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AGGIORNAMENTO AL 23.03.2017 |
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IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La Corte dei Conti può e deve
verificare la compatibilità delle scelte amministrative con
i fini
dell'ente pubblico, che, ai sensi dell'art. 1 della legge 07.08.1990,
n. 241, devono essere ispirati a criteri di economicità e di
efficacia -secondo il canone indicato nell'art. 97 Cost.- che assumono
rilevanza
sul piano della legittimità, non della mera opportunità,
dell'azione
amministrativa; pertanto, la verifica della legittimità
dell'attività
amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni
dell'agire
amministrativo e, quindi, apprezzare se gli strumenti
utilizzati dagli
amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed
estranei
ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse
pubbliche, e non
potendo, comunque, prescindere dalla valutazione del
rapporto tra gli
obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
Sicché, sussiste la possibilità di un'estesa applicazione della
l.
n. 241 del 1990, le cui
clausole generali consentono in sede giurisdizionale un
controllo di
ragionevolezza sulle scelte operate dalla pubblica
amministrazione.
Ne consegue che il criterio di razionalità nella valutazione
delle scelte
cui si riferisce la giurisprudenza contabile non è strumento
limitato
all'esame del merito, che conserva la sua rilevanza solo se
inserito in
un metodo di valutazione che lo individua come summa di
sintomi
dell'eccesso di potere, ma investe nella sua interezza il
percorso
logico seguito dall'amministrazione, onde evitare la
deviazione
dell'attività amministrativa dai propri fini istituzionali,
che devono
essere perseguiti nel quadro complessivo degli equilibri
della finanza
pubblica cui il giudizio amministrativo-contabile è
specificamente
orientato.
L'irragionevolezza equivale al vizio della funzione; di
contro,
l'esigenza di razionalità insita nello svolgimento della
funzione
amministrativa corrisponde a correttezza e adeguatezza della
funzione; di modo che la ragionevolezza consente di
verificare la
completezza dell'istruttoria, la non arbitrarietà e la
proporzionalità
nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché la
logicità e
l'adeguatezza della decisione finale allo scopo da
raggiungere.
In questo contesto, gli obblighi di servizio diventano
obblighi di
risultato e il mancato raggiungimento degli obiettivi,
laddove
comporti un danno per la pubblica amministrazione e sia
imputabile al
dolo o alla colpa grave degli operatori, può essere oggetto
di
valutazione in sede giurisdizionale di responsabilità.
Il giudice contabile ha
il potere di
accertare tutti i fatti e
comportamenti causa di danno erariale e, pertanto,
valuta i modi di
attuazione
delle scelte discrezionali alla luce del parametro della
conformità a
criteri di efficacia ed economicità che, avendo acquistato
"dignità normativa", assumono rilevanza sul piano della
legittimità e non della
mera opportunità dell'azione amministrativa.
---------------
Il motivo è infondato.
A decorrere dalla fondamentale sent. 14488/2003 la
giurisprudenza di
queste sezioni unite, applicando analoghi criteri adottati
per delineare
i limiti di sindacabilità della giurisdizione del giudice
amministrativo,
ha ripetutamente precisato che la Corte dei Conti può e deve
verificare la compatibilità delle scelte amministrative con
i fini
dell'ente pubblico, che, ai sensi dell'art. 1 della legge 07.08.1990,
n. 241, devono essere ispirati a criteri di economicità e di
efficacia -secondo il canone indicato nell'art. 97 Cost.- che assumono
rilevanza
sul piano della legittimità, non della mera opportunità,
dell'azione
amministrativa; pertanto, la verifica della legittimità
dell'attività
amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni
dell'agire
amministrativo e, quindi, apprezzare se gli strumenti
utilizzati dagli
amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed
estranei
ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse
pubbliche, e non
potendo, comunque, prescindere dalla valutazione del
rapporto tra gli
obiettivi conseguiti e i costi sostenuti (sentt. nn. 4283 e
12102 del
2013, 831 e 20728 del 2012, 10069 e 12902/2011).
Nel
richiamare,
pertanto, i suindicati criteri, queste Sezioni Unite hanno
affermato la possibilità di un'estesa applicazione della l.
n. 241 del 1990, le cui
clausole generali consentono in sede giurisdizionale un
controllo di
ragionevolezza sulle scelte operate dalla pubblica
amministrazione.
Ne consegue che il criterio di razionalità nella valutazione
delle scelte
cui si riferisce la giurisprudenza contabile non è strumento
limitato
all'esame del merito, che conserva la sua rilevanza solo se
inserito in
un metodo di valutazione che lo individua come summa di
sintomi
dell'eccesso di potere, ma investe nella sua interezza il
percorso
logico seguito dall'amministrazione, onde evitare la
deviazione
dell'attività amministrativa dai propri fini istituzionali,
che devono
essere perseguiti nel quadro complessivo degli equilibri
della finanza
pubblica cui il giudizio amministrativo-contabile è
specificamente
orientato.
L'irragionevolezza equivale al vizio della funzione; di
contro,
l'esigenza di razionalità insita nello svolgimento della
funzione
amministrativa corrisponde a correttezza e adeguatezza della
funzione; di modo che la ragionevolezza consente di
verificare la
completezza dell'istruttoria, la non arbitrarietà e la
proporzionalità
nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché la
logicità e
l'adeguatezza della decisione finale allo scopo da
raggiungere.
In questo contesto, gli obblighi di servizio diventano
obblighi di
risultato e il mancato raggiungimento degli obiettivi,
laddove
comporti un danno per la pubblica amministrazione e sia
imputabile al
dolo o alla colpa grave degli operatori, può essere oggetto
di
valutazione in sede giurisdizionale di responsabilità.
Il giudice contabile ha, per tale via,
il potere di
accertare tutti i fatti e
comportamenti causa di danno erariale e, pertanto, ferma
restando la
scelta dell'amministratore di apprestare gli strumenti più
idonei al
soddisfacimento degli obiettivi dell'ente, valuta i modi di
attuazione
delle scelte discrezionali alla luce del parametro della
conformità a
criteri di efficacia ed economicità che, avendo acquistato
"dignità normativa", assumono rilevanza sul piano della
legittimità e non della
mera opportunità dell'azione amministrativa.
Alla stregua dei richiamati principi, deve escludersi che
nella
fattispecie vi sia stato, da parte del giudice contabile,
alcun
superamento dei limiti della propria giurisdizione.
Nel
verificare,
infatti, se la esternalizzazione dei compiti o servizi
necessari
all'attività istituzionale dell'ente pubblico consortile
rispondesse ai
requisiti dettagliatamente previsti dalla legge, la Corte
dei conti si è
mantenuta nell'ambito di valutazione della legittimità, in
rapporto a
parametri normativi definiti, dell'azione amministrativa,
essendosi
limitata, nel negare che il soggetto (la s.r.l. Se.) così
liberamente
concepito e creato dall'autorità amministrativa, privo di
personale e
financo di sede sociale e in concreto fornitore di servizi
ugualmente
effettuati dall'ente pubblico, avesse soddisfatto parametri
minimi di
economicità ed efficacia, al (doveroso) accertamento dei
fatti rilevanti
ai fini dell'applicazione della norma: è chiaramente da
escludere,
pertanto, che la Corte abbia espresso valutazioni di
opportunità, o di
mera non condivisione, della scelta operata
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 15.03.2017 n. 6820). |
UTILITA' |
TRIBUTI:
IL CONTENZIOSO TRIBUTARIO (Agenzia delle Entrate,
gennaio 2017). |
VARI:
GUIDA ALLE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LE PERSONE CON
DISABILITA’ (Agenzia
delle Entrate, gennaio 2017). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
22.03.2017 n. 68 "Regolamento recante individuazione
degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata" (D.P.R.
13.02.2017 n. 31). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 21.03.2017, "Secondo
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 14.03.2017 n. 2691). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 20.03.2017, "Integrazione
delle disposizioni per l’efficienza energetica degli edifici
approvate con decreto n. 176 del 12.01.2017 e riapprovazione
complessiva delle disposizioni relative all’efficienza
energetica degli edifici e all’attestato di prestazione
energetica" (decreto
D.U.O. 08.03.2017 n. 2456). |
VARI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 16.03.2017, "Aggiornamento
del registro della Regione Lombardia dei laboratori che
effettuano analisi nell’ambito delle procedure di
autocontrollo delle industrie alimentari" (decreto
D.U.O. 07.03.2017 n. 2406). |
VARI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 16.03.2017, "Aggiornamento
del documento «Manuale operativo delle autorità competenti
locali» relativo ai controlli ufficiali in materia di
sicurezza alimentare, di cui al regolamento (CE) n. 882/2004"
(deliberazione
G.R. 06.03.2017 n. 6299). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U.
15.03.2017 n. 62 "Regolamento concernente modifiche
al decreto del Presidente della Repubblica 30.04.1999, n.
162, per l’attuazione della direttiva 2014/33/UE relativa
agli ascensori ed ai componenti di sicurezza degli ascensori
nonché per l’esercizio degli ascensori" (D.P.R.
10.01.2017 n. 23). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia: pubblicato il decreto che aggiorna le norme
sull'efficienza energetica degli edifici.
La nuova procedura per calcolare l’energia rinnovabile
estratta dall’ambiente con le pompe di calore entrerà in
vigore il 03.04.2017. (...continua) (22.03.2017 -
link a www.casaeclima.com). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Legge regionale 7/2017 per il recupero dei
seminterrati esistenti (Ance di Bergamo,
circolare 17.03.2017 n. 65). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Chiarimenti ministeriali sul decreto
sottoprodotti (Ance di Bergamo,
circolare 17.03.2017 n. 63). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num.
7 – anno 2017 (Ance di Bergamo,
circolare 17.03.2017 n. 62). |
APPALTI:
Oggetto: Antimafia – White list: iscrizione obbligatoria
per chi opera nei settori a maggiore rischio (Ance di
Bergamo,
circolare 17.03.2017 n. 58). |
APPALTI:
Oggetto: Contributo di gara ANAC per l’anno 2017 –
Importi invariati (Ance di Bergamo,
circolare 17.03.2017 n. 57). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L’articolo
113 del d.lgs. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici)
riconosce il compenso incentivante anche per lo svolgimento,
da parte dei dipendenti pubblici, di funzioni tecniche
nell’ambito degli appalti di servizi e di forniture.
Di conseguenza, le risorse finalizzate a remunerare le
funzioni tecniche svolte nell’ambito degli appalti di
servizi e forniture possono essere attinte anche dagli
stanziamenti di spesa corrente che li finanziano.
Relativamente alle attività incentivabili, il menzionato
articolo 113 riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le
“attività di programmazione della spesa per investimenti,
per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione
e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e
di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico”.
La predisposizione del programma biennale degli acquisti di
beni e servizi, benché coincidente parzialmente con
l’attività di programmazione della spesa di investimento,
all’evidenza, non si identifica con essa, presentando un
contenuto ulteriore, che attiene alla programmazione della
spesa corrente (quella impiegata per l’acquisto dei servizi,
in generale, e dei beni diversi da quelli descritti
dall’art. 3, comma 18, lett. c) della Legge n. 350/2003,
ovvero “acquisto di impianti, macchinari, attrezzature
tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e altri beni mobili
ad utilizzo pluriennale”).
Non trattandosi di un’attività assimilabile ad alcuna di
quelle contemplate dall’articolo 113, nessun compenso
incentivante può essere riconosciuto per lo svolgimento
della stessa
(massima tratta da www.self-entilocali.it).
---------------
Il Sindaco del Comune di Nove (VI) ha presentato
richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge 05.06.2003, n. 131, formulando i seguenti quesiti:
- “se nella determinazione del fondo per gli incentivi
per funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del
D.lgs. n. 50/2016, si possano ricomprendere anche gli
importi posti a base di gara degli appalti di forniture e
servizi non finanziati con spese per investimenti”;
- in caso di risposta affermativa al precedente quesito, “se
tra le funzioni tecniche possano essere considerate anche le
attività di programmazione biennale degli acquisti di beni e
servizi di cui all’art. 21 del D.lgs. 50/2016”.
...
Entrambi i quesiti formulati dal Sindaco del Comune di Nove,
inoltre, possono essere considerati sufficientemente
generali ed astratti.
Il primo di essi ha ad oggetto l’utilizzabilità, ai
fini della determinazione del fondo destinato agli incentivi
per le funzioni tecniche, degli importi posti a base di
gara, oltre che degli appalti di lavori, anche degli appalti
di forniture e servizi.
Il comma 2 dell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016 (Codice dei
contratti pubblici) dispone che il suddetto fondo venga
costituito “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1”
ossia sugli “stanziamenti previsti per la realizzazione
dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o
nei bilanci delle stazioni appaltanti”; il successivo
comma 3 dispone che l’ottanta per cento delle risorse del
fondo debba essere ripartito “per ciascuna opera o
lavoro, servizio, fornitura, con le modalità previste dalla
contrattazione decentrata”.
Al di là del riferimento agli stanziamenti previsti per la
realizzazione “dei singoli lavori”, contenuto nel
primo comma ed espressamente richiamato in quello
successivo, appare evidente che la norma
riconosca il compenso incentivante anche per lo svolgimento,
da parte dei dipendenti pubblici, di funzioni tecniche
nell’ambito degli appalti di servizi e di forniture
(in tal senso, vedasi Sezione regionale di controllo per la
Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Siffatta conclusione trova conferma anche nella menzione,
nel primo comma, di alcune attività di natura tecnica
proprie di tali tipologie di appalto: ivi si prevede,
infatti, che, nell’ambito dei relativi stanziamenti di
spesa, debbano essere computati anche gli oneri inerenti
alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al
direttore dell’esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi
tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, ecc., ossia a funzioni,
quale quella della direzione dell’esecuzione e della
verifica di conformità, tipiche degli appalti di servizi e
di forniture, riportate accanto e correlativamente a quelle
omologhe (e tipiche) dei lavori pubblici (direzione dei
lavori e collaudo tecnico amministrativo).
L’art. 113 cit., peraltro, nell’elencazione delle funzioni
per le quali prevede il riconoscimento degli incentivi,
riporta proprio le attività appena menzionate, comprese
quelle riferibili specificamente agli appalti di servizi e
forniture.
Posto che, alla luce della interpretazione letterale e
logico-sistematica della norma, non sembrano esservi dubbi
circa l’estensione della disciplina degli incentivi anche
alle suddette tipologie di appalto, occorre stabilire se le
risorse finalizzate a remunerare le funzioni tecniche svolte
nell’ambito degli stessi possano essere attinte anche dagli
stanziamenti di spesa corrente che li finanziano.
Sempre sulla scorta di argomenti di carattere
logico-sistematico, questa Sezione ritiene che il
riferimento agli “stanziamenti previsti per la
realizzazione dei singoli lavori” debba intendersi come
comprensivo anche degli stanziamenti previsti per il singolo
servizio e la singola fornitura. Se, come appare chiaro, la
norma estende gli incentivi anche agli appalti di servizi e
forniture, non può non farne gravare gli oneri sugli
stanziamenti che finanziano le relative procedure.
Del resto, non può ritenersi che gli stanziamenti relativi
ai lavori pubblici finanzino l’intero fondo, ivi compresa la
parte destinata a remunerare le funzioni tecniche afferenti
ai contratti di servizi e di forniture, laddove la norma
espressamente prevede che le risorse a tal fine necessarie
debbano essere attinte dagli stanziamenti relativi ai “singoli
lavori” (commi 1 e 2), in misura pari al due per cento
dell’importo posto a base di gara e che l’ottanta per cento
delle stesse venga ripartito “per ciascuna opera o
lavoro, servizio, fornitura”, lasciando intendere
chiaramente che esiste una correlazione tra gli oneri
previsti per lo svolgimento delle funzioni tecniche, gli
stanziamenti che finanziano la specifica opera, servizio o
fornitura e la composizione ed entità del fondo.
Deve considerarsi, inoltre, che l’art. 102 del Codice, nel
disciplinare la fase del controllo sulla esecuzione dei
contratti pubblici, caratterizzata da una serie di attività
non tutte comuni ad ogni tipologia di appalto, al comma 6°,
prevede, per lo svolgimento delle stesse ed in maniera
indifferenziata, il diritto all’incentivo (Sezione regionale
di controllo per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204).
Com’è stato correttamente rilevato, dunque,
il riferimento
ai soli lavori e non anche alle altre tipologie di appalto,
contenuto in alcuni passaggi dell’art. 113 cit., deve essere
inteso in senso “atecnico” (deliberazioni Sezione
Lombardia e Sezione Puglia, cit.).
In conclusione, esaminata nel complesso e nella sua attuale
formulazione, la disciplina degli incentivi
consente di fornire una risposta positiva al primo quesito.
Con il secondo quesito, l’ente chiede, se,
nell’attività di programmazione della spesa per
investimenti, rientri anche la predisposizione del programma
biennale degli acquisti di beni e servizi, previsto e
disciplinato dall’art. 21 del D.lgs. n. 50/2016.
In proposito, deve rilevarsi che il menzionato art. 113
riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività
di programmazione della spesa per investimenti, per la
verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di
controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e
di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico”.
L’avverbio “esclusivamente” esprime
con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il
compenso incentivante limitatamente alle attività
espressamente previste, ove effettivamente svolte dal
dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella
norma deve considerarsi tassativa
(così anche deliberazione Sezione Puglia cit., che richiama
Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via
incidentale, sottolinea che la nuova disposizione ha abolito
“gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente
art. 93, comma 7-ter, introducendo nuove forme di
incentivazione per funzioni tecniche … svolte dai dipendenti
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti
e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche,
prima non incentivate”).
Sotto questo specifico profilo, ossia quello della
individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte
dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica
remunerazione, la disciplina degli
incentivi, derogatoria rispetto al principio di
onnicomprensività della retribuzione, tra l’altro, è da
considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile
di estensione analogica.
Ciò premesso, occorre verificare se la
programmazione della spesa per l’acquisizione, da parte
dell’ente, di beni e di servizi rientri o meno
nell’elencazione delle attività sopra riportate ed, in
particolare, se sia identificabile con l’attività di
programmazione della spesa per investimenti, espressamente
prevista.
Pur dovendo riconoscere che, nel caso specifico
dell’acquisto di beni, ove questi siano sussumibili nella
previsione di cui al comma 18, lett. c), dell’art. 3 della
L. n. 350 2003 (“acquisto di impianti, macchinari,
attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e
altri beni mobili ad utilizzo pluriennale”) ed abbiano
determinato un accrescimento del patrimonio dell’ente, la
relativa spesa debba classificarsi quale spesa di
investimento, analoga qualificazione non può essere
attribuita all’acquisto di beni che non presentino dette
caratteristiche né all’acquisto di servizi, i quali, per
ovvi motivi, neppure compaiono nell’elencazione delle spese
di investimento contenuta nel menzionato art. 3.
La predisposizione del programma biennale degli acquisti di
beni e servizi, benché coincidente parzialmente con
l’attività di programmazione della spesa di investimento,
all’evidenza, non si identifica con essa, presentando un
contenuto ulteriore, che attiene alla programmazione della
spesa corrente (quella impiegata per l’acquisto dei servizi,
in generale, e dei beni diversi da quelli descritti
dall’art. 3, comma 18, lett. c), della Legge n. 350/2003).
Non trattandosi di un’attività assimilabile
ad alcuna di quelle contemplate dall’art. 113, questa
Sezione ritiene che nessun compenso incentivante possa
essere riconosciuto per lo svolgimento della stessa
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134). |
GIURISPRUDENZA |
PATRIMONIO:
Giurisdizione del giudice ordinario se lo sgombero riguarda
un bene appartenente al patrimonio disponibile.
---------------
Giurisdizione – Demanio e patrimonio – Patrimonio
disponibile – Ordine sgombero locale occupato – Controversia
– Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto
l’ordinanza con la quale il Comune ha diffidato a sgomberare
un locale occupato, appartenente al proprio patrimonio
disponibile, trattandosi di ordinanza emessa in carenza
assoluta di potere e, quindi, nulla (1).
---------------
(1)
Il Tar –premesso che il Comune ha inteso esercitare un
potere autoritativo e non inviare una semplice diffida
iure privatorum– ha richiamato, a supporto delle
conclusioni cui è pervenuto, la giurisprudenza secondo cui:
a) l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'Amministrazione
all'esercizio dei poteri amministrativi solo per tutelare i
beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile; di
conseguenza, l'eventuale ordinanza emessa in carenza
assoluta di potere, trattandosi di bene che appartiene al
patrimonio disponibile dell'ente, va qualificata come atto
nullo secondo i principi sanciti dall'art. 21-septies, l.
07.08.1990, n. 241;
b) l'atto nullo non produce alcun effetto degradatorio delle
posizioni soggettive di cui si assume la lesione, e se
dall’esecuzione del provvedimento sono derivati effetti
pregiudizievoli, gli stessi vanno considerati come
violazioni di diritti soggettivi la cui tutela appartiene
alla giurisdizione del giudice ordinario (Cons.
St., sez. V, 08.03.2010, n. 1331);
c) la controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale
di proprietà comunale facente parte del patrimonio
disponibile dell'ente territoriale appartiene alla
giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un
rapporto di matrice negoziale, da cui derivano in capo ai
contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in
termini di diritto soggettivo, nel cui ambito
l'Amministrazione agisce iure privatorum -al di fuori
cioè dell'esplicazione di qualsivoglia potestà
pubblicistica- non soltanto nella fase genetica e funzionale
del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più
specificamente, si traduce nell'assenza di poteri
autoritativi sia sul versante della chiusura del rapporto
stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene (Tar
Napoli, sez. VII, 06.02.2015, n. 931) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 20.03.2017 n. 1531
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Giurisdizione del giudice tributario per le controversie
sulla restituzione di canoni per installazione di mezzi
pubblicitari non dovuti.
---------------
Giurisdizione – Pubblicità – Canone installazione di
mezzi pubblicitari – Restituzione somma indebitamente
versata – Diniego del Comune – Controversia – Art. 19, comma
1, lett. g), d.lgs. n. 546 del 1992 – Giurisdizione giudice
tributario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice tributario, ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett.
g), d.lgs. 31.12.1992, n. 546, la controversia avente ad
oggetto il diniego, opposto da un Comune, restituzione del
canone, previsto dall'art. 62, d.lgs. 31.12.1997, n. 446, di
installazione dei mezzi pubblicitari, asseritamente versato
in eccedenza al dovuto nel periodo 2005/2013, costituendo
una mera variante dell'imposta comunale sulla pubblicità e
conservando, quindi, la qualifica di tributo propria di
quest'ultima (1).
---------------
(1)
Ad avviso del Tar sussiste quindi la giurisdizione del
giudice tributario ai sensi dell’art. 19, comma 1, lett. g,
d.lgs. 31.12.1992, n. 546, il quale annovera tra gli atti
impugnabili innanzi alla Commissione tributaria “il
rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi,
sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non
dovuti”.
Il Tar ha escluso possa richiamarsi, a sostegno della
propria giurisdizione, l’indirizzo giurisprudenziale secondo
cui deve essere affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo in materia di impugnazione di regolamenti o
di deliberazioni comunali di determinazione delle tariffe
relative agli impianti pubblicitari, in quanto il ricorso in
questione si incentra sulla natura indebita del pregresso
pagamento del tributo e sull’obbligo di restituzione da
parte del Comune, stante la dedotta illegittimità del canone
fissato relativamente al periodo 2005/2013 (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 20.03.2017 n. 438
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Esclusione dell’obbligo del curatore fallimentare di
smaltire i rifiuti su immobile di proprietà del fallito.
---------------
Inquinamento – Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei
luoghi – Ingiunzione – Indirizzata al curatore fallimentare
– Esclusione.
Il curatore fallimentare non è
custode degli immobili di proprietà del fallito, con la
conseguenza che non è assoggettabile agli obblighi previsti
dall'art. 192, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (1).
---------------
(1)
Il Tar ha richiamato precedenti del giudice di appello (sez.
V, 30.06.2014, n. 3274;
16.06.2009, n. 3885; 12.06.2009, n. 3765) secondo
cui “il fallimento non può essere reputato un
subentrante, ossia un successore, dell’impresa sottoposta
alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita,
invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane
titolare del proprio patrimonio…e correlativamente il
fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni ma ne è
solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove
quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul
munuspubblico rivestito dagli organi della procedura (art.
31, r.d. 16.03.1942, n. 267: Il curatore ha
l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte
le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice
delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle
funzioni ad esso attribuite)”.
E’ stato aggiunto dal Consiglio di Stato che “il fatto
che alla curatela sia affidata l’amministrazione del
patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti
alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione
paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul
curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico
originariamente all’imprenditore, ancorché relativi a
rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura
concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la
legge (sia esso il r.d. n. 267 del 1942, siano esse leggi
speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun
obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche
passive di cui era onerato il fallito…poiché in linea
generale, come ricordato, il curatore, nell’espletamento
della pubblica funzione non si pone come successore o
sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono
gli obblighi del fallito inadempiuti volontariamente o per
colpa, né di quelli che lo stesso non sia stato in grado di
adempiere a causa dell’inizio della procedura concorsuale…”.
Conclusivamente “nei confronti del Fallimento non è
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 192, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152”
(secondo cui “Qualora la responsabilità del fatto
illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti
di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3,
sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che
siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo
le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in
materia di responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche, delle società e delle associazioni) della
legittimazione passiva che l’articolo stesso pone in prima
battuta a carico del responsabile e del proprietario
versante in dolo o in colpa” (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 20.03.2017 n. 93
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. Le questioni sottoposte al vaglio del Collegio
investono precipuamente la posizione della curatela
fallimentare in riferimento ai beni del fallito -acquisiti
dalla procedura- direttamente definibili rifiuti o comunque
contenenti fattori di inquinamento ambientale tali da
richiedere, secondo la normativa di settore, un intervento
di bonifica.
2. Su tale delicato problema, involgente non solo la
disamina della normativa (in primis contenuta nel d.lgs. n.
152/2016) di derivazione comunitaria che disciplina la messa
in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale, ma
anche l’analisi della legge fallimentare (r.d. n. 267/1942)
e dei correlati doveri posti a carico del curatore, non
sussiste un’univoca interpretazione giurisprudenziale.
3.
La questione è stata tuttavia affrontata in termini
sistematici dal Consiglio di Stato (sez. V, 30.06.2014 n.
3274; 16.06.2009, n. 3885; 12.06.2009, n. 3765)
che, in
accoglimento dell’appello promosso da una curatela (non
autorizzata alla prosecuzione dell’attività della società
fallita) avverso ordinanze sindacali imponenti la rimozione,
l’avvio a recupero o smaltimento di rifiuti ed il ripristino
dello stato dei luoghi, ne ha escluso la legittimazione
passiva, atteso che “il fallimento non può essere
reputato un subentrante, ossia un successore, dell’impresa
sottoposta alla procedura fallimentare. La società
dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività
giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio…e
correlativamente il fallimento non acquista la titolarità
dei suoi beni ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla
titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus pubblico rivestito
dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: Il
curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e
compie tutte le operazioni della procedura sotto la
vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori,
nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite)”.
In specifico, nella medesima pronuncia viene affermato
quanto segue: “il fatto che alla curatela sia affidata
l’amministrazione del patrimonio del fallito, per fini
conservativi predisposti alla liquidazione dell’attivo ed
alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta
affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi
facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorché
relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della
procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti
che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n. 267, siano esse
leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile
alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni
giuridiche passive di cui era onerato il fallito…poiché in
linea generale, come ricordato, il curatore,
nell’espletamento della pubblica funzione non si pone come
successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non
incombono gli obblighi del fallito inadempiuti
volontariamente o per colpa, né di quelli che lo stesso non
sia stato in grado di adempiere a causa dell’inizio della
procedura concorsuale… ”. E conclusivamente: “Per quanto
esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non è
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit.” (da intendersi d.lgs.
n. 152/2006), della legittimazione passiva che l’articolo
stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o in colpa”.
3.1. Detto insegnamento è stato ripreso in termini del tutto
condivisi in diverse pronunce del giudice di prime cure
(cfr. Tar Campania Napoli n. 5203/2014; Tar Puglia Lecce n.
504/2014; Tar Toscana n. 774 e 118/2014).
4. In precedenza (cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 3885/2009
e n. 4328/2003) il giudice d’appello aveva riscontrato che
il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari non
comporta necessariamente il dovere di adottare particolari
comportamenti attivi finalizzati alla tutela sanitaria degli
immobili richiedenti, per la presenza di fattori inquinanti,
la bonifica, e che la curatela fallimentare non subentra
negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità dell’imprenditore, a meno che non vi sia una
prosecuzione nell’attività, da ciò conseguendo “che non può
accettarsi che la legittimazione passiva sia del curatore
(poiché ciò, inoltre, determinerebbe un sovvertimento del
principio di matrice comunitaria del “chi inquina paga”
scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun
collegamento con l’inquinamento)”, nel mentre l’affermazione
del predetto principio “consiste, in definitiva
nell’imputazione dei costi ambientali …al soggetto che ha
causato la compromissione ecologica illecita”, rammentando
infine che “nel caso di mancata individuazione del
responsabile, o nell’assenza di interventi volontari, le
opere di bonifica saranno realizzate dalle Amministrazioni
competenti (art. 250 d.lgs. n. 152/2006) salvo, a fronte
delle spese sostenute, l’esistenza di un privilegio speciale
immobiliare sul fondo, a tutela del credito per la bonifica
e la qualificazione degli interventi relativi come onere
reale sul fondo stesso, destinato a trasmettersi unitamente
alla proprietà del terreno (art. 253)”.
5. Orbene: in stretta relazione al surriferito insegnamento,
che condivide, il Collegio annota aggiuntivamente che, nella
fattispecie in esame, da un lato è del tutto pacifico che la
curatela ricorrente non sia stata autorizzata all’esercizio
provvisorio ai sensi dell’art. 104 della legge fallimentare,
e dall’altro, come si evince dalla documentazione versata in
causa (doc. 11 fasc. ricorrente), che la custodia del
compendio immobiliare -tra cui rientra il capannone sito in p.ed. 1214/1- risulta affidata ex art. 32 L.F., fin dal
momento della redazione dell’inventario, al legale
rappresentante della società fallita (An.Ce.), nei cui
esclusivi confronti le prime ordinanze contingibili e
urgenti adottate dell’autorità sindacale erano state in
effetti rivolte.
6. Sulla scorta di quanto precede, attesa la ricostruzione
sistematica del rapporto intercorrente fra la legislazione
fallimentare (e del ruolo assunto nell’ambito della stessa
dal curatore) e quella dettata dal legislatore in materia di
tutela ambientale dai rifiuti, nonché le appena viste
connotazioni che caratterizzano la procedura fallimentare in
esame, le ragioni sostenute dalla ricorrente con i primi
motivi dovrebbero trovare pacifico accoglimento.
7. Tuttavia, oltre al citato insegnamento deve riscontrarsi
la sussistenza di un orientamento giurisprudenziale diverso,
secondo cui sussisterebbe la legittimazione passiva della
curatela fallimentare, rispetto agli obblighi connessi alla
bonifica di inquinamenti ambientali, non solo nel caso di
autorizzazione all’esercizio provvisorio, ma anche nelle
ipotesi di univoca, autonoma e chiara responsabilità del
curatore nell’abbandono dei rifiuti (cfr. Tar Lombardia
Brescia 09.01.2017 n. 38; Tar Toscana sez. II 19.03.2010 n.
700): detto orientamento ha trovato poi particolare
applicazione nella materia dell’inquinamento derivato dalla
presenza di amianto nei beni acquisiti dalla curatela, e
nello sviluppo di questo filone va annoverata la pronuncia
del Tar Friuli Venezia Giulia n. 441/2015 (conforme Tar
Lombardia Brescia n. 669/2016), citata nell’ordinanza
sindacale qui impugnata.
8. In base al ragionamento seguito in tali ultime pronunce
“l’eternit diviene pericoloso per la salute pubblica solo a
certe condizioni, il che implica una continua evoluzione
della situazione e quindi anche il passaggio delle
responsabilità fra cedente e cessionario dei beni immobili
in cui sia presente l’amianto”, di talché “la continua
sorveglianza imposta dalla legge e il fatto che l’amianto
divenga pericoloso per l’ambiente e la salute solo a certe
condizioni consentono di scindere le responsabilità e
obbligano passivamente il soggetto che detiene il bene nel
momento in cui si verificano le condizioni per
l’applicazione della normativa speciale”: in forza di quanto
precede, nelle menzionate sentenze il giudice di prime cure
è giunto ad affermare la legittimazione passiva del curatore
fallimentare (“detentore attuale”) negli obblighi di
sanificazione del sito inquinato.
9. Il Collegio, a seguito del necessario riesame e
approfondimento proprio della fase di merito, non ritiene
condivisibile tale orientamento, e comunque non lo ritiene
suscettibile di applicazione al caso di specie.
10. Sotto un primo profilo, infatti,
l’affermazione di tale
principio condurrebbe ad affermare la legittimazione passiva
della curatela oltre i limiti che contraddistinguono
l’assolvimento del munus pubblico che la connota,
individuato –come sopra visto- nella gestione dei beni del
fallito sotto la vigilanza e direzione degli organi
fallimentari, in primis del giudice delegato, ma solo ai
fini della liquidazione del patrimonio secondo le regole
stabilite dalla legge fallimentare volte alla soddisfazione
paritetica dei creditori, e per il resto obnubilerebbe
l’effettiva applicazione del principio di derivazione
comunitaria del “chi inquina paga”, in quanto prescinderebbe
dall’individuazione dell’effettivo responsabile
dell’inquinamento.
11. In secondo luogo non appare persuasiva l’affermazione
secondo cui l’amianto, sostanza insidiosa anche per quel che
riguarda la sua precisa identificazione ed individuazione
nell’ambito di edifici variamente compositi, non costituisce
di per sé un rifiuto ma lo diventa solo a seguito del
superamento di determinati livelli di concentrazione nella
struttura che lo contiene, posto che l’art. 2, co. 1 lett.
c, della legge 27.03.1992 n. 257/1992 (“Norme relative
alla cessazione dell’impiego dell’amianto”) nella
definizione di rifiuto ricomprende “qualsiasi sostanza o
qualsiasi oggetto contenente amianto che abbia perso la sua
destinazione d’uso e che possa disperdere fibre d’amianto
nell’ambiente in concentrazioni superiori a quelle ammesse
dall’art. 3”, con ciò dovendosi ritenere che fin
dall’origine della struttura contenente amianto sussista la
pericolosità idonea alla qualificazione dello stesso come
rifiuto.
11.1 Nella fattispecie in esame la copertura del capannone
preesiste ovviamente al fallimento della società Ce.Pr. s.a.s, e quest’ultima è da presumersi, in assenza
di qualsivoglia elemento contrario, soggetto costruttore ed
a lungo utilizzatore (oltre che proprietario e come visto
custode nella persona di Ce.An.) dell’edificio e
della sua copertura, nonché a conoscenza -nelle persone del
legale rappresentante e dei soci- dell’effettiva
composizione della struttura dell’edificio e dei materiali
impiegati, ivi compreso l’amianto, il che rileva anche in
ordine al necessario riscontro dell’individuazione del
soggetto responsabile dell’inquinamento (“chi inquina paga”)
e dell’accertamento del profilo soggettivo del dolo o della
colpa nel comportamento commissivo o omissivo.
12. Infine, pur volendo aderire al predetto orientamento,
deve osservarsi che non appare sufficiente rilevare come il
mero accertamento dell’avvenuto superamento dei limiti di
amianto tabellarmente consentiti sia stato effettuato in
data successiva alla dichiarazione di fallimento,
intervenuta nell’anno 2011, per poter validamente escludere
che, nel corso dei pochi anni intercorsi, e non già prima, i
limiti di tollerabilità fossero ecceduti: è proprio la
contestuale affermazione, pure rinvenibile nell’orientamento
da ultimo citato, secondo cui l’autonoma responsabilità del
curatore andrebbe accertata secondo criteri di univocità e
chiarezza, ad inficiare ulteriormente, qui sotto il profilo
del difetto di motivazione, i presupposti dell’ordinanza
impugnata.
12.1 Questa, infatti, sul punto in esame si limita a
richiamare l’accertamento dell’indice di degrado operato
dagli uffici dell’Azienda provinciale per i servizi
sanitari, intervenuto in data successiva alla dichiarazione
di fallimento, senza tuttavia che le amministrazioni
interessate, in primis il Comune, abbiano condotto -in
vista dell’emissione dell’ordinanza assunta nei confronti
della curatela- alcuna indagine in ordine alla datazione
dell’edificio e della sua copertura, nonché agli effetti del
tempo trascorso dalla realizzazione sulla concentrazione
dell’amianto poi computata.
13. In conclusione, per le suesposte ragioni, l’orientamento
giurisprudenziale da ultimo citato, posto alla base
dell’ordinanza sindacale impugnata, per un verso non appare
condivisibile e, sotto altro profilo, si rileva
inapplicabile alla fattispecie in esame, dovendosi
contrariamente aderire al qui condiviso e surriferito
insegnamento proveniente dal giudice d’appello, ed alla
conseguente affermazione, per la materia de qua, del difetto
di legittimazione passiva della curatela fallimentare.
14. Il ricorso merita dunque accoglimento, essendo
precipuamente fondati il primo motivo e la prima parte del
secondo, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte
nel gravame, da ciò conseguendo l’annullamento
dell’ordinanza impugnata.
15. Per quanto riguarda la posizione sostanziale e
processuale rivestita dal pure convenuto Ministero
dell’interno, appare condivisibile quanto sostenuto nella
memoria della difesa erariale, secondo cui l’ordinanza
impugnata rientra, per la materia de qua (art. 32 TU delle
leggi regionali sull’ordinamento dei Comuni della Regione
autonoma Trentino- Alto Adige), nelle competenze proprie del
Sindaco quale rappresentante dell’ente comunale, e non nella
qualità di ufficiale di governo (cfr. in termini Cons. di
Stato, sez. V, 25.02.2016 n. 765), e da ciò deriva
l’estromissione del Ministero dal presente giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA: La
pronuncia del giudice amministrativo, investito della
domanda di annullamento della licenza, concessione o
permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti
dei terzi), ha ad oggetto il controllo di legittimità
dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero
concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al
rapporto fra il privato e la P.A., sicché non ha efficacia
di giudicato nelle controversie tra privati, proprietari di
fabbricati vicini, aventi ad oggetto la lesione del diritto
di proprietà determinata dalla violazione della normativa in
tema di distanze legali, che è posta a tutela non solo di
interessi generali ma anche della posizione soggettiva del
privato.
Invero, trattasi di una piana
applicazione del generale principio affermato da tempo per
il quale le controversie tra proprietari di fabbricati
vicini relative all'osservanza di norme che prescrivono
distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini
appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza
che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo
all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere
valutata "incidenter tantum" dal giudice ordinario
attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del
provvedimento amministrativo, salvo che la domanda
risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A.
(nella specie, il Comune) per far valere
l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo
in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo.
L'eventuale accertamento della legittimità
del titolo abilitativo della costruzione da parte del
giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione
dell'illegittimità della condotta del privato nella
controversia intentata da altro privato a tutela del diritto
di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto
puntuale applicazione dei suesposti principi non appare
meritevole di censura.
---------------
Quanto invece alla
dedotta erronea applicazione delle previsioni di legge e
regolamentari in materia di distanza, il tenore delle norme
di cui allo strumento urbanistico locale non consente sulla
base della loro formulazione letterale di ritenere che il
loro ambito applicativo sia limitato alle sole costruzioni
aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di
nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una
puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici
aventi carattere cd. accessorio,
come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti,
non consente di optare per un'interpretazione che ne
limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere
principale, posto che anche i manufatti di più contenute
dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere
la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono
evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di
cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente
infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza
dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che
la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni,
intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di
costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa
Corte.
D'altronde, proprio la carenza di una
specifica disciplina impone di ritenere
come già affermato in passato che
la nozione di costruzione, agli effetti
dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da
parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del
computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi
contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola
facoltà di stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che, una volta ricondotti gli
edifici accessori al novero delle costruzioni in senso
civilistico e nell'accezione propria della disciplina in
materia di distanze, le previsioni regolamentari che
prevedono un distacco tra costruzioni risultano
evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che,
anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato
una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi
illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali
quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in
materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra
richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a
quelle di legge.
---------------
La previsione di un'area di distacco mira essenzialmente ad
assicurare il rispetto delle distanze tra fabbricati
edificati su fondi finitimi ed appartenenti a diversi
proprietari, non potendosi ravvisare l'illegittimità dal
punto di vista privatistico, per costruzioni realizzate
eventualmente a distanza inferiore a quella legale o
regolamentare sul fondo di un unico proprietario
(per un riferimento a tale regola si veda Cass. n.
1918/1973, a mente della quale il principio
della prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di
fondi finitimi, colui che costruisce per primo può o
edificare sul confine o a distanza dal confine non inferiore
a quella legale oppure a distanza inferiore, costringendo il
vicino, che costruisce per secondo, a ristabilire la
distanza legale edificando dal confine a distanza maggiore
della meta di quella prescritta, a meno che non voglia
avanzare la propria fabbrica fino all'altrui costruzione,
giovandosi dei rimedi offertigli dall'art. 875 cod. civ.-
presuppone un rapporto intersoggettivo, opera tra
proprietari di fondi finitimi e non è ipotizzabile come
attributo della costruzione con caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati,
principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti
non sono legittimati a dolersi della violazione delle
distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa
violazione della previsione regolamentare che nega la
possibilità di costruire nelle zone di distacco, la stessa
si riverbera nei soli rapporti con la PA, e determina quindi
l'illegittimità dell'opus dal punto di vista amministrativo,
ma non incide sulla diversa disciplina in tema di distanze,
e sulla possibilità anche per il titolare della costruzione
illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere
il rispetto delle distanze legali,
essendo tale conclusione una piana applicazione del
su riferito principio dell'autonomia tra profili
pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti
interprivatistici.
Ne consegue che anche laddove una parte del
manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di
distacco prevista per il fabbricato principale, la
violazione della norma regolamentare legittima se del caso
la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di
costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei
ricorrenti doveva porsi a distanza legale.
---------------
2. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la
violazione di legge e precisamente la violazione e falsa
applicazione degli artt. 15 e ss. delle NTA del PRG del
Comune di Cassino, nonché la violazione e falsa applicazione
della voce 17 dell'art. 23 del regolamento edilizio, e la
violazione e falsa applicazione dell'art. 41-quinquies della
legge n. 1150 del 1942 e dell'art. 9 del DM n. 1444 del 1968
e dell'art. 873 c.c., nonché l'insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza.
Si dolgono i ricorrenti che la Corte territoriale abbia
ritenuto sussistente la violazione delle distanze tra
fabbricati anche in relazione al fabbricato cd. accessorio
di parte attrice, sebbene gli artt. 15 e ss. citati
stabiliscano il rispetto delle distanze solo per gli edifici
a carattere principale.
In assenza di una specifica disciplina contenuta negli
strumenti urbanistici locali avrebbe dovuto quindi trovare
applicazione la previsione di cui all'art. 9 del menzionato
DM che, prevedendo una distanza di metri 10 tra pareti
finestrate, avrebbe comportato la legittimità della
costruzione dei ricorrenti, in quanto posta a distanza
maggiore.
Lo stesso Tar del Lazio nella sentenza pronunziata in merito
all'impugnativa della concessione avanzata da parte del Co.,
aveva manifestato il convincimento circa l'inapplicabilità
del regime delle distanze previste dallo strumento
urbanistico locale in relazione all'edificio avente
carattere accessorio, sicché la Corte d'Appello non avrebbe
potuto decidere trascurando la rilevanza di giudicato
esterno di tale provvedimento giurisdizionale.
Il motivo è infondato.
Ed, invero, partendo dall'ultima affermazione di parte
ricorrente relativa all'efficacia vincolante della pronuncia
del giudice amministrativo, e ricordato che si tratta di
statuizione emessa in relazione all'impugnativa della
concessione edilizia rilasciata in favore dei ricorrenti e
concernente il fabbricato oggetto di causa, giova richiamare
la giurisprudenza di questa Corte a mente della quale (cfr.
Cass. n. 9869/2015) la pronuncia del
giudice amministrativo, investito della domanda di
annullamento della licenza, concessione o permesso di
costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi),
ha ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del
potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il
profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e
la P.A., sicché non ha efficacia di giudicato nelle
controversie tra privati, proprietari di fabbricati vicini,
aventi ad oggetto la lesione del diritto di proprietà
determinata dalla violazione della normativa in tema di
distanze legali, che è posta a tutela non solo di interessi
generali ma anche della posizione soggettiva del privato.
Ed, invero, trattasi di una piana
applicazione del generale principio affermato da tempo per
il quale (cfr.
Cass. S.U. n. 13673/2014) le controversie
tra proprietari di fabbricati vicini relative all'osservanza
di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o
rispetto ai confini appartengono alla giurisdizione del
giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del
titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui
legittimità potrà essere valutata "incidenter tantum"
dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di
disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che
la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti
della P.A. (nella
specie, il Comune) per far valere
l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo
in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo
(in termini ex multis Cass. n. 13170/2001; Cass. S.U.
n. 333/1999).
L'eventuale accertamento della legittimità
del titolo abilitativo della costruzione da parte del
giudice amministrativo non preclude una diversa valutazione
dell'illegittimità della condotta del privato nella
controversia intentata da altro privato a tutela del diritto
di proprietà, sicché la decisione gravata, avendo fatto
puntuale applicazione dei suesposti principi non appare
meritevole di censura.
Quanto invece alla dedotta erronea applicazione delle
previsioni di legge e regolamentari in materia di distanza,
il tenore delle norme di cui allo strumento urbanistico
locale non consente sulla base della loro formulazione
letterale di ritenere che il loro ambito applicativo sia
limitato alle sole costruzioni aventi carattere principale.
Il richiamo alla nozione di edifici di
nuova costruzione ovvero di fabbricati, in assenza di una
puntuale e specifica disciplina dettata per gli edifici
aventi carattere cd. accessorio,
come riconosciuto da parte degli stessi ricorrenti,
non consente di optare per un'interpretazione che ne
limiti l'applicazione ai soli edifici aventi carattere
principale, posto che anche i manufatti di più contenute
dimensioni, quali quelli per i quali si vorrebbe escludere
la valutazione ai fini del rispetto delle distanze, appaiono
evidentemente riconducibili alla nozione di costruzione di
cui all'art. 873 c.c., trattandosi di manufatti stabilmente
infissi al suolo che, per solidità, struttura e sporgenza
dal terreno, possono creare quelle intercapedini dannose che
la legge, stabilendo la distanza minima tra le costruzioni,
intende evitare, rispondendo alla tradizionale nozione di
costruzione quale recepita dalla giurisprudenza di questa
Corte (cfr. Cass.
n. 5753/2014).
D'altronde, proprio la carenza di una
specifica disciplina impone di ritenere
come già affermato in passato che
(cfr. da ultimo Cass. n. 144/2016) la
nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è
unica e non può subire deroghe da parte delle norme
secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle
distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai
regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di
stabilire una "distanza maggiore".
Ne discende che, una volta ricondotti gli
edifici accessori al novero delle costruzioni in senso
civilistico e nell'accezione propria della disciplina in
materia di distanze, le previsioni regolamentari che
prevedono un distacco tra costruzioni risultano
evidentemente applicabili anche a tali manufatti, e che,
anche laddove lo strumento urbanistico locale avesse dettato
una disciplina difforme, tale deroga dovrebbe reputarsi
illegittima, non rientrando nel potere degli enti locali
quello di dettare deroghe alla disciplina codicistica in
materia di distanze, eccezione fatta per la previsione sopra
richiamata, di porre delle distanze maggiori rispetto a
quelle di legge.
Il motivo deve quindi essere disatteso.
3. Con il secondo motivo si denunzia l'insufficiente
e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata,
nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e
29 del regolamento edilizio del Comune di Cassino.
Assume parte ricorrente che la Corte d'Appello ha omesso di
rilevare l'illegittimità del manufatto cd. accessorio
dell'attore, in quanto situato nell'area di distacco che
occorreva rispettare in relazione al fabbricato principale,
area nella quale gli strumenti urbanistici vietano
qualsivoglia costruzione (art. 29 regolamento edilizio che
prevede solo la realizzazione di giardini, parcheggi e rampe
di accesso).
La motivazione della sentenza sarebbe altresì insufficiente,
in quanto per giustificare la legittimità del manufatto
rispetto al quale sono state valutate le distanze del
fabbricato dei ricorrenti, si è affermato che lo stesso si
trovava "per larga parte" al di fuori dell'area che
costituisce il distacco ideale, riconoscendosi quindi che
parte di esso si colloca all'interno della detta area di
distacco, risultando pertanto illegittimo.
Anche tale motivo è ad avviso del Collegio privo di
fondamento.
La Corte d'appello ha in primo luogo ribadito che fabbricato
preveniente era quello di parte attrice, il quale all'epoca
della sua realizzazione doveva solo attenersi alla distanza
dal confine (distanza che non risulta del tutto rispettata,
ma la questione esula dal presente giudizio, non avendo i
convenuti lamentato la violazione delle distanze ad opera
della costruzione di parte attrice).
Quanto al fabbricato cd. accessorio del Co., di cui non si
denunzia la violazione delle norme dal confine, la sentenza
ha ritenuto che lo stesso fosse posto in una zona del fondo
per la quale le distanze dal confine dell'edificio
principale erano ampiamente rispettate e che risultava
pertanto in massima parte al di fuori dell'area di distacco
quale imposta dallo strumento urbanistico.
Ritiene però la Corte che anche l'eventuale realizzazione in
parte del manufatto in oggetto all'interno dell'area di
distacco non possa determinare un esito diverso della
controversia.
Ed, infatti, la previsione di un'area di
distacco mira essenzialmente ad assicurare il rispetto delle
distanze tra fabbricati edificati su fondi finitimi ed
appartenenti a diversi proprietari, non potendosi ravvisare
l'illegittimità dal punto di vista privatistico, per
costruzioni realizzate eventualmente a distanza inferiore a
quella legale o regolamentare sul fondo di un unico
proprietario (per
un riferimento a tale regola si veda Cass. n. 1918/1973, a
mente della quale il principio della
prevenzione -in base al quale, fra due proprietari di fondi
finitimi, colui che costruisce per primo può o edificare sul
confine o a distanza dal confine non inferiore a quella
legale oppure a distanza inferiore, costringendo il vicino,
che costruisce per secondo, a ristabilire la distanza legale
edificando dal confine a distanza maggiore della meta di
quella prescritta, a meno che non voglia avanzare la propria
fabbrica fino all'altrui costruzione, giovandosi dei rimedi
offertigli dall'art. 875 cod. civ.- presuppone un rapporto
intersoggettivo, opera tra proprietari di fondi finitimi e
non è ipotizzabile come attributo della costruzione con
caratteri di realità).
D'altronde essendo la proprietà di entrambi i fabbricati,
principale ed accessorio, in capo all'attore, i ricorrenti
non sono legittimati a dolersi della violazione delle
distanze tra le due opere.
Quanto invece alla pretesa violazione della
previsione regolamentare che nega la possibilità di
costruire nelle zone di distacco, la stessa si riverbera nei
soli rapporti con la PA, e determina quindi l'illegittimità
dell'opus dal punto di vista amministrativo, ma non
incide sulla diversa disciplina in tema di distanze, e sulla
possibilità anche per il titolare della costruzione
illegittima dal punto di vista amministrativo di pretendere
il rispetto delle distanze legali
(cfr. Cass. n. 17339/2003; Cass. n. 10850/1998),
essendo tale conclusione una piana applicazione del
su riferito principio dell'autonomia tra profili
pubblicistici dell'attività edificatoria e rapporti
interprivatistici.
Ne consegue che anche laddove una parte del
manufatto a carattere accessorio sia collocato nell'area di
distacco prevista per il fabbricato principale, la
violazione della norma regolamentare legittima se del caso
la reazione della PA, ma non esclude che si tratti sempre di
costruzione preveniente, rispetto alla quale l'edificio dei
ricorrenti doveva porsi a distanza legale
come appunto disposto dalla Corte distrettuale
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 16.03.2017 n. 6855). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
tema di elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio
non è richiesta la prova della collusione del pubblico
ufficiale con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente
la verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso
dell'atto di ufficio,
prova che può essere desunta anche da elementi
sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto
compiuto,
o anche anche da una serie di indici fattuali, tra i
quali assumono rilievo l'evidenza, reiterazione e gravità
delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra
agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le
illegittimità con successive violazioni di legge.
--------------
3. Il ricorso è inammissibile perché generico e
manifestamente infondato.
4. Il G.u.p. ha motivato la propria decisione sul rilievo
che:
a) i provvedimenti amministrativi adottati non sono
macroscopicamente illegittimi;
b) il pubblico ufficiale aveva adottato i provvedimenti in base
all'istruttoria favorevolmente condotta dal tecnico comunale
che non aveva evidenziato alcuna illegittimità e sulle cui
conclusioni aveva fatto ragionevole affidamento;
c) il giudizio di conformità ambientale di cui agli artt. 181,
comma 1-ter, e 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, era
stato positivamente espresso relativamente alla piscina in
base ad un'interpretazione non uniforme dell'autorità
amministrativa preposta alla tutela del vincolo;
d) il Ve., prima ancora di ricevere l'avviso di conclusione delle
indagini preliminari, non appena ricevuta l'informazione di
polizia giudiziaria sugli abusi edilizi in corso ne aveva
ordinato la sospensione;
e) non v'è alcuna prova non solo di complicità con i privati ma
addirittura di un qualsiasi rapporto di conoscenza tra di
loro.
4.1. Il PG ricorrente devolve la questione in modo tale da
limitare la cognizione di questa Corte al solo fatto
dedotto: la mancanza della prova di collusione tra i tre
imputati, ritenuto decisivo ai fini dell'annullamento della
sentenza impugnata.
4.2. Questa Suprema Corte ha più volte affermato il
principio secondo il quale, in tema di
elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, non è
richiesta la prova della collusione del pubblico ufficiale
con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente la
verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso
dell'atto di ufficio
(Sez. 6, n. 910 del 18/11/1999, Giansante, Rv. 215430; Sez.
6, n. 21085 del 28/01/2004, Sodano, Rv. 229806; Sez. F. n.
38133 del 25/08/2011, Farina, Rv. 251088),
prova che può essere desunta anche da elementi sintomatici
come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto
(Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233),
o anche anche da una serie di indici fattuali, tra i
quali assumono rilievo l'evidenza, reiterazione e gravità
delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra
agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le
illegittimità con successive violazioni di legge
(Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633).
4.3. Tuttavia, come detto, di tutti gli indizi
complessivamente valutati dal G.u.p., il PG ne seleziona uno
solo, perdendo di vista la completezza e l'organicità del
ragionamento del Giudice sulla cui fondatezza questa Corte
non può ovviamente interloquire, perché non investita sul
punto.
Il PG, infatti, non eccepisce alcunché sulla natura non
macroscopicamente illegittima degli atti amministrativi
adottati, né sul legittimo affidamento fatto dal pubblico
ufficiale sull'istruttoria del tecnico comunale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2017 n. 12397). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nel caso un provvedimento amministrativo si basi
su una pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto
plurimotivato), è sufficiente a sostenere la legittimità
dello stesso la conformità a legge anche di una sola di
esse, con la conseguenza che “nel giudizio promosso contro
un siffatto provvedimento, il giudice, ove ritenga infondate
le censure dedotte avverso una delle autonome ragioni poste
alla base dell’atto impugnato, idonea, di per sé, a
sorreggere la legittimità del provvedimento impugnato, ha la
potestà di respingere il ricorso su tale base, con
declaratoria di <assorbimento> delle censure dedotte contro
altro capo del provvedimento, indipendentemente dall’ordine
in cui le censure sono articolate dall’interessato nel
ricorso, in quanto la conservazione dell’atto
(indipendentemente dalla eventuale invalidità di taluna
delle autonome argomentazioni che lo sorreggono) fa venir
meno l’interesse del ricorrente all’esame dei motivi dedotti
contro tali ulteriori argomentazioni”.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, precisato che “Ove l’atto
impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente
fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo,
diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le
ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre
ragioni opposte dall’autorità emanante a rigetto della sua
istanza”.
---------------
Il terzo motivo, con cui parte ricorrente si duole
dell’esclusione per omessa attivazione del soccorso
istruttorio con riguardo all’omessa allegazione delle
dichiarazioni in ordine al possesso dei requisiti di
moralità professionale dei componenti collegio sindacale è
destinato, infine, ad una declaratoria d’improcedibilità per
sopravvenuta carenza d’interesse.
Il provvedimento di esclusione impugnato è sorretto,
infatti, da due motivazioni, autonome tra loro, ciascuna di
per sé astrattamente in grado di sorreggerlo: l’omessa
dichiarazione di informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione e l’omessa
dichiarazione di cui all’art. 80 del d.lgs. n 50/2016 per i
componenti degli organi di vigilanza e controllo.
L’infondatezza, affermata da questo giudice, dei motivi
svolti dalla ricorrente avverso la prima delle due cause
d’esclusione, basta, tuttavia, a consolidare e a
giustificare l’esclusione disposta, con conseguente
irrilevanza dell’eventuale fondatezza delle censure rivolte
all’ulteriore ragione addotta dalla stazione appaltante a
motivazione e sostegno dei provvedimenti assunti e qui
impugnati dalla ricorrente.
In giurisprudenza è stato, infatti, reiteratamente affermato
che nel caso un provvedimento amministrativo si basi su una
pluralità di motivazioni autonome (c.d. atto plurimotivato),
è sufficiente a sostenere la legittimità dello stesso la
conformità a legge anche di una sola di esse (Consiglio di
Stato, IV, 10.12.2007, n. 6325; Consiglio di Stato, V,
29.08.01994, n. 926), con la conseguenza che “nel
giudizio promosso contro un siffatto provvedimento, il
giudice, ove ritenga infondate le censure dedotte avverso
una delle autonome ragioni poste alla base dell’atto
impugnato, idonea, di per sé, a sorreggere la legittimità
del provvedimento impugnato, ha la potestà di respingere il
ricorso su tale base, con declaratoria di <assorbimento>
delle censure dedotte contro altro capo del provvedimento,
indipendentemente dall’ordine in cui le censure sono
articolate dall’interessato nel ricorso, in quanto la
conservazione dell’atto (indipendentemente dalla eventuale
invalidità di taluna delle autonome argomentazioni che lo
sorreggono) fa venir meno l’interesse del ricorrente
all’esame dei motivi dedotti contro tali ulteriori
argomentazioni” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.06.2005,
n. 3052).
Il Cons. Stato, Sez. VI, 10.05.2013, n. 2543 ha, inoltre,
precisato che “Ove l’atto impugnato (provvedimento o
sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per
sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per
difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal
ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall’autorità
emanante a rigetto della sua istanza”.
Sulla scorta delle considerazioni svolte, vanno, in
definitiva, respinti i primi due motivi di gravame e
dichiarata l’improcedibilità del terzo.
Ne deriva anche la pacifica reiezione delle ulteriori
domande avanzate dalla ricorrente, mancando, all’evidenza,
il presupposto fondamentale per la declaratoria
d’inefficacia del contratto eventualmente stipulato con la
controinteressata e per dar corso al risarcimento invocato
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 15.03.2017 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: A
norma
dell’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016,
assume autonomo rilievo -quale ipotesi che, rendendo dubbia
l’integrità o l’affidabilità dell’operatore economico, ne
giustifica l’esclusione dalla partecipazione alla procedura
d’appalto- “il fornire, anche per negligenza, informazioni
false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero
l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione”.
---------------
Nel caso di specie, è pacifico che -a fronte del chiaro
disposto del disciplinare di gara che stabiliva, per
l’appunto, che “non è ammessa la partecipazione alla gara di
concorrenti per i quali sussistano le cause di esclusione di
cui all’art. 80 del d.lgs. 50/2016”- la ricorrente ha
dichiarato di essere titolare di 1.208 servizi in 719 Comuni
e di avere in corso (unicamente) “una rescissione
contrattuale, una revoca di aggiudicazione e un’esclusione”,
omettendo, però, di rappresentare spontaneamente la
sussistenza di numerose ulteriori circostanze similari, che
la stazione appaltante, una volta apprese, ha, peraltro,
qualificato come “diffusi e reiterati inadempimenti
contrattuali, sintomatici di errori professionali molto
significativi e qualificabili come importanti e gravi”.
Nella determinazione dirigenziale, con cui è stata disposta
l’esclusione della ricorrente, si legge, in particolare che
“emergono diverse situazioni di inadempimento riferite a
precedenti rapporti contrattuali”, che è stata rilevata “la
serialità e la gravità riferite, in particolare, a mancate
rendicontazioni, impossibilità di effettuare un controllo
sulle riscossioni e mancato riversamento all’ente delle
somme incassate nell’esercizio dell’attività di riscossione
dei tributi”, che “tali evidenze dovevano essere segnalate
per consentire le opportune valutazioni circa la rilevanza,
incidenza ed affidabilità dell’impresa in relazione al
complesso delle gestioni ad essa affidate, trattandosi di un
servizio di riscossione delle entrate comunali, affidato in
concessione” e che “vanno valorizzati, sotto il profilo del
giudizio sull’affidabilità dell’impresa, la presenza di
diversi provvedimenti di esclusione dalla gara, di
applicazioni di penali, di contestazione di ritardi nei
versamenti, da parte di altre Amministrazioni pubbliche in
misura rilevante rispetto a quanto dichiarato in sede di
gara”.
Peraltro, a nulla rileva che i precedenti professionali
“negativi” non dichiarati sarebbero inconferenti ai fini
delle valutazioni in ordine alla sua integrità e
affidabilità ai sensi della norma di legge dianzi indicata,
essendo evidente che la valutazione in ordine alla loro
gravità e rilevanza compete alla (sola) stazione appaltante
sulla base della piena cognizione di tutte le circostanze
fattuali, nessuna esclusa, che potrebbero assumere rilievo e
l’operatore economico non ha facoltà di scegliere quali
dichiarare.
In tal senso confortano, invero, precedenti
giurisprudenziali laddove affermano, per l’appunto, la
legittimità dell’esclusione dalla gara pubblica dell’impresa
che ha omesso di dichiarare di essere stata destinataria, in
passato, di provvedimenti di risoluzione contrattuale, in
quanto la dichiarazione “attiene ai principi di lealtà e
affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai
rapporti dei partecipanti con la stazione appaltante”,
nonché le stesse Linee Guida dell’ANAC n. 6 sull’art. 80,
comma 5, lett. c), d.lgs. 50/2016, approvate con delibera
16.11.2016, n. 1293, ove, al § 4.2, affermano che la
dichiarazione sostitutiva resa in sede di presentazione
dell’offerta deve avere “ad oggetto tutte le notizie
astrattamente idonee a porre in dubbio l’integrità o
l’affidabilità del concorrente, essendo rimesso in via
esclusiva alla stazione appaltante il giudizio in ordine
alla gravità dei comportamenti e alla loro rilevanza ai fini
dell'esclusione”.
---------------
Circa il dolersi della mancata instaurazione del
contraddittorio endo-procedimentale che, ad avviso della
ricorrente, troverebbe fondamento nella disposizione di cui
all’art. 80, comma 7, del d.lgs. n. 50/2016, ad avviso del
Collegio pare che la disposizione de qua debba intendersi
riferita solo alla prima ipotesi di grave illecito
professionale contemplata dalla norma, atteso che, per
espresso disposto di legge, l’operatore economico, o il
subappaltatore, che si trovi in una delle situazioni di cui
al comma 5 dell’art. 80, “è ammesso a provare di aver
risarcito o di essersi impegnato a risarcire qualunque danno
causato dal reato o dall'illecito e di aver adottato
provvedimenti concreti di carattere tecnico, organizzativo e
relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o
illeciti”.
In caso di informazioni false o fuorvianti o di omessa
informazione, è, però, proprio tale circostanza ad assumere
specifico e autonomo rilievo, sicché non avrebbe alcun senso
ammettere l’operatore a prova contraria, atteso che il tutto
si sostanzierebbe in una sorta di sanatoria, lesiva dei
principi di par condicio, trasparenza e buona fede, anche in
considerazione del fatto che l’omissione della dichiarazione
con riferimento a pregressi inadempimenti ed errori
professionali non è emendabile tramite il soccorso
istruttorio, dovendosi fare applicazione dell’art. 75 del
d.P.R. n. 445/2000.
---------------
La ricorrente, società Du.G. s.r.l., ha chiesto
l’annullamento, previa sospensione cautelare, dei
provvedimenti in epigrafe indicati, con cui il Comune di
Lignano Sabbiadoro, a seguito di verifica effettuata
successivamente all’aggiudicazione:
a) ha disposto la sua esclusione dalla procedura di gara per
l’affidamento in concessione e riscossione dell’imposta
sulla pubblicità, del diritto sulle pubbliche affissioni e
del cosap – periodo 01/01/2017-31/12/2019 ovvero per non
avere segnalato alla stazione appaltante una serie di
inadempimenti e di risoluzioni di cui si sarebbe resa
responsabile nell’esecuzione di alcuni contratti pubblici
(art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016) e per avere
omesso di dichiarare i soggetti del collegio sindacale e di
conseguenza il possesso dei requisiti degli stessi di cui
all’art. 80 del d.lgs. 50/2016;
b) le ha revocato l’aggiudicazione della gara in precedenza
disposta e dichiarato l’odierna controinteressata, società
ST. Se.Te.En.Pu. s.r.l. quale nuova aggiudicataria del
servizio.
Ha chiesto, inoltre, l’annullamento del verbale di gara in
data 20.09.2016, nella parte in cui è stata disposta
l’ammissione alla procedura ad evidenza pubblica di che
trattasi della società controinteressata, nonché la
declaratoria di inefficacia, ai sensi e per gli effetti
degli artt. 121, comma 1, lett. d), 122 e 124 c.p.a., del
contratto di concessione eventualmente medio tempore
stipulato tra il Comune e la ST., con conseguente
aggiudicazione della concessione a suo favore e subentro nel
contratto, e, in subordine, la condanna dell’Amministrazione
al risarcimento per equivalente monetario del danno
asseritamente subito e subendo, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria.
...
Il primo motivo, con cui parte ricorrente deduce che
gli atti assunti a fondamento dell’esclusione non sono
sussumibili tra le ipotesi di cui all’art. 80, comma 5,
lett. c), del d.lgs. n. 50/2016, con conseguente
insussistenza della ritenuta violazione dell’obbligo di
dichiarazione contestata alla ricorrente, è privo di pregio.
La società Du. trascura, invero, di considerare che, a norma
della disposizione dianzi citata, assume autonomo rilievo,
quale ipotesi che, rendendo dubbia l’integrità o
l’affidabilità dell’operatore economico, ne giustifica
l’esclusione dalla partecipazione alla procedura d’appalto,
“il fornire, anche per negligenza, informazioni false o
fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero
l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione”.
Nel caso di specie, è, peraltro, pacifico che, a fronte del
chiaro disposto del disciplinare di gara, che, al pt. 5,
stabiliva, per l’appunto, che “non è ammessa la
partecipazione alla gara di concorrenti per i quali
sussistano le cause di esclusione di cui all’art. 80 del
d.lgs. 50/2016”, la ricorrente ha dichiarato di essere
titolare di 1.208 servizi in 719 Comuni e di avere in corso
(unicamente) “una rescissione contrattuale, una revoca di
aggiudicazione e un’esclusione”, omettendo, però, di
rappresentare spontaneamente la sussistenza di numerose
ulteriori circostanze similari, che la stazione appaltante,
una volta apprese, ha, peraltro, qualificato come “diffusi
e reiterati inadempimenti contrattuali, sintomatici di
errori professionali molto significativi e qualificabili
come importanti e gravi”.
Nella determinazione dirigenziale n. 862/2016, con cui è
stata disposta l’esclusione della ricorrente, si legge, in
particolare che “emergono diverse situazioni di
inadempimento riferite a precedenti rapporti contrattuali”,
che è stata rilevata “la serialità e la gravità riferite,
in particolare, a mancate rendicontazioni, impossibilità di
effettuare un controllo sulle riscossioni e mancato
riversamento all’ente delle somme incassate nell’esercizio
dell’attività di riscossione dei tributi”, che “tali
evidenze dovevano essere segnalate per consentire le
opportune valutazioni circa la rilevanza, incidenza ed
affidabilità dell’impresa in relazione al complesso delle
gestioni ad essa affidate, trattandosi di un servizio di
riscossione delle entrate comunali, affidato in concessione”
e che “vanno valorizzati, sotto il profilo del giudizio
sull’affidabilità dell’impresa, la presenza di diversi
provvedimenti di esclusione dalla gara, di applicazioni di
penali, di contestazione di ritardi nei versamenti, da parte
di altre Amministrazioni pubbliche in misura rilevante
rispetto a quanto dichiarato in sede di gara”.
