oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione presenti nel comparto in questione senza poter fondatamente condizionare l’eventuale rilascio di titoli edilizi all’assunzione degli stessi da parte del condominio richiedente.

COMPETENZE GESTIONALIAi sensi dell’art. 9 l. 26.10.1995, n. 447 spetta al sindaco e non ai dirigenti comunali, la competenza ad adottare ordinanze per il contenimento o l’abbattimento delle emissioni sonore, compresa l’inibotoria totale o parziale di determinate attività trattandosi di potere analogo a quello attribuito allo stesso sindaco dagli artt. 50 e 54 Tuel.
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... per l'annullamento dell'ordinanza comunale n. 62/16 di cessazione delle emissioni sonore prodotte dalle attività indagate generate nel pubblico esercizio ga.in.bi..
...
Con ricorso la Ga.ea. s.r.l. chiedeva di annullare l’ordinanza inquinamento acustico descritta in ricorso con cui veniva ordinato alla ricorrente la cessazione delle emissioni sonore prodotte dalle attività indagate, generate nel pubblico esercizio Ga.In.Bi., nonché di tutti gli atti presupposti indicati in ricorso.
Si costituiva il comune resistente chiedendo di rigettare il ricorso.
Il ricorso proposto deve trovare accoglimento come già evidenziato in sede di ordinanza cautelare emessa in corso di giudizio.
Come da prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai sensi dell’art. 9 l. 26.10.1995, n. 447 spetta al sindaco e non ai dirigenti comunali, la competenza ad adottare ordinanze per il contenimento o l’abbattimento delle emissioni sonore, compresa l’inibotoria totale o parziale di determinate attività trattandosi di potere analogo a quello attribuito allo stesso sindaco dagli artt. 50 e 54 Tuel (cfr. Tar Venezia n. 377/2015; Tar Latina, 210/2014; Tar Torino 708/2013; Tar Potenza 156/2017). Deve infatti ritenersi che il provvedimento in questione non rientri tra i poteri ordinari di controllo in materia di inquinamento acustico ma consista in un provvedimento contingibile e urgente di competenza del sindaco.
Il vizio in questione ha carattere assorbente e comporta l’annullamento dell’atto, sono ovviamente salvi gli ulteriori atti della pubblica amministrazione relativi a differenti vizi o problematiche relativi alla gestione dell’attività (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 07.03.2017 n. 382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Danni causati da fauna selvatica.
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Giurisdizione – Fauna – Danni causati da fauna selvatica – Riparto di giurisdizione – Individuazione.
Nei casi di danni cagionati dalla fauna selvatica, attengono alla cognizione di diritti soggettivi e ricadono nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie tendenti ad ottenere alternativamente il risarcimento per responsabilità extracontrattuale sulla base del comportamento doloso o colposo della p.a. -ovvero l'indennizzo eventualmente stabilito con precisione dalla normativa applicabile– senza che sia consentito al responsabile alcun margine di valutazione discrezionale sull'an e/o sul quantum, mentre ricadono nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ad indennizzi rispetto al cui riconoscimento sia attribuito un potere discrezionale alla p.a., ancorché limitato al quantum (1).
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   (1) Cfr. Cass. civ., s.u., 29.11.2000, n. 1232.
Ha chiarito il Tar che l'indennizzo in favore dei proprietari di fondi danneggiati dalla fauna selvatica, nella disciplina posta dall'art. 7, l.reg. Sicilia n. 33 del 1997, ha natura di contributo indennitario, giacché, in mancanza anche di criteri predeterminati di liquidazione, sussiste un potere discrezionale dell'Amministrazione pubblica almeno con riguardo al quantum dell'indennizzo da erogare; ne consegue che la controversia inerente al riconoscimento ed alla liquidazione di detto indennizzo, ricollegandosi a interessi legittimi, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 06.03.2017 n. 444 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Indicazioni parti del servizio facenti capo a ciascuna impresa negli appalti servizi e possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai consorzi stabili.
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Contratti della pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Appalto servizi – Indicazioni parti del servizio facenti capo a ciascuna impresa – Obbligo – Corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione – Obbligo – Esclusione.
Contratti della pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Possesso - Consorzio stabile – Consorzio stabile che partecipa alla gara e non anche impresa consorziata indicata come esecutrice
Contratti della pubblica amministrazione – Offerta – Documento di identità – Allegazione – obbligo – Non sussiste.
A seguito della novella introdotta dall'art. 12, comma 8, del d.l. 28.03.2014, n. 47 sull’art. 37, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, negli appalti di servizi sussiste l'obbligo per le imprese raggruppate di indicare le parti del servizio facenti capo a ciascuna di esse, ma senza che possa essere preteso anche l'obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, restando fermo che ciascuna impresa va qualificata per la parte di prestazioni che s'impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara (1).
Nel caso in cui l’impresa concorrente abbia natura di consorzio stabile questa si pone direttamente in veste di parte contrattuale, con relativa assunzione in proprio di tutti gli obblighi e le responsabilità; ne consegue che i requisiti di partecipazione devono essere posseduti e verificati solo in capo al consorzio stabile che partecipa alla gara e non anche in capo all’impresa consorziata indicata come esecutrice, tanto più che, ricadendo la prestazione contrattuale direttamente sul consorzio, esso potrà anche provvedervi direttamente, senza essere vincolato alla originaria designazione (2).
In sede di gara pubblica non sussiste obbligo di allegare all’offerta il documento di identità del dichiarante (3).
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   (1) Cons. St., sez. V, 22.08.2016, n. 3666; id. 25.02.2016, n. 786. Ha chiarito Cons. St., sez. V, 28.10.2015, n. 4942, che per un verso, che, come chiarito dalla giurisprudenza, l’obbligo nel caso di raggruppamenti temporanei di impresa di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione non impone anche l’ulteriore parallelismo fra quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di esecuzione (Cons. St., A.P. 30.01.2014, n. 7) e per altro verso che la disposizione contenuta nel comma 13 dell’art. 37, d.lgs. n. 163 del 2006 (secondo cui i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento) è stata prima limitata ai soli appalti di lavori (ex art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla l. 07.08.2012, n. 135, norma in vigore al momento di pubblicazione del bando di gara) e poi successivamente abrogata dall’art. 12, comma 8, d.lgs. 28.03.2014, n. 47, convertito con modificazioni dalla l. 23.05.2014, n. 80.
   (2) Cons. St., sez. VI, 24.12.2009, n. 8720; id., sez. V, 29.11.2004. n. 7765; Tar Toscana, sez. I, 14.09.2014, n. 1409.
   (3) Ha chiarito il Tar che nelle procedure di evidenza pubblica è illegittima l'esclusione della ditta per mancata allegazione all'offerta economica di copia del documento di identità del sottoscrittore, poiché un tale obbligo non può essere imposto con riferimento a dichiarazioni di volontà negoziale quale è l'offerta economica, giacché esso attiene solo alle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre alla pubblica amministrazione (Cons. St., sez. V, 15.07.2014, n. 3712; id. 20.12.2013, n. 6125) (
TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.03.2017 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica del ricorso avverso il diniego di accesso ai controinteressati.
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Processo amministrativo – Accesso ai documenti – Diniego – Impugnazione – Controinteressati – Individuati dal ricorrente – Notifica – Omissione – Inammissibilità del ricorso
E’ inammissibile il ricorso proposto avverso il diniego di accesso ai documenti, espresso o tacito, che non sia stato notificato ad almeno un controinteressato, pur avendo il ricorrente individuato espressamente e nominativamente le persone fisiche alle quali la documentazione richiesta si riferisce (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il principio secondo cui non può essere dichiarato inammissibile il ricorso avverso il diniego di accesso non notificato al controinteressato ove questi non sia stato precedentemente reso edotto dall’amministrazione, attiene al caso in cui i controinteressati siano da individuare in coloro che, titolari del diritto alla riservatezza, sono in qualche modo chiamati in causa dal documento richiesto: in questo caso, infatti, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 12.04.2006, n. 184 è sull’amministrazione, “se individua soggetti controinteressati”, che incombe l’obbligo di coinvolgerli nel procedimento.
Diverso è invece il caso, come quello all’esame del Tar, in cui è lo stesso ricorrente che individua i soggetti potenzialmente lesi dall’ostensione dei dati richiesti e, quindi, controinteressati rispetto alla domanda di accesso, atteso che in subiecta materia la qualità di controinteressato è una proiezione del valore della riservatezza.
In altre parole, ove l’accesso sia potenzialmente lesivo di posizioni soggettive non specificabili a priori, e dunque conoscibili solo dall’amministrazione procedente, è su questa che incombe l’obbligo di individuare i controinteressati e provvedere alla notificazione prescritta dalla citata norma; ove invece di tali posizioni siano titolari determinati soggetti nominativamente indicati, ed anzi i documenti ai quali si chiede l’accesso sia specificamente relativo ad essi, la natura impugnatoria del giudizio, chiarita fin dall’Adunanza plenaria 24.06.1999, n. 16, lo sottopone alla generale disciplina del processo amministrativo, compreso l’obbligo di notifica ai sensi dell’art. 41 c.p.a. ad almeno uno dei controinteressati, dei quali è indubitabile il riferimento nella documentazione richiesta (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 06.03.2017 n. 75 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è inammissibile posto che il ricorso in esame è stato notificato esclusivamente all’Istituto di previdenza sociale.
L’art. 22 della Legge n. 241/1990 definisce specificatamente in materia di accesso i “controinteressati”, e cioè “tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”.
L’art. 116 del c.p.a. (“rito in materia di accesso ai documenti amministrativi”), a propria volta stabilisce al primo comma che “il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati”.
Nella fattispecie
la ricorrente, pur avendo individuato espressamente e nominativamente le persone fisiche alla cui documentazione pensionistica intenderebbe accedere, non ha provveduto alla notificazione del ricorso ad alcuno di questi, e ciò comporta l’inammissibilità del ricorso (cfr. Tar Lazio Roma, sez. II, 10.12.2015 n. 13582; idem sez. I-ter, 29.05.2015 n. 7685; Tar Campania Salerno, sez. II, 08.03.2012, n. 439).
E’ ben vero che qualificata giurisprudenza (per tutte, Cons. stato, IV, 26.08.2014, n. 4308) ritiene che non può essere dichiarato inammissibile il ricorso avverso il diniego di accesso non notificato al controinteressato ove questi non sia stato precedentemente reso edotto dall’amministrazione; peraltro, tale principio attiene al caso in cui i controinteressati siano da individuare in coloro che, titolari del diritto alla riservatezza, sono in qualche modo chiamati in causa dal documento richiesto: in questo caso, infatti, ai sensi dell'art. 3 comma 1, d.lgs. 12.04.2006 n. 184 è sull’amministrazione, “se individua soggetti controinteressati” che incombe l’obbligo di coinvolgerli nel procedimento.
Nella fattispecie in esame, invece, è la stessa ricorrente che individua i soggetti potenzialmente lesi dall’ostensione dei dati richiesti e, quindi, controinteressati rispetto alla domanda di accesso, atteso che in subiecta materia la qualità di controinteressato è una proiezione del valore della riservatezza.
In altre parole,
ove l’accesso sia potenzialmente lesivo di posizioni soggettive non specificabili a priori, e dunque conoscibili solo dall’amministrazione procedente, è su questa che incombe l’obbligo di individuare i controinteressati e provvedere alla notificazione prescritta dalla norma appena citata; ove invece, come nel caso in esame, di tali posizioni siano titolari determinati soggetti nominativamente indicati, ed anzi i documenti ai quali si chiede l’accesso sia specificamente relativo ad essi, la natura impugnatoria del giudizio, chiarita fin dall’Adunanza plenaria 24.06.1999, n. 16, lo sottopone alla generale disciplina del processo amministrativo, compreso l’obbligo di notifica ai sensi dell’art. 41 cod. proc. amm. ad almeno uno dei controinteressati, dei quali è indubitabile il riferimento nella documentazione richiesta.

ATTI AMMINISTRATIVINel procedimento amministrativo la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale in quanto la norma sancita dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Parimenti infondata è la doglianza riguardante il mancato preavviso di rigetto. Secondo la pacifica giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “Nel procedimento amministrativo la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale in quanto la norma sancita dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 28.06.2016, n. 2902 e 27.09.2016, n. 3948).
Nel caso di specie, pur trattandosi di atto discrezionale, è stata pienamente raggiunta tale prova, ostando la non completa urbanizzazione dell’area al rilascio del titolo edilizio desiderato in assenza di previa adozione del piano attuativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.03.2017 n. 1001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINon produce ex se l’illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 1, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
Difatti, la disposizione normativa contenuta nell’art. 21-octies rende irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell’atto per il fatto che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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9. Sul piano procedimentale, inoltre, deve ritenersi condivisibile quanto rilevato dal TAR di Roma nella sentenza impugnata in ordine all’omissione della comunicazione di preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990, tenuto conto che tale mancanza: “non produce ex se l’illegittimità del provvedimento finale, dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 1, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo. Difatti, la disposizione normativa contenuta nell’art. 21-octies rende irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell’atto per il fatto che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.03.2017 n. 1000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Errore materiale nella compilazione delle domande on-line di partecipazione ad un concorso.
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Concorso – Domanda di partecipazione – Presentazione on-line - Errore materiale nella compilazione della domanda – Rettifica – Esclusione – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di rettifica di una domanda di partecipazione ad un concorso (nella specie, per il reclutamento dei docenti), con conseguente preclusione alla stessa partecipazione, ove sia evidente l’errore materiale in cui è incorso l’interessato nella compilazione della domanda (1).
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   (1) Nella specie l’interessato aveva inserito nella domanda on-line un codice errato, corrispondente a quello di altra disciplina (A54: storia dell’arte), simile nel nome ma non nei contenuti a quella che si intendeva richiedere (A01-A17: arte e immagine nella scuola).
L’immediata evidenza dell’errore era data dalla non congruenza tra il titolo abilitante utilizzato per partecipare alla procedura (TFA), riferibile alla disciplina con codice A01-A17, e la classe richiesta (A54) nonché tra questa e le esperienze professionali indicate quali altri titoli valutabili.
Ha chiarito il Tar Napoli, nel motivare l’accoglimento del ricorso, che l’interessato era incorso in un errore c.d. ostativo consistente nella manifestazione di una volontà diversa da quella reale; tale errore, richiamando le categorie civilistiche, è da considerarsi, oltre che essenziale, riconoscibile per la descritta incoerenza tra il contenuto della domanda e la classe richiesta (art. 1428 e ss c.c.).
Ad avviso del Tar Napoli in presenza di simili dati di fatto l’amministrazione avrebbe senz’altro dovuto consentire la rettifica in conformità al principio di correttezza e di buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.), dovendosi privilegiare il principio del favor partecipationis nei concorsi pubblici in rapporto a errori meramente formali (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.03.2017 n. 1231 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Soccorso istruttorio in sede processuale: la carenza documentale dell’aggiudicataria non sempre porta all’annullamento dell’aggiudicazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Ratio.
Processo amministrativo – Rito appalti – Impugnazione dell’aggiudicazione per carenze della documentazione allegata all’offerta – Proposizione ricorso incidentale – Necessità – Esclusione – Deduzione difensiva diretta a dimostrare la sussistenza del possesso dei requisiti sostanziali di partecipazione – Sufficienza.
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Prima della aggiudicazione – Necessità.
Processo amministrativo – Rito appalti – Impugnazione dell’aggiudicazione per carenza documentale dell’offerta – Poteri del giudice – Violazione formale e non sostanziale – Verifica in giudizio dell’effettivo possesso del requisito – Conseguenza.
Processo amministrativo – Rito appalti – Impugnazione dell’aggiudicazione per carenza documentale dell’offerta – Violazione sostanziale e non formale – Conseguenza.
In sede di gara pubblica, l’istituto del soccorso istruttorio tende ad evitare che irregolarità e inadempimenti meramente estrinseci possano pregiudicare gli operatori economici più meritevoli, anche nell’interesse del seggio di gara, che potrebbe perdere l’opportunità di selezionare il concorrente migliore, per vizi procedimentali facilmente emendabili (1).
L’aggiudicataria di una gara pubblica, nei sui confronti è stata dedotta l’illegittima ammissione alla gara per carenze della documentazione allegata all’offerta, per poter validamente invocare in sede processuale il principio del soccorso istruttorio, al fine di paralizzare la doglianza diretta ad ottenere la sua esclusione dalla gara, non deve necessariamente proporre ricorso incidentale ma può limitarsi ad una deduzione difensiva, diretta a dimostrare, che, in ogni caso, sussiste il possesso dei requisiti sostanziali di partecipazione (2).
In sede di gara pubblica, se é vero che le irregolarità formali sono sempre sanabili, non può nondimeno sostenersi che l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 sia espressione di un principio per il quale la sostanza prevale sempre sulla forma, atteso che i difetti di forma (quelli essenziali) devono essere sempre emendati prima dell’aggiudicazione; ed invero, si tratta di irregolarità che pretendono e necessitano di un’obbligatoria sanatoria, in ciò differenziandosi dalle mere irregolarità contemplate dall’art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241, con la conseguente inapplicabilità nei giudizi sulle procedure di appalto della regola della “non annullabilità” del provvedimento irregolare, sulla quale si fonda il citato art. 21-octies (3).
In sede di gara pubblica, ove in giudizio sia dedotta l’illegittimità dell’aggiudicazione per carenza della produzione dell’aggiudicataria, il giudice amministrativo si può limitare ad accertare, all’esito del processo, i termini della dedotta irregolarità essenziale e, ove risulti provato che ad essa non si accompagni anche una carenza sostanziale del requisito (alla cui dimostrazione la documentazione omessa o irregolarmente prodotta era finalizzata), può dichiarare, alla luce della prognosi postuma fatta, che il vizio era sanabile e che l’offerente aveva interesse a sanarlo, previo pagamento della sanzione pecuniaria (4).
In sede di gara pubblica, l’illegittimità dell’aggiudicazione per carenza sostanziale della produzione dell’aggiudicataria dedotta in giudizio comporta l’annullamento dell’aggiudicazione; ove il giudice sia certo, in ragione della natura vincolata dell’accertamento, che il requisito non sussista, l’annullamento dell’aggiudicazione comporta l’accoglimento delle richieste del secondo graduato di subentrarvi, ma se le valutazioni che si richiedono dinanzi al dubbio sono invece connotate da discrezionalità, l’accoglimento del ricorso comporta l’annullamento dell’ammissione del concorrente, con la conseguente regressione del procedimento alla fase dell’invito alla regolarizzazione e delle pertinenti verifiche e valutazioni in sede amministrativa di quanto prodotto (5).
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   (1) V. anche analoga sentenza Cons. St., sez. III, 02.03.2017, n. 976.
La sentenza n. 975 del 2017 ha evidenziato come sia stata la giurisprudenza amministrativa a delineare la portata oggettiva e sistematica della disciplina del soccorso istruttorio, la quale, attuando nell’ordinamento nazionale un istituto del diritto europeo dei contratti pubblici a recepimento facoltativo, ha enfatizzato l’impostazione sostanzialistica delle procedure di affidamento.
La disciplina della procedura di gara non deve essere concepita come una sorta di corsa ad ostacoli fra adempimenti formali imposti agli operatori economici e all’amministrazione aggiudicatrice, ma deve mirare ad appurare, in modo efficiente, quale sia l’offerta migliore, nel rispetto delle regole di concorrenza, verificando la sussistenza dei requisiti tecnici, economici, morali e professionali dell’aggiudicatario.
   (2) Ha chiarito la Sezione che l’appellante è gravata dall’onere, ex art. 2697 c.c., della dimostrazione della natura meramente formale dell’errore contenuto nella dichiarazione: può validamente spendere tale argomento difensivo solo dimostrando in giudizio di disporre del requisito fin dal primo momento, e cioè da quando ha reso la dichiarazione irregolare.
In sostanza, secondo il Consiglio di Stato, deve superare la “prova di resistenza”, non potendo pretendere di paralizzare l’azione di annullamento, adducendo, solo in via ipotetica, la violazione del principio del soccorso istruttorio, ma deve dimostrare in giudizio che, ove fosse stato attivato, correttamente, tale rimedio l’esito sarebbe stato ad essa favorevole, disponendo del requisito in contestazione.
In caso contrario, non soltanto sarebbe violato il principio dell’onere della prova, che è immanente nel processo, ma verrebbe frustrata finanche la finalità di accelerazione che permea le controversie in materia di contratti pubblici.
   (3) Ad avviso della Sezione è questo ultimo passaggio che rende la disposizione contenuta nell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 diversa dall’art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241.
Ed invero, l’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 è espressione di un principio di irrilevanza, ai fini dell’annullamento (in sede giurisdizionale o amministrativa), delle violazioni di forma o di procedimento nell’emanazione di atti a contenuto vincolato quando esse non abbiano inciso sulla sostanza. Esso non richiede alcun procedimento di regolarizzazione poiché è la giusta regolazione autoritativa del rapporto a rilevare ai fini della legittimità.
L’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 ha invece diversa portata. Esso discrimina tra irregolarità essenziali e non essenziali e solo alle seconde implicitamente riserva una trattamento del tutto simile a quello previsto dall’art. 21-octies, sancendone l’irrilevanza ai fini della legittimità. Per le irregolarità che sono (sempre formali, ma) essenziali prevede invece, come sopra visto, un obbligatorio procedimento di sanatoria, ossia di produzione, integrazione, correzione, con effetto sanante.
Ciò si spiega per la circostanza che le procedure concorsuali, seppure chiaramente finalizzate alla scelta della migliore offerta o del miglior candidato, operano all’interno di un quadro di regole poste a garanzia della leale e trasparente competizione, che devono essere rispettate nei limiti in cui ragionevolmente assolvano alla funzione di dirigere la competizione verso il risultato finale, e non si risolvano piuttosto in mere prescrizioni formali prive di aggancio funzionale o in meri ostacoli burocratici da superare. È la competizione il discrimen rispetto alla generale ipotesi di cui all’art. 21-octies, ed essa giustifica l’esigenza del rispetto di regole di ingaggio certe e ragionevoli, pur se formali, ossia concernenti la produzione di documenti entro un certo termine a prescindere dai contenuti degli stessi.
In questa chiave di lettura, ha ancora chiarito il Consiglio di Stato, l’art. 38-bis, proteso verso il meritorio obiettivo di consentire sempre la scelta della migliore offerta, ha attenuato il rigore sanzionatorio delle regole formali di gara, imponendo all’amministrazione, ove sia rilevato una irregolarità comunque “essenziale”, di accettare la regolarizzazione in luogo dell’esclusione, sembra che avvenga in un termine dato ed inderogabile.
Concludendo sul problema relativo alla conseguenze in termini giuridici della irregolarità essenziali, può dirsi che esse sono irregolarità che pretendono e necessitano di un’obbligatoria sanatoria (ovviamente sempre che l’offerente abbia interesse a proseguire la gara), in ciò differenziandosi dalle mere irregolarità contemplate dall’art. 21-octies della legge generale sul procedimento, con la conseguente inapplicabilità nei giudizi sulle procedure di appalto della regola della “non annullabilità” del provvedimento irregolare, sulla quale si fonda l’art. 21-octies.
   (4) Ha preliminarmente chiarito il giudice di appello che la scelta sostanzialistica del legislatore, diretta ad impedire –con la previsione introdotta dall’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006- l’esclusione per vizi formali nella dichiarazione, quando vi è prova del possesso del requisito, deve applicarsi anche quando l’incompletezza della dichiarazione viene dedotta come motivo di impugnazione dell’aggiudicazione da parte di altra impresa partecipante alla selezione (non essendone avveduta la stazione appaltante in sede di gara), ma è provato che la concorrente fosse effettivamente in possesso del prescritto requisito soggettivo fin dall’inizio della procedura di gara e per tutto il suo svolgimento. In tale caso, infatti, l’irregolarità della dichiarazione si configura come vizio solo formale e non sostanziale, emendabile secondo l’obbligatoria procedura di soccorso istruttorio.
Dunque, a fronte di una carenza documentale dedotta in giudizio la conseguenza dovrebbe essere l’annullamento dell’aggiudicazione, in quanto conseguentemente viziata, sancendo, in via conformativa, la riedizione del procedimento, a partire dall’ultimo segmento valido.
La successiva correzione, o integrazione documentale della dichiarazione non viola affatto il principio della par condicio tra i concorrenti, in quanto essa mira ad attestare, correttamente, l’esistenza di circostanze preesistenti, riparando una incompletezza o irregolarità che la stazione appaltante, se avesse tempestivamente rilevato, avrebbe dovuto comunicare alla concorrente, attivando l’obbligatorio procedimento di soccorso istruttorio.
Né possono sussistere problematiche connesse alla segretezza delle offerte, in quanto la dichiarazione integrativa non attiene all’offerta, al suo contenuto tecnico ed economico, in relazione ad elementi oggetto di valutazione comparativa tra i concorrenti, ma al concreto possesso dei requisiti di partecipazione alla gara, i quali possono essere verificati anche in un momento successivo, fermo restano l’onere, per i partecipanti, di rispettare i vincoli minimi, di carattere formale, necessari per essere ammessi alla procedura selettiva.
L’esito demolitorio, in tali perentori termini, si rivelerebbe tuttavia contrario allo spirito che ha pervaso la novella dell’art. 38 ed all’impianto di fondo del nuovo processo amministrativo, nella parte in cui esso, alla luce del principio di effettività e satisfattività della tutela, consente al giudice: a) un pieno accesso al fatto; b) un pieno accesso al rapporto, quando il potere dell’amministrazione si presenti vincolato. A ciò deve aggiungersi la necessità di pervenire alla rapida definizione della corretta graduatoria della procedura selettiva, evitando defatiganti rinnovazioni di singoli segmenti dell’iter. E non v’è dubbio che l’accertamento della completezza documentale ai fini dell’ammissione alla gara sia il frutto di un’attività vincolata.
In tali casi il giudice amministrativo ben potrebbe “limitarsi” ad accertare, all’esito del processo, i termini della dedotta irregolarità essenziale e, ove risulti provato che ad essa non si accompagni anche una carenza sostanziale del requisito (alla cui dimostrazione la documentazione omessa o irregolarmente prodotta era finalizzata), dichiarare, alla luce della prognosi postuma fatta, che il vizio era sanabile e che l’offerente aveva interesse a sanarlo, previo pagamento della sanzione pecuniaria.
Un tale accertamento renderebbe inutile l’ulteriore pronuncia costitutiva deputata a privare d’effetto l’aggiudicazione, poiché l’ulteriore procedimento amministrativo che ne scaturirebbe non potrebbe che essere una mera riproduzione, in forma amministrativa, del percorso giudiziale già effettuato nel contraddittorio della parti sotto la supervisione del giudice così come descritto in sentenza. Nondimeno, l’accertamento conserverebbe una sua autonoma utilità, poiché è in grado di vincolare l’amministrazione, determinando, in virtù del connesso effetto conformativo, l’obbligo di ingiungere la sanzione.
Ad avviso della Sezione non osta in tale direzione né la mancanza di una esplicita domanda di accertamento da parte dell’appellante, posto che la domanda di annullamento implica sempre e necessariamente l’accertamento di una violazione, né la peculiarità della posizione giuridica dell’offerente, comunque ricompresa nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa, né il “dovere” di annullare l’atto quando il ricorso è accolto, come deducibile dall’art. 34, comma 1, lett. a), atteso che la medesima disposizione, al comma 3, espressamente prevede che “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.
Tale ultima norma è espressione di un principio per il quale: a) il mero accertamento rientra tra i poteri del giudice; b) la domanda di accertamento rientra implicitamente nel contenuto della domanda di annullamento, talché ove vengano meno i presupposti della seconda, perché non più utile, può rimanere in piedi la prima.
La norma deve ritenersi applicabile non solo nei casi di perdurante interesse risarcitorio, ma anche in tutti i casi in cui perdura un interesse qualificato e processualmente rilevante; e tale, invero, è da considerare l’interesse del ricorrente ad ottenere la sottoposizione del concorrente al procedimento di soccorso istruttorio e alla connessa sanzione pecuniaria.
   (5) La Sezione si è soffermata su quali siano gli strumenti per accertare che alla violazione delle forma si accompagni, o meno, anche una sostanziale carenza dei requisiti.
Ha chiarito che la sussistenza o meno del requisito -a differenza dell’accertamento della produzione o meno del documento che lo comprova- non è una valutazione necessariamente vincolata (si pensi solo per fare un esempio al concetto di “grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara”), ragion per cui, ove il giudice sia certo, in ragione della natura vincolata dell’accertamento, che il requisito non sussista, egli deve annullare l’aggiudicazione ed accogliere le richieste del secondo graduato di subentrarvi, ma se le valutazioni che si richiedono dinanzi al dubbio sono invece connotate da discrezionalità, la soluzione non può che essere l’annullamento dell’ammissione del concorrente, con la conseguente regressione del procedimento alla fase dell’invito alla regolarizzazione e delle pertinenti verifiche e valutazioni in sede amministrativa di quanto prodotto.
E’ invece da escludere la regressione del procedimento -limitatamente alla posizione dell’aggiudicatario- alla fase pregressa della regolarizzazione, con applicazione della sanzione pecuniaria e successiva verifica e valutazione da parte dell’amministrazione, se non sono emersi, neanche nel processo (stante la mancata produzione di qualsivoglia documento in grado di ingenerare discussione sui contenuti e sulla sostanza dei requisiti sottostanti la dichiarazione omessa) profili di approfondimento necessitanti di ulteriore delibazione in sede amministrativa.
In sintesi, l’aggiudicatario non ha sfruttato nel processo, attraverso le regole dell’onus probandi, le potenzialità di regolarizzazione (ossia di comprova tardiva dei requisiti) che la norma sul procedimento di cui all’art. 38, comma 2-bis, gli concedeva e che, in sede amministrativa, non si erano potute ab origine attivare a cagione del mancato rilievo da parte dell’amministrazione (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.03.2017 n. 975 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Immediata impugnazione dell’ammissione di due concorrenti per collegamento sostanziale.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione alla gara di imprese in collegamento sostanziale – Censura dedotta in sede di impugnazione dell’aggiudicazione - Art. 120, commi 2 bis e 6 bis, c.p.a. – Irricevibilità del ricorso.
E’ irricevibile il ricorso proposto avverso l’aggiudicazione di procedura negoziata con avviso di preinformazione, nel quale si censura l’omessa esclusione di due concorrenti in ragione della presunta sussistenza di un collegamento sostanziale, la cui ammissione, all'esito della fase di verifica della documentazione e della valutazione dei requisiti soggettivi, era stata regolarmente pubblicata sul profilo del committente alla sezione relativa a bandi di gara e contratti, come prescritto dal d.lgs. 14.03.2013, n. 33; trovando applicazione l’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a., introdotti dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, l’ammissione dei due ricorrenti avrebbe dovuto essere impugnata immediatamente e non unitamente all’aggiudicazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la previsione di un rito ad hoc per l’impugnativa dei provvedimenti di esclusione ed ammissione è evidentemente volta, nella sua ratio legis, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione (Cons. St., comm. spec., 01.04.2016, n. 855), poiché pone un onere di immediata impugnativa dei provvedimenti in esame, a pena di decadenza, non consentendo di far valere successivamente i vizi inerenti agli atti non impugnati.
In sostanza, una volta che la parte interessata non ha impugnato l’ammissione o l’esclusione non potrà più far valere i profili inerenti all’illegittimità di tali determinazioni con l’impugnativa dei successivi atti della procedura di gara, quale, come nel caso di specie, il provvedimento di aggiudicazione.
La norma oltre ad avere natura evidentemente processuale e quindi applicabile ad una controversia introdotta successivamente all’entrata in vigore (Tar Reggio Calabria 23.07.2016, n. 829) è regolata dalla contestuale operatività del meccanismo di pubblicazione specificamente previsto dall’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (pubblicazione delle esclusioni e delle ammissioni sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33) e in tal senso si è espresso anche Cons. St., sez III, 25.11.2016, n. 4994 che ha ritenuto inapplicabile il rito di cui ai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a. anche in ragione dell’inoperatività, in quella fattispecie, delle forme di immediata conoscenza previste dal codice del contratti (“In difetto del (contestuale) funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione –che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile- la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito”) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 02.03.2017 n. 420 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per mancato pareggio di bilancio nell’ultimo triennio.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per mancato pareggio di bilancio nell’ultimo triennio – Legittimità.
Non viola dell’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016 la decisione della stazione appaltante di escludere dalla gara per il servizio di ristorazione scolastica il concorrente per mancanza del requisito, previsto dal bando, del pareggio di bilancio nell’ultimo triennio (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che gli operatori economici interessati a partecipare alle gare pubbliche, oltre a non trovarsi in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d'attività, di amministrazione controllata o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista da leggi e regolamenti nazionali, devono possedere la capacità economica e finanziaria necessaria ad assicurare l’osservanza delle obbligazioni contrattuali.
Ha aggiunto che in un periodo economicamente critico, come quello attuale, in cui la solidità patrimoniale e finanziaria di molte aziende è messa seriamente in pericolo, non può prescindersi, a maggior ragione, da una puntuale e rigorosa verifica dello stato di salute delle imprese partecipanti alle gare di appalto pubbliche, in quanto accertamento funzionale allo svolgimento positivo degli appalti stessi e ciò a prescindere dalle capacità tecniche e professionali, che pure devono essere possedute.
La necessità di affidare il contratto a soggetti che dimostrino, tra le altre, anche la capacità economica e finanziaria idonea a garantire l'esecuzione delle prestazioni oggetto dello stesso costituisce, infatti, un fondamentale principio ricavabile dalla complessiva disciplina dell'affidamento di pubblici appalti e l’apertura al mercato e alla concorrenza non può mai spingersi sino al punto di compromettere o comunque mettere seriamente in pericolo la regolare esecuzione del contratto.
L’art. 83 del nuovo Codice dei contratti, come del resto già il previgente art. 41, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, peraltro, lascia la libertà alle stazioni appaltanti di individuare nella legge di gara gli indici di capacità economica più adatti, con il solo limite della “attinenza” e “proporzionalità” all’oggetto dell’appalto, nella ricerca di un costante bilanciamento con l’interesse pubblico “ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione” (vedi art. 83, comma 2).
Per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria, le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere, tra l’altro, che “gli operatori economici forniscano informazioni riguardo ai loro conti annuali che evidenzino in particolare i rapporti tra attività e passività” (art. 83, comma 4, lett. b) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 01.03.2017 n. 81 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il soccorso istruttorio non si applica alle carenze delle offerte.
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Contratti della pubblica amministrazione – Soccorso istruttoria – Carenze dell’offerta - Inapplicabilità del soccorso istruttorio.
L’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 esclude che l’istituto del soccorso istruttorio possa essere applicato per colmare le carenze dell’offerta tecnica (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il comma 9 dell’art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (secondo cui “Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica”) è differente da quella omologa di cui all’art. 46, comma 1-ter, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 secondo cui “1-ter. Le disposizioni di cui all'articolo 38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
La norma previgente, infatti, ammetteva il soccorso istruttorio anche rispetto all’offerta con l’unico limite costituito dalla previsione di cui all’art. 46, comma 1-bis, laddove, facendo riferimento all’”incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta”, escludeva la possibilità di sanare ex post mediante il soccorso istruttorio quelle mancanze, incompletezze o irregolarità dell’offerta che avessero determinato incertezza sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 28.02.2017 n. 145 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Criterio di valutazione delle offerte economicamente più vantaggiose e equipollenza del certificato di esecuzione lavori con il certificato di collaudo o di regolare esecuzione.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Commissione di gara - Fissazione di sub criteri – Possibilità – Introduzione di un criterio valutativo diverso – Esclusione – introduzione di sub criterio che sottende un nuovo criterio – Illegittimità.
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente più vantaggiosa - Valutazione – Criteri selettivi – Pubblicità – Necessità – Ratio.
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente più vantaggiosa - Valutazione – Criteri di valutazione – Individuazione – Prima dell’apertura delle buste contenenti le offerte.
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto lavori - Certificato di esecuzione lavori - Equipollenza ex art. 325, d.P.R. n. 270 del 2010 al certificato di collaudo o di regolare esecuzione richiesto ai fini dell'ammissione alla gara - Conseguenza.
La Commissione di gara può specificare, prima dell’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, il metodo di attribuzione dei singoli punteggi al fine di precisare il susseguente iter motivazionale ma non può introdurre un criterio valutativo diverso e ulteriore rispetto a quello previsto dalla lex specialis di gara anche se facendolo passare per un sub criterio.
Nelle procedure da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le amministrazioni devono enunciare i criteri di aggiudicazione da applicarsi nelle valutazioni delle offerte; in applicazione dei principi della par condicio e della trasparenza dell’azione amministrativa, tutti gli elementi da prendersi in considerazione per l’aggiudicazione della procedura, ed il peso assegnato per la valutazione, devono essere resi noti ai partecipanti al momento della presentazione delle offerte, non potendo la stazione appaltante applicare regole di ponderazione o sottocriteri che non siano stati preventivamente portati a conoscenza degli offerenti (1).
Nelle procedure da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la fissazione dei criteri selettivi di valutazione delle offerte deve sempre precedere l’apertura delle buste contenenti le offerte medesime ed essere effettuata in una fase anteriore alla conoscenza delle soluzioni proposte dai concorrenti (2).
Le specifiche dichiarazioni dei responsabili dei procedimenti delle stazioni appaltanti, in cui si attesta che “i lavori sono stati eseguiti regolarmente e con buon esito”, presuppongono l’avvenuto rilascio, da parte della commissione o della direzione lavori, dei certificati di collaudo o di regolare esecuzione, e non possono prescindere dal favorevole esito delle operazioni di controllo effettuate da detti organi, come si evince dall’art. 325 (“attestazione di regolare esecuzione”), d.P.R. 05.10.2010, n. 207, in cui è stabilito che l’attestazione di regolare esecuzione emessa dal direttore dell’esecuzione viene confermata dal responsabile del procedimento (3).
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   (1) Cons. St., sez. III, 01.02.2012, n. 514; id. 22.03.2011, n. 1749; Tar Milano, sez. I, 29.07.2009, n. 4551; deliberazione Anac n. 1264 del 2016.
   (2) Cons. St., sez. V, 20.04.2012, n. 2343; id. 18.08.2010, n. 5844; id., sez. VI, 16.11.2000, n. 6128.
   (3) Data la premessa il Tar ha affermato che la decisione dell’organo tecnico della stazione appaltante di non ammettere e di non valutare, ai fini del conseguimento del previsto punteggio, i certificati prodotti dalla ricorrente in quanto non corredati dai certificati di collaudo o di regolare esecuzione, costituisce l’esito di un’operazione interpretativa irragionevole e quindi illegittima, atteso il rapporto di presupposizione che connota la dichiarazione del responsabile del procedimento rispetto alle previe verifiche della commissione o della direzione lavori (
TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 28.02.2017 n. 71 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Scelta del criterio di selezione dell’offerta e obbligo di indicare gli oneri di sicurezza.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Criterio del minor prezzo – Art. 95, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 – Facoltà di scelta – Fattispecie in tema di servizio sopra soglia di prelievo, raccolta, evacuazione e smaltimento dei rifiuti sanitari).
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Criterio del minor prezzo – Scelta di tale criterio per selezionale l’offerta - Art. 95, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 – Motivazione – Obbligo.
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economica – Oneri di sicurezza – Indicazione - Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Necessità – Omissione – Esclusione dalla gara – Legittimità.
L’art. 95, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 individua i casi in cui la stazione appaltante “può” ricorrere al criterio del minor prezzo, rimettendo alla stessa quindi la facoltà della scelta; ciò a differenza di quanto previsto dal precedente comma 3, che invece individua i casi in cui si “deve” utilizzare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (nella specie (Nella specie si trattava di un servizio sopra soglia di prelievo, raccolta, evacuazione e smaltimento dei rifiuti sanitari) (1).
Ai sensi del comma 5 dell’art. 95, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la stazione appaltante che si avvale della facoltà, prevista dal precedente comma 4, di utilizzare il criterio del “minor prezzo” per selezionare l’offerta migliore, deve motivare le ragioni di tale scelta (2).
E’ legittima l’esclusione dalla gara, bandita in vigenza del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50, del concorrente che non ha indicato nella propria offerta, come prescritto dall’art. 95, comma 10, dello stesso Codice, gli oneri per la sicurezza c.d.. ‘interni o aziendali’ (3).
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   (1) Preliminarmente il Tar ha affermato che una parte della giurisprudenza (Tar Lazio, sez. III-ter, 13.12.2016, n. 12439), esaminando il rapporto tra i commi 3 e 4 dell’art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016, ha ritenuto che “l’unica interpretazione ammissibile, perché costituzionalmente orientata (tale cioè da evitare pur ipotizzabili profili di eccesso di delega), delle previsioni in esame appare essere quella che assegna portata autonoma, e natura inderogabile, al comma 3”.
Altra parte della giurisprudenza (Tar L’Aquila 13.01.2017, n. 30) ha ritenuto che i commi 3 e 4 si trovano in rapporto di complementarietà. Ha aggiunto che il comma 4 dell’art. 95 “prevede una deroga al sistema delineato dai commi 2 e 3 …, ammettendo il criterio del minor prezzo, tra l’altro, per l’affidamento di servizi e forniture di importo inferiore alla soglia di cui all’articolo 35, caratterizzati da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo”: con la conseguenza che, “qualora l’appalto rientri in uno dei casi di cui al quarto comma del citato art. 95 è aggiudicabile con il criterio del massimo ribasso”.
Ove, poi l’appalto presenti “entrambe le caratteristiche, nel senso che, in forza del suo oggetto, rientra tanto nell’ambito di applicazione del terzo comma, tanto nell’ambito di applicazione del quarto comma, la previsione di esclusività del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa cede il passo alla possibilità di aggiudicare l’appalto al massimo ribasso”.
Il Tar Reggio Calabria ritiene preferibile l’interpretazione che annette carattere specificamente derogatorio alla previsione di cui al comma 4 dell’art. 95, rispetto alla generale indicazione di cui al precedente comma 3. Ferma, infatti, la generalizzata applicabilità del criterio di selezione dell’offerta economicamente più vantaggiosa –di cui al comma 3– la percorribilità della diversa opzione di cui al successivo comma 4 potrà intervenire soltanto all’interno delle fattispecie in esso tassativamente delineate: altrimenti potendo venire in considerazione una generalizzata derogabilità che, evidentemente, non trova fondamento alcuno nella lettera e nella ratio legis.
   (2) V. sul Punto le Linee guida Anac n. 2 del 21.09.2016 (recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa") secondo cui incombe sull’Amministrazione l’obbligo di “dare adeguata motivazione della scelta effettuata ed esplicitare nel bando il criterio utilizzato per la selezione della migliore offerta (si pensi all’utilizzo di criteri di efficacia nel caso di approccio costo/efficacia anche con riferimento al costo del ciclo di vita). Nella motivazione le stazioni appaltanti, oltre ad argomentare sul ricorrere degli elementi alla base della deroga, devono dimostrare che attraverso il ricorso al minor prezzo non sia stato avvantaggiato un particolare fornitore, poiché ad esempio si sono considerate come standardizzate le caratteristiche del prodotto offerto dal singolo fornitore e non dall’insieme delle imprese presenti sul mercato”.
   (3) Ha ricordato il Tar che il comma 10 dell’art. 95, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, prescrive che “Nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”. La norma configura, dunque, un ineludibile obbligo legale da assolvere necessariamente già in sede di predisposizione dell’offerta economica (Tar Salerno 06.07.2016, n. 1604), proprio al fine di garantire la massima trasparenza dell’offerta economica nelle sue varie componenti, evitando che la stessa possa essere modificata ex post nelle sue componenti di costo, in sede di verifica dell’anomalia, con possibile alterazione dei costi della sicurezza al fine di rendere sostenibili e quindi giustificabili le voci di costo riferite alla fornitura del servizio o del bene.
Configurando tale dichiarazione un elemento essenziale dell’offerta economica non può ritenersi integrabile ex post mediante l’istituto del soccorso istruttorio e comporta l’esclusione dalla gara anche in assenza di una espressa sanzione prevista dalla legge o dal disciplinare (Tar Molise 09.12.2016, n. 513) (
TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 25.02.2017 n. 166 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn volume realizzato a copertura d'un fabbricato –che abbia natura e caratteristiche d'un sottotetto di per sé non abitabile e destinato a servire come minimo volume tecnico per copertura e isolamento dell'edificio- diventa una vera e propria mansarda, anche potenziale, quando è dotato di significativa altezza media rispetto al piano di gronda: nell'un caso, si ha un mero vano strumentale alla buona funzionalità dell'edificio, nell'altro, un vano avente una materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi.
Nella fattispecie, i sottotetti hanno un’altezza di 1,8 mt. nel punto più alto, hanno aperture verso l’esterno e sono indicati nello stesso progetto come lavanderie-stenditoi, di guisa che non possono essere considerati come meri volumi tecnici, essendo aree calpestabili e praticabili, a servizio dei costituendi condomini.

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Correttamente, il Comune computa nel calcolo dei volumi le parti di sottotetto che, pur non essendo adibite ad uso abitativo, non rientrano nella definizione di volumi tecnici.
Infatti, un volume realizzato a copertura d'un fabbricato –che abbia natura e caratteristiche d'un sottotetto di per sé non abitabile e destinato a servire come minimo volume tecnico per copertura e isolamento dell'edificio- diventa una vera e propria mansarda, anche potenziale, quando è dotato di significativa altezza media rispetto al piano di gronda: nell'un caso, si ha un mero vano strumentale alla buona funzionalità dell'edificio, nell'altro, un vano avente una materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi (cfr.: Cons. Stato IV, 28.06.2016 n. 2908; Tar Marche Ancona I, 05.01.2017 n. 17; Tar Lombardia Milano II, 16.06.2016 n. 1208).
Nella fattispecie, i sottotetti hanno un’altezza di 1,8 mt. nel punto più alto, hanno aperture verso l’esterno e sono indicati nello stesso progetto come lavanderie-stenditoi, di guisa che non possono essere considerati come meri volumi tecnici, essendo aree calpestabili e praticabili, a servizio dei costituendi condomini.
Tale evidenza relativa ai volumi dei sottotetti priva di rilievo la questione del calcolo delle altezze degli edifici (ritenuto errato dalla ricorrente), questione che, comunque, risentirebbe del fatto che i medesimi edifici progettati in variante sono ubicati lungo un pendio, quindi hanno altezze diverse a monte e a valle.
Ad ogni modo, sarebbe spettato alla ricorrente di provare che il calcolo delle altezze degli edifici, eseguito dal tecnico comunale, fosse errato e, per farlo, essa avrebbe dovuto produrre una perizia di parte o, quantomeno, chiedere l’esperimento della prova della consulenza tecnica d’ufficio (istanza istruttoria che, viceversa, essa non ha proposto).
Invero, il processo amministrativo è retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo (artt. 63 e ss. c.p.a.). La posizione di squilibrio informativo tra le parti pubbliche e private derivanti dalla circostanza che i documenti afferenti al procedimento amministrativo sono nella disponibilità della pubblica amministrazione giustifica il soccorso istruttorio del giudice amministrativo.
Tuttavia, la parte privata deve addurre, nei casi in cui si realizzano queste condizioni, un principio di prova sui cui si può innestare il potere officioso del giudice amministrativo. In mancanza di tali elementi probatori che la parte deve indicare, l'istruttoria si risolverebbe in una indagine esplorativa contraria alle regole che presiedono alla formazione della prova (cfr.: Cons. Stato VI, 27.09.2016 n. 3978; Tar Lazio Roma III, 29.10.2014, n. 10866) (TAR Molise, sentenza 24.02.2017 n. 76 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deroga alla disciplina statale della distanza tra fabbricati: la Consulta censura la legge del Veneto.
La deroga regionale alla disciplina della distanza minima tra fabbricati, realizzata dagli strumenti urbanistici, è legittima se fa riferimento ad una pluralità di fabbricati ed è fondata su previsioni planovolumetriche.
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La disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.

«
Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato».
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, «la disciplina che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
---------------

In questa cornice si è dunque affermato che «
alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio».
Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»− questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile», in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765.
Pertanto,
è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
In definitiva,
le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio», poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati».
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I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti,
ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
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Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque riconducibili a quella tipologia di atti menzionati nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che
la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi.
Ne consegue che
devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte.
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1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge della Regione Veneto 16.03.2015, n. 4 (Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di governo del territorio e di aree naturali protette regionali), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in riferimento all’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)» (d’ora in avanti TUE), che ammette deroghe al decreto del ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765).
Secondo il ricorrente, il citato art. 8, comma 1, della legge regionale del Veneto n. 4 del 2015, avrebbe demandato allo strumento urbanistico generale la fissazione dei limiti di densità, altezza e distanza tra fabbricati, in deroga a quelli stabiliti dall’ordinamento statale, in una serie di ipotesi elencate.
È censurato, in particolare, l’art. 8, comma 1, lettera a), della legge regionale, nella parte in cui stabilisce che lo strumento urbanistico generale possa derogare: «nei casi di cui all’articolo 17, comma 3, lettere a) e b), della legge regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, con riferimento ai limiti di distanza da rispettarsi all’interno degli ambiti dei piani urbanistici attuativi (PUA) e degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente». La disposizione contrasterebbe con l’art. 2-bis del TUE, in quanto gli strumenti per disporre le deroghe risulterebbero eccessivamente generici e indeterminati.
2.– Preliminarmente, va precisato che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto esclusivamente l’art. 8, comma 1, lettera a), che consente deroghe alla disciplina statale limitatamente al regime delle distanze. Il contenuto del ricorso impone, infatti, di ritenere che detta norma è stata impugnata solamente nella parte in cui deroga alla disciplina delle distanze; ciò, peraltro, in armonia con la deliberazione governativa di impugnazione della legge che fa espresso riferimento alla sola «norma contenuta nell’art. 8, comma 1, lettera a)».
3.– Non è fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto di interesse sollevata dalla Regione Veneto, motivata dall’identità di contenuto che la norma censurata avrebbe rispetto all’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004, disposizione quest’ultima mai impugnata da parte dello Stato. Nell’assunto della Regione, qualora la questione qui in esame fosse ritenuta fondata, l’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004 continuerebbe comunque ad essere vigente e a produrre effetti nell’ordinamento.
In senso opposto al rilievo addotto dalla Regione, va tuttavia ribadita l’inapplicabilità dell’istituto dell’acquiescenza ai giudizi in via principale atteso che la norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato (da ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
4.– Ciò premesso, la questione deve ritenersi parzialmente fondata nei termini precisati di seguito.
4.1.– Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
la disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.
«
Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato» (sentenza n. 232 del 2005).
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche– specifiche caratteristiche, «la disciplina che li riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio (si veda sempre la sentenza n. 232 del 2005).
In questa cornice si è dunque affermato che «
alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, da ultimo, anche le sentenze n. 231, n. 189, n. 185 e n. 178 del 2016).
4.2.–
Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»− questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto,
è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016).
In definitiva,
le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005).
4.3.–
I medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 189 del 2016).
4.4.–
La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
5.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai
piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque riconducibili a quella tipologia di atti menzionati nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che
la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che
devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (ex multis, sentenze n. 231, n. 189, n. 185, n. 178 del 2016 e n. 134 del 2014).
6.– Una tale conclusione non può essere estesa al riferimento che la norma censurata fa agli «interventi disciplinati puntualmente», corrispondente alla lettera b) del comma 3, dell’art. 17, della legge regionale n. 11 del 2004.
L’espressione utilizzata, infatti, appare in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica.
L’assenza di precise indicazioni, in particolare, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l’esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio; del resto, lo stesso riferimento alla puntualità che dovrebbe caratterizzarli si presta, sul piano semantico, a legittimare anche interventi diretti a singoli edifici, in aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte in precedenza.
Limitatamente ai suddetti interventi, dunque, va dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma censurata, perché legittima deroghe alla disciplina delle distanze tra fabbricati al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, in violazione del limite dell’ordinamento civile assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (da ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge della Regione Veneto 16.03.2015, n. 4 (Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di governo del territorio e di aree naturali protette regionali), limitatamente al riferimento alla lettera «b)» dell’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004 e alle parole «e degli ambiti degli interventi disciplinati puntualmente» (Corte Costituzionale, sentenza 24.02.2017 n. 41).

EDILIZIA PRIVATAValutazione dell'abuso edilizio - Autonoma rilevanza dei i singoli interventi edilizi - Esclusione - Conformità del manufatto a tutti i parametri legali - Controllo di legittimità dell'atto amministrativo - Artt. 3, 6, 22, 37 e 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Nella valutazione dell'abuso edilizio, non è consentito frazionare i singoli interventi edilizi al fine di dedurre la loro autonoma rilevanza, ma occorre verificare l'ammissibilità e la legalità alla luce della normativa vigente, dell'intervento complessivo realizzato (Sez. 3, n. 45598 del 13/11/2013).
Sicché, il provvedimento è sorretto da motivazione congrua laddove si accerti la conformità tra il fatto (opere eseguite e/o in corso di esecuzione) e la fattispecie legale, alla luce dell'interesse sostanziale protetto, quale la tutela dell'assetto del territorio in conformità alla normativa urbanistica, attraverso il controllo di legittimità di un atto amministrativo che costituisce un elemento costituito o presupposto del reato, così verificando la conformità del manufatto a tutti i parametri legali, fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici, oltre che dal provvedimento autorizzatorio (Cass. S.U. n. 11635 del 21/12/1993, P.M. in proc. Borgia) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8885 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di destinazione urbanistica ha portata meramente ricognitiva di situazioni di fatto e di diritto altrove definite e, come tale, è sfornito di ogni efficacia provvedimentale e, quindi, privo di concreta lesività, il che ne rende inammissibile l’autonoma impugnazione.
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3.2 E’, invece, inammissibile –come correttamente eccepito dalla difesa comunale– l’impugnazione del certificato di destinazione urbanistica prot. n. 49489, rilasciato dal Comune di Desio in data 21.12.2007.
Sul punto, è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale il certificato di destinazione urbanistica ha portata meramente ricognitiva di situazioni di fatto e di diritto altrove definite e, come tale, è sfornito di ogni efficacia provvedimentale e, quindi, privo di concreta lesività, il che ne rende inammissibile l’autonoma impugnazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04.02.2014, n. 505; TAR Lombardia Milano, Sez. I, 24.03.2016, n. 586; TAR Lazio, Latina, 22.05.2013, n. 482; TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 06.03.2012, n. 2241; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12.01.2010, n. 21)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nel caso in cui venga impugnata la prescrizione contenuta in un piano urbanistico, qualora nelle more del giudizio tale strumento sia interamente sostituito da un altro piano, non vi è più interesse a discutere sul precedente strumento, anche laddove il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata.
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4. Le domande di annullamento proposte con i ricorsi n. 2306 del 2009 e n. 3110 del 2012 sono invece ormai prive d’interesse per i ricorrenti.
Con tali ricorsi sono stati impugnati –rispettivamente– il PGT approvato dal Comune di Desio con deliberazione del Consiglio comunale n. 29 del 20.04.2009 e la variante parziale apportata al medesimo piano con deliberazione del Consiglio comunale n. 35 del 03.07.2012, unitamente agli atti presupposti alle predette deliberazioni.
Le previsioni pianificatorie censurate sono state, però, ormai sostituite dalla variante generale al PGT, approvata con deliberazione del Consiglio comunale n. 47 del 24.09.2014. E, per costante giurisprudenza, nel caso in cui venga impugnata la prescrizione contenuta in un piano urbanistico, qualora nelle more del giudizio tale strumento sia interamente sostituito da un altro piano, non vi è più interesse a discutere sul precedente strumento, anche laddove il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata (cfr., ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2004, n. 731; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.12.2015, n. 2640; Id., 29.10.2015, n. 2276).
Da ciò l’improcedibilità di tali domande
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono espressione di ampia discrezionalità. Si tratta, infatti, di scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
In questa prospettiva, le scelte urbanistiche non necessitano, di regola, di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano, salvo che ricorra una delle evenienze che, in conformità ai consolidati indirizzi della giurisprudenza, determinano un onere motivatorio più incisivo.
Tali evenienze sono state ravvisate:
   a) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi del titolo edilizio o di silenzio rifiuto su domanda di rilascio del permesso di costruire, ecc.;
   b) nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati;
   c) nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico effettui un sovradimensionamento delle aree destinate ad ospitare attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale (cd. aree standard), quantificandole in misura maggiore rispetto ai parametri minimi fissati dall’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 9, comma 3, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005.
Non costituisce, invece, posizione di affidamento tutelabile in sede giurisdizionale quella del soggetto che veda semplicemente assegnata alla sua area una disciplina peggiorativa rispetto a quella dettata dai previgenti atti di pianificazione.
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La giurisprudenza ha ormai chiarito che la nozione di naturale vocazione edificatoria può essere appropriatamente impiegata soltanto nel contesto delle vicende espropriative, mentre non si attaglia al diverso ambito della disciplina d’uso dei suoli, poiché –postulando la preesistenza di una edificabilità di fatto– contraddice la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell’amministrazione.
D’altro canto, è parimenti acclarato che “all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi”. E ciò in quanto “l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo”, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione.
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In tale prospettiva, deve pure ricordarsi che, per costante giurisprudenza, la destinazione di un'area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell'ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.

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Le osservazioni successive all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi dei cittadini, in funzione di interessi generali e non individuali, per cui l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove contrastino con gli interessi e le considerazioni generali sottese allo strumento urbanistico.
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5. Va quindi presa in esame l’impugnazione proposta con il ricorso R.G. n. 1171 del 2015, diretta contro la richiamata deliberazione del Consiglio comunale n. 47 del 24.09.2014, di approvazione della variante generale costituente il c.d. nuovo PGT di Desio.
5.1 Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti lamentano che la scelta di includere le aree delle ricorrenti negli “Spazi aperti ed agricoli – aa3 – Spazi aperti agricoli a compensazione ecologica - ambientale” contrasterebbe con la vocazione edificatoria del compendio immobiliare e sarebbe contraddittoria e lesiva dell’affidamento maturato dalle stesse società.
Le censure non possono essere accolte.
5.1.1 Per costante giurisprudenza, le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono espressione di ampia discrezionalità. Si tratta, infatti, di scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 22.05.2014, n. 2649; Id., 25.11.2013, n. 5589; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1281).
In questa prospettiva, le scelte urbanistiche non necessitano, di regola, di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano (Ad. plen., n. 24 del 1999), salvo che ricorra una delle evenienze che, in conformità ai consolidati indirizzi della giurisprudenza (più volte richiamati anche da questa Sezione; v., tra le ultime: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.09.2016, n. 1680; Id., 23.03.2015, n. 783; Id., 30.09.2014, n. 2404; Id., 22.07.2014, n. 1972), determinano un onere motivatorio più incisivo.
Tali evenienze sono state ravvisate:
   a) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi del titolo edilizio o di silenzio rifiuto su domanda di rilascio del permesso di costruire, ecc.;
   b) nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 01.10.2004, n. 6401; Id., 04.03.2003, n. 1197);
   c) nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico effettui un sovradimensionamento delle aree destinate ad ospitare attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale (cd. aree standard), quantificandole in misura maggiore rispetto ai parametri minimi fissati dall’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 9, comma 3, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 (cfr. Ad. plen. n. 24 del 1999; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.01.2011, n. 4).
Non costituisce, invece, posizione di affidamento tutelabile in sede giurisdizionale quella del soggetto che veda semplicemente assegnata alla sua area una disciplina peggiorativa rispetto a quella dettata dai previgenti atti di pianificazione (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 20.06.2012, n. 3571; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 30.09.2014, n. 2404; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 18.12.2013, n. 1143).
5.1.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, le ricorrenti affermano di essere titolari di un particolare affidamento, derivante dalla circostanza di non essere pervenute alla stipulazione della convenzione di lottizzazione con il Comune –sulla base del PRG vigente fino all’entrata in vigore del PGT del 2009– soltanto per ragioni ad esse non imputabili.
Occorre tuttavia rilevare che la posizione del soggetto che semplicemente aspiri a dare corso a una lottizzazione convenzionata non può essere equiparata a quella di chi sia pervenuto a regolare i propri rapporti con il Comune mediante una convenzione che ponga diritti e obblighi in capo alle parti. Le ragioni per le quali le trattative tra le parti non abbiano condotto alla stipulazione della convenzione possono infatti assumere rilevanza eventualmente, sussistendone i presupposti, al fine di fondare un titolo di responsabilità precontrattuale. Non può invece ammettersi –in coerenza con gli indirizzi giurisprudenziali sopra riportati– l’insorgere di un affidamento al mantenimento delle previsioni contenute nello strumento urbanistico generale in un momento antecedente all’accordo con il Comune finalizzato a darvi effettiva attuazione.
D’altro canto, non può non rilevarsi che, nel caso oggetto del presente giudizio, la stipulazione della convenzione non era imminente al momento della modifica delle previsioni di piano, non essendo stato ancora elaborato neppure il progetto di piano attuativo. Pertanto –a prescindere dalla valutazione delle ragioni di tale situazione di fatto– è da escludere in ogni caso che i ricorrenti potessero vantare un affidamento qualificato alla conservazione delle previsioni di trasformazione del suolo contenute nel previgente strumento urbanistico generale.
5.1.3 Deve, poi, rimarcarsi che nel caso di specie non è neppure ravvisabile la fattispecie del c.d. lotto intercluso.
Secondo quanto risulta agli atti del giudizio, le aree interessate non costituiscono –come affermato dalle ricorrenti– un fazzoletto di terra delimitato in parte dall’autostrada Pedemontana Lombarda e in parte da zone edificate. Si tratta invece di un compendio di superficie superiore a 5.000 mq, non intercluso all’interno del tessuto urbano consolidato, ma posto ai margini di questo.
5.1.4 In coerenza con i principi sopra esposti, va quindi esclusa la sussistenza di situazioni che imponevano al Comune un onere di motivazione rafforzata delle scelte inerenti alla destinazione delle aree delle ricorrenti.
5.1.5 Ciò posto, deve ancora evidenziarsi, in punto di fatto, che tali aree ricadono nell’ambito della rete verde di ricomposizione paesaggistica di cui all’articolo 31 delle Norme Tecniche di Attuazione del PTCP e, inoltre, sono interessate dal passaggio del Corridoio trasversale della rete verde, disciplinato dall’articolo 32 delle NTA del PTCP; corridoio consistente in una fascia di rispetto di rilevante ampiezza lungo il tracciato dell’autostrada, con finalità di compensazione ambientale.
Occorre poi aggiungere che il PGT di Desio del 2014 risulta essere ispirato chiaramente all’obiettivo di contenere il consumo del suolo e di indirizzare le politiche urbanistiche verso il recupero del patrimonio edilizio esistente. Tale finalità costituisce la direttrice che informa l’intero impianto del nuovo strumento urbanistico, come reso evidente dalla relazione illustrativa, la quale si apre –significativamente– con un paragrafo 1.1 intitolato “Desio non può più espandere l’urbanizzato” (v. doc. 1 del Comune, p. 14).
5.1.6 In un tale contesto, è da ritenere che la scelta del Comune di rendere inedificabili le aree delle ricorrenti non sia manifestamente arbitraria o irragionevole, ma si ponga in linea con gli obiettivi che l’Amministrazione ha inteso perseguire.
E, in questa prospettiva, non sono condivisibili le affermazioni delle ricorrenti, secondo le quali l’illegittimità delle previsioni dello strumento urbanistico deriverebbe dall’assenza di vocazione agricola e di profili di pregio ecologico e paesistico delle aree. La giurisprudenza ha infatti ormai chiarito che la nozione di naturale vocazione edificatoria può essere appropriatamente impiegata soltanto nel contesto delle vicende espropriative, mentre non si attaglia al diverso ambito della disciplina d’uso dei suoli, poiché –postulando la preesistenza di una edificabilità di fatto– contraddice la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell’amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
D’altro canto, è parimenti acclarato che “all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi” (così ancora Cons. Stato n. 6656 del 2012, cit.). E ciò in quanto “l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo”, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione (Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710; in termini analoghi, tra le tante: Id. 05.09.2016, n. 3806; Id., 25.05.2016, n. 2221; Id., 21.12.2012, n. 6656; Id., 28.11.2012, n. 6040; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 05.06.2014, n. 1465).
In tale prospettiva, deve pure ricordarsi che, per costante giurisprudenza, la destinazione di un'area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell'ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr, ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2013, n. 830; Id., 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 30.09.2016, n. 1766; Id., 11.12.2013, n. 2808; Id., 20.06.2012, n. 1720).
Nel caso di specie, l’interesse dell’area dal punto di vista ecologico e paesaggistico è stato, del resto, espressamente riconosciuto da Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, non impugnato dalle ricorrenti. A questo proposito, è poi utile aggiungere che la mera circostanza che le aree siano prossime a centri abitati e a un’importante arteria stradale di per sé non vale a escluderne la rilevanza dal punto di vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano anzi a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale. E, a ben vedere, proprio tale valutazione risulta essere sottesa alle previsioni del PGT relative alle aree delle ricorrenti, che sono state incluse, non a caso, tra quelle “di compensazione ecologica–ambientale”.
5.1.7 In definitiva, per le ragioni sin qui esposte, le censure articolate con il primo motivo di impugnazione vanno quindi respinte.
5.2 Parimenti infondate sono le doglianze proposte con il secondo motivo, ove le ricorrenti lamentano l’eccessiva genericità delle controdeduzioni comunali alla loro osservazione e sostengono, inoltre, che –contrariamente a quanto affermato dal Comune– l’inclusione dell’area nella rete verde di ricomposizione paesaggistica e nel corridoio ambientale non la renderebbe per ciò solo inedificabile.
5.2.1 Al riguardo, occorre ricordare che per costante giurisprudenza le osservazioni successive all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi dei cittadini, in funzione di interessi generali e non individuali, per cui l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove contrastino con gli interessi e le considerazioni generali sottese allo strumento urbanistico (cfr. ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 01.07.2014, n. 3294).
Nel caso di specie, l’osservazione tendente a ottenere il ripristino delle potenzialità edificatorie attribuite all’area delle ricorrenti dal PRG è stata respinta evidenziando che l’area è all’esterno del tessuto urbano consolidato e ricade nella rete verde di ricomposizione paesaggistica e nel corridoio trasversale della rete verde. Da ciò la conclusione che –trattandosi di ambito non edificabile già nel PGT vigente alla data di entrata in vigore del nuovo strumento urbanistico– non fosse consentito prevedere alcuna forma di consumo di suolo (doc. 26 delle ricorrenti).
Si tratta di una motivazione per nulla generica o apodittica, né –tanto meno– errata. L’Amministrazione ha infatti rigettato la richiesta di modifica della disciplina del compendio rinviando alle prescrizioni contenute nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, che hanno imposto un regime di particolare tutela in relazione alle aree delle ricorrenti. E se è vero che gli articoli 31 e 32 del PTCP non escludono in modo assoluto l’edificazione, ma la consentono in alcuni limitati casi, è pure vero che tali fattispecie non risultano essersi verificate nel caso in esame. Il Comune ha infatti evidenziato –come detto– che il compendio era già inedificabile in base alle previsioni previgenti al nuovo PGT, per cui la possibilità di reintrodurre una destinazione edificatoria non è stata salvaguardata dalla disciplina della rete verde contenuta nel PTCP.
Quanto alla porzione inclusa nel Corridoio trasversale della rete verde, è la stessa parte ricorrente a evidenziare che la trasformazione edificatoria potrebbe essere consentita nei soli casi e modi previsti dall’articolo 32 del PTCP, che in ogni caso richiede un apposito accordo tra Comune e Provincia. Tale accordo nella specie non è intercorso, né il Comune poteva ritenersi onerato a perseguirlo.
5.2.2 Non risulta, infine, comprovato il lamentato difetto di istruttoria in relazione al recepimento delle previsioni del PTCP alla scala comunale. L’affermazione è infatti posta dalle ricorrenti in relazione alle allegate caratteristiche oggettive delle aree. Su tali caratteristiche, e sulla valutazione che è consentito operarne nel quadro delle scelte urbanistiche, valgono –tuttavia– le considerazioni sopra esposte, alle quali si rinvia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Secondo principi giurisprudenziali consolidati, "nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della domanda”.
Incombe, quindi, sulla parte danneggiata l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale: condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza.

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6. Occorre a questo punto prendere in esame le domande risarcitorie proposte con i ricorsi R.G. n. 537 del 2008, n. 3110 del 2012 e n. 1171 del 2015.
Tali domande sono dirette a ottenere il ristoro del danno consistente nell’impossibilità di dare corso alla lottizzazione delle aree sin dal 2005.
6.1 Al riguardo, occorre anzitutto ricordare che, secondo principi giurisprudenziali consolidati, e che il Collegio condivide, “nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti base costitutivi della domanda” (Cons. Stato, Sez. IV, 22.10.2015, n. 4823).
Incombe, quindi, sulla parte danneggiata l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale: condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza (Cons. Stato, Sez. IV, 31.12.2014, n. 6450).
7. Facendo applicazione di tali principi nel caso in esame, deve anzitutto rilevarsi che il rigetto nel merito dell’impugnazione del PGT del 2015 fa venir meno ogni profilo di antigiuridicità del pregiudizio che le ricorrenti possono aver subito a far data dall’entrata in vigore del nuovo strumento urbanistico.
8. Per ciò che attiene al periodo precedente –in relazione al quale le censure proposte con i diversi ricorsi sono in parte irricevibili, in parte inammissibili e in parte improcedibili, secondo quanto sopra detto– il Collegio esclude che vi sia un interesse delle parti ricorrenti allo scrutinio nel merito delle doglianze allegate, poiché le domande risarcitorie sono, in ogni caso, infondate. E ciò per mancanza di prova sia del nesso di causalità tra i provvedimenti impugnati e il pregiudizio allegato, sia della colpa dell’amministrazione.
9. Va, anzitutto, considerato il profilo attinente al nesso di causalità.
9.1 Al riguardo, deve osservarsi che la deliberazione del CIPE di approvazione del progetto preliminare dell’autostrada, impugnata con il primo ricorso, non ha impedito, di per sé, la realizzazione della lottizzazione prevista dal PRG. Tale circostanza è stata affermata già nella relazione del tecnico delle ricorrenti, datata 12.02.2008, depositata con il primo ricorso (v. doc. 9 nel ricorso R.G. n. 537 del 2008), ed è stata definitivamente comprovata a seguito del rilascio, da parte di CAL s.p.a., dell’attestazione di compatibilità tecnica della lottizzazione rispetto alla realizzazione dell’arteria stradale.
Ne deriva che non sussiste alcun rapporto di causalità tra tale provvedimento e il pregiudizio di cui si chiede il risarcimento. E’ quindi da escludersi in radice –per ammissione delle stesse ricorrenti– qualunque responsabilità delle Amministrazioni, diverse dal Comune di Desio, destinatarie della domanda risarcitoria proposta con il ricorso R.G. 537 del 2008, ed evocate in giudizio proprio in relazione alla richiamata delibera del CIPE.
9.2 E’, parimenti, da escludere qualunque efficienza causale nella determinazione del pregiudizio allegato anche del certificato di destinazione urbanistica, impugnato con lo stesso ricorso R.G. n. 537 del 2008. Come detto, si tratta di un atto di portata meramente ricognitiva, e di per sé non lesivo, per cui non può in esso rinvenirsi la fonte dell’impossibilità di realizzare l’intervento edificatorio.
9.3 Vanno, quindi, prese in esame –sempre dal punto di vista della prova del nesso di causalità– le previsioni del PGT del 2009 (che ha stabilito l’edificabilità residenziale nelle aree delle ricorrenti, ma con un indice inferiore rispetto al PRG, previo permesso di costruire convenzionato, e dunque senza necessità di piano attuativo) e quelle della variante parziale del 2012 (che ha reso le aree sostanzialmente inedificabili).
9.3.1 Al riguardo, il Collegio deve constatare che tali nuove determinazioni urbanistiche sono sopravvenute dopo un rilevante lasso di tempo dalla data in cui –nel dicembre del 2006– il Comune ha annullato l’asta bandita per la vendita della porzione di sua proprietà ricadente nel perimetro dell’ambito C15, con ciò precludendo la possibilità di elaborare il piano attuativo.
Le previsioni del 2009 e del 2012, pertanto, non costituiscono la causa da cui è dipesa l’impossibilità di dare corso alla lottizzazione, poiché la ragione prima che ha determinato tale impossibilità è da individuare proprio nella mancata alienazione della porzione di terreno di proprietà del Comune (o nella mancata partecipazione dello stesso Ente alla lottizzazione). E invero, anche laddove –accogliendo le osservazioni delle ricorrenti– l’Amministrazione avesse confermato o reintrodotto la disciplina urbanistica contenuta nel PRG, la lottizzazione non avrebbe potuto comunque essere realizzata, senza la cessione della porzione comunale.
9.3.2 Peraltro, le parti ricorrenti non hanno mai impugnato la determinazione comunale di annullamento dell’asta per la vendita del terreno. Né hanno agito in sede giurisdizionale nei confronti del Comune a tutela del loro interesse a ottenere il perfezionarsi delle condizioni necessarie per poter dare corso alla lottizzazione. Risulta, anzi, che esse abbiano atteso a lungo, pure dopo l’annullamento dell’asta, persino per richiedere il certificato di destinazione urbanistica, dal quale affermano di aver poi appreso dell’approvazione del progetto preliminare dell’autostrada.
9.4 In un tale contesto, deve perciò escludersi che il danno lamentato dalle parti ricorrenti sia stato causalmente determinato dai provvedimenti impugnati, essendo invece riconducibile ad atti che non sono stati censurati nel presente giudizio e, in parte, all’inattività degli stessi soggetti interessati.
10. Sotto altro profilo, e pure laddove si volesse ritenere che le domande risarcitorie siano dirette a censurare il comportamento comunale in un’ottica complessiva, anche in relazione a profili inerenti al mancato esercizio di attività amministrativa ritenuta doverosa dalle parti ricorrenti, va poi rilevata comunque la mancanza di prova della colpa del Comune.
Secondo i ricorrenti, l’elemento soggettivo dell’illecito sarebbe da riscontrare nell’allegata ostinazione con la quale l’Amministrazione si sarebbe ingiustificatamente opposta alla realizzazione della lottizzazione.
Al riguardo, deve però rilevarsi che, all’epoca della promozione dei primi due contenziosi, il Comune si trovava ad operare in una situazione in cui non era ancora compiutamente definito l’assetto della viabilità dell’autostrada: ciò poteva giustificare l’assunzione di una condotta prudenzialmente attendista nell’assumere scelte definitive inerenti all’assetto del proprio territorio, e comunque vale ad escludere la colpa dell’Amministrazione nell’essersi così determinata.
Quanto, poi, alla scelta, successivamente assunta con la variante del 2012, di assegnare alle aree destinazioni che precludevano l’edificazione, tale determinazione risulta orientata –come quella alla base del PGT del 2015– al perseguimento di finalità di contenimento del consumo del suolo, in un contesto ordinamentale che sempre più indirizza gli enti locali verso tale obiettivo. Anche in questo caso, non trova perciò riscontro l’affermata opposizione immotivata all’iniziativa economica delle ricorrenti.
11. In definitiva, per tutte le ragioni sin qui esposte, le domande risarcitorie devono essere respinte
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall’Amministrazione nell’adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso.
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L’esistenza di una precedente e diversa previsione urbanistica non comporta per l’Amministrazione la necessità di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti scelte operate, anche quando queste siano nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative, dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo all’interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie intendono perseguire.
Più in particolare, la mera esistenza, nella pianificazione previgente, di una destinazione urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza sufficiente a fondare in capo a quest’ultimo quell’aspettativa qualificata la cui sussistenza imporrebbe all’Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano.
Del resto, già da tempo è stato chiarito che costituisce affidamento generico quello relativo alla non reformatio in pejus di precedenti previsioni urbanistiche (anche se di piano particolareggiato), con nuove previsioni che non consentono una più proficua utilizzazione dell’area, con la conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche rispetto a quelle che possono agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento urbanistico.