Peraltro, al di là di ogni considerazione sul giudizio poi
comunque espresso a posteriori dalla stazione appaltante, a
nulla rileva –come sostenuto dalla ricorrente– che i
precedenti professionali “negativi” non dichiarati
sarebbero inconferenti ai fini delle valutazioni in ordine
alla sua integrità e affidabilità ai sensi della norma di
legge dianzi indicata, essendo evidente che la valutazione
in ordine alla loro gravità e rilevanza compete alla (sola)
stazione appaltante sulla base della piena cognizione di
tutte le circostanze fattuali, nessuna esclusa, che
potrebbero assumere rilievo e l’operatore economico non ha
facoltà di scegliere quali dichiarare.
In tal senso confortano, invero, i precedenti
giurisprudenziali invocati dalla difesa della
controinteressata, laddove affermano, per l’appunto, la
legittimità dell’esclusione dalla gara pubblica dell’impresa
che ha omesso di dichiarare di essere stata destinataria, in
passato, di provvedimenti di risoluzione contrattuale, in
quanto la dichiarazione “attiene ai principi di lealtà e
affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai
rapporti dei partecipanti con la stazione appaltante”
(C.d.S., V, 27.07.2016, n. 3375; 11.12.2014, n. 6105; Tar
Sardegna, I, 25.06.2016, n. 529), nonché le stesse Linee
Guida dell’ANAC n. 6 sull’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
50/2016, approvate con delibera 16.11.2016, n. 1293, ove, al
§ 4.2, affermano che la dichiarazione sostitutiva resa in
sede di presentazione dell’offerta deve avere “ad oggetto
tutte le notizie astrattamente idonee a porre in dubbio
l’integrità o l’affidabilità del concorrente, essendo
rimesso in via esclusiva alla stazione appaltante il
giudizio in ordine alla gravità dei comportamenti e alla
loro rilevanza ai fini dell'esclusione”.
Il motivo in esame va, in definitiva, respinto.
Ad analoga sorte è destinato il secondo motivo
d’impugnazione, con cui parte ricorrente si duole della
mancata instaurazione del contraddittorio
endo-procedimentale, che, a suo avviso, troverebbe
fondamento nella disposizione di cui all’art. 80, comma 7,
del d.lgs. n. 50/2016.
Pare, invero, al Collegio che la disposizione, della cui
mancata applicazione si duole la ricorrente, debba
intendersi riferita solo alla prima ipotesi di grave
illecito professionale contemplata dalla norma, atteso che,
per espresso disposto di legge, l’operatore economico, o il
subappaltatore, che si trovi in una delle situazioni di cui
al comma 5 dell’art. 80, “è ammesso a provare di aver
risarcito o di essersi impegnato a risarcire qualunque danno
causato dal reato o dall'illecito e di aver adottato
provvedimenti concreti di carattere tecnico, organizzativo e
relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o
illeciti”.
In caso di informazioni false o fuorvianti o di omessa
informazione, è, però, proprio tale circostanza ad assumere
specifico e autonomo rilievo, sicché non avrebbe alcun senso
ammettere l’operatore a prova contraria, atteso che il tutto
si sostanzierebbe in una sorta di sanatoria, lesiva dei
principi di par condicio, trasparenza e buona fede, anche in
considerazione del fatto che l’omissione della dichiarazione
con riferimento a pregressi inadempimenti ed errori
professionali non è emendabile tramite il soccorso
istruttorio (C.d.S., III, 26.02.2016, n. 802), dovendosi
fare applicazione dell’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000 (ex
multis C.d.S., III, 10.08.2016, n. 3581)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 15.03.2017 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Prova dell’esistenza dell’avvalimento infragruppo
societario.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento –
Avvalimento infragruppo societario – Prova – Dichiarazione
unilaterale dell’impresa capogruppo – Sufficienza.
E’ legittima l’aggiudicazione di una
gara di appalto ad un concorrente che ha fatto ricorso
all’istituto dell’avvalimento infragruppo societario ai
sensi dell’art. 89, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 dimostrando l’avvalimento
con una semplice dichiarazione unilaterale e non con il
relativo contratto; trattandosi di avvalimento infragruppo
societario è, infatti, sufficiente che l’impresa capogruppo
dimostri, anche con una dichiarazione, il legame societario
intercorrente tra essa stessa e l’impresa ausiliaria (1).
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(1)
Il Trga Bolzano, che ha richiamato giurisprudenza (Cons.
St., sez. IV, 16.02.2012, n. 810; id., sez. V, 29.10.2014,
n. 5377; id. 15.10.2015, n. 4764) in tal senso formatasi
nella vigenza della disciplina dettata dal vecchio Codice
dei contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), ha
chiarito che la ragione di questa semplificazione sta nel
fatto che nell’ambito dell’avvalimento infragruppo l’obbligo
dell’impresa ausiliaria controllata di mettere a
disposizione dell’impresa concorrente controllante le
risorse necessarie per tutta la durata del contratto, è
dovuto proprio al controllo direzionale societario tra
capogruppo e partecipata, che può essere comprovato da una
dichiarazione unilaterale attestante il legame giuridico ed
economico esistente nel gruppo (TRGA
Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 14.03.2017 n. 99
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La censura principale fatta valere dalla ricorrente
consiste, quindi, nella contestazione della validità dell’avvalimento,
non avendo la T.S. depositato il relativo contratto di
avvalimento, con il quale la T.S. si obbliga a mettere a
disposizione della T.S. le proprie prestazioni.
La ricorrente non tiene però debitamente conto del fatto che
nella fattispecie siamo di fronte ad un avvalimento
infragruppo societario ai sensi dell’art. 89 D.Lgs. 50/2016
(art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006), per il quale è pacifico
che non è necessaria la stipulazione di un contratto di
avvalimento, ma è sufficiente che l’impresa capogruppo
dimostri il legame societario intercorrente tra essa stessa
e l’impresa ausiliaria.
Al riguardo si richiama la consolidata giurisprudenza,
secondo la quale “E’ chiaro che la
disposizione normativa richiamata ha accordato un regime
probatorio e documentale semplificato in favore delle
imprese appartenenti al medesimo gruppo societario, senza
limitarne la portata alle sole imprese ausiliarie
“controllanti” o direttamente “partecipanti” e ancora
“capogruppo”, come assume l’appellante principale. Tale
impostazione risulta avvalorata dalla giurisprudenza
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.02.2012, n. 810)
che ha chiarito che non sussiste l’obbligo di
stipulare con l’impresa appartenente allo stesso gruppo un
contratto di avvalimento, con il quale l’impresa ausiliaria
si obbliga a mettere a disposizione del concorrente le
risorse necessarie per tutta la durata del contratto,
essendo sufficiente, in base alla disposizione di cui
all’art. 49, co. 2, lett. g), cit., una dichiarazione
unilaterale attestante il legame giuridico ed economico
esistente nel gruppo. In conclusione, nell’attuale sistema
normativo in materia di appalti pubblici ed in coerenza con
le disposizioni comunitarie in tema di avvalimento, non
sussistono limiti di tipo soggettivo in ordine all’impresa
ausiliaria e ai legami tra essa e l’impresa ausiliata ed è
consentito l’avvalimento all’interno del gruppo, qualunque
sia la posizione nel gruppo, controllata o controllante”
(Cons. Stato, Sez. V, 29.10.2014, n. 5377; idem Cons. Stato,
Sez. V, 15.10.2015, n. 4764).
La ragione di questa semplificazione è chiara.
Nell’ambito dell’avvalimento infragruppo,
infatti, l’obbligo dell’impresa ausiliaria
controllata di mettere a disposizione dell’impresa
concorrente controllante le risorse necessarie per tutta la
durata del contratto, è dovuto proprio al controllo
direzionale societario tra capogruppo e partecipata, che può
essere comprovato da una dichiarazione unilaterale
attestante il legame giuridico ed economico esistente nel
gruppo. |
EDILIZIA PRIVATA: Sugli obblighi del Comune a fronte del ritardo nel pagamento
dei contributi di urbanizzazione si era registrato, nella
giurisprudenza amministrativa, un marcato dissidio.
L’ordinanza cautelare aveva aderito alla tesi secondo cui il
Comune avrebbe l'obbligo —in nome del dovere di
cooperazione tra creditore e debitore previsto dall'art.
1175 cod. civ., e, comunque, del principio di imparzialità
ed efficacia che presiede all'azione amministrativa— di
escutere la garanzia prestata dal privato a tutela
dell'adempimento dell'obbligo contributivo: pena la
illegittimità delle sanzioni irrogate per il protrarsi
dell'inadempimento oltre il primo periodo di mora.
Si contrapponeva la posizione secondo cui la prestazione di
una fideiussione a garanzia del pagamento dei contributi di
costruzione avviene nell'interesse esclusivo del Comune
creditore e non anche dell'intestatario del permesso di
costruzione (su cui grava in via principale l'obbligo di
contribuzione); di conseguenza, di fronte al mancato
versamento dei contributi concessori nel termine stabilito,
l'Amministrazione non avrebbe l'obbligo di attivarsi
immediatamente contro il fideiussore allo scopo di
minimizzare le conseguenze negative a cui è esposto il
debitore principale in conseguenza dell'inadempimento.
L’Adunanza Plenaria, con sentenza 07.12.2016, n. 24 ha
risolto il contrasto, aderendo alla seconda posizione,
affermando che “un’amministrazione comunale ha il pieno
potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un
titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla
legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento
degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove,
in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia
omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla
infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento, ovvero
abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria
del pagamento presso il debitore principale”.
Ha precisato che risulta sfornita di base normativa ogni
opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio
del Comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione
del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il
fideiussore.
---------------
La prescrizione per la riscossione delle somme dovute a
titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione decorre dalla data di emanazione del
provvedimento concessorio ed è decennale.
Ai sensi dell'art. 28, l. 24.11.1981, n. 689, applicabile ex
art. 12 della stessa legge a tutte le sanzioni
amministrative di tipo afflittivo, il termine di
prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento
del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione e per
il costo di costruzione è di cinque anni, e decorre
dal giorno in cui è stata commessa la violazione.
---------------
La disciplina degli abusi edilizi ha un carattere speciale e
non è omologabile al sistema sanzionatorio previsto, per la
generalità delle violazioni amministrative, dalla legge n.
689 del 1981.
E ciò sul rilievo che le sanzioni pecuniarie comminate per
abusi edilizi non sono sanzioni punitive (cioè correlate
esclusivamente alla responsabilità personale dell'autore
della violazione), ma costituiscono misure con finalità
ripristinatoria, di carattere meramente patrimoniale,
trasmissibili agli eredi.
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1) Oggetto del presente ricorso è la richiesta di pagamento
dei costi di costruzione e degli oneri di urbanizzazione,
per un intervento di realizzazione di civile abitazione,
attivata attraverso lo strumento dell’ordinanza ingiunzione
ex art. 2 del r.d. n. 639 del 1910.
Con il presente ricorso viene chiesto l’annullamento delle
ordinanze, pur non prospettando vizi specifici rispetto ai
provvedimenti, né contestando il quantum, ma lamentando solo
la violazione dell’art. 1175 c.c. e dell’art. 42 DPR 380/2001,
perché in presenza delle polizze fidejussorie, il Comune
avrebbe dovuto rivolgersi tempestivamente all’assicurazione,
evitando in tal modo l’applicazione della sanzione di legge.
Viene poi eccepita la prescrizione di quanto richiesto.
2) Il primo motivo è infondato.
Sugli obblighi del Comune a fronte del ritardo nel pagamento
dei contributi di urbanizzazione si era registrato, nella
giurisprudenza amministrativa, un marcato dissidio.
L’ordinanza cautelare aveva aderito alla tesi secondo cui il
Comune avrebbe l'obbligo —in nome del dovere di
cooperazione tra creditore e debitore previsto dall'art.
1175 cod. civ., e, comunque, del principio di imparzialità
ed efficacia che presiede all'azione amministrativa— di
escutere la garanzia prestata dal privato a tutela
dell'adempimento dell'obbligo contributivo: pena la
illegittimità delle sanzioni irrogate per il protrarsi
dell'inadempimento oltre il primo periodo di mora (Sez. V, 09.12.2013, n. 5880, 2013, Sez. IV, 17.02.2014, n.
731).
Si contrapponeva la posizione secondo cui la prestazione di
una fideiussione a garanzia del pagamento dei contributi di
costruzione avviene nell'interesse esclusivo del Comune
creditore e non anche dell'intestatario del permesso di
costruzione (su cui grava in via principale l'obbligo di
contribuzione); di conseguenza, di fronte al mancato
versamento dei contributi concessori nel termine stabilito,
l'Amministrazione non avrebbe l'obbligo di attivarsi
immediatamente contro il fideiussore allo scopo di
minimizzare le conseguenze negative a cui è esposto il
debitore principale in conseguenza dell'inadempimento (Cons.
Stato, Sez. V, 20.11.2015 n. 5287, Sez. V 21.11.2014 n. 5734).
L’Adunanza Plenaria, con sentenza 07.12.2016, n. 24 ha
risolto il contrasto, aderendo alla seconda posizione,
affermando che “un’amministrazione comunale ha il pieno
potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un
titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla
legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento
degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove,
in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia
omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla
infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento, ovvero
abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria
del pagamento presso il debitore principale”.
Ha precisato che risulta sfornita di base normativa ogni
opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio
del Comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione
del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il
fideiussore.
Le ordinanze non risultano quindi censurabili, sotto i
profili sollevati, poiché nessun obbligo si configurava in
capo all’Amministrazione di escutere direttamente il
fideiussore.
Il primo motivo va quindi respinto.
3) L’eccezione di prescrizione è in parte fondata.
La prescrizione per la riscossione delle somme dovute a
titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione decorre dalla data di emanazione del
provvedimento concessorio (cfr.: Tar Sicilia Palermo II,
18.01.2012 n. 126) ed è decennale.
Ai sensi dell'art. 28, l. 24.11.1981, n. 689,
applicabile ex art. 12 della stessa legge a tutte le
sanzioni amministrative di tipo afflittivo, il termine di
prescrizione della sanzione irrogata per ritardato pagamento
del contributo dovuto per gli oneri di urbanizzazione e per
il costo di costruzione è di cinque anni, e decorre dal
giorno in cui è stata commessa la violazione.
Per le tre concessioni edilizie la situazione è pressoché
simile, poiché i titoli sono stati rilasciati nel 1996;
l’amministrazione ha chiesto il pagamento nel corso del 1999
e del 2000, ma poi, nonostante il mancato pagamento, il
successivo sollecito è solo del 16.06.2008.
Non sono prescritte le somme ancora dovute per il costo di
costruzione e gli oneri di urbanizzazione; risultano invece
prescritte le somme dovute a titolo di sanzione per
ritardato pagamento, essendo l’Amministrazione rimasta
inerte, dal 2000 al 2008, quindi per più di cinque anni.
La domanda di accertamento dell’intervenuta prescrizione va
quindi accolta limitatamente alle somme richieste a titolo
di sanzione.
4) Nell’atto di riassunzione gli eredi hanno introdotto una
eccezione, sull’assunto che le sanzioni pecuniarie non si
trasmettono agli eredi.
L’eccezione è infondata, in quanto la disciplina degli abusi
edilizi ha un carattere speciale e non è omologabile al
sistema sanzionatorio previsto, per la generalità delle
violazioni amministrative, dalla legge n. 689 del 1981; e
ciò sul rilievo che le sanzioni pecuniarie comminate per
abusi edilizi non sono sanzioni punitive (cioè correlate
esclusivamente alla responsabilità personale dell'autore
della violazione), ma costituiscono misure con finalità
ripristinatoria, di carattere meramente patrimoniale,
trasmissibili agli eredi (TAR Milano, sez. I,
05/12/2014, n. 2940)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 13.03.2017 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza di questa Corte è pressoché concorde nel ritenere configurabile il reato di falsità ideologica in
certificati (art. 481 cod. pen.) non solo
per la falsificazione della dichiarazione di inizio attività
(DIA), ma anche della relazione di
accompagnamento, avendo quest'ultima natura di certificato
in ordine alla descrizione dello
stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali
vincoli esistenti sull'area o
sull'immobile interessati dall'intervento, alla
rappresentazione delle opere che si intende
realizzare e all'attestazione della loro conformità agli
strumenti urbanistici ed al regolamento
edilizio.
Dopo aver evidenziato che, con la DIA, al principio
autoritativo si sostituisce il principio
dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato
ad agire in via autonoma, valutando
l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in
vigore e che il ricorso al procedimento
della DIA, conseguentemente, porta con sé una peculiare
assunzione di responsabilità, in
relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone
sulla relazione tecnica che
accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che
quella relazione si sostituisce, in via
ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le
garanzie di legalità e correttezza
dell'intervento, si conclude, affermando:
- "Dalla delineata
costruzione della DIA, come atto
fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e
riconnesso alla delega di potestà pubblica
ad un soggetto qualificato, discende che la relazione
asseverativa del progettista, sulla quale si
fonda l'eliminazione dell'intermediazione del potere
autorizzatorio dell'attività del privato da
parte della pubblica amministrazione, assume valore
sostitutivo del provvedimento
amministrativo e quindi certificativo".
---------------
Nella fattispecie in esame il falso riguarda la rappresentazione dello
stato dei luoghi.
Si tratta, quindi, palesemente di una falsa rappresentazione
dello stato oggettivo dei luoghi, finalizzata ad eseguire, con la mera presentazione di una
DIA, un incremento volumetrico del
fabbricato preesistente.
E tale falsa rappresentazione, per le ragioni in precedenza
esposte, integra indubitabilmente
il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.).
---------------
3. In ordine al secondo motivo, contrariamente a quanto
assumono i ricorrenti, la
giurisprudenza di questa Corte è pressoché concorde (a parte
una decisione rimasta isolata) nel ritenere configurabile il reato di falsità ideologica in
certificati (art. 481 cod. pen.) non solo
per la falsificazione della dichiarazione di inizio attività
(DIA), ma anche della relazione di
accompagnamento, avendo quest'ultima natura di certificato
in ordine alla descrizione dello
stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali
vincoli esistenti sull'area o
sull'immobile interessati dall'intervento, alla
rappresentazione delle opere che si intende
realizzare e all'attestazione della loro conformità agli
strumenti urbanistici ed al regolamento
edilizio (sez. 3 n. 35795 del 17/04/2012, Palotta, Rv.
253666; conf. Sez. 3 n. 50621 del
18/06/2014, Cazzato, Rv. 261513; sez. 3 n. 27699 del
20/05/2010, Coppola, Rv. 247927; sez. 5
n. 35615 del 14/05/2010, D'Anna, Rv. 248878; sez. 3 n. 1818 del
21/10/2008, Baldassari,
Rv. 242478).
Dopo aver evidenziato che, con la DIA, al principio
autoritativo si sostituisce il principio
dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato
ad agire in via autonoma, valutando
l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in
vigore e che il ricorso al procedimento
della DIA, conseguentemente, porta con sé una peculiare
assunzione di responsabilità, in
relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone
sulla relazione tecnica che
accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che
quella relazione si sostituisce, in via
ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le
garanzie di legalità e correttezza
dell'intervento, si conclude, affermando: "Dalla delineata
costruzione della DIA, come atto
fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e
riconnesso alla delega di potestà pubblica
ad un soggetto qualificato, discende che la relazione
asseverativa del progettista, sulla quale si
fonda l'eliminazione dell'intermediazione del potere
autorizzatorio dell'attività del privato da
parte della pubblica amministrazione, assume valore
sostitutivo del provvedimento
amministrativo e quindi certificativo"
(sez. 3 n. 35795/2012 cit.).
Il contrasto giurisprudenziale derivante dall'unica
pronuncia richiamata nella sentenza
n. 37174/2014 (pag. 7 ricorso), a ben vedere, è più apparente
che reale.
In effetti, con la sentenza della sez. 5 n. 23668 del
26/04/2005, Giordano, Rv. 231906, si
escludeva la natura di "certificato" della relazione
allegata alla DIA ma solo con riferimento alla
parte progettuale (in quanto manifesta una intenzione e non
registra una realtà oggettiva) ed
alla eventuale attestazione di assenza di vincoli (dal
momento che esprime un giudizio
dell'agente, passibile anche di errore).
3.1. Nella fattispecie in esame il falso riguarda non certo
la manifestazione di una intenzione
o l'espressione di un giudizio, ma la rappresentazione dello
stato dei luoghi (si legge nella stessa imputazione: "con
una falsa descrizione, nella tavola stato attuale, del
manufatto
oggetto dell'intervento ed in particolare disegnavano il
manufatto con la stessa altezza in
gronda di m. 3,40, allegando altresì una fotografia (o
comunque la stampa di una fotografia
digitale modificata in modo tale da far apparire il
fabbricato in oggetto come avente la stessa
altezza sui lati nord e sud e comunque una altezza maggiore
rispetto al fabbricato confinante
sul lato sud"). Si tratta, quindi, palesemente di una falsa rappresentazione
dello stato oggettivo dei luoghi, finalizzata ad eseguire, con la mera presentazione di una
DIA, un incremento volumetrico del
fabbricato preesistente.
E tale falsa rappresentazione, per le ragioni in precedenza
esposte, integra indubitabilmente
il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.).
3.2. Con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, la
Corte territoriale ha ritenuto che
dalle risultanze processuali emergesse, in modo
inequivocabile, la sussistenza, sul piano
oggettivo, del falso ideologico così come contestato.
Ha evidenziato, infatti, che dalle dichiarazioni pienamente
attendibili del Cu., che
trovavano puntuale riscontro nei rilievi fotografici e nella
perizia d'ufficio dell'ing. Ga.,
emergeva chiaramente che nella DIA n. 1180/2007 era stata
rappresentata una situazione dello
stato dei luoghi, preesistente all'intervento, difforme
dalla realtà ("e cioè come già esistente la
sopraelevazione del lato sud del tetto del fabbricato, così
riportandolo alla stessa altezza del
tetto lato nord, mentre invece la sua realizzazione avveniva
in corso di esecuzione dei lavori
assentiti con DIA"). Tale falsa rappresentazione dello stato
preesistente dei luoghi,
comportava, come accertato dal perito d'ufficio, un aumento
di volumetria di circa 40,20 metri
cub (pag. 6 e 7 sent.).
Ha fatto riferimento la Corte territoriale anche alle
deposizioni degli agenti verbalizzanti
(isp. Lu.) ed ha disatteso motivatamente le valutazioni
dei consulenti di parte, perché
smentite da non equivoche risultanze probatorie: il falso e,
quindi, l'abuso edilizio che ne era
derivato erano talmente macroscopici da essere rilevabili ad
"occhio nudo in base al semplice
raffronto di tali foto riproducedi lo stato dei luoghi,
prima, durante e dopo .. (pag. 8)".
Quanto all'elemento soggettivo (dolo generico), dalla
complessiva motivazione della
sentenza emerge che la rappresentazione falsa dello stato
dei luoghi avvenne
consapevolmente, essendo essa finalizzata ad ottenere un
incremento volumetrico del
fabbricato preesistente.
I ricorrenti, attraverso una formale denuncia di vizi di
motivazione e travisamento della prova, richiedono
sostanzialmente una rilettura delle risultanze processuali
non consentita nel giudizio di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.03.2017 n. 11051). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di
risarcimento del danno, "il soggetto
legittimato all'azione civile è il danneggiato che non
necessariamente si identifica con il
soggetto passivo del reato in senso stretto, ma è chiunque
abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del
soggetto attivo del reato (fattispecie
relativa a vicino di casa parte civile in processo per abuso
edilizio".
In particolare, il proprietario confinante è legittimato a
costituirsi parte civile nei
procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non
soltanto quando siano violate le norme
civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni
(art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di
inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni
(art. 872 cod. civ.);
vale a dire quando la
realizzazione dell'abuso edilizio violi
non solo le norme, poste a tutela del regolare assetto del
territorio, ma anche le norme
civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema
di distanze, volumetria ed altezza delle
costruzioni, essendo in tal caso ipotizzabile un danno
patrimoniale che dà luogo all'azione di
risarcimento del danno.
E' stato sottolineato che colui che edifica
nei modi consentiti è immune da responsabilità nei confronti
dei vicini; "le conseguenze sono
diverse, invece, se la edificazione sia avvenuta in
contrasto con la disciplina concernente
l'assetto del territorio: vale a dire se le norme relative
all'edilizia, in funzione della tutela degli
interessi generali ad un ordinato regime urbanistico e
territoriale, quali le limitazioni del
volume, dell'altezza, della densità degli edifici, le
esigenze dell'igiene e della viabilità, la
conservazione dell'ambiente o la tutela delle bellezze
naturali garantiscono (sia pure
indirettamente) il vantaggio del panorama e, implicitamente,
vietano che il panorama sia
diminuito od escluso dalle nuove costruzioni. Da siffatte
norme dettate nell'interesse pubblico,
anche gli interessi privati vengono a beneficiare. La
concezione tradizionale, secondo cui le
norme urbanistiche, in favore dei privati avvantaggiati,
danno luogo ad una situazione di
interesse legittimo e dalla lesione di un interesse
legittimo non ha origine il diritto al
risarcimento del danno, risulta superata dal disposto
testuale dell'art. 872, comma 2, cod. civ.,
da cui scaturisce un diritto soggettivo perfetto,
indipendentemente dal fatto che le norme
urbanistiche richiamate siano o non integrative del codice
civile....".
Sicché "La violazione delle
norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli
strumenti urbanistici ... è fonte di
responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati
confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno
oggettivo o "in re ipsa": tale danno non consiste solo nel
deprezzamento
commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di
esso (aspetti che vengono superati
dalla tutela ripristinatoria) ma anche dalla indebita
limitazione del pieno godimento del fondo
in termini di diminuzione di amenità, comodità e
tranquillità, trattandosi di effetti
pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione
patrimoniale.
---------------
4. In ordine alla dedotta mancata indicazione nell'atto di
costituzione di parte civile della causa petendi e del
petitum (terzo motivo di ricorso),
l'eccezione era stata già proposta in
primo grado.
Il Tribunale, con ordinanza del 05/11/2009, aveva ammesso la
parte civile, respingendo le
eccezioni difensive, dal momento che l'atto di costituzione
conteneva "gli elementi essenziali e
sufficienti per individuare, non solo l'entità della pretesa
risarcitoria, ma anche i presupposti
della stessa: la persona offesa asserisce di essere
comproprietaria di un fondo confinante -la
circostanza non è contestata-; l'imputazione riguarda un
asserito ampliamento di volume con
sopraelevazione".
La Corte territoriale, richiamando le statuizioni sul punto
del Tribunale, ha ribadito che la
costituzione della parte civile era perfettamente
ammissibile.
I Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei
principi più volte affermati, in
proposito, da questa Corte, secondo cui, in tema di
costituzione di parte civile, l'indicazione
delle ragioni che giustificano la domanda risarcitoria è
funzionale esclusivamente
all'individuazione della pretesa fatta valere in giudizio
non essendo necessaria un'esposizione
analitica della "causa petendi", sicché per soddisfare i
requisiti di cui all'art. 78 lett. d),
cod. proc. pen., è sufficiente il mero richiamo al capo di
imputazione descrittivo del fatto,
allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa
risarcitoria azionata risulti con
immediatezza (tra le altre: Sez. 6, n. 32705 del 17/04/2014,
Coccia, Rv. 260325; sez. 5 n. 22034
del 07/03/2013, Boscolo, Rv. 256500).
Nell'atto di costituzione di parte civile (venendo eccepita
una nullità è consentito l'accesso
agli atti) erano riportate integralmente le imputazioni
dalle quali emergeva chiaramente, come
si è visto in precedenza, una falsa rappresentazione dello
stato dei luoghi, al fine, di consentire
un incremento volumetrico (sopraelevazione) del fabbricato
preesistente; inoltre il Cu. si
dichiarava comproprietario, unitamente al figlio Giacomo, di
una casa per abitazione, con
terreno, posta al confine del fabbricato di proprietà dei
geom. Ma. e Si., per il quale era
stata presentata la DIA con una falsa rappresentazione dello
stato dei luoghi, realizzando così
"un'opera edilizia abusiva che lede i diritti del comparente
quale comproprietario del fondo
limitrofo".
Il Cu. chiedeva, quindi, avendone titolo per i motivi
prima indicati, di costituirsi in
giudizio per ottenere il risarcimento del danno-patrimoniale
ed extrapatrimoniale- subito a
seguito dell'attività illecita posta in essere dagli
imputati.
Risultava, pertanto, sufficientemente chiaro dall'atto di
costituzione, emergendo dalla
esposizione e dal contenuto stesso delle imputazioni, che il Cu. assumeva di essere stato
danneggiato dalla sopraelevazione dl fabbricato, confinante
con la sua proprietà, eseguita
attraverso la presentazione di una DIA in cui era stato
rappresentato falsamente lo stato
originario del fabbricato medesimo (in modo cioè da farlo
apparire come avente la stessa
altezza sui lati nord e sud e comunque una altezza maggiore
rispetto al fabbricato confinante).
Lamentava, cioè, il Cu., quale proprietario del fondo
confinante di essere stato
danneggiato dalla condotta illecita (sopraelevazione con
incremento volumetrico del fabbricato
preesistente) posta in essere dagli imputati (causa petendi)
e chiedeva, pertanto di essere
risarcito dai danni subiti per effetto di siffatta condotta
(petitum).
5. Altrettanto correttamente i Giudici di merito hanno
condannato gli imputati al risarcimento
dei danni in favore della costituita parte civile, da
liquidarsi in separata sede.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di
risarcimento del danno, "il soggetto
legittimato all'azione civile è il danneggiato che non
necessariamente si identifica con il
soggetto passivo del reato in senso stretto, ma è chiunque
abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del
soggetto attivo del reato (fattispecie
relativa a vicino di casa parte civile in processo per abuso
edilizio" -cfr. Cass. sez. V n. 5613
dell'11.04.2000-Toscano).
In particolare, il proprietario confinante è legittimato a
costituirsi parte civile nei
procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non
soltanto quando siano violate le norme
civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni
(art. 873 cod. civ.), ma anche nel caso di
inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni
(art. 872 cod. civ.) - (sez. 3 n. 45285 del
21/10/2009), Vespa, Rv. 245270); vale a dire quando la
realizzazione dell'abuso edilizio violi
non solo le norme, poste a tutela del regolare assetto del
territorio, ma anche le norme
civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema
di distanze, volumetria ed altezza delle
costruzioni, essendo in tal caso ipotizzabile un danno
patrimoniale che dà luogo all'azione di
risarcimento del danno (sez. 3 n. 10106 del 21/01/2016, Torzini, Rv. 266290; sez. 3 n. 21222
del 04/04/2008, Chianese, Rv. 240044).
E' stato sottolineato (sez. F. del 31/07/2008, Valente, non
massimata) che colui che edifica
nei modi consentiti è immune da responsabilità nei confronti
dei vicini; "le conseguenze sono
diverse, invece, se la edificazione sia avvenuta in
contrasto con la disciplina concernente
l'assetto del territorio: vale a dire se le norme relative
all'edilizia, in funzione della tutela degli
interessi generali ad un ordinato regime urbanistico e
territoriale, quali le limitazioni del
volume, dell'altezza, della densità degli edifici, le
esigenze dell'igiene e della viabilità, la
conservazione dell'ambiente o la tutela delle bellezze
naturali garantiscono (sia pure
indirettamente) il vantaggio del panorama e, implicitamente,
vietano che il panorama sia
diminuito od escluso dalle nuove costruzioni. Da siffatte
norme dettate nell'interesse pubblico,
anche gli interessi privati vengono a beneficiare. La
concezione tradizionale, secondo cui le
norme urbanistiche, in favore dei privati avvantaggiati,
danno luogo ad una situazione di
interesse legittimo e dalla lesione di un interesse
legittimo non ha origine il diritto al
risarcimento del danno, risulta superata dal disposto
testuale dell'art. 872, comma 2, cod. civ.,
da cui scaturisce un diritto soggettivo perfetto,
indipendentemente dal fatto che le norme
urbanistiche richiamate siano o non integrative del codice
civile....".
Sicché "La violazione delle
norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli
strumenti urbanistici ... è fonte di
responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati
confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno
oggettivo o "in re ipsa": tale danno non consiste solo nel
deprezzamento
commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di
esso (aspetti che vengono superati
dalla tutela ripristinatoria) ma anche dalla indebita
limitazione del pieno godimento del fondo
in termini di diminuzione di amenità, comodità e
tranquillità, trattandosi di effetti
pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione
patrimoniale (Sez. 2, 17.05.2000,
n. 6414)".
Per la costituzione di parte civile del proprietario
confinante nei procedimenti penali aventi ad
oggetto abusi edilizi si è positivamente espressa anche la
Corte europea dei diritti dell'uomo
(17.07.2007, c. 6970/03, Vitello).
Tanto premesso è indubitabile che dall'abuso edilizio, posto
in essere dagli imputati, possa
essere derivato, attraverso la sopraelevazione dell'immobile
preesistente, un danno alla
proprietà confinante sotto il profilo della compressione del
diritto al pieno godimento della
stessa in termini di visuale ed areazione.
Infine, ineccepibilmente, ha ricordato la Corte di merito
che la condanna generica al
risarcimento del danno postula per il suo accoglimento
l'accertamento di un fatto da ritenersi,
alla stregua di un giudizio di probabilità, anche solo
potenzialmente produttivo di conseguenze
dannose.
E' onere della parte civile dare, poi, la prova, nel
separato e susseguente giudizio civile, della
sussistenza in concreto del danno e del suo ammontare.
6. La manifesta infondatezza del ricorso non consentendo
l'instaurazione di un valido
rapporto processuale, preclude la possibilità di rilevare la
prescrizione, maturata dopo la
sentenza impugnata.
Gli stessi ricorrenti rilevano che, risultando il reato
commesso in data 25/05/2007 (data di
presentazione della DIA), il termine massimo di prescrizione
sarebbe maturato il 25/11/2014
(la sentenza della Corte di Appello è stata emessa in data
25/09/2014 e quindi prima del
maturare di detto termine).
In ogni caso, non avrebbero potuto venir meno le statuizioni
civili: l'art. 578 cod. proc. pen.
prevede infatti che, ove nei confronti dell'imputato sia
stata pronunciata condanna anche
generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni, il
giudice di appello e la Corte di
cassazione, nel dichiarare la prescrizione, debbano decidere
sugli effetti civili.
7. Va, infine, rilevato che l'omessa espressa revoca
dell'ordine di demolizione da parte della
Corte di Appello, che ha dichiarato estinto per prescrizione
il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380 del 2001, al quale detto ordine era "collegato",
non comporta alcun vizio della
sentenza.
Invero, l'estinzione del reato di costruzione abusiva per
prescrizione travolge l'ordine di
demolizione dell'opera , indipendentemente da una espressa
statuizione di revoca, atteso che
tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorìo
che trova la propria giustificazione
nella accessorietà alla sentenza di condanna. La revoca
dell'ordine si produce, cioè, ex lege, a
prescindere da una esplicita statuizione di revoca (Sez. 3
n. 756 del 02/12/2010, Sicignano, Rv.
249154; sez. 3 n. 10209 del 02/02/2006, Cirillo, Rv. 233673;
sez. 3 n. 3099 del 06/10/2000,
Bifulco, Rv. 217853)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.03.2017 n. 11051). |
EDILIZIA PRIVATA: Cassazione:
la disciplina antisismica si applica a prescindere dai
materiali e dalle relative strutture. Non conta la natura
precaria o permanente dell'intervento.
"Forati" è termine generico che si
riferisce al fatto che l'elemento utilizzato per la
costruzione sia vuoto e non al tipo di materiale. Del resto
lo stesso termine "mattone", dal punto di vista tecnico, è
generico e si tipizza per il materiale usato per la sua
realizzazione, tra cui la terra, il calcestruzzo, il gesso
etc.
Il termine "mattone" prescinde dal
materiale usato mentre il termine "forato" si riferisce
esclusivamente alla presenza di fori.
---------------
Secondo l'orientamento consolidato, la
speciale disciplina antisismica si applica a tutte le
costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia
dichiarata la sismicità, a prescindere dai materiali e dalle
relative strutture,
nonché dalla natura precaria o permanente
dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati
ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte
della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni
realizzate in zone sismiche.
---------------
2. Con il primo motivo di ricorso, lamentano la
violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in
relazione alla disposizione di servizio n. 235 del
26.08.2008 emessa dal Genio civile di Messina nonché agli
art. 93, 94 e 95 DPR 380/2001, perché la predetta
disposizione escludeva l'autorizzazione dell'Ufficio per la
realizzazione di muri di semplice recinzione in forati e
cordolo di fondazione in cemento armato di altezza non
superiore a 3 metri, mentre il Giudicante aveva ritenuto
integrata la violazione perché sul cordolo di cemento armato
gli imputati avevano apposto dei blocchi di calcestruzzo e
non dei mattoni forati.
Precisano che il termine "forati" non deve e non può
essere inteso come sinonimo di "mattone forato", ma
come termine generico indicante qualsiasi blocco di
costruzione che al suo interno sia cavo e privo di armatura.
Affermano che la ratio della disposizione risiede nel
fatto che il muro di recinzione non ha funzione di
contenimento e sostegno di altre strutture e perciò non
abbisogna di armatura.
...
3. Il ricorso è fondato.
E' corretta e condivisibile la deduzione dei ricorrenti
secondo cui "forati" è termine
generico che si riferisce al fatto che l'elemento utilizzato
per la costruzione sia vuoto e non al tipo di materiale. Del
resto lo stesso termine "mattone", dal punto di vista
tecnico, è generico e si tipizza per il materiale usato per
la sua realizzazione, tra cui la terra, il calcestruzzo, il
gesso etc.
Il Giudice di prime cure, senza censurare il contenuto della
disposizione del Genio civile, dopo aver accertato che il
muro era stato realizzato con blocchi di calcestruzzo al di
sopra del cordolo in cemento armato, ha ritenuto l'illiceità
della condotta, perché risultava evidente come ben diverso
fosse il carico dell'uno o dell'altro tipo di materiale, con
ragionevole spiegazione del diverso tipo di disciplina
prevista e con un'interpretazione che vista la natura
derogatoria della regolamentazione citata, deve essere
rigorosa e strettamente aderente al suo tenore letterale.
Tale motivazione non convince, perché il
termine "mattone" prescinde dal materiale usato
mentre il termine "forato" si riferisce
esclusivamente alla presenza di fori.
L'osservazione sul maggiore o minore carico è del tutto
apodittica e prescinde da accertamenti di tipo tecnico-
scientifico.
Secondo l'orientamento consolidato, la
speciale disciplina antisismica si applica a tutte le
costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia
dichiarata la sismicità, a prescindere dai materiali e dalle
relative strutture
(Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 ud, dep. 11/12/2015, Baio,
Rv. 266033 e sentenze ivi citate, nonché Sez. 3, n. 48005,
del 17/09/2014 ud, dep. 20/11/2014, Rv 261156, in un caso di
chiusura di verande con mattoni forati secondo la disciplina
della Regione Sicilia), nonché dalla
natura precaria o permanente dell'intervento, attesa la
natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire
il controllo preventivo da parte della pubblica
amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone
sismiche (si
vedano per i riferimenti ai precedenti la citata Sez. 3, n.
48950/15).
La prescrizione dell'Ufficio invocata dai ricorrenti a
proprio favore ben può essere sindacata dal giudice penale,
sebbene gli imputati abbiano riferito che il muro di
recinzione realizzato non aveva funzioni di sostegno né di
contenimento, sicché la prescrizione era da considerarsi
giustificata.
La sentenza impugnata, però, non ha evidenziato alcun
elemento che consenta questo sindacato, quale ad esempio la
collocazione del muro, la natura del terreno, etc., da cui
desumere l'integrazione del presupposto dell'art. 83 D.P.R.
380/2001, limitandosi, come detto, ad interpretare
arbitrariamente l'espressione usata dall'Ufficio come
riferita al solo "mattone forato", inteso, forse,
come "laterizio".
In definitiva, il fatto contestato non sussiste
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.02.2017 n. 9126). |
AGGIORNAMENTO AL 15.03.2017 |
ã |
ANNULLAMENTO ATTI AMMINISTRATIVI:
il
discrimen per l'applicazione del termine dei 18
mesi (come contenuto nel nuovo art. 21-nonies) è la
data di emissione del provvedimento di primo grado
oggetto di annullamento:
se essa è precedente
all'entrata in vigore della Legge 214/2015
(28.05.2015), questa non troverà applicazione,
se
invece è successiva, l'eventuale
provvedimento di annullamento dovrà rispettare il
termine dei 18 mesi. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Annullamento d'ufficio: il termine dei 18 mesi si riferisce
ai provvedimenti emanati dopo l'entrata in vigore della
novella.
Il TAR Campania-Napoli ha nuovamente affrontato il tema
dell'ambito temporale di applicazione della legge n.
124/2015, che ha modificato il testo dell’art. 21-nonies
della legge n. 241/1990 introducendo il limite temporale di
18 mesi per procedere all’annullamento d’ufficio di alcune
tipologie di provvedimenti (tra cui gli atti autorizzativi).
Oggetto della decisione è il provvedimento di annullamento
d'ufficio emesso da un Comune nei confronti di un permesso
di costruire rilasciato prima dell'entrata in vigore della
novella di cui alla Legge n. 124/2015 sull'assunto
dell'emissione del titolo all’esito della falsa
rappresentazione della realtà fattuale, indotta dalla parte
privata richiedente.
In primo luogo, il Collegio affronta il tema dei presupposti
per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio.
In termini generali viene affermato che
anche in materia edilizia i presupposti del potere di
annullamento d’ufficio sono costituiti dall’illegittimità
originaria del provvedimento e dall’interesse pubblico
concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero
ripristino della legalità), tenuto conto anche delle
contrapposte posizioni giuridiche soggettive consolidate in
capo ai privati.
Principio che,
ricorda il Tribunale, soffre un’eccezione
nel caso -quale è
quello di specie- in cui l’operato
dell’amministrazione sia stato fuorviato dall’erronea o
falsa rappresentazione dello stato di fatto posta in essere
dal privato al momento della richiesta del titolo edilizio.
In tale ipotesi non occorre una particolare motivazione
sull’interesse pubblico perseguito in sede di autotutela, di
per sé coincidente con l’implicita esigenza di ripristinare
la legalità urbanistico-edilizia fraudolentemente
compromessa, così come perde meritevolezza l’affidamento
(non incolpevole) del privato circa il mantenimento della
situazione abusiva. Affidamento da considerare di per sé
recessivo di fronte all’interesse pubblico alla
ricostituzione della cornice di rispetto della disciplina
urbanistica violata.
Accertata sotto questo profilo la legittimità del
provvedimento impugnato, il Collegio passa a vagliarne la
tenuta nei confronti della novella legislativa di cui alla
Legge n. 124/2015.
Richiamando un proprio precedente di qualche mese prima (TAR
Campania Napoli, Sez. II, 17.10.2016 n. 4737), il Tribunale
amministrativo campano conferma il carattere innovativo
della novella in esame, dal quale consegue la sua
applicazione soltanto ai provvedimenti di primo grado
adottati successivamente alla sua entrata in vigore.
Con la pronuncia in commento il TAR Campania conferma dunque
il proprio orientamento secondo cui il
discrimen per l'applicazione del termine dei 18 mesi
come contenuto nel nuovo art. 21-nonies è la data di
emissione del provvedimento di primo grado oggetto di
annullamento: se essa è precedente all'entrata in vigore
della Legge 214/2015 (28.05.2015), questa non troverà
applicazione, se invece è successiva, l'eventuale
provvedimento di annullamento dovrà rispettare il termine
dei 18 mesi.
---------------
●
TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 17.10.2016 n. 4737.
●
Sul punto si veda anche la
sentenza 31.08.2016 n. 3762
-Sez. VI- del Consiglio di Stato con la quale è stato
affermato che il termine dei 18 mesi rileva ai fini
interpretativi anche se non applicabile retroattivamente
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 20.02.2017 n. 1033
- tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
----------------
MASSIMA
1. La presente controversia si incentra sulla
contestazione dell’ordinanza dirigenziale del Comune di
Quarto n. 7/2015 del 12.11.2015, con cui è stato annullato
in autotutela il permesso di costruire n. 4/2014 del
28.01.2014, ottenuto dal ricorrente per l’intervento di
ristrutturazione edilizia di cui in narrativa, nonché è
stato ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi.
2. Si premette, in punto di fatto, che l’atto di autotutela,
nell’assumere che il permesso di costruire era stato
rilasciato sulla base di una falsa rappresentazione dello
stato dei luoghi contenuta nella domanda di parte e nei
relativi allegati tecnici, ritiene tale permesso illegittimo
per le seguenti due ragioni ostative, ciascuna di per sé
idonea ad impedire il rilascio dell’atto ampliativo:
i) “Negli atti presentati si dichiara che il manufatto da
abbattere e ricostruire risale ad una data precedente al
1967. A supporto della dichiarazione di esistenza del
manufatto allegano un rilievo fotografico. L’esame
documentale e comparativo, tra gli atti presentati e la
cartografia di P.R.G. nonché con le varie aerofotogrammetrie
regionali, hanno rilevato che il manufatto non è presente
nella aerofotogrammetria del 1981. Nella documentazione
presentata a supporto della domanda per P.d.C. in oggetto
non è riportata nessuna altra prova documentale a sostegno
di quanto affermato circa la sua data di realizzazione. Per
quanto concerne il rilievo fotografico del 02/10/2013 n. di
prot. 26557, si rileva che non inquadra il manufatto
inserito nel suo contesto ma lo riprende a distanze
ravvicinate rendendo impossibile, a posteriori e ad avvenuta
demolizione, il suo posizionamento all’interno del lotto. Il
rilievo fotografico, inoltre, riporta solo inquadrature
esterne e parziali.”;
ii) “La parte ha espressamente dichiarato, con nota n. 31865 del
13/11/2013, che la zona oggetto dell’intervento non rientra
nel vincolo di P.R.G. denominato H2 – area soggetta a
vincolo non aedificandi per rispetto archeologico. I tecnici
comunali, mediante sovrapposizione della cartografia
catastale con i grafici del P.R.G. hanno constatato che
l’area oggetto dell’intervento ricade nella zona omogenea di
P.R.G. denominata H2. La presente circostanza inficia
l’applicazione dell’art. 5 della L.R. 19/2009,
impropriamente applicato stante la dichiarazione resa dalla
parte.”.
Inoltre, giova aggiungere, quanto all’interesse pubblico
perseguito nello specifico, che l’ordinanza in questione si
sofferma sui seguenti argomenti: “Ritenuto: Che è in capo
alla Pubblica Amministrazione la difesa del territorio che
si esplica attraverso una corretta pianificazione
urbanistica; Che il controllo della pianificazione
urbanistica rappresenta un interesse pubblico da tutelare;
Che la falsa rappresentazione di luoghi ha profilo di
violazione di legge e nella presente fattispecie, è
violazione sostanziale in quanto momento determinante per il
rilascio del P.d.C. n. 4/2014; Che vi è obbligo da parte
della P.A. di procedere al ripristino dello stato dei luoghi
che avviene mediante annullamento ex tunc del titolo
giuridico, P.d.C. n. 4/2014, che si poggia, per i motivi
sopra riportati, su falsa ed errata rappresentazione; Che è
preminente l’interesse pubblico da tutelare e che le opere
sono poco più che allo stadio di mera configurazione del
cantiere;”.
3. Ciò premesso, le censure complessivamente articolate
avverso il provvedimento impugnato sono così compendiabili:
a) quanto alla ritenuta illegittimità del permesso di costruire, va
evidenziato, da un lato, “che è stata depositata presso
il Comune fotogramma dell’I.G.M. (Istituto Geografico
Militare, ndr.) risalente addirittura al 1974 dalla quale si
evince che il fabbricato esisteva a quella data e pertanto,
è falso affermare che il fabbricato non esisteva alla data
del 1981” e, dall’altro, che, in forza della
documentazione più volte depositata presso la sede comunale,
è stato dimostrato che “l’immobile non ricade in zona H2
e pertanto nessun vincolo esiste”;
b) il “provvedimento impugnato è certamente carente dei
presupposti di fatto e di diritto in quanto si fonda su
motivi superati dalla medesima amministrazione nel corso di
una istruttoria lunga (durata circa due anni!) conclusasi
con il rilascio del permesso di costruire originariamente
legittimo”;
c) nella fattispecie “non è rinvenibile alcuna falsa
rappresentazione della realtà fattuale, svolta da parte
ricorrente ed idonea a trarre in inganno l’amministrazione
nello svolgimento della propria attività di controllo e di
valutazione”;
d) “nel provvedimento finale di annullamento del titolo edilizio
de quo, l’amministrazione comunale non ha provveduto alla
analitica confutazione delle osservazioni presentate dal
ricorrente”;
e) in violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e del
dovere di motivazione, l’amministrazione comunale non ha
dato conto, nel corredo motivazionale dell’atto di
autotutela, dell’interesse pubblico specifico alla rimozione
del titolo edificatorio, ritenuto prevalente sul
contrapposto interesse privato consolidatosi nel tempo.
In particolare, nella specie “il provvedimento di
autotutela emanato, in primo luogo, ha omesso di specificare
in quale modo la trasformazione edilizia avrebbe inciso
negativamente sull’ambiente e sull’assetto urbanistico del
territorio, effettuando unicamente un generico richiamo agli
interessi pubblici prevalenti, senza svolgere un’attenta
disamina della situazione di fatto concernente l’area in
questione. In ogni caso, l’Amministrazione non ha in alcun
modo valutato, nel processo comparativo delle situazioni
giuridiche coinvolte nel procedimento, l’affidamento
ingenerato nel ricorrente, con il rilascio del permesso de
quo, che ha comportato la completa demolizione (nell’anno e
mezzo intercorso dal rilascio), del manufatto oggetto di
intervento”;
f) l’annullamento d’ufficio è stato disposto dopo circa due anni
dal rilascio del permesso di costruire, ossia oltre il
termine massimo di intervento, pari a 18 mesi, previsto
dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, come
recentemente modificato dall’art. 6, comma 1, lett. d), n.
1), della legge n. 124/2015.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate.
4. A differenza di quanto dedotto dal ricorrente, non è
seriamente controvertibile che il permesso di costruire
fosse stato rilasciato sul falso ed erroneo presupposto
della preesistenza del fabbricato da demolire al 1967, cioè
all’epoca a partire dalla quale sarebbe stato necessario in
ogni caso che l’attività edificatoria in ambito comunale
fosse assistita dal corrispondente titolo edilizio.
Né convince in senso opposto l’invocato fotogramma
dell’I.G.M. risalente al 1974. Al riguardo, è sufficiente
richiamare gli esiti degli accertamenti compiuti dal CTU,
come illustrati nella sua relazione tecnica, che il Collegio
condivide e fa propri ritenendoli frutto di approfondita e
scrupolosa attività valutativa: “Per l’anno 1981,
l’indagine presso i suddetti Enti deputati al controllo del
territorio ha accertato a tale data l’esistenza della sola
aerofotogrammetria anno 1981, che è stata acquisita dallo
scrivente presso l’U.T.C. del Comune di Quarto nel corso
dell’accesso del 06/06/2016.
Da tale cartografia (All. n. 3) non si evince l’esistenza
dell’immobile oggetto di ricorso (vedi area cerchiata in
rosso). Al fine di facilitare la comprensione del corretto
inquadramento spaziale degli edifici presenti
nell’aerofotogrammetria anno 1981, si è ritenuto utile
allegare lo stralcio aerofotogrammetrico anno 1994 (All. n.
4.1) ed il relativo fotogramma levata aerea 30/11/1994 (All.
n. 4.2) –acquisiti presso il Comune di Quarto– dove risulta
particolarmente evidente la posizione dell’immobile oggetto
di ricorso ed il posizionamento degli edifici limitrofi allo
stesso. Su tali documenti gli immobili seguono la medesima
numerazione precedentemente assegnata.
Inoltre, poiché l’aerofotogrammetria del 1981 è stata
contestata dalla parte ricorrente, lo scrivente ha ricercato
altra documentazione con date prossime a quella del 1981. In
conseguenza di tale indagine il CTU ha acquisito, con
protocollo n. 0387097 del 07/06/2016 presso il SIT della
Regione Campania, il fotogramma n. 0182 relativo al volo
anno 1985 (All. n. 5). Da quest’ultimo risulta, in modo
chiaro (vedi area cerchiata in rosso), l’inesistenza
dell’immobile oggetto di ricorso alla data del 1985.
Per l’anno 1974, accertata l’assenza di altra documentazione
presso gli Enti deputati al controllo del territorio, lo
scrivente ha richiesto all’I.G.M. (Istituto geografico
militare) un ingrandimento del fotogramma volo 1974 relativo
all’area oggetto di ricorso (All. n. 6).
Da un’approfondita analisi del fotogramma, raffrontandola
anche con il fotogramma levata aerea 30/11/1994 (All. n.
4.2) e con gli aerofotogrammetrici del 1981 (All. n. 3) e
del 1994 (All. n. 4.1), l’immobile oggetto di ricorso non
risulta presente. Infatti, l’immobile che il ricorrente
cerchia nel medesimo fotogramma I.G.M. 1974, allegato agli
atti di causa, non può essere l’edificio oggetto di
demolizione sia per le dimensioni (molto più piccole), che
per la collocazione quasi in asse con la linea di
riferimento, costruita dallo scrivente, che parte dal lato
sinistro dell’immobile individuato con il n. 2.
L’immobile indicato dal ricorrente sembrerebbe corrispondere
al più esterno dei piccoli manufatti contraddistinti con i
numeri 4/5 nell’All. n. 3. Invece, come si evince sia dal
fotogramma levata aerea 30/11/1994 che dallo stralcio
aerofotogrammetrico anno 1994, acquisiti presso il Comune di
Quarto, l’immobile oggetto di ricorso risulta tutto spostato
sulla sinistra rispetto all’edificio inquadrato con il n. 2
(vedi linea di riferimento – Allegati nn. 4.1 e 4.2) e molto
più grande.”.
4.1 Discende dalle superiori osservazioni che resiste alle
critiche attoree il primo motivo di illegittimità del
permesso di costruire individuato nell’atto di autotutela,
atteso che si palesa assolutamente plausibile la riscontrata
inesistenza del fabbricato oggetto di demolizione al 1981
(ed addirittura al 1985) nonché, a maggior ragione, al 1967,
a fronte, peraltro, della sostanziale convergenza in senso
negativo degli stralci aerofotogrammetrici detenuti dagli
enti territoriali con il fotogramma dell’I.G.M. del 1974.
4.2 Quanto sopra esposto riveste carattere assorbente ed
esime il Collegio dall’esaminare la rimanente censura, con
cui parte ricorrente intende contestare l’ordinanza
impugnata in ordine al profilo motivazionale
dell’illegittimità del permesso di costruire per mancato
rispetto del vincolo di inedificabilità di cui alla zona H2,
dal momento che comunque l’impianto complessivo
dell’ordinanza risulta validamente sorretto, quanto al
presupposto dell’illegittimità dell’atto da rimuovere,
dall’inesistenza del fabbricato da demolire in epoca
precedente al 1967.
Soccorre, al riguardo, il condiviso principio secondo il
quale,
laddove una determinazione amministrativa di segno
negativo tragga forza da una pluralità di ragioni, ciascuna
delle quali sia di per sé idonea a supportarla in modo
autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse passi
indenne alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il
provvedimento nel suo complesso resti esente
dall’annullamento
(cfr. Consiglio di Stato, A.P., 29.02.2016
n. 5; Consiglio di Stato, Sez. V, 06.03.2013 n. 1373 e
27.09.2004 n. 6301; Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.07.2010
n. 4243).
5.
La pur lunga istruttoria che ha condotto al rilascio del
permesso di costruire ha tenuto conto solo del materiale
documentale e tecnico fornito dalla parte privata
richiedente, come pacificamente emerge dalle evidenze
processuali.
Ebbene,
non è sicuramente illogico, né attiene a situazioni
ormai superate dalla pregressa istruttoria, che
l’amministrazione abbia rivisto le proprie precedenti
determinazioni alla luce di una nuova istruttoria frutto di
più approfondite verifiche, che abbiano fatto tesoro di
rilievi e cartografie dotati di maggiore ufficialità.
6.
Certamente il permesso di costruire annullato è stato
emesso all’esito della falsa rappresentazione della realtà
fattuale, indotta dalla parte privata richiedente, circa
l’epoca di costruzione del fabbricato da demolire, dal
momento che è incontestato che la collocazione temporale del
manufatto a data antecedente al 1967 discende da apposita
dichiarazione contenuta nella documentazione a corredo
dell’istanza.
7.
L’obbligo, ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, di esame
delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli
interessati nel corso dell’iter procedimentale, non impone
all’amministrazione una formale ed analitica confutazione di
ogni argomento utilizzato dagli stessi, essendo sufficiente,
alla luce dell’art. 3 della legge medesima, un’esternazione
motivazionale che renda nella sostanza percepibile la
ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa
alle deduzioni partecipative dei privati, come puntualmente
avvenuto nella fattispecie (cfr. ex multis Consiglio
di Stato, Sez. VI, 29.05.2012 n. 3210; Consiglio di Stato,
Sez. V, 13.10.2010 n. 7472; TAR Campania Napoli, Sez. III,
08.06.2016 n. 2885; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 15.09.2011
n. 4402).
8. Inoltre,
se è vero, secondo un diffuso e condivisibile
orientamento
(cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV,
24.12.2015 n. 5830; Consiglio di Stato, Sez. VI, 30.09.2015
n. 4552),
che anche in materia edilizia i presupposti del
potere di annullamento d’ufficio sono costituiti
dall’illegittimità originaria del provvedimento e
dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità),
tenuto conto anche delle contrapposte posizioni giuridiche
soggettive consolidate in capo ai privati, è altrettanto
vero che tale principio soffre un’eccezione nel caso in cui
l’operato dell’amministrazione sia stato fuorviato
dall’erronea o falsa rappresentazione dello stato di fatto
posta in essere dal privato al momento della richiesta del
titolo edilizio; invero, in tale ipotesi non occorre una
particolare motivazione sull’interesse pubblico specifico
perseguito in sede di autotutela, di per sé coincidente con
l’implicita esigenza di ripristinare la legalità urbanistico-edilizia fraudolentemente compromessa, così come
perde meritevolezza l’affidamento (non incolpevole) del
privato circa il mantenimento della situazione abusiva,
affidamento da considerare di per sé recessivo di fronte
all’interesse pubblico alla ricostituzione della cornice di
rispetto della disciplina urbanistica violata
(cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 08.11.2012 n. 5691 e 03.08.2012
n. 4440; TAR Toscana, Sez. III, 27.05.2015 n. 825).
8.1 Ebbene,
il caso concreto rientra senza dubbio
nell’esposta ipotesi eccettuativa, se solo si pone mente
alla pacifica circostanza, già illustrata al precedente
paragrafo 6,
che l’annullato permesso di costruire era stato
rilasciato sulla base di una non fedele dichiarazione della
parte richiedente in ordine all’epoca di costruzione del
fabbricato da demolire.
Ne discende che, non essendo individuabile in capo al
ricorrente alcun affidamento giuridicamente apprezzabile,
deve ritenersi correttamente giustificato l’intervento in
autotutela posto in essere dall’amministrazione comunale, la
quale comunque appare aver tenuto in debita considerazione,
pur ritenendole soccombenti atteso lo stato di avanzamento
del cantiere, le contrapposte esigenze private al
mantenimento del titolo edilizio.
9. Infine,
il permesso di costruire annullato è stato emesso
il 28.01.2014, ossia prima dell’entrata in vigore della
legge n. 124/2015, che ha modificato il testo dell’art.
21-nonies della legge n. 241/1990 introducendo il limite
temporale di 18 mesi per procedere all’annullamento
d’ufficio di alcune tipologie di provvedimenti (tra cui gli
atti autorizzativi): ciò depone per l’inapplicabilità al
caso di specie della novella legislativa, che propriamente
si attaglia a tutti i provvedimenti di primo grado emanati
dopo la sua entrata in vigore.
Soccorre, al riguardo, una recente pronuncia in termini
della Sezione, che il Collegio recepisce integralmente
ritenendola preferibile, atteso il persuasivo percorso
argomentativo utilizzato, a qualche orientamento contrario
nel frattempo intervenuto: “È infondata anche la censura
con cui si denuncia la violazione dell’art. 6 della Legge n.
124/2015.
La modifica all’art. 21-nonies introdotta dall’art. 6, comma
1, lett. d), n. 1 della predetta legge (“comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento
si sia formato ai sensi dell'articolo 20”), infatti, non ha
carattere interpretativo dell’inciso che precede (“entro un
termine ragionevole”) perché, se così fosse, si dovrebbe
considerare comunque e sempre “ragionevole” l’autoannullamento
effettuato dall’Amministrazione entro 18 mesi, laddove nulla
vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in
autotutela adottato entro il predetto termine.
D’altra parte
nemmeno può attribuirsi ad esso carattere
sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati
precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore
della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con
la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale
della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della
Legge n. 124/2015).
La norma in esame
ha, dunque, sicuramente carattere
innovativo, sicché
si applica soltanto ai provvedimenti
adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora,
tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto
provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non
ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi
antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in
vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale
rigido di annullabilità dell’atto amministrativo– non può
che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di
provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla
vigenza della legge.
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera
della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela
deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a
diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di
secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal
momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività
della norma, non può che essere successivo alla sua entrata
in vigore– del provvedimento autorizzativo (di primo grado)
(cfr. sul punto questa Sezione, 12.09.2016 n. 4229).”
(Così TAR Campania Napoli, Sez. II, 17.10.2016 n. 4737).
10. In conclusione, resistendo il provvedimento impugnato a
tutte le censure prospettate, il ricorso deve essere
respinto siccome infondato. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Salvi
i casi espressamente previsti dalla legge (in cui è previsto
che il silenzio dell'Amministrazione comporta l'accoglimento
ovvero la reiezione di una istanza), il superamento del
termine massimo di durata di un procedimento comporta le
conseguenze previste dagli artt. 2 e 2-bis della Legge n.
241/1990 (tra le altre, costituisce "elemento di valutazione
della performance individuale" e consente di proporre
innanzi al giudice amministrativo il ricorso avverso il
silenzio dell'Amministrazione), ma di per sé non incide
sulla legittimità del provvedimento conclusivo del
procedimento.
---------------
La modifica all’art. 21-nonies introdotta dall’art. 6, comma
1, lett. d), n. 1 della legge 124/2015 (“comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento
si sia formato ai sensi dell'articolo 20”) non ha carattere
interpretativo dell’inciso che precede (“entro un termine
ragionevole”) perché, se così fosse, si dovrebbe considerare
comunque e sempre “ragionevole” l’autoannullamento
effettuato dall’Amministrazione entro 18 mesi, laddove nulla
vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in
autotutela adottato entro il predetto termine.
D’altra parte nemmeno può attribuirsi ad esso carattere
sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati
precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore
della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con
la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale
della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della
Legge n. 124/2015).
La norma in esame ha, dunque, sicuramente carattere
innovativo, sicché si applica soltanto ai provvedimenti
adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora,
tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto
provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non
ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi
antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in
vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale
rigido di annullabilità dell’atto amministrativo- non può
che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di
provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla
vigenza della legge.
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera
della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela
deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a
diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di
secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal
momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività
della norma, non può che essere successivo alla sua entrata
in vigore– del provvedimento autorizzativo (di primo grado).
---------------
L’errata o insufficiente (non importa se dolosa o colposa)
rappresentazione di circostanze di fatto esposte nella
domanda di permesso a costruire costituisce ragione
determinante e sufficiente a giustificare un provvedimento
di annullamento del rilasciato titolo edilizio, in
considerazione del fatto che ogni provvedimento
amministrativo è legittimo solo se fondato sulla situazione
di fatto e di diritto realmente esistente al momento della
sua adozione.
In sostanza, nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione
sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione
dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa
motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica, atteso che «in sede di adozione di
un atto in autotutela, la comparazione tra interesse
pubblico e quello privato è necessaria nel caso in cui
l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di
valutazione dovuti all'amministrazione, non già quando lo
stesso è dovuto a comportamenti del soggetto privato che
hanno indotto in errore l'autorità amministrativa».
Invero, il Collegio ritiene di condividere quel prevalente
orientamento giurisprudenziale secondo il quale, quando
l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea
rappresentazione della realtà in capo all’Amministrazione
procedente per come causata dal comportamento del
richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse
pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell’atto può
ritenersi sussistente in re ipsa, non opponendosi a ciò
posizioni di interesse del privato degne di particolare
tutela.
D’altronde, avendo parte ricorrente omesso nell’istanza di
sanatoria di dichiarare l’esistenza dell’atto unilaterale
d’obbligo –anzi si era affermata la “piena disponibilità”
dei portici in questione- nel caso concreto si è
materializzato un errore sulla rappresentazione della realtà
causato dalla parte privata; ora è pacifico che
l'Amministrazione ha sempre la piena facoltà di verificare
la veridicità del dichiarato ai sensi dell’art. 71 del DPR
n. 445/2000, in quanto, in ragione della finalità
semplificatoria che l'istituto persegue, il contenuto
dell'autocertificazione resta sempre necessariamente esposto
alla prova contraria; una volta che l'Amministrazione abbia
acquisito la certezza della non veridicità del dichiarato,
ha il dovere di trarne le necessarie conseguenze, nella
corretta e doverosa applicazione del principio generale di
buona amministrazione.
La peculiarità del presupposto a base della contestata
determinazione, siccome riconnesso alla accertata falsità
delle dichiarazioni sulle quali si fonda il rilascio dei
titoli edilizi oggetto di autotutela, fa sì che la sua
natura vada riguardata in termini di doverosità che non
offre quindi spazi alla discrezionalità naturalmente
riflessa nell’adozione di atti di secondo grado; da tanto
consegue sia il ridimensionamento dell’onere motivazionale,
sia la riespansione del principio di dequotazione dei vizi
formali attesa la sostanziale inutilità dell’obliterato
apporto partecipativo.
---------------
3.2 Ora non ha pregio il motivo con cui si lamenta la
violazione dell'art. 2 della Legge n. 241/1990 per
superamento del termine massimo di durata del procedimento:
salvi i casi espressamente previsti dalla legge (in cui è
previsto che il silenzio dell'Amministrazione comporta
l'accoglimento ovvero la reiezione di una istanza), il
superamento del termine massimo di durata di un procedimento
comporta le conseguenze previste dagli artt. 2 e 2-bis della
Legge n. 241/1990 (tra le altre, costituisce "elemento di
valutazione della performance individuale" e consente di
proporre innanzi al giudice amministrativo il ricorso
avverso il silenzio dell'Amministrazione), ma di per sé non
incide sulla legittimità del provvedimento conclusivo del
procedimento (cfr., da ultimo, Cons. Stato, III, 18.05.2016
n. 2019).
3.3 È infondata anche la censura con cui si denuncia la
violazione dell’art. 6 della Legge n. 124/2015.
La modifica all’art. 21-nonies introdotta dall’art. 6, comma
1, lett. d), n. 1 della predetta legge (“comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento
si sia formato ai sensi dell'articolo 20”), infatti, non
ha carattere interpretativo dell’inciso che precede (“entro
un termine ragionevole”) perché, se così fosse, si
dovrebbe considerare comunque e sempre “ragionevole”
l’autoannullamento effettuato dall’Amministrazione entro 18
mesi, laddove nulla vieta di ritenere irragionevole anche un
provvedimento in autotutela adottato entro il predetto
termine.
D’altra parte nemmeno può attribuirsi ad esso carattere
sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati
precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore
della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con
la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale
della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della
Legge n. 124/2015).
La norma in esame ha, dunque, sicuramente carattere
innovativo, sicché si applica soltanto ai provvedimenti
adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora,
tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto
provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non
ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi
antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in
vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale
rigido di annullabilità dell’atto amministrativo- non può
che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di
provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla
vigenza della legge.
Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera
della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela
deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a
diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto
di secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal
momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività
della norma, non può che essere successivo alla sua entrata
in vigore– del provvedimento autorizzativo (di primo grado)
(cfr. sul punto
questa Sezione, 12.09.2016 n. 4229).
3.4 Quanto, poi, all’asserita, incongrua motivazione
dell’interesse pubblico sotteso all’annullamento degli atti
di condono ed all’omessa ponderazione degli opposti
interessi, è appena il caso di osservare che l’errata o
insufficiente (non importa se dolosa o colposa)
rappresentazione di circostanze di fatto esposte nella
domanda di permesso a costruire costituisce ragione
determinante e sufficiente a giustificare un provvedimento
di annullamento del rilasciato titolo edilizio, in
considerazione del fatto che ogni provvedimento
amministrativo è legittimo solo se fondato sulla situazione
di fatto e di diritto realmente esistente al momento della
sua adozione (cfr., ex multis, TAR Firenze, III,
05.05.2015 n. 825; TAR Milano, III, 12.02.2013 n. 843; TAR
Salerno, II, 29.11.2012 n. 171): ebbene, nel caso di specie,
in sede di richiesta degli atti di condono il Comune è stato
fuorviato -rilasciando le sanatorie- dalla errata
rappresentazione della realtà effettuata dalla società
istante la quale, anziché esplicitare l’esistenza del
vincolo di destinazione d’uso pubblico a cui il porticato
era assoggettato (in virtù di un atto unilaterale d’obbligo
che costituiva, fra l’altro, condicio sine qua non
per il rilascio dei permessi di costruire del 2002), aveva
invece affermato espressamente (e mendacemente) la “piena
disponibilità” del porticato di cui è causa, inducendo
in errore l’Amministrazione che, proprio in funzione di tali
omissioni, rilasciava i titoli edilizi in sanatoria.
In sostanza, nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione
sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione
dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa
motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (Tar Basilicata, n. 238 del 2006;
Cons. Stato, V, n. 5691 del 2012), atteso che «in sede di
adozione di un atto in autotutela, la comparazione tra
interesse pubblico e quello privato è necessaria nel caso in
cui l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di
valutazione dovuti all'amministrazione, non già quando lo
stesso è dovuto a comportamenti del soggetto privato che
hanno indotto in errore l'autorità amministrativa».
Nella fattispecie è pacifica –per come anche relazionato dal
CTU- la mancata indicazione nella istanza di concessione
edilizia in sanatoria dell'esistenza di un atto di vincolo a
destinazione d'uso pubblico del portico rogato dal dott.
Vi.Pu. in data 23/10/2001 e con il quale la “Di.Ca.”
ed il sig. Am.Gi. sottoponevano i porticati al piano terra a
vincolo di destinazione d’uso pubblico, ragion per cui per
il rilascio della sanatoria sarebbe stato necessario
rinegoziare l'atto –avente evidente carattere contrattuale-
di vincolo a destinazione d'uso pubblico precedentemente
sottoscritto dalle parti.
Ora il Collegio ritiene di condividere quel prevalente
orientamento giurisprudenziale (ex multis, TAR
Lombardia, Milano, n. 841 del 2013) secondo il quale, quando
l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea
rappresentazione della realtà in capo all’Amministrazione
procedente per come causata dal comportamento del
richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse
pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell’atto può
ritenersi sussistente in re ipsa, non opponendosi a
ciò posizioni di interesse del privato degne di particolare
tutela (cfr. Cons. Stato, IV, 28.05.2012 n. 3150;
24.12.2008, n. 6554).
D’altronde, avendo parte ricorrente omesso nell’istanza di
sanatoria di dichiarare l’esistenza dell’atto unilaterale
d’obbligo –anzi si era affermata la “piena disponibilità”
dei portici in questione- nel caso concreto si è
materializzato un errore sulla rappresentazione della realtà
causato dalla parte privata; ora è pacifico (TAR Campania,
Salerno, n. 171 del 2013) che l'Amministrazione ha sempre la
piena facoltà di verificare la veridicità del dichiarato ai
sensi dell’art. 71 del DPR n. 445/2000, in quanto, in
ragione della finalità semplificatoria che l'istituto
persegue, il contenuto dell'autocertificazione resta sempre
necessariamente esposto alla prova contraria; una volta che
l'Amministrazione abbia acquisito la certezza della non
veridicità del dichiarato, ha il dovere di trarne le
necessarie conseguenze, nella corretta e doverosa
applicazione del principio generale di buona amministrazione
(ex multis, Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781; IV,
06.11.2009, n. 6948).
La peculiarità del presupposto a base della contestata
determinazione, siccome riconnesso alla accertata falsità
delle dichiarazioni sulle quali si fonda il rilascio dei
titoli edilizi oggetto di autotutela, fa sì che la sua
natura vada riguardata in termini di doverosità che non
offre quindi spazi alla discrezionalità naturalmente
riflessa nell’adozione di atti di secondo grado; da tanto
consegue sia il ridimensionamento dell’onere motivazionale,
sia la riespansione del principio di dequotazione dei vizi
formali attesa la sostanziale inutilità dell’obliterato
apporto partecipativo
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 17.10.2016 n. 4737 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Annullamento
d'ufficio del titolo illegittimo: il termine dei 18 mesi
rileva ai fini interpretativi anche se non applicabile
retroattivamente.
Il Consiglio di Stato si pronuncia sui presupposti
dell'annullamento in autotutela alla luce del limite
temporale di 18 mesi introdotto dal Decreto Sblocca Italia
del 2014.
I giudici di Palazzo Spada (Sez.
VI,
sentenza 31.08.2016 n. 3762)
sono stati chiamati a vagliare
l'annullamento d'ufficio di una D.I.A. disposto a distanza
di quattro anni dal suo consolidamento e ne hanno dichiarato
l'illegittimità anche alla luce della novità legislativa,
pur non applicabile ratione temporis alla
fattispecie.
Ricordando in via di principio che il riconoscimento di un
errore tecnico tale da inficiare la validità del titolo
avrebbe consentito all'Amministrazione di intervenire
adottando un provvedimento inibitorio/ripristinatorio entro
il termine di decadenza (30 giorni) previsto dall'art. 23,
comma 6, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, nel
caso di specie il Collegio ha esaminato la problematica
connessa alla verifica della sussistenza delle condizioni
richieste dall'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per
l'adozione del provvedimento repressivo d'ufficio adottato
dopo la scadenza di detto termine.
Detto articolo, nella formulazione vigente al momento
dell'adozione del provvedimento impugnato, consentiva
l'intervento postumo di annullamento d'ufficio ricorrendone
le ragioni di interesse pubblico e sempreché il
provvedimento fosse disposto entro un termine ragionevole,
tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati.
Successivamente, il D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, ha modificato il
testo introducendo il limite dei 180 giorni: "1. Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi
dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge".
Nel caso in esame, il Collegio evidenzia la carenza sia
dell'esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di
là del mero ripristino della legalità violata) che della
valutazione motivata della posizione dei soggetti
destinatari del titolo edilizio.
In particolare viene sottolineata
l'importanza della tutela dell'affidamento del privato, che
nel caso era particolarmente qualificata in ragione del
lungo tempo trascorso dall'adozione della D.I.A. annullata
(4 anni).
Prendendo spunto da quest'ultima considerazione, il
Consiglio di Stato ricorda la novella legislativa del 2014 e
lo sbarramento temporale posto con questa all'esercizio del
potere di autotutela e pur riconoscendo
l'inapplicabilità della previsione ratione temporis
-implicitamente confermando l'irretroattività della novità
normativa- il Collegio conferma l'orientamento già espresso
in un proprio precedente di dicembre
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.12.2015 n. 5625) e
le attribuisce una vis che trascende il mero dato
letterale ("rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi
del sistema degli interessi rilevanti"), portandola a
costituire parametro di riferimento, se non addirittura
principio informatore, per tutte le fattispecie di
annullamento d'ufficio, comprese quelle alla quali a stretto
rigore la norma non sarebbe applicabile
(tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
1. Con separati appelli il Comune di Dolzago ha
impugnato le sentenze rese del Tar Lombardia, Milano,
entrambe pubblicate il 07.08.2012, n. 2180 e n. 2182.
2. Le sentenze appellate, accogliendo i ricorsi
rispettivamente proposti da Fa.Sp. e Va.Sp. (sentenza n.
2180/2012) e da Se.Fu., Le Nu.Co. s.r.l., Br.Co. s.r.l. e
Ro.Co. (sentenza n. 2181/2012), hanno annullato il medesimo
provvedimento amministrativo: l’ordinanza, a firma del
responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Dolzago, n.
11, datata 21.04.2011, avente ad oggetto l’annullamento
della d.i.a. relativamente alle opere “riguardanti
l’innalzamento del tetto con modifica della sagoma e del
volume dell’edificio, come rappresentato nella d.i.a. prot.
n. 2066 del 05.03.2007 rispetto alla d.i.a. prot. n. 9640
del 10.12.2005” e l’ordine di demolizione “delle
opere che hanno comportato l’innalzamento del tetto ed il
conseguente incremento volumetrico del sottotetto, come
eseguite, abusivamente, in difformità ed in aggiunta a
quelle risultanti dalla d.i.a. prot. n. 9640 del 10.12.2005”.
...
6. Gli appelli non meritano accoglimento.
7. Giova evidenziare che il provvedimento impugnato si basa
sull’assunto secondo cui la d.i.a. prot. n. 2066/2007
conterrebbe una falsa dichiarazione nella misura in cui
quanto rappresentato nel progetto in variante sezione 3-3
(ove si indica l’altezza del sottotetto in m. 2,29) non
corrisponderebbe all’altezza effettiva del sottotetto. Ciò
in quanto, la misura di m. 2,29 sarebbe stata ottenuta
escludendo la computo il controsoffitto che, per contro,
secondo l’Amministrazione, avrebbe dovuto essere
necessariamente conteggiato.
Come correttamente e condivisibilmente evidenziato dal Tar,
tuttavia, la tavola allegata alla d.i.a. n. 2066/2007,
allorché raffigura l’altezza in sezione del sottotetto
escludendo dal computo lo spessore sottostante l’intradosso
di copertura, non pone in essere una falsa rappresentazione,
integrando, al più, una valutazione tecnica erronea.
Infatti, in base alla disciplina comunale (articolo 10 NTA
del P.R.G., cui fa riscontro l’articolo 8 delle stesse NTA
sul computo del volume edificabile), l’altezza degli edifici
si misura a partire dalla quota di terreno natura sino
all’intradosso del solaio di copertura. L’intradosso del
solaio di copertura, a sua volta, deve intendersi al netto
di extra-spessori non strutturali, sì da rimanere
indifferente alle opere interne realizzate in aderenza al
tetto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.05.2001, n. 3228).
Nel caso di specie, quindi, la rappresentazione grafica
allegata alla d.i.a. nella misura in cui esclude il
controsoffitto è contraria agli articoli 8 e 10 delle N.T.A.
citate, i quali stabiliscono la non computabilità nel
calcolo del volume complessivo degli spazi di sottotetto
soltanto quando l’altezza media ponderale di essi non superi
2,40 m.
8. L’errore tecnico in esame, inficiando la validità della
d.i.a., avrebbe consentito all’Amministrazione di
intervenire sul titolo, adottando un provvedimento
inibitorio/ripristinatorio o entro il termine di decadenza
previsto dall’art. 23, comma 6, d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
oppure, scaduto infruttuosamente tale termine, soltanto
ricorrendo le condizioni alle quali l’art. 21-nonies della
legge 07.08.1990, n. 241, subordina l’esercizio del potere
di autotutela.
Nel caso di specie, poiché il provvedimento
repressivo è stato adottato dopo la scadenza del termine
perentorio di cui all’art. 23, comma 6, d.P.R. n 380 del
2001, occorre verificare la sussistenza delle condizioni
previste dall’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990 per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.
9. L’art. 21-nonies cit. prevede che il
provvedimento amministrativo illegittimo può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo
previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l’esternazione
delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero
ripristino della legalità violata) sia la valutazione
motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo
edilizio. Nel caso in esame tale affidamento era, peraltro,
particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo
trascorso dall'adozione della d.i.a. annullata, risultando
trascorsi ben quattro anni dal suo consolidamento.
Va aggiunto sotto tale profilo che il
decreto-legge 12.09.2014, n. 133
(Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164, ha posto uno
sbarramento temporale all'esercizio del potere di
autotutela, rappresento da “diciotto mesi dal momento
dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici”.
Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis,
in ogni caso, come questo Consiglio di Stato ha già avuto
modo di evidenziare, rileva ai fini interpretativi e
ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
10. Alla luce delle considerazioni che precedono gli appelli
devono, pertanto, essere respinti
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 31.08.2016 n. 3762 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Annullamento in autotutela: il "criterio dei 18 mesi" introdotto dalla legge n. 124/2015 e il principio del "tempus regit actum”.
Nel
caso di rilascio di un permesso a costruire
fondato su una rappresentazione non veritiera
dello stato di fatto da parte del richiedente,
appare evidente la sussistenza di una
situazione permanente “contra ius”, nella quale la preminenza dell’interesse pubblico è tale per cui non occorre una specifica ed esplicita motivazione sull'interesse pubblico attuale e concreto, da contemperare con l’interesse privato, all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio del titolo edilizio.
L’interesse pubblico alla eliminazione
dell’atto illegittimo va individuato
nell'interesse della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica.
Invero, l'interesse pubblico all'eliminazione
dell'atto illegittimo è da considerarsi “in re
ipsa” “nelle ipotesi di intervento in
autotutela a fronte di una falsa, infedele,
erronea o comunque inesatta rappresentazione,
dolosa o colposa, della realtà da parte
dell'interessato, risultata rilevante o
decisiva ai fini dell'adozione del
provvedimento ampliativo inciso, essendo il
vizio infirmante quest'ultimo imputabile non
già all'autorità promanante, bensì al privato,
il quale non può, quindi, vantare il proprio
legittimo affidamento nella persistenza di un
beneficio ottenuto attraverso l'induzione in
errore dell'amministrazione.
---------------
Il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6 della l. n. 124 del 2015, non può trovare applicazione nella fattispecie in discussione
sulla base del principio "tempus regit actum", che riguarda un provvedimento adottato nel 2012. Semmai, può essere utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine -ragionevole- entro il quale la
Regione può annullare provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso, quale “parametro temporale” di legittimità e congruità dell’azione amministrativa di annullamento in via di autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito all’esercizio del potere comunale di autoannullamento in relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e annullato nel maggio del 2012. In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato richiedente, la circostanza che tra il rilascio del “permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento comunale di annullamento in via di autotutela siano trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado.
Il profilo di censura attinente alla omessa
analisi della possibilità di adottare atti
diversi dall’annullamento in via di autotutela
(ad esempio, la convalida), sembra poi
travalicare i limiti del controllo giudiziale
di legittimità demandato a questo giudice
amministrativo sconfinando nel merito delle
opzioni riservate all’autorità amministrativa. --------------- 6.4. Anche i motivi di appello sub V) e VI) sono infondati e vanno respinti. 6.4.1. Quanto al motivo dedotto sub V), imperniato essenzialmente su eccesso di potere per carenza di motivazione, omessa ponderazione degli interessi in gioco, esorbitanza del provvedimento di annullamento rispetto alle finalità sue proprie e tardività del disposto annullamento d’ufficio, anzitutto, come si è accennato sopra al p. 6.3., nel caso di rilascio di un permesso a costruire fondato su una rappresentazione non veritiera dello stato di fatto da parte del richiedente, appare evidente la sussistenza di una situazione permanente “contra ius”, nella quale la preminenza dell’interesse pubblico è tale per cui non occorre una specifica ed esplicita motivazione sull'interesse pubblico attuale e concreto, da contemperare con l’interesse privato, all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio del titolo edilizio.
L’interesse pubblico alla eliminazione dell’atto illegittimo va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica: conf., su fattispecie analoghe, riguardanti proprio annullamenti d’ufficio di concessioni edilizie, le sentenze Cons. Stato n. 3150 del 2012 e n. 6554 del 2004, alle quali si rinvia anche ai sensi degli articoli 74 e 88, comma 2, lett. d), del cod. proc. amm. . Bene quindi la sentenza impugnata: - ha richiamato la giurisprudenza per la quale l'interesse pubblico all'eliminazione dell'atto illegittimo è da considerarsi “in re ipsa” “nelle ipotesi di intervento in autotutela a fronte di una falsa, infedele, erronea o comunque inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell'interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini dell'adozione del provvedimento ampliativo inciso, essendo il vizio infirmante quest'ultimo imputabile non già all'autorità promanante, bensì al privato, il quale non può, quindi, vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'amministrazione…” (cfr. sent. appellata, p. 4.2.); e - ha rilevato che il Comune, “nel disporre l'avversato annullamento d'ufficio, ha espressamente evidenziato che il De Iu., con la richiesta di realizzazione del parcheggio pertinenziale pervenuta in data
06.06.2007, prot. n. 6367, che ha prodotto il rilascio del permesso di costruire commissariale del
02.10.2008, ha, tra l'altro, dichiarato 'libera' l'area interessata, producendo un'erronea rappresentazione dello stato di fatto preesistente al rilascio dell'atto autorizzativo edilizio"; stato dei luoghi contrassegnato, come si è detto, da ingenti opere di sbancamento e di fondazione già eseguite. A fronte di (dette opere), ha proseguito il Tar, “il ricorrente, nella domanda di permesso di costruire prot. n. 6367 del
06.06.2007, ha infedelmente o erroneamente rappresentato l'area di sedime come 'libera', così inducendo in errore l'amministrazione procedente circa la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 6, comma 2, della l.r. Campania n. 19/2001 ai fini dell'applicabilità del regime derogatorio in materia di parcheggi pertinenziali…”. Inoltre, il contestato annullamento in autotutela, intervenuto circa tre anni e otto mesi dopo l’avvenuto rilascio del permesso a costruire (anche se pare corretto ricordare che l’avviso di avvio del procedimento è stato comunicato al De Iu. alla fine del mese di marzo del 2012), a differenza di quanto ritiene l’appellante non può considerarsi tardivo. In primo luogo, il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6 della l. n. 124 del 2015, richiamato dal signor De Iu. nella memoria conclusiva, sulla base del principio “tempus regit actum”, non può trovare applicazione nella fattispecie in discussione, che riguarda un provvedimento adottato nel 2012. Semmai, come il Comune non manca di segnalare, può essere utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001 fissa in dieci anni il termine -ragionevole- entro il quale la
Regione può annullare provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso, quale “parametro temporale” di legittimità e congruità dell’azione amministrativa di annullamento in via di autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito all’esercizio del potere comunale di autoannullamento in relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e annullato nel maggio del 2012. In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale elemento orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato richiedente, la circostanza che tra il rilascio del “permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento comunale di annullamento in via di autotutela siano trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado (cfr., sulla ragionevolezza del tempo, di circa quattro anni –gennaio 2009/marzo 2005- entro il quale è stato disposto l’annullamento in autotutela di un permesso di costruire assentito in modo illegittimo, la già citata sentenza Cons. Stato, sez. IV, n. 3150 del 2012).
Il profilo di censura attinente alla omessa
analisi della possibilità di adottare atti
diversi dall’annullamento in via di autotutela
(ad esempio, la convalida), sembra poi
travalicare i limiti del controllo giudiziale
di legittimità demandato a questo giudice
amministrativo sconfinando nel merito delle
opzioni riservate all’autorità amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2016 n. 3403 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE
AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate,
febbraio 2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL FASCICOLO DEL FABBRICATO - Per una cultura della
prevenzione e della sicurezza integrata (Consiglio
Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali
Laureati,
Linee Guida 03 - 01.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA REDAZIONE DELLA DICHIARAZIONE DI RISPONDENZA - Ai
sensi del DM 37/2008 (Consiglio Nazionale dei Periti
Industriali e dei Periti Industriali Laureati,
Linee Guida 02 - 25.02.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Termoregolazione e contabilizzazione in ambito
condominiale - Progettazione ed esecuzione (Consiglio
Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali
Laureati,
Linee Guida 01 - luglio 2016). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
COMPETENZE PROGETTUALI:
COMPETENZE PROFESSIONALI – AFFIDAMENTO DEI LAVORI DI
COMPLETAMENTO DELLE OPERE DI URBANIZZAZIONE DEL PIANO DEGLI
INSEDIAMENTI PRODUTTIVI DEL COMUNE DI PUGLIANELLO -
PROGETTAZIONE DELLE OPERE VIARIE NON CONNESSE AI SINGOLI
FABBRICATI – SENTENZA TAR CAMPANIA, NAPOLI, 20.02.2017 N.
1023 – INCOMPETENZA DEGLI ARCHITETTI - COMPETENZA ESCLUSIVA
DELL’INGEGNERE - CONSIDERAZIONI
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 09.03.2017 n. 26).
---------------
Con la presente si trasmette in allegato l’importante
sentenza del TAR Campania, Napoli, I Sez., 20.02.2017 n.
1023, che ha riconosciuto –a proposito di una gara d’appalto
integrato– che in materia di progettazione delle opere
viarie non connesse ai singoli fabbricati vi è la competenza
esclusiva dell’Ingegnere, dichiarando la illegittimità in
parte qua del bando di gara che prevedeva l’obbligo di
associare “almeno un progettista architetto” per i
concorrenti privi della qualificazione SOA per la
progettazione delle classi e categorie indicate nel bando.
(...continua). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: Decreto Legislativo 01.08.2003, n. 259 (Codice
delle Comunicazioni Elettroniche) - Reti e servizi di
comunicazioni elettronica ad uso privato (Prefettura di
Pordenone,
nota 06.03.2017 n. 6104 di prot.). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: Competenze professionali degli Agrotecnici e
degli Agrotecnici laureati in materia di pianificazione,
progettazione, direzione lavori e consulenza nel settore
forestale (Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli
Agrotecnici Laureati,
nota 01.03.2017
n. 1105 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Applicazione disposizioni delibera n. 5 del
03.11.2016, recante criteri e requisiti per l'iscrizione
all'Albo, con procedura ordinaria , nelle categorie 1, 4 e 5
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali,
nota 24.02.2017 n. 229 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modulistica per la comunicazione dell’iscrizione
e rinnovo dell’iscrizione all’Albo con procedura
semplificata di cui all’articolo 16 del D.M. 03.06.2014, n.
120 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
Albo Nazionale Gestori Ambientali,
deliberazione 22.02.2017 n. 3). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modulistica per l’iscrizione all’Albo e
autocertificazione per il rinnovo dell’iscrizione all’Albo
con procedura ordinaria, nelle categorie 1, 4, 5, 8, 9 e 10
di cui all’articolo 8 del D.M. 03.06.2014, n. 120
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
Albo Nazionale Gestori Ambientali,
deliberazione 22.02.2017 n. 2 di prot.). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: Competenze professionali nelle attività di
pianificazione, progettazione, direzione lavori, valutazione
e della consulenza nel settore selvicolturale. Conferma
delle esclusive (Consiglio dell’Ordine Nazionale dei
Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali,
nota 16.02.2017 n. 734 di prot.). |
ENTI LOCALI:
OGGETTO: Esposizione delle bandiere all'interno degli
edifici pubblici (Prefettura di Avellino,
nota 02.02.2017 n. 3915 di prot.). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
M. A. Morelli e A. Di Gialluca,
L'accertamento delle prestazioni rese a titolo gratuito dal
professionista (Fondazione Nazionale dei
Commercialisti, 31.01.2017).
---------------
Sommario: Premessa. – 1. Il quadro normativo di
riferimento – 2. I precedenti giurisprudenziali – 2.1. La
giurisprudenza precedente alla sentenza della Cassazione n.
21972 del 2015 – 2.2. La sentenza della Corte di Cassazione
del 28.10.2015, n. 21972 – 2.3. La giurisprudenza successiva
alla sentenza della Cassazione n. 21972 del 2015 – 3.
Considerazioni conclusive. |
ENTI LOCALI - VARI:
OGGETTO: Decreto del Ministro dell'Interno 16.08.2016
recante "modificazioni agli articoli 1 e 3 del Capitolo VI
dell'Allegato B al regio decreto 06.05.1940, n. 635, in
materia di leggi di pubblica sicurezza" - Prodotti
pirotecnici (Prefettura di Avellino,
nota 08.11.2016 n. 27219 di prot.). |
ENTI LOCALI - VARI:
Oggetto: Pubblicazione del decreto del Ministero
dell'Interno 16.08.2016 recante "modificazioni agli articoli
1 e 3 del Capitolo VI dell'Allegato B al regio decreto
06.05.1940, n. 635, in materia di leggi di pubblica
sicurezza" (Ministero dell'Interno,
nota 14.10.2016 n. 557 di prot.). |
ENTI LOCALI - VARI:
Oggetto: Ordinanze emesse dai Sindaci ex art. 54 TUEL in
occasione dei festeggiamenti del 31.12.2015 e/o inserimento
dei Regolamenti Comunali di divieto permanente di accensione
fuochi d'artificio
(Sindacato Nazionale Operatori Pirotecnici,
nota ottobre 2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 14.03.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 28.02.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 09.03.2017 n. 41). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 11 del 13.03.2017, "Recupero
dei vani e locali seminterrati esistenti" (L.R.
10.03.2017 n. 7).
---------------
Si legga anche:
-
Consiglio Regionale approva nuove norme per il recupero di
vani e locali seminterrati (28.02.2017 -
link a www.lombardiaquotidiano.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 10.03.2017 n. 58 "Adeguamento delle soprintendenze
speciali agli standard internazionali in materia di musei e
luoghi della cultura, ai sensi dell’articolo 1, comma 432,
della legge 11.12.2016, n. 232, e dell’articolo 1, comma
327, della legge 28.12.2015, n. 208" (Ministero dei
Beni e delle Attività Culturali e del Turismo,
decreto 12.01.2017). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
G.U. 07.03.2017 n. 55 "Comportamenti e atti delle
pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 ostativi
all’allattamento (Direttiva n. 1/2017)" (Dipartimento
della Funzione Pubblica,
direttiva 03.02.2017 n. 1/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
G.U. 07.03.2017 n. 55 "Adozione dei criteri ambientali
minimi da inserire obbligatoriamente nei capitolati tecnici
delle gare d’appalto per l’esecuzione dei trattamenti
fitosanitari sulle o lungo le linee ferroviarie e sulle o
lungo le strade" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare,
decreto 15.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 06.03.2017 n. 54 "Disposizioni in materia di rifiuti
di prodotti da fumo e di rifiuti di piccolissime dimensioni"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del
Mare,
decreto 15.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 03.03.2017 n. 52 "Approvazione di norme tecniche di
prevenzione incendi per le attività di autorimessa"
(Ministero dell'Interno,
decreto 21.02.2017). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 02.03.2017, "Criteri
e modalità per la presentazione delle domande di
autorizzazione in deroga al regime proprio delle riserve
naturali, per la manutenzione e l’adeguamento funzionale e
tecnologico, nonché la realizzazione di opere di rilevante
interesse pubblico (art. 13, comma 7, l.r. 86/1983)" (deliberazione
G.R. 27.02.2017 n. 6278). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 9 dell'01.03.2017, "Rete
escursionistica della Lombardia" (L.R.
27.02.2017 n. 5). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 dell'01.03.2017, "Aggiornamento
delle disposizioni per l’efficienza energetica degli
edifici, approvate con d.g.r. n. 3868 del 17.07.2015, in
relazione alle modalità per calcolare il contributo delle
fonti rinnovabili mediante l’uso delle pompe di calore" (deliberazione
G.R. 27.02.2017 n. 6276). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI
LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 28.02.2017 n. 49, suppl. ord. n. 14/L, "Testo
del decreto-legge 30.12.2016, n. 244, coordinato con la
legge di conversione 27.02.2017, n. 19,
recante: «Proroga e definizione di termini»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI:
G.U. 28.02.2017 n. 49 "Testo
del decreto-legge 29.12.2016, n. 243, coordinato con la
legge di conversione 27.02.2017, n. 18,
recante: “Interventi urgenti per la coesione sociale e
territoriale, con particolare riferimento a situazioni
critiche in alcune aree del Mezzogiorno”. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 23.02.2017 n. 45 "Regolamento recante i criteri
operativi e le procedure autorizzative semplificate per il
compostaggio di comunità di rifiuti organici ai sensi
dell’articolo 180, comma 1-octies , del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152, così come introdotto dall’articolo 38
della legge 28.12.2015, n. 221" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 29.12.2016 n. 266). |
ENTI LOCALI:
G.U. 22.02.2017 n. 44, suppl. ord. n. 12, "Adozione delle
note metodologiche relative alla procedura di calcolo per la
determinazione dei fabbisogni standard ed il fabbisogno
standard per ciascun comune delle regioni a statuto
ordinario relativi alle funzioni di istruzione pubblica,
alle funzioni riguardanti la gestione del territorio e
dell’ambiente - servizio smaltimento rifiuti, alle funzioni
nel settore sociale - servizi di asili nido, alle funzioni
generali di amministrazione e controllo, alle funzioni di
polizia locale, alle funzioni di viabilità e territorio,
alle funzioni nel campo dei trasporti (trasporto pubblico
locale) ed alle funzioni nel settore sociale al netto dei
servizi di asili nido" (D.P.C.M.
29.12.2016). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Valutazione di impatto ambientale (VIA): approvato in
Consiglio dei Ministri il decreto di riforma.
Modificata l’attuale disciplina della verifica di
assoggettabilità a VIA e della stessa VIA in attuazione
della direttiva 2014/52/UE (13.03.2017 - link a
www.casaeclima.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dati patrimoniali dei dirigenti: il Tar Lazio dice stop alla
loro pubblicazione (12.03.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Lombardia: legge per il recupero dei vani e locali
seminterrati esistenti.
E' in attesa di pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della
Regione Lombardia la proposta di legge approvata dal
Consiglio Regionale nella seduta del 28.02.2017 e intitolata
"Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti"
(...continua) (11.03.2017 - link a http://studiospallino.blogspot.it). |
APPALTI:
L. Costanzo,
Il controllo del giudice amministrativo sull’informativa
antimafia (08.03.2017 - tratto da
www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1. Premessa. 2. L’evoluzione della
tutela delle situazioni soggettive da parte del giudice
amministrativo (osservazioni generali). 3. Le nuove cause di
esclusione dagli appalti pubblici (rilievi essenziali). 4.
L’informativa antimafia, le garanzie procedimentali ed il
giusto processo (un punto di osservazione privilegiato). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
N. Posteraro,
Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento
d’ufficio come potere doveroso (08.03.2017
- tratto da
www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Dal nuovo 21-nonies alla doverosità
dell’annullamento d’ufficio. 2. Sul dovere di provvedere a
fronte d’una richiesta di annullamento avanzata da un
amministrato. 3. L’annullamento doveroso a fronte d’una
raccomandazione vincolante: la generalizzazione del dovere
di provvedere dell’ANAC nel caso di sollecitazione dei suoi
poteri d’ordine. |
APPALTI:
R. Caponigro,
Il principio del
favor partecipationis e la tutela delle piccole e medie
imprese nell’affidamento degli appalti pubblici (08.03.2017
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: M.
Lipari,
La nuova tutela cautelare degli interessi
legittimi: il “rito appalti” e le esigenze imperative di
interesse generale
(08.03.2017 -
tratto da www.federalismi.it).
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SOMMARIO: 1. La nuova fisionomia dell’interesse legittimo
nel giudizio cautelare. Il declino della teoria delle
situazioni giuridiche soggettive e il consolidamento del
processo d’urgenza.
2. L’autonomia formale dell’interesse legittimo nel Codice
del processo amministrativo. Un sistema di tutela unitario
per diritti e interessi incentrato sulle azioni, piuttosto
che sulle situazioni giuridiche soggettive.
3. La rilevanza dinamica dell’interesse legittimo
nell’azione di annullamento.
4. L’autonomia concettuale dell’interesse legittimo e le
ragioni della speciale disciplina dell’azione risarcitoria:
termini di decadenza e principio di autoresponsabilità.
5. La tutela cautelare generale dell’interesse legittimo ha
esaurito, oggi, la sua “spinta propulsiva”? Il processo può
aggiungere nuovi elementi di caratterizzazione
dell’interesse legittimo? La “frammentazione” della tutela.
le norme speciali e la casistica giurisprudenziale. esiste
ancora un “sistema” cautelare unitario?
6. Il criterio dell’interesse pubblico quale fondamento e
limite della tutela cautelare. La “bilateralità” del
periculum: Il bilanciamento di valori e la natura
dell’interesse legittimo.
7. La tesi “negazionista” secondo cui il “bilanciamento” non
rileva: il codice non contempla, in generale, il criterio
autonomo dell’interesse pubblico. L’art. 55 CPA si
riferisce, unilateralmente, al solo pregiudizio grave e
irreparabile allegato dal ricorrente. La decisione delle
Sezioni Unite n. 11750 del 2004.
8. La ricerca della giustificazione sistematica della
valutazione cautelare dell’interesse pubblico e
dell’apprezzamento bilaterale del periculum. Un’indagine da
approfondire. Il principio di proporzionalità. Il
collegamento tra interesse pubblico e interesse legittimo.
9. L’irreversibilità degli effetti materiali e
dell’esecuzione della misura cautelare favorevole al
ricorrente come limite implicito della tutela. La disciplina
positiva della cauzione è indice del principio di
bilateralità del periculum.
10. I confini dell’onere della cauzione. La natura della
posizione giuridica tutelata; i diritti fondamentali e i
beni di “primario rilievo”. La rilevanza del principio di
effettività nella tutela cautelare.
11. La limitata tipizzazione giurisprudenziale dei casi di
prevalenza di interessi pubblici qualificati. Il caso
dell’urgenza e la problematica specifica del bilanciamento
cautelare. La riparabilità del pregiudizio del ricorrente
per equivalente.
12. Le ipotesi speciali e “codificate” di bilanciamento
della protezione cautelare con l’interesse pubblico. La
differenziazione dei riti e delle tutele: una nuova tendenza
dell’ordinamento? La regola dell’art. 119 CPA: il requisito
della estrema gravità ed urgenza.
13. La tutela cautelare nel rito appalti secondo
l’originaria versione del codice del processo amministrativo
(art. 120 CPA): la sospensione automatica della stipulazione
del contratto.
14. I limiti eccezionali alla tutela cautelare nelle
procedure per l’affidamento delle infrastrutture strategiche
(art. 125 CPA).
15. Le modifiche al rito appalti realizzate con il D.L. n.
90/2014. La cauzione e il superamento del requisito della
irreversibilità degli effetti della misura cautelare.
16. La limitazione temporale delle misure cautelari nel rito
appalti secondo il comma 8-bis dell’art. 120 del CPA,
introdotto dal DL n. 90/2014.
17. Il processo speciale in materia di provvedimenti di
conferimento di incarichi giudiziari direttivi: i limiti
alla ottemperanza sostitutiva e alla eseguibilità delle
pronunce non passate in giudicato. Una limitazione indiretta
della tutela cautelare.
18. La rilevanza esplicita dell’interesse pubblico nel
giudizio in materia di provvedimenti della Banca d’Italia
concernenti la risoluzione e il risanamento degli enti
creditizi. Le indicazioni del diritto europeo e la portata
innovativa della norma.
19. Le esigenze imperative di tutela della incolumità
pubblica nel decreto legge n. 133/2014. Regola eccezionale o
principio generale di prevalenza degli interessi pubblici
qualificati? Il coordinamento con la regola della
conservazione dell’efficacia del contratto già stipulato
anche in caso di accertate gravi violazioni.
20. Lo sfavore crescente verso la tutela cautelare in
presenza di interessi pubblici qualificati e la disciplina
positiva. La necessità della riconduzione della regola al
sistema.
21. La tutela cautelare speciale degli interessi legittimi
nel nuovo codice dei contratti pubblici n. 50/2016. Il comma
8-ter dell’art. 120 CPA e la sua portata sistematica. Il
Problema del rispetto della delega.
22. La giustificazione razionale e sistematica della
normativa: il favore per l’accelerazione del merito; la
realizzazione sollecita delle opere pubbliche.
23. I dubbi di legittimità e di opportunità della disciplina
di cui al comma 8-ter. Una lettura restrittiva e “minimale”
della nuova disciplina. Il necessario coordinamento con i
principi di effettività della tutela europei e nazionali.
24. I punti critici della nuova disciplina. Il giudizio
prognostico sulla sorte del contratto compiuto nella fase
cautelare. L’opportunità di verificare le conseguenze della
pronuncia sul successivo sviluppo del rapporto. I concreti
problemi applicativi della delibazione.
25. Il contenuto delle “esigenze imperative” rilevanti ai
fini della decisione cautelare: una nozione ristretta,
coerente con le regole del diritto europeo.
26. L’interesse generale all’esecuzione del contratto quale
limite della tutela cautelare. e la sua razionale
delimitazione. La necessaria individuazione di una specifica
esigenza qualificata e tipizzata di interesse pubblico.
27. La rilevanza delle esigenze imperative connesse alla
esecuzione delle prestazioni contrattuali nelle ipotesi di
violazioni “non gravi” di cui all’art. 122 del CPA: una
reale innovazione?
28. L’accertamento della prevalenza di esigenze imperative
che impediscono l’accoglimento della domanda cautelare: gli
oneri di allegazione e prova delle parti e i poteri del
giudice.
29. La tutela cautelare nel rito superspeciale in materia di
ammissioni ed esclusioni di cui ai commi 2-bis e 6-bis
dell’art. 120 CPA. ulteriori aspetti problematici: la
compatibilità delle norme acceleratorie con il giudizio
cautelare.
30. La sorte dell’art. 125 del CPA e della normativa
speciale riguardante gli affidamenti dei contratti per la
pubblica incolumità. La necessità di un coordinamento
espresso. La persistente vigenza delle regole.
31. Conclusioni. La rilevanza dell’interesse legittimo in
trasformazione e la problematica espansione dell’interesse
pubblico: verso una limitazione della tutela? |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenza pubblica: superato il congelamento disposto dalla
legge 208/2015. Erroneo il parere 23/2017 della Sezione
Emilia Romagna (07.03.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenza pubblica. A cosa servono davvero gli incarichi a
contratto a dirigenti di fiducia? (05.03.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
M. Nico,
L’ESERCIZIO DEL POTERE DI AUTOTUTELA NON ESIME L’ENTE
DALL’OBBLIGO DI COMUNICAZIONE DELL’AVVIO DI PROCEDIMENTO
(03.03.2017 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Corrado,
Il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di accesso
civico generalizzato: quale possibile tutela processuale
(01.03.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. L’accesso generalizzato e la
disciplina introdotta dal d.lgs. 97/2013. 2. Il diritto a
conoscere e la tutela degli interessi previsti dal
legislatore. 3. Il ruolo delle amministrazioni in materia di
disclosure. 4. La novella al codice del processo
amministrativo in tema di trasparenza e accesso civico (c.p.a.).
5. Inerzia della P.A.: quale azione a favore del
richiedente. |
APPALTI -
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI
LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO:
In Gazzetta Ufficiale la legge Milleproroghe 2017.
Slittamento al 30.06.2017 per la termoregolazione
condominiale, proroga del Sistri e degli adempimenti
antincendio, rinvio al 31.12.2017 dell'aumento delle
rinnovabili termiche negli edifici, reintrodotto per il 2017
il taglio Iva al 50% per case ad alta efficienza energetica
(01.03.2017 -
link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia, è legge il recupero dei seminterrati per uso
abitativo, commerciale o terziario.
Colombo Clerici (Assoedilizia): “Si amplia l’offerta di
funzioni e non si consuma nuovo suolo. Calcoliamo che, nel
tempo, potranno prevedersi circa 40 mila interventi ai sensi
di questa legge” (01.03.2017 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI:
Appalti: quando il Simog si aggiornerà al d.lgs. 50/2016?
(27.02.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Reintegra dei dipendenti pubblici licenziati: non chiamatelo
conferma dell’articolo 18 (26.02.2017 -
link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Capo di Gabinetto di Roma, davvero la Corte dei conti ha
“smentito” l’Anac? (26.02.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI -
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI
LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Milleproroghe 2017 è legge: tutti i rinvii punto per
punto.
Slittamento al 30.06.2017 per la termoregolazione
condominiale, proroga del Sistri e degli adempimenti
antincendio, rinvio al 31.12.2017 dell'aumento delle
rinnovabili termiche negli edifici, reintrodotto per il 2017
il taglio Iva al 50% per case ad alta efficienza energetica
(23.02.2017 - link a www.casaeclima.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Produttività del lavoro pubblico: le solite ricette fuori
mira dei “super esperti” (19.02.2017 -
link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamenti, non serve la velocità ma la certezza dei
tempi (18.02.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assenteisti e stakanovisti. La deriva della stampa che si
occupa di PA (18.02.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Anticorruzione: più le responsabilità formali per i
funzionari che l'efficacia nella lotta al malaffare
(05.02.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni: il ginepraio delle regole da rispettare
(05.02.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Adempiere o funzionare? (01.02.2017 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Il nuovo codice dei contratti regala un nuovo contenzioso
sulla competenza a gestire le gare (30.01.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarichi ad avvocati: sono appalti di servizio perfino le
consulenze (18.01.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Codice contratti: la lunga strada verso la stipulazione
(14.01.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Attestazioni OIV, o strutture con funzioni analoghe,
sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione al
31.03.2017 e attività di vigilanza dell’Autorità:
●
comunicato del Presidente 01.03.2017
●
delibera 01.03.2017 n. 236
(link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in
materia di contratti pubblici (regolamento
15.02.2017 - link a www.anticorruzione.it).
----------------
Nuovo Regolamento di vigilanza sui
contratti pubblici.
Fra le novità, raccomandazioni vincolanti per inadempienze
gravi e segnalazioni positive per buone prassi delle
stazioni appaltanti.
A seguito dei nuovi poteri affidati all’Anac dalla riforma
del Codice degli appalti, l’Autorità ha proceduto a una
revisione generale del Regolamento sull’esercizio
dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici.
Approvato il 15 febbraio scorso, l’atto entrerà in vigore il
giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale e mira a consentire un intervento tempestivo su
questioni attinenti alla tutela della trasparenza, della
concorrenza e della legittimità delle procedure di gara.
Fra le novità più significative rispetto al precedente
Regolamento, tutte dettagliatamente descritte nella
relazione che lo accompagna, va segnalata la cosiddetta
“raccomandazione vincolante”. Nei casi in cui l’istruttoria
non viene archiviata, oppure se la stazione appaltante non
si adegua alle indicazioni dell’Anac, possono essere infatti
adottati quattro tipi di provvedimenti a conclusione del
procedimento di vigilanza (art. 12): un atto dirigenziale in
caso di procedimento in forma semplificata; un atto con cui
l’Autorità registra che la stazione appaltante ha adottato
buone pratiche amministrative meritevoli di essere
segnalate; un atto di raccomandazione oppure una
raccomandazione vincolante. Quest’ultima tipologia è
adottata per le violazioni più gravi, che possono andare dai
frazionamenti artificiosi agli affidamenti senza previa
pubblicazione del bando in Gazzetta ufficiale.
A seguito di una raccomandazione vincolante (art. 22) l’Anac
invita la stazione appaltante ad agire in autotutela
annullando gli atti della procedura di gara affetti da vizi
di legittimità e a rimuovere gli eventuali effetti. Se entro
15 giorni la stazione appaltante non si adegua o non
risponde alle richieste di informazioni, l’Autorità avvia un
procedimento sanzionatorio. |
APPALTI:
Linee guida n. 7, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50 recanti «Linee Guida per l’iscrizione nell’Elenco
delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti
aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei
confronti di proprie società in house previsto dall’art. 192
del d.lgs. 50/2016» (determinazione
15.02.2017 n. 235 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Oggetto: presupposti di ammissibilità e modalità di
presentazione delle istanze per il rilascio del parere sulla
congruità del prezzo, ai sensi dell’art. 163 del d.l.gs. n.
50/2016 (comunicato
del Presidente 15.02.2017 - link a
www.anticorruzione.it) |
APPALTI: Anac,
così i compensi.
Fissati dall'Autorità nazionale anticorruzione gli importi
dovuti per assicurarne il funzionamento da stazioni
appaltanti, organismi di attestazione etc.
A provvedervi è la
delibera 21.12.2016 n. 1377
di «Attuazione
dell'articolo 1, commi 65 e 67, della legge 23.12.2005, n. 266, per l'anno 2017», pubblicata ieri sulla
Gazzetta Ufficiale n. 43.
Per fare un esempio, per appalti
oltre i 20 milioni di euro le stazioni appaltanti sono
tenute a pagare 500 euro all'Anac, appena 30 tra 40 e 150
mila.
Le società organismo di attestazione sono invece tenute a
versare a favore dell'Autorità un contributo pari al 2% dei
ricavi risultanti dal bilancio relativo all'ultimo esercizio
finanziario
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2017). |
APPALTI:
Attuazione dell’art. 1, commi 65 e 67, della legge
23.12.2005, n. 266, per l’anno 2017 (delibera
21.12.2016 n. 1377 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Contributi in sede di gara.
In Gazzetta Ufficiale i contributi dovuti da stazioni
appaltanti, operatori economici e SOA.
Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 43 del 21.02.2017
la delibera dell’Autorità, già in vigore dal 01.01.2017, con
le quali sono fissati i termini e le modalità dei versamenti
dovuti da stazioni appaltanti, operatori economici e Società
Organismi di Attestazione per la partecipazione alle gare
pubbliche. |
QUESITI & PARERI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La mobilità volontaria.
DOMANDA:
Il Comune "A" ha portato a termine una procedura
concorsuale. Il vincitore di concorso partecipa ad un bando
di mobilità volontaria, con il parere favorevole
dell'amministrazione che lo ha assunto e presso la quale sta
prestando il periodo di prova.
Si chiede di conoscere: 1) Può una amministrazione
rilasciare un parere favorevole alla mobilità volontaria
durante il periodo di prova? 2) Il posto che si rende
vacante presso il comune "A" a seguito di mobilità
volontaria, può essere ricoperto assumendo il secondo
classificato? 3) Se il neo vincitore di concorso presso il
comune "A" dovesse vincere un nuovo concorso presso altro
comune, ugualmente a quanto richiesto sopra, il posto reso
vacante può essere ricoperto assumendo il secondo
classificato?
RISPOSTA:
In ordine ai quesiti posti si osserva quanto segue. Il
periodo di prova non costituisce un ostacolo alla mobilità.
A tal proposito l’ARAN precisa che il dipendente in prova è
comunque un dipendente a tempo indeterminato, anche se la
stabilizzazione del suo rapporto è condizionata al
superamento del periodo di prova, ed ha gli stessi diritti e
doveri degli altri dipendenti, salvo quanto espressamente
dall’art. 14-bis del CCNL del 06/07/1995 (RAL 418)
Trattandosi di cessione di contratto, semplicemente, il
dipendente trasferito, dovrà terminare il periodo di prova
presso il nuovo ente.
Quanto alla possibilità di sostituire mediante scorrimento
della graduatoria, il dipendente in prova transitato presso
altro ente a seguito di mobilità o (si presume) di
dimissioni in quanto vincitore di concorso, si evidenzia
innanzitutto che la soluzione del quesito è complessa e non
del tutto pacifica. La questione oggetto del parere,
infatti, intreccia la tematica della capacità assunzionale
-che nel nostro sistema è legata alle cessazioni intervenute
nell'ente nell'anno precedente- e quella del periodo di
prova, istituto che consente ad entrambe le parti di
recedere senza obbligo del preavviso o di pagare la relativa
indennità sostitutiva (decorsa la metà della sua durata).
Artt. 14-bis del CCNL del 06.07.1995 e 2096 del C.C.
In estrema sintesi, per valutare la possibilità di procedere
all’immediata sostituzione del neo assunto, è necessario
verificare se il periodo di prova incida sul rapporto che
ordinariamente sussiste tra mobilità/dimissioni e computo
delle cessazioni ai fini della capacità assunzionale. A tal
fine, è importante ribadire quanto già accennato: durante il
periodo di prova il rapporto di lavoro, sebbene già
perfezionatosi con l’immissione in servizio del dipendente,
non può considerarsi consolidato, restando la sua
stabilizzazione condizionata alla positiva conclusione del
periodo stesso.
Ciò premesso, è necessario distinguere tra le due ipotesi
individuate nel quesito:
- Mobilità. Secondo la regola generale, se interviene (come di
regola) tra enti soggetti a limitazioni alle assunzioni, non
costituisce assunzione né cessazione ai fini della
determinazione della capacità assunzionale (così detta,
mobilità neutra).
Pertanto, il trasferimento di un dipendente per mobilità non
consuma la capacità dell’ente ricevente, né la produce per
quello cedente. Questa ricostruzione resta valida anche nel
caso di mobilità del neo assunto in quanto anche in tal caso
il rapporto di lavoro, ed il periodo di prova, non viene
meno, ma prosegue presso altro ente. Ne consegue che, in
caso di mobilità, l'ente non potrà procedere allo
scorrimento di graduatoria se non attingendo ad ulteriore
capacità assunzionale, proprio in quanto il trasferimento in
mobilità non determina cessazione (v. nota circolare UPPA n.
1786 del 22/02/2011 - paragrafo 10);
- le dimissioni del lavoratore, di regola, determinano invece una
vera e propria cessazione che genera capacità assunzionale "spendibile",
però, solo nell'anno successivo. Secondo lo schema
ordinario, dunque, l’ente non potrebbe scorrere la
graduatoria nell’'immediato, ma solo nell'anno successivo (e
solo se risulterà sufficiente la capacità “residua”
di cui disporrà, non potendo recuperare il budget
originariamente utilizzato per l’assunzione del
dimissionario). In tal senso, ad es., la non recentissima
Corte Conti Lombardia n. 314/2011. Aderendo all'orientamento
prevalente, tuttavia, si ritiene che in caso di periodo di
prova lo schema descritto non sia applicabile e che,
pertanto, sia possibile l'immediata sostituzione del
dimissionario.
Infatti, come espresso con chiarezza nella citata nota
circolare UPPA n. 1786 del 22/02/2011, le eventuali
dimissioni o cessazioni dal servizio del neo assunto, che
intervengano prima della conclusione del suo periodo di
prova… consentono il riutilizzo delle risorse che hanno
finanziato la relativa assunzione mediante scorrimento della
stessa graduatoria, se vi sono idonei, oppure ricorrendo ad
altra graduatoria in assenza di idonei.
E’ evidente che in questo caso la fattispecie sopra
descritta non potrà essere annoverata tra le cessazioni che
contribuiranno a determinare il budget assunzionale per
l’anno successivo. Tale conclusione si fonda sulla
considerazione che, come visto, il periodo di prova è
istituto posto a tutela di entrambe le parti contraenti e
che, pertanto, il recesso dell'amministrazione e quello del
dipendente devono essere posti sullo stesso piano.
In altre parole anche in caso di dimissioni, come
pacificamente ammesso in caso di mancato superamento della
prova (e analogamente alla mancata presa di servizio), si
determina l’incompletezza della procedura di reclutamento
del pubblico impiegato, tale da evitare il verificarsi di
una cessazione (Corte Conti Lombardia n. 314/2011).
Di conseguenza, la capacità assunzionale originariamente
impiegata per l'assunzione del neo assunto non viene “consumata”
e può così essere riutilizzata. D'altronde, diversamente
opinando si determinerebbe l’incongrua situazione di
consentire all'Amministrazione la sostituzione del neo
assunto dimissionario solo nel caso in cui decida di negare
il superamento della prova.
Infine, per completezza si rammenta che resta in ogni caso
ferma la possibilità di sostituire il dipendente neo assunto
dimissionario mediate mobilità neutra (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La capacità assunzionale dell'ente.
DOMANDA:
Presso questo Ente è cessato a metà dello scorso anno (per
collocamento a riposo) un dipendente che era assegnato ad un
servizio successivamente oggetto di esternalizzazione.
Nel calcolare la spesa del personale, a partire dal 2016, il
costo annuo di quel dipendente viene computato ai fini della
verifica del rispetto del limite (media del triennio
2011-2013) di cui all'art. 1, comma 557 e 557-quater, della
l. 296/2006.
Si chiede se, tenuto conto di quanto dianzi esposto, è
corretto considerare nell'anno 2017 –ai fini del calcolo
della capacità assunzionale ex comma 228 dell’art. 1 della
l. 208/2015– anche la spesa per il dipendente (di cui sopra)
cessato lo scorso anno.
RISPOSTA:
La capacità assunzionale dell'anno è effettivamente data da
una quota del risparmio prodotto dalle cessazioni
intervenute nell'anno precedente. Tuttavia non tutte le
cessazioni sono computabili ai fini del calcolo del budget
assunzionale. Non lo sono ad es. le mobilità in uscita tra
enti soggetti a limitazioni assunzionali (cd mobilità
neutre) o quelle di personale disabile nella quota
d’obbligo. Allo stesso modo si ritiene che non debba
considerarsi cessato il personale trasferito ai sensi
dell'articolo 31 del D.Lgs. 165/2001 in caso di
esternalizzazione del servizio.
Lo stesso decreto legislativo, infatti, agli artt. 6-bis,
comma 2, e 6, comma 3, impone il congelamento (nelle more) e
la definitiva riduzione (ad operazione conclusa) dei
corrispondenti posti in dotazione organica, proprio per
evitare vacanze che possano essere coperte mediante nuove
assunzioni. Diversamente si vanificherebbe lo scopo della
norma diretta ad ottenere risparmi di spesa a fronte
dell'esternalizzazione del servizio e della conseguente
riduzione del fabbisogno complessivo di personale dell'ente.
Dunque, è lo stesso D.Lgs. 165/2001 che evidenzia la
relazione "negativa" tra esternalizzazione, nuove
assunzioni e, quindi, capacità assunzionale. Nel caso
prospettato nel quesito, tuttavia, l'esternalizzazione è
intervenuta solo successivamente al collocamento a riposo
del dipendente che ha cessato la propria attività lavorativa
nell’ente per pensionamento, e non per trasferimento al
nuovo soggetto gestore della funzione esternalizzata. In
altre parole, la cessazione del dipendente non si configura
quale effetto diretto della cessione dell’attività da parte
del comune richiedente (potrebbe, semmai, averla causata).
Pertanto, pur con qualche incertezza e fermo restando la
necessità di provvedere alla riduzione della dotazione
organica del numero di posti esternalizzati, si ritiene che
la cessazione in tal caso possa essere computata ai fini
della determinazione del budget assunzionale 2017,
ovviamente finalizzandola a coprire posti vacanti presenti
in altri servizi dell’ente.
In riferimento alla formulazione del quesito si ritiene
utile fornire due ulteriori precisazioni:
- si ricorda che la capacità assunzionale è data da una percentuale
-25% o 75% per gli enti con popolazione inferiore a 10.000
abitanti e basso rapporto dipendenti/ abitanti- non della
spesa effettivamente sostenuta per la retribuzione del
cessato, ma del risparmio “virtuale” (Corte Conti
Autonomie 28/2015 e circolare della Funzione Pubblica n.
46078/2010), calcolato su base annua in considerazione del
trattamento fondamentale e -in presenza di una disciplina
vincolistica sul fondo incentivante- da una quota media di
salario accessorio (per l'operatività dei limiti del comma
236 della legge di stabilità 2016 anche nel 2017, vedi la
recente Corte Conti Puglia 6/2017);
- per ciò che attiene al computo del costo annuo relativo al
dipendente cessato nella spesa di personale del 2016 ai fini
del rispetto del tetto massimo (art. 1, comma 557, della
legge finanziaria 2007 come modificata dal DL 90/2014), si
evidenzia che la Corte dei Conti impone di calcolare solo la
spesa effettivamente sostenuta -e più precisamente la spesa
impegnata quale risulta a rendiconto- senza possibilità di
conteggiare anche spese virtuali (principio di effettività.
Corte conti Autonomie delibera 27/2013. Confr. anche Corte
Conti Piemonte delibera 98/2014 con riferimento ad un caso
di esternalizzazione). Si raccomanda pertanto di calcolare a
tale fine i soli ratei di retribuzione effettivamente
corrisposti (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI:
DPR 05.10.2010, n. 207, art. 4, comma 3. Intervento
sostitutivo della stazione appaltante in caso di
inadempienza contributiva di esecutore o subappaltatore.
L'art. 4, comma 3, del DPR 207/2010
dispone che sugli importi netti progressivi delle
prestazioni la stazione appaltante deve operare una ritenuta
dello 0,50 per cento, a garanzia dell'osservanza, da parte
del datore di lavoro, della disciplina lavoristica e delle
norme in materia di contribuzione previdenziale e
assistenziale. La somma accantonata può essere svincolata
solo in sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione del
certificato di collaudo o della verifica di conformità, una
volta accertata la regolarità contributiva
dell'esecutore/subappaltatore.
Il Comune chiede un parere con riferimento all'obbligo di
operare la ritenuta dello 0,50 per cento, prevista dall'art.
4, comma 3, del dPR 05.10.2010, n. 207, sull'importo
corrisposto mensilmente al soggetto che gestisce il servizio
di refezione scolastica.
L'Ente, nel lamentare la laboriosità della procedura, sia
per la ditta, che deve scorporare tale percentuale prima di
emettere le fatture, che per il comune, il quale può
svincolare le somme accantonate soltanto a conclusione del
contratto, chiede se sia possibile evitare tale adempimento
e, in caso affermativo, ai sensi di quale normativa.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale, si esprimono le seguenti osservazioni.
L'art. 4, comma 3, del dPR 207/2010, ora abrogato, stabiliva
che 'In ogni caso sull'importo netto progressivo delle
prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le
ritenute possono essere svincolate soltanto in sede di
liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte della
stazione appaltante del certificato di collaudo o di
verifica di conformità, previo rilascio del documento unico
di regolarità contributiva.'
Questo Servizio, in passato, ha già avuto modo di
soffermarsi sulla natura dell'istituto in parola in una
serie di pareri [1],
le cui considerazioni si possono ritenere ancora valide per
tutti i contratti sottoscritti secondo le norme del d.lgs.
163/2006. Infatti, sebbene la norma in questione sia stata
abrogata per effetto dell'entrata in vigore del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, recante la nuova disciplina
in materia di appalti pubblici [2],
pare opportuno ricordare che, ai sensi dell'art. 216, comma
1, del d.lgs. 50/2016, per le procedure e i contratti
conclusi prima del 20.04.2016 continuano ad applicarsi le
disposizioni di cui al codice previgente.
Sull'obbligatorietà di questo istituto non pare vi siano
dubbi, sia per la formulazione letterale del comma 3 ('In
ogni caso'), sia per i chiarimenti forniti dal Ministero
del lavoro e delle politiche sociali [3]
e dall'INPS [4].
Né risulta che siano intervenute norme atte a sospendere o
modificare le modalità di attivazione di tale procedura.
Peraltro, si osserva che anche il nuovo Codice, all'art. 30,
comma 5, pur nel modificare in alcune parti la disciplina
dell'intervento sostitutivo della stazione appaltante in
caso di inadempienza contributiva, conserva la previsione
relativa alla ritenuta qui in trattazione. L'ultimo periodo
del comma recita infatti: 'Sull'importo netto progressivo
delle prestazioni è operata una ritenuta dello 0,50 per
cento; le ritenute possono essere svincolate soltanto in
sede di liquidazione finale, dopo l'approvazione da parte
della stazione appaltante del certificato di collaudo o di
verifica di conformità, previo rilascio del documento unico
di regolarità contributiva.' Un tanto a confermare la
necessità di applicare detta ritenuta anche nei contratti
sottoscritti ai sensi della nuova normativa in materia di
appalti.
---------------
[1] Si vadano i pareri prot. n. 7916 del 14.03.2014, n.
22351 del 24.07.2013, n. 27828 del 30.08.2012, n. 22950 del
03.07.2012, n. 11525 del 28.03.2012, reperibili sul Portale
delle autonomie locali all'indirizzo http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[2] Cfr. in particolare l'art. 217, comma 1, lett. u), punto
2), relativo all'abrogazione, tra le altre, della parte I
del dPR 207/2010, con effetto dalla data di entrata in
vigore del nuovo codice.
[3] Circolare n. 3 del 16.02.2012.
[4] Circolare n. 54 del 13.04.2012 (23.02.2017 -
link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso civico generalizzato.
1) L'accesso civico generalizzato va tenuto
distinto da quello documentale di cui alla legge 241/1990
essendone diversi i presupposti e l'ambito applicativo.
2) Da un punto di vista di logica giuridica sostanziale pare non si
possa dare seguito ad una richiesta di accesso agli atti,
formulata ai sensi del D.Lgs. 33/2013, in ordine ai medesimi
documenti per i quali la stessa è stata negata, nei
confronti dello stesso soggetto, ai sensi della legge
241/1990.
Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso
civico generalizzato. In particolare, riferisce che a
seguito dell'avvenuto diniego da parte della Pubblica
Amministrazione ad una richiesta di accesso agli atti
formulata da un privato, ai sensi della legge 07.08.1990, n.
241, [1]
per assenza dell'interesse qualificato richiesto dalla
normativa medesima, [2]
lo stesso ha ripresentato analoga domanda di accesso ma
sulla base della normativa di cui al decreto legislativo
14.03.2013, n. 33. [3]
Nello specifico, l'istanza avrebbe ad oggetto le concessioni
edilizie e le pratiche edilizie risalenti agli anni '90 di
un immobile confinante con quello di proprietà del
richiedente l'accesso. L'Ente desidera sapere se la
richiesta di accesso civico generalizzato soggiaccia o meno
ai principi dell'accesso documentale di cui alla legge
241/1990 e se la normativa di cui al D.Lgs. 33/2013 in tema
di accesso civico si applichi anche con riferimento a
istanze aventi ad oggetto documentazione risalente agli anni
'90, relative, dunque, a situazioni giuridiche ormai
consolidatesi con carattere definitivo.
L'articolo 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013, come modificato
dall'articolo 6 del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97
[4]
prevede che: 'Allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di
accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto
dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente
rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis'.
Con delibera del 28.12.2016, n. 1309 l'Autorità nazionale
anticorruzione ha emanato le 'Linee guida recanti
indicazioni operative ai fini della definizione delle
esclusioni e dei limiti all'accesso civico di cui all'art.
5, comma 2, del decreto legislativo n. 33/2013' le
quali, dopo aver chiarito il distinguo concettuale e
terminologico tra accesso civico 'semplice' e accesso
'generalizzato' [5]
affrontano, in un paragrafo specifico [6]
la questione della distinzione fra accesso generalizzato e
accesso agli atti ex legge 241/1990.
In tale sede si afferma che 'l'accesso generalizzato deve
essere anche tenuto distinto dalla disciplina dell'accesso
ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e
seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 (d'ora in poi
«accesso documentale»). La finalità dell'accesso documentale
ex legge n. 241/1990 è, in effetti, ben differente da quella
sottesa all'accesso generalizzato ed è quella di porre i
soggetti interessati in grado di esercitare al meglio le
facoltà -partecipative e/o oppositive e difensive- che
l'ordinamento attribuisce loro a tutela delle posizioni
giuridiche qualificate di cui sono titolari. [...]
Mentre la legge n. 241/1990 esclude, inoltre,
perentoriamente l'utilizzo del diritto di accesso ivi
disciplinato al fine di sottoporre l'amministrazione a un
controllo generalizzato, il diritto di accesso
generalizzato, oltre che quello «semplice», è riconosciuto
proprio «allo scopo di favorire forme diffuse di controllo
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico».
Dunque, l'accesso agli atti di cui alla legge n. 241/1990
continua certamente a sussistere, ma parallelamente
all'accesso civico (generalizzato e non), operando sulla
base di norme e presupposti diversi.
Tenere ben distinte le due fattispecie è essenziale per
calibrare i diversi interessi in gioco allorché si renda
necessario un bilanciamento caso per caso tra tali
interessi. Tale bilanciamento è, infatti, ben diverso nel
caso dell'accesso 241 dove la tutela può consentire un
accesso più in profondità a dati pertinenti e nel caso
dell'accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo
diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in
profondità (se del caso, in relazione all'operatività dei
limiti) ma più esteso, avendo presente che l'accesso in
questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e
diffusione) di dati, documenti e informazioni.
In sostanza, come già evidenziato, essendo l'ordinamento
ormai decisamente improntato ad una netta preferenza per la
trasparenza dell'attività amministrativa, la conoscibilità
generalizzata degli atti diviene la regola, temperata solo
dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi
(pubblici e privati) che possono essere lesi/pregiudicati
dalla rivelazione di certe informazioni.
Vi saranno dunque ipotesi residuali in cui sarà possibile,
ove titolari di una situazione giuridica qualificata,
accedere ad atti e documenti per i quali è invece negato
l'accesso generalizzato.
[...]'.
In via preliminare, necessita evidenziare che data la
recente entrata in vigore delle summenzionate linee guida
non è dato, ad oggi, riscontrare la presenza di pronunce
giurisprudenziali o di delucidazioni ulteriori anche da
parte dell'ANAC sulla questione in oggetto: in particolare,
benché la portata delle delibera 1309/2016 paia estendere in
maniera considerevole l'ambito di applicazione dell'accesso
civico generalizzato, pur tuttavia solo la prassi potrà
dimostrare come, nella realtà, verrà effettivamente
calibrato il rapporto tra il diritto di accesso di cui al
D.lgs. 33/2013 e quello di cui alla legge 241/1990 e, più in
generale, delimitare i confini, in maniera più o meno ampia,
del diritto di accesso generalizzato.
Nell'intento, comunque, di fornire indicazioni che possano
risultare di utilità al Comune, si formulano di seguito una
serie di considerazioni giuridiche generali che si ritiene
possano orientare lo stesso nella decisione da assumere
circa il caso concreto in esame.
A favore dell'ampiezza che parrebbe essere riconosciuta al
diritto di accesso civico generalizzato militano le
espressioni contenute nella delibera 1309/2016 laddove si
afferma che 'la conoscibilità generalizzata degli atti
diviene la regola, temperata solo dalla previsione di
eccezioni poste a tutela di interessi (pubblici e privati)
che possono essere lesi/pregiudicati dalla rivelazione di
certe informazioni'. Si consideri, al riguardo, che i
limiti che possono circoscrivere il libero esplicarsi del
diritto di accesso civico generalizzato sono quelli di cui
all'articolo 5-bis del D.Lgs. 33/2013, nel cui alveo non
pare potersi ricondurre la fattispecie in esame.
In particolare, e per rispondere al primo quesito posto, non
si ritiene possibile affermare che la richiesta di accesso
civico generalizzato soggiaccia ai principi dell'accesso
documentale di cui alla legge 241/1990, in particolare
quanto al fatto che sia necessario sussista un interesse
qualificato all'accesso. All'opposto, come chiarito in
diverse occasioni, [7]
il diritto di accesso civico si caratterizza, tra l'altro,
proprio per il fatto di consentire l'accesso a chiunque e
senza obbligo di motivazione a sostegno dell'istanza
avanzata (articolo 5, commi 2 e 3, D.Lgs. 33/2013).
Tuttavia, e con riferimento precipuo al caso in esame, pare
non ammissibile, da un punto di vista di logica giuridica
sostanziale, ritenere che si possa dare seguito ad una
richiesta di accesso agli atti, formulata ai sensi del
D.Lgs. 33/2013, in ordine ai medesimi documenti per i quali
la stessa è stata negata, per di più nei confronti dello
stesso soggetto, ai sensi della legge 241/1990.
Un tale comportamento parrebbe, infatti, contrastare con il
principio di ragionevolezza cui è improntato il nostro
ordinamento giuridico: infatti, se il diniego si è avuto per
assenza di interesse, pare non sorretto da alcuna logica
giuridica ritenere che la Pubblica Amministrazione sia
tenuta a concedere quella medesima documentazione solo
perché richiestagli in forza di una diversa norma giuridica
che non presenta tra i requisiti di valutazione quello
consistente nel possedere una situazione particolarmente
qualificata.
Piuttosto, parrebbe che il distinguo tra le due forme di
accesso risieda nella diversità di documentazione che può
soggiacere all'una istanza piuttosto che all'altra. Come
affermato nelle linee guida, l'ostensione ex D.Lgs. 33/2013
pare dover riguardare documentazione di natura più ampia,
non riferentesi a situazioni specifiche e dettagliate per le
quali invece sono richiesti i requisiti di cui alla legge
241/1990.
A ciò si aggiunga che ben potrebbe accadere nella prassi che
si verifichino richieste di ostensione di documenti senza
indicazione specifica, da parte del richiedente, della
normativa di riferimento: in tale caso sarà compito
dell'Ente valutare se una tale istanza ricada nell'una
piuttosto che nell'altra normativa e, a tal fine, il
principale criterio di demarcazione parrebbe essere quello
dell'oggetto della documentazione richiesta che nel caso
dell'accesso civico generalizzato deve avere come finalità
un controllo diffuso dell'agère amministrativo e non
deve, invece, riguardare pratiche specifiche che incidono su
posizioni individuali per le quali è necessaria l'osservanza
dei requisiti richiesti dalla legge sul procedimento
amministrativo.
Da ultimo, e per fornire una risposta al secondo quesito
posto, si ribadisce che la ratio sottesa alle norme
di cui al D.Lgs. 33/2013 è quella di garantire la
trasparenza amministrativa da intendersi 'come
accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti
dei cittadini, promuovere la partecipazione degli
interessati all'attività amministrativa e favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche'
(articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 33/2013). Con riferimento
precipuo al diritto di accesso civico generalizzato
l'articolo 5, comma 2, del decreto trasparenza, specifica,
poi, che esso è riconosciuto 'allo scopo di favorire
forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico'.
Attesa la ratio della normativa posta a fondamento
del diritto di accesso generalizzato, con riferimento al
caso concreto in esame, potrebbe profilarsi il dubbio circa
la sussistenza del diritto in questione in quanto lo stesso
ha ad oggetto documentazione risalente nel tempo e relativa
a situazioni i cui effetti giuridici si sono ormai
consolidati con effetto definitivo.
Al riguardo, si consideri, altresì, come la giurisprudenza,
benché con riferimento all'accesso civico semplice
[8] abbia
affermato che 'se è vero che [...] il D.Lgs. n. 33 del
2013 deve trovare applicazione anche per gli atti anteriori
alla sua entrata in vigore, [...], ciò nondimeno deve essere
rimarcato che siffatta regula iuris resta valida solo
limitatamente agli atti che, a quella data, sicuramente
dispiegavano ancora i propri effetti'.
[9]
Da ultimo, si ribadisce che le considerazioni sopra esposte
necessitano di un avvallo che solo la giurisprudenza potrà
fornire sulla base dei casi concreti che alla stessa
verranno sottoposti.
---------------
[1] Recante 'Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi'.
[2] Ai sensi dell'articolo 22, comma 1), lett. b), della
legge 241/1990 si intende per 'interessati' 'tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso'.