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In linea generale, pare opportuno osservare che, per giurisprudenza consolidata, le scelte effettuate dall’Amministrazione nell’adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso (ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 14.05.2015 n. 2453).
Inoltre, l’esistenza di una precedente e diversa previsione urbanistica non comporta per l’Amministrazione la necessità di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti scelte operate, anche quando queste siano nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative, dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo all’interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie intendono perseguire; più in particolare, la mera esistenza, nella pianificazione previgente, di una destinazione urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza sufficiente a fondare in capo a quest’ultimo quell’aspettativa qualificata la cui sussistenza imporrebbe all’Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano.
Del resto, già da tempo è stato chiarito che costituisce affidamento generico quello relativo alla non reformatio in pejus di precedenti previsioni urbanistiche (anche se di piano particolareggiato), con nuove previsioni che non consentono una più proficua utilizzazione dell’area, con la conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche rispetto a quelle che possono agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento urbanistico (in tal senso, tra le molte, Consiglio di Stato sez. IV 15.07.2008 n. 3552) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.02.2017 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa DIA edilizia (SCIA) non fa eccezione rispetto al genus “DIA” disciplinato dall’art. 19 della l. n. 241/1990, nella versione applicabile ratione temporis al caso di specie che estende a detti titoli abilitativi il regime generale dell’autotutela decisoria, da intendersi tuttavia limitato all'annullamento d'ufficio, in considerazione della deroga posta dall'art. 11 del d.P.R. n. 380/2001 la quale esclude la revocabilità dei titoli edilizi.
Non si ravvisa, del resto, alcun fondamento normativo, né ragioni dogmatiche che inducano a ritenere la SCIA non soggetta, come gli altri titoli edilizi rilasciati dalla p.a., al potere di annullamento d'ufficio, non potendosi riconoscere all'affidamento riposto nella legittimità della SCIA una tutela maggiore di quella che l'ordinamento riconosce ad analogo affidamento suscitato da un titolo di fonte provvedimentale.

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È impugnato -unitamente agli atti presupposti e conseguenti- il provvedimento con il quale il Comune di Andria ha intimato alla ditta esecutrice, odierna ricorrente, ai proprietari e al direttore dei lavori "la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, entro e non oltre 90 giorni dalla data di notifica della presente ingiunzione, delle opere realizzate presso il lastrico solare sovrastante il quinto piano del complesso edilizio ubicato in via Catullo, in difformità al permesso di costruire n. 190 del 20.10.2004 (P.E. n. 260/01) e relativa variante in corso d'opera n. 190/ A/ V del 10.10.2005, in zona classificata B/5 nel vigente P.R.G. e consistenti così come decritti nella premessa, che qui s'intende integralmente richiamata".
Le opere in questione, così come descritte nella premessa dell’ordine di demolizione, hanno ad oggetto “la realizzazione di una unità volumetrica, composta da un unico vano con scala di collegamento con la sottostante unità immobiliare ed un vano w.c., ultimata e rifinita, completa di impianto elettrico, idrico-fognante e termico il tutto funzionale ad uso di civile abitazione, con superficie lorda complessiva coperta di circa mq. 31,00 (anziché mq. 16,00 circa), altezza utile interna di circa mt. 2,80 (anziché mt. 2,30 circa) e con volume complessivo lordo di circa mc. 95,00 (anziché mc. 41,00 circa)”.
L’ordinanza di demolizione, espressamente richiama, quale atto presupposto, l’annullamento d’ufficio della DIA presentata il 31.10.2006 dalla Società Ed.Ma. s.r.l., titolare del permesso di costruire il complesso edilizio in questione.
Il Comune aveva infatti riscontrato, in sede di sopralluogo del 30.9.2008, un aumento della superficie, dell’altezza interna e della volumetria, nonché la trasformazione, in locali residenziali, dei vani tecnici –fra i quali quello oggetto del provvedimento impugnato- posti sul lastrico solare delle otto palazzine di cui detto complesso si compone in quanto dette opere sono state ritenute non assentibili tramite DIA.
...
3.1. Il primo motivo è infondato, al pari del secondo che da esso dipende.
La DIA edilizia (SCIA) non fa eccezione rispetto al genus “DIA” disciplinato dall’art. 19 della l. n. 241/1990, nella versione applicabile ratione temporis al caso di specie che estende a detti titoli abilitativi il regime generale dell’autotutela decisoria, da intendersi tuttavia limitato all'annullamento d'ufficio, in considerazione della deroga posta dall'art. 11 del d.P.R. n. 380/2001 la quale esclude la revocabilità dei titoli edilizi.
Non si ravvisa, del resto, alcun fondamento normativo, né ragioni dogmatiche che inducano a ritenere la SCIA non soggetta, come gli altri titoli edilizi rilasciati dalla p.a., al potere di annullamento d'ufficio, non potendosi riconoscere all'affidamento riposto nella legittimità della SCIA una tutela maggiore di quella che l'ordinamento riconosce ad analogo affidamento suscitato da un titolo di fonte provvedimentale (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 20.02.2017 n. 161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Risulta dalla perizia riportata nel ricorso principale che i vani sovrastanti il lastrico solare delle otto palazzine –tra cui quello oggetto dell’ordinanza impugnata- descritti nella DIA del 2006 come volumi tecnici riservati agli impianti a servizio delle sottostanti unità residenziali, hanno altezza uguale a quella minima (m. 2.70) stabilita dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975 per le abitazioni, sono comunicanti con il piano sottostante ed inoltre, come riportato nell’ordinanza, sono dotati di impianti e servizi igienici.
Il fatto che detti locali siano utilizzabili a fini abitativi, ne esclude la natura di vani tecnici.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che la nozione di vano tecnico identifica locali che hanno la caratteristica, per altezza, dimensioni e dotazioni, di escludere qualsiasi utilità abitativa, perché destinati esclusivamente agli impianti non installabili all’interno dell’abitazione cui necessitano, mentre restano esclusi da tale categoria i locali sottotetto comunicanti, come in specie, con il piano sottostante mediante una scala interna, che è stata ritenuta indice rilevatore dell'intento di renderli abitabili.
Ne consegue che i vani tecnici, irrilevanti, per la loro specifica destinazione, ai fini del calcolo della volumetria del fabbricato cui accedono, concorrono a pieno titolo e per intero a determinarne l’entità quando sono trasformati in spazi idonei all’uso residenziale.
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Accertato che non si tratta di un vano tecnico, poiché ha i requisiti dei vani abitativi e come tale potrebbe essere autonomamente utilizzato, ciò che rileva ai fini della verifica dell’essenzialità della variazione e della conseguente necessità di ottenere il permesso di costruire, è il fatto che esso esprime per intero, non solo per l’incremento di cui alla DIA annullata, nuova volumetria e nuova superficie abitativa, rispetto al progetto originariamente assentito, la quale supera largamente il limite del 5% consentito dall’art. 2 della l.r. n. 26/1985 per l’aumento della cubatura originaria, come si desume chiaramente dai calcoli, cui si rinvia, della perizia riportata nel ricorso.
La ricorrente ha in sostanza trasformato il locale sottotetto in una mansarda completa di servizi ed impianti, realizzando un aumento di volumetria abitativa, rispetto a quella assentita con il permesso di costruire, che impone di considerare l’intervento edilizio come nuova costruzione.
Del resto proprio l’irrilevanza dei volumi tecnici ai fini del calcolo delle superfici e della cubatura implica che, ove essi mutino destinazione per volgersi ad uso residenziale, acquistano visibilità normativa -per superficie, sagoma, volume ed incidenza sugli standard urbanistici di zona- che prima non avevano e costituiscono, per questo, variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, secondo i parametri stabiliti dall’art. 2 della l.r. Puglia n. 26/1985, per le quali non è ammesso il ricorso alla D.I.A..
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3.2.1. Anche il quinto motivo, il cui esame precede logicamente lo scrutinio degli altri, deve essere respinto.
La Società costruttrice sostiene che la realizzazione o modificazione di volumi tecnici non è subordinata al rilascio del permesso di costruire e che le opere a tal fine eseguite, previa presentazione della DIA del 31.10.2006, sarebbero del tutto conformi alla normativa edilizia allora vigente.
3.2.2. La tesi è senz’altro corretta, in linea di principio, poiché, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non è richiesto un nuovo permesso di costruire quando l’originario, già assentito, progetto edilizio non sia oggetto di variazioni essenziali.
Il citato articolo 32 considera variazioni non essenziali, per le quali non è richiesto il permesso di costruire e ben potrebbero essere oggetto di denuncia di inizio di attività, le modifiche al progetto che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, ma si limitano a variare le cubature accessorie, i volumi tecnici e la distribuzione interna delle singole unità abitative.
3.3.3. In punto di fatto risulta, però, dalla stessa perizia riportata nel ricorso principale (pag. 20) che i vani sovrastanti il lastrico solare delle otto palazzine –tra cui quello oggetto dell’ordinanza impugnata- descritti nella DIA del 2006 come volumi tecnici riservati agli impianti a servizio delle sottostanti unità residenziali, hanno altezza uguale a quella minima (m. 2.70) stabilita dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975 per le abitazioni, sono comunicanti con il piano sottostante ed inoltre, come riportato nell’ordinanza, sono dotati di impianti e servizi igienici.
Il fatto che detti locali siano utilizzabili a fini abitativi, ne esclude la natura di vani tecnici.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che la nozione di vano tecnico identifica locali che hanno la caratteristica, per altezza, dimensioni e dotazioni, di escludere qualsiasi utilità abitativa (Cons. Stato, sez. IV, 10.07.2013 n. 3666), perché destinati esclusivamente agli impianti non installabili all’interno dell’abitazione cui necessitano, mentre restano esclusi da tale categoria i locali sottotetto comunicanti, come in specie, con il piano sottostante mediante una scala interna, che è stata ritenuta indice rilevatore dell'intento di renderli abitabili (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 14.04.2014 n. 207; Cons. Stato sez. IV n. 812/2011).
3.3.4. Ne consegue che i vani tecnici, irrilevanti, per la loro specifica destinazione, ai fini del calcolo della volumetria del fabbricato cui accedono, concorrono a pieno titolo e per intero a determinarne l’entità quando sono trasformati in spazi idonei all’uso residenziale.
3.3.5. Sotto tale profilo appare dunque errata la perizia riportata nel corpo del motivo in rassegna perché prende in considerazione, ai fini della verifica della natura essenziale o non essenziale della variazione, solo l’aumento di volumetria dei locali tecnici riconducibile alla DIA del 31.10.2006, stimato inferiore al 5% della cubatura residenziale assentita con il permesso di costruire, limite entro il quale la variazione è ritenuta non essenziale, ai sensi dell’art. 2 della l.r. Puglia n. 26/1985 e quindi eseguibile previa DIA.
L’errore è manifesto.
Accertato, infatti, che non si tratta di un vano tecnico, poiché ha i requisiti dei vani abitativi e come tale potrebbe essere autonomamente utilizzato, ciò che rileva ai fini della verifica dell’essenzialità della variazione e della conseguente necessità di ottenere il permesso di costruire, è il fatto che esso esprime per intero, non solo per l’incremento di cui alla DIA annullata, nuova volumetria e nuova superficie abitativa, rispetto al progetto originariamente assentito, la quale supera largamente il limite del 5% consentito dall’art. 2 della l.r. n. 26/1985 per l’aumento della cubatura originaria, come si desume chiaramente dai calcoli, cui si rinvia, della perizia riportata nel ricorso.
3.3.6. La ricorrente ha in sostanza trasformato il locale sottotetto in una mansarda completa di servizi ed impianti, realizzando un aumento di volumetria abitativa, rispetto a quella assentita con il permesso di costruire, che impone di considerare l’intervento edilizio come nuova costruzione (TAR Lombardia, Brescia, 06.08.2010 n. 2654; Cassazione penale, sez. III, 03.10.2002 n. 38191).
3.3.7. Del resto proprio l’irrilevanza dei volumi tecnici ai fini del calcolo delle superfici e della cubatura implica che, ove essi mutino destinazione per volgersi ad uso residenziale, acquistano visibilità normativa -per superficie, sagoma, volume ed incidenza sugli standard urbanistici di zona- che prima non avevano e costituiscono, per questo, variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, secondo i parametri stabiliti dall’art. 2 della l.r. Puglia n. 26/1985, per le quali non è ammesso il ricorso alla D.I.A. (Cons. Stato, sez. IV, 10.07.2013 n. 3666) (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 20.02.2017 n. 161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento edilizio in rassegna, poiché comporta il mutamento di destinazione d’uso di un locale (sottotetto) progettato e assentito per contenere impianti tecnici a servizio della sottostante abitazione, non è riconducibile al novero di quelli che l’art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 consente di realizzare previa presentazione della DIA.
L’affidamento sulla validità di un titolo edilizio, quale espansione del principio di buona fede che governa i rapporti giuridici, è il convincimento, indotto, in una delle parti del rapporto, dal comportamento dell’altra, sulla validità o l’esistenza di un fatto, atto o comportamento altrui giuridicamente rilevante.
Ne consegue che l’errore sui requisiti soggettivi o oggettivi della DIA, proprio perché è frutto di una dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore di chi la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica che si limita a riceverla, per il solo fatto che quest’ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare un’eventuale responsabilità amministrativa, non già la convalida –recte la sanatoria- della DIA mancante di un requisito essenziale.
Anche argomenti di ordine testuale e sistematico consentono di confermare che il privato non può accreditarsi, mediante DIA, un titolo edilizio per opere per le quali è richiesta la più complessa procedura del rilascio del permesso di costruire.
A tale riguardo appaiono evidenti le analogie fra il caso in decisione e l’ipotesi di una DIA priva dei requisiti essenziali e per questo inefficace, o quella prevista dall’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 secondo cui la DIA non produce effetti quando l’intervento edilizio incide su interessi sensibili e l’Autorità, cui ne è affidata la tutela, non l’abbia autorizzato o, ancora, se le dichiarazioni sostitutive di atto notorio ad essa allegate non sono veritiere.
Chiaramente, allora, il provvedimento con il quale il Comune ha accertato che le opere edili in questione non sono legittimate dalla presentata DIA non è espressione di autotutela –è irrilevante la qualificazione contenuta nell’atto, dovendo prevalere la sostanza sulla forma- ma ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover agire entro un termine ragionevole, chiaramente inapplicabile all’attività di vigilanza edilizia, tanto più che nessun affidamento può vantare la ricorrente, per quanto detto in precedenza.
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3.4.1. Anche il terzo motivo, con il quale la ricorrente ritiene illegittimamente pretermesso l’affidamento che ha riposto nella validità della DIA oggetto di annullamento d’ufficio, deve essere respinto insieme al quarto che da esso logicamente dipende.
Come detto, l’intervento edilizio in rassegna, poiché comporta il mutamento di destinazione d’uso di un locale progettato e assentito per contenere impianti tecnici a servizio della sottostante abitazione, non è riconducibile al novero di quelli che l’art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 consente di realizzare previa presentazione della DIA.
L’affidamento sulla validità di un titolo edilizio, quale espansione del principio di buona fede che governa i rapporti giuridici, è il convincimento, indotto, in una delle parti del rapporto, dal comportamento dell’altra, sulla validità o l’esistenza di un fatto, atto o comportamento altrui giuridicamente rilevante.
Ne consegue che l’errore sui requisiti soggettivi o oggettivi della DIA, proprio perché è frutto di una dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore di chi la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica che si limita a riceverla, per il solo fatto che quest’ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare un’eventuale responsabilità amministrativa, non già la convalida –recte la sanatoria- della DIA mancante di un requisito essenziale.
Anche argomenti di ordine testuale e sistematico consentono di confermare che il privato non può accreditarsi, mediante DIA, un titolo edilizio per opere per le quali è richiesta la più complessa procedura del rilascio del permesso di costruire.
A tale riguardo appaiono evidenti le analogie fra il caso in decisione e l’ipotesi di una DIA priva dei requisiti essenziali e per questo inefficace (Consiglio di Stato, sez. VI, 24.03.2014, n. 1413), o quella prevista dall’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 secondo cui la DIA non produce effetti quando l’intervento edilizio incide su interessi sensibili e l’Autorità, cui ne è affidata la tutela, non l’abbia autorizzato o, ancora, se le dichiarazioni sostitutive di atto notorio ad essa allegate non sono veritiere (Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.2013 n. 5513).
Chiaramente, allora, il provvedimento con il quale il Comune ha accertato che le opere edili in questione non sono legittimate dalla DIA, presentata il 31.10.2006, non è espressione di autotutela –è irrilevante la qualificazione contenuta nell’atto, dovendo prevalere la sostanza sulla forma- ma ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover agire entro un termine ragionevole, chiaramente inapplicabile all’attività di vigilanza edilizia, tanto più che nessun affidamento può vantare la ricorrente, per quanto detto in precedenza.
3.5. Le considerazioni che precedono impongono di respingere anche il sesto motivo.
Come detto l’ordinanza impugnata è la conseguenza inevitabile, espressione di potere vincolato, dell’accertamento dell’abuso edilizio, insensibile pertanto ai vizi di forma come l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 21-octies della l. 241/1990.
4. Al rigetto del ricorso principale fa seguito la reiezione del ricorso per motivi aggiunti avverso il provvedimento di accertamento dell'inottemperanza dell'ordine di demolizione, siccome impugnato per illegittimità derivata (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 20.02.2017 n. 161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza urbanistica è meno ampia di quella civilistica e non può consentire la costruzione di opere consistente impatto edilizio, in quanto l'impatto volumetrico incide in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio e, conseguentemente, si rende necessario il rilascio di permesso di costruire.
La nozione di pertinenza urbanistica, in altre parole, richiede che si tratti di opera collegata all'edificio principale in un rapporto di stretta e necessaria consequenzialità funzionale.
Il rapporto di strumentalità, pertanto, non può essere frutto sic et simpliciter della destinazione “effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima”, come previsto dall'art. 817, comma 2, c.c., bensì deve, altresì, ontologicamente emergere dalla struttura stessa dell'opera destinata a servizio di quella principale, sì da rivelare un carattere oggettivo e non meramente soggettivo.
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Nel caso di specie, il forno in muratura è sovrastato da una tettoia in legno coperta da tegole sorretta da colonne in ferro del tipo “innocenti” usate di norma per la realizzazione dei ponteggi edili.
Si conferma quindi che la costruzione fatta oggetto della ordinanza di demolizione è costituita da un forno, ad uso verosimilmente non commerciale e quindi ad uso familiare, aperto sui quattro lati, ne deriva che tale intervento assume natura meramente pertinenziale e rispetto al quale non è necessario il titolo abilitativo alla realizzazione.
D’altronde, quanto all’epoca di realizzazione, nella stessa ordinanza impugnata si specifica che “tutta la struttura appare di remota edificazione”.
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Quanto alla seconda realizzazione edilizia contestata per come abusiva, l’opera in questione altro non è che un annesso agricolo di modeste dimensioni (ml 6.00 x 3.50 con altezza variabile da ml 3.00 a ml. 3.30) in lamiera grecata, imbullonato tramite piastre su una platea di cemento armato di eguali dimensioni ed anch’esso “appare di remota edificazione ed in uso come rimessa di attrezzi agricoli”.
Anche in questa occasione, dunque non può che confermarsi la costante interpretazione giurisprudenziale in virtù della quale ha natura di pertinenza un deposito agricolo di limitate dimensioni posto in termini accessori rispetto ad un immobile principale, con conseguente insussistenza dei presupposti per la demolizione non trattandosi di opera soggetta al previo rilascio di titoli edilizi.
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1. – Premettono i ricorrenti, che i Signori Pi.Gi. e Sa.Gi. avevano proposto gravame avverso l’ordinanza del Comune di Ariccia n. 35 dell’01.03.2007 con la quale era stata disposta la sospensione e la demolizione delle opere realizzate in via ... n. 6 in Ariccia consistenti nei seguenti interventi edilizi: la costruzione di un forno in muratura con tettoia in legno aperta da tutti e quattro i lati e la realizzazione di una rimessa per attrezzi agricoli.
Con il ricorso proposto gli originari ricorrenti chiedevano l’annullamento dell’ordinanza demolitoria di cui sopra, in quanto le opere consistevano nella realizzazione di pertinenze e comunque la loro esecuzione rimontava ad epoca remota.
2. - Successivamente alla proposizione del ricorso decedeva il Signor Gi.Pi. ed in data 23.12.2014 si costituivano gli odierni ricorrenti; pur tuttavia con decreto decisorio n. 11505 del 2015 era disposta la perenzione del ricorso. Proposta opposizione dagli odierni ricorrenti essa veniva accolta con revoca del decreto di perenzione.
Il Comune di Ariccia non si è mai costituito nel presente giudizio.
3. – I ricorrenti sostengono la illegittimità del provvedimento impugnato in quanto sia il forno, aperto sui lati e coperto da una tettoria sia la rimessa per attrezzi agricoli costituiscono opere pertinenziali rispetto alle quali non è necessario acquisire previamente il titolo abilitativo a realizzarle.
Le censure dedotte dai ricorrenti sono fondate.
4. – Come è noto, la nozione di pertinenza urbanistica è meno ampia di quella civilistica e non può consentire la costruzione di opere consistente impatto edilizio, in quanto l'impatto volumetrico incide in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio e, conseguentemente, si rende necessario il rilascio di permesso di costruire. La nozione di pertinenza urbanistica, in altre parole, richiede che si tratti di opera collegata all'edificio principale in un rapporto di stretta e necessaria consequenzialità funzionale. Il rapporto di strumentalità, pertanto, non può essere frutto sic et simpliciter della destinazione “effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima”, come previsto dall'art. 817, comma 2, c.c., bensì deve, altresì, ontologicamente emergere dalla struttura stessa dell'opera destinata a servizio di quella principale, sì da rivelare un carattere oggettivo e non meramente soggettivo (cfr., tra le molte, TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 24.09.2015 n. 900).
Fermo quanto sopra nel caso di specie dalla lettura dell’ordinanza impugnata si evince che il forno in muratura è sovrastato da una tettoia in legno coperta da tegole sorretta da colonne in ferro del tipo “innocenti” usate di norma per la realizzazione dei ponteggi edili.
Si conferma quindi che la costruzione fatta oggetto della ordinanza di demolizione è costituita da un forno, ad uso verosimilmente non commerciale e quindi ad uso familiare, aperto sui quattro lati, ne deriva che tale intervento assume natura meramente pertinenziale e rispetto al quale non è necessario il titolo abilitativo alla realizzazione.
D’altronde, quanto all’epoca di realizzazione, nella stessa ordinanza impugnata si specifica che “tutta la struttura appare di remota edificazione”.
5. – Quanto alla seconda realizzazione edilizia contestata per come abusiva, dalla lettura dell’ordinanza di demolizione si evince che l’opera in questione altro non è che un annesso agricolo di modeste dimensioni (ml 6.00 x 3.50 con altezza variabile da ml 3.00 a ml. 3.30) in lamiera grecata, imbullonato tramite piastre su una platea di cemento armato di eguali dimensioni ed anch’esso “appare di remota edificazione ed in uso come rimessa di attrezzi agricoli”.
Anche in questa occasione, dunque non può che confermarsi la costante interpretazione giurisprudenziale in virtù della quale ha natura di pertinenza un deposito agricolo di limitate dimensioni posto in termini accessori rispetto ad un immobile principale, con conseguente insussistenza dei presupposti per la demolizione non trattandosi di opera soggetta al previo rilascio di titoli edilizi (cfr., da ultimo, TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, 15.03.2016 n. 91).
7. – In virtù delle suesposte osservazioni i motivi di censura dedotti si presentano fondati ed il ricorso proposto va accolto, con annullamento dell’atto gravato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 17.02.2017 n. 2591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIMulte, alle Sezioni unite gli appelli sui ricorsi. Codice della strada. Le modifiche del 2011 non regolano in modo completo le competenze in secondo grado.
La questione del giudice competente in appello sui ricorsi contro le multe stradali approderà alle Sezioni unite della Cassazione.
Lo ha disposto la VI Sez. civile della stessa Corte, con l’ordinanza interlocutoria 16.02.2017 n. 4176.
Il problema nasce dall’ultima modifica alle norme sui ricorsi contro le sanzioni stradali, rientrate nel passaggio al rito del lavoro stabilito dal Dlgs 150/2011 (articoli 6 e 7): mancano disposizioni espresse e complete riguardo agli appelli, tenendo conto che il Codice della strada prevede due vie alternative per i ricorsi contro i verbali: al Prefetto (articolo 203) e al Giudice di pace (articolo 204-bis).
Così alcune soluzioni sono arrivate dalla giurisprudenza di merito (si veda« Il Sole 24 Ore» del 2 febbraio scorso).
Il caso sottoposto alla Cassazione parte da un’opposizione al preavviso di iscrizione di fermo amministrativo sulla vettura della ricorrente, che risultava non aver saldato tre cartelle di pagamento relative a infrazioni al Codice della strada, per un totale di quasi 1.600 euro. Essendo il preavviso di fermo un atto «autonomamente impugnabile» (come deciso dalle Sezioni unite con le sentenze 11087/2010 e 20931/2011, valgono le «regole generali in materia di riparto di competenza per materia e per valore».
Le regole generali che risultano dopo il Dlgs 150/2011 fanno solo distinzione tra le opposizioni a ordinanza ingiunzione (cioè gli appelli contro le decisioni dei prefetti che respingono i ricorsi loro indirizzati) e le impugnazioni dei verbali direttamente davanti al Giudice di pace. Visto che il Dlgs non apportava modifiche espresse alle competenze (non previste dalla legge delega), per le prime la competenza è ripartita secondo il valore della lite (quindi si va in Tribunale solo per sanzioni con massimo edittale superiore a 15.493 euro), per le seconde sembrerebbe competente solo il Giudice di pace.
Ma ciò pare configurare un rapporto squilibrato tra valore della causa e giudice competente: secondo la Sesta sezione ci potrebbe essere una «non troppo ragionevole divaricazione» tra i due casi.
Finora le Sezioni unite hanno solo affermato che «l’azione di accertamento negativa dei presupposti legali della misura coercitiva...rimane assoggettata alle ordinarie regole...per valore e territorio». E la giurisprudenza delle singole Sezioni è oscillata tra la qualificazione della cartella di pagamento come procedura alternativa all’espropriazione forzata (quindi accertamento negativo soggetto alle regole generali del rito ordinario, ordinanza 15354/2015), l’applicazione delle regole relative alla sanzione oggetto della cartella (sentenza 24234/2015) e la competenza esclusiva del Giudice di pace (ordinanza 21914/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILa denuncia non giustifica il licenziamento. Cassazione. Se il dipendente si rivolge alla Procura in buona fede.
Nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente, l’esercizio del potere di denuncia alla Procura della Repubblica o all’autorità amministrativa non può determinare, di per sé, una responsabilità disciplinare in capo al dipendente, a meno che il ricorso ai pubblici poteri sia intervenuto in modo strumentale, nella piena consapevolezza della insussistenza dell’illecito o della estraneità del soggetto incolpato.
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 16.02.2017 n. 4125) ha raggiunto questa conclusione sul presupposto che, ascrivendo al lavoratore una responsabilità disciplinare per aver denunciato fatti di rilievo penale o amministrativo dal medesimo riscontrati in costanza di rapporto, verrebbe sostanzialmente scoraggiata la collaborazione cui il cittadino è tenuto nel superiore interesse pubblico volto alla repressione degli illeciti. La valorizzazione di superiori interessi pubblici porta a escludere, ad avviso della Corte, che la denuncia all’autorità giudiziaria di azioni suscettibili di integrare l’ipotesi di reato, quand’anche riconducibili al rapporto di lavoro, possa giustificare, per ciò stesso, un licenziamento in tronco.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è relativo al licenziamento per giusta causa del dipendente di una azienda del settore alimentare che ha denunciato il ricorso illegittimo da parte dell’impresa alla cassa integrazione guadagni straordinaria, la violazione della disciplina sul lavoro straordinario e sulla intermediazione di manodopera e, inoltre, l’utilizzo illecito di fondi pubblici.
Le indagini preliminari avviate dalla Procura e l’ispezione amministrativa si sono poi concluse escludendo la sussistenza degli illeciti denunciati. Il datore di lavoro ha, quindi, licenziato il dipendente, che però ha impugnato il provvedimento davanti al tribunale.
In primo e secondo grado il licenziamento è stato ritenuto valido, ritenendo che il dipendente abbia travalicato l’esercizio del diritto di critica, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva con un comportamento foriero di possibili conseguenze lesive dell’immagine e del decoro del datore di lavoro.
La Cassazione ribalta questa prospettiva e afferma che la denuncia di fatti aventi potenziale rilievo penale accaduti in ambito aziendale non ha rilievo disciplinare, a meno che non emerga che il lavoratore abbia agito nella consapevolezza della falsità della propria denuncia e, quindi, con finalità di calunnia del datore di lavoro.
La circostanza che le indagini in sede penale e amministrativa siano state definite con un provvedimento di archiviazione non è idonea da sola, per la Cassazione, a fondare la responsabilità disciplinare del lavoratore. Se il dipendente ha sollecitato l’intervento dell’autorità giudiziaria, infatti, nella convinzione che azioni illecite erano consumate all’interno dell’azienda, sono da escludere la violazione dell’obbligo di fedeltà e dei canoni generali di correttezza e buona fede, in quanto l’agire del lavoratore rientra nel valore civico e sociale che l’ordinamento riconosce all’iniziativa del privato cittadino che si attiva per segnalare il compimento di azioni delittuose
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio per sviamento di potere - Dirigente dell'Ufficio edilizia pubblica - Violazione del principio di imparzialità - Condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme - Obbligo di astensione - Elemento psicologico del reato - Configurabilità del dolo intenzionale - Scopo diverso da una finalità pubblica - Condotta illecita - Prova dell'intenzionalità del dolo - Art. 323 c.p. - Fattispecie: ottenimento una concessione edilizia attraverso una procedura anomala e irrituale - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione (Cass. Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi; tra le altre, Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo; Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
Quanto, poi, all'elemento psicologico del reato, per detta fattispecie criminosa, il dolo richiesto assume una connotazione articolata e complessa: è generico, con riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l'obbligo di astensione) e assume la forma del dolo intenzionale rispetto all'evento (vantaggio patrimoniale o danno) che completa la fattispecie.
Sicché, il dolo intenzionale è configurabile qualora si accerti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio abbia agito con uno scopo diverso da quello consistente nel realizzare una finalità pubblica, il cui conseguimento deve essere escluso non soltanto nei casi nei quali questa manchi del tutto, ma anche laddove la stessa rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez. 3, sent. n. 10810 del 17/01/2014, Altieri e altri).
Invero, la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure" osservato dall'agente, come tale insufficiente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Cass. Sez. 6, sent. n. 21192 del 25/01/2013, Baria ed altri; nello stesso sostanziale senso, v. Sez. 3, sent. n. 13735 del 26/02/2013, p.c. in proc. Fabrizio e altro).
Fattispecie: violazione del principio di imparzialità dell'attività amministrativa, gestendo in modo anomalo e con irrituale partecipazione una procedura introdotta al fine di ottenere una specifica concessione edilizia.
Pubblico ufficiale - Reato di abuso di ufficio - Principio di buon andamento e di imparzialità dell'azione della pubblica amministrazione - Art. 323 c.p. - Violazione dell'art. 97 Cost. - Giurisprudenza.
In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione di legge può consistere anche nella inosservanza dell'art. 97 della Costituzione, nella parte immediatamente precettiva che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni (Cass., Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgina; Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 37373 del 24/06/2014, Cocuzza) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.02.2017 n. 7161 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALa precarietà di un manufatto -la cui realizzazione non necessita di titolo edilizio, non comportando una trasformazione del territorio– non dipende dalla sua facile rimovibilità ma dalla temporaneità della funzione, in relazione ad esigenze di natura contingente: essa va, dunque, esclusa quando si è al cospetto di un’opera destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo.
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Per giurisprudenza costante, la precarietà di un manufatto -la cui realizzazione non necessita di titolo edilizio, non comportando una trasformazione del territorio– non dipende dalla sua facile rimovibilità ma dalla temporaneità della funzione, in relazione ad esigenze di natura contingente: essa va, dunque, esclusa quando, come accade nel caso di specie, si è al cospetto di un’opera destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo (Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029; Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; Cass. Pen., sez. III, 25.02.2009, n. 22054) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 15.02.2017 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa struttura pubblicitaria può configurare abuso edilizio. Reato anche se non si tratta di un’abitazione.
Una costruzione edilizia, anche se non destinata a essere abitata, può generare un abuso: lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 14.02.2017 n. 6872.
Il caso esaminato è particolare in quanto, dopo aver scelto una località particolarmente visibile (e sottoposta a vincolo ambientale), un'impresa di commercializzazione di case prefabbricate aveva collocato più moduli, completi in ogni loro parte, per mostrare le qualità del prodotto.
In questo modo, le abitazioni, di più vani, avevano perso l'attitudine ad essere considerate abitazioni, ma conservavano il loro impatto fisico. Poiché le norme urbanistiche non prevedono che l'abuso abbia solo finalità abitative, è quindi iniziato un procedimento penale conclusosi con la condanna confermata dalla Cassazione.
La motivazione adottata dalla Suprema corte prende spunto dal rapporto della legge 10 del 1977 (Bucalossi) con le norme precedenti (del 1942) e sottolinea che dal 1977 in poi il territorio è tutelato indipendentemente dai vari usi che se ne possono fare. Così appunto un consistente uso pubblicitario, indipendentemente dal tipo di oggetto che si intenda valorizzare (sia esso un'abitazione prefabbricata o meno), esige un titolo edilizio.
Non è infatti il peso urbanistico che si intende limitare, bensì l'uso del territorio, anche per l'uso pubblicitario. Nel momento in cui si utilizza un'area per finalità diverse da quelle previste dal piano urbanistico si pone infatti un problema di “peso” dell'intervento, peso che va valutato dall'amministrazione e che fa scattare, in caso di assenza di titolo abilitativo, specifiche sanzioni. Tali sanzioni non si applicano per opere temporanee, destinate a essere rimosse dopo un allestimento provvisorio, ma sempre che la consistenza delle opere non alteri parametri di fruibilità del territorio.
Nel caso deciso dalla Cassazione ha avuto peso la particolare natura delle opere prefabbricate, alte fino a 12 metri anche se in gran parte in materiale precario (polistirolo) coerentemente alle finalità pubblicitarie. Anche se non abitate, ciò che si era realizzato esprimeva infatti stabilità e quindi un uso non temporaneo dell'area impegnata. La sentenza condanna anche il soggetto che aveva venduto e collocato le case pubblicitarie, ritenendo il venditore partecipe del disegno illecito di utilizzo non consentito del territorio.
Inoltre, per la loro fattiva partecipazione alla modifica dei luoghi, sono stati condannati anche gli impiantisti che avevano contribuito, da artigiani, a dotare la struttura pubblicitaria di attacchi ed impianti: secondo la Cassazione, infatti, anche chi realizza un pavimento, intonaci e infissi risponde dell'abusivismo se ha colposamente ignorato la circostanza che fosse necessario un titolo edilizio.
Anche tale coinvolgimento dei soggetti esecutori (dal venditore agli artigiani rifinitori) è del resto coerente all'ampliamento delle responsabilità che la legge 10 del 1977 (oggi il Dpr 380/2001) prevede per arginare l'abusivismo
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2017).
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MASSIMA
5.1 ricorsi sono infondati.
6. Per motivi di ordine logico devono essere esaminati i motivi che riguardano la sussistenza oggettiva dei reati.
6.1.
La natura precaria dell'opera edilizia non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la sua realizzazione né dalla sua facile amovibilità; quel che conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle esigenze che l'opera è destinata a soddisfare.
6.2. Chiaro è, in tal senso, il dettato normativo che, nel definire gli interventi di "nuova costruzione", per i quali è necessario il permesso di costruire o altro titolo equipollente (artt. 10, comma 1°, lett. a, e 22, comma 3°, lett. b, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), individua -tra gli altri- i manufatti leggeri e le strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come depositi, magazzini e simili e "che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee" (art. 3, comma 1°, lett. e.5, d.P.R. 380/2001 cit.).
La natura oggettivamente temporanea e contingente delle esigenze da soddisfare è richiamata anche dall'art. 6, comma 2°, lett. b, d.P.R. 380/2001 per individuare le opere che, previa mera comunicazione dell'inizio lavori, possono essere liberamente eseguite.
6.3. Si tratta di criterio che significativamente, anche se ad altri fini, l'art. 812 cod. civ. utilizza per collocare nella categoria dei beni immobili gli edifici galleggianti saldamente ancorati alla riva o all'alveo e destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione, così diversificandoli dai galleggianti mobili adibiti alla navigazione o al traffico in acque marittime o interne, di cui all'art. 136 cod. nav. e che, a norma dell'art. 815 cod. civ., costituiscono, invece, beni mobili soggetti a registrazione.
6.4.
La oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla giurisprudenza di questa Corte per distinguere l'opera assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere dall'incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati (Sez. 3, Sentenza n. 9229 del 12/02/1976, Sez. 3,  Sentenza n. 1927 del 23/11/1981, Sez. 3, Sentenza n. 5497 del 11/03/1983, Sez. 3, Sentenza n. 6172 del 23/03/1994, Sez. 3, Sentenza n. 12022 del 20/11/1997, Sez. 3, Sentenza n. 11839 del 12/07/1999, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009, quest'ultima con richiamo ad ulteriori precedenti conformi di questa Corte e del Consiglio di Stato).
Nemmeno il carattere stagionale dell'attività implica di per sé la precarietà dell'opera (Sez. 3, Sentenza n. 34763 del 21/06/2011, Sez. 3, Sentenza n. 13705 del 21/02/2006, Sez. 3, Sentenza n. 11880 del 19/02/2004, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009 cit.).
6.5.
Il riferimento alla temporaneità e alla contingenza dell'esigenza, piuttosto che alle caratteristiche strutturali dell'opera edilizia ed al materiale impiegato per la sua realizzazione, deriva dal fatto che nella riflessione dottrinaria e giurisprudenziale del secondo dopoguerra si è venuta consolidando la consapevolezza che il territorio non può più essere considerato strumento destinato al solo assetto ed incremento edilizio (art. 1 L. 1150/1942), ma come luogo sul quale convergono interessi di ben più ampio respiro che dalle modalità del suo utilizzo (o del suo non utilizzo) possono trovare giovamento o, al contrario, pregiudizio, sì che la sua trasformazione urbanistica ed edilizia (così l'art. 1 L. 10/1977 che, si noti, operando un rivolgimento copernicano rispetto all'art. 1 L. 1150/1942, ha posto l'attività edilizia in secondo piano rispetto a quella urbanistica) costituisce oggetto di compiuta valutazione e comparazione degli interessi in gioco e, dunque, vera e propria attività di governo (così l'art. 117, comma 30 , Cost.), non sempre, e non solo, appannaggio esclusivo della collettività che lo abita.
6.6.
E' evidente, pertanto, che la temporaneità dell'esigenza che l'opera precaria è destinata a soddisfare è quella (e solo quella) che non è suscettibile di incidere in modo permanente e tendenzialmente definitivo sull'assetto e sull'uso del territorio.
6.7. Tanto premesso, risulta dalla lettura della sentenza impugnata che il modulo abitativo prefabbricato, al quale era asservito il manufatto di dodici metri composto di polistirolo, era stato collocato sopra una piattaforma di cemento realizzata all'interno del fondo di proprietà della Pe..
All'interno del medesimo fondo erano stati realizzati gli allacciamenti elettrici, idrici e fognari destinati a servire il manufatto sotto il cui pavimento erano stati predisposti gli alloggiamenti per le tubature idriche e gli impianti elettrici. Il bagno era munito di uno scaldabagno elettrico. Nel manufatto erano state inserite le scatole per gli interruttori elettrici ed i relativi interruttori. Sul perimetro del fondo erano state realizzate delle aiuole e piantati degli alberi a riprova, afferma la Corte, della duratura destinazione dell'immobile ad abitazione.
6.8. Non v'è dubbio che la Corte di appello ha fatto buon governo dei principi sopra indicati traendo dalle premesse in fatto testé illustrate conseguenze non manifestamente illogiche in ordine alla effettiva natura delle esigenze non temporanee che il manufatto, nella sua interezza e a prescindere dai materiali utilizzati, doveva soddisfare.
6.9. Le eccezioni sollevate dalla ricorrente non colgono nel segno sia perché valorizzano l'argomento della tipologia dei materiali utilizzati, sia perché non considerano che la natura modulare dell'abitazione prefabbricata, alla luce dell'inequivocabile dettato normativo sopra richiamato, non esclude la durevolezza delle esigenze abitative cui il manufatto era asservito.
L'ulteriore argomento difensivo secondo cui si trattava di manufatto posto in opera a scopi puramente pubblicitari, e dunque transitori, è stata smentita dalla Corte di appello con argomentazioni non oggetto di specifica censura da parte della ricorrente che si limita ad eccepire, al riguardo, un inammissibile travisamento della prova volto, di fatto, a creare un contatto diretto di questa Corte di cassazione con le fonti di prova allegate al ricorso.
6.10. Quanto ai profili di responsabilità di tutti gli imputati si deve osservare che la posa in opera del manufatto costituisce l'esecuzione di un accordo intercorso tra la proprietaria committente e il legale rappresentante della società venditrice, accordo per effetto del quale l'azione appartiene ad entrambi gli imputati. Il fatto che la posa in opera del manufatto sia stata giustificata con le (insussistenti) esigenze pubblicitarie indicate nel contratto di vendita costituisce ulteriore argomento che rafforza la prova della comune consapevolezza della necessità del titolo edilizio mancante.
6.11. In ogni caso,
assume valore dirimente il fatto che la società legalmente rappresentata dal Sa. non si è limitata alla vendita del manufatto, ma si è direttamente interessata anche alla sua posa in opera e alla realizzazione degli allacci, destinandovi due operai.
6.12.
Il che è più che sufficiente a qualificarla come "costruttore" ai sensi dell'art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in quanto tale, ha il dovere di controllare preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del reato di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante l'accertamento negativo, e a titolo di colpa nell'ipotesi in cui tale accertamento venga omesso (Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Carafa, Rv. 263474; Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004, Cima, Rv. 230663).
6.13.
Anche gli operai, materiali esecutori dei lavori, rispondono del reato a titolo di concorrenti (in questo senso Sez. 3, n. 16751 del 23/03/2011, Iacono, Rv. 250147, secondo cui la natura di reati "propri" degli illeciti previsti dalla normativa edilizia non esclude che soggetti diversi da quelli individuati dall'art. 29, comma primo, del decreto medesimo, possano concorrere nella loro consumazione, in quanto apportino, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole; nello stesso senso anche Sez. 3, n. 35084 del 25/02/2004, Barreca, Rv. 229651; Sez. 3, n. 48025 del 12/11/2008, Ricardi, Rv. 241799, secondo cui concorre nel reato anche si limita a svolgere lavori di completamento dell'immobile, quali la pavimentazione, l'intonacatura, gli infissi, sempre che sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori).
6.14. Il Ca. ed il Di. non si erano limitati a collocare sul posto il manufatto ma erano intenti ad effettuare lavori di allaccio alle reti idrica ed elettrica che concorrevano a rendere oggettivamente stabile l'opera edilizia, realizzata in totale assenza di permesso di costruire e di qualsiasi altra autorizzazione. Sicché essi ne rispondono anche a titolo di colpa.
6.15. La argomentazioni sin qui svolte valgono a maggior ragione anche per il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, peraltro non oggetto di specifica impugnazione, al pari della muratura in pietra (della quale non v'è menzione nei ricorsi).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATATra soletta e travi lo spazio non è comune. Cassazione. Quando il piano di sopra «occupa» il controsoffitto di quello sottostante deve risarcire il danno e il valore diminuito.
Lo spazio tra le travi e la soletta non è comune: il proprietario di un’unità immobiliare non può occupare con propri manufatti la parte sottostante la sua soletta e invadere lo spazio vuoto esistente tra questa e le travi lignee che la sorreggono. Questo spazio infatti non fa parte integrante del solaio e dunque non è in comunione tra i due appartamenti, l’uno sovrastante all’altro.
Così hanno deciso i giudici supremi della Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 14.02.2017 n. 3893, stabilendo che detto spazio è una volumetria che può essere utilizzata solo da parte del proprietario del piano sottostante: così come il pavimento che si poggia sul solaio appartiene esclusivamente al proprietario dell’abitazione sovrastante, che lo può utilizzare come meglio crede, il volume invece esistente tra le travi e la soletta è parte del soffitto dell’unità sottostante e può dunque essere liberamente utilizzato dal proprietario di questa.
Era successo che a seguito di importanti lavori di ristrutturazione eseguiti in un appartamento, consistiti anche nella sostituzione dell’esistente solaio in legno con altro in latero-cemento, si era abbassato il livello del soffitto del locale sottostante. Il che aveva comportato l’invasione degli spazi vuoti tra l’originario solaio e le travi a vista su cui questo gravava.
S u tale presupposto i giudici di primo e secondo grado, pur riconoscendo l’avvenuto abbassamento della soletta, avevano escluso che ciò avesse comportato una diminuzione della volumetria del locale sottostante in quanto il nuovo solaio aveva occupato il solo comune spazio tra le travi lignee e lo spazio vuoto tra una trave e l’altra.
Di diverso avviso la Cassazione, che ha affermato che la comunione della soletta tra le due unità immobiliari, mentre si estende alle travi aventi la funzione di sostegno e che fanno parte della struttura portante del solaio, non va invece ad interessare lo spazio ricompreso tra queste ed il solaio stesso, che resta pertanto nella piena disponibilità del piano sottostante. Alla riduzione della volumetria del locale corrisponde naturalmente il diritto del suo proprietario di vedersi risarcito il danno, anche in relazione alla riduzione del valore del locale.
La questione risolta dalla Suprema Corte è di frequente ricorrenza nei casi in cui, nel procedere alla ristrutturazione delle cosiddette “abitazioni di ringhiera”, si ricavano all’interno di esse i servizi igienici dapprima esistenti solo in comune con altre abitazioni. Il minimo spessore delle solette in legno non lascia spazio alla posa di tubature, talché queste vengono spesso posizionate nell’intercapedine che si crea tra la soletta e la controsoffittatura che il proprietario della sottostante unità ha ben fissato sulle travi portanti.
I problemi sorgono quando si decide di portare a vista la travatura che caratterizza il soffitto ed ecco che riappare tutto ciò che arbitrariamente è stato posizionato al di sotto della comune soletta. Da qui la decisione della Cassazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017).
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MASSIMA
Il terzo motivo è fondato.
Ed invero, come questa Corte ha già affermato,
il solaio esistente fra i piani sovrapposti di un edificio è oggetto di comunione fra i rispettivi proprietari per la parte strutturale che, incorporata ai muri perimetrali, assolve alla duplice funzione di sostegno del piano superiore e di copertura di quello inferiore, mentre gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto od al pavimento, e non sono essenziali all'indicata struttura rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili rispettivamente da ciascun proprietario nell'esercizio del suo pieno ed esclusivo diritto dominicale (Cass. 2868/1978).
Deve dunque escludersi che la comunione si estenda oltre che alle travi, aventi funzione di sostegno del solaio e che, pacificamente, fanno parte di detta struttura portante (Cass. 13606/2000), allo spazio esistente tra le stesse, integrante volumetria di esclusiva utilizzazione da parte del proprietario del piano sottostante.
Ed invero,
come dal solaio deve essere distinto il pavimento che poggia su di esso, che appartiene esclusivamente al proprietario dell'abitazione sovrastante e che può essere, quindi, da questo liberamente rimosso o sostituito secondo la sua utilità e convenienza (Cass. 7464/1994), cosi pure dev'essere distinto il volume esistente tra le travi, che costituisce il soffitto dell'appartamento sottostante ed è dunque liberamente utilizzabile dal proprietario di questo.

LAVORI PUBBLICILa programmazione evita opere incompiute.
Verifica ex post degli obiettivi indicati in programmazione per evitare le opere incompiute. E nella programmazione bisognerà dare una corsia preferenziale ai lavori di ricostruzione post- terremoto e conseguenti a calamità naturali.

È quanto afferma il Consiglio di Stato con il parere 13.02.2017 n. 351, favorevole ma con osservazioni, allo schema di regolamento recante procedure e schemi tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l'acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali.
Si tratta di un regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici (art. 21, comma 8) che detta le modalità di aggiornamento dei programmi e degli elenchi annuali, definisce i criteri e le modalità per favorire il completamento delle opere incompiute e i criteri per l'inclusione dei lavori e per la definizione del livello progettuale minimo richiesto per tipologie e importo delle opere.
Il parere, dopo avere inquadrato nella disciplina vigente la materia della programmazione si sofferma sul ruolo centrale che essa riveste anche in chiave preventiva rispetto alle cosiddette opere incompiute, sottolineando che la programmazione «costituisce concreta attuazione dei principi di buon andamento, economicità ed efficienza dell'azione amministrativa». L'assunto è che con una accurata programmazione, dice il Consiglio di Stato, si consegue la determinazione del quadro delle esigenze, la valutazione delle strategie di approvvigionamento, l'ottimizzazione delle risorse ed il controllo delle fasi gestionali.
Da qui la rilevanza del decreto sul quale i giudici rilevano, oltre ad un aspetto procedurale (la mancata acquisizione del parere della Conferenza Unificata prima dell'invio dello schema a Palazzo Spada), anche la necessità di introdurre misure finalizzate alla verifica ex post circa il conseguimento degli obiettivi sottesi alla programmazione.
In particolare si evidenzia come nel testo sia opportuno «esplicitare più chiaramente in che modo operino tali forme di verifica e in che modo esse si traducano non solo nella predisposizione e nell'aggiornamento degli strumenti di programmazione, ma anche nella sanzione (foss'anche a livello reputazionale) in caso di opere rimaste ingiustificatamente incompiute e di incapacità a rispettare i tempi previsti, ad esempio, per l'affidamento e l'esecuzione di un'opera». In sostanza: sanzioni per le amministrazioni che non portano a termine le incompiute (che comunque devono essere definite in modo adeguato e preciso in quanto non appare chiaro, dice il parere, se sia la stessa definizione prevista dall'articolo 44-bis del decreto-legge n. 201 del 2011 e del d.m. 13.03.2013, n. 42).
Per quel che riguarda la priorità da assegnare ai lavori in fase di programmazione il parere suggerisce di indicare i lavori di ricostruzione pubblica post-terremoto e quelli di ricostruzione conseguenti a calamità naturali (articolo ItaliaOggi del 15.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIP.a., recupero crediti con più garanzie.
Recupero crediti delle p.a. più garantito. L'ingiunzione speciale (rd 639/1910), utilizzata per la riscossione coattiva dai comuni e da altri enti pubblici, è idonea a far iscrivere ipoteca giudiziale.

È quanto deciso dal TRIBUNALE di Torino, con decreto 13.12.2016, reso nel procedimento 9889/2016, con il quale ha accolto la richiesta di un comune della provincia del capoluogo piemontese.
Il comune, difeso dall'avv. Ma.Gi., vantava un credito tributario nei confronti di un contribuente persona fisica e ha avviato la riscossione notificando un'ingiunzione disciplinata dal regio decreto 639/1910. Questo atto è fatto dalla stessa amministrazione impositrice e non passa al vaglio dell'autorità giudiziaria.
Questa ingiunzione, alternativa alla riscossione di Equitalia, può basare pignoramenti, come una sentenza o un decreto ingiuntivo giudiziale. Ci si è posto il problema se, come con il decreto ingiuntivo, il creditore possa utilizzare questo titolo per chiedere l'iscrizione di un'ipoteca sui beni del debitore. Nel caso specifico il comune piemontese ha chiesto l'iscrizione dell'ipoteca, ma l'ufficio finanziario ha consentito solo l'iscrizione con riserva. L'ente locale ha proposto ricorso al tribunale, anche per superare una circolare ministeriale, che esprime l'opinione contraria all'iscrizione effettiva dell'ipoteca. E il tribunale ha dato il via libera all'ipoteca.
Gli uffici finanziari seguono la circolare n. 4/T/2008 dell'Agenzia del territorio, secondo la quale l'ingiunzione fiscale non sarebbe titolo idoneo per iscrivere ipoteca legale ai sensi dell'art. 77 del dpr n. 602/1973. Ma il tribunale ha rilevato che l'ingiunzione è, di fatto, strumento equiparabile, ai fini delle procedure coattive, alla cartella di pagamento, anche ai fini dell'iscrizione ipotecaria. Il decreto ammette, quindi, la trascrivibilità dell'ipoteca legale fondata sul provvedimento di ingiunzione fiscale, in quanto la natura giuridica del titolo non incide sulla domanda di iscrizione ipotecaria.
Il provvedimento ha dichiarato inefficace la riserva e ha ordinato al Conservatore dell'Agenzia delle entrate di annotare il decreto. Grazie a questo orientamento l'ente locale può bloccare a proprio favore l'immobile del debitore e non temere l'insolvibilità del contribuente. E i tempi per consolidare la garanzia possono essere molto veloci (articolo ItaliaOggi del 22.02.2017).

APPALTINiente soccorso istruttorio sui costi aziendali. Una recente sentenza del Tar Toscana riapre il dibattito nella giurisprudenza amministrativa.
Il TAR Toscana, Sez. I, con la recentissima sentenza 10.02.2017 n. 217, riapre il dibattito sulla mancata o inesatta indicazione dei costi aziendali per la salute e la sicurezza dei lavoratori e l'ammissibilità del soccorso istruttorio in merito.
Il dlgs n. 50/2016, infatti, all'art. 95, comma 1, inserisce questi oneri come elemento separato da indicarsi nell'offerta economica, ma non ne ha espressamente indicato, nello stesso articolo, l'essenzialità.
Il Tribunale adito, accogliendo il ricorso proposto, ha, tuttavia, statuito che sui costi aziendali non è possibile porre rimedio tramite il soccorso istruttorio.
L'art. 83, comma 9, del dlgs n. 50/2016, è stato argomentato, ammette l'esercizio della facoltà di integrazione, da parte dei concorrenti, solo relativamente alle «carenze di qualsiasi elemento formale della domanda».
Nel caso in esame, il disciplinare di gara imponeva di indicare, nel dettaglio dell'offerta economica, i costi per la sicurezza da rischio specifico. Illegittimamente sono state chieste dalla stazione appaltante delle giustifiche, che i giudici hanno ritenuto non ammissibili, in quanto veniva in rilievo la carenza di un elemento «sostanziale», perché attinente al contenuto dell'offerta economica.
In maniera analoga si era espresso anche il Tar Campania Salerno, sez. I, con la sentenza n. 34 del 10 gennaio u.s., in quanto l'indicazione degli oneri di sicurezza aziendale era stata considerata direttamente attinente, ai sensi dell'art. 95, comma 10, dlgs n. 50/2016, all'offerta economica.
I giudici di Palazzo Spada, sebbene con riferimento a un procedimento in vigenza del dlgs n. 163/20006, con la decisione della V sezione, n. 223 del 19.01.2017, hanno, invece, ritenuto che, qualora vengano indicati, da parte di un concorrente, oneri interni per la sicurezza pari a 0, non si può procedere all'esclusione del concorrente per motivi di ordine formale.
L'esistenza di un importo indicato, sebbene di ordine negativo (ossia nessuna spesa per la voce oneri sicurezza aziendale) comporterebbe, ad avviso del Consiglio di stato, che ogni questione di verifica del rispetto dei doveri concernenti la salute e la sicurezza sul lavoro si sposti dal versante dichiarativo a quello sostanziale, concernente la congruità di una simile quantificazione.
La sezione richiama i principi espressi sul punto dall'Adunanza plenaria, nella sentenza n. 19 del 27.07.2016, che ha posto particolare enfasi sugli aspetti di ordine sostanziale, relativamente ai costi minimi di sicurezza aziendale.
A seguito dell'intervento nomofilattico, anche la successiva giurisprudenza del Consiglio di stato aveva negato valenza escludente alla mancata specificazione nell'offerta degli oneri per la sicurezza aziendali.
Nella decisione n. 223/2017, i giudici, infine sanciscono un altro importante principio: non può essere demandato al giudice amministrativo, in sede di legittimità, di effettuare apprezzamenti riservati alle valutazioni tecnico-discrezionali della stazione appaltante, unica preposta alla verifica dell'anomalia, che nel caso esaminato la stessa aveva ritenuto di non esperire.
La stessa sentenza n. 19/2016 dell'Adunanza plenaria era stata, tuttavia, richiamata dai magistrati della IV sezione del Tar Lombardia, che con l'ordinanza n. 1522 del 24.11.2016, avevano respinto la tutela cautelare a una impresa esclusa da una gara, per mancata indicazione degli oneri aziendali della sicurezza. È stato affermato, in tale sede che, ai sensi dell'art. 95, comma 10, del dlgs n. 50/2016, non sono invocabili esigenze di trasparenza, per negare la configurabilità della causa di esclusione.
Sebbene l'art. 97 indichi come oggetto della valutazione di anomalia anche la verifica degli oneri aziendali della sicurezza, ciò non incide sulla circostanza che l'omessa esposizione in offerta di tali costi non può essere superata in sede di soccorso istruttorio, in quanto l'art. 83, comma 9, del codice dei contratti pubblici ne esclude l'attivazione per i profili relativi all'offerta economica.
L'ordinanza in questione, inoltre, è stata confermata dal Consiglio di stato, sez. V, n. 5582 del 15.12.2016. I magistrati dell'appello hanno ritenuto «dirimente» la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza «interni o aziendali», con conseguente violazione dell'articolo 95 del decreto legislativo n. 50 del 2016, escludendo, infine, profili di incompatibilità della disposizione tassativa con il paradigma normativo euro-comunitario (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).

TRIBUTITari, giudici senza poteri su agevolazioni e sconti.
Il giudice non può sostituirsi all'amministrazione comunale nella scelta di concedere sconti, agevolazioni, riduzioni e esenzioni Tari. Spetta al comune il potere di riconoscere con regolamento eventuali benefici fiscali. La commissione tributaria può solo censurare le norme regolamentari in presenza di macroscopiche violazioni di legge.

E quanto ha affermato la Ctr di Firenze, Sez. X, con la sentenza 09.02.2017 n. 375.
Dunque, per il giudice d'appello non è possibile riconoscere un'agevolazione per la tassa rifiuti se l'amministrazione non l'ha prevista nel regolamento e può censurare il suo comportamento solo se rileva una violazione di legge.
Il regolamento della tassa rifiuti deliberato dal comune di Campo nell'Elba è stato ritenuto in linea con le previsioni di legge dalla commissione regionale «in considerazione del fatto che la normativa consente ai comuni una certa discrezionalità in ordine alla possibilità di prevedere sconti, agevolazioni, riduzioni e esenzioni. Nell'ambito di tale potere discrezionale, il suo esercizio parrebbe quindi essere censurabile solo in presenza di macroscopiche violazioni di legge che nel caso in esame non è dato ravvisare».
In effetti, le amministrazioni comunali hanno ampi poteri sui benefici fiscali per il tributo sui rifiuti. Oltre alle agevolazioni che devono essere assicurate ai contribuenti ex lege, gli enti hanno la facoltà di concedere riduzioni tariffarie e esenzioni tendenzialmente legate alla minore produzione di rifiuti. Possono stabilire con regolamento riduzioni tariffare, senza limiti, e esenzioni anche legate al reddito familiare. Le agevolazioni Tari, infatti, possono essere collegate alla capacità contributiva dei contribuenti, desunta dagli indicatori della situazione economica (Isee). L'articolo 1 della legge di Stabilità 2014 (147/2013) consente di ridurre il carico del prelievo in capo a soggetti in condizioni di difficoltà economico-sociale.
La concessione di agevolazioni facoltative non è limitata alle riduzioni, ma può arrivare fino alle esenzioni. Possono essere deliberate riduzioni tariffarie che, a differenza della Tares, non sono più soggette alla soglia massima del 30%, o esenzioni per particolari situazioni espressamente individuate dalla legge. Le riduzioni della tassa per il servizio di smaltimento possono essere riconosciute in presenza di situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità di produzione di rifiuti (articolo ItaliaOggi del 22.02.2017).

TRIBUTILa classificazione catastale decide l'esenzione. Cassazione sull'ici. rilevanza all'autocertificazione presentata da una coop.
L'esenzione Ici spetta per i fabbricati strumentali all'attività agricola solo se sono inquadrati catastalmente nella categoria D/10.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, che ha però dato rilevanza all'autocertificazione presentata sul possesso dei requisiti da parte di una società cooperativa per i 5 anni precedenti, ancorché l'istanza di variazione catastale in categoria D/10 fosse stata presentata 2 anni dopo (2009) rispetto all'anno d'imposta accertato dal comune (2007).
Infatti con la sentenza 27.01.2017 n. 2115 ha respinto il ricorso della cooperativa e ha sostenuto che per avere diritto all'esenzione Ici non conta che il fabbricato sia strumentale all'attività agricola, ma è necessario che sia classificato nella categoria D/10; mentre con la sentenza 08.02.2017 n. 3350, pur affermando questa regola, ha accolto il ricorso proposto dalla stessa società cooperativa, per la medesima annualità, anche se le controparti erano due comuni diversi, facendo leva sull'autocertificazione. In entrambi i casi decisi gli immobili erano iscritti nella categoria D/8.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che l'istanza di variazione catastale nella categoria D/10 presentata nel 2009 potesse avere efficacia nel 2007, nonostante l'immobile fosse inquadrato nella categoria D/8, in presenza di un'autocertificazione attestante il possesso dei requisiti, alla quale è stata riconosciuta un'efficacia retroattiva ai fini del classamento.
Questo vuol dire che la società cooperativa ha autocertificato una data situazione che si pone in palese contrasto con l'istanza di variazione catastale presentata nel 2009 all'Agenzia del territorio e, soprattutto, con la classificazione catastale che il fabbricato aveva nell'anno d'imposta accertato (2007).
Il principio che si ricava dalle due pronunce in commento è che 2 casi analoghi possono essere trattati dallo stesso giudice in maniera diversa. Va posto in rilievo che agli immobili accertati, che hanno formato oggetto delle pronunce della Cassazione, era stata attribuita la stessa categoria catastale (D/8).
Del resto sulla materia de qua la Cassazione, anche di recente, ha cambiato posizione sui requisiti per fruire del trattamento agevolato Ici sui fabbricati rurali e ha rivisto la tesi espressa con alcune pronunce emanate nel 2015. Con la sentenza 16179/2016 ha chiarito che vanno ritenute isolate le pronunce del 2015 con le quali aveva ritenuto esenti dall'imposta comunale i fabbricati rurali, in presenza dei requisiti di legge, a prescindere dal loro inquadramento catastale. Dunque, ha stabilito che non va dato seguito alle sentenze con le quali è stato sostenuto che conta solo la ruralità degli immobili per avere diritto ai benefici fiscali.
I possessori di fabbricati utilizzati per l'esercizio dell'attività agricola possono reclamare l'esenzione Ici solo se hanno ottenuto l'iscrizione catastale di questi immobili nelle categorie A/6 (destinati ad abitazione) o D/10 (destinati alla manipolazione, trasformazione e vendita di prodotti agricoli). Ciò costituisce «un presupposto necessario ed indefettibile» per l'esclusione del fabbricato dall'assoggettamento all'Ici (articolo ItaliaOggi del 16.02.2017).

APPALTINuovi appalti. C'è sempre l'interesse a ricorrere.
Nel rito superaccelerato degli appalti pubblici il ricorrente aggiudicatario della gara continua ad avere interesse a impugnare le ammissioni degli altri concorrenti.

Lo dice il TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, nella sentenza 08.02.2017 n. 2113.
I giudici si sono chiesti se, alla luce del nuovo sistema processuale speciale introdotto dal dlgs 50/2016, sussiste la condizione dell'azione, data dall'interesse a ricorrere, del ricorrente divenuto aggiudicatario.
Il legislatore ha imposto a tutte le ditte l'onere di impugnare immediatamente (entro 30 giorni) le ammissioni in una fase antecedente al sorgere della lesione concreta e attuale data dall'aggiudicazione, in quanto successivamente sarebbe impossibile far l'illegittimità di tali determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale, proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata impugnata l'aggiudicazione.
La questione si pone nel momento in cui su tale sistema processuale chiuso e speciale intervenga l'aggiudicazione, che concretizza la lesione dell'interesse legittimo dei concorrenti che aspirino a tale bene. Seguendo l'impostazione classica, se in corso di causa dovesse intervenire un fatto esterno incidente sull'interesse a ricorrere facendo venir meno l'utilità del ricorso anticipato (come l'aggiudicazione allo stesso ricorrente), l'azione diverrebbe improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.
Tuttavia il Tar ha rimeditato tale impostazione in quanto l'opzione tradizionale comporterebbe che il ricorrente aggiudicatario si vedrebbe precluso l'esame delle proprie doglianze nei confronti degli altri concorrenti, i quali, invece, ben potrebbero ottenere l'accoglimento delle proprie ragioni contro l'ammissione del ricorrente, ed in via derivata, l'aggiudicazione ottenuta.
In definitiva, e in virtù della separazione delle due fasi processuali (a seconda dei vizi) cui corrispondono anche riti diversi, la successiva aggiudicazione non può ritenersi tale da incidere sull'interesse a ricorrere, non essendo venuta meno l'utilità (o la ratio) del ricorso anticipato (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).
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MASSIMA
1. L’odierno ricorrente, risultato aggiudicatario della gara, contesta in questa sede l’ammissione dei due RTI controinteressati, che lo seguono in graduatoria, in ragione delle preclusioni imposte dal nuovo rito super accelerato delineato dall’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a.
1.1. Si pone quindi come preliminare, anche in considerazione delle eccezioni di inammissibilità formulate dai resistenti, l’esame della sussistenza della condizione dell’azione, data dall’interesse a ricorrere, del ricorrente divenuto aggiudicatario, alla luce del nuovo sistema processuale speciale introdotto dal d.lgs. n. 50/2016.
1.2.
Il legislatore, invero, derogando al principio dettato dall’art. 100 c.p.c, secondo cui “per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”, ed innovando rispetto alla granitica giurisprudenza amministrativa in merito, ha onerato tutti i partecipanti ad una gara, dell’impugnazione immediata delle ammissioni in una fase antecedente al sorgere della lesione concreta e attuale data dall’aggiudicazione, in ragione dell’impossibilità a far valere poi i profili inerenti all’illegittimità di tali determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale, proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata impugnata l’aggiudicazione; ciò, nella precipua ottica di cristallizzare e rendere intangibile la fase di gara relativa agli operatori economici ammessi a partecipare, ovvero, in altri termini, “a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara” (parere Consiglio di Stato, 01.04.2016, n. 855), in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione, evitando così un possibile annullamento dell’affidamento per un vizio a monte della procedura.
1.3. La questione, quindi, nasce nel momento in cui su tale sistema processuale “chiuso e speciale” intervenga l’aggiudicazione, che concretizza la lesione dell’interesse legittimo dei concorrenti che aspirino a tale bene.
1.4.
Seguendo un’impostazione classica, se in corso di causa dovesse intervenire un fatto esterno incidente sull’interesse a ricorrere facendo venir meno l’utilità del ricorso anticipato (come l’aggiudicazione allo stesso ricorrente), l’azione diventerebbe improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, perché ormai incapace di portare un distinto vantaggio al ricorrente, meglio soddisfatto col bene finale.
1.5.
Il Collegio tuttavia, pur consapevole dell’assoluta novità della questione, ritiene che detta impostazione tradizionale debba essere rivista alla luce dell’eccezionalità del nuovo rito, che ha definito un modello complessivo di contenzioso appalti a duplice sequenza, in cui il nuovo sottosistema accelerato viene disgiunto da quello successivo delle impugnazioni per altri vizi della procedura di gara (es. vizi del bando, della composizione della commissione, della documentazione prodotta ma verificata dopo l’aggiudicazione, dell’offerta stessa), ovvero dell’esito oggettivo della stessa.
Invero,
se l’omessa impugnazione dell’ammissione degli altri concorrenti fa consumare, come visto, il potere di dedurre le relative censure in sede di impugnazione dell’aggiudicazione, parimenti tali censure non potranno essere mosse dall’aggiudicatario che volesse paralizzare, con lo strumento del ricorso incidentale, quello principale proposto avverso l’affidamento dell’appalto, allorquando non abbia tempestivamente esercitato detto potere ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis.
Dichiarare, allora, il ricorso inammissibile, recte improcedibile, in ragione del raggiungimento del bene ultimo dell’aggiudicazione da parte del ricorrente, e quindi del mancato ottenimento di ulteriori benefici dall’esclusione dei controinteressati, non utilmente collocati –secondo la regola classica– comporterebbe da ultimo una situazione alquanto singolare, ove non del tutto violativa del diritto di difesa, per cui il ricorrente aggiudicatario si vedrebbe precluso l’esame delle proprie doglianze nei confronti degli altri concorrenti, i quali, invece, ben potrebbero ottenere l’accoglimento delle proprie ragioni contro l’ammissione del ricorrente, ed in via derivata, l’aggiudicazione ottenuta.
In altri termini,
in ragione della separazione delle due fasi processuali, cui corrispondono anche riti diversi, la successiva aggiudicazione non può ritenersi tale da incidere sull’interesse a ricorrere ex art. 120, comma 2-bis, non essendo venuta meno l’utilità (o la ratio) del ricorso anticipato.
1.6. Ne deriva allora l’ammissibilità del ricorso proposto, ai sensi della predetta norma, dal ricorrente aggiudicatario avverso le ammissioni degli altri concorrenti.

APPALTI: Ati, alla mandataria il grosso dell'esecuzione. Anche se la mandante ha più requisiti.
In un raggruppamento temporaneo (Ati) la mandataria deve svolgere la prestazione in misura maggioritaria anche se possiede meno requisiti della mandante; i raggruppamenti sovrabbondanti non sono vietati in senso assoluto.