[3] Recante 'Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni'.
[4] Recante 'Revisione e semplificazione delle disposizioni
in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e
trasparenza, correttivo della legge 06.11.2012, n. 190 e del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai sensi
dell'articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia
di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche'.
[5] Al riguardo si evidenzia che mentre l'accesso civico
'semplice' risulta essere quello previsto nella formulazione
originaria del D.Lgs. 33/2013 e riguarda gli atti, documenti
e informazioni per i quali sussiste l'obbligo di
pubblicazione, l'accesso generalizzato, invece, è stato
introdotto dal D.lgs. 97/2016, in sede di modifica al D.Lgs.
33/2013 e si delinea come del tutto autonomo e indipendente
da presupposti obblighi di pubblicazione.
[6] Si tratta del paragrafo 2.3.
[7] Al riguardo, le linee guida, al punto 2.1, espressamente
affermano che 'tale nuova tipologia di accesso (d'ora in
avanti «accesso generalizzato»), delineata nel novellato
art. 5, comma 2, del decreto trasparenza, [...], si traduce,
in estrema sintesi, in un diritto di accesso non
condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente
rilevanti'.
[8] Quello, cioè, relativo ad atti, documenti e informazioni
oggetto di obblighi di pubblicazione.
[9] TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del 14.01.2016,
n. 188. Per completezza espositiva si segnala la posizione
del Consiglio di Stato (sez. VI, sentenza del 20.11.2013, n.
5515) che, in maniera ancora più restrittiva, ha ritenuto
che la documentazione oggetto di accesso civico non possa
intendersi riferita anche a procedure antecedenti
all'emanazione del D.Lgs. 33/2013 (21.02.2017 -
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ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Potestà regolamentare degli enti locali in materia di
sanzioni amministrative. Autotutela esecutiva.
L'Ente locale, in caso di violazione
delle norme dei propri regolamenti o ordinanze, qualora la
legge non preveda apposite sanzioni, può prevedere
l'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in
misura non superiore a diecimila euro.
Si ritiene che lo stesso possa disciplinare in via
regolamentare l'irrogazione di sanzioni amministrative
ripristinatorie (consistenti, pertanto, nell'imposizione di
un obbligo di facère in caso di inosservanza di un precetto)
per la violazione dei propri regolamenti o ordinanze solo
qualora sussista una norma di legge che gli conferisca tale
potere.
Il Comune chiede un parere in materia di limiti
all'esercizio del potere regolamentare da parte degli enti
locali. Più in particolare, desidera sapere se e in quale
misura possano considerarsi legittime quelle norme
regolamentari che oltre a prevedere l'irrogazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria impongano, altresì, al
trasgressore un obbligo di facère e, in caso di
inazione, un intervento sostitutivo dell'amministrazione con
rivalsa dei costi sostenuti.
In via generale, si ricorda che non compete a questo Ufficio
esprimersi in merito alla legittimità degli atti degli enti
locali stante l'avvenuta soppressione del regime dei
controlli ad opera della legge costituzionale 3/2001.
Ciò premesso, sulle questioni poste si formulano le seguenti
considerazioni generali.
In via preliminare, si osserva che, in forza della potestà
legislativa primaria in materia di ordinamento degli enti
locali conferitale dallo Statuto di autonomia, la Regione
Friuli Venezia Giulia ha disciplinato la materia delle
sanzioni amministrative, per la violazione dei regolamenti
comunali, con l'articolo 7 della legge regionale 12.02.2003,
n. 4, il quale trova applicazione in luogo dell'articolo
7-bis del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
[1]
La menzionata norma regionale stabilisce che: 'Le
violazioni delle norme dei regolamenti o delle ordinanze
provinciali e comunali comportano, qualora la legge non
preveda apposite sanzioni, l'irrogazione da parte dell'ente
locale di sanzioni amministrative pecuniarie, in misura non
superiore a diecimila euro, nonché di eventuali sanzioni
accessorie sospensive o interdittive di attività derivanti
da provvedimenti della medesima Amministrazione, determinate
con proprie norme regolamentari'.
Segue che, una volta accertata da parte dell'Ente l'assenza
di specifiche norme di legge che prevedano sanzioni per la
violazione delle medesime fattispecie disciplinate dal
regolamento comunale, questi potrà senz'altro stabilire
all'interno del regolamento le summenzionate sanzioni
pecuniarie, pur nel rispetto del limite di euro diecimila
previsto dalla normativa regionale.
Quanto alla possibilità di introdurre in sede regolamentare
norme sanzionatorie aventi contenuto più propriamente
ripristinatorio si rileva, in via preliminare, come, in
dottrina, risulti discussa la riconduzione di tali misure
all'interno del concetto di 'sanzione in senso stretto'
atteso che le stesse, consistenti nell'imposizione di un
obbligo di facère al trasgressore sarebbero prive di
specifico contenuto afflittivo. [2]
Al riguardo, certa dottrina le ha qualificate quali 'mere
decisioni di autotutela'. [3]
In proposito, si ritiene di rilievo quanto stabilito
dall'articolo 21-ter della legge 07.08.1990, n. 241 il
quale, al comma 1, così recita: 'Nei casi e con le
modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni
possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi
nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi
indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del
soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le
pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono
provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo
le modalità previste dalla legge.'.
Si tratta di una norma che riconosce la possibilità di
esercizio da parte di una Pubblica Amministrazione dei
poteri di autotutela esecutiva i quali, tuttavia, devono
alla stessa essere attribuiti da una disposizione di legge
specifica che consenta all'Ente pubblico, per l'appunto, di
poter agire in via immediata e diretta per attuare i propri
provvedimenti.
L'articolo 21-ter della legge 241/1990 detta, quindi, una
disposizione generale che prescrive la necessità della
previsione normativa per i singoli casi di autotutela
esecutiva.
Come rilevato dalla dottrina, [4]
'l'esecutorietà di cui all'articolo 21-ter della legge
241/1990 affonda le proprie radici nei caratteri tipici del
provvedimento amministrativo quali l'autoritatività e
l'imperatività che proiettano gli effetti dell'atto
direttamente ed unilateralmente nella sfera giuridica del
destinatario. Infatti, il principio di necessità impone il
perseguimento dell'interesse pubblico cui è finalizzata
l'attività amministrativa a prescindere da inerzie ed
inottemperanze da parte dei privati che porterebbero ad una
paralisi dell'attività senza la realizzazione dello scopo.
[...] La funzione esecutiva della P.A. quindi trova la
propria ratio fondante nel principio di legalità che
attribuisce, in senso formale, il potere di curare uno
specifico interesse, in sinergia con il principio di
necessità'.
Con riferimento al quesito posto, seguirebbe che
l'imposizione di un obbligo di facère in caso di
inosservanza di un precetto, costituendo una forma di
esercizio, da parte della pubblica amministrazione, di
autotutela esecutiva, non può, in attuazione del principio
di legalità, essere ammessa oltre i casi in cui la legge la
prevede. [5]
Si consideri, poi, che l'articolo 7 della legge regionale
4/2003, specificamente sulle misure sanzionatorie, prevede,
in modo espresso, la possibilità per l'Ente locale di
introdurre con proprie norme regolamentari sanzioni
accessorie sospensive o interdittive di attività derivanti
da provvedimenti della medesima Amministrazione, non
citandosi, invece, quelle ripristinatorie in tal modo
escludendosi le stesse dal novero delle sanzioni la cui
introduzione è rimessa all'autonomia normativa regolamentare
dell'Ente locale.
Da ultimo, a sostegno della ritenuta impossibilità di
inserire in un regolamento la previsione generale di misure
sanzionatorie consistenti in un facère e della
impossibilità, altresì, di intervenire in via sostitutiva
con rivalsa dei costi in caso di inadempimento dell'obbligo
imposto consta il seguente ragionamento: a livello di
normazione statale, la disciplina oggi contenuta
nell'articolo 7-bis del TUEL era, precedentemente, contenuta
nell'articolo 106 del regio decreto 03.03.1934, n. 383
abrogato dall'articolo 274 del D.Lgs. 267/2000.
A seguito di tale abrogazione il Consiglio di Stato
[6] ha
affermato l'illegittimità delle norme regolamentari che
disciplinassero le sanzioni amministrative derivanti dalla
violazione dei regolamenti degli enti locali, ciò in quanto
con l'abrogazione dell'articolo 106 del R.D. 383/1934 si era
creato un vero e proprio vuoto normativo, colmabile
esclusivamente attraverso una fonte di legge primaria.
Si legge, in particolare, nell'indicata sentenza: 'L'abrogazione
dell'art. 106 t.u. com. prov. 1934 preclude la
prospettazione della competenza dell'ente locale
relativamente alla irrogazione di sanzioni, posto che l'art.
1 l. 24.11.1981 n. 689, dispone nel senso della comminazione
di sanzioni amministrative solo in base a fonte primaria.
Pertanto in assenza di altra fonte legislativa l'art. 1 è di
ostacolo all'introduzione di fattispecie di illecito
amministrativo mediante fonte regolamentare. [...]'.
In altri termini, risulta che gli Enti locali possono
disciplinare in via regolamentare l'irrogazione di sanzioni
amministrative ripristinatorie per la violazione dei propri
regolamenti o ordinanze nei limiti previsti dalla norma di
legge che conferisce loro tale potere. In assenza di una
cornice normativa che giustifichi un tanto ed in ossequio al
principio di legalità, trova applicazione il disposto di cui
all'articolo 1 della legge 689/1981 il cui primo comma
dispone: 'Nessuno può essere assoggettato a sanzioni
amministrative se non in forza di una legge che sia entrata
in vigore prima della commissione della violazione'.
[7]
Da ultimo, si ritiene essenziale ribadire che le
considerazioni sopra esposte attengono alla questione,
oggetto di quesito, della possibilità per l'Ente locale di
imporre, in via regolamentare, sanzioni amministrative
consistenti in un obbligo di fare nel caso di violazione di
disposizioni regolamentari o di ordinanze comunali 'ordinarie',
[8] cioè
relativamente a situazioni prive del carattere della
urgenza, contingenza e indifferibilità, che non siano, in
altri termini, connotate dal requisito dell'emergenza,
[9] e
sempreché la disciplina sanzionatoria non sia contenuta in
norme di legge. [10]
Tali ultime situazioni giustificherebbero la compressione
della sfera individuale del singolo, che si determinerebbe
imponendo allo stesso un obbligo di fare, attesa la
necessità di tutelare altri valori costituzionalmente
rilevanti.
---------------
[1] Recita l'articolo 7-bis del D.Lgs. 267/2000: '1.
Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle
disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si
applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a
500 euro.
1-bis. La sanzione amministrativa di cui al comma 1 si
applica anche alle violazioni alle ordinanze adottate dal
sindaco e dal presidente della provincia sulla base di
disposizioni di legge, ovvero di specifiche norme
regolamentari.
2. L'organo competente a irrogare la sanzione amministrativa
è individuato ai sensi dell'articolo 17 della legge
24.11.1981, n. 689'.
[2] In proposito è stata affermata la configurabilità di
sanzioni amministrative in senso stretto soltanto nei casi
in cui l'ordinamento privilegi la tutela dell'interesse alla
repressione della violazione della norma o del
provvedimento, prescindendo dagli effetti lesivi (Benvenuti,
Vigneri); mentre, qualora il fine di restaurazione
dell'interesse pubblico violato prevalga su quello rivolto
alla repressione della violazione in quanto tale, si
configurerebbe una sanzione impropria o indiretta (Bassi),
di tipo risarcitorio (De Roberto).
In questi termini si veda A. Fiale, E. Fiale, 'Abusi edilizi
e sanzioni', edizione Simone, 2012, pag. 6. In
giurisprudenza, si veda Cons. Stato, sez. VI, sentenza del
15.04.2015, n. 1927 il quale afferma che: 'L'ordine di
riduzione in pristino dello stato dei luoghi [...] ha
carattere reale. Lo stesso è volto a ripristinare l'ordine
prima ancora materiale che giuridico [...] e non già a
sanzionare il comportamento che ha dato luogo a quella cosa.
[...]'.
Si veda, anche, Cass. penale, sez. III, sentenza del
10.03.2016, n. 9949 ove si afferma che: 'La demolizione del
manufatto abusivo [...] ha natura di sanzione
amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale
[...]. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può
ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU [...]'.
[3] Si veda, anche, Benvenuti, voce Autotutela (dir. Amm.),
in Enc. Diritto, Milano, pagg. 537 e seg.
[4] A. Imparato, 'La funzione sanzionatoria della Pubblica
Amministrazione - Rapporti con gli illeciti edilizi e natura
giuridica dei provvedimenti', in www.StudioCataldi.it
[5] A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo,
Napoli, 1989, pag. 804.
[6] Consiglio di Stato, sez. I, sentenza del 17.10.2001, n.
885.
[7] Tale norma è applicabile anche nei casi in cui, in luogo
della legge 689/1981 si applichi la legge regionale
17.01.1984, n. 1 (Norme per l'applicazione delle sanzioni
amministrative regionali) stante il rinvio da questa operato
(art. 1 legge regionale 1/1984) ai principi generali
contenuti nella legge statale tra cui quello di cui
all'articolo 1 della legge 689/1981.
[8] A.G. Massimo, 'Le ordinanze extra ordinem del Sindaco
tra conferme e novità giurisprudenziali', in Dir. Amm, del
02.06.2011 definisce le ordinanze normali nei termini che
seguono: 'Tali ordinanze vengono adottate dal sindaco
nell'esercizio di funzioni attribuitegli dalla legge;
l'obbligo di carattere generale fissato da un provvedimento
normativo è applicabile al caso concreto: in questi casi vi
è una perfetta corrispondenza tra la potestà ordinatoria e
il principio di legalità'.
[9] Per fronteggiare situazioni aventi natura eccezionale il
nostro ordinamento giuridico conosce l'istituto delle
ordinanze contingibili e urgenti dette anche ordinanze extra
ordinem.
[10] Ad esempio, si consideri che per la tutela delle strade
comunali e vicinali il decreto legislativo 30.04.1992, n.
285 (Nuovo Codice della strada) attribuisce al sindaco il
potere di emanare ordinanze anche impositive di obblighi: si
veda, al riguardo l'articolo 6, commi 4 e 5, del D.Lgs.
285/1992 (14.02.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
APPALTI:
Linee guida Anac n. 3 sul Rup, chiarimenti dal
Mit sul regime transitorio.
La risposta del sottosegretario Del Basso De Caro a una
interrogazione prefigurerebbe l’introduzione di un regime
transitorio, di fatto superando le linee guida e le
disposizioni degli articoli 9 e 10 del D.P.R. n. 207/2010.
Lo scorso 9 marzo il
sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti Umberto Del
Basso De Caro ha risposto, in commissione Ambiente,
territorio e lavori pubblici della Camera, a una
interrogazione (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/10777) sul
regime transitorio per il responsabile del procedimento
negli appalti e nelle concessioni.
Il question-time in esame si è soffermato sul ruolo,
le funzioni e la nomina del responsabile del procedimento
negli appalti e nelle concessioni ai sensi del nuovo Codice,
rappresentando che per effetto dell’entrata in vigore delle
Linee guida dell’Anac n. 3 recanti “Nomina, ruolo e
compiti del responsabile unico del procedimento per
l’affidamento di appalti e concessioni” sono state
superate le disposizioni di cui agli articoli 9 e 10 del
decreto del Presidente della Repubblica n. 207 del 2010,
come del resto chiarito anche con le precisazioni fornite
dal Presidente dell’Anac con il comunicato del 14.12.2016.
L’interrogante chiede al Governo se non ritiene necessario
prevedere l’introduzione di un regime transitorio che
disciplini eventuali criticità nella fase di passaggio dalla
vecchia alla nuova disciplina.
In merito al quesito posto è stata interessata l’Autorità
anticorruzione, che ha fornito precisazioni.
Del Basso De Caro ha spiegato che il comunicato del
Presidente Anac del 14.12.2016 “chiariva che le
indicazioni fornite con le Linee guida n. 3/2016, ivi
comprese quelle riferite ai requisiti di professionalità del
RUP, si applicano alle procedure per le quali i bandi o gli
avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati successivamente all’entrata in
vigore delle Linee guida medesime, nonché alle procedure e
ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in
vigore delle Linee guida, non siano ancora stati inviati gli
inviti a presentare le offerte. Ciò vale nei casi in cui la
nomina del RUP sia intervenuta contestualmente all’atto di
avvio della procedura di gara.
Per i casi in cui la nomina del RUP sia intervenuta in atti
antecedenti l’indizione della procedura, deve ritenersi
applicabile il principio del tempus regit actum. Ne consegue
che per tali nomine valgono i requisiti previsti dal quadro
normativo vigente al momento in cui le stesse sono state
effettuate (articolo 9 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 207 del 2010).
Resta inteso che condizione di validità delle nomine
ricadenti sotto il previgente regime è costituita dal
rispetto dei requisiti previsti dalla normativa previgente”.
Claudia Mannino (M5S), replicando, si è dichiarata
soddisfatta della risposta che, se ben intesa,
prefigurerebbe l’introduzione di un regime transitorio, di
fatto superando, con un atto di sindacato ispettivo, le
relative linee guida emanate dall’ANAC e le disposizioni
degli articoli 9 e 10 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 207 del 2010 (13.03.2017 - commento tratto da
www.casaeclima.com). |
APPALTI:
Codice Appalti: che fine hanno fatto i contributi
dei RUP presentati nella consultazione?
La Presidenza del Consiglio dei ministri non ha disposto la
pubblicazione dei contributi pervenuti e non ha pubblicato
una nota di sintesi dei relativi contenuti. Presentata una
interrogazione alla Camera.
Dal 16.12.2016 al 16.01.2017 si è svolta la consultazione
–lanciata dalla Cabina di regia istituita dall’articolo 212
del nuovo Codice Appalti (Dlgs. 18.04.2016 n. 50)- rivolta
ai RUP (Responsabili Unici dei Procedimenti) delle stazioni
appaltanti e finalizzata a rilevare le principali difficoltà
attuative del nuovo Codice Appalti e a raccogliere proposte
di riformulazione normativa in vista dell’elaborazione del
provvedimento correttivo.
Realizzata dalla Cabina di regia in collaborazione con il
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, l’Agid e
l'Osservatorio regionale dei contratti pubblici, primo
interlocutore di supporto delle stazioni appaltanti del
territorio (Regioni, Enti locali, Enti territoriali), con il
supporto del loro organo di coordinamento tecnico Itaca, la
consultazione ha previsto la compilazione di un
questionario, al quale i RUP hanno potuto accedere online
tramite un link contenuto in una e-mail a loro indirizzata.
INTERROGAZIONE ALLA CAMERA.
In proposito, il 03.03.2017 la deputata del M5S Claudia
Mannino ha presentato alla Camera l'INTERROGAZIONE
A RISPOSTA SCRITTA 4/15805 rivolta al Presidente
del Consiglio dei ministri e al Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti.
Nell'interrogazione si sottolinea come “la Presidenza del
Consiglio dei ministri non abbia ritenuto di disporre la
pubblicazione dei contributi pervenuti dai responsabili
unici dei procedimenti, né tantomeno di procedere
all'elaborazione di una nota di sintesi dei relativi
contenuti”.
Si chiede quindi “se il Governo non ritenga opportuno,
nell'ottica di favorire un concreto ed efficace percorso di
collaborazione istituzionale ed assicurare maggiore
trasparenza, pubblicare e rendere disponibili tutti i
contributi che sono stati presentati dai responsabili unici
dei procedimenti alla cabina di regia di cui in premessa
relativamente alla consultazione sopra richiamata, nonché
tutte le osservazioni comunque pervenute inerenti alle
ipotesi di modifica della nuova disciplina dei contratti
pubblici” (08.03.2017 - commento tratto da
www.casaeclima.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Processo,
Urp per chi è senza Pec. Al Tar e Cds.
Processo amministrativo telematico: al via un ufficio
relazioni con il pubblico per i ricorrenti senza Pec e firma
digitale.
Con la
nota
21.02.2017 n. 2562 di prot., diffusa ieri, il segretario generale della
giustizia amministrativa ha dato alcune disposizioni per il
funzionamento dei cosiddetti mini Urp (Uffici relazioni con
il pubblico).
Si tratta di un'iniziativa diretta a dare assistenza ai
ricorrenti (e ai controinteressati) che non sono avvocati e
che non sono in possesso della posta elettronica certificata
e della firma digitale e che vogliono proporre ricorso al
giudice amministrativo.
L'ufficio li aiuterà nel deposito degli scritti difensivi e
dei documenti.
L'obiettivo, si legge in una nota del segretariato generale
della giustizia amministrativa, è quello di evitare che le
nuove tecnologie finiscano per ostacolare la possibilità dei
cittadini di proporre ricorso in proprio, nei casi in cui il
Codice del processo amministrativo lo prevede, come in
materia di accesso ai documenti e di ricorso elettorale
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Fascicolo
del fabbricato non più rinviabile. Periti industriali.
Nessuno sconto su sicurezza e prevenzione. Soprattutto
quando si tratta di abitazioni in un territorio, come quello
italiano, spesso colpito da eventi sismici.
E in questa ottica un ruolo chiave può essere assunto dal
Fascicolo del Fabbricato le cui potenzialità sono illustrate
nella nuova
Linee Guida 03 - 01.02.2017
sul punto realizzata dalla
commissione Fascicolo del fabbricato istituita all'interno
del Consiglio nazionale dei periti industriali.
Nel dettaglio, il documento punta a sensibilizzare
l'opinione pubblica sull'opportunità di dotarsi di uno
strumento fondamentale per una corretta e programmata opera
di prevenzione e di manutenzione, nel tempo, di tutti i
fabbricati.
La prima parte del documento, in particolare, si
focalizza sul contenuto del Fascicolo e sulla sua
articolazione mentre la seconda, sugli obiettivi a cui esso
punta, in termini di prevenzione e sicurezza, di
semplificazione e di risparmi attesi. La terza parte,
invece, si concentra sugli aspetti tecnici ed è dedicata
agli indici di efficienza (degrado, invecchiamento e
documentazione), capaci di valutare lo stato documentale e
soprattutto di conservazione di un immobile, quindi su quale
sia il loro valore scientifico e la loro utilità.
«Questo
documento è il frutto di un attività portata avanti da circa
un ventennio da parte del gruppo di lavoro appositamente
istituito dal Cnpi», si legge nella nota diffusa dal
Consiglio nazionale di categoria, «e ha l'obiettivo di
mettere a disposizione della collettività un compendio in
grado di dare un'esaustiva conoscenza di questo strumento
indispensabile per ogni abitazione»
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Vietato
conservare la mail 10 anni. Il datore di lavoro non può
archiviare la posta dell’ex dipendente per un lungo periodo.
Privacy. Il Garante ha fornito indicazioni concrete di
applicazione delle regole riguardanti comunicazioni
elettroniche e smartphone.
Il datore di lavoro non può accedere in
maniera indiscriminata alla posta elettronica aziendale e ai
dati personali contenuti negli smartphone forniti al
personale: l’acquisizione di questi dati è lecita, infatti,
solo se sono avviene nel rispetto dei criteri generali
definiti dal codice della privacy.
Il
provvedimento
22.12.2016 n. 547 del Garante della privacy,
diffuso lo scorso 17 febbraio, conferma le indicazioni già
desumibili dagli orientamenti precedenti, ma risulta
comunque molto importante in quanto fornisce esempi concreti
su come applicare tali orientamenti.
L’intervento del garante scaturisce dal reclamo proposto da
un dipendente contro il trattamento di dati personali
effettuato dall’ex datore di lavoro, il quale - anche dopo
la fine del rapporto, intervenuta per licenziamento - non
aveva disattivato immediatamente l’account di posta
elettronica aziendale usato dal lavoratore, identificato con
il suo nome e cognome.
Il datore di lavoro aveva conservato la possibilità di
accedere a tutte le e-mail, in entrata e in uscita, e aveva
prelevato alcuni file presenti sui sistemi aziendali ma
contenenti informazioni personali relative al lavoratore;
inoltre, l’azienda aveva collocato queste comunicazioni
elettroniche presso un server destinato a conservarle per 10
anni.
Il Garante esclude che il datore di lavoro possa raccogliere
i dati contenuti nelle comunicazioni elettroniche in
transito sull’account usato dal dipendente, dopo la
cessazione del rapporto di lavoro, senza averlo informato
preventivamente circa le modalità e le finalità di raccolta
e conservazione dei dati, e circa i tempi entro i quali
l’account di posta elettronica continuerà a essere attivo
dopo la fine del rapporto di lavoro.
Queste informazioni devono essere date in quanto sussiste
l’obbligo, in capo al titolare del trattamento dei dati, di
fornire una preventiva informativa circa le caratteristiche
essenziali dei trattamenti effettuati, in attuazione del
principio di correttezza fissato dal Codice della privacy.
Il Garante considera illecita anche la mancata
disattivazione dell’account di posta elettronica aziendale
dopo la cessazione del rapporto di lavoro senza informazione
adeguata all’interessato e ai terzi.
Confermando un orientamento già espresso in precedenti
occasioni, il Garante stabilisce che la rimozione degli
account riconducibili a persone identificate (o
identificabili) deve essere accompagnata dall’adozione di
sistemi automatici volti a informarne i terzi e a fornire a
questi ultimi indirizzi alternativi, in modo che non si
interrompano le comunicazione relative all’attività
professionale del titolare del trattamento.
Viene inoltre censurata la durata eccessiva (10 anni) del
periodo di conservazione sui server aziendali dei dati e dei
contenuti delle comunicazioni elettroniche intrattenute dal
dipendente.
Tale durata sarebbe lecita solo se l’azienda dimostrasse la
sua coerenza con le ordinarie necessità di gestione dei
servizi di posta elettronica. Nel caso esaminato manca
questa prova e quindi la durata decennale viene giudicata
non conforme ai principi di necessità, pertinenza e non
eccedenza stabiliti dal Codice, oltre che lesiva
dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, nella misura
in cui consente alla società di effettuare un controllo
massivo, prolungato e indiscriminato dell’attività del
lavoratore.
Infine, il Garante rileva che è illecita la scelta del
datore di lavoro che si riserva la facoltà di accedere da
remoto ai documenti archiviati su un apparecchio telefonico
portatile, in occasione del verificarsi di eventi
genericamente indicati, se questa facoltà non è accompagnata
da apposite procedure che attestino il rispetto dei principi
di liceità, necessità, pertinenza e non eccedenza dei
trattamenti (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Prefetti-sindaci
Controlli a due. SICUREZZA URBANA/
Dl in G.U.
Forme di cooperazione rafforzata tra i prefetti e i comuni
dirette a incrementare i servizi di controllo del territorio
e a promuovere la sua valorizzazione e sono definite, anche
mediante il rafforzamento del ruolo dei sindaci, nuove
modalità di prevenzione e di contrasto all'insorgere di
fenomeni di illegalità quali, per esempio, lo spaccio di
stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il
commercio abusivo e l'illecita occupazione di aree
pubbliche.
Lo prevede il decreto legge 20.02.2017, n. 14, recante
«Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»,
pubblicato ieri sulla G.U. n. 42 e in vigore da oggi (si
veda ItaliaOggi del 10 febbraio scorso).
Il decreto, che definisce la sicurezza urbana quale bene
pubblico, è diretto, spiega una nota di Palazzo Chigi, a
realizzare un modello trasversale e integrato tra i diversi
livelli di governo mediante la sottoscrizione di appositi
accordi tra stato e regioni e l'introduzione di patti con
gli enti locali.
Il dl interviene altresì rafforzando l'apparato
sanzionatorio amministrativo, al fine di prevenire fenomeni
di criticità sociale suscettibili di determinare
un'influenza negativa sulla sicurezza urbana, anche in
relazione all'esigenza di garantire la libera accessibilità
e fruizione degli spazi e delle infrastrutture delle città,
prevedendo, tra l'altro, la possibilità di imporre il
divieto di frequentazione di determinati pubblici esercizi e
aree urbane ai soggetti condannati per reati di particolare
allarme sociale
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Termovalvole, l’ora di preventivi e delibere. Le
attività preparatorie in vista della scadenza del 30 giugno
per intervenire a impianti spenti.
Risparmio energetico. Previste ispezioni a campione e
sanzioni da 500 a 2.500 euro per unità immobiliare a chi non
si adegua.
Per inserire i
sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore
negli edifici con riscaldamento centralizzato è il momento
di chiedere preventivi, valutare i costi e approvare le
delibere di adozione. La nuova scadenza del 30.06.2017
fissata dal decreto legge Milleproroghe (Dl 244/2016) dà
infatti qualche mese di tempo per mettersi in regola. Il
decreto Milleproroghe (ora in fase di conversione da parte
del Parlamento) ha spostato di sei mesi il precedente
termine del 31.12.2016.
L’obbligo discende dalla direttiva europea sull’efficienza
energetica 2012/27/CE (recepita, nel nostro Paese, dai
decreti legislativi 102/2014 e 141/2016). Per chi non lo
rispetta, sono previste sanzioni dai 500 ai 2.500 euro per
unità immobiliare. E, secondo le proiezioni delle
associazioni di categorie sono ancora molti i condomini in
Italia che non si sono adegua.
Il timing dell’installazione
L’installazione delle termovalvole può avvenire solo se
l’impianto è scarico di acqua. Tra marzo e aprile (in base
al territorio di appartenenza) si spegneranno nelle diverse
Regioni i riscaldamenti e, da quel momento fino al 30
giugno, scatterà la finestra utile per effettuare le opere.
Chi ha già deliberato i lavori e scelto la ditta che deve
eseguirli, deve quindi aspettare qualche settimana.
Per chi, invece, non ha ancora deliberato in assemblea
l’intervento o deve scegliere l’impresa cui affidare
l’installazione, è bene accelerare e cominciare a
raccogliere preventivi, comparare i costi e indire le
assemblee di condominio necessarie per il via libera
all’installazione. Anche per evitare la corsa
all’adeguamento degli impianti prima dell’accensione
stagionale che, lo scorso settembre, ha comportato un
sovraccarico di richieste e la difficoltà, in alcuni casi,
per le ditte specializzate di soddisfare la domanda.
L’approvazione
Ai fini della normativa di condominio, l’adozione dei
sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore
in condominio si approva con la maggioranza semplice (un
terzo dei condomini che rappresentino almeno un terzo del
valore dell’edificio). Il quadro cambia nel caso in cui si
decida di applicare la ripartizione introdotta dal decreto
141/2016, derogando alla norma Uni 10200: in questo caso, è
necessaria la maggioranza dei presenti che rappresentino
almeno i 500 millesimi.
Installare valvole e contabilizzatori può essere, inoltre,
l’occasione per analizzare l’efficienza dell’intero edificio
e approvare altri lavori, come la sostituzione di una
caldaia vecchia o la risoluzione di problemi di dispersioni
di calore dal tetto, dalle facciate o dalle finestre.
I costi
Per ciò che riguarda l’ammontare delle spese da sostenere,
dipende da che cosa si sceglie di installare. Sul mercato
esistono diversi modelli di valvole termostatiche e
cronotermostatiche che permettono di regolare le temperature
a seconda delle ore del giorno. In media, ipotizzando una
spesa di 100/120 euro a calorifero in un appartamento di
80/90 mq con 5 caloriferi, il costo a unità immobiliare
resta comunque entro i mille euro. Senza considerare, poi,
le detrazioni fiscali. Per coprire i costi, è possibile
fruire anche della detrazione fiscale al 65% nel caso in cui
l’intervento sia contestuale al cambio di caldaia e del 50%
se riguarda il solo inserimento dei nuovi dispositivi.
I controlli
Per ciò che riguarda i controlli, occorre comunque
considerate che il sistema di verifica è lo stesso che
regola le ispezioni di efficienza energetica delle caldaie.
Ogni anno -nel caso degli apparecchi condominiali, che
superano una certa potenza- il manutentore sottopone a un check l’impianto e stila il cosiddetto “rapporto di
controllo”, che viene trasmesso alle Regioni.
Le ispezioni scattano a campione e sono disposte dalle
Province e dai Comuni sopra i 40mila abitanti (e dagli
organismi da questi incaricati): le ammende toccano all’ente
regionale.
Laddove sono attivi i catasti che mappano lo stato
dell’arte, ovviamente è più facile individuare i palazzi non
a norma. Questo significa che, per come è impostata la
verifica sugli impianti termici, è facile che le situazioni
di non conformità inizino a venire al pettine dopo i mesi di
settembre e ottobre. Quando i manutentori incaricati delle
ispezioni verificheranno le caldaie e segnaleranno la cosa
nei rapporti di controllo. Quindi, nella pratica, ancora un
po’ di tempo per correre ai ripari (a riscaldamenti spenti)
c’è.
---------------
Niente obbligo quando i costi superano i
benefici. Le esclusioni. Ma serve la perizia del
professionista.
L’introduzione della
termoregolazione e della contabilizzazione del calore
equipara, in qualche misura, l’impianto centralizzato a un
impianto di gestione autonoma o semi-autonoma.
Le due “azioni” sono sinergiche fra loro. I due sistemi
servono, rispettivamente, a regolare i prelievi di acqua
calda dalla caldaia per ogni singolo appartamento e a
conteggiare, di conseguenza, i maggiori o minori consumi di
ogni unità immobiliare.
La termoregolazione consiste nell’inserimento di una
valvola, nel punto in cui i tubi che corrono dal sistema
centralizzato si connettono con ogni radiatore. Questo
dispositivo serve a regolare il flusso di acqua calda e, di
conseguenza, a determinarne un maggiore o minore prelievo.
Nel caso di edifici con distribuzione orizzontale, dove una
sola tubazione ripartisce l’acqua al sistema (sia esso a
caloriferi o radiante), viene introdotto un dispositivo di
regolazione del flusso nel punto di ingresso dell’acqua
calda nell’appartamento e lo stesso viene collegato o a
singole termovalvole -poste sui radiatori- o a un
termostato o cronotermostato unico (proprio come quello
delle caldaie autonome), capace di regolare l’accensione o
spegnimento del flusso in funzione della temperatura
impostata.
La contabilizzazione serve, invece, in modo complementare, a
quantificare il consumo di ogni unità immobiliare (sulla
base, proprio, di come ogni abitante avrà gestito durante
hanno di riscaldamento l’impostazione delle valvole).
Anche in questo caso, a seconda che l’edificio sia a colonne
montanti (cioè diversi tubi salgono verticalmente fra gli
alloggi e servono ciascuno uno o più caloriferi per piano) o
a distribuzione orizzontale, vengono inseriti sui singoli
caloriferi piccoli apparecchi, che si chiamano ripartitori,
oppure viene inserito un sottocontatore o contabilizzatore
alla tubazione di ingresso in casa.
Due i motivi che permettono di non ottemperare all’obbligo
di termoregolazione e contabilizzazione: l’impossibilità
tecnica di eseguire i lavori di adeguamento e la
sproporzione fra i costi necessari a installare il sistema e
l’effettiva utilità.
Il primo caso riguarda ad esempio alcuni impianti con
radianti vetusti, dove non c’è di fatto un tubo di ingresso
nell’appartamento cui collegare una valvola per regolare i
prelievi. Il secondo caso, invece, è quello dei palazzi
ubicati in zone climatiche miti. Il Dlgs 102/2014 non indica
esattamente le aree di esclusione ma rimette la valutazione
sulla convenienza dell’installazione delle termovalvole ai
tecnici. Spetta al professionista dimostrare con una
relazione asseverata che il montaggio di valvole e
ripartitori in un luogo in cui il riscaldamento viene acceso
solo per brevi periodi all’anno non genererebbe risparmi ma
una diseconomia contraria ai principi indicati dalla
direttiva.
Anche nel caso di impianti vetusti per disattendere
l’obbligo di legge è necessaria una perizia e la relativa
dichiarazione del professionista che si assume la
responsabilità di quanto certificato (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti,
assunzioni verso la riapertura. Reclutamento. Le conseguenze
dell’approvazione.
Con l’entrata in
vigore della riforma del Testo unico delle leggi sul lavoro
pubblico viene abrogato il vincolo dell’indisponibilità dei
posti dirigenziali non coperti al 15.10.2015. Le
disposizioni transitorie prevedono infatti espressamente
l’abrogazione del comma 219 della legge 208/2015.
Va
ricordato che questa disposizione aveva imposto alle
pubbliche amministrazioni il divieto di coprire i posti
dirigenziali che non erano coperti al momento della
presentazione al Parlamento della proposta di legge di
stabilità 2016. La durata del divieto era fissata
direttamente dalla stessa disposizione non fino a una data
certa, ma all’entrata in vigore dei decreti attuativi della
legge 124/2015 in tema di dirigenza pubblica, di riforma
delle amministrazioni statali e di riforma del testo unico
sul pubblico impiego.
Dopo una serie di dubbi iniziali, la disposizione era stata
ritenuta applicabile anche a regioni ed enti locali, mentre
si sono manifestati contrasti non ancora superati tra alcune
sezioni di controllo della Corte dei Conti (segnatamente
Puglia e Veneto) e la Conferenza Unificata sugli ambiti di
applicazione. In particolare, sull’esclusione o meno dal
vincolo dei posti dirigenziali coperti a tempo determinato
nei Comuni attraverso il ricorso all’articolo 110 del
decreto legislativo 267/2000, oltre che sull’esclusione dei
posti per i quali era stata prevista l’attivazione in sede
di programmazione del fabbisogno del personale e per quelli
necessari per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei
municipi.
Con questa disposizione saranno del tutto superati
i dubbi, dal momento che non manca chi ritiene già decaduti
i vincoli alla luce della mancata emanazione del decreto di
riforma della dirigenza delle pubbliche amministrazioni: a
mancare, sul punto, è invece un’indicazione ufficiale.
Al momento dell’entrata in vigore del provvedimento, i
Comuni potranno coprire i posti dirigenziali che non erano
coperti alla data del 15.10.2015, superando una
limitazione che impediva di coprire i posti vuoti e che era
finalizzata a rendere immediatamente produttiva di effetti
concreti la disposizione della legge Madia che voleva
introdurre la assunzione dei dirigenti di tutte le pubbliche
amministrazioni, compresi regioni ed enti locali,
esclusivamente sulla base di corsi/concorsi o di concorsi
nazionali.
Ma sulla concreta possibilità per i Comuni di dar corso ad
assunzioni a tempo indeterminato di dirigenti pesano i dubbi
sulla quantità di capacità assunzionali che possono essere
destinate a queste finalità. In particolare, si deve
chiarire se gli oneri per queste assunzioni sono compresi
nel tetto delle disposizioni dettate per il reclutamento del
personale, cioè il 25% dei risparmi delle cessazioni
dell’anno precedente o il 75% per i Comuni con popolazione
inferiore a 10mila abitanti e un numero ridotto di
dipendenti in servizio rispetto alla popolazione residente.
Oppure se occorra distinguere le capacità assunzionali
destinate al reclutamento a tempo indeterminato dei
dipendenti da quelle da riservare alle assunzioni dei
dirigenti. Una lacuna che, nell’esame dello schema di
decreto, andrebbe colmata (articolo Il Sole 24 Ore del 20.02.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Professionisti,
sì a lavori gratis. Plausibile l'opera svolta per amici e
parenti senza fatture. Il focus della Fondazione
commercialisti sulla sentenza della Cassazione 21972/2015
Le prestazioni rese a titolo gratuito dai professionisti
sono fiscalmente legittime, purché caratterizzate da
«semplicità», in minoranza rispetto al totale delle
prestazioni e rivolte a una ristretta cerchia di amici.
È questa la conclusione che emerge dallo
documento 31.01.2017
«L'accertamento delle prestazioni resa a titolo gratuito dal
professionista» che la Fondazione nazionale dei commercialisti
ha pubblicato sul proprio sito lo scorso 31.01.2017,
prendendo in esame una serie di altalenanti, e spesso non
condivisibili, decisioni della giurisprudenza tributaria.
Risulta inoltre evidente che le «difese» del professionista
di fronte a un accertamento induttivo appaiono più deboli
nel caso di prestazioni gratuite rese a soggetti privati,
rispetto a quelle rese nei confronti di società, la cui
documentazione probatoria (delibere, risultanze bancarie e
di cassa) risulta più difficilmente superabile dall'Agenzia
delle entrate.
La Cassazione (sent. 21972/2015).
La controversia ha origine da un accertamento, ai fini
Irpef, Irap e Iva, effettuato dall'Agenzia delle entrate nei
confronti di un consulente fiscale per non aver fatturato a
72 clienti talune prestazioni (invio telematico delle
dichiarazioni).
Il contribuente ricorreva presso la Ctp
deducendo che le prestazioni erano state rese a titolo
gratuito nei confronti di parenti e amici; inoltre, che la
maggior parte dei soggetti (il 70%), che avevano beneficiato
gratuitamente dell'attività del professionista, già
corrispondeva al medesimo il compenso per la tenuta della
contabilità delle società a essi riconducibili, cosicché, la
prestazione resa, anche in un'ottica di «incremento della
clientela», era assorbita nella remunerazione
complessivamente pattuita.
Sebbene in primo grado i giudici della Ctp avessero avallato
l'operato dell'amministrazione finanziaria, in secondo
grado, la decisione è stata ribaltata e poi resa definitiva
in sede di giudizio legittimità. I giudici della Suprema
corte (sentenza 28.10.2015, n. 21972), richiamando e
confermando in toto la pronuncia di secondo grado, hanno
affermato che in presenza della corretta tenuta della
contabilità da parte del contribuente è plausibile, a fronte
delle mere supposizioni dell'ufficio erariale, la gratuità
dell'opera svolta dal professionista, in considerazione dei
«rapporti di parentela e di amicizia» con gli stessi
clienti, nonché del fatto che alcuni di tali clienti erano
soci di società di persone, la cui contabilità era affidata
alle cure del contribuente, per cui ogni eventuale compenso
rientrava in quello già corrisposto dalla società di
appartenenza.
Inoltre, la «plausibilità» delle prestazioni rese a titolo
gratuito emerge, secondo la suprema Corte, della circostanza
che l'attività svolta in loro favore riguardava «soltanto
l'invio telematico delle dichiarazioni dei redditi ed era
finalizzata all'incremento della clientela, cosicché la
semplicità della prestazione in sé rende verosimile
l'assunto del contribuente circa la sua gratuità».
Secondo la Cassazione, dunque, l'amministrazione finanziaria
non può accertare un maggior reddito in capo a un consulente
sulla base della semplice presunzione secondo cui i
professionisti non sono soliti prestare i propri servizi a
titolo gratuito. È plausibile, infatti, che un
professionista possa svolgere parte della propria attività
senza percepire alcun compenso, per ragioni di amicizia,
parentela o di mera convenienza.
Sul punto, peraltro, la circostanza che non sia
irragionevole che un professionista effettui prestazioni a
titolo gratuito è stata espressamente riconosciuta anche
dalla stessa Amministrazione finanziaria nella circ.
28/09/2001, laddove, a commento dei controlli da espletare
nei confronti delle diverse tipologie di contribuenti, è
stato affermato, con riguardo alle attività professionali di
studi legali e notarili, che «la gratuità delle prestazioni
può essere considerata verosimile nei confronti di parenti o
di colleghi/amici».
Le difese del professionista.
Anche sulla base di decisioni della giurisprudenza
tributaria a contrariis rispetto alla citata sentenza
della Cassazione (specie da parte di alcune Ctr e Ctp, le
cui decisioni in alcuni casi sono ragionevolmente non
condivisibili), l'accertamento induttivo teso a ricostruire
i compensi del professionista e fondato esclusivamente sulla
presunzione che le prestazioni gratuite nascondano compensi
«in nero» non sembra potersi configurare come illegittimo.
Sebbene, infatti, risulti senza dubbio opportuno che
l'amministrazione finanziaria supporti le proprie pretese
attraverso ulteriori elementi, la giurisprudenza ha, per lo
più, non dichiarato illegittimo un simile operato. In
secondo luogo, la giurisprudenza sembra ritenere
«plausibile» che un professionista effettui prestazioni a
titolo gratuito nei confronti di parenti, amici o soggetti
che già sono clienti (ad altro titolo), purché tali
prestazioni siano in un rapporto di minoranza rispetto al
totale delle prestazioni rese e che, inoltre, siano
caratterizzate da «semplicità» (come nel caso degli invii
telematici delle dichiarazioni).
Così, se l'onere della prova, posto a carico del
contribuente sottoposto ad accertamento, può dirsi superato
qualora le prestazioni rese gratuitamente (comunque in un
rapporto di minoranza rispetto a quelle complessive), siano
effettuabili, secondo l'id quod plerumque accidit, senza
particolare complessità, dispendio di tempo o abbiano un
«valore normale» ridotto, non è così per le prestazioni
particolarmente laboriose o di valore ingente, soprattutto
se rese nei confronti di soggetti diversi da coloro che sono
con il professionista in stretto legame di parentela.
Ciò tuttavia non implica necessariamente che, qualora il
numero di prestazioni rese gratuitamente sia in un rapporto
di maggioranza rispetto a quelle a titolo oneroso e/o che
tali prestazioni siano, per lo più, «complesse», il
professionista debba essere necessariamente assoggettato a
tassazione.
La sentenza della Corte di cassazione n. 1915/2008 ha, in
effetti, offerto al contribuente dei possibili «strumenti di
difesa».
In tal senso, sicuramente la predisposizione di lettere di
incarico professionale ove si evinca chiaramente la gratuità
della prestazione, può essere un valido elemento probatorio.
In aggiunta, nel caso di prestazioni rese nei confronti di
società, la documentazione societaria (delibere, lo statuto,
mastrini contabili di cassa o banca e quelli riferiti al
professionista) rappresenta un efficace elemento probatorio
avverso le pretese dell'Agenzia delle entrate.
Rimane, però, particolarmente delicato il tema delle
prestazioni rese dai professionisti nei confronti di
soggetti privati, non tenuti a obblighi di contabilità e/o
di conservazione di documenti. Nei confronti di questi
soggetti, oltre alla predisposizione di lettere di incarico
professionale e/o dichiarazioni rese dagli stessi, il
contribuente non è in grado generalmente, di produrre
ulteriore documentazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Legge
Madia: fatti 11 decreti su 20, ma le partite vere sono
ancora aperte.
Il cantiere dell’attuazione. Per il testo unico del pubblico
impiego confronto con i sindacati - All’appello mancano i
Dlgs su presidenza del consiglio, Prefetture e Aci - Senza
lo stop della Consulta salirebbero a 16 le attuazioni
definitive.
Con il Consiglio dei
ministri di ieri il pallottoliere della riforma Madia
incassa un’approvazione definitiva e due via libera in prima
lettura: il conteggio si aggiorna quindi a 11 capitoli per i
quali il cantiere delle regole si è chiuso del tutto, tre
per i quali è ancora in corso dopo la riapertura forzosa
imposta dalla Corte costituzionale e sei ancora da
affrontare, al cui interno trova spazio anche qualche tema
“minore” probabilmente destinato a cadere. Senza
l’intervento della Consulta il conto sarebbe ormai salito a
16 provvedimenti attuati in via definitiva.
Quando si guarda al numero dei decreti, insomma,
l’indicatore viaggia oltre la metà, ma se il calcolo prova a
misurare il peso specifico dei temi la situazione cambia: le
partite più importanti, con la riforma del pubblico impiego
e l’avvio vero e proprio del «taglia-partecipate», sono
ancora da affrontare, e il colpo inferto dalla Corte
costituzionale ha fatto cadere le nuove regole sulla
dirigenza e la liberalizzazione dei servizi pubblici. Il
governo ha intenzione di recuperare con legge ordinaria
almeno la riforma del trasporto locale, che occupava larga
parte del decreto inciampato sulla Consulta proprio alle
porte del Consiglio dei ministri, ma resta da capire se ci
saranno gli spazi politici e parlamentari per farlo.
Calendario ed equilibri nell’attuazione dipendono dalla
strategia iniziale scelta ai tempi della delega, finita
sulla Gazzetta Ufficiale del 13.08.2015, che ha deciso
di avviare i lavori dedicandosi a temi più leggeri e
settoriali, rimandando al finale i colpi più grossi.
Strategia rischiosa in un ambiente politico strutturalmente
incerto come quello italiano, che infatti porta ad
affrontare la sfida chiave della riforma del pubblico
impiego nei giorni percorsi dalla tempesta nel Pd e dai
venti elettorali scatenati dalla vittoria dei «no» al
referendum.
Il barometro segnava invece tempo stabile nel giugno del
2016, quando a 10 mesi dalla legge delega è arrivato
l’esordio operativo con l’entrata in vigore dell’«accesso
civico generalizzato». Battezzato «Foia» per rimarcarne
l’ambizione anglosassone con il richiamo al Freedom Of
Information Act, il decreto sulla trasparenza punta a
ribaltare la logica della trasparenza all’italiana, fissando
la regola che tutto è accessibile a tutti salvo eccezioni
dettate dalle esigenze di concorrenza o sicurezza dello
Stato. Ma tra eccezioni, formalismi e resistenza passiva
della macchina burocratica, la sfida è ancora da vincere
anche perché passa attraverso un cambiamento di cultura
amministrativa oltre che di norme.
Un mese dopo, a luglio, è stata la volta dei licenziamenti
sprint per gli assenteisti, tornati giusto ieri sul tavolo
del Consiglio dei ministri per rimediare ai buchi aperti
dalla Consulta. In quel caso, l’accelerazione era arrivata
dopo il «caso-Sanremo», quando il governo decise di dare una
risposta immediata alla ridda di immagini di dipendenti più
o meno sommariamente abbigliati che timbravano il cartellino
senza poi andare in ufficio. Dopo quella prima incursione,
però, il terreno delicato del lavoro pubblico, pilastro
inevitabile per una riforma complessiva della Pa, è rimasto
minato.
L’estate e l’autunno del 2016 sono stati infatti dominati da
uno scontro sordo fra governo e vertici amministrativi sulla
riforma della dirigenza, tramontata in extremis per il colpo
arrivato dalla Corte costituzionale dopo una battaglia
condotta con toni inediti nei compassati uffici dei
ministeri.
Per il resto, con le eccezioni importanti ma limitate di
Camere di commercio e Corpo forestale, la gestione del
personale rimane tutta da affrontare, sia nella pubblica
amministrazione sia nelle società controllate: il decreto
correttivo sulle partecipate appena approvato in prima
lettura allunga fino a giugno i termini per individuare gli
esuberi, ma resta aperto il confronto sulle modalità con cui
le Regioni e gli enti locali potranno gestirli all’interno
della loro programmazione.
Oltre a questo, l’agenda scritta nella delega prevederebbe
anche la riorganizzazione della presidenza del consiglio e
dei ministeri, la ridefinizione della geografia delle
Prefetture e la riforma di Aci e pubblico registro
automobilistico: ma il 28 marzo, data ultima per ottenere
almeno la prima approvazione dei decreti attuativi, si
avvicina a grandi passi (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Furbetti
e partecipate, altro giro. I governatori potranno escludere
le società regionali. CONSIGLIO DEI
MINISTRI/ Ok preliminare ai decreti bis. La ricognizione si
sposta al 30/6.
La riforma dei licenziamenti disciplinari e delle società
partecipate torna al punto di partenza. Dopo la scure della
Corte costituzionale che con la sentenza n. 251/2016 ha
bocciato la legge delega di Marianna Madia (legge n.
124/2015) e i decreti attuativi per aver previsto il
semplice parere, al posto dell'intesa con le regioni, il
governo c'ha messo una pezza.
Ieri il cdm ha approvato in via preliminare i due decreti
correttivi dei dlgs sui cosiddetti «furbetti del cartellino»
e sul Testo unico delle partecipate pubbliche (dlgs n. 116 e
n. 175/2016, già in vigore ma a forte rischio di essere
travolti da nuovi ricorsi di costituzionalità), mentre il
terzo decreto sul riordino della dirigenza medica delle Asl
è slittato per cortesia istituzionale nei confronti del
ministro della salute, Beatrice Lorenzin che non era
presente alla riunione del consiglio.
Ora i due testi dovranno ricominciare nuovamente il lungo
iter verso l'approvazione definitiva che, prima del sì
finale del consiglio dei ministri, li vedrà sul tavolo del
Consiglio di stato, delle commissioni parlamentari e della
Conferenza Unificata per l'intesa con gli enti territoriali.
Il governo punta a fare presto anche per concentrarsi sul
vero tema caldo dei prossimi mesi: la riforma del pubblico
impiego e della valutazione che dovrebbe essere portata in
cdm giovedì.
Ma tutto dipenderà dal parlamento e dall'atteggiamento più o
meno collaborativo delle regioni.
Per addolcire il giudizio dei governatori l'esecutivo ha già
fatto una prima, importante concessione nel decreto bis
sulle partecipate, prevedendo che con decreto motivato i
presidenti di regione possano escludere, totalmente o
parzialmente, dall'applicazione della riforma le società a
partecipazione regionale meritevoli di un trattamento di
favore per la misura e la qualità della partecipazione
pubblica, gli interessi pubblici connessi e il tipo di
attività svolta.
Ulteriori aperture alle autonomie
potrebbero essere chieste dal parlamento a cominciare
dall'abbassamento (da un milione a 500 mila euro) della
soglia di fatturato minima al di sotto della quale scatterà
l'obbligo di razionalizzazione. Un correttivo chiesto a gran
voce dai comuni e sempre rispedito al mittente dal governo
che però, ora, dovendo ricevere l'intesa in Unificata,
potrebbe cedere alle richieste degli enti locali.
Tra le altre modifiche inserite nel correttivo si segnala il
via libera alle partecipazioni in società aventi per oggetto
la produzione di energia da fonti rinnovabili e la
possibilità per le università di costituire società per la
gestione di aziende agricole con funzioni didattiche.
Novità anche in materia di governance.
La regola resta
quella dell'amministratore unico, ma per scegliere di essere
amministrate da un cda di 3 o 5 membri, le società non
dovranno più attendere il dpcm di palazzo Chigi (d'intesa
col Mef e la Funzione pubblica) che avrebbe dovuto fissare i
criteri per discostarsi dal modello di governance
dell'amministratore unico. Saranno le stesse società con
delibera assembleare a scegliere il modello di
amministrazione più consono, giustificando la scelta sulla
base di «specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e
tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi».
Cambia anche il cronoprogramma per l'applicazione della
riforma. Sfumato il rinvio ad opera del decreto
Milleproroghe, è il decreto bis, approvato ieri dal cdm, a
far slittare dal 23 marzo al 30.06.2017 il termine per
la ricognizione delle partecipazioni possedute, propedeutica
alla razionalizzazione. Slitta al 30.06.2017 anche il
termine entro il quale le società a controllo pubblico
dovranno effettuare la ricognizione del personale in
servizio, per individuare eventuali esuberi.
Per quanto riguarda, invece, l'adeguamento degli statuti, il
termine del 31.12.2016, scaduto senza essere stato
rispettato dalla maggior parte delle società (anche a causa
dell'incertezza generata dalla sentenza della Consulta),
viene sostituito con la nuova deadline del 31.07.2017.
Licenziamenti disciplinari.
Il cuore del decreto legislativo contro i cosiddetti
«furbetti del cartellino» resta immutato. Gli assenteisti
colti in flagrante saranno sospesi dal servizio entro 48 ore
e licenziati entro 30 giorni.
I ritocchi prevedono un extra time per esercitare l'azione
di risarcimento per i danni di immagine alla p.a. provocati
dalle condotte fraudolente punite dal licenziamento. La
denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla
competente Procura regionale della Corte dei conti avverrà
entro 20 giorni (non più 15) dall'avvio del procedimento
disciplinare, «in modo da evitare», spiega palazzo Chigi,
«un eccessivo accavallamento dei termini e delle procedure
poste a carico delle pubbliche amministrazioni».
Più tempo anche alle procure della Corte dei conti per
procedere per danni all'immagine della p.a. contro il
dipendente assenteista. I giudici erariali avranno 150
giorni (al posto degli attuali 120) dalla conclusione della
procedura di licenziamento. La ratio, spiega il governo in
una nota, è «garantire maggiore certezza e una più netta
separazione tra il procedimento disciplinare a carico del
dipendente e il conseguente procedimento per danni di
immagine alla p.a.».
Infine, si prevede l'obbligo di comunicazione dei
provvedimenti disciplinari all'Ispettorato per la funzione
pubblica entro 20 giorni dall'adozione degli stessi: ciò, al
fine di consentire il monitoraggio sull'attuazione della
riforma.
Riforma del Comitato paralimpico.
Sempre in attuazione della delega Madia, il cdm ha approvato
in via definitiva il dlgs che riforma il Comitato italiano
paralimpico facendolo diventare un ente autonomo di diritto
pubblico. La costituzione del nuovo ente non comporta oneri
aggiuntivi per la finanza pubblica, in quanto saranno
utilizzate parte delle risorse finanziarie attualmente in
disponibilità o attribuite al Coni.
Codice appalti.
In cdm il ministro delle infrastrutture e dei trasporti
Graziano Delrio ha svolto un'informativa sullo schema di
decreto legislativo correttivo del Codice degli appalti, da
adottare a norma dell'articolo 1, comma 8, della legge
delega n. 11 del 2016.
Delrio ha chiarito che si tratta di un testo aperto che sarà
sottoposto alle consultazioni con i principali portatori di
interesse, per essere poi esaminato in via preliminare dal
consiglio dei ministri. Successivamente sarà inviato alla
Conferenza Stato-regioni, al Consiglio di Stato e alle
Commissioni parlamentari competenti per l'acquisizione dei
prescritti pareri.
Scioglimento di consigli comunali.
Su proposta del ministro dell'interno, Marco Minniti, il cdm
ha deliberato lo scioglimento per infiltrazioni mafiose il
consiglio comunale del comune di Parabita (Le) e la proroga
dello scioglimento del consiglio comunale di Mazzarà
Sant'Andrea (Me) con affidamento della gestione dell'ente ad
una commissione straordinaria
(articolo ItaliaOggi del 18.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento
acustico, l'Italia si intona alla Ue.
Sull'inquinamento acustico l'Italia s'intona all'Unione
europea.
Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri in via
definitiva due decreti legislativi in materia di
inquinamento acustico, in attuazione della delega di cui
all'articolo 19 della legge 30.10.2014, n. 161, con
l'obiettivo, appunto, di armonizzare la normativa nazionale
con la relativa disciplina dell'Unione europea. In
particolare, spiega una nota di Palazzo Chigi, i due decreti
prevedono:
1. armonizzazione della normativa nazionale in materia di
inquinamento acustico (articolo 19, comma 2, lettere a), b),
c), d), e), f) e h)) con la direttiva 2002/49/CE relativa
alla determinazione e gestione del rumore ambientale - Si
armonizza la normativa nazionale in materia di inquinamento
acustico, con l'obiettivo specifico di ridurre le procedure
di infrazione comunitaria aperte nei confronti dell'Italia
in materia di rumore ambientale, operando una
razionalizzazione della tempistica riguardante la
trasmissione delle mappe acustiche e dei relativi piani
d'azione, assicurando nel contempo anche l'informazione del
pubblico.
L'intervento normativo, inoltre, risolve in modo
definitivo alcune criticità, riguardanti in particolare
l'applicazione dei valori limite, il coordinamento tra i
vari strumenti di pianificazione, nonché la valutazione
dell'impatto acustico nella fase progettuale delle
infrastrutture, al fine del contenimento dell'inquinamento
derivante dal rumore perla salvaguardia della popolazione.
Infine si prevede una specifica disciplina delle attività
fonte di rumore ambientale, fino ad oggi escluse dalla
normativa, quali gli impianti eolici, le aviosuperfici, le
elisuperfici, le idrosuperfici, le attività e discipline
sportive e le attività di autodromi e piste motoristiche;
2. Armonizzazione della normativa nazionale in materia di
inquinamento acustico con la direttiva 2000/14/CE e con il
regolamento CE n. 765/2008 [articolo 19, comma 2, lettere
i), l) e m)] - Si razionalizza la disciplina sulle macchine
rumorose operanti all'aperto, con particolare riguardo a
quelle importate da Paesi extracomunitari e poste in
commercio nella distribuzione di dettaglio, affidando la
responsabilità in materia agli importatori presenti sul
territorio comunitario, colmando così un vuoto normativo e
garantendo maggiore sicurezza all'utenza.
Il provvedimento
mira anche a raggiungere obiettivi di semplificazione nei
procedimenti di autorizzazione e di certificazione, anche
con una revisione dei requisiti richiesti agli organismi di
certificazione. Viene infine rafforzata la disciplina
sanzionatoria, conferendo ad Ispra maggiori poteri di
accertamento e verifica
(articolo ItaliaOggi del 18.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: E-mail,
vietati i controlli indiscriminati.
Vietato estrarre informazioni private dalla e-mail e dal
telefono aziendale in uso al lavoratore; vietato configurare
la copia della posta elettronica per dieci anni; vietato
mantenere attive le caselle e-mail dei dipendenti fino a sei
mesi dopo la cessazione del contratto; vietato tenerle
attive senza dare agli ex dipendenti la possibilità di
consultarle o senza informare i mittenti che le lettere non
sarebbero state visionate dai legittimi destinatari ma da
altri soggetti; vietato accedere da remoto alle informazioni
contenute negli smartphone in dotazione ai dipendenti,
copiarle o cancellarle, o comunicarle a terzi. Obbligatorio
informare su come funzionano i dispositivi elettronici.
Il catalogo dei divieti e degli obblighi, sintetizzabili
nella prescrizione di evitare controlli indiscriminati su
e-mail e smartphone aziendali, è stilato dal Garante della
privacy (provvedimento
22.12.2016 n. 547, diffuso ieri con la newsletter
istituzionale n. 424), che analizza gli effetti del Jobs Act
e la disciplina del controllo a distanza sui lavoratori. Nel
caso specifico il garante ha vietato a una multinazionale
l'ulteriore utilizzo dei dati personali trattati in
violazione di legge: la società potrà solo conservarli per
la tutela dei diritti in sede giudiziaria.
Ma come bilanciare i diversi interessi in gioco? Da un lato
anche il garante riconosce che il datore di lavoro ha la
facoltà di verificare l'esatto adempimento della prestazione
professionale e il corretto utilizzo degli strumenti di
lavoro da parte dei dipendenti. Dall'altro lato il datore
deve rispettare la dignità dei dipendenti e, ad esempio,
astenersi da attività idonee a realizzare, anche
indirettamente, il controllo massivo, prolungato e
indiscriminato dell'attività del lavoratore. Sul punto non
ha cambiato le carte in tavola nemmeno l'articolo 23 del
dlgs 151/2015 (Jobs Act).
I lavoratori, poi, devono essere
sempre informati in modo chiaro e dettagliato sulle modalità
di utilizzo degli strumenti aziendali ed eventuali
verifiche. Tra l'altro, aggiunge il Garante, l'assenza di
una esplicita policy aziendale può determinare una legittima
aspettativa del lavoratore, o di terzi, di confidenzialità
rispetto ad alcune forme di comunicazione.
Marketing a strascico. È vietato il telemarketing con i
numeri di telefono pescati in internet e contattati senza il
consenso informato dei destinatari (provvedimento n. 4 del
12.01.2017). Il garante privacy lo ha stabilito
stoppando una società attiva nell'offerta di servizi in
Internet (costruzione e gestione di siti web, posizionamento
nei motori di ricerca, vendita di spazi pubblicitari e
attività di social media marketing).
La società in questione
contattava telefonicamente le utenze reperite in rete, in
genere numeri di telefono di liberi professionisti e imprese
individuali presenti nell'area «contatti» dei siti. Ma il
fatto che i numeri di telefono sono presenti in internet non
significa che possano essere legittimamente usati per
finalità (come il marketing) diverse da quelle per cui sono
stati pubblicati online.
Altro punto interessante del
provvedimento è quello in cui si prescrive di predisporre
nei form una casella apposita, da eventualmente flaggare per
consentire il trattamento di dati per fini pubblicitari,
ricerche di mercato e sondaggi via mail
(articolo ItaliaOggi del 18.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti.
Nella qualificazione dei residui ciò che conta è la volontà.
I residui di produzione sono considerati sottoprodotti e non
rifiuti quando il produttore dimostra che, non essendo stati
prodotti volontariamente e come obiettivo primario del ciclo
produttivo, sono destinati a essere utilizzati nello stesso
o in un successivo processo, dal produttore medesimo o da
parte di terzi. Resta ferma l'applicazione della disciplina
in materia di rifiuti, qualora, in considerazione delle
modalità di deposito o di gestione dei materiali o delle
sostanze, siano accertati l'intenzione, l'atto o il fatto di
disfarsi degli stessi.
Il decreto del 13.10.2016 n. 264 del ministero ambiente
(in G.U. 15.02.2017, n. 38) delinea i criteri per
agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti
per la qualifica dei residui di produzione come
sottoprodotti e non come rifiuti.
Il requisito della certezza dell'utilizzo è dimostrato dal
momento della produzione del residuo fino al suo impiego. Il
produttore e il detentore assicurano l'organizzazione e la
continuità di un sistema di gestione, ivi incluse le fasi di
deposito e trasporto, che, per tempi e per modalità,
consente l'identificazione e l'utilizzazione effettiva del
sottoprodotto.
In ogni fase della gestione del residuo, è necessario
dimostrare che la sostanza è originata da un processo di
produzione senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla
normale pratica industriale e di cui costituisce parte
integrante
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Addio
alle fasce di valutazione. In soffitta le gabbie della
Brunetta. Spazio ai contratti.
RIFORMA MADIA/ Il cdm potrebbe iniziare l'esame dei due dlgs.
All'odg anche i tre correttivi.
Addio per sempre alle fasce di valutazione. La riforma Madia
manda in pensione le gabbie di valutazione imposte
dall'articolo 19 del dlgs 150/2009 (riforma Brunetta) prima
ancora che esse siano mai entrate in funzione.
È quanto prevede lo schema di decreto legislativo, atteso,
assieme al restyling del Testo unico sul pubblico impiego,
sul tavolo del consiglio dei ministri di oggi.
Tuttavia, i due provvedimenti non sono ricompresi
nell'ordine del giorno di palazzo Chigi, il che farebbe
pensare a uno slittamento alla prossima settimana
dell'approvazione in via preliminare. All'ordine del giorno
del consiglio dei ministri ci saranno invece i tre decreti
correttivi dei dlgs già varati in materia di
razionalizzazione delle società partecipate (n. 175/2016),
dirigenza sanitaria (n. 171/2016) e licenziamenti
disciplinari (n. 116/2016).
Provvedimenti già in vigore ma
travolti dalla sentenza della Corte costituzionale n.
251/2016 che aveva dichiarato la parziale illegittimità
della legge delega di riforma della p.a. laddove prevedeva
il parere, e non l'intesa, delle regioni. Tornando ai
decreti su valutazione e riforma del dlgs 165/2001, non è
escluso che il cdm possa avviarne comunque l'esame, anche
se, come detto, l'ok preliminare potrebbe slittare alla
prossima settimana.
La legge Brunetta.
La normativa del 2009 per forzare le amministrazioni a
differenziare in maniera significativa i premi di
produttività ed evitare distribuzioni a pioggia, impose di
destinare il 50% delle risorse legate alla produttività al
25% del personale con le valutazioni più elevate; il 50% al
50% del personale con valutazioni medie, così che al
restante 25% del personale non andasse alcun incentivo.
Un meccanismo eccessivamente rigido, sempre oggetto di
contestazioni molto forti dei sindacati, che ora incassano
la sua cancellazione a vantaggio della riacquisita forza
normativa degli accordi.
Saranno, infatti, i contratti collettivi nazionali di lavoro
a occuparsi di due aspetti fondamentali dei premi di
risultato. Da un lato, infatti, stabiliranno l'entità della
quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente,
la performance organizzativa e quella individuale.
Soprattutto, i contratti nazionali collettivi fisseranno
criteri idonei a garantire che alla significativa
differenziazione dei giudizi sulla produttività dei
dipendenti pubblici, espressi dai dirigenti, corrisponda
un'effettiva diversificazione dei trattamenti economici
correlati.
La riforma modifica anche in maniera significativa le
modalità di valutazione e i soggetti competenti. Gli
organismi indipendenti di valutazione conservano la
valutazione dell'ente nel suo complesso e della dirigenza.
Anche per i dirigenti si conferma la competenza a valutare i
risultati dei propri dipendenti (e saranno valutati in
maniera preponderante in riferimento ai risultati
complessivi delle strutture da loro dirette. La novità
eclatante consiste nell'entrata in scena dei cittadini, nel
ruolo di valutatori.
La riforma prevede, infatti, che cittadini o utenti finali
partecipano alla valutazione della performance organizzativa
dell'ente in rapporto alla qualità dei servizi resi.
Inoltre, ciascuna amministrazione, allo scopo di permettere
questa sorta di valutazione diffusa, adotterà sistemi di
rilevazione del grado di soddisfazione degli utenti e dei
cittadini in relazione alle attività e ai servizi erogati,
favorendo ogni più ampia forma di partecipazione e
collaborazione dei destinatari dei servizi. I risultati
delle indagini di soddisfazione saranno utilizzati dagli
organismi indipendenti di valutazioni, per determinare il
grado di raggiungimento degli obiettivi dell'ente e dei
dirigenti.