È quanto afferma il Consiglio di stato (sentenza 08.02.2017 n. 560 della V Sez.) rispetto a una questione che riguardava la presunta illegittimità della partecipazione di un raggruppamento in cui la mandante era in possesso di requisiti di partecipazione (di capacità economico-finanziaria) in misura maggioritaria rispetto alla mandataria in asserita violazione di quanto disposto dall'art. 275, comma 2, del dpr n. 207 del 2010 e del punto 6.1.3 del disciplinare di gara; inoltre si discuteva del fatto che entrambi i partecipanti al raggruppamento erano autonomamente in possesso della totalità dei requisiti richiesti dalla lex specialis per partecipare alla gara, dando luogo a un raggruppamento sovrabbondante, in violazione del principio di libera concorrenza, di particolare importanza nel settore speciale oggetto della gara.
Il collegio giudicante ha chiarito che l'esegesi letterale dell'art. 275, comma 2, del regolamento di attuazione del codice dei contratti (all'epoca vigente) pone in evidenza che il riferimento in misura maggioritaria riguarda l'esecuzione delle prestazioni da parte della mandataria, e non anche il possesso dei requisiti. La finalità della disposizione è quella, dice la sentenza, di evitare che la mandataria possa assumere, all'interno del raggruppamento, una posizione secondaria, il che riguarda precipuamente l'impegno operativo che la medesima assume.
La norma è finalizzata a evitare che l'impresa mandataria possa assumere una posizione secondaria nell'esecuzione della prestazione. Per quel che attiene poi al raggruppamento sovrabbondante, la sentenza richiama la giurisprudenza che ha indirettamente chiarito che un siffatto raggruppamento non è vietato in via generale dall'ordinamento, anche in considerazione del favor del diritto europeo alla partecipazione alle gare ad evidenza pubblica anche dei soggetti riuniti, quale che sia la forma giuridica di tale aggregazione. Da ciò la conferma della validità della partecipazione del raggruppamento temporaneo (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Natura di reato di pericolo presunto - Prova dell'effettivo disturbo di più persone - Esclusione della perizia o consulenza tecnica - Superamento della soglia della normale tollerabilità - Configurabilità del reato di cui all’art. 659 cod. pen. - Giurisprudenza - Fattispecie.
In tema di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, l'affermazione di responsabilità per la fattispecie di cui all’art.659 cod. pen., non implica, attesa la natura di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato (Cass., Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, Calvarese).
Sicché, l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché il Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (Cass., Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montali, a mente della quale in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete (fattispecie: disturbo al riposo ed alle occupazioni dei vicini, non impedendo ai propri due cani di latrare ed abbaiare di giorno e di notte) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2017 n. 5613 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di gestione (trasporto e raccolta) di rifiuti non pericolosi - Mancanza di autorizzazione - Esclusione della occasionalità - Reato istantaneo - Fattispecie - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 256, comma primo, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, trattandosi di illecito istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative previste dalla norma, purché costituisca un'attività di gestione di rifiuti e non sia assolutamente occasionale (Cass., Sez. 3, n. 8193 dell'11.02.2016, Revello; nei medesimi termini, quanto al trasporto di rifiuti senza autorizzazione, e quindi nell'ottica della sufficienza, per integrare il reato, anche di un unico trasporto, tra le altre, Sez. 3, n. 02/10/2014, Cristinzio; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino; Sez. 3, n. 21655 del 13/04/2010, Hrustic).
Nella specie, ai ricorrenti veniva contestato di aver effettuato, in due distinte occasioni, un'attività di gestione (trasporto e raccolta) di rifiuti non pericolosi in difetto della prescritta autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2017 n. 5611 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa graduatoria non scorre per l'idoneo non vincitore.
Decaduti. Gli idonei non vincitori del vecchio concorso nell'Asl non possono ottenere lo scorrimento della graduatoria e accaparrarsi dunque un posto di lavoro. E ciò perché alle aziende e agli enti del sistema sanitario nazionale non si applicano i limiti alle assunzioni che valgono per altre amministrazioni pubbliche e consentono le proroga dell'efficacia triennale per le graduatorie.
È quanto emerge dalla sentenza 07.02.2017 n. 189, pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
Bocciato il ricorso degli idonei per un concorso in una struttura soppressa cui è subentrato l'ente di supporto tecnico amministrativo della Regione.
Nella specie non si applica il principio affermato dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato laddove nella pubblica amministrazione si è verificata un'inversione delle opzioni secondo cui lo scorrimento della graduatoria è ormai la regola generale e l'indizione di un nuovo concorso l'eccezione (sentenza 14/2011). E ciò perché per le Asl risultano rimossi dalla finanziaria 2007 i vincoli alle assunzioni posti dalla manovra economica del 2005. Per aziende e enti del Ssn, dunque, resta soltanto l'obbligo di ridurre la spesa complessiva per il personale, che non basta da solo a far scattare lo scorrimento delle graduatorie.
Da tempo, insomma, la spending review nel settore sanitario prevede obiettivi quantitativi e complessivi ma senza limiti di carattere numerico, ciò che quindi esclude la proroga dell'efficacia delle graduatorie e ne determina la decadenza. Non giova ai candidati idonei al concorso sostenere che l'atto emanato dall'amministrazione sarebbe contraddittorio perché si discosta dalla prassi seguita fino a quel momento di attingere dalle graduatorie di precedenti procedure concorsuali in quanto ritenute ancora vigenti. Si tratta di un ragionamento che si potrebbe condividere se si trattasse di un provvedimento discrezionale.
E invece l'atto che dichiara decadute le graduatorie non è che il precipitato sul piano amministrativo di una precisa normativa: le stesse prese di posizione della Regione mostrano che manca un assetto normativo che ne prevede la perdurante vigenza. Ai lavoratori non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 18.02.2017).
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MASSIMA
III. Il ricorso non è suscettibile di accoglimento.
Con il primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 4, co. 4, d.l. n. 101/2013, letto con riferimento all’art. 35, co. 5-ter, del d.lgs. n. 165/2001.
Ad avviso dei ricorrenti, dopo la modifica dell’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001 (ad opera dell'art. 3, comma 87, della legge n. 244/2007) con l’introduzione del comma 5-ter secondo cui “Le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale presso le amministrazioni pubbliche rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi regionali”, sarebbe rovesciato il principio della prevalenza dell’esperimento di una nuova procedura concorsuale rispetto allo scorrimento delle graduatorie vigenti.
Si sarebbe verificato, cioè, il consolidamento della normalizzazione del meccanismo dello scorrimento delle graduatorie concorsuali, ribaltando il rapporto rispetto alla procedura concorsuale, tanto che il Consiglio di Stato (Ad. Plen, 28.07.2011, n. 14) è giunto ad affermare che "
sul piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace, quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l'indizione del nuovo concorso costituisce l'eccezione e richiede un'apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio impasto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico”.
IV. La tesi non può essere seguita.
Va in primo luogo rilevato che
l’affermazione del Consiglio di Stato sopra riportata è resa nel presupposto della perdurante validità della graduatoria concorsuale considerata. In altri termini, intanto è possibile assegnare la preminenza allo scorrimento in luogo di un nuovo concorso in quanto vi sia una graduatoria ancora in corso di validità.
Orbene, fermo restando quanto appena rilevato, la questione in discussione è proprio quella della perdurante validità delle graduatorie alle quali fa riferimento, elencandole, il provvedimento impugnato che costituisce il necessario presupposto per l’applicazione del principio stabilito enunciato.
V. Rileva, condivisibilmente, l’amministrazione resistente per i dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale l’art. 1, comma 565, della l. n. 296/2006 non ha più previsto i limiti alle assunzioni inseriti in precedenza dall’art. 1, comma 98, della l. n. 311/2004, fissando soltanto l’obbligo di riduzione della spesa complessiva sostenuta per il personale.
Ne discende che non potrebbe trovare applicazione, come sostenuto dai ricorrenti, l’art. 4, co. 4, del d.l. n. 101/2013 secondo cui “L'efficacia delle graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato, vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, relative alle amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni, è prorogata fino al 31.12.2016” (ora fino al 2017 in forza dell’art. 1, co. 368, l. n. 232/2016).
Dunque, alla regola generale fissata dall’art. 35, co. 5-ter, del d.lgs. n. 165/2001 si è sovrapposta, per effetto di disposizioni più volte reiterate, la possibilità di proroga delle graduatorie, ma solo nei riguardi delle “amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni”.
VI. Ai fini della risoluzione della controversia, è necessario, quindi, accertare se le amministrazioni sanitarie possano farsi rientrare nel perimetro di quelle soggette a limitazioni delle assunzioni.
In proposito, viene in primo luogo in considerazione quanto disposto, relativamente al triennio 2007-2009, dall'art. 1, comma 565, della legge n. 296/2006, secondo cui "gli enti del Servizio sanitario nazionale, fermo restando quanto previsto per gli anni 2005 e 2006 dall’articolo 1, commi 98 e 107, della legge 30.12.2004, n. 311, e, per l’anno 2006, dall’articolo 1, comma 198, della legge 23.12.2005, n. 266, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure necessarie a garantire che le spese del personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, non superino per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1,4 per cento".
Se ne deduce che la norma in parola ha escluso le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale da puntuali vincoli assunzionali intesi in termini numerici (riferiti al contingente di personale già in servizio), imponendo dolo una riduzione della spesa complessiva prevista per tale voce di bilancio, fatta eccezione per le aziende soggette a piani di rientro in caso di dissesto finanziario, ipotesi pacificamente non ricorrente nel caso di specie.
Tanto si desume, pianamente, dalla lettura dell’art. 1, comma 98, della legge n. 311/2004 il quale prevedeva che "ai fini del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare previo accordo tra Governo, regioni e autonomie locali da concludere in sede di Conferenza unificata, per le amministrazioni regionali, gli enti locali …..e gli enti del Servizio sanitario nazionale, sono fissati criteri e limiti per le assunzioni per il triennio 2005-2007, previa attivazione delle procedure di mobilità e fatte salve le assunzioni del personale infermieristico del Servizio sanitario nazionale".
In attuazione di quanto previsto da tale norma, veniva emanato il D.P.C.M. del 15.02.2006, recante appunto criteri e limiti alle assunzioni di personale da parte degli enti del SSN.
VII. Successivamente il Legislatore, a far tempo dalla citata l. n. 296/2006, ha sostituito tale regime vincolistico con obiettivi quantitativi e complessivi di riduzione della spesa per il personale, senza limiti di carattere numerico.
Così l'art. 2, comma 71 della legge 23.12.2009 n. 191, ha stabilito che "fermo restando quanto previsto dall'articolo 1, comma 565, della legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni, per il triennio 2007-2009, gli enti del Servizio sanitaria nazionale concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando, anche nel triennio 2010-2012, misure necessarie a garantire che le spese del personate, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'imposta regionale sulle attività produttive, non superino per ciascuno degli anni 2010, 2011 e 2012 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1,4 per cento”.
Le disposizioni sopra menzionate sono state in seguito estese, dapprima agli anni 2013 e 2014 (v. art. 17, comma 3 del decreto legge n. 98/2011), poi agli anni 2013, 2014 e 2015 (dall’art. 15, comma 21 del d.l. n. 95/2012) ed infine al periodo dal 2013 al 2020 (dall’art. 1, comma 584, lett. a), della legge finanziaria per il 2015).
VIII.
Se ne deve concludere che, alla luce della disciplina sopra riportata, non possono esservi dubbi che le aziende o gli enti del SSN siano esclusi dai limiti assunzionali, con la conseguenza che non è applicabile nei loro confronti il regime di proroga delle graduatorie invocato dai ricorrenti.
In tal senso si è già condivisibilmente espressa parte della giurisprudenza (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 27.02.2014 n. 227; id., 03.09.2014, n. 961; TAR Umbria, 19.11.2015 n. 531) ritenendo rimossi i limiti alle assunzioni in precedenza inseriti dall'art. 1, comma 98, della legge n. 311 del 2004, mantenendo solamente l'obbligo di riduzione della spesa complessiva del personale, con la conseguenza che a tali enti non si applica la normativa speciale prevedente la proroga dell'efficacia triennale delle graduatorie dei pubblici concorsi, in quanto è proprio l'esistenza di limitazioni alle assunzioni che giustifica la necessità di ricorrere allo scorrimento della graduatoria (in termini Cons. Stato, Sez. V, 10.09.2012, n. 4770).
E d’altro canto le prese di posizione del Consiglio regionale della Toscana e dell’Assessore al diritto alla salute, richiamate in memoria dai ricorrenti, e tese a richiedere il ripristino delle graduatorie dichiarate decadute, non possono che rafforzare tali conclusioni dal momento che di esse non vi sarebbe alcuna necessità se vi fosse un assetto normativo che ne statuisse già la perdurante vigenza.
IX. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano l’atto impugnato sotto il profilo della contraddittorietà giacché contrastante con la prassi fin ad allora seguita di attingere dalle graduatorie di precedenti procedure concorsuali siccome ritenute ancora vigenti.
La tesi non può essere seguita.
E’ evidente infatti che tale contraddittorietà sarebbe ravvisabile solo se si fosse in presenza di un provvedimento a contenuto discrezionale. Diversamente, nel caso di specie, l’emanazione dell’atto qui avversato non è che il precipitato, sul piano amministrativo, di una normativa che, come sopra diffusamente esposto, esclude la validità delle graduatorie per il personale delle aziende sanitarie, al di là dei limiti temporali generali fissati dall’art. 35, co. 5-ter, del d.lgs. n. 165/2001, e dunque preclude l’utilizzazione di tali graduatorie ai fini del loro scorrimento seguendone che, per un verso, diviene irrilevante il diverso atteggiarsi sul punto dei soppressi ESTAV e, per altro verso, l’amministrazione resistente non avrebbe potuto adottare un atto di diverso contenuto.
Ciò vale ad elidere anche l’affermato vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento atteso che,
pacificamente, in relazione ad atti a contenuto vincolato, quali quelli in discussione, rileva esclusivamente la relativa conformità alla normativa applicabile e non sono configurabili vizi tipici dell'attività discrezionale (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 13.03.2013 n. 1514).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Nozione di rifiuto e limiti alla qualificazione in sottoprodotto - Rigorosi presupposti di legge - Onere probatorio - Fattispecie: segatura e truciolati di legno - Artt. 183, 184-bis d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo dì disfarsi; esattamente quel che accade con gli scarti di produzione, salva la possibilità della diversa qualificazione in sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152 del 2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge.
Sicché, in genere la segatura ed i truciolati sono da considerarsi scarti delle lavorazioni del legno e hanno la natura di rifiuto, salvi i casi in cui il citato onere probatorio in senso contrario (Cass., Sez. 3, n. 51422 del 06/11/2014, D'Itri; Sez. 3, n. 37208 del 09/04/2013, Cartolano; Sez. 3, n. 48809 del 28/11/2012, Solimeno; Sez. 3, n. 18743 del 19/10/2011, Rosati). A prescindere dal "valore" economico o commerciale di questo, specie nell'ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica.
RIFIUTI - Cessione onerosa di rifiuti - Insufficiente per escludere la natura di rifiuto - Ininfluenza del "valore" economico o commerciale del rifiuto.
La circostanza che un rifiuto sia ceduto ad altra società dietro pagamento di denaro regolarmente fatturato non risulta sufficiente per escludere la natura di rifiuto, che, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis d.lgs. n. 152/2006), non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all'autorità (oppure creato proprio a tal fine), come se il negozio giuridico riguardasse l'oggetto stesso della produzione e non -come in effetti- proprio un rifiuto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2017 n. 5442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Responsabilità del committente, costruttore, direttore dei lavori, dirigente o responsabile del competente ufficio comunale - Individuazione - Concorso nel reato urbanistico - Extraneus - Profilo del dolo o della colpa - Profilo oggettivo e soggettivo - Artt. 29, 44, lett. c, d.P.R. 380/2001 e 142, 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati urbanistici, è indubbio che nel reato "proprio" di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 -i cui autori sono individuati, dall'art. 29 d.P.R. cit., nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori- possa concorrere l'extraneus.
Anche se, il precetto penale è diretto non a chiunque, ma soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto; tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art. 29, compreso il sindaco che con la concessione edilizia illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi (cfr., ex multis, Sez. 3 n. 996 del 15/10/1988).
È necessario, però, che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa).
Reati edilizi - Dirigente o del responsabile UTC - Obbligo di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia - Emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari - Obbligo di impedire l'evento dannoso - Artt. 27 e 31 d.P.R. 380/2001.
In materia edilizia, l'art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 pone a carico del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di intervenire ogni qualvolta venga accertato l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001).
Egli è quindi certamente titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di attivarsi per impedire l'evento dannoso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2017 n. 5439 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Svolgimento di attività in assenza di autorizzazioni - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Principio di retroattività della legge più favorevole e successione di leggi amministrative - Applicazione - Esclusione - Divieti esistenti ai momento del fatto.
Il principio di retroattività della legge più favorevole non trova applicazione in riferimento alla successione di leggi amministrative che abbiamo a regolare le procedure per lo svolgimento di attività, il cui carattere criminoso dipenda dall'assenza di autorizzazioni (tra le altre, Sez. 3, n. 25035 del 25/05/2011, dep. 22/06/2011, Pasinetti e altro; Sez. 3, n. 18193 del 12/03/2002, dep. 14/05/2002, Pata); in detta ipotesi rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti esistenti ai momento del fatto.
Sicché, a fronte di tale principio è irrilevante l'assenza di motivazione della sentenza impugnata posto che l'accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Cass., Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014, dep. 11/03/2015, Bianchetti).
Interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata - Difformità totale o parziale o in variazione essenziale - Qualificazione giuridica e individuazione della sanzione penale applicabile - Artt. 31, 32, 34 e 44, lett. c), del d. P.R. n. 380/2001.
In presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali (Cass. Sez. 3, n. 37169 del 06/05/2014, dep. 05/09/2014, Longo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2017 n. 5435 - link a
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APPALTI: Contratti di cui sia parte una Pubblica Amministrazione (anche se agente "iure privatorum") - Forma scritta "ad substantiam" - Prestazioni ulteriori o diverse rispetto a quelle espressamente elencate nel contratto scritto - Necessità di un nuovo impegno di spesa e autonomo contratto.
I contratti di cui sia parte una Pubblica Amministrazione (anche se agente "iure privatorum") richiedono la forma scritta "ad substantiam", dovendo il documento negoziale consentire, perciò, l'esatta individuazione del contenuto del programma obbligatorio e contenere le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da svolgersi da ciascuna delle parti.
Allorché l'amministrazione richieda prestazioni ulteriori e diverse rispetto a quelle espressamente elencate nel contratto scritto, è così necessario un nuovo impegno di spesa ed un autonomo contratto, con cui si stabiliscano l'oggetto di tali prestazioni e i rispettivi compensi spettanti al privato, senza che a tal fine sia sufficiente fa riferimento a manifestazioni di volontà implicita o a comportamenti puramente attuativi (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12316 del 15/06/2015; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 26826 del 14/12/2006; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21138 del 04/11/2004).
Assenza di valida ed impegnativa obbligazione dell'ente locale - Il rapporto obbligatorio insorge direttamente con l'amministratore o con il funzionario - Difetto del requisito della sussidiarietà - Azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente - Limiti.
Agli effetti dell'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989 (convertito, con modificazioni nella 1. n. 144 del 1989), quando manchi una valida ed impegnativa obbligazione dell'ente locale, il rapporto obbligatorio insorge direttamente con l'amministratore o con il funzionario che abbia consentito la prestazione, sicché, per difetto del requisito della sussidiarietà, resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente (salvo esplicito riconoscimento del debito fuori bilancio con apposita deliberazione dell'organo competente) (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24860 del 09/12/2015; Cass. Sez. 1, Sentenza n.18567 del 21/09/2015; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24478 del 30/10/2013) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 02.02.2017 n. 2809 - link a www.
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EDILIZIA PRIVATAL’art. 9, lett. g), legge n. 10 del 1977 ha previsto la gratuità della concessione edilizia limitatamente alle opere realizzate in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità e così l’art. 56, comma 6, legge n. 219 del 1981, che con specifico riferimento al terremoto del novembre 1980, ha disposto che per le opere eseguite in dipendenza del sisma nei Comuni di cui all’art. 1 non si applicano le disposizioni previste dall’art. 3 legge n. 10 del 1977.
Dette disposizioni, costituendo eccezione alla regola generale della onerosità della concessione edilizia, sono di stretta e rigorosa interpretazione e l’inciso secondo cui l’esenzione è applicabile per le opere eseguite “in dipendenza del sisma” evidenzia la necessità di un nesso causale rigoroso ed esclusivo, nel senso che le opere da realizzarsi devono trovare giustificazione nell’azione rovinosa del terremoto.
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Le opere esenti dal contributo previsto dal citato art. 3 della legge n. 10/1977 sono soltanto quelle di riparazione o ricostruzione di preesistenti superfici danneggiate o distrutte dal terremoto e non anche quelle relative a nuovi interventi che non si siano resi necessari per conseguire l’adeguamento abitativo.
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3. Con il secondo motivo di censura l’appellante lamenta, nel merito, la violazione dell’art. 9 della legge n. 122/1989 e dell’art. 3 e segg. della legge n. 10/1977.
Il Comune sostiene che il TAR avrebbe errato nel ritenere che l’Ente non avrebbe correttamente determinato gli oneri urbanistici, escludendo dal computo, a termini della legge n. 122/1989, il secondo piano interrato destinato a parcheggi pertinenziali delle unità abitative.
3b. Al riguardo, giova premettere che nell’originario ricorso il sig. Vi.Sa. sosteneva che essendo la ricostruzione avvenuta a seguito del sisma, alle opere realizzate, ai sensi dell’art. 56 della legge n. 219/1981 (ora art. 49 T.U. n. 76/1990) non si dovevano applicare le disposizioni di cui all’art. 3 della legge n. 10/1977 quanto ai costi di costruzione, ivi compresa la parte eccedente la mera ricostruzione, assentita in relazione al piano di recupero adottato dal Comune ai sensi dell’art. 28 della stessa legge n. 219/1981.
Tale pretesa, però, è stata correttamente disattesa dal TAR, nel presupposto che l’art. 9, lett. g), legge n. 10 del 1977 ha previsto la gratuità della concessione edilizia limitatamente alle opere realizzate in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità e così l’art. 56, comma 6, legge n. 219 del 1981, che con specifico riferimento al terremoto del novembre 1980, ha disposto che per le opere eseguite in dipendenza del sisma nei Comuni di cui all’art. 1 non si applicano le disposizioni previste dall’art. 3 legge n. 10 del 1977.
Dette disposizioni, costituendo eccezione alla regola generale della onerosità della concessione edilizia, sono di stretta e rigorosa interpretazione e l’inciso secondo cui l’esenzione è applicabile per le opere eseguite “in dipendenza del sisma” evidenzia la necessità di un nesso causale rigoroso ed esclusivo, nel senso che le opere da realizzarsi devono trovare giustificazione nell’azione rovinosa del terremoto.
L’art. 49, comma 6, del d.lgs. 30.03.1990, n. 76, ha ribadito, poi, che non sono dovuti i contributi per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per le opere eseguite in dipendenza degli eventi sismici del 1980/1981 (anche a norma dell’art. 9, lett. g), della legge n. 10 del 1977), anche quando la ristrutturazione o ricostruzione dell’edificio comporti la modifica strutturale dello stesso, ma nel dovuto rispetto del piano di recupero approvato in dipendenza del sisma e se tale modifica sia in toto ricollegabile alla calamità naturale.
Nel caso in trattazione, invece, l’immobile del quale è stata chiesta la ricostruzione, seppure danneggiato dal sisma, è stato edificato con volumi maggiori di quello demolito, con un intervento non ricollegabile pienamente alla calamità naturale e il comma 2 dell’art. 48 del d.lgs. 30.03.1990, n. 76, dispone che “sono esclusi dai benefici previsti dal presente testo unico gli immobili, quand’anche inclusi nei piani di recupero, la cui ristrutturazione o ricostruzione, in tutto o in parte, non sia ricollegabile con l’evento sismico”.
Come evidenziato dal TAR è da condividere, allora, che le opere esenti dal contributo previsto dal citato art. 3 della legge n. 10/1977 sono soltanto quelle di riparazione o ricostruzione di preesistenti superfici danneggiate o distrutte dal terremoto e non anche quelle relative a nuovi interventi che non si siano resi necessari per conseguire l’adeguamento abitativo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.02.2017 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto fondamentale affinché possa operare la speciale deroga del pagamento degli oneri urbanistici ex art. 9 della legge 122/1989 è, quindi, che i parcheggi siano realizzati a servizio di fabbricati preesistenti e non di nuovi fabbricati.
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4. Il Comune, però, contesta la tesi del TAR che la deroga al pagamento degli oneri urbanistici prevista dall’art. 9 della legge n. 122/1989, sia applicabile al piano dell’edificio adibito a parcheggi, sostenendo che si tratta di una norma speciale, prevista unicamente in favore dei parcheggi realizzati a servizio di fabbricati preesistenti e non di nuovi fabbricati.
4b. Orbene, l’art. 9 della legge n. 122/1989, al primo comma, stabilisce che “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”.
Il secondo comma dell’articolo precisa che “l’esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal comma 1 è soggetta ad autorizzazione gratuita”.
Presupposto fondamentale affinché possa operare la speciale deroga del pagamento degli oneri urbanistici ex art. 9 della legge 122/1989 è, quindi, che i parcheggi siano realizzati a servizio di fabbricati preesistenti e non di nuovi fabbricati, come nel caso qui in trattazione, atteso che l’edificio preesistente al sisma era costituito da un piano cantinato parziale, un piano terra, un piano ammezzato parziale e da piani abitativi in elevazione, mentre l’edificio realizzato dopo il sisma, risulta costituito da un secondo piano interrato ad uso autorimessa pertinenziale, da un primo piano interrato destinato a sottonegozi, da un piano terra destinato a negozi, da un piano ammezzato destinato ad uffici, da piani abitativi in elevazione e da un sottotetto e copertura.
L’esenzione contributiva prevista dall’art. 9 legge 122/1989 non può, pertanto, operare rispetto al secondo piano interrato, destinato a parcheggi pertinenziali delle unità abitative ed uffici soprastanti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.02.2017 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Consolidata giurisprudenza esclude la necessità della partecipazione nei procedimenti di contrasto all’abusivismo edilizio, ovvero, sotto diversa angolazione prospettica, nega al vizio de quo carattere invalidante.
In ottica più generale, inoltre, il diritto vivente richiede che il privato, il quale lamenti il mancato coinvolgimento nell’azione amministrativa, indichi con sufficiente precisione quegli elementi, specie di fatto, che avrebbe potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato chiamato a partecipare: solo in tal modo, infatti, la censura de qua si rivela espressione di un’istanza di tutela sostanziale ed individuale (recte “soggettiva”) e non una mera critica di una formale e generale (recte “oggettiva”) disfunzione amministrativa.
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Quanto al merito, il Collegio, sulla scorta della natura vincolata dell’ordinanza di demolizione gravata, ritiene la superfluità della comunicazione di avvio.
Si premette che oramai consolidata giurisprudenza esclude la necessità della partecipazione nei procedimenti di contrasto all’abusivismo edilizio (ex multis C.d.S., IV, 26.08.2014, n. 4279), ovvero, sotto diversa angolazione prospettica, nega al vizio de quo carattere invalidante; in ottica più generale, inoltre, il diritto vivente richiede che il privato, il quale lamenti il mancato coinvolgimento nell’azione amministrativa, indichi con sufficiente precisione quegli elementi, specie di fatto, che avrebbe potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato chiamato a partecipare: solo in tal modo, infatti, la censura de qua si rivela espressione di un’istanza di tutela sostanziale ed individuale (rectesoggettiva”) e non una mera critica di una formale e generale (recteoggettiva”) disfunzione amministrativa.
Nello specifico della vicenda per cui è causa, a tenore delle previsioni del locale PRG la zona ove insiste il fabbricato è soggetta a radicale vincolo inaedificandi; di converso, le opere in questione concretano con ogni evidenza un intervento di nuova edificazione, giacché non si limitano all’elevazione di muri di contenimento, peraltro di rilevanti dimensioni, ma si sostanziano nella realizzazione di volumi coperti.
Alla luce di ciò, il Comune non poteva che ordinare la demolizione dell’opus, non disponendo di uno spazio di discrezionalità sotto alcun rispetto (an, quid, quomodo, quando), ma versando, al contrario, nella condizione di dover solo riscontrare nella realtà materiale la ricorrenza dei presupposti (edificazione in area inedificabile) al cui positivo riscontro la legge riconnette l’esercizio di un potere normativamente in toto conformato.
La natura interamente vincolata del potere nella specie speso rende, pertanto, applicabile il richiamato art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990: l’Amministrazione, mediante la produzione del verbale del sopralluogo nel corso del quale sono state rilevate le opere abusive e il preciso riferimento alle prescrizioni urbanistiche vigenti nell’area, ha assolto all’onere processuale delineato dalla disposizione in commento, dimostrando che il “contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Né, per vero, valgono in contrario senso le considerazioni formulate in primo grado dalla sig.ra Fi.: in disparte la, peraltro assorbente, considerazione circa la mancata riproposizione in appello delle medesime, con effetto di rinuncia ex lege (art. 101, comma 2, c.p.a.), non vi possono essere dubbi circa il “regime giuridico cui restano soggette le opere in contestazione”, inevitabilmente destinate alla demolizione in quanto la loro stessa esistenza è, a quanto consta, incompatibile con le vigenti prescrizioni urbanistiche (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.02.2017 n. 445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RUMORE - INQUINAMENTO ACUSTICO - Accertamento della intollerabilità delle immissioni rumorose - Criterio valutabile caso per caso o criterio comparativo - Situazione ambientale - Poteri del giudice di merito - Accorgimenti idonei o tecnici per ridurre le immissioni - Artt. 844, 2043 e 1226 c.c. - Giurisprudenza.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c., diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell'uomo medio e, dall'altro, alla situazione locale.
Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l'intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del 05/08/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c. - Accertamento e mezzi di prova esperibili - Accertamenti di natura tecnica e prova testimoniale.
I mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d'ufficio con funzione "percipiente", in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone.
Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Immissioni sonore - Modalità di rilevamento e intensità dei rumori - Protezione della salute pubblica - Art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose).
In tema di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all'intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell'art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 2319 del 01/02/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17/01/2011).
Sicché, i criteri dettati dal d.m. 16.03.1998 attengono, al superamento dei valori limite differenziali di immissione di rumore nell'esercizio o nell'impiego di sorgente di emissioni sonore, di cui all'art. 6, comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di apposito illecito amministrativo (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28386 del 22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).
RISARCIMENTO DEL DANNO - Risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite - Danno biologico.
Il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. "comunitarizzazione" della Cedu (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014) (Corte di cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.01.2017 n. 1606 - link a
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: CONDOMINIO - Utilizzo della cosa comune - La sostituzione di un muro di confine comune con un cancello non viola ex se l'art. 1102 c.c.
In tema di comunione, vale in principio, per cui ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un'utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso sconfini nell'esercizio di una vera e propria servitù. Pertanto, la sostituzione di un muro di confine comune con un cancello non viola ex se l'art. 1102 c.c., trattandosi soltanto di utilizzo più intenso della cosa comune, secondo la sua naturale destinazione (delimitazione perimetrale e protezione/isolamento dell'esterno delle proprietà), che ne consente il pari uso (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22341 del 21/10/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4900 del 01/04/2003).
L'accertare se gli atti e le opere dei singoli condomini, miranti ad un'intensificazione del proprio godimento della cosa comune, siano conformi o meno alla destinazione della cosa comune, in considerazione dei limiti imposti dall'art. 1102 c.c., è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Corte di cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.01.2017 n. 1606 - link a
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INCARICHI PROFESSIONALIParcelle, liti risolte in camera. Procedimento semplificato se si tratta solo del quantum. AVVOCATI&COMPENSI/ Gli orientamenti più recenti della Cassazione e dei Tar.
L'ordinamento giuridico generale e speciale stabilisce, accanto all'obbligo del mandante/committente di retribuire il proprio difensore, anche il diritto di opporsi alla quantificazione del relativo compenso.
Si applicherà, pertanto, il procedimento camerale quando l'opposizione a decreto ingiuntivo concerna soltanto il quantum della pretesa dell'avvocato.

È quanto stabilito dalla II Sez. civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 18.01.2017 n. 1212.
Nella stessa sentenza i giudici di piazza Cavour hanno aggiunto anche che, in ossequio anche ad un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, la speciale procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile, regolata dagli artt. 28 e ss. della legge 13.06.1942, n. 794, non sia applicabile quando la controversia riguardi non soltanto la semplice determinazione della misura del corrispettivo spettante al professionista, bensì anche altri oggetti di accertamento e decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, i limiti del mandato, l'effettiva esecuzione delle prestazioni e la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa azionata, poiché il procedimento ordinario è il solo previsto e consentito per la definizione di tali questioni, sicché, in questo caso, l'intero giudizio deve concludersi con un provvedimento che abbia forma e sostanza di sentenza, impugnabile con l'appello (tra le più recenti, Cass. sez. II, sentenza n. 21554 del 13/10/2014).
Inoltre, per la liquidazione del compenso per l'esercizio della professione forense, quello che è determinante per l'accoglimento della a domanda dell'avvocato è la documentazione, ovvero, la prova non equivoca dell'effettività della prestazione professionale, indipendentemente dalla correttezza della denominazione di tale attività indicata nella parcella.
QUALE TARIFFA APPLICABILE
Per quanto, poi, riguarda l'individuazione della tariffa applicabile all'attività professionale svolta dall'avvocato, i giudici della Cassazione civile (sez. III, 20/10/2016, n. 21256) hanno affermato che dovrà farsi riferimento al momento in cui si considera conclusa la prestazione del legale. E tale momento coincide con la sentenza di primo grado.
Quindi, i compensi professionali, regolati dal dm n. 140/2012, andranno ad applicarsi in tutti quei casi in cui la liquidazione giudiziale sia intervenuta dopo l'entrata in vigore del decreto, a condizione che in tale data la prestazione professionale non sia ancora stata completata.
Ed, inoltre, qualora, dunque, il grado cui devono essere liquidate le spese si sia concluso quando erano ancora vigenti le tariffe professionali di cui al dm n. 127 del 2004, è quest'ultimo che governa la liquidazione. Si osserva, infatti, che «il giudizio di primo grado sfocia in una sentenza idonea a concludere ogni accertamento processuale passando in giudicato, essendo sotto il profilo del rito una mera eventualità l'impugnazione della pronuncia».
Tale lettura offerta dagli Ermellini discende dai principi generali della successione delle leggi nel tempo.
IMPUGNAZIONE TRA APPELLO E CASSAZIONE
Sempre in tema di compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati, gli stessi giudici della Cassazione, nel 2016 (Cassazione civile, sez. VI, 12/12/2016, n. 25480) hanno osservato come il provvedimento con cui il giudice adito, a conclusione di un processo iniziato ai sensi degli artt. 28 e seguenti della legge n. 794 del 1942, non si limiti a decidere sulla controversia tra l'avvocato ed il cliente circa la determinazione della misura degli onorari, ma pronunci anche sui presupposti del diritto al compenso, relativi all'esistenza e alla persistenza del rapporto obbligatorio, può essere impugnato con il solo mezzo dell'appello e non invece con il ricorso per cassazione trattandosi di questioni di merito, la cui cognizione non può essere sottratta al doppio grado di giurisdizione.
Nella sentenza del 2016, sulla base degli atti difensivi, risultava che il convenuto non si fosse limitato a far valere in giudizio questioni attinenti le sole tariffe forensi, ma aveva contestato anche l'esistenza del rapporto obbligatorio.
Inoltre, qualora, dunque, il grado cui devono essere liquidate le spese si sia concluso quando erano ancora vigenti le tariffe professionali di cui al dm n. 127 del 2004, è quest'ultimo che governa la liquidazione.
CHI È OBBLIGATO A PAGARE L'AVVOCATO?
Restando sempre in tema di obbligazioni, la stessa Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 30/09/2016, n. 19416) ha avuto modo di osservare che obbligato a corrispondere il compenso professionale all'avvocato per l'opera professionale richiesta non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell'interesse di un terzo.
E invero, hanno sottolineato i giudici, potrebbe anche capitare che una parte, la quale debba essere rappresentata e difesa in un giudizio destinato a svolgersi in una città diversa da quella della propria residenza, non conoscendo legali di quel foro, si rivolga a un professionista della propria città, e che sia poi quest'ultimo a metterla in corrispondenza con un legale del foro ove deve aver luogo il processo, al quale la parte conferisce il mandato ad litem.
Pertanto sarà possibile che la parte abbia inteso intrattenere un rapporto di clientela unicamente con il professionista che già conosceva, e abbia conferito al legale dell'altro foro soltanto la procura tecnicamente necessaria all'espletamento della rappresentanza giudiziaria: sicché il mandato di patrocinio in favore di quest'ultimo non proviene dalla parte medesima, bensì dal primo professionista, che ha individuato e contattato il legale del foro della causa e sul quale graverà perciò l'obbligo di corrispondere il compenso.
È, altresì, vero che potrebbe anche verificarsi che la parte abbia inteso direttamente conferire ad entrambi i legali il mandato di patrocinio (oltre che la procura ad litem). Ed è evidente che, in siffatta ipotesi, secondo i giudici della Cassazione, è appunto la parte ad essere tenuta al pagamento del compenso professionale, e non invece il primo legale. L'accertare, di volta in volta, in quale di tali diverse situazioni si verta integra dunque, con ogni evidenza, una questione di fatto, che come tale è rimessa alla valutazione del giudice di merito e, se decisa in base ad adeguata e logica motivazione, si sottrae ad ogni possibile vaglio in sede di legittimità.
QUANDO SARÀ DOVUTA L'IVA
Restando in tema di quantum, in rapporto anche a situazioni di evidente natura obbligatoria, il Tar (Napoli, (Campania), sez. VII, 01/09/2016, n. 4145) ha avuto modo di affermare che l'Iva non è dovuta al legale che difende sé stesso in giudizio, poiché è un'ipotesi di autoconsumo fuori campo Iva ex art. 3, comma 3, dpr n. 672 del 1973: non può ovviamente invocare, come il legale distrattario (cui invece spetta), un diritto di rivalsa contro il cliente. In ogni caso, in quanto titolare di partita Iva, ha diritto alla detrazione di tale imposta.
Secondo la giustizia amministrativa, pertanto, il difensore dovrà emettere fattura con addebito anche dell'Iva solo nei confronti del proprio cliente, atteso che l'obbligo di adempimento del relativo onere per il soggetto soccombente trova titolo esclusivamente nella statuizione di condanna contenuta nella sentenza, anche in assenza di espressa pronuncia in ordine al tributo.
Rileva, tuttavia, che nei casi in cui il cliente vincitore, destinatario della fattura, sia soggetto passivo d'imposta e la vertenza inerisca all'esercizio della propria attività di impresa, arte o professione, egli ha titolo di recuperare l'imposta, della quale subisce la rivalsa non solo giuridica ma anche economica, in sede di esercizio del diritto di detrazione previsto dall'art. 19 del richiamato dpr n. 633 del 1972 (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAIl prg non guarda indietro. Valida la concessione rilasciata prima delle modifiche. Tar Campania: il titolo inizia ad avere effetti al di là della comunicazione all'interessato.
Quel palazzo s'ha da fare anche se oggi l'area risulta non edificabile. Possibile? Sì, perché nel momento in cui deve ritenersi rilasciata la concessione edilizia non erano ancora intervenute le modifiche alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale (prg) che hanno posto il vincolo nella zona.

È quanto emerge dalla sentenza 13.01.2017 n. 325, pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Napoli, che accoglie il ricorso del proprietario che dal '93 stava cercando di costruire un fabbricato in un popoloso centro alle porte di Napoli.
Annullato il provvedimento del comune che nega la concessione dopo il via libera della commissione edilizia e il placet dello stesso commissario (che in quel momento regge l'amministrazione). Il rifiuto viene motivato sul rilievo che l'area risulta di interesse archeologico e che l'edificabilità è divenuta nelle more incompatibile con le parziali modifiche intervenute al prg. Ma nel frattempo l'interessato ha già versato gli importi al comune relativi al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione, come richiesto dallo stesso ente locale.
E la Soprintendenza non si è opposta alla realizzazione delle opere. Insomma: il procedimento per il rilascio del titolo edilizio deve ritenersi già concluso al momento di approvazione della disciplina urbanistica sopravvenuta, anche se l'interessato non ha ritirato il titolo. Il diritto alla trasparenza delle amministrazioni è un terreno di forte scontro fra cittadini e imprese, da una parte, e istituzioni, dall'altra.
Entro un mese, per esempio, il comune deve pubblicare sul suo sito web atti e documenti che giustificano la modifica delle previsioni degli strumenti urbanistici se dalle tavole grafiche messe in rete finora risulta che lo stato dei luoghi di una strada non corrisponde al piano regolatore generale e alla successiva variante approvata dal consiglio comunale. E ciò grazie al decreto «trasparenza» invocato dall'azienda, cui evidentemente sta a cuore il tracciato di quella via.
È quanto emerge dalla sentenza 16.09.2015 n. 1253, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari. Accolto il ricorso della società che invoca il decreto legge 33/2013 contro l'illegittimità del silenzio serbato dall'amministrazione locale. La prima istanza chiede la pubblicazione degli atti e delle informazioni necessari per rendere trasparenti e coerenti fra loro le previsioni normative e grafiche di strumenti urbanistici comunali vigenti. La seconda scende nel particolare dello stato dei luoghi della strada «incriminata». Ma l'amministrazione non dà seguito all'una né all'altra.
I documenti richiesti, però, rientrano nel novero degli atti dei quali il privato può chiedere l'ostensione. Pesa in proposito l'articolo 5 del dl 33/2013, che dispone: «Se il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l'amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale». Il comune deve dunque mettere sul suo sito internet gli atti indicando il link al privato.
E ancora: può bastare la Dia per realizzare l'insediamento produttivo fuori dal centro abitato nella zona in cui mancano i piani attuativi previsti dal piano regolatore generale.
È quanto emerge dalla sentenza 08.11.2016 n. 705, pubblicata dalla prima sezione del TAR Abruzzo-L'Aquila. Sbaglia infatti il comune a bloccare la realizzazione dell'impianto di stoccaggio di rifiuti non pericolosi senza verificare se dall'intervento scaturisce un organismo edilizio che per volumi e superfici coperte supera i limiti indicati dal dpr 380/2001 (articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2017).

APPALTIAnche il subappaltatore ha accesso alla contabilità.
Fuori la contabilità. Anche il subappaltatore ha diritto a ottenere dall'ente committente i documenti sullo stato d'avanzamento dei lavori: l'accesso difensivo, infatti, prevale sulle esigenze di riservatezza, anche di natura commerciale; a patto che serva al richiedente per esercitare in futuro un suo diritto: ad esempio, promuovere un'azione giudiziaria.
E l'ostensione ben può riguardare documenti contabili quando è attraverso atti di natura privatistica che l'amministrazione persegue i suoi fini pubblicistici.

È quanto emerge dalla sentenza 19.12.2016 n. 1913, pubblicata dalla II Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Obbligo di trasparenza
Il ricorso della cooperativa è accolto perché in capo alla subappaltatrice si configura una situazione di incertezza sulla contabilizzazione negli stati di avanzamento dei lavori che sono stati svolti dalla società. Sbaglia l'amministrazione committente quando rifiuta l'accesso alle carte sul rilievo che il solo legittimato a richiedere l'ostensione sarebbe l'aggiudicatario, in quanto «unico soggetto titolare del rapporto», sul piano «formale e sostanziale».
L'interesse a tutelare i propri interessi giudici risulta prioritario anche rispetto alle esigenze di segretezza tecnica. E all'obbligo di trasparenza risultano soggetti anche gli atti disciplinati dal diritto privato: nella funzione di tutela degli interessi pubblici curata dall'amministrazione non rientra soltanto l'attività puramente autoritativa. All'ente committente non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017).
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MASSIMA
1.- Rilevato che la ‘C.M.P. - Co.Mu.Pu. s.c.r.l.’, sub-appaltatrice in una gara indetta dall’Università del Salento, formulava istanza di accesso agli atti “relativi alla contabilizzazione del 14° S.A.L. e successivi’.
2.- Considerato che l’Amministrazione respingeva l’istanza evidenziando che la Cooperativa non aveva un interesse concreto e attuale all’estrazione degli atti in parola, da un lato in quanto “unico soggetto titolare formale e sostanziale del rapporto” contrattuale doveva reputarsi il Consorzio Stabile Lavori, aggiudicatario della gara, e, dall’altro, per aver la CMP interrotto i lavori in un momento precedente a quello oggetto del 14° SAL e ss..
3.- Osservato che:
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ai sensi dell’art. 22, l. 07.08.1990, n. 241, nelle gare pubbliche l’impresa aggiudicataria di un appalto ha diritto di accesso alle riserve apposte al registro di contabilità e alle relative controdeduzioni del direttore dei lavori, trattandosi di documentazione che, ancorché privatistica, attiene a un ambito di rilevanza pubblicistica atteso che l’Amministrazione, mediante l’esecuzione delle opere, mira essenzialmente a perseguire le proprie finalità istituzionali (cfr. Consiglio di Stato, IV, 28.01.2016, n. 326); e ancora: <<non solo l’attività puramente autoritativa ma tutta l’attività funzionale alla cura di interessi pubblici è sottoposta all’obbligo di trasparenza e di conoscibilità da parte degli interessati, inclusi gli atti disciplinati dal diritto privato (Cons. St., A.P., 22.04.1999, n. 4) con la conseguenza che “la documentazione richiesta, sebbene abbia natura privatistica (contratto di appalto con la società DEC, stati di avanzamento lavori, certificati e relativi mandati di pagamento), rientra comunque nella nozione di documento amministrativo [cfr. art. 22, comma 1, lett. d) della legge n. 241 del 1990], in quanto sono stati adottati da un ente pubblico che, come noto, persegue le proprie finalità pubblicistiche anche attraverso strumenti di diritto privato i cui atti sono soggetti all’accesso e, quindi, ostensibili al privato (cfr., Cons. Stato, IV, 04.02.1997, n. 82)” (TAR Lazio Roma, III, 07.10.2013, n. 8639)>> (TAR Emilia-Romagna Parma, I, 13.03.2015, n. 84).
- la posizione di sub-appaltatrice prima e di diretta consorziata poi della CMP non determinava il venir meno della sua soggettività giuridica ed economica, sicché la stessa era certamente legittimata a esercitare, almeno in linea generale e in una prospettiva defensionale, il diritto di accesso.
2.- Ritenuto che,
in concreto, l’interesse all’accesso in parola dev’essere ricondotto alla situazione di allegata incertezza circa il contenuto dei lavori eseguiti dalla Cooperativa -situazione relativamente alla quale non compete a questo Giudice, in fase di accesso, esprimere alcun giudizio, dovendosi soltanto ‘registrare’, ai fini dell’accoglimento del ricorso, l’obiettiva esistenza della medesima: <<Com’è noto, d’altronde, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale delle parti contro-interessate>> (Tar Puglia Lecce, II, 02.07.2013, n. 1566).
3.- Ritenuto che:
- deve dunque dichiararsi l’illegittimità del rifiuto opposto dall’Amministrazione intimata e, conseguentemente, ordinarsi alla stessa di esibire i documenti oggetto dell’istanza ostensiva datata 16.02.2016, con facoltà per la ricorrente di estrarre copia di quelli di ritenuta utilità.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATADecoro architettonico, la Soprintendenza non è vincolante.
Capita spesso che i condòmini abbiano interesse a intervenire sulle parti comuni con modificazioni finalizzate ad un miglior godimento delle proprie unità immobiliari. Come aprire o allargare porte, realizzare nuove finestre, recuperare sottotetti o realizzare abbaini.
Il problema che si pone è come e se lo possano fare e se occorra una preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea del condominio.
È necessario innanzitutto verificare che il regolamento non ponga limitazioni o divieti. Poi si passa al Codice civile: l’articolo 1102 prevede che il comproprietario, e quindi ogni condòmino, possa intervenire sulle parti comuni a proprio vantaggio, senza alcuna autorizzazione assembleare, per ottenere un più proficuo utilizzo delle parti comuni, purché non alteri la destinazione del bene, non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, e non crei particolari pregiudizi e (qui entra inscena l’articolo 1120) non si tratti di innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato alterino il decoro architettonico o rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso od al godimento anche di un solo condòmino.
Sulla congiunta applicazione dei limiti degli articoli 1102 e 1120 è stato estremamente chiaro il TRIBUNALE di Milano -Sez. XIII civile- con la sentenza 30.11.2016 n. 13226, che, richiamandosi ai principi già espressi dalla Corte di Cassazione con la sentenza 2406/2004, ha chiarito quali appunto siano i limiti all’intervento dei singoli condomini.
Per quanto riguarda la tutela della stabilità e della sicurezza del fabbricato non si pongono particolari questioni interpretative.
Per quanto riguarda la tutela del decoro architettonico, posto che si tende a mantenere inalterate le linee generali del fabbricato e le sue specifiche caratteristiche architettoniche in modo da non recarne una alterazione sensibile (Cassazione, sentenze 7398/2001 e 16098/2003), la sentenza milanese ha inoltre chiarito che, in caso di immobili vincolati, l’eventuale autorizzazione della Soprintendenza non è vincolante per il giudizio estetico, ma il giudice può liberamente valutarla al pari delle altre prove.
L’articolo 1122 del Codice civile ha poi posto una limitazione al libero intervento da parte del singolo condòmino, stabilendo che non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza od al decoro architettonico dell’edificio; e che debba in ogni caso darne preventiva notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea.
La novità è che, mentre sulla base del solo articolo 1102 del Codice civile il singolo poteva agire senza alcuna informativa o comunicazione preventiva, ora, prima di eseguire le opere dovrà informare compiutamente l’amministratore degli interventi che intende realizzare e questi dovrà riferirne all’assemblea. L’assemblea a sua volta, qualora ravvisi la sussistenza di un pregiudizio, potrà intervenire deliberando un divieto o agendo direttamente nei confronti del condòmino per il blocco o la sospensione delle opere
 (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017).

EDILIZIA PRIVATALa conformità dei manufatti alle norme urbanistico edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità come si evince dagli artt. 24, comma 3, del DPR n. 380/2001 e 35, comma 20, della Legge n. 47/1985, in quanto, ancor prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata.
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3.5 Nessun pregio, infine, può attribuirsi all’ultimo rilievo con cui le parti ricorrenti in entrambi i giudizi affermano che la destinazione d’uso pubblico del porticato non costituisce vincolo d’inedificabilità assoluta, ma ha natura pattizia: proprio per questo –cioè che il vincolo ha carattere contrattuale e che giammai il Comune ha prestato il proprio consenso a modificare l’originaria determinazione negoziale– il vincolo esiste tutt’ora e va rispettato.
4.- Dalla testé riscontrata infondatezza dei proposti gravami deriva, come si è innanzi anticipato, l’infondatezza della domanda contenuta nel ricorso Rg. n. 2619/2015: la conformità dei manufatti alle norme urbanistico edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità come si evince dagli artt. 24, comma 3, del DPR n. 380/2001 e 35, comma 20, della Legge n. 47/1985, in quanto, ancor prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata (TAR Campania, Napoli, VIII, 07.04.2016, n. 1767 cit.).
Pertanto correttamente l’Ente, dopo aver provveduto a legittimare dal punto di vista edilizio le opere di chiusura di parte di porticato e di cambio di destinazione d’uso del piano terra, ha rivisto la pregressa attività amministrativa come culminata nell’adozione di titoli in sanatoria rilasciati in violazione del vincolo di destinazione ad uso pubblico dei porticati; a nulla rileva, poi, che la realizzazione dei porticati sia stata scomputata dagli oneri d’urbanizzazione, atteso che si trattava di aree destinate alla collettività quali sono risultate quasi dimezzate dall’avanzamento del fronte edificato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 17.10.2016 n. 4737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO OCCASIONALE.
Rifiuti - Trasporto occasionale di propri rifiuti - Obbligo di iscrizione all'Albo - Sussistenza - Errore sul fatto - Rilevanza - Esclusione.
Artt. 212, 256, D.Lgs. n. 152/2006; artt. 5, 47, cod. pen..
In tema di trasporto di rifiuti, l'occasionalità del trasporto non è un requisito previsto dalla normativa per escludere l'obbligo della comunicazione all'Albo Nazionale dei Gestori Ambientali in quanto, secondo l'art. 212, comma 8, D.Lgs. n. 152/2006, in caso di trasporti saltuari di rifiuti non pericolosi effettuato dal loro produttore, non eccedenti la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri per volta, si è esonerati soltanto dalla necessità del formulario di cui all'art. 193: pertanto gli imprenditori che producano rifiuti e li trasportino, indipendentemente dal fatto che il trasporto possa essere occasionale, hanno l'obbligo di iscriversi all'Albo.
La mancata conoscenza della necessità di iscrizione all'Albo non integra né errore di diritto, né errore sul fatto di cui all'art. 47 cod. pen. se fondati sulla personale convinzione che il titolare dell'impresa abbia dell'applicabilità nei suoi confronti di un obbligo penalmente presidiato, soprattutto se tale convinzione derivi dal silenzio serbato sul punto dal proprio consulente.

Nella specie, all'imputato era stato contestato di aver esercitato attività di raccolta e trasporto di macerie derivanti da demolizioni edili senza essere iscritto all'Albo Nazionale dei Gestori Ambientali: il C., infatti, era stato controllato dalla Polizia Stradale di Magenta mentre trasportava, a bordo del proprio autocarro, rifiuti provenienti da demolizione di costruzioni edili, come da formulario esibito agli operanti.
Il prevenuto si era difeso affermando di non essere a conoscenza della necessità dell'iscrizione all'Albo perché non informato in tal senso dal proprio commercialista. Questa tesi, non accolta nel giudizio di merito, è stata riproposta nel ricorso per cassazione unitamente alla questione della mancanza di illiceità della condotta contestata.
La Corte di Cassazione ha osservato, prima di tutto, che era palesemente infondata la prospettazione difensiva dell'errore scusabile fondato sul non aver svolto l’attività in forma professionale (l'imputato, infatti, aveva dedotto di essere titolare di un’impresa, operante nel campo delle ristrutturazioni edili, che raramente aveva necessità di effettuare il trasporto dei propri rifiuti tanto che ne aveva effettuato, in precedenza, uno solo, nel 2003).
Secondo la Corte, l'occasionalità del trasporto non è un requisito previsto dalla normativa per escludere l'obbligo della comunicazione: infatti, il trasporto occasionale e saltuario dei rifiuti non pericolosi effettuato dal loro produttore, quando non ecceda la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri per volta, esime soltanto dalla necessità del formulario di cui all'art. 193 D.Lgs. n. 152/2006 (documento di cui, peraltro, l'imputato era invece in possesso al momento del controllo).
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, l'art. 212, comma 8, cit. dec. si applica proprio agli imprenditori che, in virtù dell'attività svolta, producano rifiuti e li trasportino, indipendentemente dal fatto che il trasporto possa essere occasionale perché non sempre necessaria conseguenza della propria attività.
In secondo luogo, la Cassazione, in coerenza con il proprio consolidato orientamento sul punto, ha osservato che né l'errore di diritto, né l'errore sul fatto di cui all'art. 47 cod. pen., possono trovare alimento, per essere scusati, nella personale convinzione che l'imputato abbia dell'applicabilità nei suoi confronti di un obbligo la cui omissione è penalmente sanzionata, tanto meno se tale convinzione si fonda sul silenzio serbato sul punto dal consulente dell'impresa.
Infatti, non può essere invocata l'ignoranza della legge penale ex art. 5 cod. pen. da parte di chi, professionalmente inserito in un campo di attività collegato alla materia disciplinata dalla legge integratrice del precetto penale, non si uniformi alle regole di settore, per lui facilmente conoscibili in ragione dell'attività professionale svolta (Corte d Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.03.2015 n. 12946 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: MOLESTIE OLFATTIVE.
Emissioni in atmosfera - Molestie olfattive - Assenza di limiti predeterminati per legge - Parametro di legalità dell’emissione - Stretta tollerabilità - Prova della molestia.
Art. 674 cod. pen.
In caso di odori promananti da un impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, l'evento del reato di cui all'art. 674 cod.pen. consiste nella molestia arrecata alle persone da apprezzarsi secondo il criterio della "stretta tollerabilità" e non della normale tollerabilità di cui all'art. 844 cod. civ. e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche (e cioè valori-soglia) in materia di odori.
Qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni purché non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto percepito.

Il legale rappresentante di una compagine societaria, accusato di aver provocato emissioni in atmosfera tali da provocare odori nauseabondi fastidiosi per le persone residenti nella zona, veniva condannato per la contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen..
Nel proporre ricorso per cassazione, l’imputato deduceva:
   - inosservanza o erronea applicazione di legge penale con riferimento all'art. 674 cod. pen. in quanto il Tribunale lo aveva condannato anche se erano stati rispettati i valori limite di cui alle autorizzazioni, sì che la condotta avrebbe dovuto esser collocata in ambito esclusivamente civilistico;
   - mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riguardo all'elemento soggettivo in quanto il Tribunale avrebbe dovuto negare il profilo psicologico della condotta, atteso che l'imputato -attenendosi alle prescrizioni di cui all'autorizzazione- sarebbe caduto in errore sul fatto che costituisce reato; la buona fede, inoltre, sarebbe stata rafforzata dall'esito positivo dei sopralluoghi più volte compiuti dalle autorità di protezione ambientale;
   - mancanza, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione con riguardo alla prova delle molestie in quanto, a fondamento della condanna, erano state poste le dichiarazioni di testimoni che avevano riferito soltanto di sensazioni, peraltro non supportate da certificati medici o perizie;
   - mancanza, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione con riguardo alla prova dell'avvenuto superamento della normale tollerabilità delle emissioni.
La Cassazione ha respinto il ricorso.
Con riguardo al primo e terzo motivo, esaminati insieme, il Collegio ha osservato che il reato di cui all'art. 674 cod.  pen. è configurabile anche in presenza di "molestie olfattive" promananti da un impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche (e cioè valori soglia) in materia di odori con conseguente individuazione del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità dell'emissione, più adeguato di quello della "normale tollerabilità", previsto dall'art. 844 cod. civ..
La Corte ha replicato all'assunto difensivo secondo cui è stato affermato in alcune decisioni che la configurabilità del reato è esclusa in presenza di immissioni provenienti da attività autorizzata e contenute nei limiti di legge o dell'autorizzazione osservando che tali pronunce si riferiscono a casi diversi da quello in esame, in cui cioè vi era piena corrispondenza "qualitativa" e "tipologica" tra le immissioni riscontrate e quelle oggetto del provvedimento amministrativo o disciplinate dalla legge, tra quelle accertate e quelle che l'agente si era impegnato a contenere entro determinati limiti; situazione nella quale, invero, il rispetto dei limiti implica una presunzione di legittimità del comportamento, concepita dall'ordinamento come necessaria per contemperare le esigenze di tutela pubblica con quelle della produzione economica.
Nel caso di specie, la Cassazione ha perciò ribadito i seguenti principi:
   a) l'evento del reato consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del limite della stretta tollerabilità;
   b) qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti.
In forza di queste premesse giuridiche, la Corte ha concluso che la sentenza era priva di contraddizioni ed era logicamente argomentata: infatti, il Giudice aveva dato atto che, pur nel rispetto dei valori limite autorizzati di immissioni, non riferiti né riferibili agli odori, proprio questi ultimi si erano presentati con caratteri pacificamente molesti; che numerosi testi -abitanti nelle vicinanze della torrefazione- avevano indicato un odore terribile di caffè bruciato che, specie all'ora di pranzo, si diffondeva nelle loro case, provocando nausea e, talvolta, anche vomito ed iniziale immissione di un fumo nero nelle loro abitazioni.
Per il supremo Collegio risultava irrilevante la censura secondo cui il Giudice non aveva disposto alcun accertamento tecnico in ordine al contestato superamento della normale tollerabilità delle immissioni atteso che la molestia olfattiva non può esser "accertata" in via scientifica, con qualsivoglia esame, ma deve esser affidata alla prova testimoniale ed alla verifica della sua attendibilità.
Ha poi ritenuto corretta la decisione del Giudice che non aveva tenuto conto degli accertamenti effettuati dagli organi competenti in quanto il ricorrente aveva sovrapposto impropriamente le immissioni autorizzate (ed oggetto di limiti) con quelle estranee all'autorizzazione, come le olfattive, e così pretendeva che gli esami compiuti sulle une riverberassero i propri effetti, in termini probatori, anche sulle altre.
Da ultimo, è stato ritenuto infondato anche il motivo riguardante l'elemento soggettivo perché il Giudice di merito aveva sottolineato che l'imputato aveva proseguito nell'attività senza adottare alcun accorgimento pur consapevole degli esposti e delle segnalazioni da parte di molti abitanti della zona con riguardo agli odori nauseabondi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2015 n. 12019 - Ambiente & sviluppo 6/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: TERRE E ROCCE DA SCAVO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Attività di frammentazione o macinatura - Obbligo di autorizzazione - Esclusione.
Artt. 186, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Non è configurabile il reato di gestione di rifiuti abusiva in presenza di un'attività di frammentazione o macinatura di terre e rocce da scavo, in quanto tale attività non costituisce un'operazione di trasformazione preliminare ai sensi dell'art. 186, D.Lgs. n. 152/2006 non determinando di per sé stessa alcuna alterazione dei requisiti merceologici e di qualità ambientale del materiale.
Il titolare di una società di costruzioni veniva condannato per il reato di cui all'art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 per avere effettuato attività di messa a riserva e raccolta di rifiuti non pericolosi (provenienti dalla attività di costruzione e demolizione e dalla lavorazione della pietra) in assenza della prescritta autorizzazione.
Contro tale decisione l’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo l'erronea qualificazione del materiale come rifiuto: a detta del ricorrente, parte del materiale era già esistente al momento dell'acquisto e parte era stato portato in seguito dall'imputato, il quale, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice, non aveva iniziato nessuna attività di messa a riserva e gestione di rifiuti prima di ottenere l'autorizzazione, essendosi limitato a sistemare l'area.
In sostanza, il ricorrente riteneva applicabile la disciplina dei sottoprodotti di cui all'art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006 trattandosi di materiali immediatamente riutilizzabili.
Il ricorso è stato accolto.
La Cassazione ha rilevato che il giudice di merito aveva preso atto di quanto "lealmente" ammesso dall'imputato con la conseguenza che andava accettata anche la dichiarazione riguardante la preesistenza di parte dei materiali rispetto all'acquisto del sito avvenuto nel 2008: in tal caso, a prescindere dalla individuazione del tipo di materiale rinvenuto, andava esclusa la responsabilità dell'imputato in applicazione del generale principio di diritto secondo cui la compravendita di un terreno sul quale sono stati raccolti da terzi rifiuti non può integrare, a carico del compratore, il reato di deposito incontrollato di rifiuti neanche sotto il profilo che, trattandosi di reato permanente, esso debba essere addebitato anche a colui che, pur non essendo concorso nell'attività di accumulazione di rifiuti, abbia acquistato la proprietà del terreno ove gli stessi si trovino.
Per il restante materiale, la Corte ha ribadito che non è configurabile il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata in presenza di un'attività di frammentazione o macinatura di terre e rocce da scavo, in quanto tale attività non costituisce un'operazione di trasformazione preliminare ai sensi dell'art. 186 non determinando di per sé stessa alcuna alterazione dei requisiti merceologici e di qualità ambientale.
Dalla sentenza impugnata in effetti risultava che era in corso la frantumazione del materiale con l'uso di un mezzo meccanico che, secondo il ricorrente, serviva per adattare i materiali alla sistemazione della pavimentazione dell'area per renderla idonea a svolgere l'attività per cui era stata avanzata la richiesta di autorizzazione per la messa a riserva e recupero di rifiuti.
La Corte ha perciò concluso che l'attività di riutilizzazione per rifacimento della pavimentazione posta in essere dal prevenuto con i restanti materiali non integrava il reato contestato (Cote di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.03.2015 n. 10483 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI DI COSTRUZIONE E DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Scarico di rifiuti di costruzione e da demolizione - Responsabilità del proprietario dell'area - Sussistenza
Artt. 192, 256 D.Lgs. n. 152/2006.
La responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, ma può scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda.
Ritenendo sussistente il pericolo di aggravamento della contravvenzione di abbandono/deposito incontrollato di rifiuti di costruzione e da demolizione, la Polizia Giudiziaria disponeva in via di urgenza il sequestro preventivo di un’area.
Nel successivo provvedimento cautelare, il GIP, dopo aver condiviso la prospettazione accusatoria ed aver individuato nella fattispecie quali soggetti responsabili dell'abbandono dei rifiuti il proprietario dell'area, il legale rappresentante dell'impresa incaricata dei lavori e il direttore dei lavori, riteneva potersi configurare un loro coinvolgimento in quanto non "appar[iva] credibile l'affermazione [...] circa la non conoscenza degli autori del deposito".
Il Tribunale del riesame rigettava la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo. Contro detta ordinanza, seguiva l’articolato ricorso per Cassazione da parte di uno degli imputati.
Il ricorrente sosteneva che l'ipotesi accusatoria ascrittagli (artt. 192 e 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006) ha natura di reato proprio, il quale richiede, quale elemento costitutivo, la qualità di titolare di impresa e di responsabile di ente in capo all'autore della violazione in virtù del qualificato ruolo di responsabilità nella gestione dei rifiuti connesso alla loro attività: su questa premessa, eccepiva che né al proprietario dell'area, né al direttore dei lavori, in quanto non riconducibili nel novero dei destinatari del precetto penale, poteva essere contestata tale ipotesi di reato. Al più, sempre che l'autorità amministrativa deputata alla irrogazione delle sanzioni avesse riscontrato una corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono in termini di comportamento commissivo o omissivo, colposo o doloso, il proprietario poteva essere destinatario dell'ordine di smaltimento previsto dall'art. 192 e della sanzione amministrativa di cui all'art. 255.
In conclusione, non potendosi configurare nel caso di specie il reato contestato, bensì solo un illecito amministrativo, sarebbe mancato in radice il fumus commissi delicti, e, con esso, il presupposto per potersi far luogo al sequestro.
Il ricorrente evidenziava inoltre che il Corpo Forestale dello Stato aveva riferito che i rifiuti rinvenuti nell'area sequestrata, variamente depositati all'interno e all'esterno della stessa, provenissero di certo da altri cantieri senza che fosse dato sapere chi li avesse ivi abbandonati.
Tuttavia, a parte queste circostanze, sulla cui veridicità non potevano essere nutriti dubbi, tutti gli altri rilievi, quali la destinazione dei rifiuti al riempimento degli scavi e alla creazione del sottofondo, così come la probabile presenza di altri non visibili, secondo il ricorrente, erano solo ipotesi e illazioni, come tali inutilizzabili ai fini di un giudizio prognostico di colpevolezza.
Alla luce delle uniche risultanze processuali di indagine connotate da "certezza", quindi, nel caso di specie, non vi erano elementi di prova che consentissero di ricondurre alla condotta degli indagati l'attività contestata di deposito di rifiuti, né, tantomeno, altre condotte illecite solamente supposte.
La Cassazione ha ritenuto i motivi del ricorso non meritevoli di accoglimento.
Quanto alla lamentata violazione di legge circa la natura del reato ipotizzato a carico del ricorrente, la sentenza ha ricordato che, in più occasioni, si è affermato che la responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino ì doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda
(1).
La Cassazione ha poi osservato che il Tribunale di Sondrio, facendo applicazione di tale principio, aveva offerto una congrua motivazione in termini di fumus del reato: infatti, dopo aver ricordato che il 02.04.2014 personale del Corpo Forestale dello Stato aveva eseguito un controllo in località Poggiridenti, occupata da un cantiere per esecuzione dei lavori di costruzione di autorimesse interrate, l’ordinanza aveva dato atto che, nel corso del controllo, era stata notata la presenza di rifiuti provenienti da attività di costruzione e di demolizione sparsi in varie parti del cantiere.
Si trattava segnatamente:
a) di circa 10-15 mc. all'interno dello scavo di realizzazione delle autorimesse e livellati per il successivo interramento e formazione di sottofondo;
b) di altri 1015 mc. all'esterno dei muri perimetrali delle autorimesse ed impiegati come materiale di riempimento dei muri esterni delle stesse;
c) infine, nell'area nord del cantiere, di un ulteriore accumulo di circa 20-25 mc. di rifiuti di varia natura (materiali da demolizioni, cartongesso, secchi vuoti di plastica, rifiuti di legno e ferrosi, monitor di pc), il tutto come meglio descritto nel verbale di accertamenti urgenti.
La sentenza riportata ha quindi rilevato che la proprietaria dei terreni era la "G.B. Im. srl" di cui il P. era socio ed amministratore unico; che i rifiuti in questione non potevano essere stati generati all'interno del cantiere e ciò sia per la natura dei lavori autorizzati (scavo con successive opere in calcestruzzo armato, senza alcuna costruzione o demolizione con laterizi, pannelli in cartongesso e secchi di plastica per pitture), sia per la natura stessa di parte dei rifiuti, del tutto inconferenti con le opere di costruzione (ad es. pannelli di monitor e travi di legno), sia infine perché tali rifiuti erano comparsi in cantiere a molti mesi di distanza dall'inizio dei lavori dato che il 05.03.2013 personale del Corpo Forestale dello Stato aveva fatto un accesso in quel cantiere ed i rifiuti non erano presenti.
La polizia giudiziaria aveva perciò reputato provata la miscelazione di tali rifiuti con terre e rocce derivanti dallo scavo e destinate al riempimento degli scavi esterni ai muri di contenimento delle autorimesse, essendo oltretutto presumibile che ulteriori rifiuti, non più visibili, fossero stati miscelati all'interno dell'area.
Alla luce di quanto sopra, il fumus del reato ipotizzato è stato ritenuto sussistente evidenziando come i rifiuti non potessero derivare da lavori di scavo del terreno e successivo getto di calcestruzzo per la esecuzione delle autorimesse interrate oggetto del permesso di costruire comunale, ma provenissero da altre attività di costruzione e/o di demolizione, ovvero costituissero rifiuti che non avevano a nulla che vedere con attività edilizie (es.: monitor di computer).
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Nota
(1) In fattispecie analoga, v. in senso contrario Cass. 10.06.2014, n. 40528, Cantoni, in questa Rivista, 2015, 247, che, a proposito della affermazione che compare nella sentenza in epigrafe e cioè che la responsabilità per la attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza, per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione, ha osservato che tale principio attiene non alla responsabilità del proprietario dell'area, ma a quella del titolare di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.03.2015 n. 8980 - Ambiente & sviluppo 7/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ISCRIZIONE ALL'ALBO.
Rifiuti - Trasporto occasionale di propri rifiuti - Obbligo di iscrizione all'Albo - Mancanza - Reato.
Art. 212, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
In base alla normativa vigente, sussiste l'obbligo di iscrizione nell'albo nazionale dei gestori ambientali per le imprese che effettuano il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e continuativa, costituente parte integrante ed accessoria dell'organizzazione dell'impresa da cui provengono i rifiuti.
Invece, nel caso di trasporti occasionali, pur in assenza dell'obbligo di iscrizione nell'albo, i titolari delle imprese che eseguano un trasporto di rifiuti propri non pericolosi con mezzi non autorizzati commettono il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.