Gli obiettivi saranno distinti in generali e specifici per
ciascun ente. Gli obiettivi generali identificano le
priorità strategiche delle pubbliche amministrazioni,
tenendo conto del comparto di contrattazione di
appartenenza, coerentemente con le politiche e saranno
fissati con apposite linee guida adottate su base triennale
con decreto del ministro per la semplificazione e la
pubblica amministrazione, previa intesa in sede di
conferenza unificata.
Gli obiettivi specifici di ciascuna pubblica amministrazione
sono quelli fissati dai piani della performance che ognuno
deve approvare, vanno programmati, in coerenza con gli
obiettivi generali, su base triennale e definiti, prima
dell'inizio del rispettivo esercizio, da parte degli organi
di indirizzo politico-amministrativo, sentiti i vertici
amministrativi e i dirigenti o responsabili di servizio
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
p.a. stabilizza i precari. Assunzione diretta o tramite
concorso con riserva di posti.
RIFORMA MADIA/ Il presupposto è la pianificazione triennale
dei fabbisogni.
La stabilizzazione dei precari non può mai mancare nelle
riforme sul lavoro pubblico.
E così, anche lo schema di
decreto legislativo attuativo della delega contenuta
nell'articolo 17 della legge 124/2015 ripropone una nuova
edizione delle stabilizzazione.
Limite ai contratti a termine. Lo schema di decreto modifica l'articolo 36 del dlgs
165/2001, che contiene le regole speciali del lavoro
flessibile, nell'ambito della pubblica amministrazione.
La norma vorrebbe coordinare la disciplina particolare della
p.a. con quella del privato, ma nell'attuale versione non
pare vi riesca. L'intento è limitare l'utilizzo del lavoro a
termine e flessibile. A questo scopo, si conferma che, a
differenza del settore privato, il lavoro flessibile nella
p.a. è «causale»: deve essere giustificato, cioè da
comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale.
La norma, tuttavia, dispone che al tempo determinato nel
pubblico impiego si applicano gli articoli 19 e seguenti del
dlgs 81/2015, che però prevedono la «acausalità» del
contratto. Unica eccezione espressamente prevista è
l'esclusione del diritto di precedenza, riservato solo al
personale assunto tramite chiamata dai centri per l'impiego,
per le qualifiche esecutive.
Stabilizzazioni. Per l'ennesima volta si stabilisce che la
p.a. deve «superare il precariato» e allo scopo la riforma
indica una serie di strade.
Sostanzialmente si indica alle amministrazioni di introdurre
nella pianificazione triennale dei fabbisogni di personale
l'assunzione con contratti a tempo indeterminato di
dipendenti già assunti con contratto a tempo determinato,
purché a suo tempo selezionati con procedure concorsuali, e
che abbiano maturato un certo numero di anni di servizio
(ancora da definire, ma pare saranno tre) alle dipendenze
dell'amministrazione che effettua la stabilizzazione.
Da queste stabilizzazioni saranno esclusi i dirigenti e i
componenti degli staff politici. La norma pare non
richiedere alcuna selezione particolare: unico presupposto è
la programmazione e, ovviamente, la verifica dei requisiti
di anzianità.
Un secondo tipo di stabilizzazione riguarderà tutti gli
altri dipendenti che abbiano condotto rapporti di lavoro
flessibile di altro tipo, sempre per una durata da definire
con l'amministrazione procedente. In questo caso, nel
triennio 2018-2020 si dà modo alle amministrazioni di
bandire concorsi con riserva di posti non inferiore al 50%
appunto in favore dei precari.
Risorse. Similmente a quanto già previsto nel dl 113/2016 in
tema di piano straordinario di stabilizzazione del personale
scolastico, la riforma intende favorire le stabilizzazioni
anche mediante un'operazione di autofinanziamento.
Si tratta, cioè, della possibilità di «travasare» la spesa
per lavori flessibili prevista dall'articolo 9, comma 28,
del dl 78/2010, trasformandola da spesa limitata nel tempo,
in fissa e continuativa, per finanziare appunto il passaggio
dei dipendenti dallo stato di precari a quello di dipendenti
a tempo determinato.
Proroga. Le amministrazioni potranno prorogare i
corrispondenti rapporti di lavoro flessibile con i soggetti
che partecipano alle procedure di stabilizzazione, fino alla
loro conclusione, nei limiti delle risorse utilizzabili per
le assunzioni a tempo indeterminato.
Blocco del lavoro flessibile. Per agevolare il salto dei
precari verso il lavoro stabile, lo schema di decreto impone
alle amministrazioni che si attivano per la stabilizzazione
il divieto di attivare lavori flessibili, finché non si
siano concluse le procedure di stabilizzazione.
Contestualmente, si prevede l'abolizione delle proroghe dei
contratti a tempo determinato a vario titolo disciplinate
dall'articolo 4, comma 9-bis, del dl 101/2013.
Collaborazioni. Restrizioni anche per l'utilizzo del lavoro
autonomo. La riforma contiene l'espresso divieto alle p.a.
di stipulare contratti di collaborazione che si concretino
in prestazioni esclusivamente personali, fortemente
condizionate dal datore pubblico nella fissazione di
modalità tempi e luoghi di lavoro.
Verrebbe, così, esteso alle p.a. il divieto di utilizzo
delle co.co.co. previsto dall'articolo 2 del dlgs 81/2015,
la cui estensione al lavoro pubblico è stata esclusa per
tutto il 2017 dal dl 244/2016
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Le
ordinanze dei sindaci avranno effetti stabili.
Razionalizzare i poteri di ordinanza dei sindaci,
individuando meglio le fattispecie in cui i primi cittadini
possono intervenire nel loro duplice ruolo di rappresentanti
delle comunità locali e di ufficiali del governo.
È uno degli obiettivi principali del decreto legge
sicurezza, approvato la scorsa settimana dal consiglio dei
ministri. Oltre a estendere l'efficacia temporale delle
ordinanze, che da «contingibili e urgenti» potranno assumere
anche effetti stabili nel tempo (si veda ItaliaOggi del
10/02/2017), il provvedimento voluto dal ministro
dell'interno, Marco Minniti, e condiviso dall'Anci punta a
mettere ordine in una materia la cui disciplina ha sempre
presentato confini labili, dando talora la stura a
interventi anche scomposti da parte di amministratori
interessati più alla visibilità mediatica che all'efficacia
delle misure adottate. A tal fine, viene prevista la
parziale riscrittura degli artt. 50 e 54 del Tuel (dlgs
267/2000).
I correttivi muovono da un'attenta analisi delle
fattispecie di cui all'articolo 2 del dm 05.08.2008
concernente il potere di ordinanza del sindaco in qualità di
ufficiale del governo per la tutela della sicurezza urbana,
previsto dall'art. 54: ne è emerso che le stesse
fattispecie, ricondotte all'attuazione di tale norma
presentano elementi di disomogeneità, facendo riferimento
anche a situazioni non strettamente correlate alla sfera
della sicurezza primaria, bensì ad aspetti che si collegano
a funzioni proprie dell'ente locale e quindi che rimandano
all'art. 50.
Per definire meglio i confini, nel nuovo testo
sono indicate situazioni legittimanti che fanno capo sia
alla prima sia alla seconda ipotesi, unificate, tuttavia,
dal dato comune che sarà comunque il sindaco a doversi fare
interprete della domanda locale di sicurezza e optare per
l'uno o l'altro degli strumenti a disposizione.
Laddove il
sindaco, dunque, si farà carico di fronteggiare situazioni
di inciviltà strettamente connesse alla rimozione di
situazioni di grave incuria o degrado, alla cura del decoro
urbano, nonché alla tutela della tranquillità e del riposo
dei residenti (prima in parte postulate dal citato dlgs in
quanto ricondotte all'alveo dei poteri sindacali di cui
all'art. 54), i provvedimenti adottati andranno a integrare
una nuova potestà di autonomo intervento, riconosciuta al
primo cittadino quale rappresentante della comunità locale
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017). |
APPALTI: Appalti,
le revisioni pericolose. Riforma 2016 a rischio con
l'introduzione delle modifiche. Il primo decreto correttivo
del codice dei contratti pubblici oggi all'esame del cdm.
Decreto correttivo del codice dei contratti pubblici oggi in
consiglio dei ministri per una prima informativa, con
contestuale avvio della consultazione pubblica con gli
operatori del settore; forti perplessità dal parlamento che
teme il superamento dei principi fondamentali della riforma
del 2016.
È questa la sintesi della situazione riguardante il primo
correttivo del codice dei contratti pubblici che dovrà
essere portato a termine entro il 19 aprile e sul quale il
ministro Graziano Delrio ha riferito mercoledì nel corso
dell'audizione svolta presso le commissioni riunite ambiente
e lavori pubblici di Camera e Senato.
Sui contenuti dello schema, che circola da una settimana, in
realtà il ministero aveva chiarito già una settimana fa che
si trattava di un «testo aperto» e non definitivo. E
mercoledì ne ha dato conferma anche il ministro delle
infrastrutture che ha ribadito che la bozza diffusa il 9
febbraio rappresentava solo «un testo preliminare, non
essendo ancora passata dal consiglio dei ministri e avendo
davanti a se ancora diversi passaggi». Più certezza si avrà
soltanto a valle della pubblicazione del testo che avverrà
oggi da parte della presidenza del consiglio che avvierà la
consultazione pubblica.
Poi, una volta sentita l'Anac, sarà necessario acquisire il
parere della Conferenza unificata e delle regioni, delle
commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato. Il tutto
entro la scadenza del 18 aprile. Complessivamente il lavoro
non è affatto semplice come è risultato chiaro anche dal
dibattito parlamentare svoltosi mercoledì in commissione.
Un attacco piuttosto duro è arrivato dal relatore della
legge delega e del decreto 50 in senato, Stefano Esposito
che non ha nascosto quello che ha definito il suo «profondo
imbarazzo per un testo che supera in molti punti le
indicazioni della delega» fra cui le deroghe concernenti
l'appalto integrato «che rimettono in discussione la
centralità del progetto», un argomento toccato anche da
altri esponenti della maggioranza, oltre che
dell'opposizione.
Su questo argomento il ministro ha replicato sottolineando
che non c'è alcun ribaltamento del principio per cui si va
in gara con il progetto esecutivo (che ha determinato «un
aumento degli incarichi di progettazioni del 50%») e che la
volontà è stata quella di utilizzare l'appalto integrato
alle sole «amministrazioni che al momento di entrata in
vigore del codice avevano già un progetto approvato; si
tratta quindi di un'apertura per casi limitati e definita
nel tempo».
Altro tema delicato è quello del subappalto per il quale il
ministro ha precisato che la proposta di tornare al limite
del 30% sulla sola categoria prevalente è stato previsto
perché «c'è una sentenza della Corte europea».
Sulla questione della qualificazione delle stazioni
appaltanti la relatrice della legge delega e del codice,
Raffaella Mariani, ha evidenziato che «si ampliano le
stazioni appaltanti che si autocertificano, il che non è
corretto perché va nella direzione opposta a quella
prefissata con il codice e cioè la riduzione e aggregazione
delle stazioni appaltanti».
Critiche e perplessità un po' da tutti i gruppi parlamentari
sono poi giunte sulla disciplina delle deroghe per la
protezione civile (che andrebbero ben definite), sui fondi
per la progettazione e sui ritardi nell'attuazione del
codice, elemento sul quale il ministro ha ammesso che «ci
sono sicuramente degli aspetti su cui sono in ritardo,
imputabili alla necessità di coordinamento con gli altri
ministeri: infatti sono alla quarta revisione che torna in
dietro dal Mef»
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Appalti, promozione con riserva. Ance: gare più semplici -
Professionisti: separare progetto e lavori.
Il decreto correttivo. Le reazioni alla bozza Mit con le modifiche al nuovo
codice verso la consultazione.
Promosso, ma con riserva. Dopo la
prima informativa di venerdì scorso in Consiglio dei ministri, il decreto
correttivo del Codice appalti ha incassato una lunga sequenza di reazioni di
imprese e progettisti. E la notizia è che, nonostante la bozza sia stata
costruita con il criterio del massimo ascolto possibile del mercato, gli
operatori non hanno risposto solo con un coro di assensi. Anzi. Se molti
elementi sono piaciuti, almeno altrettanti sono finiti nel mirino e sono già
oggetto di richieste di correzione. Così, la consultazione che il Governo
sta per aprire non si preannuncia come un passaggio indolore: sulla Cabina
di regia di Palazzo Chigi pioveranno parecchie obiezioni. E il testo che
andrà in Cdm all’esito di questa fase potrebbe risultare parecchio
modificato rispetto alla prima bozza.
I costruttori dell’Ance, per il tramite del presidente Gabriele Buia,
mostrano di apprezzare il «grande lavoro» svolto dalle
Infrastrutture, senza però nascondere che rimangono «alcuni punti critici».
Tra le richieste quella di innalzare a 2,5 milioni il tetto per
l’assegnazione degli appalti con il metodo antiturbativa per garantire
trasparenza e semplificare l’assegnazione degli interventi meno complessi,
oltre a e maggiore chiarezza sulle opere a scomputo. Resta inoltre da
sciogliere il nodo del sorteggio delle imprese da invitare alle procedure
negoziate senza bando, «che -sottolinea Buia- svilisce la qualificazione
degli operatori e rende impossibile la programmazione dell'attività di
impresa» .
I produttori di acciaio per le costruzioni rappresentati da Unicmi, tra cui
i fabbricanti di barriere stradali, hanno scritto al ministro Delrio per
contestare la scelta di escludere le manutenzioni dagli appalti che le
concessionarie autostradali dovranno affidare per forza con gara. I gestori
citati dal codice, ricorda l’associazione, «hanno ottenuto la concessione
senza aver vinto una gara». Per questo «dovrebbero avere l’obbligo di
affidare all’esterno il 100% dei contratti, senza neanche il limite dei
150.000 euro»
Gli impiantisti di Assistal e Cna impianti, dal canto loro, contestano gli
interventi sul subappalto che «non fanno bene né alle imprese né alle
stazioni appaltanti». Per il presidente di Assistal, Angelo Carlini le
correzioni sul subappalto sono un ritorno al passato che «stravolge in
maniera inaspettata il nuovo approccio alla regolazione del mercato che il
Dlgs 50/2016 ha introdotto». Mentre per il presidente di Cna impianti,
Carmine Battipaglia questa correzione è una «incredibile inversione di
marcia» che «è immotivata ed in quanto tale incomprensibile».
I progettisti, invece, concordano sull’impatto positivo che avrà l’obbligo
di utilizzare le tabelle del ministero della Giustizia per calcolare gli
importi da porre a base delle loro gare. Ma contestano le novità
sull’appalto integrato, l’affidamento contemporaneo di progetto e lavori. Lo
dice il presidente dell’Oice (società di ingegneria), Gabriele Scicolone: «Le
numerose deroghe che consentono l’appalto integrato sono un elemento del
tutto negativo, di forte ambiguità per gli enti che da otto mesi lanciano
gare di progettazione esecutiva le quali, a breve, porteranno a molti
appalti di lavori. Ci appare un passo indietro troppo macroscopico».
Per il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Armando Zambrano
le novità in tema di appalto integrato sono «in palese contrasto con la
delega attribuita al Governo». Se fossero confermate, «sparirebbe uno
dei principi cardine del nuovo Codice e cioè la distinzione tra
progettazione ed esecuzione». Durante la consultazione il Cni chiederà
al Governo di tornare indietro.
Perplessità sull’appalto integrato c’è anche tra gli architetti. Ma non
solo, come spiega il loro vicepresidente Rino La Mendola: «Serviranno
piccole modifiche per chiarire meglio le procedure di affidamento dei
livelli successivi della progettazione al vincitore di un concorso e per
ridurre l’impatto del cosiddetto accordo quadro sui servizi di architettura
e ingegneria». In questo caso il pericolo è che lo strumento tagli fuori
i piccoli professionisti.
Intanto, una novità di prossima applicazione (l’entrata in vigore è fissata
al prossimo 28 febbraio) arriva dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale
del decreto del ministero delle Infrastrutture sui requisiti per
l’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura. Tra le altre cose,
chiarisce la questione del contributo integrativo per le società di
ingegneria: andrà regolarmente versato alla loro Cassa di riferimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettisti,
più spazio ai giovani. Presenza obbligatoria nei
raggruppamenti di professionisti. Il decreto del Mit sulle
società di ingegneria. Contributo integrativo del 4% a
Inarcassa.
Obbligo di presenza di giovani
professionisti nei raggruppamenti temporanei di progettisti
che partecipano a gare pubbliche. Torna il contributo
integrativo del 4% Inarcassa per le società tra
professionisti e per le società di ingegneria. Nuovi
obblighi di comunicazione di dati al casellario Anac.
Presenza obbligatoria di un direttore tecnico per le società
di ingegneria.
Queste alcune delle novità contenute nel decreto del
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti n. 263 del 02.12.2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 33 del 13.02.2017, che, in attuazione del nuovo Codice dei
contratti pubblici (articolo 24), contiene il regolamento
sui requisiti che devono possedere i professionisti e le
società che si candidano per l'affidamento di servizi di
ingegneria e architettura.
Le novità.
Fra le novità va senz'altro segnalata la
reintroduzione dell'onere del 4% di contributo integrativo a
carico delle società tra professionisti e delle società di
ingegneria (che dovranno esporlo in fattura). Una
disposizione prevista dal 1998 e fino alla vigenza del
decreto 163/2006.
Il contributo sarà dovuto sulle attività
professionali prestate dalle società (tra professionisti e
di ingegneria) «qualora previsto dalle norme legislative che
regolano la Cassa di previdenza di categoria cui ciascun
firmatario del progetto fa riferimento in forza
dell'iscrizione obbligatoria» e sarà versato por quota alle
singole Casse dei professionisti firmatari.
Giovani professionisti.
Dal testo arriva anche un segnale
forte a favore dei giovani professionisti. E' ripristinata,
infatti, una disciplina che era stata abrogata ad aprile
scorso: l'obbligo di prevedere la presenza, nell'ambito dei
raggruppamenti temporanei di progettisti, di un giovane
professionista (un laureato o un diplomato, abilitato da
meno di cinque anni all'esercizio della professione e
iscritto all'albo).
Dal punto di vista dei requisiti, il
testo prevede che un professionista, singolo o associato,
possa assumere incarichi se è laureato (se non è prevista la
laurea è invece sufficiente il diploma, ad esempio il
geometra), ha superato l'esame di Stato e se è iscritto
all'albo professionale.
Le società tra professionisti devono
invece predisporre un organigramma dei soci, amministratori,
dipendenti e consulenti a partita Iva su base annua
firmatari dei progetti o dei rapporti di verifica e facenti
parte dell'ufficio di direzione lavori, con le indicazioni
delle competenze e responsabilità dei singoli soggetti
inseriti nell'organigramma.
Società di ingegneria.
Più stringente e dettagliata, invece,
la disciplina delle società di ingegneria che devono
disporre di un direttore tecnico che interagisce sul piano
tecnico e strategico con la società e che deve essere
laureato in ingegneria o architettura o altra disciplina
tecnica.
Le società di ingegneria devono anch'esse tenere un
organigramma e comunicarlo all'Anac unitamente all'atto di
nomina del direttore tecnico, all'atto costitutivo. Le
società che svolgono attività diverse da quelle
tecnico-professionali (esempio general contracting) devono
comunicare il fatturato specifico concernente queste
attività.
Importante notare che tutte queste informazioni,
comunicate e inserite nel casellario dell'Anac confluiranno
nella banca dati nazionale degli operatori economici e
saranno utilizzate per la verifica dei requisiti e delle
capacità economico- finanziarie e tecnico-organizzative di
cui all'articolo 83, del Codice in sede di gara per gli
affidamenti di servizi di architettura e di ingegneria
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
LAVORI PUBBLICI:
All’Adunanza plenaria alcune questioni sull’attestazione Soa
in caso di cessione di ramo di azienda.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione
– Cessione di ramo di azienda – In mancanza di nuova
richiesta di Soa – Conseguenza – Effetti dell’accertamento
effettuato dalla SOA – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione
all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Vanno rimesse all’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato le questioni:
a) se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, d.P.R. 05.10.2010, n. 207,
debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza
dell’attivazione del procedimento ivi contemplato (nuova
richiesta di attestazione SOA), la cessione del ramo
d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo,
il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba
prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in
concreto limita le fattispecie di cessione, contemplate
dalla disposizione, solo a quelle che, in quanto
suscettibili di dare vita ad un nuovo soggetto e di
sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il
cessionario se ne sia definitivamente spogliato, ed invece
esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del
compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle
parti come trasferimento di “rami aziendali”, si
riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia
funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al
soggetto cedente di ottenere la qualificazione;
b) se l’accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede
di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro,
oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post
il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente,
nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio
aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della
conservazione della qualificazione senza soluzione di
continuità (1).
---------------
(1)
La Sezione ha dato atto dei contrasti giurisprudenziali
insorti in ordine all’effetto della cessione di un ramo di
azienda sui requisiti di qualificazione.
Una parte della giurisprudenza (Cons.
St., sez. IV, 29.02.2016, n. 811,
n. 812 e
n. 813) ha affermato che, in mancanza
dell’attivazione del procedimento previsto dall’art. 76,
comma 11, d.P.R. n. 207 del 2010, la cessione del ramo
d’azienda comporta, in virtù dell’effetto traslativo, il
venir meno della qualificazione.
Altra parte della giurisprudenza (Cons.
St., sez. V, 18.10.2016, n. 4347 e
n. 4348) ha invece sostenuto che non merita
condivisione la tesi secondo la quale ogni trasferimento di
ramo aziendale comporta comunque, anche se il cedente non
perde la consistenza che gli ha consentito di ottenere le
attestazioni SOA, l’automatica decadenza dalla loro
titolarità.
La Sezione -nel rimettere, a fronte di tale contrasto
giurisprudenziale, la questione all’Adunanza plenaria- ha
affermato di aderire all’orientamento espresso nelle
sentenze della sez. V, secondo il quale non ogni
trasferimento di ramo di azienda comporta, sempre e
comunque, l’automatica decadenza dalla qualificazione,
potendo tale conclusione essere sostenuta solo nell’ipotesi
in cui il cedente abbia concretamente perso la consistenza
aziendale che gli aveva consentito di ottenere le
attestazioni SOA.
Nessun automatismo acquisitivo vige dunque per il
cessionario.
La Sezione ha rimesso all’Adunanza Plenaria, anche la
questione se, ai fini della conservazione della
qualificazione SOA, possa assumere rilevanza l’attestazione
successiva con cui l’organismo SOA accerti che, anche in
seguito alla cessione di una parte del compendio aziendale,
l’impresa cedente mantenga tutti i prescritti requisiti.
Al riguardo, una parte della giurisprudenza (Cons.
St., sez. IV, 29.02.2016, n. 811,
n. 812 e
n. 813)
ha sostenuto che, in caso di cessione di un ramo d’azienda,
né il cedente né il cessionario potrebbero avvalersi della
qualificazione posseduta dall’azienda ceduta, pur potendo
richiederne una nuova. Ne deriverebbe la conseguenza che
l’accertamento effettuato dalla SOA potrebbe valere solo per
il futuro, senza alcuna idoneità “sanante” della
perdita dell’attestazione, derivante automaticamente dalla
cessione.
La Sezione ha affermato di non condividere questa tesi
interpretativa, la quale potrebbe prestarsi a sospetti di
incostituzionalità, nella misura in cui giunge ad equiparare
irragionevolmente la situazione del cessionario a quella del
cedente, trascurando di considerare che:
a) il cessionario, in quanto soggetto nuovo, “nato” dalla
cessione, è giustamente impedito nella spendita della
qualificazione,con conseguente impossibilità di partecipare
nelle more alle gare -trattandosi di un nuovo soggetto che
intende qualificarsi sulla base di requisiti che prima
oggettivamente non possedeva- sino a quando la SOA non abbia
attestato che i requisiti acquistati siano in concreto
sufficienti a conseguire la qualificazione;
b) il cedente è invece un soggetto che possedeva i requisiti e che
si presume continui a possederli sino a quando la SOA in
sede di verifica non lo escluda, con il corollario che, ove
invece la verifica confermi la permanenza dei requisiti,
nessun dubbio dovrebbe porsi circa il diritto a spendere la
qualificazione senza soluzione di continuità. L’accertamento
in questa specifica ipotesi, seppur operato ex post,
sostanzia -a differenza del caso del cessionario che aspira
ad un quid novi- la conferma di una qualificazione
già posseduta (Consiglio
di Stato, Sez. III,
ordinanza 13.03.2017 n. 1152
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d.
taglio delle ali: rimessione all’Adunanza plenaria.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte
anomale – Offerta al prezzo più basso – Taglio delle ali –
Calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle
ali – Criterio – Rimessione all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato.
Vanno rimesse all’Adunanza plenaria
le questioni se, quando il criterio dell’aggiudicazione è
quello del prezzo più basso, ai fini del calcolo delle
offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali:
a) nel calcolo del 10% delle offerte aventi maggiore e/o minore
ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1, d.lgs. 12.04.2006,
n. 163, occorra computare tutte le offerte aventi medesimo
valore (e, dunque, medesimo ribasso) singolarmente una ad
una o, invece, quale unica offerta (c.d. blocco unitario),
facendo detta disposizione riferimento, letteralmente,
all’esclusione del 10% delle offerte aventi maggiore e
minore ribasso e non dei singoli ribassi;
b) la disposizione regolamentare dell’art. 121, comma 1, secondo
periodo, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, nel prevedere che
«qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di
cui all’art. 86, comma 1, del Codice siano presenti una o
più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da
accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai
fini del successivo calcolo della soglia di anomalia»,
intenda o, comunque, presupponga che le offerte aventi
eguale valore rispetto a quelle da accantonare siano
considerate “accantonate” e accorpate come un’unica offerta
o, invece, si limiti a prevedere solo che debbano essere
escluse (“accantonate”) dal calcolo della soglia di anomalia
le offerte che, pur non rientrando nella quota algebrica del
10%, abbiano tuttavia eguale valore rispetto a quelle da
accantonare e cioè, per logica necessità, a quelle situate
al margine estremo delle ali (c.d. offerte a cavallo) (1).
---------------
(1)
Ha preliminarmente ricordato la Sezione che per individuare
la soglia di anomalia oltre la quale le offerte sono
considerate anormalmente basse nelle gare aggiudicate
secondo il criterio del prezzo più basso, il legislatore ha
prestabilito un meccanismo secondo cui, dopo l’ammissione
delle offerte, sono previste le seguenti fasi:
- il c.d. taglio delle ali e, cioè, un operazione aritmetica di
accantonamento che comporta l’esclusione, dal successivo
calcolo della soglia, del dieci per cento, arrotondato
all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di
maggior ribasso e di quelle di minor ribasso;
- il calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le residue offerte;
- il calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali
che in tali offerte superano la predetta media;
- la somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo scarto
medio aritmetico, con la conseguente determinazione della
soglia di anomalia.
L’art. 121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 ha ulteriormente
precisato, nel primo periodo, che «ai fini della
individuazione della soglia di anomalia di cui all’art. 86,
comma 1, del Codice, le offerte aventi un uguale valore di
ribasso sono prese distintamente nei loro singoli valori in
considerazione sia per il calcolo della media aritmetica,
sia per il calcolo dello scarto medio aritmetico» e, nel
secondo periodo, che «qualora nell’effettuare il calcolo
del dieci per cento di cui all’art. 86, comma 1, del Codice
siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto
alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da
accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di
anomalia».
Ha quindi affermato il Consiglio di Stato che mentre la
prima parte della disposizione è chiara e non pare suscitare
particolari dubbi interpretativi, nel senso che le offerte
residue devono essere considerate singolarmente, «distintamente»,
una ad una, per calcolare sia la media aritmetica che lo
scarto medio aritmetico, anche se alcune di esse presentino
ribassi di eguale valore, meno chiara, invece, appare la
formulazione della seconda parte dell’art. 121, comma 1,
laddove prevede che, nell’effettuare il c.d. taglio delle
ali e nell’escludere dal calcolo il 10% delle offerte aventi
il maggiore e minore ribasso, qualora vi siano una o più
offerte di eguale valore rispetto a quelle comprese nel 10%,
anche dette offerte devono essere accantonate nel meccanismo
di calcolo della soglia di anomalia.
La Sezione ha quindi affermato che sulla questione si sono
registrati diversi orientamenti.
Secondo un primo orientamento (Cons.
St., sez. V, 28.08.2014, n. 4429) di questo
Consiglio, da ritenersi prevalente almeno fino al 2014, nel
caso in cui siano state presentate due o più offerte, aventi
la medesima riduzione percentuale, che si trovino nella
fascia delle imprese rientranti nel 10%, ogni offerta deve
essere considerata individualmente (c.d. criterio assoluto),
perché la soluzione opposta comporterebbe il superamento del
limite, fissato dal legislatore nel 10%, e si porrebbe in
contrasto con il dato letterale dell’art. 86, comma 1,
d.lgs. n. 163 del 2006, in assenza di ragioni sostenibili o
ispirate all’interesse pubblico.
Non vi sarebbero elementi, secondo tale orientamento, dai
quali possa desumersi, come regola generale, che in caso di
offerte con identico ribasso le stesse vadano considerate
unitariamente come unica entità (c.d. criterio relativo).
L’unica eccezione a questa regola viene desunta per le
offerte che, nel calcolo per il taglio delle ali, vengono a
trovarsi a cavallo della percentuale del 10% in quanto,
secondo tale consolidato orientamento, si fonderebbe su due
considerazioni:
a) la ratio dell’esclusione, dal novero delle offerte prese
in considerazione, di quelle collocate ai margini estremi
dell’ala sta nell’intento di eliminare in radice l’influenza
che possono avere, sulla media dei ribassi, offerte
disancorate dai valori medi, in modo da scoraggiare la
presentazione di offerte al solo fine di condizionare la
media;
b) nel caso in cui siano più di una le offerte che presentino la
medesima percentuale di ribasso collocate a cavallo della
soglia del dieci per cento e l’ampiezza dell’ala non
consenta di escluderle tutte, non resta quindi altra strada
che quella di attribuire alla parola «offerte» un
significato non assoluto ma relativo, intendendola come
espressione del ribasso percentuale in essa contenuto.
La presenza di più offerte che presentino la medesima
percentuale di ribasso, collocate a cavallo della soglia del
10%, non può che comportare l’effetto giuridico della loro
integrale esclusione dal computo delle successive
operazioni. In tutti gli altri casi, per dato letterale
inequivocabile, opera invece il c.d. criterio assoluto, con
considerazione distinta e separata delle singole offerte,
anche se aventi lo stesso ribasso, essendo stabilito in
particolare, per quanto qui rileva, che la media aritmetica
riguarda i ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse e
non i ribassi in essi contenuti (Cons. St., sez. V,
15.10.2009, n. 6323).
Un secondo orientamento, più recente -sostenuto dall’allora
Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nel parere n.
133 del 24.07.2013 e, poi, dall’ANAC nel parere n. 87 del
23.04.2014 e recepito, infine, dal Consiglio di Stato (sez.
V, 08.06.2015, n. 2813; id.,
sez. IV, 29.02.2016, n. 818)– ha affermato che il
“taglio delle ali” intercetta il problema delle
offerte identiche in due situazioni e, precisamente, quando
vi siano più offerte identiche all’interno delle ali e
quanto vi siano più offerte identiche a cavallo delle ali.
Il primo aspetto è stato generalmente risolto (Cons.
St., sez. V, 15.10.2009, n. 6323) con
l’applicazione del criterio assoluto e il secondo con
l’applicazione del criterio assoluto, ritenendosi che
all’interno delle ali le offerte debbano essere considerate
e computate nella loro individualità, indipendentemente
dalla natura dei ribassi, in quanto la disposizione fa
riferimento alle offerte e non al valore delle stesse, con
l’unica deroga, che pure si è vista, delle offerte identiche
situate a cavallo del 10%, che devono essere considerate
come un’unica offerta (criterio relativo), per evitare una
contraddizioni logica e, cioè, che un ribasso venga
accantonato, in quanto fuorviante, ma contemporaneamente sia
utilizzato per il calcolo della media aritmetica e dello
scarto medio aritmetico perché inserito, identico, in
un’altra offerta che fuoriesce dal numero di quelle da
accantonare.
Una volta ammesso, però, che il tenore letterale dell’art.
86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 possa essere superato in
via interpretativa per le offerte a cavallo delle ali, non
vi sono ragioni, secondo l’ANAC, per non applicare lo stesso
metodo al caso delle offerte che rimangono interne alle ali.
Identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso,
accorpando le offerte con valori identici, consente, nella
fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo
dai ribassi effettivamente marginali, definiti ex lege
nel limite del 10%, superiore e inferiore, di oscillazione
delle offerte.
Tale orientamento ha affermato che l’art. 121, comma 1,
d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in cui, nel secondo
periodo, prevede che «qualora nell’effettuare il calcolo
del dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del
codice siano presenti una o più offerte di eguale valore
rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono
altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della
soglia di anomalia», ha affrontato espressamente il
problema del taglio delle ali, specificando che le offerte
identiche a quelle da accantonare (senza distinzione tra
ribassi a cavallo o all’interno delle ali) devono essere
parimenti accantonate, ciò che equivale a dire che le
offerte identiche devono essere considerate, in questa fase,
come un’offerta unica, mentre il primo periodo dell’art.
121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 al contrario, nel
disciplinare il calcolo della media aritmetica e dello
scarto medio aritmetico, precisa che le offerte identiche
sono prese in considerazione distintamente nei loro singoli
valori.
In questo modo, secondo l’ANAC, per individuare le offerte
da accantonare, si fa riferimento ai valori di ribasso,
accorpando i valori identici, mentre nella fase successiva,
calcolando la media aritmetica e lo scarto medio aritmetico,
si utilizzano tutte le offerte, anche quelle con valori
identici, essendo ragionevole che, allorché sia stato
circoscritto in modo rigoroso l’intervallo dei ribassi
attendibili ai fini del calcolo della soglia di anomalia,
alla definizione delle medie partecipino tutte le offerte
non accantonate (parere n. 87 dell’08.05.2014).
Cons. St., sez. V, 08.06.2015, n. 2813 ha
ritenuto le argomentazioni dell’Autorità più garantiste
dell’interesse pubblico, prevenendo manipolazioni della gara
e del suo esito, ostacolando condotte collusive in sede di
formulazione delle percentuali di ribasso.
Più in particolare, poi, il tradizionale orientamento è
stato contestato e ritenuto, ormai, superato da una più
recente pronuncia (Cons.
St., sez. IV, 29.02.2016, n. 818), che ha fatto
leva sulla considerazione che «in ogni caso le offerte
identiche devono essere considerate ai suddetti fini come
una offerta unica, essendo di carattere generale la finalità
di evitare che identici ribassi (a cavallo e all’interno
delle ali) limitino l’utilità dell’accantonamento e amplino
eccessivamente la base di calcolo della media aritmetica e
dello scarto medio aritmetico, rendendo inaffidabili i
risultati» (parere n. 133 del 02.08.2013).
Nella ipotesi in cui, all’interno dell’ala, si collochi una
offerta con un determinato ribasso (che, per rientrare nel
10%, è già ritenuta dal legislatore “inaffidabile”)
appare evidente, secondo tale pronuncia, che tutte le
eventuali offerte di identico ribasso –sia collocate
individualmente nell’ambito del 10% del numero delle offerte
complessivamente presentate, sia collocate al di fuori di un
10% così “individualmente” calcolato– debbano essere
«accantonate» e, dunque, rese ininfluenti ai fini
della soglia, considerandole come un’unica offerta.
E ciò in quanto, «onde pervenire ad un risultato
affidabile della soglia di anomalia, non ha alcun senso
considerare le offerte solo nella misura in cui,
numericamente, saturino la percentuale del 10%, ma occorre
anche considerare le offerte che –presentando un identico
ribasso certamente non affidabile, per effetto
dell’applicazione del criterio normativo primario (limite
del 10%)– devono essere unitariamente considerate (che si
trovino all’interno o a cavallo dell’ala)». Solo in
questo modo il criterio del taglio delle ali consentirebbe
di conseguire l’affidabilità del risultato.
D’altra parte, ha ancora osservato tale pronuncia, è appena
il caso di notare che il legislatore, nel riferirsi alle
offerte, solo apparentemente indica una offerta
singolarmente intesa, a prescindere dal valore del ribasso
che la caratterizza, poiché è proprio tale valore ciò che il
legislatore in realtà considera, perché è solo tale valore
(ove sproporzionato per eccesso o per difetto) ad essere
inaffidabile (non l’offerta individualmente e formalmente
considerata).
In tal senso, dunque, il 10% costituirebbe solo il limite
numerico delle offerte il cui valore è giudicato
inaffidabile, ma «poiché, come si è detto, inaffidabili
sono i valori e non le offerte, è del tutto evidente che, in
presenza di più offerte con identico valore, queste non
possono essere intese che come unica offerta, a prescindere
dalla loro collocazione (all’interno o a cavallo dell’ala)»
(Consiglio di
Stato, Sez. III,
ordinanza 13.03.2017 n. 1151
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Ai
sensi dell’art. 52, co. 2, r.d. n. 2537/1925, “…le opere di
edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico
ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati
dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle
arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma
la parte tecnica ne può essere compiuta tanto
dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Sicché, sul punto costituisce principio riconosciuto dalla
giurisprudenza quello per il quale: “… la parziale riserva
di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la
totalità degli interventi concernenti immobili di interesse
storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di
intervento di edilizia civile che implichino scelte
culturali connesse alla maggiore preparazione accademica
conseguita dagli architetti nell'ambito delle attività di
restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di
immobili …”.
----------------
Nel caso di specie, la locale Soprintendenza ha
predeterminato in termini di assoluto dettaglio il modo di
esercizio dell’opera, i materiali da utilizzare, i recuperi
di materiali da effettuare, la modalità di allocazione dei
veicoli da ospitare a parcheggio, ecc.
Orbene, a fronte di un progetto avente contenuto così
analitico, che definisce in termini di esaustività ogni
possibile profilo di tutela degli aspetti culturali
dell’opera in progetto, è evidente che l’attività oggetto di
gara si risolve in una mera ingegnerizzazione del progetto
stesso, con conseguente esclusione di scelte che fuoriescano
dalla ordinaria competenza di un ingegnere.
Pertanto, la tipologia dell’opera, per come compiutamente
definita dalla locale Soprintendenza, rende del tutto
irragionevole –e dunque illegittima– la limitazione della
partecipazione ai soli iscritti all’Albo degli Architetti, e
non anche a quelli iscritti all’Albo degli Ingegneri.
----------------
... per l'annullamento:
- dell'Avviso pubblico bandito dal Comune di Martano per
l'indagine di mercato per l'affidamento dei servizi
professionali di progettazione definitiva ed esecutiva,
direzione lavori e coordinamento della sicurezza nella fase
progettuale ed esecutiva per la "riqualificazione di via
Marconi e Via degli Uffici";
- di ogni altro atto connesso, presupposto e/o
consequenziale, ivi compresi: il parere reso dalla
Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le
Province di Brindisi, Lecce e Taranto in data 10/12/2015 -
24/11/2016 (prot. n. 0007486 CL 34.19.04/68), ricevuto dal
Comune di Martano il 24/11/2016 (prot. d'arrivo 0016507 del
24/11/2016);
...
1. È impugnato l'Avviso pubblico bandito dal Comune di
Martano per l'indagine di mercato per l'affidamento dei
servizi professionali di progettazione definitiva ed
esecutiva, direzione lavori e coordinamento della sicurezza
nella fase progettuale ed esecutiva per la "riqualificazione
di via Marconi e Via degli Uffici", nella parte in cui
(art. 7) indica quale requisito di idoneità quello della “Iscrizione
nell’Albo professionale degli Architetti, giusto decreto
MiBAC del 29.12.2011”.
A sostegno del ricorso, i ricorrenti hanno articolato i
seguenti motivi di gravame, appresso sintetizzati:
violazione dell’art. 52 r.d. n. 2537/1925; eccesso di potere
per errore, difetto di motivazione, contraddittorietà
manifesta.
Nella camera di consiglio dell’08.03.2017, fissata per la
discussione della domanda cautelare, il Collegio, accertata
la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria,
sentite sul punto le parti costituite, ha definito il
giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma
semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a..
2. Con un ampio e articolato motivo di gravame, deducono i
ricorrenti l’illegittimità dell’atto impugnato, in quanto
immotivatamente limitativo della possibilità, per gli
iscritti all’Albo degli Ingegneri, di concorrere per
l’aggiudicazione della gara in questione.
Il motivo è fondato.
2.2. Ai sensi dell’art. 52, co. 2, r.d. n. 2537/1925, “…le
opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere
artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici
contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e
le belle arti, sono di spettanza della professione di
architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto
dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
Tale essendo la previsione normativa di riferimento, occorre
ora indagarne la portata.
2.2. Sul punto, costituisce principio riconosciuto dalla
giurisprudenza del Consiglio di Stato, nonché di questo
stesso TAR, quello per il quale: “… la parziale riserva
di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la
totalità degli interventi concernenti immobili di interesse
storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di
intervento di edilizia civile che implichino scelte
culturali connesse alla maggiore preparazione accademica
conseguita dagli architetti nell'ambito delle attività di
restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di
immobili …” (C.d.S, VI, 09.01.2014, n. 21).
3. Tanto premesso, e venendo ora al caso di specie, vi è in
atti Parere MIBAC 24.11.2016, con il quale la locale
Soprintendenza ha predeterminato in termini di assoluto
dettaglio il modo di esercizio dell’opera, i materiali da
utilizzare, i recuperi di materiali da effettuare, la
modalità di allocazione dei veicoli da ospitare a
parcheggio, ecc.
Orbene, a fronte di un parere avente contenuto così
analitico, che definisce in termini di esaustività ogni
possibile profilo di tutela degli aspetti culturali
dell’opera in progetto, è evidente che l’attività oggetto di
gara si risolve in una mera ingegnerizzazione del progetto
stesso, con conseguente esclusione di scelte che fuoriescano
dalla ordinaria competenza di un ingegnere.
Pertanto, la tipologia dell’opera, per come compiutamente
definita dalla locale Soprintendenza, rende del tutto
irragionevole –e dunque illegittima– la limitazione della
partecipazione ai soli iscritti all’Albo degli Architetti, e
non anche a quelli iscritti all’Albo degli Ingegneri.
4. Per tali ragioni, il ricorso è fondato.
Ne consegue l’annullamento dell’atto impugnato
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 10.03.2017 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Impugnazione della disciplina di gara che prevede le
modalità di assegnazione di un solo lotto in caso di offerta
più conveniente per più lotti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Lotti –
Offerta più conveniente presentata da uno stesso concorrente
per entrambi i lotti - Affidamento - Modalità non prevista
nel bando – Previsione, contenuta in una errata corrige del
bando, di aggiudicare il lotto che determina la combinazione
di punteggi più conveniente per la stazione appaltante –
Impugnazione della errata corrige – Inammissibilità del
ricorso.
Qualora la lex specialis di gara
preveda l’assegnazione di uno solo dei due lotti in gara
senza però indicare un criterio di aggiudicazione nel caso
in cui uno stesso concorrente abbia presentato l’offerta più
conveniente per entrambi i lotti, è inammissibile per
carenza di interesse il ricorso con il quale detto
concorrente impugna il bando e la successiva errata corrige
dello stesso bando, che a fronte del delineato esito (la
stessa concorrente classificata al primo posto in entrambi i
lotti) prevede che sia assegnato il lotto che determina la
combinazione di punteggi più conveniente per la stazione
appaltante e non invece il lotto più conveniente per il
concorrente, e ciò in quanto una volta espunta la clausola
contestata non residuerebbe nella lex specialis di gara un
diverso criterio in base al quale procedere, con la
conseguenza che non sarebbe aggiudicabile nessuno die due
lotti (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar
che non sarebbe neanche invocabile, a seguito di
annullamento della errata corrige, l’applicabilità del
chiarimento cronologicamente precedente poiché, a tacere del
fatto che veniva posto nel nulla dalla successiva
integrazione (il cui eventuale annullamento non ne
determinerebbe comunque la riviviscenza), ai sensi della
seconda parte del comma 3 dell’art. 51, d.lgs. 18.04.2016,
n. 50 il criterio in esame deve essere contenuto nella
disciplina di gara (“Nei medesimi documenti di gara [le
Stazioni appaltanti, ndr.] indicano …” con la
conseguenza che, in assenza di una originaria previsione
nella lex specialis, non può che procedersi con una
espressa integrazione della stessa.
Integrazione che, introducendo elementi nuovi suscettibili
di determinare una diversa formulazione delle offerte,
richiede il ricorso alla procedura di cui all’art. 79, comma
3, d.lgs. n. 50 del 2016 che, in presenza di simili ipotesi,
dispone che “le stazioni appaltanti prorogano i termini
per la ricezione delle offerte in modo che gli operatori
economici interessati possano prendere conoscenza di tutte
le informazioni necessarie alla preparazione delle offerte
nei casi seguenti: … b) se sono effettuate modifiche
significative ai documenti di gara”.
Non vi è dubbio che un criterio incidente sulla
individuazione dell’aggiudicatario in presenza di uno dei
possibili esiti concorsuali non possa che considerarsi una
modifica e/o integrazione significativa dei documenti di
gara nei sensi di cui alla norma richiamata.
Ne deriva che l’eventuale annullamento della contestata
integrazione non avrebbe potuto in ogni caso far rivivere il
precedente chiarimento poiché, aderendo a tale tesi, si
ammetterebbe l’astratta possibilità di aggirare l’illustrata
disposizione normativa mediante integrazioni postume della
lex specialis.
La Stazione appaltante, pertanto, in caso di accoglimento
della domanda di parte ricorrente, si troverebbe nella
condizione di non poter procedere all’aggiudicazione dei
lotti causa l’assenza nei documenti di gara di uno specifico
criterio applicabile la caso di specie (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 10.03.2017 n. 94
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia la possibilità di contemporanea
partecipazione ad una stessa gara di diversi syndacates
aderenti ai Lloyd’s of London con offerte sottoscritte da
un’unica persona.
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Contratti della
Pubblica amministrazione – Gara – Partecipazione
contemporanea di diversi syndacates aderenti ai Lloyd’s of
London – Offerte sottoscritte da un’unica persona –
Possibilità – Rimessione alla Corte di giustizia UE.
Va rimessa alla Corte di Giustizia
dell'Unione europea la questione pregiudiziale se i principi
sanciti dalla norme europee in materia di concorrenza, di
cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE),
nonché i principi che ne derivano, quali l’autonomia e la
segretezza delle offerte, ostino ad una normativa nazionale,
come interpretata dalla giurisprudenza, che ammette la
contemporanea partecipazione a una medesima gara indetta da
un’amministrazione aggiudicatrice di diversi syndacates
aderenti ai Lloyd’s of London, le cui offerte siano state
sottoscritte da un’unica persona, Rappresentante Generale
per il Paese (1).
---------------
(1) La richiesta di rimessione alla Corte di giustizia si fonda
sulla necessità di valutare la compatibilità, con i principi
del diritto europeo e con gli artt. 101 e 102 TFUE
dell’interpretazione, degli artt. 8 e 10 della Direttiva
73/239 CEE, dell’art. 32 della Direttiva 49/92/CEE,
sostituiti dalla Direttiva 2009/138 CE, fatta propria dalla
giurisprudenza amministrativa nazionale. Secondo tale
interpretazione il Rappresentante Generale per l’Italia dei
Lloyd’s of London (associazione riconosciuta di persone
fisiche e giuridiche -members- che aderiscono ad essa
singolarmente o in aggregazioni non costituenti associazioni
–syndacates- e che, secondo la normativa interna del
Regno Unito, operano nei vari Paesi mediante un unico
Rappresentante Generale) può sottoscrivere la domanda di
partecipazione e l’offerta economica di una pluralità di
syndacates senza incorrere nella violazione dell’art.
38, comma 1, lett. m-quater, e comma 2, d.lgs. 12.04.2006,
n. 163, anch’esso di derivazione europea, in quanto
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE.
Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza del giudice
amministrativo (Tar Milano, sez. III, 29.09.1998, n. 2271;
Tar Marche 26.04.2007 n. 649; Tar Umbria 09.02.2010, n. 60)
ha ritenuto che la partecipazione a una stessa gara di più
syndacates non implicasse la violazione dei principi
posti dalle norme europee a presidio del principio di
concorrenza, di cui costituiscono corollario i principi di
autonomia e segretezza delle offerte. A sostegno di tale
orientamento adottato le previsioni delle direttive
applicabili alle fattispecie oggetto dei giudizi, tutte
anteriori all’entrata in vigore della direttiva 2009/138/CE.
In particolare, hanno richiamato la direttiva 73/239/CEE.
L’art. 8 di tale direttiva, per quanto riguarda il Regno
Unito, contemplava quale forma ammessa di impresa di
assicurazione l’associazione di sottoscrittori denominata
Lloyd’s.
Tali decisioni hanno, inoltre, evidenziato la previsione
dell’art. 10 della stessa direttiva, che prevedeva
esplicitamente che i sottoscrittori fossero rappresentati
all’estero da un unico mandatario in ogni paese.
Questi principi sono stati confermati nella terza direttiva
in materia di assicurazioni, la 92/49/CEE (Tar Milano, sez.
III, 29.09.1998, n. 2271).
Da qui la conclusione secondo cui le norme europee
contemplano espressamente i Lloyd’s of London,
riconoscendoli quale istituzione diversa dagli assicuratori
di tipo classico, nella quale i sottoscrittori sono
costretti ad avvalersi di un unico rappresentante diverso in
ogni Paese.
Ha ancora chiarito il Tar che la situazione a livello
normativo non è sostanzialmente mutata con l’introduzione
dell’ultima direttiva (2009/138/CE), che ha, anzi,
ulteriormente precisato la necessità dell’indicazione del
nominativo di una “...persona che sia dotata di poteri
sufficienti ad impegnare nei confronti dei terzi l’impresa
di assicurazione o, per quanto riguarda i Lloyd’s, i
sottoscrittori interessati e a rappresentarla o a
rappresentarli anche dinanzi alle autorità e agli organi
giurisdizionali dello Stato membro ospitante («mandatario
generale»)”.
La questione interpretativa che si rimette alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea concerne la compatibilità
della descritta normativa nazionale, come interpretata dalla
giurisprudenza, con il principio di concorrenza che permea
le norme dell’Unione Europea nella materia dell’affidamento
dei contratti pubblici.
Ha osservato il Tar che le indicate norme della direttive
sopra richiamate abilitano senz’altro i sottoscrittori dei
Lloyd’s ad operare negli Stati dell’Unione Europea, mediante
un unico Rappresentante Generale.
Ha tuttavia aggiunto il Tribunale che tali norme non
sembrano implicare necessariamente che diversi syndacates
aderenti ai Lloyd’s possano partecipare contemporaneamente a
una medesima gara indetta da un’amministrazione
aggiudicatrice.
Si deve certamente riconoscere che i vari syndacates
operano in piena autonomia e in concorrenza fra di loro.
Occorre, però, tenere conto che i procedimenti di evidenza
pubblica, cui partecipano in situazione di concorrenza una
pluralità di soggetti economici, sono retti da norme
imperative, rigidamente finalizzate al rispetto della par
condicio competitorum.
In relazione ai procedimenti di evidenza pubblica, per la
specificità degli interessi coinvolti, che devono trovare
garanzia assoluta e oggettiva, deve ammettersi che la
sottoscrizione da parte di una stessa persona di due o più
offerte presentate da concorrenti diversi può determinare la
compromissione dell’autonomia e della segretezza delle
offerte stesse e ledere, perciò, il principio di concorrenza
consacrato, tra l’altro, negli artt. 101 e 102 del TFUE (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
ordinanza 09.03.2017 n. 385
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Dichiarazione di impegno a costituire un Rti sottoscritto da
soggetto non legittimato e valutazione della gravità di una
condanna penale riportata dal concorrente.
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●
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese - Dichiarazione di impegno a
costituire il Rti – Sottoscrizione di soggetto non
legittimato – Ratifica – Inammissibilità.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Requisiti di ammissione –
Condanna penale – Gravità – Valutazione della sola stazione
appaltante – Motivazione – Quando occorre.
●
E’ inammissibile la ratifica della sottoscrizione
della dichiarazione di impegno a costituire un
raggruppamento temporaneo di imprese ai fini della
partecipazione ad una gara per l’affidamento di un appalto
servizi, da parte di un procuratore se la procura notarile a
lui conferita è circoscritta alla firma di offerte e
documenti relativi alla partecipazione alla procedure di
gara su appalti di lavori e concessioni (1).
●
Nelle gare d'appalto la valutazione in ordine
alla gravità delle eventuali condanne riportate dai
concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità
professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante
nell'ambito dell'esercizio del potere discrezionale ad essa
attribuito e deve essere effettuata mediante la disamina in
concreto delle caratteristiche dell'appalto, del tipo di
condanna, della natura e delle concrete modalità di
commissione del reato; laddove l’Amministrazione non ritenga
il precedente penale grave ovvero incisivo della moralità
professionale del concorrente, non è tenuta ed esplicitare
in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento,
potendo la motivazione di non gravità del reato risultare
anche implicita o per facta concludentia, ossia con
l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione
di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare
onere motivazionale.
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(1)
Ha chiarito il Tar che l'art. 1399 cod. civ., nella parte in
cui prevede la possibilità di ratifica del contratto
concluso da un rappresentante senza averne i poteri o che ha
agito eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è
disposizione volta a regolare rapporti tra privati e non è
estensibile alle gare ed ai contratti ad evidenza pubblica,
settore nel quale operano norme dirette alla tutela di un
interesse pubblico generale di sicura e preventiva
riferibilità dell’offerta e del principio della par
condicio, senza possibilità di esenzione dalla loro
osservanza
Ha aggiunto il Tar che la sottoscrizione della dichiarazione
di impegno a costituire il raggruppamento temporaneo e della
domanda di partecipazione alla gara da parte di soggetto
privo di potere non consente di imputare l’offerta alla
persona giuridica.
La sottoscrizione dei documenti in argomento assolve
all'ineludibile necessità di rapportare l'offerta al
proponente e di impegnarlo nei confronti della stazione
appaltante, cosicché alla sua mancanza non può supplirsi
attraverso altre forme di riconducibilità dell'atto al suo
autore. Pertanto, non è invocabile nel caso in esame il
soccorso istruttorio, trattandosi di irregolarità essenziale
attinente alla riconducibilità dell’offerta all’impresa
mandante, la quale non ha sottoscritto validamente né la
domanda di partecipazione né la dichiarazione di impegno a
costituire l’a.t.i. ai fini della gara (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 09.03.2017 n. 363 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Le censure in cui si articola il ricorso principale
possono essere trattate congiuntamente, essendo connesse tra
loro.
Con il primo mezzo l’istante lamenta il difetto di
motivazione e deduce che le comunicazioni rese dai legali
rappresentanti a seguito del trasferimento di ramo
d’azienda, ai sensi dell’art. 116 del d.lgs. n. 163/2006,
hanno valore di ratifica, idonea a sanare l’eventuale
difetto di sottoscrizione; con la seconda censura la
ricorrente lamenta l’illegittimità del mancato utilizzo
dell’istituto del soccorso istruttorio ex artt. 46, comma
1-ter, e 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163/2006; con il terzo motivo la deducente fa leva su canoni interpretativi e
circostanze di fatto che dovevano indurre a ritenere valida
la sottoscrizione del procuratore Sa.St..
Le censure sono infondate.
Il contestato provvedimento di esclusione si richiama al
precedente giurisprudenziale costituito dalla sentenza di
questo TAR n. 871/2016 ed evidenzia che la domanda di
partecipazione è stata formata da soggetto privo dei
necessari poteri, coincidente con la persona cui faceva
riferimento la controversia risolta dalla predetta sentenza
(documenti n. 8 e 10 allegati al ricorso).
Infatti, la dichiarazione di impegno a costituire il
raggruppamento temporaneo di imprese con Ma. ai fini della
partecipazione alla gara de qua (avente ad oggetto il
servizio di raccolta dei rifiuti) è stata sottoscritta, per
conto della mandante CFT società cooperativa, dal signor
Sa.St. quale procuratore, il quale ha anche firmato la
domanda di partecipazione per conto della stessa CFT.
Tuttavia, la procura notarile a lui conferita è circoscritta
alla firma di offerte e documenti relativi alla
partecipazione alla procedure di gara su appalti di lavori e
concessioni, ovvero relativi a procedimenti selettivi cui è
estranea la gara oggetto degli atti impugnati, riguardante
l’appalto di servizi.
Orbene, il chiaro tenore della predetta procura speciale
esclude la possibilità di estenderne l’oggetto a gare
(relative a servizi) del tipo di quella indetta da Ge.
s.p.a.; inoltre, la natura di atto giuridico unilaterale
avente forma scritta non consente di ricomprendervi un
potere di rappresentanza non attribuito (Cons. Stato, V,
07.11.2016, n. 4645).
Non rilevano sul punto il conferimento di ramo d’azienda di
CFT a Ge. s.r.l., le relative comunicazioni e la mancata
opposizione della stazione appaltante al subentro, che non
possono rilevare come ratifica.
Occorre infatti considerare che il trasferimento di ramo
d’azienda è avvenuto con atto del 29.03.2016, ovvero dopo la
scadenza del termine di presentazione delle offerte previsto
nel bando (08.02.2016, prorogato al 15.02.2016 in forza di
avviso del 04.02.2016), allorquando si erano già verificati i
presupposti di esclusione dalla gara e si era già
cristallizzata la situazione risultante dai documenti
prodotti dai concorrenti.
Inoltre, la ratifica può riguardare il contratto stipulato
dal falsus procurator, ma non l’offerta.
Invero, come evidenziato nella pronuncia richiamata
nell’impugnata nota del 30.05.2016 (TAR Toscana, I,
19.05.2016, n. 871), l'art. 1399 c.c., nella parte in cui
prevede la possibilità di ratifica del contratto concluso da
un rappresentante senza averne i poteri o che ha agito
eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è
disposizione volta a regolare rapporti tra privati e non è
estensibile alle gare ed ai contratti ad evidenza pubblica,
settore nel quale operano norme dirette alla tutela di un
interesse pubblico generale di sicura e preventiva
riferibilità dell’offerta e del principio della "par
condicio", senza possibilità di esenzione dalla loro
osservanza (Cons. Stato, sez. V, 17.12.2008 n. 6292,
TAR Lazio, sez. II, 05.05.2014, n. 4643).
Pertanto, non può avere effetto sanante nemmeno l’atto di
ratifica notarile del 21.06.2016, depositato in giudizio.
La sottoscrizione della dichiarazione di impegno a
costituire il raggruppamento temporaneo e della domanda di
partecipazione alla gara da parte di soggetto privo di
potere non consente di imputare l’offerta alla persona
giuridica.
La sottoscrizione dei documenti in argomento assolve
all'ineludibile necessità di rapportare l'offerta al
proponente (nel caso di specie, alla mandante CFT ed alla
costituenda associazione temporanea di imprese)
e di
impegnarlo nei confronti della stazione appaltante, cosicché
alla sua mancanza non può supplirsi attraverso altre forme
di riconducibilità dell'atto al suo autore. Pertanto, non è
invocabile nel caso in esame il soccorso istruttorio,
trattandosi di irregolarità essenziale attinente alla
riconducibilità dell’offerta all’impresa mandante CFT, la
quale non ha sottoscritto validamente né la domanda di
partecipazione né la dichiarazione di impegno a costituire
l’a.t.i. ai fini della gara per l’affidamento dei servizi di
raccolta differenziata dei rifiuti indetta da Ge. s.p.a.
(documento n. 3 depositato in giudizio dai ricorrenti).
Non è applicabile alla fattispecie la possibilità di
sanatoria prevista dall’invocato art. 46, comma 1-ter, del
Codice dei contratti pubblici, la quale è testualmente
riferita all’esistenza o al contenuto delle dichiarazioni di
cui all’art. 38 dello stesso Codice. Peraltro, il soccorso
istruttorio va contemperato con il principio della parità
tra i concorrenti, anche alla luce dell’altrettanto generale
principio dell'autoresponsabilità, per il quale ciascuno di
essi sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi
nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della
documentazione (Cons. Stato, V, 15.02.2016, n. 627; TAR
Toscana, I, n. 871/2016).
Sussistono invece i presupposti di applicazione dell’art.
46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006, secondo cui la
stazione appaltante esclude i concorrenti nei casi di
incertezza sulla provenienza dell'offerta.
Il ricorso principale deve quindi essere respinto.
...
3. Con la seconda censura aggiunta l’istante sostiene che la controinteressata doveva essere esclusa dalla gara, stante
la condanna penale del suo legale rappresentante; aggiunge
che è mancata la motivazione in ordine all’inidoneità del
reato a determinare l’esclusione dalla procedura selettiva e
che trattasi di illecito penale incidente sulla moralità
professionale ex art. 38, comma 2, lett. c, del d.lgs. n.
163/2006, tale da comportare quindi l’estromissione.
Il rilievo non è condivisibile.
La predetta sentenza del giudice penale ha condannato il
legale rappresentante dell’azienda ATI al pagamento di euro
300 di multa per fatti risalenti al 2008, costituiti
dall’infortunio sul lavoro di un dipendente (che aveva
riportato l’amputazione dell’apice del pollice di una mano),
il quale infortunio, pur derivando da condotta di lavoro
errata e imprudente del dipendente stesso, avrebbe potuto
essere evitato con l’adozione, da parte dell’impresa, del
sistema di protezione imposto per legge.
Ad esito dell’istanza ex art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006
presentata dalla ricorrente e dell’autocertificazione
allegata al riguardo, in sede di gara, dalla controinteressata, la stazione appaltante ha chiesto
chiarimenti (in data 05.08.2016), ed a fronte di tale
richiesta la società cooperativa ATI ha fatto presente
l’attuale conformità della flotta aziendale alle vigenti
prescrizioni di legge sulla sicurezza ed ha precisato che la
dotazione di mezzi e attrezzature da impiegare nell’appalto
era in buona parte di nuova costruzione e appositamente
allestita, e quindi “in regola con le più recenti
disposizioni vigenti in materia” (documento n. 3 depositato
in giudizio dall’aggiudicataria).
L’art. 38, comma 2, lett. c, del d.lgs. n. 163/2006 prevede
l’esclusione dalla gara in caso di “reati gravi in danno
dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità
professionale”.
Orbene, nelle gare d'appalto la valutazione in ordine alla
gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e
alla loro incidenza sulla moralità professionale spetta
esclusivamente alla stazione appaltante nell'ambito
dell'esercizio del potere discrezionale ad essa attribuito e
deve essere effettuata mediante la disamina in concreto
delle caratteristiche dell'appalto, del tipo di condanna,
della natura e delle concrete modalità di commissione del
reato.
Ad ogni modo, laddove l’Amministrazione non ritenga
il precedente penale grave ovvero incisivo della moralità
professionale del concorrente, non è tenuta ed esplicitare
in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento,
potendo la motivazione di non gravità del reato risultare
anche implicita o per facta concludentia, ossia con
l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione
di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare
onere motivazionale (TAR Veneto, I,
01.09.2015, n. 953).
Nel caso di specie, considerato che l’infortunio si è
verificato con il concorso di colpa del lavoratore leso e
che la tenuità dell’illecito è dimostrata dalla tenuità
della sanzione (300 euro di multa), appare ragionevole e
immune da profili sintomatici di eccesso di potere la
decisione di ammettere alla gara la società cooperativa ATI.
Secondo la ricorrente, la stazione appaltante deve motivare
l’ammissione di un’impresa alla gara allorquando vi siano al
riguardo contestazioni da parte di altri concorrenti.
Tale asserzione non è condivisibile, giacché l’unica
contestazione riferita alla condanna subita dal legale
rappresentante della società ATI è stata presentata (da
Ma.) nella forma del preavviso di ricorso ex art.
243-bis del d.lgs. n. 163/2006 e, comunque, rileva
l’oggettiva non gravità del reato commesso.
Nello stesso senso si poneva del resto la decisione
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, che con decisione
del 28.04.2016, in relazione ad altre gare e per la diversa
fattispecie dell’omessa indicazione della condanna penale in
questione nell’autodichiarazione resa, ha convenuto sulla
tenuità del reato de quo, dimostrata dal modesto importo
della multa comminata e dalla acclarata imprudenza del
lavoratore che aveva contravvenuto ad ogni regola di
sicurezza (documento n. 4).
Peraltro, come visto, la motivazione di non gravità del
reato può risultare anche implicita o per facta concludentia,
ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la
valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un
particolare onere motivazionale (TAR Lombardia, Milano, III,
03.11.2014, n. 2626).
4. La terza censura aggiunta si incentra sulla violazione
dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 163/2006, in
forza del quale devono essere escluse dalla gara coloro “che
hanno commesso gravi infrazioni debitamente accertate alle
norme in materia di sicurezza e a ogni altro obbligo
derivante dai rapporti di lavoro, risultanti dai dati in
possesso dell'Osservatorio”; secondo la ricorrente, inoltre,
la stazione appaltante sarebbe incorsa, nell’ammettere la controinteressata alla gara senza valutare espressamente la
riconducibilità del precedente penale al citato art. 38,
lett. e), nel vizio di difetto di motivazione e di
travisamento.
La doglianza è infondata, prestandosi alle stesse
considerazioni espresse nella trattazione del precedente
motivo.
La norma richiamata stabilisce, nella sua formulazione
letterale, che, ai fini dell’esclusione, non basta una
qualsivoglia violazione delle norme di sicurezza ma occorre
che la stessa sia grave. Al contrario, l’oggettiva esiguità
dell’illecito, dimostrata dalla tenuità della pena e dal
concorso di colpa del lavoratore infortunatosi, induce ad
escludere la connotazione della gravità.
Trattasi, inoltre, di precedente penale che è stato preso in
esame dalla stazione appaltante, la quale, alla luce delle
circostanze in cui è avvenuto l’evento lesivo e forte anche
di un precedente giudizio di irrilevanza espresso
dall’Autorità Nazionale Anticorruzione in relazione ad altra
gara, ha ammesso la controinteressata alla gara con
valutazione che appare immune da profili di illogicità o
travisamento.
Inoltre, anche ai fini dell’applicazione del citato art. 38,
lett. e), la motivazione di non gravità dell’infrazione può
risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia
con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la
valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un
particolare onere motivazionale. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: La
violazione di circolari ministeriali non può costituire
motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della
violazione di legge; posto che esse non contengono norme di
diritto, bensì mere disposizioni di indirizzo uniforme
interno all'Amministrazione da cui promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di
meri atti amministrativi non provvedimentali, e che
escludono che esse possano fondare posizioni di diritto
soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione
stessa.
A questa regola non si sottraggono le circolari
dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri
discrezionali nella determinazione delle imposte dovute,
regolata per legge), le quali non vincolano né i
contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto,
anch'esse esenti dal controllo di legittimità
---------------
§ 3. Con il terzo motivo di ricorso ci si duole di
violazione o falsa applicazione della circolare dell'Agenzia
delle Entrate n. 6/E del 06.02.2007, e dell'articolo 52
decreto legislativo 446/1997 (potestà regolamentare dei
Comuni in materia di tributi locali); per avere la
Commissione Tributaria Regionale ritenuto legittimo l'avviso
di rettifica, nonostante che quest'ultimo -in violazione
della circolare- si fosse basato, nella stima non di un
fabbricato ma di un'area edificabile non urbanizzata, sui
listini OMI, invece che sulle valutazioni rese dai Comuni a
fini ICI.
La censura è inammissibile nella parte in cui intende far
valere la violazione della circolare dell'Agenzia delle
Entrate n. 6/E del 06.02.2007; è invece infondata nella
parte in cui deduce la violazione o falsa applicazione della
disciplina legislativa in materia di determinazione del
valore venale degli immobili e dei diritti reali
immobiliari.
Per quanto concerne il primo aspetto, va qui
riaffermato che la violazione di circolari ministeriali non
può costituire motivo di ricorso per cassazione sotto il
profilo della violazione di legge; posto che esse non
contengono norme di diritto, bensì mere disposizioni di
indirizzo uniforme interno all'Amministrazione da cui
promanano.
Caratteristiche, queste, che ne evidenziano la natura di
meri atti amministrativi non provvedimentali, e che
escludono che esse possano fondare posizioni di diritto
soggettivo in capo a soggetti esterni all'Amministrazione
stessa. A questa regola non si sottraggono le circolari
dell'Amministrazione Finanziaria (del resto priva di poteri
discrezionali nella determinazione delle imposte dovute,
regolata per legge), le quali non vincolano né i
contribuenti né i giudici; così da risultare, appunto,
anch'esse esenti dal controllo di legittimità (Cass. n.
16612/2008; n. 11449/2005).
Né può omettersi di considerare come la stessa circolare qui
invocata dai contribuenti comunque dettasse,
nell'indicazione dei parametri valutativi di fabbricati e
terreni edificabili, prescrizioni puramente indicative e non
cogenti nemmeno per gli stessi uffici accertatori
destinatari: "per le aree fabbricabili, gli uffici
'potranno' fare riferimento alle determinazioni di valore
eventualmente adottate dai Comuni ..."
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 08.03.2017 n. 5937). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione edilizia condizionata ad assunzione oneri
manutenzione ordinaria e straordinaria.
---------------
Edilizia – Permesso di costruire – Autorizzazione
condizionata ad assunzione oneri manutenzione ordinaria e
straordinaria – Illegittimità - Fattispecie.