Anche questa sentenza è relativa alla problematica dei trasporti occasionali, ma contiene affermazioni in parte differenti da quelle che si leggono nella decisioni sopra riportata.
Nel corso di un controllo effettuato dagli agenti del Corpo Forestale dello Stato, tal F. veniva colto mentre trasportava rifiuti provenienti da demolizioni edili senza essere provvisto della prescritta autorizzazione e senza che la ditta MC C., intestataria dell'automezzo, fosse iscritta all'Albo nazionale del gestori ambientali.
Gli Agenti disponevano perciò il sequestro probatorio del mezzo e del suo contenuto ritenendo ricorrere gli estremi del reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006. Il sequestro era convalidato dal Pm, ma veniva impugnato dal C. legale rappresentante della MC C. Il Tribunale del riesame annullava il decreto di convalida del Pm motivando in questo senso: la MC C. operava prevalentemente nel campo edilizio e dunque era lecito ritenere che oggetto del trasporto in atto al momento dell'intervento degli agenti fossero costituito da materiali di risulta derivanti da detta attività; sulla base di tale premessa, secondo il Tribunale l'illecito riscontrabile non era quello previsto dal 1° comma dell'art. 256, ma, semmai, dal 4° comma del medesimo articolo il quale non costituisce illecito penale, ma amministrativo.
Avverso detta ordinanza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica osservando che, essendo pacifica la mancata iscrizione sia del mezzo che dell’impresa nell'Albo nazionale dei gestori ambientali, l'illecito realizzato non era, come ritenuto dal Tribunale, quello amministrativo, che ha ad oggetto solo la mancata, incompleta o inesatta redazione dei formulari da parte dei soggetti abilitati al trasporto dei rifiuti, ma l'illecito, penalmente rilevante, del trasporto di rifiuti propri non pericolosi da parte di soggetto non autorizzato.
Il ricorso è stato accolto.
La Corte ha, infatti, preso le mosse dall'art. 212, D.Lgs. n. 152/2006 che ha disciplinato l’iscrizione nell'albo nazionale dei gestori ambientali, prevedendo un regime ordinario di iscrizione a carico delle imprese esercenti professionalmente l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, caratterizzato da una serie di adempimenti volti a valutare l'idoneità di tali imprese e ad assicurare la loro solvibilità mediante la prestazione di idonee garanzie finanziarie a favore dello Stato, ed un regime semplificato (comma 8) per le imprese che, invece, effettuano la raccolta e il trasporto dei rifiuti non pericolosi esclusivamente prodotti da esse stesse, nonché per le imprese che trasportano i propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedente trenta chilogrammi o trenta litri al giorno, a condizione che "tali operazioni costituiscano parte integrante ed accessoria dell'organizzazione dell'impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti".
Quanto alla condizione in presenza della quale è prescritta l'iscrizione nell'albo dei gestori ambientali, la Corte ha ritenuto, secondo l'interpretazione letterale dell'inciso "rifiuti costituenti parte integrante ed accessoria dell'organizzazione dell'impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti", che l'attività di trasporto di rifiuti non pericolosi da parte della stessa impresa che li produce, per essere sottoposta a tale regime semplificato, debba avere i caratteri della ordinarietà e continuità, ossia deve trattarsi di attività inserita, sia pure in via accessoria, nell'organizzazione dell'impresa.
Quindi, alla stregua della normativa vigente, ha ritenuto sussistente l'obbligo di iscrizione nell'albo nazionale dei gestori ambientali, sia pure con modalità semplificate ed oneri minori, per le imprese che effettuano la raccolta ed il trasporto di propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e continuativa, costituente parte integrante ed accessoria dell'organizzazione dell'impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti.
La Corte ha poi chiarito che, quanto ai trasporti occasionali di rifiuti, non aventi i caratteri suindicati, l'assenza dell'obbligo di iscrizione non comporta che le imprese possano effettuare eventuali trasporti episodici di rifiuti propri non pericolosi senza alcun controllo. Difatti, anche un solo trasporto di rifiuti da parte dell'impresa che li produce integra il reato in esame che ha natura istantanea e quindi si perfeziona nel momento in cui si realizza la singola condotta tipica (la sentenza ha ribadito che per i trasporti episodici ed occasionali di rifiuti non pericolosi, le imprese che li producono, pur non essendo tenute all'obbligo di iscrizione nell'albo nazionale gestori ambientali, anziché provvedere al trasporto con mezzi propri, devono rivolgersi ad imprese esercenti servizi di smaltimento, regolarmente autorizzate ed iscritte all'albo gestori ambientali).
L'ordinanza impugnata è stata perciò annullata avendo affermato l’irrilevanza penale dell'attività non autorizzata di trasporto di rifiuti non pericolosi derivanti dall'ordinario svolgimento della propria attività di impresa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.03.2015 n. 8979 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Differenza tra il reato di gestione abusiva e l’abbandono di rifiuti - Nozione di impresa.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L’ipotesi contravvenzionale disciplinata dall'art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 sanziona ogni attività -da intendersi come condotta- che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, così distinguendosi da quella di cui al comma 2 del medesimo articolo che si caratterizza per la rilevanza dell’episodicità della condotta posta in essere da qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell'esercizio, anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale sua o dell'attività medesima.
Avverso il provvedimento del Tribunale del riesame di annullamento del decreto di sequestro preventivo di un autocarro, il Pubblico Ministero proponeva ricorso per Cassazione deducendo che era stata ritenuta non configurabile l'ipotesi di reato di trasporto abusivo di rifiuti, formulata a sostegno della richiesta di sequestro, sulla sola circostanza che il trasporto non era accompagnato dal formulario dei rifiuti; di contro, l'autocarro utilizzato non era iscritto all'albo dei gestori ambientali e pertanto non era autorizzato all'attività di trasporto dei rifiuti. Di conseguenza, risultava violato l’art. 259, comma 2 D.Lgs. n. 152/2006 che impone il sequestro ai fini della confisca obbligatoria del mezzo utilizzato, anche solo eccezionalmente, per il trasporto dei rifiuti.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso notando, prima di tutto, che il trasporto di rifiuti non pericolosi eseguito in assenza del prescritto formulario o con il corredo di un formulario inesatto o incompleto è effettivamente sanzionato dall'art. 258 non come reato, ma come illecito amministrativo, ma che, tuttavia, il GIP aveva ordinato il sequestro dell'autocarro ravvisando nei confronti dell’indagato il fumus del diverso reato di cui all'art. 256, comma 1.
A questo riguardo, la Corte ha ribadito la natura di reato comune della disposizione appena richiamata asserendo che l’ipotesi disciplinata al comma 1 dell'art. 256 sanziona ogni attività -da intendersi come condotta- che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità così distinguendosi da quella di cui al comma 2 del medesimo articolo che si caratterizza, invece, anche per la rilevanza della mera episodicità della condotta, posta in essere pure di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati. Il reato è inoltre configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell'esercizio, anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente dalla qualifica formale sua o dell'attività medesima.
La Cassazione ha rilevato che già il Gip aveva ricordato -evidentemente in relazione al fatto che l'autocarro de quo risultasse di proprietà della U.L. spa e che l’indagato ne fosse il conducente e locatario- la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di gestione dei rifiuti, in caso di trasporto non autorizzato il proprietario del mezzo, che assuma di essere terzo estraneo al reato, può evitare la confisca ed ottenerne la restituzione solo provando la sua buona fede, ovvero di non essere stato a conoscenza dell'uso illecito o che tale uso non era collegabile ad un proprio comportamento negligente.
La sentenza ha quindi concluso che non aveva fatto un buon governo dei principi di diritto ricordati il provvedimento impugnato laddove aveva sostenuto che l’indagato era "titolare di una piccola impresa individuale edile che trasporta verso una discarica autorizzata rifiuti edili" e aveva affermato, a fronte -come ricordato dal PM ricorrente- dell'incontestata circostanza che l'autocarro utilizzato non fosse iscritto all'albo dei gestori ambientali, che ciò non integrava il reato di cui all'art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2015 n. 5933 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: FRANTUMAZIONE DEI MATERIALI DI CAVA.
Emissioni in atmosfera - Impianti di frantumazione dei materiali di cava - Obbligo di richiedere l’autorizzazione.
Artt. 269 e 279, D.Lgs. n. 152/2006.
Le disposizioni in tema di prevenzione dell'inquinamento atmosferico si applicano anche agli impianti di frantumazione dei materiali di cava stante la oggettiva attitudine di questi a dare luogo ad emissioni di pulviscolo e di particolato dell'atmosfera; ai fini della integrazione del reato è sufficiente che siano in atto emissioni moleste derivanti dall’attività produttiva, a prescindere dalla loro intensità.
Nella specie, la Cassazione ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Sulmona aveva condannato il legale rappresentante della M.S. per aver prodotto emissioni in atmosfera in assenza della prescritta autorizzazione.
Infatti, era risultato che l’azienda gestita dal prevenuto svolgesse attività nell'ambito della coltivazione di una cava.
A tale proposito, la Corte ha ribadito, da un lato, che le disposizioni in tema di prevenzione dell'inquinamento atmosferico si applicano anche agli impianti di frantumazione dei materiali di cava stante la oggettiva attitudine di questi a dare luogo ad emissioni di pulviscolo e di particolato dell'atmosfera.
Dall’altro lato, che la contravvenzione prevista dall'art. 279, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, è configurabile indipendentemente dal fatto che le emissioni in atmosfera superino o meno i valori limite stabiliti dalla legge, in quanto è sufficiente che le stesse siano comunque moleste attesa la natura formale del reato in questione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2015 n. 1713 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO DI RIFIUTI PERICOLOSI SENZA FORMULARIO.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario - Reato - Insussistenza.
Artt. 258 e 260-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Il trasporto di rifiuti pericolosi senza il prescritto formulario o con un formulario con dati incompleti o inesatti non è più sanzionato penalmente né dal nuovo testo dell'art. 258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006, che si riferisce alle imprese che trasportano i propri rifiuti e che prevede la sanzione penale per altre condotte né dall'art. 260-bis del medesimo decreto che punisce il trasporto di rifiuti pericolosi non accompagnato dalla scheda Sistri.
Il legale rappresentante della ditta "Za. s.r.l.", che aveva conferito presso l'impianto della ditta "Ro. S.p.A." rifiuti non pericolosi (pneumatici fuori uso), aventi codice CER diverso da quello 160106 (indicato nel formulario di trasporto), veniva mandato a giudizio per il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a) e comma 2, D.Lgs. n. 152/2006. Il Tribunale di Verona proscioglieva il soggetto «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» osservando che era intervenuta la depenalizzazione del reato ad opera del D.Lgs. n. 205/2010, rimanendo come reato solo il trasporto di rifiuti pericolosi, non accompagnato dalla copia cartacea della scheda SISTRI.
Il Procuratore della Repubblica proponeva pertanto ricorso per cassazione deducendo che il fatto costituiva ancora reato perché:
- il D.Lgs. 03.12.2010, n. 205, entrato in vigore il 25.12.2010, aveva depenalizzato l'ipotesi di cui all'art. 258, comma 4, in quanto le vecchie sanzioni relative al formulario di trasporto dei rifiuti sono state sostituite dalla nuova normativa in materia di SISTRI. In particolare, secondo la novella, il sistema SISTRI istituisce, di regola, per la raccolta ed il trasporto di rifiuti, l'obbligo della scheda SISTRI che sostituisce l'obbligo del formulario: l'inosservanza di questo obbligo è sanzionata con le nuove disposizioni dell'art. 260-bis che sostituiscono la sanzione prevista dalla vecchia formulazione dell'art. 258 cit.;
- a fronte di questo chiaro intento del legislatore si inserisce il D.M. 02.12.2010 che rinvia al 01.06.2011 la piena operatività del SISTRI, con conseguente rinvio delle relative sanzioni penali previste, ai sensi del disposto dell'art. 39, comma 1. Peraltro l'art. 6, D.L. 13.08.2011, n. 138 ha differito al 15.12.2011-09.02.2012 il termine di entrata in operatività del SISTRI, differenziato secondo i diversi soggetti cui si riferisce;
- ove si accedesse alla tesi difensiva, si verificherebbe un incongruo ed inammissibile vuoto sanzionatorio, nel corso del quale sarebbe consentito il trasporto di rifiuti senza alcun obbligo e sanzione;
- non appare congruo ritenere applicabile all'ipotesi de qua la sanzione amministrativa prevista dal novellato art. 258 che presuppone comunque la piena operatività del SISTRI;
- per rendere pertanto l’attuale normativa, prima in vigore fino al 01.06.2011 e ora fino a dicembre 2011, conforme all'intento di un legislatore rigoroso sul piano sostanziale della difesa dell'ambiente, ma confuso ed atecnico sul piano redazionale, deve accedersi ad una interpretazione che ritenga operante l'intero vecchio impianto sanzionatorio fino alla piena entrata in vigore del SISTRI, con una ultrattività normativa che appare connaturata alla struttura stessa della disciplina e legata al rinvio della operatività del sistema SISTRI, disposto con successivo D.M.;
- questa impostazione ermeneutica appare l'unica che non contrasti col canone di ragionevolezza dettato dall'art. 3 Cost.
La Cassazione ha respinto il ricorso confermando l'indirizzo secondo cui il trasporto di rifiuti pericolosi senza il prescritto formulario o con un formulario con dati incompleti o inesatti non è più sanzionato penalmente (né dal nuovo testo dell'art. 258, comma quarto, né dall'art. 260-bis) (1).
Pur senza trascurare l’orientamento di segno contrario (2), la Corte ha osservato, innanzitutto, che la questione controversa riguardava il trasporto di rifiuti pericolosi che non rilevava nel caso in esame in cui era stato contestato il trasporto di rifiuti non pericolosi. Del resto, ha osservato la Corte, già secondo la normativa previgente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 205/2010, le violazioni relative ai rifiuti non pericolosi integravano solo un illecito amministrativo.
In secondo luogo, la Cassazione ha sostenuto che, in ogni caso, doveva ritenersi che le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 205/2010, eliminando dall'art. 258, comma 4, il riferimento al trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario contenente dati incompleti o inesatti avesse sottratto tali condotte alla sanzione penale. Vi sarebbe stato quindi un vuoto normativo (sempre che tale si potesse considerare, dal momento che in materia penale tutte le condotte non qualificate come illecite da una specifica norma penale sono positivamente qualificate come lecite, potendosi perciò configurare solo una c.d. lacuna ideologica, ovvero la mancanza di una norma che si vorrebbe che ci fosse) nel periodo intercorrente tra il 25.12.2010, data di entrata in vigore del citato decreto ed il 16.08.2011, data che segna l'inizio della vigenza dell'intervento c.d. riparatore effettuato con l'art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 121/2011, con conseguente applicabilità dell'art. 2 c.p.
Per il supremo Collegio, a tale disposizione può attribuirsi soltanto la natura di norma penale innovativa, con la conseguenza della applicabilità della norma penale più favorevole per i fatti commessi in epoca antecedente al 16.08.2011. Non può invece attribuirsi alla disposizione natura di norma interpretativa con conseguente effetto retroattivo e reviviscenza anche per il passato di una norma sanzionatrice penale già espressamente abrogata dal legislatore con cessazione della sua efficacia.
E’ noto -ha scritto la Corte- che l'effetto abrogativo opera automaticamente al momento dell'entrata in vigore della norma abrogatrice. Il futuro legislatore può certamente successivamente abrogare la norma abrogatrice e disporre la reviviscenza della norma precedentemente abrogata, ma se si tratta di norma penale questa potrà tornare in vigore solo dal momento dell'entrata in vigore della norma che, per così dire, l'ha richiamata in vita attraverso l'abrogazione della norma che l'aveva abrogata. Ora, con l'art. 4, comma 2, del D.Lgs. n. 121/2011 il legislatore ha appunto inteso colmare il vuoto che si era creato o, meglio, porre rimedio alla nuova situazione normativa, ponendo nuovamente norme penali per sanzionare quelle stesse violazioni o, meglio, disponendo che riprendessero vigore quelle norme penali precedentemente abrogate.
Ma, in forza del principio costituzionale di legalità e di irretroattività delle norme penali tale nuova efficacia non può che decorrere ex nunc e non ex tunc. Né questa efficacia retroattiva può essere conferita mediante l'attribuzione alla disposizione di una natura di norma meramente interpretativa.
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Note
(1) Cass. 21.06.2011, Rigotti.
(2) Cass. 17.12.2013, La Valle (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.12.2014 n. 51417 - Ambiente & sviluppo 3/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: REATO ISTANTANEO.
Rifiuti - Trasporto occasionale di rifiuti - Reato istantaneo - Requisito della continuatività e stabilità dell’attività - Irrilevanza.
Art. 6, legge n. 210/2008; artt. 212, 256 D.Lgs. n. 152/2006.
Il delitto previsto dall'art. 6, comma 1, lett. d), legge n. 210/2008, come l'omologo reato contravvenzionale previsto dall'art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, costituisce un reato istantaneo, solo eventualmente abituale, che si perfeziona nel momento in cui si realizza la condotta tipica, sicché per l’integrazione del reato non è necessario il requisito della continuatività e stabilità dell’attività.
La Corte d'Appello di Napoli confermava la condanna di tal G. per il reato di cui all'art. 6, lett. d), legge n. 210/2008 per avere effettuato, in mancanza di autorizzazione, attività di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti non pericolosi (trenta sacchi di spazzatura solida urbana di grandi e medie dimensioni, cartoni e plastica) motivando la decisione nel senso che il reato si configura anche in presenza di una condotta occasionale.
L'imputato proponeva ricorso per cassazione osservando che la norma, entrata in vigore nel periodo dell'emergenza rifiuti in Campania, si prefigge di porre un freno all'abbandono incontrollato di rifiuti presso siti non autorizzati e alle condotte non occasionali, ma caratterizzate da una stabile organizzazione, in grado di alterare il normale ciclo di smaltimento dei rifiuti.
Essa, quindi, ad avviso del ricorrente, non intende colpire il singolo individuo che raccoglie i propri rifiuti domestici e li getta negli appositi contenitori situati in aree a ciò destinate (l'attività da lui posta in essere, del tutto occasionale, consisteva nel fornire un servizio ai condomini dello stabile gettando i loro rifiuti negli appositi cassonetti e nel rispetto degli orari).
Il ricorso è stato giudicato manifestamente infondato perché il G. aveva riproposto ancora una volta la tesi dell’irrilevanza penale del fatto per essersi limitato in modo occasionale alla raccolta, trasporto e deposito di rifiuti: sul tema, il Tribunale aveva invece accertato, anche sulla base delle stesse dichiarazioni dell'imputato, "l'effettuazione di una attività" e la "non occasionalità" della condotta ritenendo quindi sufficiente "un minimo di organizzazione".
La Corte non si è discostata dalla sua pregressa giurisprudenza secondo cui il delitto previsto dall'art. 6, comma 1, lett. d), così come l'omologo reato contravvenzionale previsto dall'art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, costituisce reato istantaneo per la cui integrazione è sufficiente un unico trasporto abusivo di rifiuti.
A riprova di tale tesi la sentenza ha osservato che solo con riguardo al diverso reato di cui all'art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 il legislatore ha testualmente previsto una condotta di trasporto accompagnata da "mezzi e attività continuative organizzate", ben potendo affermarsi, dunque, la irrilevanza penale, solo in tal caso, di una condotta caratterizzata da occasionalità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2014 n. 48015 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ATTIVITÀ DI AUTOLAVAGGIO.
Acque - Reflui derivanti da attività di autolavaggio - Natura di scarico industriale.
Artt. 124 e 137, D.Lgs. n. 152/2006.
Gli scarichi provenienti dall'attività di autolavaggio devono essere autorizzati in quanto assimilabili agli scarichi d'acque reflue industriali stante la presenza di caratteristiche inquinanti diverse e più rilevanti di quelle di un insediamento civile per la presenza di oli minerali, sostanze chimiche e particelle di vernice che possono staccarsi dalle autovetture.
Il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Asti, disattendendo la richiesta del Pubblico Ministero di decreto penale di condanna, assolveva il titolare di una ditta di autotrasporti dal reato di scarico di acque reflue industriali nella pubblica fognatura osservando che l'attività rilevata (lavaggio di alcuni mezzi) era del tutto marginale rispetto a quella principale di autotrasporto e che gli scarichi effettuati erano ascrivibili ad un’attività diversa da quella presa in considerazione dalle norme violate. Aveva inoltre escluso la natura industriale dello scarico anche perché nel piazzale non vi erano tracce di schiuma, ma solo una patina d'acqua, sicché gli scarichi accertati non potevano assimilarsi a quelli di una attività di autolavaggio.
La Cassazione ha accolto il ricorso del Pubblico Ministero che aveva sostenuto che la norma non esclude dall'obbligo autorizzativo l'attività episodica o saltuaria e che lo scarico derivante dall'attività di lavaggio è da qualificarsi tra quelli industriali.
In primo luogo, la Corte ha ribadito il costante orientamento per cui il giudice per le indagini preliminari può prosciogliere la persona nei cui confronti il PM abbia avanzato istanza di decreto penale di condanna solo nel caso in cui risulti evidente la prova positiva dell'innocenza dell'imputato ovvero quella negativa della sua colpevolezza nel senso della radicale impossibilità di acquisirla: siffatta pronuncia non può invece essere adottata nel caso in cui il giudice, per addivenire alla medesima, debba procedere ad operazioni di comparazione e valutazioni di dati riservate ad una fase da svolgersi in contraddittorio tra le parti.
Nel caso di specie, secondo la Corte, si era verificata tale ultima ipotesi perché al dato obiettivo dell'avvenuto lavaggio dei veicoli nel cortile della ditta di autotrasporti mediante l'uso di una lancia idropulitrice, in assenza di autorizzazione allo scarico, aveva fatto poi seguito una valutazione del giudice di merito sulla natura e sulle modalità della attività posta in essere (lavaggio eseguito su mezzi destinati a trasporto generico, senza rinvenimento di schiuma sul piazzale), attività ritenuta del tutto marginale, episodica ed estranea rispetto a quella svolta dalla società di autotrasporti di cui il G. è legale rappresentante: l'errore di diritto del GIP pertanto era nel non essersi fermato all'attività di mera constatazione, ma nell'avere invece compiuto -per escludere l'assimilazione alla attività di autolavaggio- ulteriori valutazioni e approfondimenti (consistenti nel rapportare alla attività principale di autotrasporti quella connessa al periodico lavaggio dei mezzi utilizzati dalla ditta, apprezzando la natura del refluo e ritenendo lecito "dubitare della capacità inquinante degli scarichi") non consentiti ai fini della pronuncia ex art. 129 cod. proc. pen.
La sentenza è stata annullata fissando il principio secondo cui l'attività di autolavaggio è assimilabile a quella di acque reflue industriali, stante la presenza di caratteristiche inquinanti diverse e più rilevanti di quelle di un insediamento civile per la presenza di oli minerali, sostanze chimiche e particelle di vernice che possono staccarsi dalle autovetture e che l'autorizzazione richiesta non ammette equipollenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.11.2014 n. 46184 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO DI RIFIUTI DIVERSI DA QUELLI AUTORIZZATI
Rifiuti - Trasporto - Rifiuti diversi da quelli autorizzati - Reato - Sussistenza.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il trasporto di rifiuti diversi da quelli oggetto di autorizzazione configura il reato di cui all'art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.
Nella specie veniva ordinato dal Gip il sequestro di un autocarro di proprietà della Se.Gr. srl in relazione alla assunta violazione dell'art. 258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006 in quanto il veicolo era stato usato per il trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi in assenza del formulario previsto dall'art. 193.
Il Tribunale del riesame annullava il decreto osservando che, pur non potendosi accedere alla tesi difensiva proposta dalla ricorrente, in base alla quale i materiali oggetto di trasporto non erano rifiuti, ma "materie prime secondarie", nella specie non erano riscontrabili gli estremi dell'illecito penale posto che l'art. 258, comma 4, attribuisce rilevanza penale esclusivamente all'attività di trasporto di rifiuti propri non pericolosi ove l'azienda che effettui il trasporto si serva di certificazioni false ovvero formate sulla base di false dichiarazioni, mentre l'art. 260-bis, comma 7, dello stesso decreto punisce il trasporto di rifiuti pericolosi non accompagnato dalla scheda SISTRI.
Infine secondo il Tribunale non emergeva neppure il fumus del reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 -cioè il trasporto non autorizzato di rifiuti non pericolosi- poiché la Se.Gr. era autorizzata a trasportare tutti i tipi di rifiuti che erano nel cassone dell'autocarro sequestrato.
Il procuratore della Repubblica ricorreva per cassazione rilevando, preliminarmente, che gli indagati avevano trasportato, in assenza di autorizzazione, rifiuti non pericolosi e che il Tribunale aveva perciò errato nel qualificare il fatto come violazione, avente esclusivo rilievo amministrativo, dell'art. 260-bis, comma 7, laddove la corretta qualificazione del fatto sarebbe stata la violazione dell'art. 256 perché la Se.Gr. non era titolare di autorizzazione per il trasporto di rifiuti del tipo di quelli per cui era causa.
Il ricorso è stato accolto.
La Corte ha incidentalmente dato atto del contrasto interpretativo riscontrabile nella sua giurisprudenza in merito alla perdurante, o meno, rilevanza penale della fattispecie entro il cui paradigma normativo il Tribunale del riesame inscrive l'episodio di cui al presente processo, consistente, secondo la tesi del Tribunale, nel trasporto di rifiuti non pericolosi senza la scheda SISTRI, condotta che, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi oramai non più sanzionata penalmente né dal nuovo testo dell'art. 258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006 né dall'art. 260-bis del medesimo decreto, mentre, secondo un diverso indirizzo, essa conserva rilevanza penale atteso che, in tema di trasporto di rifiuti pericolosi eseguito senza formulario ovvero con formulario recante dati incompleti o inesatti, la parziale depenalizzazione prevista dal D.Lgs. n. 205/2010 è stata differita al momento in cui acquisterà piena operatività il nuovo sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti (SISTRI), per effetto dell'art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 121/2011.
Tuttavia, senza prendere posizione sul tema, la Cassazione ha rilevato che il Tribunale aveva errato nel qualificare il reato di cui alla contestazione provvisoria: infatti, era contestato non il fatto di avere eseguito un trasporto di rifiuti in assenza della prescritta documentazione, bensì quello di avere eseguito il detto trasporto in assenza della prescritta autorizzazione o, meglio, in assenza della autorizzazione per il genere di rifiuti in questione.
Al riguardo il Tribunale aveva affermato, in aperto contrasto con le risultanze delle indagini ed in termini del tutto apodittici, che la Se.Gr. Srl fosse autorizzata al trasporto dei rifiuti, consistenti in rottami metallici sottoposti ad una prima operazione di recupero da parte di un soggetto diverso dal trasportatore, di cui al provvedimento di sequestro.
Il Tribunale non aveva invece considerato la perdurante idoneità della autorizzazione posseduta dalla Se.Gr. srl, pur in presenza dell'intervenuto inizio del processo di recupero dei rifiuti in questione, a consentire il trasporto dei rifiuti in questione.
Il provvedimento impugnato è stato perciò annullato con rinvio al Tribunale per nuovo esame sul punto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2014 n. 44073 - Ambiente & sviluppo 3/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: SOTTOPRODOTTI.
Rifiuti - Infissi in legno - Riutilizzo come legna da ardere - Applicazione della disciplina sui sottoprodotti - Esclusione.
Artt. 184-bis e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
I rifiuti costituiti da infissi in legno, provenienti da lavori di ristrutturazione edile, non sono qualificabili come sottoprodotto in quanto, non trattandosi di legno vergine, l’utilizzazione come legna da ardere del citato materiale non può prescindere, quanto meno, dalla privazione dei residui di colla e di vernice sicché, in assenza di tale preventivo trattamento, è evidente la nocività della combustione dei materiali sia per l'ambiente che per la salute.
Il Tribunale di Catania condannava il direttore tecnico della M. perché aveva trasportato e smaltito infissi in legno, provenienti dai lavori di ristrutturazione eseguiti presso la sede della Capitaneria di Porto di Catania. Tali rifiuti erano stati rinvenuti nei pressi di uno dei moli del porto di Catania e il direttore tecnico non era stato in grado di fornire la documentazione relativa al loro trasporto in discarica; a suo dire gli infissi in legno erano stati lasciati presso un deposito di proprietà della M. per essere riutilizzati per combustione.
Nel proposto ricorso per cassazione, il B. censurava la definizione di rifiuto data agli infissi in legno atteso che il legno ha una specifica inclinazione ad essere riciclato.
La Corte ha negato fondamento alla tesi secondo la quale il materiale legnoso in questione potesse essere considerato un sottoprodotto: infatti, l'art. 184-bis, D.Lgs. n. 152/2006, nel dettare la definizione di sottoprodotto, impone che questo sia certamente riutilizzato nel corso di un successivo processo produttivo o di utilizzazione, senza la necessità di alcun ulteriore trattamento e che tale utilizzazione non porti a impatti complessivamente negativi sull'ambiente e sulla salute umana.
A giudizio della Corte, non uno di questi requisiti, tutti necessari ai fini della qualificazione del materiale come sottoprodotto, risultava rispettato posto che: a) non vi era alcuna certezza di tale riutilizzo; b) non trattandosi di legno vergine, la sua corretta utilizzazione come legna da ardere non poteva prescindere quanto meno dalla privazione di esso dai residui di colla e di vernice da esso; c) in assenza di tale preventivo trattamento era evidente la nocività della combustione di tali materiali sia per l'ambiente sia per la salute (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2014 n. 44057 - Ambiente & sviluppo 2/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ROTTAMI METALLICI.
Rifiuti - Rottami metallici - Inapplicabilità della disciplina sui rifiuti per effetto del regolamento comunitario n. 333/2011 - Esclusione.
Artt. 183 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Alcuni tipi di rottami metallici possono cessare di essere considerati rifiuti, ma non già e non solo in base alla loro natura, alla loro consistenza e ai trattamenti che subiscono sul luogo di produzione (tutti requisiti che comunque devono essere accertati e certificati), ma anche per effetto del rispetto delle specifiche prescrizioni (in materia di formulari, ecc.) e del positivo esito delle procedure preliminari delineate dalla normativa.
Il legale rappresentante della ditta L.F. spa, esercente l'attività di produzione e commercializzazione di materiali ferrosi, veniva condannato per non avere rispettato la condizione dettata dall'art. 183, lett. m), D.Lgs. n. 152/2006, in quanto non aveva avviato alle operazioni di recupero, nei limiti temporali o quantitativi previsti, rottami ferrosi, sfridi di lavorazione ferrosi e trucioli, imballaggi metallici tanto che i rifiuti in deposito raggiungevano il volume di circa 700 mc. e l'ultima operazione di scarico annotata nel registro risaliva al 26.09.2008; analoga violazione riguardava gli oli esausti, il cui deposito veniva effettuato in violazione delle norme tecniche e di quelle che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose.
Nel proposto ricorso per cassazione, il prevenuto deduceva che, a partire dal 09.10.2011, era intervenuto il regolamento UE n. 333/2011 del 03.03.2011 che ha previsto una serie di condizioni in presenza delle quali, come si legge nell'art. 1, i "rottami di ferro, acciaio e alluminio, inclusi i rottami di leghe di alluminio, cessano di essere rifiuti".
Secondo la difesa, era stata introdotta, da una fonte di immediata applicazione nell'ordinamento interno, una eccezione alla generale definizione di rifiuto che, nella prospettiva penalistica, configura una ipotesi di vera e propria abolitio criminis disciplinata dall'art. 2, comma 2, cod. pen. Il ricorrente in sostanza rilevava che:
   (I) il regolamento comunitario trova diretta ed immediata applicazione nell'ordinamento interno e pertanto, spirato il termine dilatorio di cui all'art. 7, diviene diritto vigente a prescindere da interventi di recepimento del legislatore nazionale;
   (II) la disciplina ambientale è caratterizzata dalla presenza di una specifica disposizione (art. 184-bis) contenente la disciplina della categoria dei sottoprodotti;
   (III) dopo aver significativamente precisato che i sottoprodotti "non sono rifiuti ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a)", in tale categoria il legislatore include le sostanze e gli oggetti il cui "ulteriore utilizzo è legale";
   (IV) a seguito dell'entrata in vigore del citato regolamento comunitario, l'utilizzo dei rottami metallici che soddisfino, nel merito, le condizioni regolamentari, è da considerarsi di per sé legale e, quindi, sottratto alla categoria dei rifiuti;
   (V) la legalità della fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 256 è definita da un rapporto di strettissima accessorietà con la nozione di "rifiuto" fornita dalla norma definitoria attraverso la quale il legislatore li identifica;
   (VI) il rinvio alla nozione di "rifiuto" quale elemento essenziale della fattispecie, trasforma la norma definitoria in elemento normativo costitutivo della tipicità legale del fatto, unitamente alla costellazione delle previsioni 'satellite' che il legislatore utilizza per definire eccezioni alla stessa;
   (VII) nella categoria dei rifiuti non rientrano più, a partire dal 09.10.2011, i rottami metallici che soddisfano le condizioni fissate dal regolamento;
   (VIII) la descritta modifica rende, pertanto, inapplicabile al fatto di cui alla lettera a) del capo di imputazione, la norma sanzionatoria perché il "fatto non è più previsto dalla legge come reato";
   (IX) tale conclusione, deriva dalla constatazione dell'avvenuto intervento abolitivo operato dalla normativa comunitaria.
Il ricorrente deduceva ancora che era necessario l'accertamento circa la ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla predetta fonte comunitaria per sottrarre il processo di gestione dei rottami metallici alla più stringente disciplina dettata in materia di rifiuti ferrosi. Di tale circostanza la difesa aveva offerto, anche con l'atto di appello, un principio di prova, dimostrando documentalmente e con specifico riferimento alle risultanze istruttorie richiamate:
   (I) l'esistenza di un sistema di gestione della qualità certificato, anche sotto il profilo della sua effettiva implementazione, da una primaria società del settore;
   (II) la destinazione dell'insieme dei rottami ferrosi prodotti dalla L.F. al ciclo produttivo delle acciaierie;
   (III) la circostanza che i rottami metallici prodotti dalla L.F. generavano un reddito per la stessa perché, contrariamente a quanto di norma avviene in relazione ai rifiuti, il produttore veniva pagato dal successivo utilizzatore degli stessi.
La Cassazione, nel prendere in esame la tesi dell'abolitio criminis basata sul motivo che i rottami ferrosi di cui all’imputazione non si sarebbero potuti considerare rifiuti dopo l'entrata in vigore del regolamento UE n. 333/2011 (recante i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio), ha rilevato, prima di tutto, che la Corte d'appello aveva rigettato la specifica eccezione difensiva ritenendo che il detto regolamento europeo potesse trovare applicazione solo per il futuro, come peraltro previsto dal suo art. 7 (il quale dispone che il regolamento entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella G.U. della UE, ma si applica a decorrere dal 09.10.2011), in quanto lo stesso, oltre a determinare in quali casi i rottami di ferro, acciaio e alluminio cessano di essere considerati rifiuti, prevede che a tal fine vengano poste in essere tutta una serie di procedure preventive (burocratiche e materiali quanto alla gestione ed al trattamento dei rifiuti da operarsi già nel luogo di produzione) che sono imprescindibili per l'attuazione della normativa di che trattasi.
Il supremo Collegio ha condiviso pienamente questa interpretazione.
Infatti, l'art. 3 del regolamento dispone che «i rottami di ferro e acciaio cessano di essere considerati rifiuti allorché, all'atto della cessione dal produttore ad un altro detentore, sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: [...] d) il produttore ha rispettato le prescrizioni degli artt. 5 e 6».
L'art. 5, in particolare, prevede una «dichiarazione di conformità» e prescrive che (comma 1) «Il produttore o l'importatore stila, per ciascuna partita di rottami metallici, una dichiarazione di conformità in base al modello di cui all'allegato III)
», e (comma 2) che «Il produttore o l'importatore trasmette la dichiarazione di conformità al detentore successivo della partita di rottami metallici. Il produttore o l'importatore conserva una copia della dichiarazione di conformità per almeno un anno dalla data del rilascio mettendola a disposizione delle autorità competenti che la richiedano»; mentre l'art. 6 dispone che il produttore deve applicare un sistema di gestione della qualità, che prevede tutta una serie di procedimenti documentati, nonché obblighi specifici di monitoraggio (indicati per ciascun criterio dagli allegati I e II), sistema che deve essere verificato da uno speciale organismo di valutazione.
Dal complesso sistema delineato dal regolamento, si evince che alcuni tipi di rottami metallici possono cessare di essere considerati rifiuti, ma non già e non solo in base alla loro natura, alla loro consistenza e ai trattamenti che subiscono sul luogo di produzione (tutti requisiti che comunque devono essere accertati e certificati), ma anche per effetto del rispetto delle specifiche prescrizioni (in materia di formulari, ecc.) e del positivo esito delle procedure preliminari delineate da detta normativa.
Proprio per questo motivo, secondo la Cassazione, non è possibile una applicazione del regolamento prima della sua entrata in vigore, come è confermato dalla circostanza che prevede un congruo termine per la sua effettiva e successiva applicazione.
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata aveva ritenuto che il semplice fatto che i rifiuti metallici di diversa natura prodotti dalla L.F. fossero stati accumulati per più di un anno indistintamente all'esterno della ditta, senza avere subito alcun effettivo e certificato processo di pretrattamento e di separazione, rendeva già di per sé inapplicabile agli stessi la nuova disciplina comunitaria, anche a prescindere dalla presenza di tutti gli altri requisiti dalla stessa richiesti.
Per le ragioni indicate, era perciò impossibile ritenere, in mancanza dei controlli e procedure prescritte dal sopravvenuto regolamento europeo, che i materiali rinvenuti nell'azienda dell'imputato avessero perso la natura di rifiuti, e quindi che si fosse determinata una abolitio criminis.
Poiché era stato accertato che l'impresa dell'imputato per più di un anno non aveva conferito i propri rifiuti metallici e li aveva ammassati in un'area esterna all'edificio, la sentenza in rassegna ha ritenuto irrilevante stabilire se le ditte a cui la stessa conferiva in precedenza tali rifiuti li destinassero o meno ad acciaierie o ad altri impianti di recupero, posto che quello che era concretamente emerso era, appunto, che i rifiuti in questione da lungo tempo non venivano conferiti ad alcuna ditta e giacevano abbandonati.
La Cassazione, nel disattendere altre doglianze del ricorrente, ha rilevato che nel piazzale dell'azienda erano stati rinvenuti 700 mc di rottami metallici, ivi accumulati nell'ultimo anno; nello stesso luogo, all'aperto, vi erano anche 600 litri di oli esausti riposti in vari fusti che, all'atto del controllo, erano privi di coperchio e di etichettatura e, quindi, esposti agli agenti atmosferici.
Inoltre, dalla documentazione fotografica risultava che i rifiuti solidi, oltre ad essere depositati in maniera incontrollata su di un'area non coperta di circa 350 mq e con pavimento in cattivo stato di manutenzione, non erano costituiti solo da rottami ferrosi, ma anche da imballaggi metallici e sfridi di lavorazione ferrosi con presenza di emulsione oleosa, nonché da stracci in carta sporchi, plastica, indumenti protettivi e guanti utilizzati, nonché rifiuti derivanti dalla pulizia dei piazzali.
Parte dei contenitori ove erano contenuti gli oli, poi, oltre a trovarsi all'aperto senza alcuna sovrastante copertura, non erano dotati proprio di coperchio tanto che sotto alcuni di essi era stata rilevata la fuoriuscita degli oli esausti.
La Corte d'appello aveva quindi plausibilmente ritenuto che, se era vero che non vi erano in atto sversamenti di tale portata da poter contaminare il terreno circostante, era anche vero che comunque sussisteva la necessità di evitare la dispersione incontrollata dei rifiuti pericolosi presenti sul posto ed i pericoli (anche solo potenziali) derivanti all'ambiente circostante da un accumulo smisurato dei rifiuti di altra natura, causato a sua volta dalla violazione delle prescrizioni normative relative ai limiti temporali e quantitativi di smaltimento.
La Corte suprema ha perciò concluso che correttamente erano stati ritenuti sussistenti gli elementi costitutivi dei reati contestati, per la cui integrazione non è necessaria la presenza di un pericolo in concreto (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.10.2014 n. 43430 - Ambiente & sviluppo 2/2015).

EDILIZIA PRIVATA: BENI IMMOBILI AVENTI VALORE PAESISTICO-AMBIENTALE.
Protrazione di vincoli di inedificabilità - Vincoli ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata - Beni immobili aventi valore paesistico-ambientale - Obbligo dell'indennizzo, esclusione.
D.P.R. 14.10.1959; legge 17.08.1942, n. 1150, art. 17, comma 1; legge 18.04.1962, n. 167, art. 9, comma 1.
In tema di protrazione di vincoli di inedificabilità, va escluso l'obbligo dell'indennizzo in presenza di vincoli ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, e che non implichino quindi necessariamente l'espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica, nonché riguardanti beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, che, in quanto previsti in virtù della localizzazione dei beni o della loro inserzione in un complesso avente le qualità indicate dalla legge, interessano una generalità di soggetti, sottoposti indifferenziatamente ad un particolare regime in ragione delle caratteristiche intrinseche dei beni stessi.
Venne sottoscritto un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile in costruzione, con contestuale versamento di caparra confirmatoria.
Il proprietario dei fondi convenne in giudizio il Comune, chiedendone la condanna al pagamento del controvalore degli immobili o al risarcimento dei danni derivanti dall'appropriazione sine titulo della relativa cubatura, nonché al risarcimento dei danni derivanti dall'occupazione o al pagamento dell'indennità per il mancato godimento.
In particolare l’attore, premesso che nel piano regolatore generale approvato con D.P.R. 14.10.1959 i fondi erano originariamente compresi in zona estensiva residenziale, con indice di edificabilità di 2,5 mc/mq, espose che tale indice era stato ridotto a 0,27 mc/mq a seguito dell'inclusione degl'immobili nel piano per l'edilizia economica e popolare (PEEP), aggiungendo che i fondi, dei quali era stata prevista l'espropriazione con delibera comunale erano stati occupati dall'Amministrazione, la quale li aveva espropriati soltanto in parte, utilizzando invece per intero l'indice di fabbricabilità degli altri, senza tuttavia procedere all'espropriazione, ed assegnando agli stessi una destinazione a servizi, che ne escludeva l'edificabilità.
Il Tribunale rigettò la domanda; pronuncia confermata in appello.
La questione giunge quindi in Cassazione la quale respingendo il ricorso -per quanto qui rileva- osserva preliminarmente che, in armonia con la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Ad. plen., n. 28/2012, Cons. Stato n. 6572/2009 e Cons. Stato n. 1216/2008), la scadenza del limite temporale entro il quale le aree sono destinate a rimanere vincolate, scadenza alla quale non faccia riscontro la rinnovazione del piano, fa venir meno la possibilità di procedere agli espropri ed all'edificazione residenziale per la parte di esso che non ha avuto esecuzione, ma non rende inefficaci le relative prescrizioni urbanistiche, le quali continuano a trovare applicazione, avendo il piano natura di strumento urbanistico di attuazione, le cui prescrizioni di zona sono destinate a conservare efficacia a tempo indeterminato, ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150, art. 17, comma 1, nonostante la scadenza del termine previsto per la sua attuazione.
In linea generale, dunque, in ordine all’efficacia dei vincoli d'inedificabilità, una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea, quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli, la reiterazione del vincolo (legittima sul piano amministrativo, se corredata da una congrua e specifica motivazione sull'attualità della previsione, con nuova ed adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti e con giustificazione delle scelte urbanistiche di piano) non può essere dissociata, in via alternativa all'espropriazione, dalla previsione di un indennizzo, ponendosi altrimenti in contrasto con l'art. 42, comma 3, Cost. (si veda in tal senso cfr. Corte cost., n. 179/1999).
Pertanto, con riferimento alla situazione derivante dalla scadenza del termine di efficacia di un PEEP, la Cassazione ricorda come la Corte costituzionale abbia dichiarato l'illegittimità del meccanismo di proroga delle prescrizioni di piano previsto da una legge regionale, nella parte in cui consentiva l'automatica protrazione dei vincoli d'inedificabilità senza la previsione di un indennizzo in favore del proprietario (si veda Corte cost. n. 148/2003).
Ciò posto, i Giudici di legittimità osservano però che nella specie non occorre porsi il problema dell'eventuale illegittimità costituzionale delle norme statali o regionali che consentono la protrazione del vincolo imposto sui fondi di proprietà dell'attore anche dopo la scadenza del termine di efficacia del PEEP ciò in quanto:
   - la domanda proposta dall'attore non aveva ad oggetto il riconoscimento dell'indennizzo per la protrazione del vincolo, ma il risarcimento dei danni derivanti dalla sottrazione dell'indice di edificabilità originariamente attribuito agli immobili, la cui illegittimità deve essere nella specie esclusa;
   - il vincolo conseguente all'attribuzione di una destinazione che esclude l'edificabilità, originariamente apposto nell'ambito di un piano la cui attuazione comportava l'espropriazione degli immobili, non è incompatibile con uno sfruttamento degli stessi ad iniziativa privata;
   - nella specie, la scadenza del termine di efficacia del PEEP era stata preceduta dall'approvazione del piano territoriale di coordinamento paesistico, nell'ambito del quale i fondi hanno ricevuto una destinazione che ne esclude parimenti l'edificabilità, senza però configurarsi come vincolo preordinato all'esproprio.
Ciò posto, la Cassazione conferma, richiamando ancora la giurisprudenza costituzionale (si veda ancora Corte cost. n. 179/1999) che “in tanto può porsi una questione di legittimità costituzionale delle norme che consentono la protrazione di vincoli d'inedificabilità in quanto si tratti di vincoli a carattere sostanzialmente espropriativo, aventi cioè come effetto pratico uno svuotamento del contenuto della proprietà di rilevante entità ed incisività, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati”: si è pertanto escluso l'obbligo dell'indennizzo in presenza di vincoli che comportino una destinazione realizzabile -precisa la Cassazione- “ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, e che non implichino quindi necessariamente l'espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica, nonché di vincoli riguardanti beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, che, in quanto previsti in virtù della localizzazione dei beni o della loro inserzione in un complesso avente le qualità indicate dalla legge, interessino una generalità di soggetti, sottoposti indifferenziatamente ad un particolare regime in ragione delle caratteristiche intrinseche dei beni stessi”.
A ciò la Cassazione aggiunge che nella specie, la prevalenza del vincolo derivante dal piano territoriale di coordinamento paesistico su quello apposto nell'ambito del PEEP è stata contestata dai ricorrenti attraverso il richiamo dell'art. 6 delle norme di L.R. n. 39/1984, art. 5, comma 3, che limita la predetta prevalenza ai casi previsti dall'art. 2, lett. a), b), c), d) e g) della medesima legge: tale affermazione -osserva la Cassazione- si pone tuttavia in contrasto con la natura sovraordinata del piano territoriale di coordinamento paesistico, al quale è demandato, ai sensi del citato art. 2, il compito d'indicare non solo gli interventi a protezione dell'ambiente in relazione alla potenzialità d'uso delle risorse territoriali ed ai loro valori storico-culturali, ma, "anche in termini di destinazione d'uso", l'organizzazione spaziale del sistemi sia infrastrutturali che insediativi (comma 1), prevedendo, in particolare, la disciplina dei modi e delle forme di utilizzazione del patrimonio ambientale nelle sue diverse espressioni, ivi compresa quella insediativa (comma 2, lett. c) (
Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 13.10.2014 n. 21584 - Ambiente & sviluppo 2/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RESPONSABILITÀ DEL SINDACO.
Rifiuti - Stoccaggio provvisorio per la raccolta dei rifiuti solidi urbani - Gestione irregolare - Responsabilità del Sindaco e del Dirigente
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 107, D.Lgs. n. 267/2000
La distinzione operata dall'art. 107 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente.
Il dirigente della To.Sa.Pu.Se. S.p.a., partecipata dal Comune di Forio d'Ischia e incaricata della gestione e del trattamento completo dei rifiuti, e il Sindaco dello stesso comune venivano condannati per il reato di cui all'art. 256 per avere gestito un sito di stoccaggio provvisorio per la raccolta dei rifiuti solidi urbani in contrasto con le prescrizioni contenute nell'autorizzazione n. 6419/03 e comunque in contrasto con le prescrizioni contenute con quanto stabilito con D.M. 08.04.2008 del Ministero dell'Ambiente.
Il ricorso presentato dal dirigente è stato respinto dalla Corte perché la sua condotta di natura colposa e fondamentalmente omissiva era sufficiente a fondare l'affermazione di responsabilità derivante appunto dal non avere adottato quelle misure che avrebbero evitato una gestione dei rifiuti gravemente inadempiente, quanto meno in relazione alla necessità di evitare lo sversamento del percolato e dei rifiuti direttamente sul suolo e sulla pubblica via.
La Corte ha rigettato anche il ricorso del Sindaco che lamentava la violazione dell'art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 che sancisce la netta separazione tra atti di indirizzo politico ed atti di gestione, solo i primi facendo capo al Sindaco.
Infatti, la Corte ha osservato che l'art. 107 stabilisce, al comma 1, che ai dirigenti degli enti locali spetta la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, che devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico- amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Proprio con specifico riferimento alla materia dei rifiuti, la sentenza che si riporta ha ricordato che la stessa Cassazione ha già chiarito che il sindaco resta esente da responsabilità solo per quelle situazioni derivanti da problemi di carattere tecnico-operativo, riservati ai dirigenti amministrativi, rispondendo invece delle scelte programmatiche e di quelle contingibili ed urgenti adottate nell'ambito dei suoi poteri. Tuttavia, al sindaco spetta comunque, anche in caso di specifica delega di funzioni ad un particolare settore dell'amministrazione, porre in essere i necessari atti di indirizzo e di mettere il delegato in condizioni di adeguatamente operare, specie qualora gli sia noto lo smaltimento in violazione di legge.
Insomma, secondo la Corte, la distinzione operata dall'art. 107 delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente.
Nella specie, la sentenza impugnata aveva fatto corretta applicazione di detti principi: infatti, ciò che era stato rimproverato al Sindaco era sostanzialmente il fatto che lo stesso, pur attivatosi, in un primo tempo, per sopperire alla situazione dello smaltimento dei rifiuti, si era poi, in contrasto con la permanenza a suo carico dei compiti generali di controllo, fondamentalmente disinteressato della situazione di tenuta del sito, per di più a fronte del fatto che la gestione dello stesso era stata devoluta a società partecipata, per l'intero capitale sociale, dal Comune (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.10.2014 n. 41695 - Ambiente & sviluppo 3/2015).

EDILIZIA PRIVATA: TRASPORTO E ABBANDONO OCCASIONALE.
Rifiuti - Trasporto e abbandono occasionale da parte di un privato di propri rifiuti - Reato - Esclusione - Ricorrenza del solo illecito amministrativo.
Art. 255, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il soggetto privato, non titolare di impresa, che abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto e che, a tal fine, lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato, risponde solo dell'illecito amministrativo di cui all’art. 255, D.Lgs. n. 152/2006, per l'abbandono, e non anche del reato di cui all'art. 256, comma 1, per il trasporto, in quanto questa condotta si esaurisce nella fase meramente preparatoria e preliminare rispetto alla condotta finale e principale di abbandono, e non assume autonoma rilevanza ai fini penali.
Il Tribunale condannava un privato per il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 per avere effettuato un trasporto di rifiuti non pericolosi (cemento, calcestruzzo, mattonelle provenienti di attività di costruzione e demolizione).
Il fatto si era svolto nel seguente modo: l'imputato trasportava, a mezzo di un rimorchio trainato da un trattore agricolo, i rifiuti provenienti da una demolizione effettuata nell’abitazione della madre, al fine di abbandonarli in un posto imprecisato. A un certo punto, il trattore uscì di strada ed, essendosi ribaltato il rimorchio, i rifiuti si sversarono sul terreno adiacente. Stante l'ora tarda e l'oscurità, il prevenuto decise di abbandonare sul posto il rimorchio ed i rifiuti, col proposito di recuperarli il giorno seguente, ma l'indomani mattina i vigili urbani scorsero il rimorchio ribaltato e denunciarono l'imputato per il reato contestato.
Nel proporre ricorso per cassazione, il soggetto deduceva, in primo luogo, l’erronea applicazione dell'art. 256, comma 1: la fattispecie prevista da tale norma ha natura di reato proprio in quanto richiede quale elemento costitutivo la qualità di titolare di impresa o di responsabile di ente, in assenza della quale deve configurarsi il solo illecito amministrativo di cui all'art. 255, comma 1. L'imputato non possedeva tale qualità, esercitando l'attività di fornaio. In secondo luogo, lamentava che il giudice erroneamente lo avesse ritenuto colpevole del trasporto abusivo del materiale come se per l'abbandono non fosse necessario il trasporto.
Il ricorso è stato accolto.
La sentenza impugnata, oltre ad accertare che i rifiuti da demolizione provenivano dall'appartamento della madre dell'imputato, aveva anche accertato che costui non svolgeva alcuna attività imprenditoriale e non era titolare di impresa o titolare di ente, né si occupava di smaltimento, trasporto o gestione di rifiuti, in quanto svolgeva l'attività di fornaio per cui la condotta di abbandono dei rifiuti non integrava il reato di cui all'art. 256, comma 2.
Il giudice aveva però ritenuto che l'imputato fosse comunque responsabile della condotta (precedente e finalizzata all'abbandono) di trasporto dei rifiuti a norma dell’art. 256, comma 1, che non prevede un reato proprio, potendo essere commesso da «chiunque».
Per giungere a questa conclusione, il giudice del merito aveva ritenuto che il reato di trasporto abusivo di rifiuti fosse integrato anche nell'ipotesi in cui si fosse trattato di un trasporto meramente occasionale, effettuato da un semplice privato non titolare di impresa.
La Cassazione ha cominciato con il rilevare che, secondo il principio di diritto implicitamente applicato dal giudice di merito, qualora un privato abbandoni (questo l’esempio fatto dalla Corte) «un vecchio mobile o un elettrodomestico fuori del portone di casa, commetterebbe solo l'illecito amministrativo di cui all'art. 255, mentre qualora li abbandoni all'angolo della strada a qualche decina (o centinaia) di metri di distanza, commetterebbe, oltre all'illecito amministrativo, anche il reato di trasporto abusivo di rifiuti di cui all'art. 256, comma 1».
Secondo i giudici romani, questa interpretazione attribuirebbe al sistema normativo conseguenze manifestamente illogiche (il che mostra anche la sua erroneità), se non altro perché in tale modo il sistema, così interpretato, attribuirebbe alla fase preparatoria (trasporto) del comportamento tenuto dal privato una gravità maggiore della fase finale e conclusiva (abbandono incontrollato).
Inoltre, il giudice non aveva chiarito se alla condotta di trasporto dei residui di demolizione dovesse attribuirsi, per una qualche ragione, natura diversa e rilevanza autonoma rispetto alla condotta finale e conclusiva di abbandono incontrollato ovvero se la stessa avesse natura meramente preparatoria della condotta di abbandono e come tale fosse priva di autonomo rilievo penale.
Inoltre, pur volendo attribuire al trasporto finalizzato all'abbandono rilevanza autonoma, il giudice non aveva comunque spiegato perché nella specie quel comportamento integrava il reato contestato.
La Corte al riguardo ha sostenuto che «…è vero che la giurisprudenza di questa Corte, richiamata dalla sentenza impugnata, afferma che il reato di trasporto non autorizzato di rifiuti di cui all'art. 256, comma 1, si può configurare anche in presenza di una condotta occasionale, ma è anche vero che le massime citate si riferiscono tutte a soggetti che in realtà svolgevano una «attività di trasporto» (anche se non di rifiuti) o una attività di impresa nella quale erano stati prodotti i rifiuti trasportati o comunque a soggetti che avevano compiuto un trasporto per conto di terzi».
Tuttavia, secondo la Cassazione, la giurisprudenza emessa in argomento avrebbe ritenuta irrilevante l'occasionalità perché si trattava comunque di condotta tenuta nell'ambito di una «attività di trasporto», e comunque non di un trasporto occasionale e finalizzato esclusivamente all'abbandono di un proprio rifiuto.
Passando invece all’altro tema, e cioè se il reato di cui all'art. 256, comma 1, costituisca o meno un reato proprio, che possa essere commesso solo dai soggetti in favore quali, in forza dell'art. 212, può essere effettuata la relativa iscrizione nell'albo, la Cassazione ha ritenuto che tale questione poteva anche non essere affrontata perché, quale che fosse la sua corretta soluzione, nel caso in esame il reato non era comunque integrato dalla condotta di un soggetto privato (che cioè non agisca nell'ambito di una attività di impresa) il quale abbandoni occasionalmente in modo incontrollato un proprio rifiuto e che, a questo scopo, lo porti nel luogo dove poi lo abbandonerà.
Ciò perché deve ritenersi che rilevi solo la condotta principale e finale costituita dall'abbandono del rifiuto, mentre il suo trasporto sul luogo di abbandono costituisce esclusivamente una fase preliminare e preparatoria che non acquista autonomo rilievo sotto il profilo penale, rimanendo appunto assorbita nella condotta di abbandono.
Quindi, se l'abbandono del rifiuto venga commesso da un soggetto non titolare di una impresa o non responsabile di un ente, e pertanto costituisca l’illecito amministrativo punito ai sensi dell'art. 255, il trasporto dello stesso rifiuto per essere abbandonato in un certo luogo rientra nella condotta punita dalla sanzione amministrativa e non integra un autonomo e distinto reato di trasporto di rifiuti senza iscrizione o autorizzazione.
Questa soluzione, ha concluso la Corte suprema, corrisponde non solo ad una esegesi adeguatrice (in riferimento soprattutto al principio costituzionale di ragionevolezza sancito dall'art. 3 Cost., stante la manifesta irragionevolezza, come dianzi rilevato, della soluzione contraria, che considera più grave la fase preparatoria rispetto a quella finale), ma anche ad una interpretazione sia letterale della disposizione (che parla di «attività di trasporto») sia sistematica, che tiene conto della ratio del sistema punitivo.
Altrimenti, si dovrebbe, ad esempio, ritenere razionale un sistema che, per una ipotesi di detenzione di sostanza stupefacente finalizzata allo spaccio, punisse lo spaccio con una sanzione amministrativa e punisse altresì in modo autonomo anche la detenzione con una sanzione penale.
La Cassazione ha quindi affermato il seguente principio di diritto: «il soggetto privato, non titolare di una impresa e non titolare di un ente, che abbandoni in modo incontrollato un proprio rifiuto, e che a tal fine lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato, risponderà solo dell'illecito amministrativo di cui all'art. 255, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, per l'abbandono e non anche del reato di trasporto abusivo di cui all'art. 256, comma 1, in quanto la condotta di trasporto si esaurisce nella fase meramente preparatoria e preliminare rispetto alla condotta finale e principale di abbandono, e non assume autonoma rilevanza ai fini penali» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2014 n. 41352 - Ambiente & sviluppo 1/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RESPONSABILITÀ DEI TITOLARI DELL’IMPRESA.
Rifiuti - Abbandono da parte di dipendenti di un’impresa - Responsabilità dei titolari - Condizioni.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006, art. 40, cod. pen.
Va affermata la responsabilità dei titolari di un’impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e l’abbandono incontrollato degli stessi, avvenuto con automezzo di proprietà della società, quantomeno sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta illecita.
Nella presente vicenda, il Tribunale condannava per il reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, il proprietario e l’amministratore unico della Ed.To. srl per non aver ottemperato al dovere di vigilanza sui dipendenti che avevano abbandonato rifiuti bituminosi come risultava provato dalle videoriprese di una telecamera.
Secondo il Tribunale, le dimensioni dell'azienda non consentivano di ritenere lo scarico abusivo una iniziativa autonoma degli operai i quali, peraltro, non avevano alcun interesse a porre in essere una tale condotta, anziché recarsi in discarica.
Nel proposto ricorso per cassazione, gli imputati sostenevano che il giudice di merito avesse ravvisato una sorta di responsabilità oggettiva trascurando l'accertamento dell'elemento psicologico ed omettendo di considerare una serie di elementi di fatto che suffragavano la tesi del movente ritorsivo sostenuto dalla difesa. Asserivano inoltre l'impossibilità di controllare ogni comportamento dei dipendenti che, nel caso di specie, poteva essere stato determinato da finalità ritorsive o dall'esigenza di evitare le attese alla discarica.
Il ricorso è stato ritenuto manifestamente infondato.
La Cassazione ha richiamato la giurisprudenza della stessa Corte sul tema: in primo luogo, ha citato quelle sentenze in cui si è affermato che il D.Lgs. n. 22/1997, art. 2, comma 3, già prevedeva la responsabilizzazione e la cooperazione di tutti i soggetti "coinvolti", a qualsiasi titolo, nel ciclo di gestione non soltanto dei rifiuti ma anche degli stessi "beni da cui originano i rifiuti" e il D.Lgs. n. 152/2006, art. 178, comma 3, ha puntualmente ribadito il principio di "responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti"
(1).
Si è poi ricordato che le responsabilità per la corretta effettuazione della gestione dei rifiuti gravano su tutti i soggetti coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e consumo dei beni dai quali originano i rifiuti stessi, e le stesse si configurano anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti.
Dopo aver ricordato che il reato di cui all'art. 256, comma 1, non è un reato proprio, dal momento che la norma fa riferimento a "chiunque", la sentenza ha osservato che, in presenza di una attività di gestione svolta da un'impresa, vige il principio che la responsabilità per l'attività di gestione non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda
(2).
Nella specie, il Tribunale aveva osservato che le dimensioni dell'impresa (14 dipendenti, numero limitato di mezzi ed un unico furgone, presenza quotidiana degli imputati a contatto con i dipendenti) non erano tali da far ritenere la condotta frutto di una autonoma iniziativa dei lavoratori contro le direttive e ad insaputa dei datori di lavoro; aveva considerato anche il risparmio di spesa determinato dallo scarico abusivo rispetto al regolare smaltimento in discarica e l'irrilevanza, per i dipendenti di recarsi in discarica piuttosto che nel parco fluviale, nonché la mancanza di un interesse, per costoro a contravvenire alle disposizioni.
Il Tribunale aveva inoltre ritenuto irrilevante l'affissione in bacheca di una lettera dei titolari dell’impresa, avvenuta quattro anni prima, perché il problema consisteva nello stabilire se i dipendenti operassero in un contesto favorevole a condotte vietate, tenuto conto della mancanza di un autonomo interesse a scaricare abusivamente i detriti. Ha infine ritenuto che il datore di lavoro fosse a conoscenza delle modalità di scarico dei rifiuti perché, in caso di smaltimento in discarica, veniva rilasciata apposita documentazione da restituire in azienda a cura del lavoratore che vi aveva provveduto.
Note
(1) Si veda: Cass. 25.05.2011, Ced Cass., rv. 250485.
(2) Si veda: Cass. 05.11.2003, Bellesini, in RivistAmbiente, 2004, 630 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40530 - Ambiente & sviluppo 1/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ORDINANZE DI SGOMBERO.
Rifiuti - Ordinanza di sgombero di rifiuti - Emissione da parte del dirigente comunale anziché del Sindaco - Inottemperanza - Reato - Esclusione.
Artt. 255 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L'inottemperanza all'ordinanza, con la quale si impone al privato di rimuovere la propria autovettura lasciata in stato di abbandono sulla pubblica via e di affidarla ad un centro autorizzato per la raccolta, non integra il reato di cui all'art. 255, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006 se è stata emessa dal dirigente comunale anziché dal Sindaco.
Nella specie, all'imputato era stato contestato di non aver ottemperato all'ordinanza con la quale gli era stato imposto di rimuovere un’autovettura, lasciata in stato di abbandono sulla pubblica via, e di affidarla ad un centro autorizzato per la raccolta e per questo motivo era stato condannato per il reato di cui all'art. 255, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006.
Nel ricorrere per cassazione, il M. eccepiva che si trattava di ordinanza dirigenziale e non sindacale e quindi la sua violazione non integrava il reato de quo.
La Corte ha accolto il ricorso mettendo in evidenza che la competenza del Sindaco, mantenuta espressamente dal legislatore del 2006 anche dopo l’attribuzione ai dirigenti comunali del potere di ordinanza di cui all'art. 107, D.Lgs. n. 267/2000, è stata unanimemente interpretata dalla giurisprudenza amministrativa come volontà di riservare in via esclusiva all'organo apicale dell'amministrazione comunale la competenza a emettere le ordinanze ex art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, con conseguente annullabilità, per incompetenza, dell'ordinanza eventualmente adottata dal dirigente comunale.
La Corte ha poi fatto presente che le precedenti sentenze della Cassazione che attribuivano al dirigente comunale la competenza esclusiva o concorrente riguardavano una condotta posta in essere in epoca anteriore al D.Lgs. n. 152/2006, quando, cioè, in base all'art. 107 cit., si riteneva legittima l'adozione dell'ordinanza de qua, anche da parte del dirigente comunale.
Secondo la sentenza in epigrafe, l'assetto normativo attuale rende invece più corretta, e più armonica, l'interpretazione della latitudine applicativa del precetto penale che individua espressamente, come elemento costitutivo del reato, l'«ordinanza del Sindaco», non una qualsiasi ordinanza emessa ai sensi dell'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006.
La conclusione è stata dunque obbligata: l'inottemperanza all'ordinanza emessa dal dirigente comunale non integra il reato contestato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.09.2014 n. 40212 - Ambiente & sviluppo 2/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: COMBUSTIONE DI RIFIUTI.
Rifiuti - Combustione di rifiuti agricoli - Reato.
Artt. 185, 215 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Gli sfalci e le potature, come ogni altro rifiuto agricolo, costituiscono rifiuto quando il loro produttore se ne disfi: ne consegue che la loro combustione è penalmente sanzionata, non rilevando che l'incenerimento venga effettuato direttamente dal produttore, nel luogo di produzione, trattandosi comunque di forma di autosmaltimento non consentita in assenza, quantomeno, di comunicazione di inizio attività di cui all'art. 215, D.Lgs. n. 152/2006.
La sentenza che si riporta fa parte di un gruppo di decisioni che hanno esaminato la stessa questione: il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Avellino aveva, infatti, chiesto al Giudice per le indagini preliminari di emettere decreto penale di condanna in ordine al reato di cui agli artt. 81 cpv., cod. pen., 256, comma 1, lett. a), in relazione all'art. 185, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 e 674 cod. pen., per aver effettuato «senza alcuna autorizzazione, un'attività di smaltimento, mediante incenerimento a terra, di scarti vegetali (rifiuti speciali non pericolosi: CER 02.01.03 non qualificabili come materiale agricolo o forestale naturale utilizzato in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana), nonché perché illegalmente provocava, in luogo di pubblico transito e comunque verso luoghi privati di altrui uso, fumi atti ad offendere o molestare le persone».
Il Giudice per le indagini preliminari aveva però assolto l'imputato sostenendo che:
   1) l'abbruciamento dei residui derivanti dalla pulitura o dalla manutenzione del fondo costituisce uso contadino locale invalso;
   2) si tratta di pratica agronomica lecita perché prevista e disciplinata tanto dal legislatore nazionale (legge n. 353/2000) quanto dal legislatore regionale;
   3) l'art. 6, commi 3 e 6, del capo I dell'allegato 3, L.R. Campania 07.05.1996, n. 11, in particolare, prevede espressamente l'attività di «abbruciamento delle ristoppie e degli altri residui vegetali», regolamentandone le concrete modalità e prescrivendo le relative attività preparatorie;
   4) la violazione delle prescrizioni è punita a titolo di illecito amministrativo (art. 47, lett. b, capo I, allegato C alla L.R. cit.);
   5) a norma dell'art. 185, comma 1, lett. f), non rientrano nel campo di applicazione del decreto, la paglia, gli sfalci e le potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzato in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana;
   6) le ceneri di legno, provenienti da legname non trattato chimicamente dopo l'abbattimento, sono utilizzabili come concime (come prevede il regolamento CEE n. 2092/91, Allegato II, parte A);
   7) la cenere, inoltre, è notoriamente utilizzata in agricoltura come concime, come si può evincere dall'articolo di una rivista specializzata nel settore («Vita in campagna 2/2006»), secondo cui per cento metri quadri di terreno necessitano non più di 25 kg. di cenere, pari a 5 metri cubi di legna da ardere;
   8) si tratta di quantità che sono assolutamente compatibili con la modesta attività di bruciatura posta in essere nel caso di specie, come rilevata fotograficamente dalla polizia giudiziaria;
   9) gli usi dell'agricoltura e la stessa normativa regionali costituiscono elementi che, in ogni caso, depongono a favore della buona fede di chi pratica questa attività, escludendo che possa avere coscienza della antisocialità della propria condotta.
Nel ricorrere per cassazione, il Procuratore della Repubblica osservava che:
   1) a norma dell'art. 185, comma 1, lett. f), non è sufficiente l'esistenza di una prassi in agricoltura, ma è necessario che si tratti di processi o metodi che non danneggiano l'ambiente, né mettono in pericolo la salute umana;
   2) nel caso di specie, l'ARPAC, con nota informativa allegata al ricorso, aveva evidenziato che l'attività oggetto di imputazione non rientrava tra le tecniche agricole che non danneggiano l'ambiente;
   3) si tratta di rifiuti espressamente previsti dall'allegato A alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006;
   4) l'attività di smaltimento mediante incenerimento a terra è espressamente prevista dall'allegato B alla parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006 (D10);
  5) il giudice, dunque, non solo aveva errato nell'applicazione della norma, ma aveva anche travisato la prova derivante dal certificato ARPAC, ponendo a fondamento della propria decisione la propria personale scienza (un articolo di una rivista, peraltro nemmeno presente in atti);
   6) la normativa regionale citata in sentenza disciplina la sola attività in essa prevista, ma non può incidere, nel senso di escluderlo, sul regime autorizzatorio di necessaria competenza esclusiva dello Stato;
   7) il che esclude anche la buona fede di chi ponga in essere questa attività senza autorizzazione;
   8) peraltro si tratta di norme che non sono tra loro in rapporto di specialità (dovendosi far riferimento alla specialità in astratto) e, quand'anche lo fossero, quella penale sarebbe applicabile perché in rapporto di specialità unilaterale per specificazione.
La Cassazione ha accolto il ricorso.
Dopo aver ricordato la nozione di rifiuto e di smaltimento e aver evidenziato che l'allegato B della parte quarta del decreto n. 152 include, tra le operazioni di smaltimento, «l'incenerimento a terra» (D10) per il cui svolgimento, se effettuato direttamente dal produttore, nel luogo di produzione dei rifiuti stessi, è necessaria la comunicazione di inizio attività, la sentenza è passata ad analizzare le argomentazioni del Giudice per le indagini preliminari e del Procuratore della Repubblica nonché dell'imputato che, in una memoria difensiva, aveva insistito sul fatto che «bruciare i residui agricoli equivale a produrre ceneri che, da sempre, vengono utilizzate come fertilizzanti», in accordo a pratiche agricole, da sempre invalse nel mondo contadino, avallate anche da numerosi studi scientifici che ne dimostrano l'efficacia fertilizzante.
Orbene, secondo la Cassazione gli sfalci e le potature, come ogni altro rifiuto agricolo, costituiscono rifiuto quando il produttore se ne disfi; la loro provenienza da un'attività agricola, ancorché non svolta con le forme imprenditoriali di cui all'art. 2135 cod. civ., non incide sulla loro natura di «rifiuto», ma solo sulla loro classificazione: i rifiuti agricoli, infatti, restano tali anche se prodotti in contesti non imprenditoriali (dovendosi intendere per imprenditore agricolo anche il piccolo coltivatore agricolo di cui all'art. 2083 cod. civ.).
La Corte ha osservato:
   - che il D.Lgs. n. 152/2006 condiziona l'esclusione di quei rifiuti dal proprio ambito di applicabilità al riutilizzo diretto in agricoltura;
   - che il concetto di «utilizzo» è presente in tutte le versioni che nel tempo ha avuto la medesima norma (art. 185);
   - che esula dal concetto di «utilizzo», e rientra a pieno titolo nell'ambito applicativo del D.Lgs. n. 152/2006, lo smaltimento definitivo del rifiuto mediante la procedura dell'incenerimento al suolo;
   - che non rileva, a tal fine, che l'incenerimento venga effettuato direttamente dal produttore, nel luogo di produzione, trattandosi comunque di forma di autosmaltimento non consentita in assenza, quantomeno, di comunicazione di inizio attività di cui all'art. 215 e penalmente sanzionata dall'art. 256, comma 1;
   - che l'incenerimento al suolo non è condotta che possa integrare la «cessazione della qualifica di rifiuto», presupponendo -quest'ultima- un'operazione di «recupero» del rifiuto e non di «smaltimento»;
   - che l’utilizzo del rifiuto deve essere oggetto di rigoroso accertamento;
   - che la relativa prova non può essere affidata ad usi e consuetudini; che in ossequio al principio della riserva assoluta di legge in materia penale, e nel rispetto della gerarchia delle fonti, gli usi e le consuetudini, se non espressamente richiamati dalla legge, non hanno alcuna efficacia scriminante, tanto meno limitativa della portata applicativa del decreto, né possono essere utilizzati per aggirare la necessaria rigorosità della prova dell'utilizzo del rifiuto nella pratica agricola;
   - che la L.R. Campania 07.05.2006, n. 11, come qualunque legge regionale, non può avere efficacia modificativa/abrogativa di una norma penale;
   - che peraltro, il suo ambito applicativo (e la ratio della previsione di cui all'art. 6, comma 6, cit.) riguarda la prevenzione degli incendi boschivi, non lo smaltimento dei rifiuti;
   - che in tale contesto, la denunzia al Sindaco e al Comando Stazione Forestale competente è indirizzata ad autorità del tutto diverse ed assolve a finalità del tutto eterogenee rispetto alla comunicazione di cui all'art. 215, D.Lgs. n. 152/2006 non potendosi ritenere ad essa sostitutiva o equipollente;
   - che in ogni caso, il richiamo a tale legge è improprio, disciplinando essa condotte, quali la bruciatura (direttamente sul terreno) delle stoppie, nonché la pulizia dei castagneti (mediante bruciatura di piccoli mucchi dei ricci, del fogliame e delle felci), del tutto diverse da quelle oggetto d'imputazione (grossi falò di potature ed altri residui vegetali non derivanti dalla pulizia di castagneti);
   - che ciò vale ad escludere qualsiasi riflesso sull'elemento psicologico del reato (pure invocato per ritenere l'assenza di colpa per buona fede);
   - che a seguito dell'introduzione del delitto di cui all'art. 256-bis, comma 2, la combustione non autorizzata, quale modalità di smaltimento dei rifiuti dolosamente perseguita all'esito dell'attività di raccolta, trasporto e spedizione, qualifica le corrispondenti condotte previste dagli artt. 256 e 259 D.Lgs. n. 152/2006, facendole assurgere a fattispecie autonoma di reato, ancorché a tali fasi di gestione del rifiuto, prodromiche alla combustione, non segua la combustione stessa;
   - che il residuo illecito amministrativo di cui all'art. 256-bis, comma 6, ha invece ad oggetto i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali di cui all'art. 184, lett. e), non dunque la paglia, gli sfalci, le potature e il materiale agricolo o forestale non pericoloso di cui all'art. 185, comma 1, lett. f);
   - che la condotta, però, deve avere ad oggetto rifiuti vegetali abbandonati o depositati in modo incontrollato (tale il senso del richiamo al comma 1), non anche raccolti e trasportati dallo stesso autore della combustione, poiché, in tal caso, la condotta ricadrebbe nella previsione di cui al comma 2 dello stesso art. 256-bis;
   - che, infine, la condotta di autosmaltimento mediante combustione illecita di rifiuti continua ad avere penale rilevanza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.08.2014 n. 34098 - Ambiente & sviluppo 2/2015).

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