E’ illegittimo il provvedimento
comunale che sospende la definizione di un procedimento per
il rilascio di una autorizzazione edilizia, richiesta per
l’installazione di sbarre automatiche per regolamentare
l’accesso alla proprietà condominiale della lottizzazione,
subordinandolo all’assunzione, da parte del condominio,
degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle
reti di distribuzione idrica e raccolta fognaria all’interno
delle strade private della lottizzazione, oltre agli oneri
di raccolta dei rifiuti solidi urbani; le condizioni apposte
per il rilascio dell’autorizzazione sono infatti contra
legem perché in contrasto le disposizioni di legge vigenti
in materia (art. 28, l. 17.08.1942, n. 1150) e perché nella
specie le opere di urbanizzazione erano state cedute
gratuitamente in favore del Comune il quale, dalla data di
cessione, ne aveva assunto gli oneri di manutenzione (1).
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(1)
Il Tar ha osservato che ai sensi dell’art. 28, l.
17.08.1942, n. 1150 l’acquisizione delle opere e delle
relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo è la
cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò in
quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla legge,
detto trasferimento è condizione necessaria affinché possa
concretamente realizzarsi l’assetto del territorio cui
sovrintende l’attività di pianificazione ed è, altresì,
presupposto necessario affinché possano poi concretamente
operare le norme nazionali e regionali vigenti in materia di
corretta gestione dei servizi pubblici correlati alle opere
di urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore
espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad
opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione
(che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e
sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la
stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo
contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e
non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e
dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è
indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema
urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di
rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati
dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti
privati; in sostanza, il sistema tende ad evitare che quelle
opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico
servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del
territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore,
quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale,
all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Proprio perché le opere di urbanizzazione sono funzionali
allo svolgimento di pubblici servizi di primaria utilità
(idrico, fognario, viabilità, elettrico…), dunque, la loro
proprietà necessariamente dev’essere del Comune, il quale
soltanto può garantire un accettabile e uniforme livello di
qualità dei servizi in favore dei propri cittadini che non
potrebbe essere garantito da un soggetto privato il quale,
ovviamente, non potrebbe che gestire i servizi in chiave
imprenditoriale e quindi in funzione dell’ottenimento di
utili, con il rischio, conseguentemente, di servizi con
qualità al di sotto dell’accettabile o addirittura tali da
mettere a repentaglio i diritti fondamentali dei cittadini;
si pensi, ad esempio, ai rischi per la salute derivanti da
un servizio idrico con acque non potabili, da un servizio di
depurazione fognaria non efficiente, da una rete elettrica o
viaria non manutenuta.
La gestione di simili servizi deve quindi necessariamente
essere garantita dall’ente locale vuoi con una gestione
diretta, vuoi anche con la concessione, previa gara di
appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in quest’ultimo
caso, con un appropriato disciplinare del servizio che,
unitamente alla supervisione e controllo dell’ente
concedente, assicuri una qualità delle prestazioni da
rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Data la premessa, il Tar ha quindi accolto sia la domanda di
annullamento del provvedimento di sospensione della
definizione del procedimento per il rilascio
dell’autorizzazione edilizia, sia, per l’effetto, la domanda
di accertamento dell’obbligo del Comune di assumere gli
oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione presenti
nel comparto in questione senza poter condizionare
l’eventuale rilascio di titoli edilizi all’assunzione degli
stessi da parte del condominio richiedente (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.03.2017 n. 168 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso si rivela anzitutto fondato con riguardo alla
richiesta di annullamento del provvedimento col quale il
Comune di Arbus ha sospeso la definizione del procedimento
in attesa dell’attuazione della sentenza del TAR Sardegna n.
1336/2008 e dell’ottemperanza alle prescrizioni
dell’autorizzazione n. 183/1998.
Ed invero la richiesta inoltrata all’ufficio comunale il
05.01.2009, è del tutto autonoma, anche per la diversa
dislocazione territoriale delle sbarre, rispetto alla
precedente sfociata nell’autorizzazione n. 183/1998, e non
può non trovare, da parte dell’amministrazione comunale, una
sua definizione conclusiva con la quale dovrà (anche) essere
valutata, nel merito, l’accoglibilità dell’istanza stessa e
la sua compatibilità con le esigenze pubblicistiche di
accesso e transito pubblico nella rete viaria acquisita, per
quanto si dirà appresso, al patrimonio comunale.
Il rilascio di detta autorizzazione non potrà, comunque,
essere legittimamente subordinato a condizioni contra
legem, non solo in contrasto col chiaro tenore letterale
dell’atto consensuale stipulato tra le parti ma, prima
ancora, con le disposizioni di legge vigenti in materia.
Ed invero il Condominio Co. è titolare dei diritti derivanti
dal piano di lottizzazione Torre di Filimentorgiu in Arbus,
Località Torre dei Corsari, oggetto della convenzione Rep.
N. 434 registrata a Sanluri il 10.03.1975 al n. 408.
Per le opere di urbanizzazione previste nel Piano veniva
prevista la cessione gratuita in favore del Comune di Arbus
il quale, dalla data di cessione, ne assumeva gli oneri di
manutenzione.
Dette opere venivano quindi realizzate e state positivamente
collaudate dal tecnico incaricato dal Comune in data
19.06.1995.
Va precisato che la prevista cessione all’ente locale delle
opere di urbanizzazione e degli oneri di manutenzione è del
tutto conforme alle prescrizioni vigenti.
Quest’ultimo, infatti, deve gestire i pubblici servizi
connessi alle opere di urbanizzazione esistenti (servizio
viabilità, idrico, elettrico…) per le ragioni svolte nelle
pronunce e condivise dal Collegio di questa Sezione:
sentenze nn. 602/2013, 187/2010 e 880/2011 e ordinanza
316/2009.
Segnatamente con la sentenza n. 880/2011 la Sezione ha
osservato che -ai sensi dell’art. 28 della legge n.
1150/1942- “…l’acquisizione delle opere
e delle relative aree è per il Comune obbligatoria quanto lo
è la cessione delle stesse per la società lottizzante e ciò
in quanto, oltre ad essere tassativamente previsto dalla
legge nei termini sopra descritti, detto trasferimento è
condizione necessaria affinché possa concretamente
realizzarsi l’assetto del territorio cui sovrintende
l’attività di pianificazione ed è, altresì, presupposto
necessario affinché possano poi concretamente operare le
norme nazionali e regionali vigenti in materia di corretta
gestione dei servizi pubblici correlati alle opere di
urbanizzazione, la cui titolarità il legislatore
espressamente affida all’autorità amministrativa.
A ciò consegue che -ove dopo la destinazione di un’area ad
opera di urbanizzazione da parte del piano di lottizzazione
(che per primo imprime tale destinazione pubblicistica e
sulla base del quale viene poi stipulata la convenzione) la
stessa fosse ceduta dal lottizzante a terzi- il relativo
contratto sarebbe nullo per contrasto con norma imperativa e
non potrebbe incidere sui relativi assetti urbanistici e
dominicali.
Tale conclusione, oltre che normativamente imposta, è
indispensabile per garantire la tenuta dell’intero sistema
urbanistico, volto alla tutela di interessi pubblici di
rango superiore, che risulterebbero gravemente frustrati
dall’alienazione delle opere di urbanizzazione a soggetti
privati; in sostanza il sistema tende ad evitare che quelle
opere siano sottratte alla loro destinazione a pubblico
servizio, in chiave di tutela del corretto sfruttamento del
territorio e dei correlati valori di rango ancora superiore,
quali il diritto alla salute, alla sicurezza stradale,
all’approvvigionamento idrico ed elettrico, etc..
Del resto, la necessaria appartenenza alla mano pubblica
delle opere di urbanizzazione (e delle aree su cui esse
insistono), secondo il regime del patrimonio indisponibile
(perché destinato a pubblico servizio, secondo lo schema di
cui all’art. 826, comma 3, del codice civile), è principio
assolutamente consolidato in giurisprudenza
(ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 03.05.2011, n.
606; conformi TAR Puglia Bari, Sez. II, 01.07.2010, n. 2815;
TAR Sardegna, Sez. II, 19.02.2010, n. 187 e Sez. II,
21.08.2009, n. 1464; TAR Venezia, sentenza n. 1373/2004;
Consiglio Stato, Sez. V, 15.03.2001, n. 1514)…”.
Proprio perché le opere di urbanizzazione
sono funzionali allo svolgimento di pubblici servizi di
primaria utilità (idrico, fognario, viabilità, elettrico…),
dunque, la loro proprietà necessariamente dev’essere del
Comune, il quale soltanto può garantire un accettabile e
uniforme livello di qualità dei servizi in favore dei propri
cittadini che non potrebbe essere garantito da un soggetto
privato il quale, ovviamente, non potrebbe che gestire i
servizi in chiave imprenditoriale e quindi in funzione
dell’ottenimento di utili, con il rischio, conseguentemente,
di servizi con qualità al di sotto dell’accettabile o
addirittura tali da mettere a repentaglio i diritti
fondamentali dei cittadini; si pensi, ad esempio, ai rischi
per la salute derivanti da un servizio idrico con acque non
potabili, da un servizio di depurazione fognaria non
efficiente, da una rete elettrica o viaria non manutenuta
(cfr. in termini TAR Sardegna Sez. II, sentenza n. 990 del
2009).
La gestione di simili servizi deve quindi
necessariamente essere garantita dall’ente locale vuoi con
una gestione diretta, vuoi anche con la concessione, previa
gara di appalto, a soggetti privati ma ovviamente, in
quest’ultimo caso, con un appropriato disciplinare del
servizio che, unitamente alla supervisione e controllo
dell’ente concedente, assicuri una qualità delle prestazioni
da rendere ai cittadini consona all’attuale momento storico.
Del resto sarebbe contraddittorio, se non addirittura
paradossale, ritenere che l’ordinamento abbia dettato una
precisa e rigorosa disciplina per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione necessarie per l’erogazione dei
servizi pubblici -con la previsione della necessità di un
piano di lottizzazione ancorato a precise norme di legge e
regolamentari quanto a contenuto e procedimento di
approvazione- e abbia poi rimesso la gestione degli stessi
alla assoluta discrezione di soggetti privati, così da
lasciare i cittadini fruitori di detti servizi essenziali
del tutto in balia dei gestori privati.
Nel caso di specie sussistono poi ulteriori aspetti che
conducono all’inaccettabilità della tesi dell’assenza di un
obbligo per lo stesso di assumersi l’onere di manutenzione
delle opere di urbanizzazione.
Le opere di urbanizzazione del comprensorio,
infatti, sono oramai entrate nel patrimonio
del Comune per utilizzo pubblico delle stesse da oltre
vent’anni, cosicché i danni derivanti dall’omessa o
insufficiente manutenzione non potrebbero che gravare sullo
stesso Comune.
Peraltro non si vede in base a quale titolo i ricorrenti
potrebbero essere obbligati a sostenere gli oneri per la
loro manutenzione, tenuto anche conto che non hanno alcuna
quota di proprietà sulle stesse.
Per le suesposte considerazioni va quindi accolta la domanda
di accertamento dell’obbligo del Comune di Arbus di assumere
gli oneri di manutenzione delle opere di urbanizzazione
presenti nel comparto in questione senza poter fondatamente
condizionare l’eventuale rilascio di titoli edilizi
all’assunzione degli stessi da parte del condominio
richiedente. |
COMPETENZE GESTIONALI: Ai
sensi dell’art. 9 l. 26.10.1995, n. 447 spetta al sindaco e
non ai dirigenti comunali, la competenza ad adottare
ordinanze per il contenimento o l’abbattimento delle
emissioni sonore, compresa l’inibotoria totale o parziale di
determinate attività trattandosi di potere analogo a quello
attribuito allo stesso sindaco dagli artt. 50 e 54 Tuel.
----------------
... per l'annullamento dell'ordinanza comunale n. 62/16 di
cessazione delle emissioni sonore prodotte dalle attività
indagate generate nel pubblico esercizio ga.in.bi..
...
Con ricorso la Ga.ea. s.r.l. chiedeva di annullare
l’ordinanza inquinamento acustico descritta in ricorso con
cui veniva ordinato alla ricorrente la cessazione delle
emissioni sonore prodotte dalle attività indagate, generate
nel pubblico esercizio Ga.In.Bi., nonché di tutti gli atti
presupposti indicati in ricorso.
Si costituiva il comune resistente chiedendo di rigettare il
ricorso.
Il ricorso proposto deve trovare accoglimento come già
evidenziato in sede di ordinanza cautelare emessa in corso
di giudizio.
Come da prevalente orientamento della giurisprudenza
amministrativa, ai sensi dell’art. 9 l. 26.10.1995, n. 447
spetta al sindaco e non ai dirigenti comunali, la competenza
ad adottare ordinanze per il contenimento o l’abbattimento
delle emissioni sonore, compresa l’inibotoria totale o
parziale di determinate attività trattandosi di potere
analogo a quello attribuito allo stesso sindaco dagli artt.
50 e 54 Tuel (cfr. Tar Venezia n. 377/2015; Tar Latina,
210/2014; Tar Torino 708/2013; Tar Potenza 156/2017). Deve
infatti ritenersi che il provvedimento in questione non
rientri tra i poteri ordinari di controllo in materia di
inquinamento acustico ma consista in un provvedimento
contingibile e urgente di competenza del sindaco.
Il vizio in questione ha carattere assorbente e comporta
l’annullamento dell’atto, sono ovviamente salvi gli
ulteriori atti della pubblica amministrazione relativi a
differenti vizi o problematiche relativi alla gestione
dell’attività
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 07.03.2017 n. 382 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Danni causati da fauna selvatica.
---------------
Giurisdizione – Fauna – Danni causati da fauna selvatica
– Riparto di giurisdizione – Individuazione.
Nei casi di danni cagionati dalla
fauna selvatica, attengono alla cognizione di diritti
soggettivi e ricadono nella giurisdizione del giudice
ordinario le controversie tendenti ad ottenere
alternativamente il risarcimento per responsabilità
extracontrattuale sulla base del comportamento doloso o
colposo della p.a. -ovvero l'indennizzo eventualmente
stabilito con precisione dalla normativa applicabile– senza
che sia consentito al responsabile alcun margine di
valutazione discrezionale sull'an e/o sul quantum, mentre
ricadono nella giurisdizione del giudice amministrativo le
controversie relative ad indennizzi rispetto al cui
riconoscimento sia attribuito un potere discrezionale alla
p.a., ancorché limitato al quantum (1).
---------------
(1)
Cfr. Cass. civ., s.u., 29.11.2000, n. 1232.
Ha chiarito il Tar che l'indennizzo in favore dei
proprietari di fondi danneggiati dalla fauna selvatica,
nella disciplina posta dall'art. 7, l.reg. Sicilia n. 33 del
1997, ha natura di contributo indennitario, giacché, in
mancanza anche di criteri predeterminati di liquidazione,
sussiste un potere discrezionale dell'Amministrazione
pubblica almeno con riguardo al quantum dell'indennizzo da
erogare; ne consegue che la controversia inerente al
riconoscimento ed alla liquidazione di detto indennizzo,
ricollegandosi a interessi legittimi, rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 06.03.2017 n. 444
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Indicazioni
parti del servizio facenti capo a ciascuna impresa negli
appalti servizi e possesso dei requisiti di partecipazione
in capo ai consorzi stabili.
---------------
●
Contratti della pubblica amministrazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese – Appalto servizi – Indicazioni parti
del servizio facenti capo a ciascuna impresa – Obbligo –
Corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di
esecuzione – Obbligo – Esclusione.
●
Contratti della
pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione -
Possesso - Consorzio stabile – Consorzio stabile che
partecipa alla gara e non anche impresa consorziata indicata
come esecutrice
●
Contratti della
pubblica amministrazione – Offerta – Documento di identità –
Allegazione – obbligo – Non sussiste.
●
A seguito della novella introdotta dall'art. 12,
comma 8, del d.l. 28.03.2014, n. 47 sull’art. 37, d.lgs.
12.04.2006, n. 163, negli appalti di servizi sussiste
l'obbligo per le imprese raggruppate di indicare le parti
del servizio facenti capo a ciascuna di esse, ma senza che
possa essere preteso anche l'obbligo della corrispondenza
fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, restando
fermo che ciascuna impresa va qualificata per la parte di
prestazioni che s'impegna ad eseguire, nel rispetto delle
speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa
di gara (1).
●
Nel caso in cui l’impresa concorrente abbia
natura di consorzio stabile questa si pone direttamente in
veste di parte contrattuale, con relativa assunzione in
proprio di tutti gli obblighi e le responsabilità; ne
consegue che i requisiti di partecipazione devono essere
posseduti e verificati solo in capo al consorzio stabile che
partecipa alla gara e non anche in capo all’impresa
consorziata indicata come esecutrice, tanto più che,
ricadendo la prestazione contrattuale direttamente sul
consorzio, esso potrà anche provvedervi direttamente, senza
essere vincolato alla originaria designazione (2).
●
In sede di gara pubblica non sussiste obbligo di
allegare all’offerta il documento di identità del
dichiarante (3).
---------------
(1)
Cons. St., sez. V, 22.08.2016, n. 3666; id.
25.02.2016, n. 786. Ha chiarito
Cons. St., sez. V, 28.10.2015, n. 4942, che per
un verso, che, come chiarito dalla giurisprudenza, l’obbligo
nel caso di raggruppamenti temporanei di impresa di
corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di
esecuzione non impone anche l’ulteriore parallelismo fra
quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote
di esecuzione (Cons. St., A.P. 30.01.2014, n. 7) e per altro
verso che la disposizione contenuta nel comma 13 dell’art.
37, d.lgs. n. 163 del 2006 (secondo cui i concorrenti
riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le
prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento) è stata prima limitata ai
soli appalti di lavori (ex art. 1, comma 2-bis, lett. a),
d.l. 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla
l. 07.08.2012, n. 135, norma in vigore al momento di
pubblicazione del bando di gara) e poi successivamente
abrogata dall’art. 12, comma 8, d.lgs. 28.03.2014, n. 47,
convertito con modificazioni dalla l. 23.05.2014, n. 80.
(2)
Cons. St., sez. VI, 24.12.2009, n. 8720; id.,
sez. V, 29.11.2004. n. 7765; Tar Toscana, sez. I,
14.09.2014, n. 1409.
(3) Ha chiarito il Tar che nelle procedure di evidenza pubblica è
illegittima l'esclusione della ditta per mancata allegazione
all'offerta economica di copia del documento di identità del
sottoscrittore, poiché un tale obbligo non può essere
imposto con riferimento a dichiarazioni di volontà negoziale
quale è l'offerta economica, giacché esso attiene solo alle
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre
alla pubblica amministrazione (Cons.
St., sez. V, 15.07.2014, n. 3712; id. 20.12.2013,
n. 6125)
(TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 06.03.2017 n. 326
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Notifica del ricorso avverso il diniego di accesso ai
controinteressati.
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Processo amministrativo – Accesso ai documenti – Diniego
– Impugnazione – Controinteressati – Individuati dal
ricorrente – Notifica – Omissione – Inammissibilità del
ricorso
E’ inammissibile il ricorso proposto
avverso il diniego di accesso ai documenti, espresso o
tacito, che non sia stato notificato ad almeno un
controinteressato, pur avendo il ricorrente individuato
espressamente e nominativamente le persone fisiche alle
quali la documentazione richiesta si riferisce (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il principio secondo cui non può
essere dichiarato inammissibile il ricorso avverso il
diniego di accesso non notificato al controinteressato ove
questi non sia stato precedentemente reso edotto
dall’amministrazione, attiene al caso in cui i
controinteressati siano da individuare in coloro che,
titolari del diritto alla riservatezza, sono in qualche modo
chiamati in causa dal documento richiesto: in questo caso,
infatti, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 12.04.2006,
n. 184 è sull’amministrazione, “se individua soggetti
controinteressati”, che incombe l’obbligo di
coinvolgerli nel procedimento.
Diverso è invece il caso, come quello all’esame del Tar, in
cui è lo stesso ricorrente che individua i soggetti
potenzialmente lesi dall’ostensione dei dati richiesti e,
quindi, controinteressati rispetto alla domanda di accesso,
atteso che in subiecta materia la qualità di
controinteressato è una proiezione del valore della
riservatezza.
In altre parole, ove l’accesso sia potenzialmente lesivo di
posizioni soggettive non specificabili a priori, e dunque
conoscibili solo dall’amministrazione procedente, è su
questa che incombe l’obbligo di individuare i
controinteressati e provvedere alla notificazione prescritta
dalla citata norma; ove invece di tali posizioni siano
titolari determinati soggetti nominativamente indicati, ed
anzi i documenti ai quali si chiede l’accesso sia
specificamente relativo ad essi, la natura impugnatoria del
giudizio, chiarita fin dall’Adunanza plenaria 24.06.1999, n.
16, lo sottopone alla generale disciplina del processo
amministrativo, compreso l’obbligo di notifica ai sensi
dell’art. 41 c.p.a. ad almeno uno dei controinteressati, dei
quali è indubitabile il riferimento nella documentazione
richiesta (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 06.03.2017 n. 75
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è inammissibile posto che il ricorso in esame
è stato notificato esclusivamente all’Istituto di previdenza
sociale.
L’art. 22 della Legge n. 241/1990 definisce
specificatamente in materia di accesso i “controinteressati”,
e cioè “tutti i soggetti, individuati o facilmente
individuabili in base alla natura del documento richiesto
che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il
loro diritto alla riservatezza”.
L’art. 116 del c.p.a. (“rito in materia di accesso ai
documenti amministrativi”), a propria volta stabilisce
al primo comma che “il ricorso è proposto entro trenta
giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o
dalla formazione del silenzio, mediante notificazione
all’amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati”.
Nella fattispecie la ricorrente, pur avendo
individuato espressamente e nominativamente le persone
fisiche alla cui documentazione pensionistica intenderebbe
accedere, non ha provveduto alla notificazione del ricorso
ad alcuno di questi, e ciò comporta l’inammissibilità del
ricorso (cfr. Tar
Lazio Roma, sez. II, 10.12.2015 n. 13582; idem sez. I-ter,
29.05.2015 n. 7685; Tar Campania Salerno, sez. II,
08.03.2012, n. 439).
E’ ben vero che qualificata giurisprudenza (per tutte, Cons.
stato, IV, 26.08.2014, n. 4308) ritiene che non può essere
dichiarato inammissibile il ricorso avverso il diniego di
accesso non notificato al controinteressato ove questi non
sia stato precedentemente reso edotto dall’amministrazione;
peraltro, tale principio attiene al caso in cui i
controinteressati siano da individuare in coloro che,
titolari del diritto alla riservatezza, sono in qualche modo
chiamati in causa dal documento richiesto: in questo caso,
infatti, ai sensi dell'art. 3 comma 1, d.lgs. 12.04.2006 n.
184 è sull’amministrazione, “se individua soggetti
controinteressati” che incombe l’obbligo di coinvolgerli
nel procedimento.
Nella fattispecie in esame,
invece, è la stessa ricorrente che
individua i soggetti potenzialmente lesi dall’ostensione dei
dati richiesti e, quindi, controinteressati rispetto alla
domanda di accesso, atteso che in subiecta materia la
qualità di controinteressato è una proiezione del valore
della riservatezza.
In altre parole, ove l’accesso sia
potenzialmente lesivo di posizioni soggettive non
specificabili a priori, e dunque conoscibili solo
dall’amministrazione procedente, è su questa che incombe
l’obbligo di individuare i controinteressati e provvedere
alla notificazione prescritta dalla norma appena citata;
ove invece,
come nel caso in esame, di tali posizioni
siano titolari determinati soggetti nominativamente
indicati, ed anzi i documenti ai quali si chiede l’accesso
sia specificamente relativo ad essi, la natura impugnatoria
del giudizio, chiarita fin dall’Adunanza plenaria
24.06.1999, n. 16, lo sottopone alla generale disciplina del
processo amministrativo, compreso l’obbligo di notifica ai
sensi dell’art. 41 cod. proc. amm. ad almeno uno dei
controinteressati, dei quali è indubitabile il riferimento
nella documentazione richiesta. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nel
procedimento amministrativo la mancata comunicazione del
preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del
provvedimento finale in quanto la norma sancita dall'art.
10-bis, l. 07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del
successivo art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre
al giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità
sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione
delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto
allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Parimenti infondata è la doglianza riguardante il mancato
preavviso di rigetto. Secondo la pacifica giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, “Nel procedimento
amministrativo la mancata comunicazione del preavviso di
rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento
finale in quanto la norma sancita dall'art. 10-bis, l.
07.08.1990 n. 241 va interpretata alla luce del successivo
art. 21-octies, comma 2, il quale, nell'imporre al giudice
di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di
non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali
non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del
medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni
sul procedimento o sulla forma dell'atto allorché il
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato” (ex multis,
Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 28.06.2016, n. 2902
e 27.09.2016, n. 3948).
Nel caso di specie, pur trattandosi di atto discrezionale, è
stata pienamente raggiunta tale prova, ostando la non
completa urbanizzazione dell’area al rilascio del titolo
edilizio desiderato in assenza di previa adozione del piano
attuativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.03.2017 n. 1001 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Non
produce ex se l’illegittimità del provvedimento finale,
dovendo la disposizione sul preavviso di rigetto essere
interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma
1, il quale impone al giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel
caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo.
Difatti, la disposizione normativa contenuta nell’art.
21-octies rende irrilevante la violazione delle norme sul
procedimento o sulla forma dell’atto per il fatto che il
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato.
---------------
9. Sul piano procedimentale, inoltre, deve ritenersi
condivisibile quanto rilevato dal TAR di Roma nella sentenza
impugnata in ordine all’omissione della comunicazione di
preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n.
241/1990, tenuto conto che tale mancanza: “non produce ex
se l’illegittimità del provvedimento finale, dovendo la
disposizione sul preavviso di rigetto essere interpretata
alla luce del successivo art. 21-octies, comma 1, il quale
impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità
sostanziale del medesimo. Difatti, la disposizione normativa
contenuta nell’art. 21-octies rende irrilevante la
violazione delle norme sul procedimento o sulla forma
dell’atto per il fatto che il contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”
(Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 03.03.2017 n. 1000 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Errore materiale nella compilazione delle domande on-line di
partecipazione ad un concorso.
---------------
Concorso – Domanda di partecipazione – Presentazione
on-line - Errore materiale nella compilazione della domanda
– Rettifica – Esclusione – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di
rettifica di una domanda di partecipazione ad un concorso
(nella specie, per il reclutamento dei docenti), con
conseguente preclusione alla stessa partecipazione, ove sia
evidente l’errore materiale in cui è incorso l’interessato
nella compilazione della domanda (1).
---------------
(1)
Nella specie l’interessato aveva inserito nella domanda
on-line un codice errato, corrispondente a quello di altra
disciplina (A54: storia dell’arte), simile nel nome ma non
nei contenuti a quella che si intendeva richiedere (A01-A17:
arte e immagine nella scuola).
L’immediata evidenza dell’errore era data dalla non
congruenza tra il titolo abilitante utilizzato per
partecipare alla procedura (TFA), riferibile alla disciplina
con codice A01-A17, e la classe richiesta (A54) nonché tra
questa e le esperienze professionali indicate quali altri
titoli valutabili.
Ha chiarito il Tar Napoli, nel motivare l’accoglimento del
ricorso, che l’interessato era incorso in un errore c.d.
ostativo consistente nella manifestazione di una volontà
diversa da quella reale; tale errore, richiamando le
categorie civilistiche, è da considerarsi, oltre che
essenziale, riconoscibile per la descritta incoerenza tra il
contenuto della domanda e la classe richiesta (art. 1428 e
ss c.c.).
Ad avviso del Tar Napoli in presenza di simili dati di fatto
l’amministrazione avrebbe senz’altro dovuto consentire la
rettifica in conformità al principio di correttezza e di
buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.),
dovendosi privilegiare il principio del favor
partecipationis nei concorsi pubblici in rapporto a
errori meramente formali (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 02.03.2017 n. 1231
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Soccorso istruttorio in sede processuale: la carenza
documentale dell’aggiudicataria non sempre porta
all’annullamento dell’aggiudicazione.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio – Ratio.
●
Processo
amministrativo – Rito appalti – Impugnazione
dell’aggiudicazione per carenze della documentazione
allegata all’offerta – Proposizione ricorso incidentale –
Necessità – Esclusione – Deduzione difensiva diretta a
dimostrare la sussistenza del possesso dei requisiti
sostanziali di partecipazione – Sufficienza.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Prima
della aggiudicazione – Necessità.
●
Processo
amministrativo – Rito appalti – Impugnazione
dell’aggiudicazione per carenza documentale dell’offerta –
Poteri del giudice – Violazione formale e non sostanziale –
Verifica in giudizio dell’effettivo possesso del requisito –
Conseguenza.
●
Processo
amministrativo – Rito appalti – Impugnazione
dell’aggiudicazione per carenza documentale dell’offerta –
Violazione sostanziale e non formale – Conseguenza.
●
In sede di gara pubblica, l’istituto del soccorso
istruttorio tende ad evitare che irregolarità e
inadempimenti meramente estrinseci possano pregiudicare gli
operatori economici più meritevoli, anche nell’interesse del
seggio di gara, che potrebbe perdere l’opportunità di
selezionare il concorrente migliore, per vizi procedimentali
facilmente emendabili (1).
●
L’aggiudicataria di una gara pubblica, nei sui
confronti è stata dedotta l’illegittima ammissione alla gara
per carenze della documentazione allegata all’offerta, per
poter validamente invocare in sede processuale il principio
del soccorso istruttorio, al fine di paralizzare la
doglianza diretta ad ottenere la sua esclusione dalla gara,
non deve necessariamente proporre ricorso incidentale ma può
limitarsi ad una deduzione difensiva, diretta a dimostrare,
che, in ogni caso, sussiste il possesso dei requisiti
sostanziali di partecipazione (2).
●
In sede di gara pubblica, se é vero che le
irregolarità formali sono sempre sanabili, non può nondimeno
sostenersi che l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n.
163 sia espressione di un principio per il quale la sostanza
prevale sempre sulla forma, atteso che i difetti di forma
(quelli essenziali) devono essere sempre emendati prima
dell’aggiudicazione; ed invero, si tratta di irregolarità
che pretendono e necessitano di un’obbligatoria sanatoria,
in ciò differenziandosi dalle mere irregolarità contemplate
dall’art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241, con la
conseguente inapplicabilità nei giudizi sulle procedure di
appalto della regola della “non annullabilità” del
provvedimento irregolare, sulla quale si fonda il citato
art. 21-octies (3).
●
In sede di gara pubblica, ove in giudizio sia
dedotta l’illegittimità dell’aggiudicazione per carenza
della produzione dell’aggiudicataria, il giudice
amministrativo si può limitare ad accertare, all’esito del
processo, i termini della dedotta irregolarità essenziale e,
ove risulti provato che ad essa non si accompagni anche una
carenza sostanziale del requisito (alla cui dimostrazione la
documentazione omessa o irregolarmente prodotta era
finalizzata), può dichiarare, alla luce della prognosi
postuma fatta, che il vizio era sanabile e che l’offerente
aveva interesse a sanarlo, previo pagamento della sanzione
pecuniaria (4).
●
In sede di gara pubblica, l’illegittimità
dell’aggiudicazione per carenza sostanziale della produzione
dell’aggiudicataria dedotta in giudizio comporta
l’annullamento dell’aggiudicazione; ove il giudice sia
certo, in ragione della natura vincolata dell’accertamento,
che il requisito non sussista, l’annullamento
dell’aggiudicazione comporta l’accoglimento delle richieste
del secondo graduato di subentrarvi, ma se le valutazioni
che si richiedono dinanzi al dubbio sono invece connotate da
discrezionalità, l’accoglimento del ricorso comporta
l’annullamento dell’ammissione del concorrente, con la
conseguente regressione del procedimento alla fase
dell’invito alla regolarizzazione e delle pertinenti
verifiche e valutazioni in sede amministrativa di quanto
prodotto (5).
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(1) V. anche analoga sentenza Cons. St., sez. III, 02.03.2017, n.
976.
La sentenza n. 975 del 2017 ha evidenziato come sia stata la
giurisprudenza amministrativa a delineare la portata
oggettiva e sistematica della disciplina del soccorso
istruttorio, la quale, attuando nell’ordinamento nazionale
un istituto del diritto europeo dei contratti pubblici a
recepimento facoltativo, ha enfatizzato l’impostazione
sostanzialistica delle procedure di affidamento.
La disciplina della procedura di gara non deve essere
concepita come una sorta di corsa ad ostacoli fra
adempimenti formali imposti agli operatori economici e
all’amministrazione aggiudicatrice, ma deve mirare ad
appurare, in modo efficiente, quale sia l’offerta migliore,
nel rispetto delle regole di concorrenza, verificando la
sussistenza dei requisiti tecnici, economici, morali e
professionali dell’aggiudicatario.
(2) Ha chiarito la Sezione che l’appellante è gravata dall’onere,
ex art. 2697 c.c., della dimostrazione della natura
meramente formale dell’errore contenuto nella dichiarazione:
può validamente spendere tale argomento difensivo solo
dimostrando in giudizio di disporre del requisito fin dal
primo momento, e cioè da quando ha reso la dichiarazione
irregolare.
In sostanza, secondo il Consiglio di Stato, deve superare la
“prova di resistenza”, non potendo pretendere di
paralizzare l’azione di annullamento, adducendo, solo in via
ipotetica, la violazione del principio del soccorso
istruttorio, ma deve dimostrare in giudizio che, ove fosse
stato attivato, correttamente, tale rimedio l’esito sarebbe
stato ad essa favorevole, disponendo del requisito in
contestazione.
In caso contrario, non soltanto sarebbe violato il principio
dell’onere della prova, che è immanente nel processo, ma
verrebbe frustrata finanche la finalità di accelerazione che
permea le controversie in materia di contratti pubblici.
(3) Ad avviso della Sezione è questo ultimo passaggio che rende la
disposizione contenuta nell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs.
12.04.2006, n. 163 diversa dall’art. 21-octies, l.
07.08.1990, n. 241.
Ed invero, l’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 è
espressione di un principio di irrilevanza, ai fini
dell’annullamento (in sede giurisdizionale o
amministrativa), delle violazioni di forma o di procedimento
nell’emanazione di atti a contenuto vincolato quando esse
non abbiano inciso sulla sostanza. Esso non richiede alcun
procedimento di regolarizzazione poiché è la giusta
regolazione autoritativa del rapporto a rilevare ai fini
della legittimità.
L’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 ha invece
diversa portata. Esso discrimina tra irregolarità essenziali
e non essenziali e solo alle seconde implicitamente riserva
una trattamento del tutto simile a quello previsto dall’art.
21-octies, sancendone l’irrilevanza ai fini della
legittimità. Per le irregolarità che sono (sempre formali,
ma) essenziali prevede invece, come sopra visto, un
obbligatorio procedimento di sanatoria, ossia di produzione,
integrazione, correzione, con effetto sanante.
Ciò si spiega per la circostanza che le procedure
concorsuali, seppure chiaramente finalizzate alla scelta
della migliore offerta o del miglior candidato, operano
all’interno di un quadro di regole poste a garanzia della
leale e trasparente competizione, che devono essere
rispettate nei limiti in cui ragionevolmente assolvano alla
funzione di dirigere la competizione verso il risultato
finale, e non si risolvano piuttosto in mere prescrizioni
formali prive di aggancio funzionale o in meri ostacoli
burocratici da superare. È la competizione il discrimen
rispetto alla generale ipotesi di cui all’art. 21-octies, ed
essa giustifica l’esigenza del rispetto di regole di
ingaggio certe e ragionevoli, pur se formali, ossia
concernenti la produzione di documenti entro un certo
termine a prescindere dai contenuti degli stessi.
In questa chiave di lettura, ha ancora chiarito il Consiglio
di Stato, l’art. 38-bis, proteso verso il meritorio
obiettivo di consentire sempre la scelta della migliore
offerta, ha attenuato il rigore sanzionatorio delle regole
formali di gara, imponendo all’amministrazione, ove sia
rilevato una irregolarità comunque “essenziale”, di
accettare la regolarizzazione in luogo dell’esclusione,
sembra che avvenga in un termine dato ed inderogabile.
Concludendo sul problema relativo alla conseguenze in
termini giuridici della irregolarità essenziali, può dirsi
che esse sono irregolarità che pretendono e necessitano di
un’obbligatoria sanatoria (ovviamente sempre che l’offerente
abbia interesse a proseguire la gara), in ciò
differenziandosi dalle mere irregolarità contemplate
dall’art. 21-octies della legge generale sul procedimento,
con la conseguente inapplicabilità nei giudizi sulle
procedure di appalto della regola della “non
annullabilità” del provvedimento irregolare, sulla quale
si fonda l’art. 21-octies.
(4) Ha preliminarmente chiarito il giudice di appello che la scelta
sostanzialistica del legislatore, diretta ad impedire –con
la previsione introdotta dall’art. 38, comma 2-bis, d.lgs.
n. 163 del 2006- l’esclusione per vizi formali nella
dichiarazione, quando vi è prova del possesso del requisito,
deve applicarsi anche quando l’incompletezza della
dichiarazione viene dedotta come motivo di impugnazione
dell’aggiudicazione da parte di altra impresa partecipante
alla selezione (non essendone avveduta la stazione
appaltante in sede di gara), ma è provato che la concorrente
fosse effettivamente in possesso del prescritto requisito
soggettivo fin dall’inizio della procedura di gara e per
tutto il suo svolgimento. In tale caso, infatti,
l’irregolarità della dichiarazione si configura come vizio
solo formale e non sostanziale, emendabile secondo
l’obbligatoria procedura di soccorso istruttorio.
Dunque, a fronte di una carenza documentale dedotta in
giudizio la conseguenza dovrebbe essere l’annullamento
dell’aggiudicazione, in quanto conseguentemente viziata,
sancendo, in via conformativa, la riedizione del
procedimento, a partire dall’ultimo segmento valido.
La successiva correzione, o integrazione documentale della
dichiarazione non viola affatto il principio della par
condicio tra i concorrenti, in quanto essa mira ad
attestare, correttamente, l’esistenza di circostanze
preesistenti, riparando una incompletezza o irregolarità che
la stazione appaltante, se avesse tempestivamente rilevato,
avrebbe dovuto comunicare alla concorrente, attivando
l’obbligatorio procedimento di soccorso istruttorio.
Né possono sussistere problematiche connesse alla segretezza
delle offerte, in quanto la dichiarazione integrativa non
attiene all’offerta, al suo contenuto tecnico ed economico,
in relazione ad elementi oggetto di valutazione comparativa
tra i concorrenti, ma al concreto possesso dei requisiti di
partecipazione alla gara, i quali possono essere verificati
anche in un momento successivo, fermo restano l’onere, per i
partecipanti, di rispettare i vincoli minimi, di carattere
formale, necessari per essere ammessi alla procedura
selettiva.
L’esito demolitorio, in tali perentori termini, si
rivelerebbe tuttavia contrario allo spirito che ha pervaso
la novella dell’art. 38 ed all’impianto di fondo del nuovo
processo amministrativo, nella parte in cui esso, alla luce
del principio di effettività e satisfattività della tutela,
consente al giudice: a) un pieno accesso al fatto; b) un
pieno accesso al rapporto, quando il potere
dell’amministrazione si presenti vincolato. A ciò deve
aggiungersi la necessità di pervenire alla rapida
definizione della corretta graduatoria della procedura
selettiva, evitando defatiganti rinnovazioni di singoli
segmenti dell’iter. E non v’è dubbio che l’accertamento
della completezza documentale ai fini dell’ammissione alla
gara sia il frutto di un’attività vincolata.
In tali casi il giudice amministrativo ben potrebbe “limitarsi”
ad accertare, all’esito del processo, i termini della
dedotta irregolarità essenziale e, ove risulti provato che
ad essa non si accompagni anche una carenza sostanziale del
requisito (alla cui dimostrazione la documentazione omessa o
irregolarmente prodotta era finalizzata), dichiarare, alla
luce della prognosi postuma fatta, che il vizio era sanabile
e che l’offerente aveva interesse a sanarlo, previo
pagamento della sanzione pecuniaria.
Un tale accertamento renderebbe inutile l’ulteriore
pronuncia costitutiva deputata a privare d’effetto
l’aggiudicazione, poiché l’ulteriore procedimento
amministrativo che ne scaturirebbe non potrebbe che essere
una mera riproduzione, in forma amministrativa, del percorso
giudiziale già effettuato nel contraddittorio della parti
sotto la supervisione del giudice così come descritto in
sentenza. Nondimeno, l’accertamento conserverebbe una sua
autonoma utilità, poiché è in grado di vincolare
l’amministrazione, determinando, in virtù del connesso
effetto conformativo, l’obbligo di ingiungere la sanzione.
Ad avviso della Sezione non osta in tale direzione né la
mancanza di una esplicita domanda di accertamento da parte
dell’appellante, posto che la domanda di annullamento
implica sempre e necessariamente l’accertamento di una
violazione, né la peculiarità della posizione giuridica
dell’offerente, comunque ricompresa nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativa, né il “dovere”
di annullare l’atto quando il ricorso è accolto, come
deducibile dall’art. 34, comma 1, lett. a), atteso che la
medesima disposizione, al comma 3, espressamente prevede che
“quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del
provvedimento impugnato non risulta più utile per il
ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se
sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.
Tale ultima norma è espressione di un principio per il
quale: a) il mero accertamento rientra tra i poteri del
giudice; b) la domanda di accertamento rientra
implicitamente nel contenuto della domanda di annullamento,
talché ove vengano meno i presupposti della seconda, perché
non più utile, può rimanere in piedi la prima.
La norma deve ritenersi applicabile non solo nei casi di
perdurante interesse risarcitorio, ma anche in tutti i casi
in cui perdura un interesse qualificato e processualmente
rilevante; e tale, invero, è da considerare l’interesse del
ricorrente ad ottenere la sottoposizione del concorrente al
procedimento di soccorso istruttorio e alla connessa
sanzione pecuniaria.
(5) La Sezione si è soffermata su quali siano gli strumenti per
accertare che alla violazione delle forma si accompagni, o
meno, anche una sostanziale carenza dei requisiti.
Ha chiarito che la sussistenza o meno del requisito -a
differenza dell’accertamento della produzione o meno del
documento che lo comprova- non è una valutazione
necessariamente vincolata (si pensi solo per fare un esempio
al concetto di “grave negligenza o malafede
nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione
appaltante che bandisce la gara”), ragion per cui, ove
il giudice sia certo, in ragione della natura vincolata
dell’accertamento, che il requisito non sussista, egli deve
annullare l’aggiudicazione ed accogliere le richieste del
secondo graduato di subentrarvi, ma se le valutazioni che si
richiedono dinanzi al dubbio sono invece connotate da
discrezionalità, la soluzione non può che essere
l’annullamento dell’ammissione del concorrente, con la
conseguente regressione del procedimento alla fase
dell’invito alla regolarizzazione e delle pertinenti
verifiche e valutazioni in sede amministrativa di quanto
prodotto.
E’ invece da escludere la regressione del procedimento
-limitatamente alla posizione dell’aggiudicatario- alla fase
pregressa della regolarizzazione, con applicazione della
sanzione pecuniaria e successiva verifica e valutazione da
parte dell’amministrazione, se non sono emersi, neanche nel
processo (stante la mancata produzione di qualsivoglia
documento in grado di ingenerare discussione sui contenuti e
sulla sostanza dei requisiti sottostanti la dichiarazione
omessa) profili di approfondimento necessitanti di ulteriore
delibazione in sede amministrativa.
In sintesi, l’aggiudicatario non ha sfruttato nel processo,
attraverso le regole dell’onus probandi, le
potenzialità di regolarizzazione (ossia di comprova tardiva
dei requisiti) che la norma sul procedimento di cui all’art.
38, comma 2-bis, gli concedeva e che, in sede
amministrativa, non si erano potute ab origine
attivare a cagione del mancato rilievo da parte
dell’amministrazione (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 02.03.2017 n. 975
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Immediata impugnazione dell’ammissione di due concorrenti
per collegamento sostanziale.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione alla
gara di imprese in collegamento sostanziale – Censura
dedotta in sede di impugnazione dell’aggiudicazione - Art.
120, commi 2 bis e 6 bis, c.p.a. – Irricevibilità del
ricorso.
E’ irricevibile il ricorso proposto
avverso l’aggiudicazione di procedura negoziata con avviso
di preinformazione, nel quale si censura l’omessa esclusione
di due concorrenti in ragione della presunta sussistenza di
un collegamento sostanziale, la cui ammissione, all'esito
della fase di verifica della documentazione e della
valutazione dei requisiti soggettivi, era stata regolarmente
pubblicata sul profilo del committente alla sezione relativa
a bandi di gara e contratti, come prescritto dal d.lgs.
14.03.2013, n. 33; trovando applicazione l’art. 120, commi
2-bis e 6-bis, c.p.a., introdotti dall’art. 204, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, l’ammissione dei due ricorrenti avrebbe
dovuto essere impugnata immediatamente e non unitamente
all’aggiudicazione (1).
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(1)
Ha chiarito il Tar che la previsione di un rito ad hoc per
l’impugnativa dei provvedimenti di esclusione ed ammissione
è evidentemente volta, nella sua ratio legis, a
definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un
momento antecedente all’esame delle offerte e alla
conseguente aggiudicazione (Cons.
St., comm. spec., 01.04.2016, n. 855), poiché
pone un onere di immediata impugnativa dei provvedimenti in
esame, a pena di decadenza, non consentendo di far valere
successivamente i vizi inerenti agli atti non impugnati.
In sostanza, una volta che la parte interessata non ha
impugnato l’ammissione o l’esclusione non potrà più far
valere i profili inerenti all’illegittimità di tali
determinazioni con l’impugnativa dei successivi atti della
procedura di gara, quale, come nel caso di specie, il
provvedimento di aggiudicazione.
La norma oltre ad avere natura evidentemente processuale e
quindi applicabile ad una controversia introdotta
successivamente all’entrata in vigore (Tar
Reggio Calabria 23.07.2016, n. 829) è regolata
dalla contestuale operatività del meccanismo di
pubblicazione specificamente previsto dall’art. 29, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (pubblicazione delle esclusioni e delle
ammissioni sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione
trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di
cui al d.lgs. 14.03.2013, n. 33) e in tal senso si è
espresso anche
Cons. St., sez III, 25.11.2016, n. 4994 che ha
ritenuto inapplicabile il rito di cui ai commi 2-bis e 6-bis
dell’art. 120 c.p.a. anche in ragione dell’inoperatività, in
quella fattispecie, delle forme di immediata conoscenza
previste dal codice del contratti (“In difetto del
(contestuale) funzionamento delle regole che assicurano la
pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si
introduce l’onere di immediata impugnazione –che devono,
perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale
inscindibile- la relativa prescrizione processuale si rivela
del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto
logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di
un apparato regolativo che garantisca la tempestiva
informazione degli interessati circa il contenuto del
provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza
ivi stabilito”) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 02.03.2017 n. 420 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per mancato pareggio di bilancio
nell’ultimo triennio.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Per mancato pareggio di bilancio nell’ultimo
triennio – Legittimità.
Non viola dell’art. 83, comma 8, del
d.lgs. n. 50/2016 la decisione della stazione appaltante di
escludere dalla gara per il servizio di ristorazione
scolastica il concorrente per mancanza del requisito,
previsto dal bando, del pareggio di bilancio nell’ultimo
triennio (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che gli operatori economici interessati a
partecipare alle gare pubbliche, oltre a non trovarsi in
stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione
d'attività, di amministrazione controllata o di concordato
preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da
una procedura della stessa natura prevista da leggi e
regolamenti nazionali, devono possedere la capacità
economica e finanziaria necessaria ad assicurare
l’osservanza delle obbligazioni contrattuali.
Ha aggiunto che in un periodo economicamente critico, come
quello attuale, in cui la solidità patrimoniale e
finanziaria di molte aziende è messa seriamente in pericolo,
non può prescindersi, a maggior ragione, da una puntuale e
rigorosa verifica dello stato di salute delle imprese
partecipanti alle gare di appalto pubbliche, in quanto
accertamento funzionale allo svolgimento positivo degli
appalti stessi e ciò a prescindere dalle capacità tecniche e
professionali, che pure devono essere possedute.
La necessità di affidare il contratto a soggetti che
dimostrino, tra le altre, anche la capacità economica e
finanziaria idonea a garantire l'esecuzione delle
prestazioni oggetto dello stesso costituisce, infatti, un
fondamentale principio ricavabile dalla complessiva
disciplina dell'affidamento di pubblici appalti e l’apertura
al mercato e alla concorrenza non può mai spingersi sino al
punto di compromettere o comunque mettere seriamente in
pericolo la regolare esecuzione del contratto.
L’art. 83 del nuovo Codice dei contratti, come del resto già
il previgente art. 41, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, peraltro,
lascia la libertà alle stazioni appaltanti di individuare
nella legge di gara gli indici di capacità economica più
adatti, con il solo limite della “attinenza” e “proporzionalità”
all’oggetto dell’appalto, nella ricerca di un costante
bilanciamento con l’interesse pubblico “ad avere il più
ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei
principi di trasparenza e rotazione” (vedi art. 83,
comma 2).
Per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della
verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e
finanziaria, le stazioni appaltanti, nel bando di gara,
possono richiedere, tra l’altro, che “gli operatori
economici forniscano informazioni riguardo ai loro conti
annuali che evidenzino in particolare i rapporti tra
attività e passività” (art. 83, comma 4, lett. b) (TAR
Friuli Venezia Giulia,
sentenza 01.03.2017 n. 81
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il soccorso istruttorio non si applica alle carenze delle
offerte.
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Contratti della pubblica amministrazione – Soccorso
istruttoria – Carenze dell’offerta - Inapplicabilità del
soccorso istruttorio.
L’art. 83, comma 9, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 esclude che l’istituto del soccorso
istruttorio possa essere applicato per colmare le carenze
dell’offerta tecnica (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che il comma 9 dell’art. 83, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (secondo cui “Le carenze di qualsiasi
elemento formale della domanda possono essere sanate
attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al
presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza
e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del
documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con
esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed
economica”) è differente da quella omologa di cui
all’art. 46, comma 1-ter, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 secondo
cui “1-ter. Le disposizioni di cui all'articolo 38, comma
2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità degli elementi e delle
dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere
prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al
disciplinare di gara”.
La norma previgente, infatti, ammetteva il soccorso
istruttorio anche rispetto all’offerta con l’unico limite
costituito dalla previsione di cui all’art. 46, comma 1-bis,
laddove, facendo riferimento all’”incertezza assoluta sul
contenuto o sulla provenienza dell'offerta”, escludeva
la possibilità di sanare ex post mediante il soccorso
istruttorio quelle mancanze, incompletezze o irregolarità
dell’offerta che avessero determinato incertezza sul
contenuto o sulla provenienza dell’offerta (TAR
Liguria, Sez. II,
sentenza 28.02.2017 n. 145
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Criterio di valutazione delle offerte economicamente più
vantaggiose e equipollenza del certificato di esecuzione
lavori con il certificato di collaudo o di regolare
esecuzione.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Commissione di
gara - Fissazione di sub criteri – Possibilità –
Introduzione di un criterio valutativo diverso – Esclusione
– introduzione di sub criterio che sottende un nuovo
criterio – Illegittimità.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente
più vantaggiosa - Valutazione – Criteri selettivi –
Pubblicità – Necessità – Ratio.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente
più vantaggiosa - Valutazione – Criteri di valutazione –
Individuazione – Prima dell’apertura delle buste contenenti
le offerte.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Appalto lavori - Certificato di
esecuzione lavori - Equipollenza ex art. 325, d.P.R. n. 270
del 2010 al certificato di collaudo o di regolare esecuzione
richiesto ai fini dell'ammissione alla gara - Conseguenza.
●
La Commissione di gara può specificare, prima
dell’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, il
metodo di attribuzione dei singoli punteggi al fine di
precisare il susseguente iter motivazionale ma non può
introdurre un criterio valutativo diverso e ulteriore
rispetto a quello previsto dalla lex specialis di gara anche
se facendolo passare per un sub criterio.
●
Nelle procedure da aggiudicarsi secondo il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le
amministrazioni devono enunciare i criteri di aggiudicazione
da applicarsi nelle valutazioni delle offerte; in
applicazione dei principi della par condicio e della
trasparenza dell’azione amministrativa, tutti gli elementi
da prendersi in considerazione per l’aggiudicazione della
procedura, ed il peso assegnato per la valutazione, devono
essere resi noti ai partecipanti al momento della
presentazione delle offerte, non potendo la stazione
appaltante applicare regole di ponderazione o sottocriteri
che non siano stati preventivamente portati a conoscenza
degli offerenti (1).
●
Nelle procedure da aggiudicarsi secondo il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la
fissazione dei criteri selettivi di valutazione delle
offerte deve sempre precedere l’apertura delle buste
contenenti le offerte medesime ed essere effettuata in una
fase anteriore alla conoscenza delle soluzioni proposte dai
concorrenti (2).
●
Le specifiche dichiarazioni dei responsabili dei
procedimenti delle stazioni appaltanti, in cui si attesta
che “i lavori sono stati eseguiti regolarmente e con buon
esito”, presuppongono l’avvenuto rilascio, da parte della
commissione o della direzione lavori, dei certificati di
collaudo o di regolare esecuzione, e non possono prescindere
dal favorevole esito delle operazioni di controllo
effettuate da detti organi, come si evince dall’art. 325
(“attestazione di regolare esecuzione”), d.P.R. 05.10.2010,
n. 207, in cui è stabilito che l’attestazione di regolare
esecuzione emessa dal direttore dell’esecuzione viene
confermata dal responsabile del procedimento (3).
---------------
(1) Cons. St., sez. III, 01.02.2012, n. 514; id. 22.03.2011, n.
1749; Tar Milano, sez. I, 29.07.2009, n. 4551; deliberazione
Anac n. 1264 del 2016.
(2) Cons. St., sez. V, 20.04.2012, n. 2343; id. 18.08.2010, n.
5844; id., sez. VI, 16.11.2000, n. 6128.
(3) Data la premessa il Tar ha affermato che la decisione
dell’organo tecnico della stazione appaltante di non
ammettere e di non valutare, ai fini del conseguimento del
previsto punteggio, i certificati prodotti dalla ricorrente
in quanto non corredati dai certificati di collaudo o di
regolare esecuzione, costituisce l’esito di un’operazione
interpretativa irragionevole e quindi illegittima, atteso il
rapporto di presupposizione che connota la dichiarazione del
responsabile del procedimento rispetto alle previe verifiche
della commissione o della direzione lavori (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 28.02.2017 n. 71 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Scelta del criterio di selezione dell’offerta e obbligo di
indicare gli oneri di sicurezza.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Criterio del minor prezzo – Art. 95, comma 4, d.lgs. n. 50
del 2016 – Facoltà di scelta – Fattispecie in tema di
servizio sopra soglia di prelievo, raccolta, evacuazione e
smaltimento dei rifiuti sanitari).
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerta – Criterio del minor
prezzo – Scelta di tale criterio per selezionale l’offerta -
Art. 95, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 – Motivazione –
Obbligo.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economica –
Oneri di sicurezza – Indicazione - Art. 95, comma 10, d.lgs.
n. 50 del 2016 – Necessità – Omissione – Esclusione dalla
gara – Legittimità.
●
L’art. 95, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
individua i casi in cui la stazione appaltante “può”
ricorrere al criterio del minor prezzo, rimettendo alla
stessa quindi la facoltà della scelta; ciò a differenza di
quanto previsto dal precedente comma 3, che invece individua
i casi in cui si “deve” utilizzare il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa (nella specie (Nella specie
si trattava di un servizio sopra soglia di prelievo,
raccolta, evacuazione e smaltimento dei rifiuti sanitari)
(1).
●
Ai sensi del comma 5 dell’art. 95, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, la stazione appaltante che si avvale
della facoltà, prevista dal precedente comma 4, di
utilizzare il criterio del “minor prezzo” per selezionare
l’offerta migliore, deve motivare le ragioni di tale scelta
(2).
●
E’ legittima l’esclusione dalla gara, bandita in
vigenza del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato
con d.lgs. 18.04.2016, n. 50, del concorrente che non ha
indicato nella propria offerta, come prescritto dall’art.
95, comma 10, dello stesso Codice, gli oneri per la
sicurezza c.d.. ‘interni o aziendali’ (3).
---------------
(1)
Preliminarmente il Tar ha affermato che una parte della
giurisprudenza (Tar
Lazio, sez. III-ter, 13.12.2016, n. 12439),
esaminando il rapporto tra i commi 3 e 4 dell’art. 95,
d.lgs. n. 50 del 2016, ha ritenuto che “l’unica
interpretazione ammissibile, perché costituzionalmente
orientata (tale cioè da evitare pur ipotizzabili profili di
eccesso di delega), delle previsioni in esame appare essere
quella che assegna portata autonoma, e natura inderogabile,
al comma 3”.
Altra parte della giurisprudenza (Tar
L’Aquila 13.01.2017, n. 30) ha ritenuto che i
commi 3 e 4 si trovano in rapporto di complementarietà. Ha
aggiunto che il comma 4 dell’art. 95 “prevede una deroga
al sistema delineato dai commi 2 e 3 …, ammettendo il
criterio del minor prezzo, tra l’altro, per l’affidamento di
servizi e forniture di importo inferiore alla soglia di cui
all’articolo 35, caratterizzati da elevata ripetitività,
fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico
o che hanno un carattere innovativo”: con la conseguenza
che, “qualora l’appalto rientri in uno dei casi di cui al
quarto comma del citato art. 95 è aggiudicabile con il
criterio del massimo ribasso”.
Ove, poi l’appalto presenti “entrambe le caratteristiche,
nel senso che, in forza del suo oggetto, rientra tanto
nell’ambito di applicazione del terzo comma, tanto
nell’ambito di applicazione del quarto comma, la previsione
di esclusività del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa cede il passo alla possibilità di aggiudicare
l’appalto al massimo ribasso”.
Il Tar Reggio Calabria ritiene preferibile l’interpretazione
che annette carattere specificamente derogatorio alla
previsione di cui al comma 4 dell’art. 95, rispetto alla
generale indicazione di cui al precedente comma 3. Ferma,
infatti, la generalizzata applicabilità del criterio di
selezione dell’offerta economicamente più vantaggiosa –di
cui al comma 3– la percorribilità della diversa opzione di
cui al successivo comma 4 potrà intervenire soltanto
all’interno delle fattispecie in esso tassativamente
delineate: altrimenti potendo venire in considerazione una
generalizzata derogabilità che, evidentemente, non trova
fondamento alcuno nella lettera e nella ratio legis.
(2) V. sul Punto le Linee guida Anac n. 2 del 21.09.2016 (recanti “Offerta
economicamente più vantaggiosa") secondo cui incombe
sull’Amministrazione l’obbligo di “dare adeguata
motivazione della scelta effettuata ed esplicitare nel bando
il criterio utilizzato per la selezione della migliore
offerta (si pensi all’utilizzo di criteri di efficacia nel
caso di approccio costo/efficacia anche con riferimento al
costo del ciclo di vita). Nella motivazione le stazioni
appaltanti, oltre ad argomentare sul ricorrere degli
elementi alla base della deroga, devono dimostrare che
attraverso il ricorso al minor prezzo non sia stato
avvantaggiato un particolare fornitore, poiché ad esempio si
sono considerate come standardizzate le caratteristiche del
prodotto offerto dal singolo fornitore e non dall’insieme
delle imprese presenti sul mercato”.
(3) Ha ricordato il Tar che il comma 10 dell’art. 95, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, prescrive che “Nell’offerta economica
l’operatore deve indicare i propri costi aziendali
concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”. La norma
configura, dunque, un ineludibile obbligo legale da
assolvere necessariamente già in sede di predisposizione
dell’offerta economica (Tar
Salerno 06.07.2016, n. 1604), proprio al fine di
garantire la massima trasparenza dell’offerta economica
nelle sue varie componenti, evitando che la stessa possa
essere modificata ex post nelle sue componenti di
costo, in sede di verifica dell’anomalia, con possibile
alterazione dei costi della sicurezza al fine di rendere
sostenibili e quindi giustificabili le voci di costo
riferite alla fornitura del servizio o del bene.
Configurando tale dichiarazione un elemento essenziale
dell’offerta economica non può ritenersi integrabile ex
post mediante l’istituto del soccorso istruttorio e
comporta l’esclusione dalla gara anche in assenza di una
espressa sanzione prevista dalla legge o dal disciplinare (Tar
Molise 09.12.2016, n. 513) (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 25.02.2017 n. 166
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Un
volume realizzato a copertura d'un fabbricato –che abbia
natura e caratteristiche d'un sottotetto di per sé non
abitabile e destinato a servire come minimo volume tecnico
per copertura e isolamento dell'edificio- diventa una vera e
propria mansarda, anche potenziale, quando è dotato di
significativa altezza media rispetto al piano di gronda:
nell'un caso, si ha un mero vano strumentale alla buona
funzionalità dell'edificio, nell'altro, un vano avente una
materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi.
Nella fattispecie, i sottotetti hanno un’altezza di 1,8 mt.
nel punto più alto, hanno aperture verso l’esterno e sono
indicati nello stesso progetto come lavanderie-stenditoi, di
guisa che non possono essere considerati come meri volumi
tecnici, essendo aree calpestabili e praticabili, a servizio
dei costituendi condomini.
---------------
Correttamente, il Comune computa nel calcolo dei volumi le
parti di sottotetto che, pur non essendo adibite ad uso
abitativo, non rientrano nella definizione di volumi
tecnici.
Infatti, un volume realizzato a copertura d'un fabbricato
–che abbia natura e caratteristiche d'un sottotetto di per
sé non abitabile e destinato a servire come minimo volume
tecnico per copertura e isolamento dell'edificio- diventa
una vera e propria mansarda, anche potenziale, quando è
dotato di significativa altezza media rispetto al piano di
gronda: nell'un caso, si ha un mero vano strumentale alla
buona funzionalità dell'edificio, nell'altro, un vano avente
una materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi
(cfr.: Cons. Stato IV, 28.06.2016 n. 2908; Tar Marche Ancona
I, 05.01.2017 n. 17; Tar Lombardia Milano II, 16.06.2016 n.
1208).
Nella fattispecie, i sottotetti hanno un’altezza di 1,8 mt.
nel punto più alto, hanno aperture verso l’esterno e sono
indicati nello stesso progetto come lavanderie-stenditoi, di
guisa che non possono essere considerati come meri volumi
tecnici, essendo aree calpestabili e praticabili, a servizio
dei costituendi condomini.
Tale evidenza relativa ai volumi dei sottotetti priva di
rilievo la questione del calcolo delle altezze degli edifici
(ritenuto errato dalla ricorrente), questione che, comunque,
risentirebbe del fatto che i medesimi edifici progettati in
variante sono ubicati lungo un pendio, quindi hanno altezze
diverse a monte e a valle.
Ad ogni modo, sarebbe spettato alla ricorrente di provare
che il calcolo delle altezze degli edifici, eseguito dal
tecnico comunale, fosse errato e, per farlo, essa avrebbe
dovuto produrre una perizia di parte o, quantomeno, chiedere
l’esperimento della prova della consulenza tecnica d’ufficio
(istanza istruttoria che, viceversa, essa non ha proposto).
Invero, il processo amministrativo è retto dal principio
dispositivo con metodo acquisitivo (artt. 63 e ss. c.p.a.).
La posizione di squilibrio informativo tra le parti
pubbliche e private derivanti dalla circostanza che i
documenti afferenti al procedimento amministrativo sono
nella disponibilità della pubblica amministrazione
giustifica il soccorso istruttorio del giudice
amministrativo.
Tuttavia, la parte privata deve addurre, nei casi in cui si
realizzano queste condizioni, un principio di prova sui cui
si può innestare il potere officioso del giudice
amministrativo. In mancanza di tali elementi probatori che
la parte deve indicare, l'istruttoria si risolverebbe in una
indagine esplorativa contraria alle regole che presiedono
alla formazione della prova (cfr.: Cons. Stato VI,
27.09.2016 n. 3978; Tar Lazio Roma III, 29.10.2014, n.
10866)
(TAR Molise,
sentenza 24.02.2017 n. 76 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Deroga
alla disciplina statale della distanza tra fabbricati: la
Consulta censura la legge del Veneto.
La deroga regionale alla disciplina della distanza minima
tra fabbricati, realizzata dagli strumenti urbanistici, è
legittima se fa riferimento ad una pluralità di fabbricati
ed è fondata su previsioni planovolumetriche.
---------------
La disciplina delle distanze fra costruzioni ha la
sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del
Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata
appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e
scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.
«Tale disciplina, ed in particolare
quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più
specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può
pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per
quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia
dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva
dello Stato».
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può
avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–
specifiche caratteristiche, «la disciplina che li
riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel
territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti
interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui
cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché
attratta all’ambito di competenza concorrente del governo
del territorio.
---------------
In questa cornice si è dunque affermato che «alle
Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze
minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione
che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque,
se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio».
Nel delimitare i rispettivi ambiti di
competenza −statale in materia di «ordinamento civile»
e concorrente in materia di «governo del territorio»−
questa Corte ha individuato il punto di equilibrio
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte ritenuto dotato di particolare «efficacia
precettiva e inderogabile», in quanto richiamato
dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765.
Pertanto, è stata giudicata legittima la
previsione regionale di distanze in deroga a quelle
stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche».
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite «se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio»,
poiché «la
loro legittimità è strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del territorio,
non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente
considerati».
---------------
I medesimi principi sono stati
ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE,
da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione,
infatti, ha sostanzialmente recepito
l’orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m.
n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a
condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio».
La deroga alla disciplina delle
distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in
conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia
riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di
edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche
che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da
definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
---------------
Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi
coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte
dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del
TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai
piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai
piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque
riconducibili a quella tipologia di atti menzionati
nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di
derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha
stabilito che la deroga alle distanze
minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi.
Ne consegue che devono ritenersi
ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani
urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di
attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in
linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa
Corte.
---------------
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso
questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma
1, lettera a), della legge della Regione Veneto 16.03.2015,
n. 4 (Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia
di governo del territorio e di aree naturali protette
regionali), per violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera l), della Costituzione, in riferimento all’art.
2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia (Testo A)» (d’ora in avanti TUE), che ammette
deroghe al decreto del ministro dei lavori pubblici
02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765).
Secondo il ricorrente, il citato art. 8, comma 1, della
legge regionale del Veneto n. 4 del 2015, avrebbe demandato
allo strumento urbanistico generale la fissazione dei limiti
di densità, altezza e distanza tra fabbricati, in deroga a
quelli stabiliti dall’ordinamento statale, in una serie di
ipotesi elencate.
È censurato, in particolare, l’art. 8, comma 1, lettera a),
della legge regionale, nella parte in cui stabilisce che lo
strumento urbanistico generale possa derogare: «nei casi
di cui all’articolo 17, comma 3, lettere a) e b), della
legge regionale 23.04.2004, n. 11 “Norme per il governo del
territorio e in materia di paesaggio”, con riferimento ai
limiti di distanza da rispettarsi all’interno degli ambiti
dei piani urbanistici attuativi (PUA) e degli ambiti degli
interventi disciplinati puntualmente». La disposizione
contrasterebbe con l’art. 2-bis del TUE, in quanto gli
strumenti per disporre le deroghe risulterebbero
eccessivamente generici e indeterminati.
2.– Preliminarmente, va precisato che la questione di
legittimità costituzionale ha ad oggetto esclusivamente
l’art. 8, comma 1, lettera a), che consente deroghe alla
disciplina statale limitatamente al regime delle distanze.
Il contenuto del ricorso impone, infatti, di ritenere che
detta norma è stata impugnata solamente nella parte in cui
deroga alla disciplina delle distanze; ciò, peraltro, in
armonia con la deliberazione governativa di impugnazione
della legge che fa espresso riferimento alla sola «norma
contenuta nell’art. 8, comma 1, lettera a)».
3.– Non è fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto
di interesse sollevata dalla Regione Veneto, motivata
dall’identità di contenuto che la norma censurata avrebbe
rispetto all’art. 17, comma 3, della legge regionale n. 11
del 2004, disposizione quest’ultima mai impugnata da parte
dello Stato. Nell’assunto della Regione, qualora la
questione qui in esame fosse ritenuta fondata, l’art. 17,
comma 3, della legge regionale n. 11 del 2004 continuerebbe
comunque ad essere vigente e a produrre effetti
nell’ordinamento.
In senso opposto al rilievo addotto dalla Regione, va
tuttavia ribadita l’inapplicabilità dell’istituto
dell’acquiescenza ai giudizi in via principale atteso che la
norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare la
lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato
(da ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
4.– Ciò premesso, la questione deve ritenersi parzialmente
fondata nei termini precisati di seguito.
4.1.– Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
la disciplina delle distanze fra costruzioni ha la
sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del
Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata
appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e
scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”.
«Tale disciplina, ed in particolare
quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più
specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può
pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per
quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia
dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva
dello Stato»
(sentenza n. 232 del 2005).
Nondimeno, si è altresì sottolineato, che
quando i fabbricati insistono su di un territorio che può
avere, rispetto ad altri –per ragioni naturali e storiche–
specifiche caratteristiche, «la disciplina che li
riguarda –e in particolare quella dei loro rapporti nel
territorio stesso– esorbita dai limiti propri dei rapporti
interprivati e tocca anche interessi pubblici», la cui
cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni perché
attratta all’ambito di competenza concorrente del governo
del territorio (si
veda sempre la sentenza n. 232 del 2005).
In questa cornice si è dunque affermato che «alle
Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze
minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione
che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque,
se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio»
(sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, da ultimo,
anche le sentenze n. 231, n. 189, n. 185 e n. 178 del 2016).
4.2.– Nel delimitare i rispettivi ambiti di
competenza −statale in materia di «ordinamento civile»
e concorrente in materia di «governo del territorio»−
questa Corte ha individuato il punto di equilibrio
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte ritenuto dotato di particolare «efficacia
precettiva e inderogabile»
(sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012
e n. 232 del 2005), in quanto richiamato
dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150
(Legge urbanistica), introdotto dall’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765
(Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la
previsione regionale di distanze in deroga a quelle
stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di
gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche»
(ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite «se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio»
(sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n.
185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la
loro legittimità è strettamente connessa agli assetti
urbanistici generali e quindi al governo del territorio,
non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente
considerati»
(sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n.
232 del 2005).
4.3.– I medesimi principi sono stati
ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE,
da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 09.08.2013, n. 98.
La disposizione,
infatti, ha sostanzialmente recepito
l’orientamento della giurisprudenza costituzionale,
inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le
Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m.
n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a
condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio»
(sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex
plurimis, sentenza n. 189 del 2016).
4.4.– La deroga alla disciplina delle
distanze realizzata dagli strumenti urbanistici deve, in
conclusione, ritenersi legittima sempre che faccia
riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di
edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche
che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da
definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario (art. 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
5.– Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi
coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte
dalla Corte e ribadite dal disposto di cui all’art 2-bis del
TUE, il riferimento che la norma impugnata reca ai
piani urbanistici attuativi (PUA), assimilabili ai
piani particolareggiati o di lottizzazione e dunque
riconducibili a quella tipologia di atti menzionati
nell’art. 9, ultimo comma del d.m. n. 1444 del 1968, più
volte richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di
derogare al regime delle distanze.
D’altro canto la stessa giurisprudenza di questa Corte ha
stabilito che la deroga alle distanze
minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi
(sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che devono ritenersi
ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani
urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di
attivare le deroghe in esame, dall’art. 2-bis del TUE, in
linea con l’interpretazione nel tempo tracciata da questa
Corte (ex
multis, sentenze n. 231, n. 189, n. 185, n. 178 del 2016
e n. 134 del 2014).
6.– Una tale conclusione non può essere estesa al
riferimento che la norma censurata fa agli «interventi
disciplinati puntualmente», corrispondente alla lettera
b) del comma 3, dell’art. 17, della legge regionale n. 11
del 2004.
L’espressione utilizzata, infatti, appare in contrasto con
lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione
siffatta, destinata a legittimare deroghe al di fuori di una
adeguata pianificazione urbanistica.
L’assenza di precise indicazioni, in particolare, non
consente di attribuire agli interventi in questione un
perimetro di azione necessariamente coerente con l’esigenza
di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del
territorio; del resto, lo stesso riferimento alla puntualità
che dovrebbe caratterizzarli si presta, sul piano semantico,
a legittimare anche interventi diretti a singoli edifici, in
aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte
in precedenza.
Limitatamente ai suddetti interventi, dunque, va dichiarata
l’illegittimità costituzionale della norma censurata, perché
legittima deroghe alla disciplina delle distanze tra
fabbricati al di fuori dell’ambito della competenza
regionale concorrente in materia di governo del territorio,
in violazione del limite dell’ordinamento civile assegnato
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (da
ultimo, sentenza n. 231 del 2016).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 8, comma 1, lettera a), della legge della Regione
Veneto 16.03.2015, n. 4
(Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di
governo del territorio e di aree naturali protette
regionali), limitatamente al riferimento
alla lettera «b)» dell’art. 17, comma 3, della legge
regionale n. 11 del 2004 e alle parole «e degli ambiti
degli interventi disciplinati puntualmente»
(Corte Costituzionale,
sentenza
24.02.2017 n. 41). |
EDILIZIA PRIVATA: Valutazione
dell'abuso edilizio - Autonoma rilevanza dei i singoli
interventi edilizi - Esclusione - Conformità del manufatto a
tutti i parametri legali - Controllo di legittimità
dell'atto amministrativo - Artt. 3, 6, 22, 37 e 44, lett.
b), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Nella
valutazione dell'abuso edilizio, non è consentito frazionare
i singoli interventi edilizi al fine di dedurre la loro
autonoma rilevanza, ma occorre verificare l'ammissibilità e
la legalità alla luce della normativa vigente,
dell'intervento complessivo realizzato (Sez. 3, n. 45598 del
13/11/2013).
Sicché, il provvedimento è sorretto da motivazione congrua
laddove si accerti la conformità tra il fatto (opere
eseguite e/o in corso di esecuzione) e la fattispecie
legale, alla luce dell'interesse sostanziale protetto, quale
la tutela dell'assetto del territorio in conformità alla
normativa urbanistica, attraverso il controllo di
legittimità di un atto amministrativo che costituisce un
elemento costituito o presupposto del reato, così
verificando la conformità del manufatto a tutti i parametri
legali, fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli
strumenti urbanistici, oltre che dal provvedimento
autorizzatorio (Cass. S.U. n. 11635 del 21/12/1993, P.M. in
proc. Borgia) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8885 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di destinazione urbanistica ha portata meramente
ricognitiva di situazioni di fatto e di diritto altrove
definite e, come tale, è sfornito di ogni efficacia
provvedimentale e, quindi, privo di concreta lesività, il
che ne rende inammissibile l’autonoma impugnazione.
---------------
3.2 E’, invece, inammissibile –come correttamente eccepito
dalla difesa comunale– l’impugnazione del certificato di
destinazione urbanistica prot. n. 49489, rilasciato dal
Comune di Desio in data 21.12.2007.
Sul punto, è sufficiente richiamare il consolidato
orientamento giurisprudenziale per il quale il certificato
di destinazione urbanistica ha portata meramente ricognitiva
di situazioni di fatto e di diritto altrove definite e, come
tale, è sfornito di ogni efficacia provvedimentale e,
quindi, privo di concreta lesività, il che ne rende
inammissibile l’autonoma impugnazione (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 04.02.2014, n. 505; TAR Lombardia Milano, Sez. I,
24.03.2016, n. 586; TAR Lazio, Latina, 22.05.2013, n. 482;
TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 06.03.2012, n. 2241; TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 12.01.2010, n. 21)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nel caso in cui venga impugnata la prescrizione
contenuta in un piano urbanistico, qualora nelle more del
giudizio tale strumento sia interamente sostituito da un
altro piano, non vi è più interesse a discutere sul
precedente strumento, anche laddove il nuovo abbia
riprodotto la prescrizione impugnata.
---------------
4. Le domande di
annullamento proposte con i ricorsi n. 2306 del 2009 e n.
3110 del 2012 sono invece ormai prive d’interesse per i
ricorrenti.
Con tali ricorsi sono stati impugnati –rispettivamente– il
PGT approvato dal Comune di Desio con deliberazione del
Consiglio comunale n. 29 del 20.04.2009 e la variante
parziale apportata al medesimo piano con deliberazione del
Consiglio comunale n. 35 del 03.07.2012, unitamente agli
atti presupposti alle predette deliberazioni.
Le previsioni pianificatorie censurate sono state, però,
ormai sostituite dalla variante generale al PGT, approvata
con deliberazione del Consiglio comunale n. 47 del
24.09.2014. E, per costante giurisprudenza, nel caso in cui
venga impugnata la prescrizione contenuta in un piano
urbanistico, qualora nelle more del giudizio tale strumento
sia interamente sostituito da un altro piano, non vi è più
interesse a discutere sul precedente strumento, anche
laddove il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata
(cfr., ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2004,
n. 731; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.12.2015, n. 2640;
Id., 29.10.2015, n. 2276).
Da ciò l’improcedibilità di tali domande
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte urbanistiche compiute dalle autorità
preposte alla pianificazione territoriale costituiscono
espressione di ampia discrezionalità. Si tratta, infatti, di
scelte di merito, che non possono essere sindacate dal
giudice amministrativo, a meno che risultino inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare.
In questa prospettiva, le scelte urbanistiche non
necessitano, di regola, di apposita motivazione, oltre a
quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano,
salvo che ricorra una delle evenienze che, in conformità ai
consolidati indirizzi della giurisprudenza, determinano un
onere motivatorio più incisivo.
Tali evenienze sono state ravvisate:
a) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante
da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto
privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree,
da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi del titolo edilizio o di silenzio rifiuto su
domanda di rilascio del permesso di costruire, ecc.;
b) nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione
agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente
edificati;
c) nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico effettui un
sovradimensionamento delle aree destinate ad ospitare
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale
(cd. aree standard), quantificandole in misura maggiore
rispetto ai parametri minimi fissati dall’art. 3 del d.m. n.
1444 del 1968 e dall’art. 9, comma 3, della legge della
Regione Lombardia n. 12 del 2005.
Non costituisce, invece, posizione di affidamento tutelabile
in sede giurisdizionale quella del soggetto che veda
semplicemente assegnata alla sua area una disciplina
peggiorativa rispetto a quella dettata dai previgenti atti
di pianificazione.
---------------
La giurisprudenza ha ormai chiarito
che la nozione di naturale vocazione edificatoria può essere
appropriatamente impiegata soltanto nel contesto delle
vicende espropriative, mentre non si attaglia al diverso
ambito della disciplina d’uso dei suoli, poiché –postulando
la preesistenza di una edificabilità di fatto– contraddice
la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte
pianificatorie dell’amministrazione.
D’altro canto, è parimenti acclarato che “all’interno della
pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche
esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali
spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree
edificate e spazi liberi”. E ciò in quanto “l’urbanistica,
ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione,
non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo”, per cui
l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben
può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di
interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano
quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione.
---------------
In tale prospettiva, deve pure ricordarsi che, per costante
giurisprudenza, la destinazione di un'area a verde agricolo
non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo
diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell'ordinato governo del
territorio, quale la necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle
condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori
naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli
effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.
---------------
Le osservazioni successive all’adozione costituiscono meri
apporti collaborativi dei cittadini, in funzione di
interessi generali e non individuali, per cui
l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove
contrastino con gli interessi e le considerazioni generali
sottese allo strumento urbanistico.
---------------
5. Va quindi presa
in esame l’impugnazione proposta con il ricorso R.G. n. 1171
del 2015, diretta contro la richiamata deliberazione del
Consiglio comunale n. 47 del 24.09.2014, di approvazione
della variante generale costituente il c.d. nuovo PGT di
Desio.
5.1 Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti
lamentano che la scelta di includere le aree delle
ricorrenti negli “Spazi aperti ed agricoli – aa3 – Spazi
aperti agricoli a compensazione ecologica - ambientale”
contrasterebbe con la vocazione edificatoria del compendio
immobiliare e sarebbe contraddittoria e lesiva
dell’affidamento maturato dalle stesse società.
Le censure non possono essere accolte.
5.1.1 Per costante giurisprudenza, le scelte urbanistiche
compiute dalle autorità preposte alla pianificazione
territoriale costituiscono espressione di ampia
discrezionalità. Si tratta, infatti, di scelte di merito,
che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo,
a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o
irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
22.05.2014, n. 2649; Id., 25.11.2013, n. 5589; TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1281).
In questa prospettiva, le scelte urbanistiche non
necessitano, di regola, di apposita motivazione, oltre a
quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano
(Ad. plen., n. 24 del 1999), salvo che ricorra una delle
evenienze che, in conformità ai consolidati indirizzi della
giurisprudenza (più volte richiamati anche da questa
Sezione; v., tra le ultime: TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
15.09.2016, n. 1680; Id., 23.03.2015, n. 783; Id.,
30.09.2014, n. 2404; Id., 22.07.2014, n. 1972), determinano
un onere motivatorio più incisivo.
Tali evenienze sono state ravvisate:
a) nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante
da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto
privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree,
da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi del titolo edilizio o di silenzio rifiuto su
domanda di rilascio del permesso di costruire, ecc.;
b) nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione
agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente
edificati (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 01.10.2004, n. 6401;
Id., 04.03.2003, n. 1197);
c) nell’ipotesi in cui lo strumento urbanistico effettui un
sovradimensionamento delle aree destinate ad ospitare
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale
(cd. aree standard), quantificandole in misura maggiore
rispetto ai parametri minimi fissati dall’art. 3 del d.m. n.
1444 del 1968 e dall’art. 9, comma 3, della legge della
Regione Lombardia n. 12 del 2005 (cfr. Ad. plen. n. 24 del
1999; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.01.2011, n. 4).
Non costituisce, invece, posizione di affidamento tutelabile
in sede giurisdizionale quella del soggetto che veda
semplicemente assegnata alla sua area una disciplina
peggiorativa rispetto a quella dettata dai previgenti atti
di pianificazione (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez.
VI, 20.06.2012, n. 3571; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
30.09.2014, n. 2404; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II,
18.12.2013, n. 1143).
5.1.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, le ricorrenti
affermano di essere titolari di un particolare affidamento,
derivante dalla circostanza di non essere pervenute alla
stipulazione della convenzione di lottizzazione con il
Comune –sulla base del PRG vigente fino all’entrata in
vigore del PGT del 2009– soltanto per ragioni ad esse non
imputabili.
Occorre tuttavia rilevare che la posizione del soggetto che
semplicemente aspiri a dare corso a una lottizzazione
convenzionata non può essere equiparata a quella di chi sia
pervenuto a regolare i propri rapporti con il Comune
mediante una convenzione che ponga diritti e obblighi in
capo alle parti. Le ragioni per le quali le trattative tra
le parti non abbiano condotto alla stipulazione della
convenzione possono infatti assumere rilevanza
eventualmente, sussistendone i presupposti, al fine di
fondare un titolo di responsabilità precontrattuale. Non può
invece ammettersi –in coerenza con gli indirizzi
giurisprudenziali sopra riportati– l’insorgere di un
affidamento al mantenimento delle previsioni contenute nello
strumento urbanistico generale in un momento antecedente
all’accordo con il Comune finalizzato a darvi effettiva
attuazione.
D’altro canto, non può non rilevarsi che, nel caso oggetto
del presente giudizio, la stipulazione della convenzione non
era imminente al momento della modifica delle previsioni di
piano, non essendo stato ancora elaborato neppure il
progetto di piano attuativo. Pertanto –a prescindere dalla
valutazione delle ragioni di tale situazione di fatto– è da
escludere in ogni caso che i ricorrenti potessero vantare un
affidamento qualificato alla conservazione delle previsioni
di trasformazione del suolo contenute nel previgente
strumento urbanistico generale.
5.1.3 Deve, poi, rimarcarsi che nel caso di specie non è
neppure ravvisabile la fattispecie del c.d. lotto
intercluso.
Secondo quanto risulta agli atti del giudizio, le aree
interessate non costituiscono –come affermato dalle
ricorrenti– un fazzoletto di terra delimitato in parte
dall’autostrada Pedemontana Lombarda e in parte da zone
edificate. Si tratta invece di un compendio di superficie
superiore a 5.000 mq, non intercluso all’interno del tessuto
urbano consolidato, ma posto ai margini di questo.
5.1.4 In coerenza con i principi sopra esposti, va quindi
esclusa la sussistenza di situazioni che imponevano al
Comune un onere di motivazione rafforzata delle scelte
inerenti alla destinazione delle aree delle ricorrenti.
5.1.5 Ciò posto, deve ancora evidenziarsi, in punto di
fatto, che tali aree ricadono nell’ambito della rete verde
di ricomposizione paesaggistica di cui all’articolo 31 delle
Norme Tecniche di Attuazione del PTCP e, inoltre, sono
interessate dal passaggio del Corridoio trasversale della
rete verde, disciplinato dall’articolo 32 delle NTA del PTCP;
corridoio consistente in una fascia di rispetto di rilevante
ampiezza lungo il tracciato dell’autostrada, con finalità di
compensazione ambientale.
Occorre poi aggiungere che il PGT di Desio del 2014 risulta
essere ispirato chiaramente all’obiettivo di contenere il
consumo del suolo e di indirizzare le politiche urbanistiche
verso il recupero del patrimonio edilizio esistente. Tale
finalità costituisce la direttrice che informa l’intero
impianto del nuovo strumento urbanistico, come reso evidente
dalla relazione illustrativa, la quale si apre
–significativamente– con un paragrafo 1.1 intitolato “Desio
non può più espandere l’urbanizzato” (v. doc. 1 del
Comune, p. 14).
5.1.6 In un tale contesto, è da ritenere che la scelta del
Comune di rendere inedificabili le aree delle ricorrenti non
sia manifestamente arbitraria o irragionevole, ma si ponga
in linea con gli obiettivi che l’Amministrazione ha inteso
perseguire.
E, in questa prospettiva, non sono condivisibili le
affermazioni delle ricorrenti, secondo le quali
l’illegittimità delle previsioni dello strumento urbanistico
deriverebbe dall’assenza di vocazione agricola e di profili
di pregio ecologico e paesistico delle aree. La
giurisprudenza ha infatti ormai chiarito che la nozione di
naturale vocazione edificatoria può essere appropriatamente
impiegata soltanto nel contesto delle vicende espropriative,
mentre non si attaglia al diverso ambito della disciplina
d’uso dei suoli, poiché –postulando la preesistenza di una
edificabilità di fatto– contraddice la sottoposizione di
ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie
dell’amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2012, n.
6656).
D’altro canto, è parimenti acclarato che “all’interno
della pianificazione urbanistica possano trovare spazio
anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le
quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree
edificate e spazi liberi” (così ancora Cons. Stato n.
6656 del 2012, cit.). E ciò in quanto “l’urbanistica, ed
il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non
possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo”, per cui
l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben
può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di
interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano
quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione (Cons.
Stato, Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710; in termini analoghi,
tra le tante: Id. 05.09.2016, n. 3806; Id., 25.05.2016, n.
2221; Id., 21.12.2012, n. 6656; Id., 28.11.2012, n. 6040;
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 05.06.2014, n. 1465).
In tale prospettiva, deve pure ricordarsi che, per costante
giurisprudenza, la destinazione di un'area a verde agricolo
non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo
diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell'ordinato governo del
territorio, quale la necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle
condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori
naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli
effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr, ex
multis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.02.2013, n. 830; Id.,
16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
30.09.2016, n. 1766; Id., 11.12.2013, n. 2808; Id.,
20.06.2012, n. 1720).
Nel caso di specie, l’interesse dell’area dal punto di vista
ecologico e paesaggistico è stato, del resto, espressamente
riconosciuto da Piano Territoriale di Coordinamento
Provinciale, non impugnato dalle ricorrenti. A questo
proposito, è poi utile aggiungere che la mera circostanza
che le aree siano prossime a centri abitati e a
un’importante arteria stradale di per sé non vale a
escluderne la rilevanza dal punto di vista ambientale,
poiché tali dati di fatto si prestano anzi a far emergere un
interesse alla conservazione del suolo inedificato, per
ragioni di compensazione ambientale. E, a ben vedere,
proprio tale valutazione risulta essere sottesa alle
previsioni del PGT relative alle aree delle ricorrenti, che
sono state incluse, non a caso, tra quelle “di
compensazione ecologica–ambientale”.
5.1.7 In definitiva, per le ragioni sin qui esposte, le
censure articolate con il primo motivo di impugnazione vanno
quindi respinte.
5.2 Parimenti infondate sono le doglianze proposte con il
secondo motivo, ove le ricorrenti lamentano l’eccessiva
genericità delle controdeduzioni comunali alla loro
osservazione e sostengono, inoltre, che –contrariamente a
quanto affermato dal Comune– l’inclusione dell’area nella
rete verde di ricomposizione paesaggistica e nel corridoio
ambientale non la renderebbe per ciò solo inedificabile.
5.2.1 Al riguardo, occorre ricordare che per costante
giurisprudenza le osservazioni successive all’adozione
costituiscono meri apporti collaborativi dei cittadini, in
funzione di interessi generali e non individuali, per cui
l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove
contrastino con gli interessi e le considerazioni generali
sottese allo strumento urbanistico (cfr. ex multis:
Cons. Stato, Sez. IV, 01.07.2014, n. 3294).
Nel caso di specie, l’osservazione tendente a ottenere il
ripristino delle potenzialità edificatorie attribuite
all’area delle ricorrenti dal PRG è stata respinta
evidenziando che l’area è all’esterno del tessuto urbano
consolidato e ricade nella rete verde di ricomposizione
paesaggistica e nel corridoio trasversale della rete verde.
Da ciò la conclusione che –trattandosi di ambito non
edificabile già nel PGT vigente alla data di entrata in
vigore del nuovo strumento urbanistico– non fosse consentito
prevedere alcuna forma di consumo di suolo (doc. 26 delle
ricorrenti).
Si tratta di una motivazione per nulla generica o
apodittica, né –tanto meno– errata. L’Amministrazione ha
infatti rigettato la richiesta di modifica della disciplina
del compendio rinviando alle prescrizioni contenute nel
Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, che hanno
imposto un regime di particolare tutela in relazione alle
aree delle ricorrenti. E se è vero che gli articoli 31 e 32
del PTCP non escludono in modo assoluto l’edificazione, ma
la consentono in alcuni limitati casi, è pure vero che tali
fattispecie non risultano essersi verificate nel caso in
esame. Il Comune ha infatti evidenziato –come detto– che il
compendio era già inedificabile in base alle previsioni
previgenti al nuovo PGT, per cui la possibilità di
reintrodurre una destinazione edificatoria non è stata
salvaguardata dalla disciplina della rete verde contenuta
nel PTCP.
Quanto alla porzione inclusa nel Corridoio trasversale della
rete verde, è la stessa parte ricorrente a evidenziare che
la trasformazione edificatoria potrebbe essere consentita
nei soli casi e modi previsti dall’articolo 32 del PTCP, che
in ogni caso richiede un apposito accordo tra Comune e
Provincia. Tale accordo nella specie non è intercorso, né il
Comune poteva ritenersi onerato a perseguirlo.
5.2.2 Non risulta, infine, comprovato il lamentato difetto
di istruttoria in relazione al recepimento delle previsioni
del PTCP alla scala comunale. L’affermazione è infatti posta
dalle ricorrenti in relazione alle allegate caratteristiche
oggettive delle aree. Su tali caratteristiche, e sulla
valutazione che è consentito operarne nel quadro delle
scelte urbanistiche, valgono –tuttavia– le considerazioni
sopra esposte, alle quali si rinvia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Secondo
principi giurisprudenziali consolidati, "nel giudizio
risarcitorio che si svolge davanti al giudice
amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito
dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui
chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti
costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a.
(secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che
devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la
piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo
acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il
ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo
(o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire
la prova dei fatti base costitutivi della domanda”.
Incombe, quindi, sulla parte danneggiata l’onere di provare
la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito
extracontrattuale: condotta, evento, nesso di causalità,
antigiuridicità, colpevolezza.
---------------
6. Occorre a questo
punto prendere in esame le domande risarcitorie proposte con
i ricorsi R.G. n. 537 del 2008, n. 3110 del 2012 e n. 1171
del 2015.
Tali domande sono dirette a ottenere il ristoro del danno
consistente nell’impossibilità di dare corso alla
lottizzazione delle aree sin dal 2005.
6.1 Al riguardo, occorre anzitutto ricordare che, secondo
principi giurisprudenziali consolidati, e che il Collegio
condivide, “nel giudizio risarcitorio che si svolge
davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del
principio generale sancito dal combinato disposto degli
artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve
fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63,
co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova
grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di
fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere
ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo
impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il
risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della
funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti base
costitutivi della domanda” (Cons. Stato, Sez. IV,
22.10.2015, n. 4823).
Incombe, quindi, sulla parte danneggiata l’onere di provare
la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito
extracontrattuale: condotta, evento, nesso di causalità,
antigiuridicità, colpevolezza (Cons. Stato, Sez. IV,
31.12.2014, n. 6450).
7. Facendo applicazione di tali principi nel caso in esame,
deve anzitutto rilevarsi che il rigetto nel merito
dell’impugnazione del PGT del 2015 fa venir meno ogni
profilo di antigiuridicità del pregiudizio che le ricorrenti
possono aver subito a far data dall’entrata in vigore del
nuovo strumento urbanistico.
8. Per ciò che attiene al periodo precedente –in relazione
al quale le censure proposte con i diversi ricorsi sono in
parte irricevibili, in parte inammissibili e in parte
improcedibili, secondo quanto sopra detto– il Collegio
esclude che vi sia un interesse delle parti ricorrenti allo
scrutinio nel merito delle doglianze allegate, poiché le
domande risarcitorie sono, in ogni caso, infondate. E ciò
per mancanza di prova sia del nesso di causalità tra i
provvedimenti impugnati e il pregiudizio allegato, sia della
colpa dell’amministrazione.
9. Va, anzitutto, considerato il profilo attinente al nesso
di causalità.
9.1 Al riguardo, deve osservarsi che la deliberazione del
CIPE di approvazione del progetto preliminare
dell’autostrada, impugnata con il primo ricorso, non ha
impedito, di per sé, la realizzazione della lottizzazione
prevista dal PRG. Tale circostanza è stata affermata già
nella relazione del tecnico delle ricorrenti, datata
12.02.2008, depositata con il primo ricorso (v. doc. 9 nel
ricorso R.G. n. 537 del 2008), ed è stata definitivamente
comprovata a seguito del rilascio, da parte di CAL s.p.a.,
dell’attestazione di compatibilità tecnica della
lottizzazione rispetto alla realizzazione dell’arteria
stradale.
Ne deriva che non sussiste alcun rapporto di causalità tra
tale provvedimento e il pregiudizio di cui si chiede il
risarcimento. E’ quindi da escludersi in radice –per
ammissione delle stesse ricorrenti– qualunque responsabilità
delle Amministrazioni, diverse dal Comune di Desio,
destinatarie della domanda risarcitoria proposta con il
ricorso R.G. 537 del 2008, ed evocate in giudizio proprio in
relazione alla richiamata delibera del CIPE.
9.2 E’, parimenti, da escludere qualunque efficienza causale
nella determinazione del pregiudizio allegato anche del
certificato di destinazione urbanistica, impugnato con lo
stesso ricorso R.G. n. 537 del 2008. Come detto, si tratta
di un atto di portata meramente ricognitiva, e di per sé non
lesivo, per cui non può in esso rinvenirsi la fonte
dell’impossibilità di realizzare l’intervento edificatorio.
9.3 Vanno, quindi, prese in esame –sempre dal punto di vista
della prova del nesso di causalità– le previsioni del PGT
del 2009 (che ha stabilito l’edificabilità residenziale
nelle aree delle ricorrenti, ma con un indice inferiore
rispetto al PRG, previo permesso di costruire convenzionato,
e dunque senza necessità di piano attuativo) e quelle della
variante parziale del 2012 (che ha reso le aree
sostanzialmente inedificabili).
9.3.1 Al riguardo, il Collegio deve constatare che tali
nuove determinazioni urbanistiche sono sopravvenute dopo un
rilevante lasso di tempo dalla data in cui –nel dicembre del
2006– il Comune ha annullato l’asta bandita per la vendita
della porzione di sua proprietà ricadente nel perimetro
dell’ambito C15, con ciò precludendo la possibilità di
elaborare il piano attuativo.
Le previsioni del 2009 e del 2012, pertanto, non
costituiscono la causa da cui è dipesa l’impossibilità di
dare corso alla lottizzazione, poiché la ragione prima che
ha determinato tale impossibilità è da individuare proprio
nella mancata alienazione della porzione di terreno di
proprietà del Comune (o nella mancata partecipazione dello
stesso Ente alla lottizzazione). E invero, anche laddove
–accogliendo le osservazioni delle ricorrenti–
l’Amministrazione avesse confermato o reintrodotto la
disciplina urbanistica contenuta nel PRG, la lottizzazione
non avrebbe potuto comunque essere realizzata, senza la
cessione della porzione comunale.
9.3.2 Peraltro, le parti ricorrenti non hanno mai impugnato
la determinazione comunale di annullamento dell’asta per la
vendita del terreno. Né hanno agito in sede giurisdizionale
nei confronti del Comune a tutela del loro interesse a
ottenere il perfezionarsi delle condizioni necessarie per
poter dare corso alla lottizzazione. Risulta, anzi, che esse
abbiano atteso a lungo, pure dopo l’annullamento dell’asta,
persino per richiedere il certificato di destinazione
urbanistica, dal quale affermano di aver poi appreso
dell’approvazione del progetto preliminare dell’autostrada.
9.4 In un tale contesto, deve perciò escludersi che il danno
lamentato dalle parti ricorrenti sia stato causalmente
determinato dai provvedimenti impugnati, essendo invece
riconducibile ad atti che non sono stati censurati nel
presente giudizio e, in parte, all’inattività degli stessi
soggetti interessati.
10. Sotto altro profilo, e pure laddove si volesse ritenere
che le domande risarcitorie siano dirette a censurare il
comportamento comunale in un’ottica complessiva, anche in
relazione a profili inerenti al mancato esercizio di
attività amministrativa ritenuta doverosa dalle parti
ricorrenti, va poi rilevata comunque la mancanza di prova
della colpa del Comune.
Secondo i ricorrenti, l’elemento soggettivo dell’illecito
sarebbe da riscontrare nell’allegata ostinazione con la
quale l’Amministrazione si sarebbe ingiustificatamente
opposta alla realizzazione della lottizzazione.
Al riguardo, deve però rilevarsi che, all’epoca della
promozione dei primi due contenziosi, il Comune si trovava
ad operare in una situazione in cui non era ancora
compiutamente definito l’assetto della viabilità
dell’autostrada: ciò poteva giustificare l’assunzione di una
condotta prudenzialmente attendista nell’assumere scelte
definitive inerenti all’assetto del proprio territorio, e
comunque vale ad escludere la colpa dell’Amministrazione
nell’essersi così determinata.
Quanto, poi, alla scelta, successivamente assunta con la
variante del 2012, di assegnare alle aree destinazioni che
precludevano l’edificazione, tale determinazione risulta
orientata –come quella alla base del PGT del 2015– al
perseguimento di finalità di contenimento del consumo del
suolo, in un contesto ordinamentale che sempre più indirizza
gli enti locali verso tale obiettivo. Anche in questo caso,
non trova perciò riscontro l’affermata opposizione
immotivata all’iniziativa economica delle ricorrenti.
11. In definitiva, per tutte le ragioni sin qui esposte, le
domande risarcitorie devono essere respinte
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.02.2017 n. 434 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dall’Amministrazione nell’adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell’impostazione del piano stesso.
---------------
L’esistenza di una precedente e diversa previsione
urbanistica non comporta per l’Amministrazione la necessità
di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle
differenti scelte operate, anche quando queste siano
nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro
aspettative, dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo
all’interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie
intendono perseguire.
Più in particolare, la mera esistenza, nella pianificazione
previgente, di una destinazione urbanistica più favorevole
al proprietario non è circostanza sufficiente a fondare in
capo a quest’ultimo quell’aspettativa qualificata la cui
sussistenza imporrebbe all’Amministrazione un obbligo di più
puntuale e specifica motivazione rispetto a quella, di
regola sufficiente, basata sul richiamo alle linee generali
di impostazione del piano.
Del resto, già da tempo è stato chiarito che costituisce
affidamento generico quello relativo alla non reformatio in
pejus di precedenti previsioni urbanistiche (anche se di
piano particolareggiato), con nuove previsioni che non
consentono una più proficua utilizzazione dell’area, con la
conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di
una motivazione specifica delle nuove destinazioni
urbanistiche rispetto a quelle che possono agevolmente
evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti
per la redazione dello strumento urbanistico.
---------------
In linea generale, pare opportuno osservare che, per
giurisprudenza consolidata, le scelte effettuate
dall’Amministrazione nell’adozione degli strumenti
urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto
al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la
destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell’impostazione del piano stesso (ex multis,
Consiglio di Stato, sez. IV, 14.05.2015 n. 2453).
Inoltre, l’esistenza di una precedente e diversa previsione
urbanistica non comporta per l’Amministrazione la necessità
di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle
differenti scelte operate, anche quando queste siano
nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro
aspettative, dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo
all’interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie
intendono perseguire; più in particolare, la mera esistenza,
nella pianificazione previgente, di una destinazione
urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza
sufficiente a fondare in capo a quest’ultimo
quell’aspettativa qualificata la cui sussistenza imporrebbe
all’Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica
motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata
sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano.
Del resto, già da tempo è stato chiarito che costituisce
affidamento generico quello relativo alla non reformatio
in pejus di precedenti previsioni urbanistiche (anche se
di piano particolareggiato), con nuove previsioni che non
consentono una più proficua utilizzazione dell’area, con la
conseguenza che in tali casi non sussiste la necessità di
una motivazione specifica delle nuove destinazioni
urbanistiche rispetto a quelle che possono agevolmente
evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti
per la redazione dello strumento urbanistico (in tal senso,
tra le molte, Consiglio di Stato sez. IV 15.07.2008 n. 3552)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.02.2017 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
DIA edilizia (SCIA) non fa eccezione rispetto al genus “DIA”
disciplinato dall’art. 19 della l. n. 241/1990, nella
versione applicabile ratione temporis al caso di specie che
estende a detti titoli abilitativi il regime generale
dell’autotutela decisoria, da intendersi tuttavia limitato
all'annullamento d'ufficio, in considerazione della deroga
posta dall'art. 11 del d.P.R. n. 380/2001 la quale esclude
la revocabilità dei titoli edilizi.
Non si ravvisa, del resto, alcun fondamento normativo, né
ragioni dogmatiche che inducano a ritenere la SCIA non
soggetta, come gli altri titoli edilizi rilasciati dalla
p.a., al potere di annullamento d'ufficio, non potendosi
riconoscere all'affidamento riposto nella legittimità della
SCIA una tutela maggiore di quella che l'ordinamento
riconosce ad analogo affidamento suscitato da un titolo di
fonte provvedimentale.
---------------
È impugnato -unitamente agli atti presupposti e conseguenti- il provvedimento con il quale il Comune di Andria ha
intimato alla ditta esecutrice, odierna ricorrente, ai
proprietari e al direttore dei lavori "la demolizione ed il
ripristino dello stato dei luoghi, entro e non oltre 90
giorni dalla data di notifica della presente ingiunzione,
delle opere realizzate presso il lastrico solare sovrastante
il quinto piano del complesso edilizio ubicato in via
Catullo, in difformità al permesso di costruire n. 190 del
20.10.2004 (P.E. n. 260/01) e relativa variante in corso
d'opera n. 190/ A/ V del 10.10.2005, in zona classificata
B/5 nel vigente P.R.G. e consistenti così come decritti
nella premessa, che qui s'intende integralmente richiamata".
Le opere in questione, così come descritte nella premessa
dell’ordine di demolizione, hanno ad oggetto “la
realizzazione di una unità volumetrica, composta da un unico
vano con scala di collegamento con la sottostante unità
immobiliare ed un vano w.c., ultimata e rifinita, completa
di impianto elettrico, idrico-fognante e termico il tutto
funzionale ad uso di civile abitazione, con superficie lorda
complessiva coperta di circa mq. 31,00 (anziché mq. 16,00
circa), altezza utile interna di circa mt. 2,80 (anziché mt.
2,30 circa) e con volume complessivo lordo di circa mc.
95,00 (anziché mc. 41,00 circa)”.
L’ordinanza di demolizione, espressamente richiama, quale
atto presupposto, l’annullamento d’ufficio della DIA
presentata il 31.10.2006 dalla Società Ed.Ma. s.r.l.,
titolare del permesso di costruire il complesso edilizio in
questione.
Il Comune aveva infatti riscontrato, in sede di sopralluogo
del 30.9.2008, un aumento della superficie, dell’altezza
interna e della volumetria, nonché la trasformazione, in
locali residenziali, dei vani tecnici –fra i quali quello
oggetto del provvedimento impugnato- posti sul lastrico
solare delle otto palazzine di cui detto complesso si
compone in quanto dette opere sono state ritenute non
assentibili tramite DIA.
...
3.1. Il primo motivo è infondato, al pari del secondo che da esso
dipende.
La DIA edilizia (SCIA) non fa eccezione rispetto al genus
“DIA” disciplinato dall’art. 19 della l. n. 241/1990, nella
versione applicabile ratione temporis al caso di specie che
estende a detti titoli abilitativi il regime generale
dell’autotutela decisoria, da intendersi tuttavia limitato
all'annullamento d'ufficio, in considerazione della deroga
posta dall'art. 11 del d.P.R. n. 380/2001 la quale esclude
la revocabilità dei titoli edilizi.
Non si ravvisa, del resto, alcun fondamento normativo, né
ragioni dogmatiche che inducano a ritenere la SCIA non
soggetta, come gli altri titoli edilizi rilasciati dalla
p.a., al potere di annullamento d'ufficio, non potendosi
riconoscere all'affidamento riposto nella legittimità della
SCIA una tutela maggiore di quella che l'ordinamento
riconosce ad analogo affidamento suscitato da un titolo di
fonte provvedimentale (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 20.02.2017 n. 161 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Risulta dalla perizia
riportata nel ricorso principale che i vani sovrastanti il
lastrico solare delle otto palazzine –tra
cui quello oggetto dell’ordinanza impugnata- descritti
nella DIA del 2006 come volumi tecnici riservati agli
impianti a servizio delle sottostanti unità residenziali,
hanno altezza uguale a quella minima (m. 2.70) stabilita
dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975 per le abitazioni, sono
comunicanti con il piano sottostante ed inoltre, come
riportato nell’ordinanza, sono dotati di impianti e servizi
igienici.
Il fatto che detti locali siano utilizzabili a fini
abitativi, ne esclude la natura di vani tecnici.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che la nozione di vano
tecnico identifica locali che hanno la caratteristica, per
altezza, dimensioni e dotazioni, di escludere qualsiasi
utilità abitativa, perché destinati esclusivamente agli
impianti non installabili all’interno dell’abitazione cui
necessitano, mentre restano esclusi da tale categoria i
locali sottotetto comunicanti, come in specie, con il piano
sottostante mediante una scala interna, che è stata ritenuta
indice rilevatore dell'intento di renderli abitabili.
Ne consegue che i vani tecnici, irrilevanti, per la
loro specifica destinazione, ai fini del calcolo della
volumetria del fabbricato cui accedono, concorrono a pieno
titolo e per intero a determinarne l’entità quando sono
trasformati in spazi idonei all’uso residenziale.
---------------
Accertato che non si tratta di un vano tecnico, poiché ha i
requisiti dei vani abitativi e come tale potrebbe essere
autonomamente utilizzato, ciò che rileva ai fini della
verifica dell’essenzialità della variazione e della
conseguente necessità di ottenere il permesso di costruire,
è il fatto che esso esprime per intero, non solo per
l’incremento di cui alla DIA annullata, nuova volumetria e
nuova superficie abitativa, rispetto al progetto
originariamente assentito, la quale supera largamente il
limite del 5% consentito dall’art. 2 della l.r. n. 26/1985
per l’aumento della cubatura originaria, come si desume
chiaramente dai calcoli, cui si rinvia, della perizia
riportata nel ricorso.
La ricorrente ha in sostanza trasformato il locale
sottotetto in una mansarda completa di servizi ed impianti,
realizzando un aumento di volumetria abitativa, rispetto a
quella assentita con il permesso di costruire, che impone di
considerare l’intervento edilizio come nuova costruzione.
Del resto proprio l’irrilevanza dei volumi tecnici ai fini
del calcolo delle superfici e della cubatura implica che,
ove essi mutino destinazione per volgersi ad uso
residenziale, acquistano visibilità normativa -per
superficie, sagoma, volume ed incidenza sugli standard
urbanistici di zona- che prima non avevano e costituiscono,
per questo, variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32,
comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, secondo i parametri
stabiliti dall’art. 2 della l.r. Puglia n. 26/1985, per le
quali non è ammesso il ricorso alla D.I.A..
---------------
3.2.1. Anche il quinto motivo, il cui esame precede
logicamente lo scrutinio degli altri, deve essere respinto.
La Società costruttrice sostiene che la realizzazione o
modificazione di volumi tecnici non è subordinata al
rilascio del permesso di costruire e che le opere a tal fine
eseguite, previa presentazione della DIA del 31.10.2006,
sarebbero del tutto conformi alla normativa edilizia allora
vigente.
3.2.2. La tesi è senz’altro corretta, in linea di principio,
poiché, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, non è richiesto un nuovo permesso di costruire quando
l’originario, già assentito, progetto edilizio non sia
oggetto di variazioni essenziali.
Il citato articolo 32 considera variazioni non essenziali,
per le quali non è richiesto il permesso di costruire e ben
potrebbero essere oggetto di denuncia di inizio di attività,
le modifiche al progetto che non incidono sui parametri
urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d’uso e la categoria edilizia, ma si limitano a
variare le cubature accessorie, i volumi tecnici e la
distribuzione interna delle singole unità abitative.
3.3.3. In punto di fatto risulta, però, dalla stessa perizia
riportata nel ricorso principale (pag. 20) che i vani
sovrastanti il lastrico solare delle otto palazzine –tra
cui quello oggetto dell’ordinanza impugnata- descritti
nella DIA del 2006 come volumi tecnici riservati agli
impianti a servizio delle sottostanti unità residenziali,
hanno altezza uguale a quella minima (m. 2.70) stabilita
dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975 per le abitazioni, sono
comunicanti con il piano sottostante ed inoltre, come
riportato nell’ordinanza, sono dotati di impianti e servizi
igienici.
Il fatto che detti locali siano utilizzabili a fini
abitativi, ne esclude la natura di vani tecnici.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che la nozione di vano
tecnico identifica locali che hanno la caratteristica, per
altezza, dimensioni e dotazioni, di escludere qualsiasi
utilità abitativa (Cons. Stato, sez. IV, 10.07.2013 n. 3666),
perché destinati esclusivamente agli impianti non
installabili all’interno dell’abitazione cui necessitano,
mentre restano esclusi da tale categoria i locali sottotetto
comunicanti, come in specie, con il piano sottostante
mediante una scala interna, che è stata ritenuta indice
rilevatore dell'intento di renderli abitabili (Cons. giust.
amm. Sicilia, sez. giurisd., 14.04.2014 n. 207; Cons. Stato
sez. IV n. 812/2011).
3.3.4. Ne consegue che i vani tecnici, irrilevanti, per la
loro specifica destinazione, ai fini del calcolo della
volumetria del fabbricato cui accedono, concorrono a pieno
titolo e per intero a determinarne l’entità quando sono
trasformati in spazi idonei all’uso residenziale.
3.3.5. Sotto tale profilo appare dunque errata la perizia
riportata nel corpo del motivo in rassegna perché prende in
considerazione, ai fini della verifica della natura
essenziale o non essenziale della variazione, solo l’aumento
di volumetria dei locali tecnici riconducibile alla DIA del
31.10.2006, stimato inferiore al 5% della cubatura
residenziale assentita con il permesso di costruire, limite
entro il quale la variazione è ritenuta non essenziale, ai
sensi dell’art. 2 della l.r. Puglia n. 26/1985 e quindi
eseguibile previa DIA.
L’errore è manifesto.
Accertato, infatti, che non si tratta di un vano tecnico,
poiché ha i requisiti dei vani abitativi e come tale
potrebbe essere autonomamente utilizzato, ciò che rileva ai
fini della verifica dell’essenzialità della variazione e
della conseguente necessità di ottenere il permesso di
costruire, è il fatto che esso esprime per intero, non solo
per l’incremento di cui alla DIA annullata, nuova volumetria
e nuova superficie abitativa, rispetto al progetto
originariamente assentito, la quale supera largamente il
limite del 5% consentito dall’art. 2 della l.r. n. 26/1985
per l’aumento della cubatura originaria, come si desume
chiaramente dai calcoli, cui si rinvia, della perizia
riportata nel ricorso.
3.3.6. La ricorrente ha in sostanza trasformato il locale
sottotetto in una mansarda completa di servizi ed impianti,
realizzando un aumento di volumetria abitativa, rispetto a
quella assentita con il permesso di costruire, che impone di
considerare l’intervento edilizio come nuova costruzione
(TAR Lombardia, Brescia, 06.08.2010 n. 2654; Cassazione
penale, sez. III, 03.10.2002 n. 38191).
3.3.7. Del resto proprio l’irrilevanza dei volumi tecnici ai
fini del calcolo delle superfici e della cubatura implica
che, ove essi mutino destinazione per volgersi ad uso
residenziale, acquistano visibilità normativa -per
superficie, sagoma, volume ed incidenza sugli standard
urbanistici di zona- che prima non avevano e costituiscono,
per questo, variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32,
comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, secondo i parametri
stabiliti dall’art. 2 della l.r. Puglia n. 26/1985, per le
quali non è ammesso il ricorso alla D.I.A. (Cons. Stato,
sez. IV, 10.07.2013 n. 3666) (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 20.02.2017 n. 161 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento edilizio in rassegna, poiché
comporta il mutamento di destinazione d’uso di un locale
(sottotetto) progettato e assentito per contenere impianti
tecnici a servizio della sottostante abitazione, non è
riconducibile al novero di quelli che l’art. 22, comma 2,
del d.P.R. n. 380/2001 consente di realizzare previa
presentazione della DIA.
L’affidamento sulla validità di un titolo edilizio, quale
espansione del principio di buona fede che governa i
rapporti giuridici, è il convincimento, indotto, in una
delle parti del rapporto, dal comportamento dell’altra,
sulla validità o l’esistenza di un fatto, atto o
comportamento altrui giuridicamente rilevante.
Ne consegue che l’errore sui requisiti soggettivi o
oggettivi della DIA, proprio perché è frutto di una
dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore di
chi la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica
che si limita a riceverla, per il solo fatto che
quest’ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri
correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare
un’eventuale responsabilità amministrativa, non già la
convalida –recte la sanatoria- della DIA mancante di un
requisito essenziale.
Anche argomenti di ordine testuale e sistematico consentono
di confermare che il privato non può accreditarsi, mediante
DIA, un titolo edilizio per opere per le quali è richiesta
la più complessa procedura del rilascio del permesso di
costruire.
A tale riguardo appaiono evidenti le analogie fra il caso in
decisione e l’ipotesi di una DIA priva dei requisiti
essenziali e per questo inefficace, o quella prevista
dall’art. 23, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 secondo cui la
DIA non produce effetti quando l’intervento edilizio incide
su interessi sensibili e l’Autorità, cui ne è affidata la
tutela, non l’abbia autorizzato o, ancora, se le
dichiarazioni sostitutive di atto notorio ad essa allegate
non sono veritiere.
Chiaramente, allora, il provvedimento con il quale il Comune
ha accertato che le opere edili in questione non sono
legittimate dalla presentata DIA non è espressione di
autotutela –è irrilevante la qualificazione contenuta
nell’atto, dovendo prevalere la sostanza sulla forma- ma ha
valore meramente accertativo di un abuso doverosamente
rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover
agire entro un termine ragionevole, chiaramente
inapplicabile all’attività di vigilanza edilizia, tanto più
che nessun affidamento può vantare la ricorrente, per quanto
detto in precedenza.
---------------
3.4.1. Anche il terzo motivo, con il quale la ricorrente
ritiene illegittimamente pretermesso l’affidamento che ha
riposto nella validità della DIA oggetto di annullamento
d’ufficio, deve essere respinto insieme al quarto che da
esso logicamente dipende.
Come detto, l’intervento edilizio in rassegna, poiché
comporta il mutamento di destinazione d’uso di un locale
progettato e assentito per contenere impianti tecnici a
servizio della sottostante abitazione, non è riconducibile
al novero di quelli che l’art. 22, comma 2, del d.P.R. n.
380/2001 consente di realizzare previa presentazione della
DIA.
L’affidamento sulla validità di un titolo edilizio, quale
espansione del principio di buona fede che governa i
rapporti giuridici, è il convincimento, indotto, in una
delle parti del rapporto, dal comportamento dell’altra,
sulla validità o l’esistenza di un fatto, atto o
comportamento altrui giuridicamente rilevante.
Ne consegue che l’errore sui requisiti soggettivi o
oggettivi della DIA, proprio perché è frutto di una
dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore di
chi la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica
che si limita a riceverla, per il solo fatto che
quest’ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri
correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare
un’eventuale responsabilità amministrativa, non già la
convalida –recte la sanatoria- della DIA mancante di un
requisito essenziale.
Anche argomenti di ordine testuale e sistematico consentono
di confermare che il privato non può accreditarsi, mediante
DIA, un titolo edilizio per opere per le quali è richiesta
la più complessa procedura del rilascio del permesso di
costruire.
A tale riguardo appaiono evidenti le analogie fra il caso in
decisione e l’ipotesi di una DIA priva dei requisiti
essenziali e per questo inefficace (Consiglio di Stato, sez.
VI, 24.03.2014, n. 1413), o quella prevista dall’art. 23,
comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 secondo cui la DIA non
produce effetti quando l’intervento edilizio incide su
interessi sensibili e l’Autorità, cui ne è affidata la
tutela, non l’abbia autorizzato o, ancora, se le
dichiarazioni sostitutive di atto notorio ad essa allegate
non sono veritiere (Consiglio di Stato, sez. VI, 20.11.2013
n. 5513).
Chiaramente, allora, il provvedimento con il quale il Comune
ha accertato che le opere edili in questione non sono
legittimate dalla DIA, presentata il 31.10.2006, non è
espressione di autotutela –è irrilevante la qualificazione
contenuta nell’atto, dovendo prevalere la sostanza sulla
forma- ma ha valore meramente accertativo di un abuso
doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il
limite di dover agire entro un termine ragionevole,
chiaramente inapplicabile all’attività di vigilanza
edilizia, tanto più che nessun affidamento può vantare la
ricorrente, per quanto detto in precedenza.
3.5. Le considerazioni che precedono impongono di respingere
anche il sesto motivo.
Come detto l’ordinanza impugnata è la conseguenza
inevitabile, espressione di potere vincolato,
dell’accertamento dell’abuso edilizio, insensibile pertanto
ai vizi di forma come l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento, ai sensi dell’art. 21-octies della l.
241/1990.
4. Al rigetto del ricorso principale fa seguito la reiezione
del ricorso per motivi aggiunti avverso il provvedimento di
accertamento dell'inottemperanza dell'ordine di demolizione,
siccome impugnato per illegittimità derivata (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 20.02.2017 n. 161 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di pertinenza urbanistica è meno ampia di quella
civilistica e non può consentire la costruzione di opere
consistente impatto edilizio, in quanto l'impatto
volumetrico incide in modo permanente e non precario
sull'assetto edilizio e, conseguentemente, si rende
necessario il rilascio di permesso di costruire.
La nozione di pertinenza urbanistica, in altre parole,
richiede che si tratti di opera collegata all'edificio
principale in un rapporto di stretta e necessaria
consequenzialità funzionale.
Il rapporto di strumentalità, pertanto, non può essere
frutto sic et simpliciter della destinazione
“effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi
ha un diritto reale sulla medesima”, come previsto dall'art.
817, comma 2, c.c., bensì deve, altresì, ontologicamente
emergere dalla struttura stessa dell'opera destinata a
servizio di quella principale, sì da rivelare un carattere
oggettivo e non meramente soggettivo.
---------------
Nel caso di specie, il forno in muratura
è sovrastato da una tettoia in legno coperta da tegole
sorretta da colonne in ferro del tipo “innocenti” usate di
norma per la realizzazione dei ponteggi edili.
Si conferma quindi che la costruzione fatta oggetto della
ordinanza di demolizione è costituita da un forno, ad uso
verosimilmente non commerciale e quindi ad uso familiare,
aperto sui quattro lati, ne deriva che tale intervento
assume natura meramente pertinenziale e rispetto al quale
non è necessario il titolo abilitativo alla realizzazione.
D’altronde, quanto all’epoca di realizzazione, nella stessa
ordinanza impugnata si specifica che “tutta la struttura
appare di remota edificazione”.
---------------
Quanto alla seconda realizzazione edilizia contestata
per come abusiva, l’opera in questione altro non è
che un annesso agricolo di modeste dimensioni (ml 6.00 x
3.50 con altezza variabile da ml 3.00 a ml. 3.30) in lamiera
grecata, imbullonato tramite piastre su una platea di
cemento armato di eguali dimensioni ed anch’esso “appare di
remota edificazione ed in uso come rimessa di attrezzi
agricoli”.
Anche in questa occasione, dunque non può che confermarsi la
costante interpretazione giurisprudenziale in virtù della
quale ha natura di pertinenza un deposito agricolo di
limitate dimensioni posto in termini accessori rispetto ad
un immobile principale, con conseguente insussistenza dei
presupposti per la demolizione non trattandosi di opera
soggetta al previo rilascio di titoli edilizi.
---------------
1. – Premettono i ricorrenti, che i Signori Pi.Gi. e
Sa.Gi. avevano proposto gravame avverso
l’ordinanza del Comune di Ariccia n. 35 dell’01.03.2007
con la quale era stata disposta la sospensione e la
demolizione delle opere realizzate in via ... n. 6
in Ariccia consistenti nei seguenti interventi edilizi: la
costruzione di un forno in muratura con tettoia in legno
aperta da tutti e quattro i lati e la realizzazione di una
rimessa per attrezzi agricoli.
Con il ricorso proposto gli
originari ricorrenti chiedevano l’annullamento
dell’ordinanza demolitoria di cui sopra, in quanto le opere
consistevano nella realizzazione di pertinenze e comunque la
loro esecuzione rimontava ad epoca remota.
2. - Successivamente alla proposizione del ricorso decedeva
il Signor Gi.Pi. ed in data 23.12.2014 si
costituivano gli odierni ricorrenti; pur tuttavia con decreto
decisorio n. 11505 del 2015 era disposta la perenzione del
ricorso. Proposta opposizione dagli odierni ricorrenti essa
veniva accolta con revoca del decreto di perenzione.
Il Comune di Ariccia non si è mai costituito nel presente
giudizio.
3. – I ricorrenti sostengono la illegittimità del
provvedimento impugnato in quanto sia il forno, aperto sui
lati e coperto da una tettoria sia la rimessa per attrezzi
agricoli costituiscono opere pertinenziali rispetto alle
quali non è necessario acquisire previamente il titolo
abilitativo a realizzarle.
Le censure dedotte dai ricorrenti sono fondate.
4. – Come è noto, la nozione di pertinenza urbanistica è
meno ampia di quella civilistica e non può consentire la
costruzione di opere consistente impatto edilizio, in quanto
l'impatto volumetrico incide in modo permanente e non
precario sull'assetto edilizio e, conseguentemente, si rende
necessario il rilascio di permesso di costruire. La nozione
di pertinenza urbanistica, in altre parole, richiede che si
tratti di opera collegata all'edificio principale in un
rapporto di stretta e necessaria consequenzialità
funzionale. Il rapporto di strumentalità, pertanto, non può
essere frutto sic et simpliciter della destinazione
“effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi
ha un diritto reale sulla medesima”, come previsto dall'art.
817, comma 2, c.c., bensì deve, altresì, ontologicamente
emergere dalla struttura stessa dell'opera destinata a
servizio di quella principale, sì da rivelare un carattere
oggettivo e non meramente soggettivo (cfr., tra le molte,
TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 24.09.2015
n. 900).
Fermo quanto sopra nel caso di specie dalla lettura
dell’ordinanza impugnata si evince che il forno in muratura
è sovrastato da una tettoia in legno coperta da tegole
sorretta da colonne in ferro del tipo “innocenti” usate di
norma per la realizzazione dei ponteggi edili.
Si conferma quindi che la costruzione fatta oggetto della
ordinanza di demolizione è costituita da un forno, ad uso
verosimilmente non commerciale e quindi ad uso familiare,
aperto sui quattro lati, ne deriva che tale intervento
assume natura meramente pertinenziale e rispetto al quale
non è necessario il titolo abilitativo alla realizzazione.
D’altronde, quanto all’epoca di realizzazione, nella stessa
ordinanza impugnata si specifica che “tutta la struttura
appare di remota edificazione”.
5. – Quanto alla seconda realizzazione edilizia contestata
per come abusiva, dalla lettura dell’ordinanza di
demolizione si evince che l’opera in questione altro non è
che un annesso agricolo di modeste dimensioni (ml 6.00 x
3.50 con altezza variabile da ml 3.00 a ml. 3.30) in lamiera
grecata, imbullonato tramite piastre su una platea di
cemento armato di eguali dimensioni ed anch’esso “appare di
remota edificazione ed in uso come rimessa di attrezzi
agricoli”.
Anche in questa occasione, dunque non può che confermarsi la
costante interpretazione giurisprudenziale in virtù della
quale ha natura di pertinenza un deposito agricolo di
limitate dimensioni posto in termini accessori rispetto ad
un immobile principale, con conseguente insussistenza dei
presupposti per la demolizione non trattandosi di opera
soggetta al previo rilascio di titoli edilizi (cfr., da
ultimo, TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, 15.03.2016
n. 91).
7. – In virtù delle suesposte osservazioni i motivi di
censura dedotti si presentano fondati ed il ricorso proposto
va accolto, con annullamento dell’atto gravato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 17.02.2017 n. 2591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe,
alle Sezioni unite gli appelli sui ricorsi. Codice della
strada. Le modifiche del 2011 non regolano in modo completo
le competenze in secondo grado.
La questione del giudice competente
in appello sui ricorsi contro le multe stradali approderà
alle Sezioni unite della Cassazione.
Lo ha disposto la VI
Sez. civile della stessa Corte, con l’ordinanza
interlocutoria 16.02.2017 n. 4176.
Il problema nasce dall’ultima modifica alle norme sui
ricorsi contro le sanzioni stradali, rientrate nel passaggio
al rito del lavoro stabilito dal Dlgs 150/2011 (articoli 6 e
7): mancano disposizioni espresse e complete riguardo agli
appelli, tenendo conto che il Codice della strada prevede
due vie alternative per i ricorsi contro i verbali: al
Prefetto (articolo 203) e al Giudice di pace (articolo
204-bis).
Così alcune soluzioni sono arrivate dalla giurisprudenza di
merito (si veda« Il Sole 24 Ore» del 2 febbraio scorso).
Il caso sottoposto alla Cassazione parte da un’opposizione
al preavviso di iscrizione di fermo amministrativo sulla
vettura della ricorrente, che risultava non aver saldato tre
cartelle di pagamento relative a infrazioni al Codice della
strada, per un totale di quasi 1.600 euro. Essendo il
preavviso di fermo un atto «autonomamente impugnabile» (come
deciso dalle Sezioni unite con le sentenze 11087/2010 e
20931/2011, valgono le «regole generali in materia di
riparto di competenza per materia e per valore».
Le regole generali che risultano dopo il Dlgs 150/2011 fanno
solo distinzione tra le opposizioni a ordinanza ingiunzione
(cioè gli appelli contro le decisioni dei prefetti che
respingono i ricorsi loro indirizzati) e le impugnazioni dei
verbali direttamente davanti al Giudice di pace. Visto che
il Dlgs non apportava modifiche espresse alle competenze
(non previste dalla legge delega), per le prime la
competenza è ripartita secondo il valore della lite (quindi
si va in Tribunale solo per sanzioni con massimo edittale
superiore a 15.493 euro), per le seconde sembrerebbe
competente solo il Giudice di pace.
Ma ciò pare configurare un rapporto squilibrato tra valore
della causa e giudice competente: secondo la Sesta sezione
ci potrebbe essere una «non troppo ragionevole
divaricazione» tra i due casi.
Finora le Sezioni unite hanno solo affermato che «l’azione
di accertamento negativa dei presupposti legali della misura
coercitiva...rimane assoggettata alle ordinarie regole...per
valore e territorio». E la giurisprudenza delle singole
Sezioni è oscillata tra la qualificazione della cartella di
pagamento come procedura alternativa all’espropriazione
forzata (quindi accertamento negativo soggetto alle regole
generali del rito ordinario, ordinanza 15354/2015),
l’applicazione delle regole relative alla sanzione oggetto
della cartella (sentenza 24234/2015) e la competenza
esclusiva del Giudice di pace (ordinanza 21914/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: La
denuncia non giustifica il licenziamento. Cassazione. Se il
dipendente si rivolge alla Procura in buona fede.
Nell’ambito di un rapporto di lavoro
dipendente, l’esercizio del potere di denuncia alla Procura
della Repubblica o all’autorità amministrativa non può
determinare, di per sé, una responsabilità disciplinare in
capo al dipendente, a meno che il ricorso ai pubblici poteri
sia intervenuto in modo strumentale, nella piena
consapevolezza della insussistenza dell’illecito o della
estraneità del soggetto incolpato.
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza
16.02.2017 n. 4125) ha raggiunto questa conclusione
sul presupposto che, ascrivendo al lavoratore una
responsabilità disciplinare per aver denunciato fatti di
rilievo penale o amministrativo dal medesimo riscontrati in
costanza di rapporto, verrebbe sostanzialmente scoraggiata
la collaborazione cui il cittadino è tenuto nel superiore
interesse pubblico volto alla repressione degli illeciti. La
valorizzazione di superiori interessi pubblici porta a
escludere, ad avviso della Corte, che la denuncia
all’autorità giudiziaria di azioni suscettibili di integrare
l’ipotesi di reato, quand’anche riconducibili al rapporto di
lavoro, possa giustificare, per ciò stesso, un licenziamento
in tronco.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è
relativo al licenziamento per giusta causa del dipendente di
una azienda del settore alimentare che ha denunciato il
ricorso illegittimo da parte dell’impresa alla cassa
integrazione guadagni straordinaria, la violazione della
disciplina sul lavoro straordinario e sulla intermediazione
di manodopera e, inoltre, l’utilizzo illecito di fondi
pubblici.
Le indagini preliminari avviate dalla Procura e l’ispezione
amministrativa si sono poi concluse escludendo la
sussistenza degli illeciti denunciati. Il datore di lavoro
ha, quindi, licenziato il dipendente, che però ha impugnato
il provvedimento davanti al tribunale.
In primo e secondo grado il licenziamento è stato ritenuto
valido, ritenendo che il dipendente abbia travalicato
l’esercizio del diritto di critica, superando i limiti del
rispetto della verità oggettiva con un comportamento foriero
di possibili conseguenze lesive dell’immagine e del decoro
del datore di lavoro.
La Cassazione ribalta questa prospettiva e afferma che la
denuncia di fatti aventi potenziale rilievo penale accaduti
in ambito aziendale non ha rilievo disciplinare, a meno che
non emerga che il lavoratore abbia agito nella
consapevolezza della falsità della propria denuncia e,
quindi, con finalità di calunnia del datore di lavoro.
La circostanza che le indagini in sede penale e
amministrativa siano state definite con un provvedimento di
archiviazione non è idonea da sola, per la Cassazione, a
fondare la responsabilità disciplinare del lavoratore. Se il
dipendente ha sollecitato l’intervento dell’autorità
giudiziaria, infatti, nella convinzione che azioni illecite
erano consumate all’interno dell’azienda, sono da escludere
la violazione dell’obbligo di fedeltà e dei canoni generali
di correttezza e buona fede, in quanto l’agire del
lavoratore rientra nel valore civico e sociale che
l’ordinamento riconosce all’iniziativa del privato cittadino
che si attiva per segnalare il compimento di azioni
delittuose
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio per sviamento di potere -
Dirigente dell'Ufficio edilizia pubblica - Violazione del
principio di imparzialità - Condotta del pubblico ufficiale
in contrasto con le norme - Obbligo di astensione - Elemento
psicologico del reato - Configurabilità del dolo
intenzionale - Scopo diverso da una finalità pubblica -
Condotta illecita - Prova dell'intenzionalità del dolo -
Art. 323 c.p. - Fattispecie: ottenimento una concessione
edilizia attraverso una procedura anomala e irrituale - Art.
44, d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio,
sussiste il requisito della violazione di legge non solo
quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in
contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere,
ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola
realizzazione di un interesse collidente con quello per il
quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi
il vizio dello sviamento di potere, che integra la
violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione
(Cass. Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi; tra le altre,
Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo; Sez. 6, n. 27816 del
02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012,
Contiguglia; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
Quanto, poi, all'elemento psicologico del reato, per detta
fattispecie criminosa, il dolo richiesto assume una
connotazione articolata e complessa: è generico, con
riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare
norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare
l'obbligo di astensione) e assume la forma del dolo
intenzionale rispetto all'evento (vantaggio patrimoniale o
danno) che completa la fattispecie.
Sicché, il dolo intenzionale è configurabile qualora si
accerti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio abbia agito con uno scopo diverso da
quello consistente nel realizzare una finalità pubblica, il
cui conseguimento deve essere escluso non soltanto nei casi
nei quali questa manchi del tutto, ma anche laddove la
stessa rappresenti una mera occasione della condotta
illecita, posta in essere invece al preciso scopo di
perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o
un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez.
3, sent. n. 10810 del 17/01/2014, Altieri e altri).
Invero, la prova dell'intenzionalità del dolo esige il
raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato
sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio
patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può
essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un
comportamento "non iure" osservato dall'agente, come
tale insufficiente, ma deve trovare conferma anche in altri
elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la
specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato
motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore
dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i
soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio
patrimoniale o subiscono danno (Cass. Sez. 6, sent. n. 21192
del 25/01/2013, Baria ed altri; nello stesso sostanziale
senso, v. Sez. 3, sent. n. 13735 del 26/02/2013, p.c. in
proc. Fabrizio e altro).
Fattispecie: violazione del principio di imparzialità
dell'attività amministrativa, gestendo in modo anomalo e con
irrituale partecipazione una procedura introdotta al fine di
ottenere una specifica concessione edilizia.
Pubblico ufficiale - Reato di abuso di
ufficio - Principio di buon andamento e di imparzialità
dell'azione della pubblica amministrazione - Art. 323 c.p. -
Violazione dell'art. 97 Cost. - Giurisprudenza.
In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione
di legge può consistere anche nella inosservanza dell'art.
97 della Costituzione, nella parte immediatamente precettiva
che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio
delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli
conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare
ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali
vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni
(Cass., Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgina; Sez. 6,
n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 37373 del
24/06/2014, Cocuzza) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.02.2017 n. 7161
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
precarietà di un manufatto -la cui realizzazione non
necessita di titolo edilizio, non comportando una
trasformazione del territorio– non dipende dalla sua facile
rimovibilità ma dalla temporaneità della funzione, in
relazione ad esigenze di natura contingente: essa va,
dunque, esclusa quando si è al cospetto di un’opera
destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo.
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Per giurisprudenza costante, la precarietà di un manufatto
-la cui realizzazione non necessita di titolo edilizio, non
comportando una trasformazione del territorio– non dipende
dalla sua facile rimovibilità ma dalla temporaneità della
funzione, in relazione ad esigenze di natura contingente:
essa va, dunque, esclusa quando, come accade nel caso di
specie, si è al cospetto di un’opera destinata a dare
un’utilità prolungata nel tempo (Cons. Stato, sez. IV,
15.05.2009, n. 3029; Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n.
2705; Cass. Pen., sez. III, 25.02.2009, n. 22054)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 15.02.2017 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
struttura pubblicitaria può configurare abuso edilizio.
Reato anche se non si tratta di un’abitazione.
Una costruzione
edilizia, anche se non destinata a essere abitata, può
generare un abuso: lo sottolinea la Corte di Cassazione,
Sez. III penale, con la
sentenza 14.02.2017 n. 6872.
Il caso esaminato è particolare in quanto, dopo aver scelto
una località particolarmente visibile (e sottoposta a
vincolo ambientale), un'impresa di commercializzazione di
case prefabbricate aveva collocato più moduli, completi in
ogni loro parte, per mostrare le qualità del prodotto.
In questo modo, le abitazioni, di più vani, avevano perso
l'attitudine ad essere considerate abitazioni, ma
conservavano il loro impatto fisico. Poiché le norme
urbanistiche non prevedono che l'abuso abbia solo finalità
abitative, è quindi iniziato un procedimento penale
conclusosi con la condanna confermata dalla Cassazione.
La
motivazione adottata dalla Suprema corte prende spunto dal
rapporto della legge 10 del 1977 (Bucalossi) con le norme
precedenti (del 1942) e sottolinea che dal 1977 in poi il
territorio è tutelato indipendentemente dai vari usi che se
ne possono fare. Così appunto un consistente uso
pubblicitario, indipendentemente dal tipo di oggetto che si
intenda valorizzare (sia esso un'abitazione prefabbricata o
meno), esige un titolo edilizio.
Non è infatti il peso urbanistico che si intende limitare,
bensì l'uso del territorio, anche per l'uso pubblicitario.
Nel momento in cui si utilizza un'area per finalità diverse
da quelle previste dal piano urbanistico si pone infatti un
problema di “peso” dell'intervento, peso che va
valutato dall'amministrazione e che fa scattare, in caso di
assenza di titolo abilitativo, specifiche sanzioni. Tali
sanzioni non si applicano per opere temporanee, destinate a
essere rimosse dopo un allestimento provvisorio, ma sempre
che la consistenza delle opere non alteri parametri di
fruibilità del territorio.
Nel caso deciso dalla Cassazione ha avuto peso la
particolare natura delle opere prefabbricate, alte fino a 12
metri anche se in gran parte in materiale precario
(polistirolo) coerentemente alle finalità pubblicitarie.
Anche se non abitate, ciò che si era realizzato esprimeva
infatti stabilità e quindi un uso non temporaneo dell'area
impegnata. La sentenza condanna anche il soggetto che aveva
venduto e collocato le case pubblicitarie, ritenendo il
venditore partecipe del disegno illecito di utilizzo non
consentito del territorio.
Inoltre, per la loro fattiva partecipazione alla modifica
dei luoghi, sono stati condannati anche gli impiantisti che
avevano contribuito, da artigiani, a dotare la struttura
pubblicitaria di attacchi ed impianti: secondo la
Cassazione, infatti, anche chi realizza un pavimento,
intonaci e infissi risponde dell'abusivismo se ha
colposamente ignorato la circostanza che fosse necessario un
titolo edilizio.
Anche tale coinvolgimento dei soggetti esecutori (dal
venditore agli artigiani rifinitori) è del resto coerente
all'ampliamento delle responsabilità che la legge 10 del
1977 (oggi il Dpr 380/2001) prevede per arginare
l'abusivismo (articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2017).
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MASSIMA
5.1 ricorsi sono infondati.
6. Per motivi di ordine logico devono essere esaminati i
motivi che riguardano la sussistenza oggettiva dei reati.
6.1. La natura precaria dell'opera edilizia
non deriva dalla tipologia dei materiali impiegati per la
sua realizzazione né dalla sua facile amovibilità; quel che
conta è la oggettiva temporaneità e contingenza delle
esigenze che l'opera è destinata a soddisfare.
6.2. Chiaro è, in tal senso, il dettato normativo che, nel
definire gli interventi di "nuova costruzione", per i
quali è necessario il permesso di costruire o altro titolo
equipollente (artt. 10, comma 1°, lett. a, e 22, comma 3°,
lett. b, d.P.R. 06.06.2001 n. 380), individua -tra gli
altri- i manufatti leggeri e le strutture di qualsiasi
genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni,
che siano utilizzati come depositi, magazzini e simili e "che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee"
(art. 3, comma 1°, lett. e.5, d.P.R. 380/2001 cit.).
La natura oggettivamente temporanea e contingente delle
esigenze da soddisfare è richiamata anche dall'art. 6, comma
2°, lett. b, d.P.R. 380/2001 per individuare le opere che,
previa mera comunicazione dell'inizio lavori, possono essere
liberamente eseguite.
6.3. Si tratta di criterio che significativamente, anche se
ad altri fini, l'art. 812 cod. civ. utilizza per collocare
nella categoria dei beni immobili gli edifici galleggianti
saldamente ancorati alla riva o all'alveo e destinati ad
esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione, così
diversificandoli dai galleggianti mobili adibiti alla
navigazione o al traffico in acque marittime o interne, di
cui all'art. 136 cod. nav. e che, a norma dell'art. 815 cod.
civ., costituiscono, invece, beni mobili soggetti a
registrazione.
6.4. La oggettiva destinazione dell'opera a
soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente
attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né
contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla
giurisprudenza di questa Corte per distinguere l'opera
assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di
costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere
dall'incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati
(Sez. 3, Sentenza n. 9229 del 12/02/1976, Sez. 3,
Sentenza n. 1927 del 23/11/1981, Sez. 3, Sentenza n. 5497
del 11/03/1983, Sez. 3, Sentenza n. 6172 del 23/03/1994,
Sez. 3, Sentenza n. 12022 del 20/11/1997, Sez. 3, Sentenza
n. 11839 del 12/07/1999, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del
25/02/2009, quest'ultima con richiamo ad ulteriori
precedenti conformi di questa Corte e del Consiglio di
Stato).
Nemmeno il carattere stagionale
dell'attività implica di per sé la precarietà dell'opera
(Sez. 3, Sentenza n. 34763 del 21/06/2011, Sez. 3, Sentenza
n. 13705 del 21/02/2006, Sez. 3, Sentenza n. 11880 del
19/02/2004, Sez. 3, Sentenza n. 22054 del 25/02/2009 cit.).
6.5. Il riferimento alla temporaneità e
alla contingenza dell'esigenza, piuttosto che alle
caratteristiche strutturali dell'opera edilizia ed al
materiale impiegato per la sua realizzazione, deriva dal
fatto che nella riflessione dottrinaria e giurisprudenziale
del secondo dopoguerra si è venuta consolidando la
consapevolezza che il territorio non può più essere
considerato strumento destinato al solo assetto ed
incremento edilizio
(art. 1 L. 1150/1942), ma come luogo sul
quale convergono interessi di ben più ampio respiro che
dalle modalità del suo utilizzo (o del suo non utilizzo)
possono trovare giovamento o, al contrario, pregiudizio, sì
che la sua trasformazione urbanistica ed edilizia
(così l'art. 1 L. 10/1977 che, si noti, operando un
rivolgimento copernicano rispetto all'art. 1 L. 1150/1942,
ha posto l'attività edilizia in secondo piano rispetto a
quella urbanistica) costituisce oggetto di
compiuta valutazione e comparazione degli interessi in gioco
e, dunque, vera e propria attività di governo
(così l'art. 117, comma 30 , Cost.), non
sempre, e non solo, appannaggio esclusivo della collettività
che lo abita.
6.6. E' evidente, pertanto, che la
temporaneità dell'esigenza che l'opera precaria è destinata
a soddisfare è quella (e solo quella) che non è suscettibile
di incidere in modo permanente e tendenzialmente definitivo
sull'assetto e sull'uso del territorio.
6.7. Tanto premesso, risulta dalla lettura della sentenza
impugnata che il modulo abitativo prefabbricato, al quale
era asservito il manufatto di dodici metri composto di
polistirolo, era stato collocato sopra una piattaforma di
cemento realizzata all'interno del fondo di proprietà della
Pe..
All'interno del medesimo fondo erano stati realizzati gli
allacciamenti elettrici, idrici e fognari destinati a
servire il manufatto sotto il cui pavimento erano stati
predisposti gli alloggiamenti per le tubature idriche e gli
impianti elettrici. Il bagno era munito di uno scaldabagno
elettrico. Nel manufatto erano state inserite le scatole per
gli interruttori elettrici ed i relativi interruttori. Sul
perimetro del fondo erano state realizzate delle aiuole e
piantati degli alberi a riprova, afferma la Corte, della
duratura destinazione dell'immobile ad abitazione.
6.8. Non v'è dubbio che la Corte di appello ha fatto buon
governo dei principi sopra indicati traendo dalle premesse
in fatto testé illustrate conseguenze non manifestamente
illogiche in ordine alla effettiva natura delle esigenze non
temporanee che il manufatto, nella sua interezza e a
prescindere dai materiali utilizzati, doveva soddisfare.
6.9. Le eccezioni sollevate dalla ricorrente non colgono nel
segno sia perché valorizzano l'argomento della tipologia dei
materiali utilizzati, sia perché non considerano che la
natura modulare dell'abitazione prefabbricata, alla luce
dell'inequivocabile dettato normativo sopra richiamato, non
esclude la durevolezza delle esigenze abitative cui il
manufatto era asservito.
L'ulteriore argomento difensivo secondo cui si trattava di
manufatto posto in opera a scopi puramente pubblicitari, e
dunque transitori, è stata smentita dalla Corte di appello
con argomentazioni non oggetto di specifica censura da parte
della ricorrente che si limita ad eccepire, al riguardo, un
inammissibile travisamento della prova volto, di fatto, a
creare un contatto diretto di questa Corte di cassazione con
le fonti di prova allegate al ricorso.
6.10. Quanto ai profili di responsabilità di tutti gli
imputati si deve osservare che la posa in opera del
manufatto costituisce l'esecuzione di un accordo intercorso
tra la proprietaria committente e il legale rappresentante
della società venditrice, accordo per effetto del quale
l'azione appartiene ad entrambi gli imputati. Il fatto che
la posa in opera del manufatto sia stata giustificata con le
(insussistenti) esigenze pubblicitarie indicate nel
contratto di vendita costituisce ulteriore argomento che
rafforza la prova della comune consapevolezza della
necessità del titolo edilizio mancante.
6.11. In ogni caso, assume valore dirimente
il fatto che la società legalmente rappresentata dal Sa. non
si è limitata alla vendita del manufatto, ma si è
direttamente interessata anche alla sua posa in opera e alla
realizzazione degli allacci, destinandovi due operai.
6.12. Il che è più che sufficiente a
qualificarla come "costruttore" ai sensi dell'art.
29, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in quanto tale, ha il dovere
di controllare preliminarmente che siano state richieste e
rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a
titolo di dolo del reato di cui all'art. 44 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante
l'accertamento negativo, e a titolo di colpa nell'ipotesi in
cui tale accertamento venga omesso
(Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015, Carafa, Rv. 263474; Sez.
3, n. 860 del 25/11/2004, Cima, Rv. 230663).
6.13. Anche gli operai, materiali esecutori
dei lavori, rispondono del reato a titolo di concorrenti
(in questo senso Sez. 3, n. 16751 del 23/03/2011, Iacono, Rv.
250147, secondo cui la natura di reati "propri" degli
illeciti previsti dalla normativa edilizia non esclude che
soggetti diversi da quelli individuati dall'art. 29, comma
primo, del decreto medesimo, possano concorrere nella loro
consumazione, in quanto apportino, nella realizzazione
dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole;
nello stesso senso anche Sez. 3, n. 35084 del 25/02/2004,
Barreca, Rv. 229651; Sez. 3, n. 48025 del 12/11/2008,
Ricardi, Rv. 241799, secondo cui concorre nel reato anche si
limita a svolgere lavori di completamento dell'immobile,
quali la pavimentazione, l'intonacatura, gli infissi, sempre
che sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla
mancata conoscenza del carattere abusivo dei lavori).
6.14. Il Ca. ed il Di. non si erano limitati a collocare sul
posto il manufatto ma erano intenti ad effettuare lavori di
allaccio alle reti idrica ed elettrica che concorrevano a
rendere oggettivamente stabile l'opera edilizia, realizzata
in totale assenza di permesso di costruire e di qualsiasi
altra autorizzazione. Sicché essi ne rispondono anche a
titolo di colpa.
6.15. La argomentazioni sin qui svolte valgono a maggior
ragione anche per il reato di cui all'art. 181, comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004, peraltro non oggetto di specifica
impugnazione, al pari della muratura in pietra (della quale
non v'è menzione nei ricorsi). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Tra
soletta e travi lo spazio non è comune. Cassazione. Quando
il piano di sopra «occupa» il controsoffitto di quello
sottostante deve risarcire il danno e il valore diminuito.
Lo spazio tra le travi e la soletta
non è comune: il proprietario di un’unità immobiliare non
può occupare con propri manufatti la parte sottostante la
sua soletta e invadere lo spazio vuoto esistente tra questa
e le travi lignee che la sorreggono. Questo spazio infatti
non fa parte integrante del solaio e dunque non è in
comunione tra i due appartamenti, l’uno sovrastante
all’altro.
Così hanno deciso i giudici supremi della Corte di
Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 14.02.2017 n. 3893, stabilendo che detto
spazio è una volumetria che può essere utilizzata solo da
parte del proprietario del piano sottostante: così come il
pavimento che si poggia sul solaio appartiene esclusivamente
al proprietario dell’abitazione sovrastante, che lo può
utilizzare come meglio crede, il volume invece esistente tra
le travi e la soletta è parte del soffitto dell’unità
sottostante e può dunque essere liberamente utilizzato dal
proprietario di questa.
Era successo che a seguito di importanti lavori di
ristrutturazione eseguiti in un appartamento, consistiti
anche nella sostituzione dell’esistente solaio in legno con
altro in latero-cemento, si era abbassato il livello del
soffitto del locale sottostante. Il che aveva comportato
l’invasione degli spazi vuoti tra l’originario solaio e le
travi a vista su cui questo gravava.
S u tale presupposto i giudici di primo e secondo grado, pur
riconoscendo l’avvenuto abbassamento della soletta, avevano
escluso che ciò avesse comportato una diminuzione della
volumetria del locale sottostante in quanto il nuovo solaio
aveva occupato il solo comune spazio tra le travi lignee e
lo spazio vuoto tra una trave e l’altra.
Di diverso avviso la Cassazione, che ha affermato che la
comunione della soletta tra le due unità immobiliari, mentre
si estende alle travi aventi la funzione di sostegno e che
fanno parte della struttura portante del solaio, non va
invece ad interessare lo spazio ricompreso tra queste ed il
solaio stesso, che resta pertanto nella piena disponibilità
del piano sottostante. Alla riduzione della volumetria del
locale corrisponde naturalmente il diritto del suo
proprietario di vedersi risarcito il danno, anche in
relazione alla riduzione del valore del locale.
La questione risolta dalla Suprema Corte è di frequente
ricorrenza nei casi in cui, nel procedere alla
ristrutturazione delle cosiddette “abitazioni di ringhiera”,
si ricavano all’interno di esse i servizi igienici dapprima
esistenti solo in comune con altre abitazioni. Il minimo
spessore delle solette in legno non lascia spazio alla posa
di tubature, talché queste vengono spesso posizionate
nell’intercapedine che si crea tra la soletta e la
controsoffittatura che il proprietario della sottostante
unità ha ben fissato sulle travi portanti.
I problemi
sorgono quando si decide di portare a vista la travatura che
caratterizza il soffitto ed ecco che riappare tutto ciò che
arbitrariamente è stato posizionato al di sotto della comune
soletta. Da qui la decisione della Cassazione (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017).
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MASSIMA
Il terzo motivo è fondato.
Ed invero, come questa Corte ha già affermato,
il solaio esistente fra i piani sovrapposti di un
edificio è oggetto di comunione fra i rispettivi proprietari
per la parte strutturale che, incorporata ai muri
perimetrali, assolve alla duplice funzione di sostegno del
piano superiore e di copertura di quello inferiore, mentre
gli spazi pieni o vuoti che accedono al soffitto od al
pavimento, e non sono essenziali all'indicata struttura
rimangono esclusi dalla comunione e sono utilizzabili
rispettivamente da ciascun proprietario nell'esercizio del
suo pieno ed esclusivo diritto dominicale
(Cass. 2868/1978).
Deve dunque escludersi che la comunione si
estenda oltre che alle travi, aventi funzione di sostegno
del solaio e che, pacificamente, fanno parte di detta
struttura portante
(Cass. 13606/2000), allo spazio esistente
tra le stesse, integrante volumetria di esclusiva
utilizzazione da parte del proprietario del piano
sottostante.
Ed invero, come dal solaio deve essere
distinto il pavimento che poggia su di esso, che appartiene
esclusivamente al proprietario dell'abitazione sovrastante e
che può essere, quindi, da questo liberamente rimosso o
sostituito secondo la sua utilità e convenienza
(Cass. 7464/1994), cosi pure dev'essere
distinto il volume esistente tra le travi, che costituisce
il soffitto dell'appartamento sottostante ed è dunque
liberamente utilizzabile dal proprietario di questo. |
LAVORI PUBBLICI: La
programmazione evita opere incompiute.
Verifica ex post degli obiettivi indicati in programmazione
per evitare le opere incompiute. E nella programmazione
bisognerà dare una corsia preferenziale ai lavori di
ricostruzione post- terremoto e conseguenti a calamità
naturali.
È quanto afferma il Consiglio di Stato con il
parere 13.02.2017 n. 351,
favorevole ma con osservazioni, allo schema di regolamento
recante procedure e schemi tipo per la redazione e la
pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici,
del programma biennale per l'acquisizione di forniture e
servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti
annuali.
Si tratta di un regolamento attuativo del codice dei
contratti pubblici (art. 21, comma 8) che detta le modalità
di aggiornamento dei programmi e degli elenchi annuali,
definisce i criteri e le modalità per favorire il
completamento delle opere incompiute e i criteri per
l'inclusione dei lavori e per la definizione del livello
progettuale minimo richiesto per tipologie e importo delle
opere.
Il parere, dopo avere inquadrato nella disciplina
vigente la materia della programmazione si sofferma sul
ruolo centrale che essa riveste anche in chiave preventiva
rispetto alle cosiddette opere incompiute, sottolineando che
la programmazione «costituisce concreta attuazione dei
principi di buon andamento, economicità ed efficienza
dell'azione amministrativa». L'assunto è che con una
accurata programmazione, dice il Consiglio di Stato, si
consegue la determinazione del quadro delle esigenze, la
valutazione delle strategie di approvvigionamento,
l'ottimizzazione delle risorse ed il controllo delle fasi
gestionali.
Da qui la rilevanza del decreto sul quale i
giudici rilevano, oltre ad un aspetto procedurale (la
mancata acquisizione del parere della Conferenza Unificata
prima dell'invio dello schema a Palazzo Spada), anche la
necessità di introdurre misure finalizzate alla verifica ex
post circa il conseguimento degli obiettivi sottesi alla
programmazione.
In particolare si evidenzia come nel testo
sia opportuno «esplicitare più chiaramente in che modo
operino tali forme di verifica e in che modo esse si
traducano non solo nella predisposizione e
nell'aggiornamento degli strumenti di programmazione, ma
anche nella sanzione (foss'anche a livello reputazionale) in
caso di opere rimaste ingiustificatamente incompiute e di
incapacità a rispettare i tempi previsti, ad esempio, per
l'affidamento e l'esecuzione di un'opera». In sostanza:
sanzioni per le amministrazioni che non portano a termine le
incompiute (che comunque devono essere definite in modo
adeguato e preciso in quanto non appare chiaro, dice il
parere, se sia la stessa definizione prevista dall'articolo
44-bis del decreto-legge n. 201 del 2011 e del d.m. 13.03.2013,
n. 42).
Per quel che riguarda la priorità da assegnare ai
lavori in fase di programmazione il parere suggerisce di
indicare i lavori di ricostruzione pubblica post-terremoto e
quelli di ricostruzione conseguenti a calamità naturali
(articolo ItaliaOggi del 15.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: P.a.,
recupero crediti con più garanzie.
Recupero crediti delle p.a. più garantito. L'ingiunzione
speciale (rd 639/1910), utilizzata per la riscossione
coattiva dai comuni e da altri enti pubblici, è idonea a far
iscrivere ipoteca giudiziale.
È quanto deciso dal TRIBUNALE di Torino, con decreto 13.12.2016, reso nel procedimento 9889/2016, con il quale
ha accolto la richiesta di un comune della provincia del
capoluogo piemontese.
Il comune, difeso dall'avv. Ma.Gi., vantava un
credito tributario nei confronti di un contribuente persona
fisica e ha avviato la riscossione notificando
un'ingiunzione disciplinata dal regio decreto 639/1910.
Questo atto è fatto dalla stessa amministrazione impositrice
e non passa al vaglio dell'autorità giudiziaria.
Questa
ingiunzione, alternativa alla riscossione di Equitalia, può
basare pignoramenti, come una sentenza o un decreto
ingiuntivo giudiziale. Ci si è posto il problema se, come
con il decreto ingiuntivo, il creditore possa utilizzare
questo titolo per chiedere l'iscrizione di un'ipoteca sui
beni del debitore. Nel caso specifico il comune piemontese
ha chiesto l'iscrizione dell'ipoteca, ma l'ufficio
finanziario ha consentito solo l'iscrizione con riserva.
L'ente locale ha proposto ricorso al tribunale, anche per
superare una circolare ministeriale, che esprime l'opinione
contraria all'iscrizione effettiva dell'ipoteca. E il
tribunale ha dato il via libera all'ipoteca.
Gli uffici
finanziari seguono la circolare n. 4/T/2008 dell'Agenzia del
territorio, secondo la quale l'ingiunzione fiscale non
sarebbe titolo idoneo per iscrivere ipoteca legale ai sensi
dell'art. 77 del dpr n. 602/1973. Ma il tribunale ha
rilevato che l'ingiunzione è, di fatto, strumento
equiparabile, ai fini delle procedure coattive, alla
cartella di pagamento, anche ai fini dell'iscrizione
ipotecaria. Il decreto ammette, quindi, la trascrivibilità
dell'ipoteca legale fondata sul provvedimento di ingiunzione
fiscale, in quanto la natura giuridica del titolo non incide
sulla domanda di iscrizione ipotecaria.
Il provvedimento ha dichiarato inefficace la riserva e ha
ordinato al Conservatore dell'Agenzia delle entrate di
annotare il decreto. Grazie a questo orientamento l'ente
locale può bloccare a proprio favore l'immobile del debitore
e non temere l'insolvibilità del contribuente. E i tempi per
consolidare la garanzia possono essere molto veloci (articolo ItaliaOggi del 22.02.2017). |
APPALTI: Niente
soccorso istruttorio sui costi aziendali. Una recente
sentenza del Tar Toscana riapre il dibattito nella
giurisprudenza amministrativa.
Il TAR Toscana, Sez. I, con la recentissima
sentenza 10.02.2017 n.
217, riapre il dibattito sulla mancata
o inesatta indicazione dei costi aziendali per la salute e
la sicurezza dei lavoratori e l'ammissibilità del soccorso
istruttorio in merito.
Il dlgs n. 50/2016, infatti, all'art. 95, comma 1, inserisce
questi oneri come elemento separato da indicarsi
nell'offerta economica, ma non ne ha espressamente indicato,
nello stesso articolo, l'essenzialità.
Il Tribunale adito, accogliendo il ricorso proposto, ha,
tuttavia, statuito che sui costi aziendali non è possibile
porre rimedio tramite il soccorso istruttorio.
L'art. 83, comma 9, del dlgs n. 50/2016, è stato
argomentato, ammette l'esercizio della facoltà di
integrazione, da parte dei concorrenti, solo relativamente
alle «carenze di qualsiasi elemento formale della domanda».
Nel caso in esame, il disciplinare di gara imponeva di
indicare, nel dettaglio dell'offerta economica, i costi per
la sicurezza da rischio specifico. Illegittimamente sono
state chieste dalla stazione appaltante delle giustifiche,
che i giudici hanno ritenuto non ammissibili, in quanto
veniva in rilievo la carenza di un elemento «sostanziale»,
perché attinente al contenuto dell'offerta economica.
In maniera analoga si era espresso anche il Tar Campania
Salerno, sez. I, con la sentenza n. 34 del 10 gennaio u.s.,
in quanto l'indicazione degli oneri di sicurezza aziendale
era stata considerata direttamente attinente, ai sensi
dell'art. 95, comma 10, dlgs n. 50/2016, all'offerta
economica.
I giudici di Palazzo Spada, sebbene con riferimento a un
procedimento in vigenza del dlgs n. 163/20006, con la
decisione della V sezione, n. 223 del 19.01.2017,
hanno, invece, ritenuto che, qualora vengano indicati, da
parte di un concorrente, oneri interni per la sicurezza pari
a 0, non si può procedere all'esclusione del concorrente per
motivi di ordine formale.
L'esistenza di un importo indicato, sebbene di ordine
negativo (ossia nessuna spesa per la voce oneri sicurezza
aziendale) comporterebbe, ad avviso del Consiglio di stato,
che ogni questione di verifica del rispetto dei doveri
concernenti la salute e la sicurezza sul lavoro si sposti
dal versante dichiarativo a quello sostanziale, concernente
la congruità di una simile quantificazione.
La sezione richiama i principi espressi sul punto
dall'Adunanza plenaria, nella sentenza n. 19 del 27.07.2016, che ha posto particolare enfasi sugli aspetti di
ordine sostanziale, relativamente ai costi minimi di
sicurezza aziendale.
A seguito dell'intervento nomofilattico, anche la successiva
giurisprudenza del Consiglio di stato aveva negato valenza
escludente alla mancata specificazione nell'offerta degli
oneri per la sicurezza aziendali.
Nella decisione n. 223/2017, i giudici, infine sanciscono un
altro importante principio: non può essere demandato al
giudice amministrativo, in sede di legittimità, di
effettuare apprezzamenti riservati alle valutazioni
tecnico-discrezionali della stazione appaltante, unica
preposta alla verifica dell'anomalia, che nel caso esaminato
la stessa aveva ritenuto di non esperire.
La stessa sentenza n. 19/2016 dell'Adunanza plenaria era
stata, tuttavia, richiamata dai magistrati della IV sezione
del Tar Lombardia, che con l'ordinanza n. 1522 del 24.11.2016, avevano respinto la tutela cautelare a una
impresa esclusa da una gara, per mancata indicazione degli
oneri aziendali della sicurezza. È stato affermato, in tale
sede che, ai sensi dell'art. 95, comma 10, del dlgs n.
50/2016, non sono invocabili esigenze di trasparenza, per
negare la configurabilità della causa di esclusione.
Sebbene l'art. 97 indichi come oggetto della valutazione di
anomalia anche la verifica degli oneri aziendali della
sicurezza, ciò non incide sulla circostanza che l'omessa
esposizione in offerta di tali costi non può essere superata
in sede di soccorso istruttorio, in quanto l'art. 83, comma
9, del codice dei contratti pubblici ne esclude
l'attivazione per i profili relativi all'offerta economica.
L'ordinanza in questione, inoltre, è stata confermata dal
Consiglio di stato, sez. V, n. 5582 del 15.12.2016. I
magistrati dell'appello hanno ritenuto «dirimente» la
mancata indicazione degli oneri per la sicurezza «interni o
aziendali», con conseguente violazione dell'articolo 95 del
decreto legislativo n. 50 del 2016, escludendo, infine,
profili di incompatibilità della disposizione tassativa con
il paradigma normativo euro-comunitario
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017). |
TRIBUTI: Tari,
giudici senza poteri su agevolazioni e sconti.
Il giudice non può sostituirsi all'amministrazione comunale
nella scelta di concedere sconti, agevolazioni, riduzioni e
esenzioni Tari. Spetta al comune il potere di riconoscere
con regolamento eventuali benefici fiscali. La commissione
tributaria può solo censurare le norme regolamentari in
presenza di macroscopiche violazioni di legge.
E quanto ha affermato la Ctr di Firenze, Sez. X, con la
sentenza 09.02.2017 n. 375.
Dunque, per il giudice d'appello non è possibile riconoscere
un'agevolazione per la tassa rifiuti se l'amministrazione
non l'ha prevista nel regolamento e può censurare il suo
comportamento solo se rileva una violazione di legge.
Il
regolamento della tassa rifiuti deliberato dal comune di
Campo nell'Elba è stato ritenuto in linea con le previsioni
di legge dalla commissione regionale «in considerazione del
fatto che la normativa consente ai comuni una certa
discrezionalità in ordine alla possibilità di prevedere
sconti, agevolazioni, riduzioni e esenzioni. Nell'ambito di
tale potere discrezionale, il suo esercizio parrebbe quindi
essere censurabile solo in presenza di macroscopiche
violazioni di legge che nel caso in esame non è dato
ravvisare».
In effetti, le amministrazioni comunali hanno
ampi poteri sui benefici fiscali per il tributo sui rifiuti.
Oltre alle agevolazioni che devono essere assicurate ai
contribuenti ex lege, gli enti hanno la facoltà di concedere
riduzioni tariffarie e esenzioni tendenzialmente legate alla
minore produzione di rifiuti. Possono stabilire con
regolamento riduzioni tariffare, senza limiti, e esenzioni
anche legate al reddito familiare. Le agevolazioni Tari,
infatti, possono essere collegate alla capacità contributiva
dei contribuenti, desunta dagli indicatori della situazione
economica (Isee). L'articolo 1 della legge di Stabilità 2014
(147/2013) consente di ridurre il carico del prelievo in
capo a soggetti in condizioni di difficoltà
economico-sociale.
La concessione di agevolazioni
facoltative non è limitata alle riduzioni, ma può arrivare
fino alle esenzioni. Possono essere deliberate riduzioni
tariffarie che, a differenza della Tares, non sono più
soggette alla soglia massima del 30%, o esenzioni per
particolari situazioni espressamente individuate dalla
legge. Le riduzioni della tassa per il servizio di
smaltimento possono essere riconosciute in presenza di
situazioni in cui si presume che vi sia una minore capacità
di produzione di rifiuti
(articolo ItaliaOggi del 22.02.2017). |
TRIBUTI: La
classificazione catastale decide l'esenzione.
Cassazione sull'ici. rilevanza
all'autocertificazione presentata da una coop.
L'esenzione Ici spetta per i fabbricati strumentali
all'attività agricola solo se sono inquadrati catastalmente
nella categoria D/10.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, che ha però dato rilevanza all'autocertificazione
presentata sul possesso dei requisiti da parte di una
società cooperativa per i 5 anni precedenti, ancorché
l'istanza di variazione catastale in categoria D/10 fosse
stata presentata 2 anni dopo (2009) rispetto all'anno
d'imposta accertato dal comune (2007).
Infatti con la
sentenza 27.01.2017 n. 2115 ha
respinto il ricorso della cooperativa e ha sostenuto che per
avere diritto all'esenzione Ici non conta che il fabbricato
sia strumentale all'attività agricola, ma è necessario che
sia classificato nella categoria D/10; mentre con la
sentenza 08.02.2017 n. 3350, pur affermando
questa regola, ha accolto il ricorso proposto dalla stessa
società cooperativa, per la medesima annualità, anche se le
controparti erano due comuni diversi, facendo leva
sull'autocertificazione. In entrambi i casi decisi gli
immobili erano iscritti nella categoria D/8.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che l'istanza di
variazione catastale nella categoria D/10 presentata nel
2009 potesse avere efficacia nel 2007, nonostante l'immobile
fosse inquadrato nella categoria D/8, in presenza di
un'autocertificazione attestante il possesso dei requisiti,
alla quale è stata riconosciuta un'efficacia retroattiva ai
fini del classamento.
Questo vuol dire che la società
cooperativa ha autocertificato una data situazione che si
pone in palese contrasto con l'istanza di variazione
catastale presentata nel 2009 all'Agenzia del territorio e,
soprattutto, con la classificazione catastale che il
fabbricato aveva nell'anno d'imposta accertato (2007).
Il
principio che si ricava dalle due pronunce in commento è che
2 casi analoghi possono essere trattati dallo stesso giudice
in maniera diversa. Va posto in rilievo che agli immobili
accertati, che hanno formato oggetto delle pronunce della
Cassazione, era stata attribuita la stessa categoria
catastale (D/8).
Del resto sulla materia de qua la Cassazione, anche di
recente, ha cambiato posizione sui requisiti per fruire del
trattamento agevolato Ici sui fabbricati rurali e ha rivisto
la tesi espressa con alcune pronunce emanate nel 2015. Con
la sentenza 16179/2016 ha chiarito che vanno ritenute
isolate le pronunce del 2015 con le quali aveva ritenuto
esenti dall'imposta comunale i fabbricati rurali, in
presenza dei requisiti di legge, a prescindere dal loro
inquadramento catastale. Dunque, ha stabilito che non va
dato seguito alle sentenze con le quali è stato sostenuto
che conta solo la ruralità degli immobili per avere diritto
ai benefici fiscali.
I possessori di fabbricati utilizzati
per l'esercizio dell'attività agricola possono reclamare
l'esenzione Ici solo se hanno ottenuto l'iscrizione
catastale di questi immobili nelle categorie A/6 (destinati
ad abitazione) o D/10 (destinati alla manipolazione,
trasformazione e vendita di prodotti agricoli). Ciò
costituisce «un presupposto necessario ed indefettibile» per
l'esclusione del fabbricato dall'assoggettamento all'Ici
(articolo ItaliaOggi del 16.02.2017). |
APPALTI: Nuovi
appalti. C'è sempre l'interesse a ricorrere.
Nel rito superaccelerato degli appalti pubblici il
ricorrente aggiudicatario della gara continua ad avere
interesse a impugnare le ammissioni degli altri concorrenti.
Lo dice il TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, nella
sentenza
08.02.2017 n. 2113.
I
giudici si sono chiesti se, alla luce del nuovo sistema
processuale speciale introdotto dal dlgs 50/2016, sussiste
la condizione dell'azione, data dall'interesse a ricorrere,
del ricorrente divenuto aggiudicatario.
Il legislatore ha imposto a tutte le ditte l'onere di
impugnare immediatamente (entro 30 giorni) le ammissioni in
una fase antecedente al sorgere della lesione concreta e
attuale data dall'aggiudicazione, in quanto successivamente
sarebbe impossibile far l'illegittimità di tali
determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale,
proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata
impugnata l'aggiudicazione.
La questione si pone nel momento in cui su tale sistema
processuale chiuso e speciale intervenga l'aggiudicazione,
che concretizza la lesione dell'interesse legittimo dei
concorrenti che aspirino a tale bene. Seguendo
l'impostazione classica, se in corso di causa dovesse
intervenire un fatto esterno incidente sull'interesse a
ricorrere facendo venir meno l'utilità del ricorso
anticipato (come l'aggiudicazione allo stesso ricorrente),
l'azione diverrebbe improcedibile per sopravvenuto difetto
di interesse.
Tuttavia il Tar ha rimeditato tale impostazione in quanto
l'opzione tradizionale comporterebbe che il ricorrente
aggiudicatario si vedrebbe precluso l'esame delle proprie
doglianze nei confronti degli altri concorrenti, i quali,
invece, ben potrebbero ottenere l'accoglimento delle proprie
ragioni contro l'ammissione del ricorrente, ed in via
derivata, l'aggiudicazione ottenuta.
In definitiva, e in
virtù della separazione delle due fasi processuali (a
seconda dei vizi) cui corrispondono anche riti diversi, la
successiva aggiudicazione non può ritenersi tale da incidere
sull'interesse a ricorrere, non essendo venuta meno
l'utilità (o la ratio) del ricorso anticipato
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).
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MASSIMA
1. L’odierno ricorrente, risultato aggiudicatario della
gara, contesta in questa sede l’ammissione dei due RTI
controinteressati, che lo seguono in graduatoria, in ragione
delle preclusioni imposte dal nuovo rito super accelerato
delineato dall’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a.
1.1. Si pone quindi come preliminare, anche in
considerazione delle eccezioni di inammissibilità formulate
dai resistenti, l’esame della sussistenza della condizione
dell’azione, data dall’interesse a ricorrere, del ricorrente
divenuto aggiudicatario, alla luce del nuovo sistema
processuale speciale introdotto dal d.lgs. n. 50/2016.
1.2. Il legislatore, invero, derogando al
principio dettato dall’art. 100 c.p.c, secondo cui “per
proporre una domanda o per contraddire alla stessa è
necessario avervi interesse”, ed innovando rispetto alla
granitica giurisprudenza amministrativa in merito, ha
onerato tutti i partecipanti ad una gara, dell’impugnazione
immediata delle ammissioni in una fase antecedente al
sorgere della lesione concreta e attuale data
dall’aggiudicazione, in ragione dell’impossibilità a far
valere poi i profili inerenti all’illegittimità di tali
determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale,
proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata
impugnata l’aggiudicazione; ciò, nella precipua ottica di
cristallizzare e rendere intangibile la fase di gara
relativa agli operatori economici ammessi a partecipare,
ovvero, in altri termini, “a definire la platea dei
soggetti ammessi alla gara”
(parere Consiglio di Stato, 01.04.2016, n. 855),
in un momento antecedente all’esame delle offerte e
alla conseguente aggiudicazione, evitando così un possibile
annullamento dell’affidamento per un vizio a monte della
procedura.
1.3. La questione, quindi, nasce nel momento in cui su tale
sistema processuale “chiuso e speciale” intervenga
l’aggiudicazione, che concretizza la lesione dell’interesse
legittimo dei concorrenti che aspirino a tale bene.
1.4. Seguendo un’impostazione classica, se
in corso di causa dovesse intervenire un fatto esterno
incidente sull’interesse a ricorrere facendo venir meno
l’utilità del ricorso anticipato (come l’aggiudicazione allo
stesso ricorrente), l’azione diventerebbe improcedibile per
sopravvenuto difetto di interesse, perché ormai incapace di
portare un distinto vantaggio al ricorrente, meglio
soddisfatto col bene finale.
1.5. Il Collegio tuttavia, pur consapevole
dell’assoluta novità della questione, ritiene che detta
impostazione tradizionale debba essere rivista alla luce
dell’eccezionalità del nuovo rito, che ha definito un
modello complessivo di contenzioso appalti a duplice
sequenza, in cui il nuovo sottosistema accelerato viene
disgiunto da quello successivo delle impugnazioni per altri
vizi della procedura di gara (es. vizi del bando, della
composizione della commissione, della documentazione
prodotta ma verificata dopo l’aggiudicazione, dell’offerta
stessa), ovvero dell’esito oggettivo della stessa.
Invero, se l’omessa impugnazione
dell’ammissione degli altri concorrenti fa consumare, come
visto, il potere di dedurre le relative censure in sede di
impugnazione dell’aggiudicazione, parimenti tali censure non
potranno essere mosse dall’aggiudicatario che volesse
paralizzare, con lo strumento del ricorso incidentale,
quello principale proposto avverso l’affidamento
dell’appalto, allorquando non abbia tempestivamente
esercitato detto potere ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis.
Dichiarare, allora, il ricorso
inammissibile, recte improcedibile, in ragione del
raggiungimento del bene ultimo dell’aggiudicazione da parte
del ricorrente, e quindi del mancato ottenimento di
ulteriori benefici dall’esclusione dei controinteressati,
non utilmente collocati –secondo la regola classica–
comporterebbe da ultimo una situazione alquanto singolare,
ove non del tutto violativa del diritto di difesa, per cui
il ricorrente aggiudicatario si vedrebbe precluso l’esame
delle proprie doglianze nei confronti degli altri
concorrenti, i quali, invece, ben potrebbero ottenere
l’accoglimento delle proprie ragioni contro l’ammissione del
ricorrente, ed in via derivata, l’aggiudicazione ottenuta.
In altri termini, in ragione della
separazione delle due fasi processuali, cui corrispondono
anche riti diversi, la successiva aggiudicazione non può
ritenersi tale da incidere sull’interesse a ricorrere ex
art. 120, comma 2-bis, non essendo venuta meno l’utilità (o
la ratio) del ricorso anticipato.
1.6. Ne deriva allora l’ammissibilità del ricorso proposto,
ai sensi della predetta norma, dal ricorrente aggiudicatario
avverso le ammissioni degli altri concorrenti. |
APPALTI:
Ati, alla mandataria il grosso dell'esecuzione.
Anche se la mandante ha più requisiti.
In un raggruppamento temporaneo (Ati) la mandataria deve
svolgere la prestazione in misura maggioritaria anche se
possiede meno requisiti della mandante; i raggruppamenti
sovrabbondanti non sono vietati in senso assoluto.
È quanto afferma il Consiglio di stato (sentenza
08.02.2017 n. 560 della V Sez.) rispetto a una questione
che riguardava la presunta illegittimità della
partecipazione di un raggruppamento in cui la mandante era
in possesso di requisiti di partecipazione (di capacità
economico-finanziaria) in misura maggioritaria rispetto alla
mandataria in asserita violazione di quanto disposto
dall'art. 275, comma 2, del dpr n. 207 del 2010 e del punto
6.1.3 del disciplinare di gara; inoltre si discuteva del
fatto che entrambi i partecipanti al raggruppamento erano
autonomamente in possesso della totalità dei requisiti
richiesti dalla lex specialis per partecipare alla gara,
dando luogo a un raggruppamento sovrabbondante, in
violazione del principio di libera concorrenza, di
particolare importanza nel settore speciale oggetto della
gara.
Il collegio giudicante ha chiarito che l'esegesi
letterale dell'art. 275, comma 2, del regolamento di
attuazione del codice dei contratti (all'epoca vigente) pone
in evidenza che il riferimento in misura maggioritaria
riguarda l'esecuzione delle prestazioni da parte della
mandataria, e non anche il possesso dei requisiti. La
finalità della disposizione è quella, dice la sentenza, di
evitare che la mandataria possa assumere, all'interno del
raggruppamento, una posizione secondaria, il che riguarda
precipuamente l'impegno operativo che la medesima assume.
La norma è finalizzata a evitare che l'impresa mandataria
possa assumere una posizione secondaria nell'esecuzione
della prestazione. Per quel che attiene poi al
raggruppamento sovrabbondante, la sentenza richiama la
giurisprudenza che ha indirettamente chiarito che un
siffatto raggruppamento non è vietato in via generale
dall'ordinamento, anche in considerazione del favor del
diritto europeo alla partecipazione alle gare ad evidenza
pubblica anche dei soggetti riuniti, quale che sia la forma
giuridica di tale aggregazione. Da ciò la conferma della
validità della partecipazione del raggruppamento temporaneo
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Disturbo delle
occupazioni o del riposo delle persone - Natura di reato di
pericolo presunto - Prova dell'effettivo disturbo di più
persone - Esclusione della perizia o consulenza tecnica -
Superamento della soglia della normale tollerabilità -
Configurabilità del reato di cui all’art. 659 cod. pen. -
Giurisprudenza - Fattispecie.
In tema di disturbo delle occupazioni o del riposo delle
persone, l'affermazione di responsabilità per la fattispecie
di cui all’art.659 cod. pen., non implica, attesa la natura
di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo
disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità
della condotta a disturbarne un numero indeterminato (Cass.,
Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, Calvarese).
Sicché, l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le
occupazioni delle persone non va necessariamente accertata
mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché il Giudice
ben può fondare il proprio convincimento su elementi
probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di
coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e
gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti
oggettivamente superata la soglia della normale
tollerabilità (Cass., Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015,
Montali, a mente della quale in tema di disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità
delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero
indeterminato di persone costituisce un accertamento di
fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il
quale non è tenuto a basarsi esclusivamente
sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben
potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi
probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un
fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della
pubblica quiete (fattispecie: disturbo al riposo ed alle
occupazioni dei vicini, non impedendo ai propri due cani di
latrare ed abbaiare di giorno e di notte) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.02.2017 n. 5613
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione (trasporto e
raccolta) di rifiuti non pericolosi - Mancanza di
autorizzazione - Esclusione della occasionalità - Reato
istantaneo - Fattispecie - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006 -
Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 256,
comma primo, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, trattandosi di
illecito istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta
integrante una delle ipotesi alternative previste dalla
norma, purché costituisca un'attività di gestione di rifiuti
e non sia assolutamente occasionale (Cass., Sez. 3, n. 8193
dell'11.02.2016, Revello; nei medesimi termini, quanto al
trasporto di rifiuti senza autorizzazione, e quindi
nell'ottica della sufficienza, per integrare il reato, anche
di un unico trasporto, tra le altre, Sez. 3, n. 02/10/2014,
Cristinzio; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino; Sez.
3, n. 21655 del 13/04/2010, Hrustic).
Nella specie, ai ricorrenti veniva contestato di aver
effettuato, in due distinte occasioni, un'attività di
gestione (trasporto e raccolta) di rifiuti non pericolosi in
difetto della prescritta autorizzazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.02.2017 n. 5611 -
link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
graduatoria non scorre per l'idoneo non vincitore.
Decaduti. Gli idonei non vincitori del vecchio concorso
nell'Asl non possono ottenere lo scorrimento della
graduatoria e accaparrarsi dunque un posto di lavoro. E ciò
perché alle aziende e agli enti del sistema sanitario
nazionale non si applicano i limiti alle assunzioni che
valgono per altre amministrazioni pubbliche e consentono le
proroga dell'efficacia triennale per le graduatorie.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.02.2017 n. 189,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Toscana.
Bocciato il ricorso degli idonei per un concorso in una
struttura soppressa cui è subentrato l'ente di supporto
tecnico amministrativo della Regione.
Nella specie non si
applica il principio affermato dall'adunanza plenaria del
Consiglio di Stato laddove nella pubblica amministrazione si
è verificata un'inversione delle opzioni secondo cui lo
scorrimento della graduatoria è ormai la regola generale e
l'indizione di un nuovo concorso l'eccezione (sentenza
14/2011). E ciò perché per le Asl risultano rimossi dalla
finanziaria 2007 i vincoli alle assunzioni posti dalla
manovra economica del 2005. Per aziende e enti del Ssn,
dunque, resta soltanto l'obbligo di ridurre la spesa
complessiva per il personale, che non basta da solo a far
scattare lo scorrimento delle graduatorie.
Da tempo,
insomma, la spending review nel settore sanitario prevede
obiettivi quantitativi e complessivi ma senza limiti di
carattere numerico, ciò che quindi esclude la proroga
dell'efficacia delle graduatorie e ne determina la
decadenza. Non giova ai candidati idonei al concorso
sostenere che l'atto emanato dall'amministrazione sarebbe
contraddittorio perché si discosta dalla prassi seguita fino
a quel momento di attingere dalle graduatorie di precedenti
procedure concorsuali in quanto ritenute ancora vigenti. Si
tratta di un ragionamento che si potrebbe condividere se si
trattasse di un provvedimento discrezionale.
E invece l'atto
che dichiara decadute le graduatorie non è che il
precipitato sul piano amministrativo di una precisa
normativa: le stesse prese di posizione della Regione
mostrano che manca un assetto normativo che ne prevede la
perdurante vigenza. Ai lavoratori non resta che pagare le
spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 18.02.2017).
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MASSIMA
III. Il ricorso non è suscettibile di accoglimento.
Con il primo motivo viene dedotta la violazione
dell’art. 4, co. 4, d.l. n. 101/2013, letto con riferimento
all’art. 35, co. 5-ter, del d.lgs. n. 165/2001.
Ad avviso dei ricorrenti, dopo la modifica dell’art. 35 del
d.lgs. n. 165 del 2001 (ad opera dell'art. 3, comma 87,
della legge n. 244/2007) con l’introduzione del comma 5-ter
secondo cui “Le graduatorie dei concorsi per il
reclutamento del personale presso le amministrazioni
pubbliche rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla
data di pubblicazione. Sono fatti salvi i periodi di vigenza
inferiori previsti da leggi regionali”, sarebbe
rovesciato il principio della prevalenza dell’esperimento di
una nuova procedura concorsuale rispetto allo scorrimento
delle graduatorie vigenti.
Si sarebbe verificato, cioè, il consolidamento della
normalizzazione del meccanismo dello scorrimento delle
graduatorie concorsuali, ribaltando il rapporto rispetto
alla procedura concorsuale, tanto che il Consiglio di Stato
(Ad. Plen, 28.07.2011, n. 14) è giunto ad affermare che "sul
piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la
sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un
nuovo concorso e la decisione di scorrimento della
graduatoria preesistente ed efficace, quest’ultima modalità
di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre
l'indizione del nuovo concorso costituisce l'eccezione e
richiede un'apposita e approfondita motivazione, che dia
conto del sacrificio impasto ai concorrenti idonei e delle
preminenti esigenze di interesse pubblico”.
IV. La tesi non può essere seguita.
Va in primo luogo rilevato che
l’affermazione del Consiglio di Stato sopra riportata è resa
nel presupposto della perdurante validità della graduatoria
concorsuale considerata. In altri termini, intanto è
possibile assegnare la preminenza allo scorrimento in luogo
di un nuovo concorso in quanto vi sia una graduatoria ancora
in corso di validità.
Orbene, fermo restando quanto appena rilevato, la questione
in discussione è proprio quella della perdurante validità
delle graduatorie alle quali fa riferimento, elencandole, il
provvedimento impugnato che costituisce il necessario
presupposto per l’applicazione del principio stabilito
enunciato.
V. Rileva, condivisibilmente, l’amministrazione resistente
per i dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale l’art. 1,
comma 565, della l. n. 296/2006 non ha più previsto i limiti
alle assunzioni inseriti in precedenza dall’art. 1, comma
98, della l. n. 311/2004, fissando soltanto l’obbligo di
riduzione della spesa complessiva sostenuta per il
personale.
Ne discende che non potrebbe trovare applicazione, come
sostenuto dai ricorrenti, l’art. 4, co. 4, del d.l. n.
101/2013 secondo cui “L'efficacia delle graduatorie dei
concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato,
vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto,
relative alle amministrazioni pubbliche soggette a
limitazioni delle assunzioni, è prorogata fino al 31.12.2016”
(ora fino al 2017 in forza dell’art. 1, co. 368, l. n.
232/2016).
Dunque, alla regola generale fissata dall’art. 35, co.
5-ter, del d.lgs. n. 165/2001 si è sovrapposta, per effetto
di disposizioni più volte reiterate, la possibilità di
proroga delle graduatorie, ma solo nei riguardi delle “amministrazioni
pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni”.
VI. Ai fini della risoluzione della controversia, è
necessario, quindi, accertare se le amministrazioni
sanitarie possano farsi rientrare nel perimetro di quelle
soggette a limitazioni delle assunzioni.
In proposito, viene in primo luogo in considerazione quanto
disposto, relativamente al triennio 2007-2009, dall'art. 1,
comma 565, della legge n. 296/2006, secondo cui "gli enti
del Servizio sanitario nazionale, fermo restando quanto
previsto per gli anni 2005 e 2006 dall’articolo 1, commi 98
e 107, della legge 30.12.2004, n. 311, e, per l’anno 2006,
dall’articolo 1, comma 198, della legge 23.12.2005, n. 266,
concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza
pubblica adottando misure necessarie a garantire che le
spese del personale, al lordo degli oneri riflessi a carico
delle amministrazioni e dell'IRAP, non superino per ciascuno
degli anni 2007, 2008 e 2009 il corrispondente ammontare
dell'anno 2004 diminuito dell'1,4 per cento".
Se ne deduce che la norma in parola ha escluso le aziende e
gli enti del Servizio sanitario nazionale da puntuali
vincoli assunzionali intesi in termini numerici (riferiti al
contingente di personale già in servizio), imponendo dolo
una riduzione della spesa complessiva prevista per tale voce
di bilancio, fatta eccezione per le aziende soggette a piani
di rientro in caso di dissesto finanziario, ipotesi
pacificamente non ricorrente nel caso di specie.
Tanto si desume, pianamente, dalla lettura dell’art. 1,
comma 98, della legge n. 311/2004 il quale prevedeva che "ai
fini del concorso delle autonomie regionali e locali al
rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, con decreti
del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare previo
accordo tra Governo, regioni e autonomie locali da
concludere in sede di Conferenza unificata, per le
amministrazioni regionali, gli enti locali …..e gli enti del
Servizio sanitario nazionale, sono fissati criteri e limiti
per le assunzioni per il triennio 2005-2007, previa
attivazione delle procedure di mobilità e fatte salve le
assunzioni del personale infermieristico del Servizio
sanitario nazionale".
In attuazione di quanto previsto da tale norma, veniva
emanato il D.P.C.M. del 15.02.2006, recante appunto criteri
e limiti alle assunzioni di personale da parte degli enti
del SSN.
VII. Successivamente il Legislatore, a far tempo dalla
citata l. n. 296/2006, ha sostituito tale regime
vincolistico con obiettivi quantitativi e complessivi di
riduzione della spesa per il personale, senza limiti di
carattere numerico.
Così l'art. 2, comma 71 della legge 23.12.2009 n. 191, ha
stabilito che "fermo restando quanto previsto
dall'articolo 1, comma 565, della legge 27.12.2006, n. 296,
e successive modificazioni, per il triennio 2007-2009, gli
enti del Servizio sanitaria nazionale concorrono alla
realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando,
anche nel triennio 2010-2012, misure necessarie a garantire
che le spese del personate, al lordo degli oneri riflessi a
carico delle amministrazioni e dell'imposta regionale sulle
attività produttive, non superino per ciascuno degli anni
2010, 2011 e 2012 il corrispondente ammontare dell'anno 2004
diminuito dell'1,4 per cento”.
Le disposizioni sopra menzionate sono state in seguito
estese, dapprima agli anni 2013 e 2014 (v. art. 17, comma 3
del decreto legge n. 98/2011), poi agli anni 2013, 2014 e
2015 (dall’art. 15, comma 21 del d.l. n. 95/2012) ed infine
al periodo dal 2013 al 2020 (dall’art. 1, comma 584, lett.
a), della legge finanziaria per il 2015).
VIII.
Se ne deve concludere che, alla luce della disciplina sopra
riportata, non possono esservi dubbi che le aziende o gli
enti del SSN siano esclusi dai limiti assunzionali, con la
conseguenza che non è applicabile nei loro confronti il
regime di proroga delle graduatorie invocato dai ricorrenti.
In tal senso si è già condivisibilmente espressa parte della
giurisprudenza
(cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 27.02.2014 n. 227;
id., 03.09.2014, n. 961; TAR Umbria, 19.11.2015 n. 531)
ritenendo rimossi i limiti alle assunzioni in precedenza
inseriti dall'art. 1, comma 98, della legge n. 311 del 2004,
mantenendo solamente l'obbligo di riduzione della spesa
complessiva del personale, con la conseguenza che a tali
enti non si applica la normativa speciale prevedente la
proroga dell'efficacia triennale delle graduatorie dei
pubblici concorsi, in quanto è proprio l'esistenza di
limitazioni alle assunzioni che giustifica la necessità di
ricorrere allo scorrimento della graduatoria
(in termini Cons. Stato, Sez. V, 10.09.2012, n. 4770).
E d’altro canto le prese di posizione del Consiglio
regionale della Toscana e dell’Assessore al diritto alla
salute, richiamate in memoria dai ricorrenti, e tese a
richiedere il ripristino delle graduatorie dichiarate
decadute, non possono che rafforzare tali conclusioni dal
momento che di esse non vi sarebbe alcuna necessità se vi
fosse un assetto normativo che ne statuisse già la
perdurante vigenza.
IX. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano
l’atto impugnato sotto il profilo della contraddittorietà
giacché contrastante con la prassi fin ad allora seguita di
attingere dalle graduatorie di precedenti procedure
concorsuali siccome ritenute ancora vigenti.
La tesi non può essere seguita.
E’ evidente infatti che tale contraddittorietà sarebbe
ravvisabile solo se si fosse in presenza di un provvedimento
a contenuto discrezionale. Diversamente, nel caso di specie,
l’emanazione dell’atto qui avversato non è che il
precipitato, sul piano amministrativo, di una normativa che,
come sopra diffusamente esposto, esclude la validità delle
graduatorie per il personale delle aziende sanitarie, al di
là dei limiti temporali generali fissati dall’art. 35, co.
5-ter, del d.lgs. n. 165/2001, e dunque preclude
l’utilizzazione di tali graduatorie ai fini del loro
scorrimento seguendone che, per un verso, diviene
irrilevante il diverso atteggiarsi sul punto dei soppressi
ESTAV e, per altro verso, l’amministrazione resistente non
avrebbe potuto adottare un atto di diverso contenuto.
Ciò vale ad elidere anche l’affermato vizio di eccesso di
potere per disparità di trattamento atteso che,
pacificamente, in relazione ad atti a contenuto vincolato,
quali quelli in discussione, rileva esclusivamente la
relativa conformità alla normativa applicabile e non sono
configurabili vizi tipici dell'attività discrezionale
(tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 13.03.2013 n. 1514). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Nozione di rifiuto e limiti alla
qualificazione in sottoprodotto - Rigorosi presupposti di
legge - Onere probatorio - Fattispecie: segatura e
truciolati di legno - Artt. 183, 184-bis d.lgs. n. 152/2006
- Giurisprudenza.
Ai sensi
dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, è
rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si
disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo dì disfarsi;
esattamente quel che accade con gli scarti di produzione,
salva la possibilità della diversa qualificazione in
sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152 del
2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge.
Sicché, in genere la segatura ed i truciolati sono da
considerarsi scarti delle lavorazioni del legno e hanno la
natura di rifiuto, salvi i casi in cui il citato onere
probatorio in senso contrario (Cass., Sez. 3, n. 51422 del
06/11/2014, D'Itri; Sez. 3, n. 37208 del 09/04/2013,
Cartolano; Sez. 3, n. 48809 del 28/11/2012, Solimeno; Sez.
3, n. 18743 del 19/10/2011, Rosati). A prescindere dal "valore"
economico o commerciale di questo, specie nell'ottica di chi
in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di
natura privatistica.
RIFIUTI - Cessione onerosa di rifiuti -
Insufficiente per escludere la natura di rifiuto -
Ininfluenza del "valore" economico o commerciale del
rifiuto.
La circostanza che un rifiuto sia ceduto ad altra società
dietro pagamento di denaro regolarmente fatturato non
risulta sufficiente per escludere la natura di rifiuto, che,
una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto
di cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo
di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi
(assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell'art.
184-bis d.lgs. n. 152/2006), non vien certo perduta in
ragione di un mero accordo con terzi ostensibile
all'autorità (oppure creato proprio a tal fine), come se il
negozio giuridico riguardasse l'oggetto stesso della
produzione e non -come in effetti- proprio un rifiuto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2017 n. 5442
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Responsabilità del committente,
costruttore, direttore dei lavori, dirigente o responsabile
del competente ufficio comunale - Individuazione - Concorso
nel reato urbanistico - Extraneus - Profilo del dolo o della
colpa - Profilo oggettivo e soggettivo - Artt. 29, 44, lett.
c, d.P.R. 380/2001 e 142, 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati urbanistici, è indubbio che nel reato "proprio"
di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 -i cui autori sono
individuati, dall'art. 29 d.P.R. cit., nel committente, nel
costruttore e nel direttore dei lavori- possa concorrere l'extraneus.
Anche se, il precetto penale è diretto non a chiunque, ma
soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia,
rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto;
tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti
diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art.
29, compreso il sindaco che con la concessione edilizia
illegittima abbia posto in essere la condizione operativa
della violazione di quegli obblighi (cfr., ex multis,
Sez. 3 n. 996 del 15/10/1988).
È necessario, però, che vengano accertate le condizioni,
sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere
configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare
che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione
dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole
(sotto il profilo del dolo o della colpa).
Reati edilizi - Dirigente o del
responsabile UTC - Obbligo di vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia - Emanazione di provvedimenti
interdittivi e cautelari - Obbligo di impedire l'evento
dannoso - Artt. 27 e 31 d.P.R. 380/2001.
In materia edilizia, l'art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 pone a
carico del dirigente o del responsabile del competente
ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di
intervenire ogni qualvolta venga accertato l'inizio o
l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità
della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di
provvedimenti interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31
d.P.R. n. 380 del 2001).
Egli è quindi certamente titolare di una posizione di
garanzia, che gli impone di attivarsi per impedire l'evento
dannoso (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2017 n. 5439 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Svolgimento di attività in
assenza di autorizzazioni - DIRITTO PROCESSUALE PENALE -
Principio di retroattività della legge più favorevole e
successione di leggi amministrative - Applicazione -
Esclusione - Divieti esistenti ai momento del fatto.
Il principio di retroattività della legge più favorevole non
trova applicazione in riferimento alla successione di leggi
amministrative che abbiamo a regolare le procedure per lo
svolgimento di attività, il cui carattere criminoso dipenda
dall'assenza di autorizzazioni (tra le altre, Sez. 3, n.
25035 del 25/05/2011, dep. 22/06/2011, Pasinetti e altro;
Sez. 3, n. 18193 del 12/03/2002, dep. 14/05/2002, Pata); in
detta ipotesi rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale
del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo
controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti
esistenti ai momento del fatto.
Sicché, a fronte di tale principio è irrilevante l'assenza
di motivazione della sentenza impugnata posto che
l'accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito
favorevole in sede di giudizio di rinvio (Cass., Sez. 2, n.
10173 del 16/12/2014, dep. 11/03/2015, Bianchetti).
Interventi edilizi in zona
paesaggisticamente vincolata - Difformità totale o parziale
o in variazione essenziale - Qualificazione giuridica e
individuazione della sanzione penale applicabile - Artt. 31,
32, 34 e 44, lett. c), del d. P.R. n. 380/2001.
In presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente
vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e
dell'individuazione della sanzione penale applicabile, è
indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in
difformità totale o parziale ovvero in variazione
essenziale, in quanto l'art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380
del 2001 prevede espressamente che tutti gli interventi
realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali
(Cass. Sez. 3, n. 37169 del 06/05/2014, dep. 05/09/2014,
Longo) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2017 n. 5435
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APPALTI:
Contratti di cui sia parte una Pubblica
Amministrazione (anche se agente "iure privatorum") - Forma
scritta "ad substantiam" - Prestazioni ulteriori o diverse
rispetto a quelle espressamente elencate nel contratto
scritto - Necessità di un nuovo impegno di spesa e autonomo
contratto.
I contratti di cui sia parte una Pubblica Amministrazione
(anche se agente "iure privatorum") richiedono la
forma scritta "ad substantiam", dovendo il documento
negoziale consentire, perciò, l'esatta individuazione del
contenuto del programma obbligatorio e contenere le
indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da
svolgersi da ciascuna delle parti.
Allorché l'amministrazione richieda prestazioni ulteriori e
diverse rispetto a quelle espressamente elencate nel
contratto scritto, è così necessario un nuovo impegno di
spesa ed un autonomo contratto, con cui si stabiliscano
l'oggetto di tali prestazioni e i rispettivi compensi
spettanti al privato, senza che a tal fine sia sufficiente
fa riferimento a manifestazioni di volontà implicita o a
comportamenti puramente attuativi (Cass. Sez. 1, Sentenza n.
12316 del 15/06/2015; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 26826 del
14/12/2006; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21138 del 04/11/2004).
Assenza di valida ed impegnativa
obbligazione dell'ente locale - Il rapporto obbligatorio
insorge direttamente con l'amministratore o con il
funzionario - Difetto del requisito della sussidiarietà -
Azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente -
Limiti.
Agli effetti dell'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989
(convertito, con modificazioni nella 1. n. 144 del 1989),
quando manchi una valida ed impegnativa obbligazione
dell'ente locale, il rapporto obbligatorio insorge
direttamente con l'amministratore o con il funzionario che
abbia consentito la prestazione, sicché, per difetto del
requisito della sussidiarietà, resta esclusa l'azione di
indebito arricchimento nei confronti dell'ente (salvo
esplicito riconoscimento del debito fuori bilancio con
apposita deliberazione dell'organo competente) (Cass. Sez.
1, Sentenza n. 24860 del 09/12/2015; Cass. Sez. 1, Sentenza
n.18567 del 21/09/2015; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24478 del
30/10/2013) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 02.02.2017 n. 2809 -
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EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9, lett. g), legge n. 10 del 1977 ha previsto la gratuità
della concessione edilizia limitatamente alle opere
realizzate in attuazione di norme o di provvedimenti emanati
a seguito di pubbliche calamità e così l’art. 56, comma 6,
legge n. 219 del 1981, che con specifico riferimento al
terremoto del novembre 1980, ha disposto che per le opere
eseguite in dipendenza del sisma nei Comuni di cui all’art.
1 non si applicano le disposizioni previste dall’art. 3
legge n. 10 del 1977.
Dette disposizioni, costituendo eccezione alla regola
generale della onerosità della concessione edilizia, sono di
stretta e rigorosa interpretazione e l’inciso secondo cui
l’esenzione è applicabile per le opere eseguite “in
dipendenza del sisma” evidenzia la necessità di un nesso
causale rigoroso ed esclusivo, nel senso che le opere da
realizzarsi devono trovare giustificazione nell’azione
rovinosa del terremoto.
---------------
Le opere esenti dal contributo previsto dal citato art. 3
della legge n. 10/1977 sono soltanto quelle di riparazione o
ricostruzione di preesistenti superfici danneggiate o
distrutte dal terremoto e non anche quelle relative a nuovi
interventi che non si siano resi necessari per conseguire
l’adeguamento abitativo.
---------------
3. Con il secondo motivo di censura l’appellante lamenta,
nel merito, la violazione dell’art. 9 della legge n.
122/1989 e dell’art. 3 e segg. della legge n. 10/1977.
Il Comune sostiene che il TAR avrebbe errato nel ritenere
che l’Ente non avrebbe correttamente determinato gli oneri
urbanistici, escludendo dal computo, a termini della legge
n. 122/1989, il secondo piano interrato destinato a
parcheggi pertinenziali delle unità abitative.
3b. Al riguardo, giova premettere che nell’originario
ricorso il sig. Vi.Sa. sosteneva che essendo la
ricostruzione avvenuta a seguito del sisma, alle opere
realizzate, ai sensi dell’art. 56 della legge n. 219/1981
(ora art. 49 T.U. n. 76/1990) non si dovevano applicare le
disposizioni di cui all’art. 3 della legge n. 10/1977 quanto
ai costi di costruzione, ivi compresa la parte eccedente la
mera ricostruzione, assentita in relazione al piano di
recupero adottato dal Comune ai sensi dell’art. 28 della
stessa legge n. 219/1981.
Tale pretesa, però, è stata correttamente disattesa dal TAR,
nel presupposto che l’art. 9, lett. g), legge n. 10 del 1977
ha previsto la gratuità della concessione edilizia
limitatamente alle opere realizzate in attuazione di norme o
di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità e
così l’art. 56, comma 6, legge n. 219 del 1981, che con
specifico riferimento al terremoto del novembre 1980, ha
disposto che per le opere eseguite in dipendenza del sisma
nei Comuni di cui all’art. 1 non si applicano le
disposizioni previste dall’art. 3 legge n. 10 del 1977.
Dette disposizioni, costituendo eccezione alla regola
generale della onerosità della concessione edilizia, sono di
stretta e rigorosa interpretazione e l’inciso secondo cui
l’esenzione è applicabile per le opere eseguite “in
dipendenza del sisma” evidenzia la necessità di un nesso
causale rigoroso ed esclusivo, nel senso che le opere da
realizzarsi devono trovare giustificazione nell’azione
rovinosa del terremoto.
L’art. 49, comma 6, del d.lgs. 30.03.1990, n. 76, ha
ribadito, poi, che non sono dovuti i contributi per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione per le opere eseguite
in dipendenza degli eventi sismici del 1980/1981 (anche a
norma dell’art. 9, lett. g), della legge n. 10 del 1977),
anche quando la ristrutturazione o ricostruzione
dell’edificio comporti la modifica strutturale dello stesso,
ma nel dovuto rispetto del piano di recupero approvato in
dipendenza del sisma e se tale modifica sia in toto
ricollegabile alla calamità naturale.
Nel caso in trattazione, invece, l’immobile del quale è
stata chiesta la ricostruzione, seppure danneggiato dal
sisma, è stato edificato con volumi maggiori di quello
demolito, con un intervento non ricollegabile pienamente
alla calamità naturale e il comma 2 dell’art. 48 del d.lgs.
30.03.1990, n. 76, dispone che “sono esclusi dai benefici
previsti dal presente testo unico gli immobili, quand’anche
inclusi nei piani di recupero, la cui ristrutturazione o
ricostruzione, in tutto o in parte, non sia ricollegabile
con l’evento sismico”.
Come evidenziato dal TAR è da condividere, allora, che le
opere esenti dal contributo previsto dal citato art. 3 della
legge n. 10/1977 sono soltanto quelle di riparazione o
ricostruzione di preesistenti superfici danneggiate o
distrutte dal terremoto e non anche quelle relative a nuovi
interventi che non si siano resi necessari per conseguire
l’adeguamento abitativo (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.02.2017 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposto fondamentale affinché possa operare
la speciale deroga del pagamento degli oneri urbanistici ex
art. 9 della legge 122/1989 è, quindi, che i parcheggi siano
realizzati a servizio di fabbricati preesistenti e non di
nuovi fabbricati.
---------------
4. Il Comune, però, contesta la tesi del TAR che la deroga
al pagamento degli oneri urbanistici prevista dall’art. 9
della legge n. 122/1989, sia applicabile al piano
dell’edificio adibito a parcheggi, sostenendo che si tratta
di una norma speciale, prevista unicamente in favore dei
parcheggi realizzati a servizio di fabbricati preesistenti e
non di nuovi fabbricati.
4b. Orbene, l’art. 9 della legge n. 122/1989, al primo
comma, stabilisce che “i proprietari di immobili possono
realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali
siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare
a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in
deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti”.
Il secondo comma dell’articolo precisa che “l’esecuzione
delle opere e degli interventi previsti dal comma 1 è
soggetta ad autorizzazione gratuita”.
Presupposto fondamentale affinché possa operare la speciale
deroga del pagamento degli oneri urbanistici ex art. 9 della
legge 122/1989 è, quindi, che i parcheggi siano realizzati a
servizio di fabbricati preesistenti e non di nuovi
fabbricati, come nel caso qui in trattazione, atteso che
l’edificio preesistente al sisma era costituito da un piano
cantinato parziale, un piano terra, un piano ammezzato
parziale e da piani abitativi in elevazione, mentre
l’edificio realizzato dopo il sisma, risulta costituito da
un secondo piano interrato ad uso autorimessa pertinenziale,
da un primo piano interrato destinato a sottonegozi, da un
piano terra destinato a negozi, da un piano ammezzato
destinato ad uffici, da piani abitativi in elevazione e da
un sottotetto e copertura.
L’esenzione contributiva prevista dall’art. 9 legge 122/1989
non può, pertanto, operare rispetto al secondo piano
interrato, destinato a parcheggi pertinenziali delle unità
abitative ed uffici soprastanti (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.02.2017 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Consolidata giurisprudenza esclude la necessità
della partecipazione nei procedimenti di contrasto
all’abusivismo edilizio, ovvero, sotto diversa angolazione
prospettica, nega al vizio de quo carattere invalidante.
In ottica più generale, inoltre, il diritto vivente richiede
che il privato, il quale lamenti il mancato coinvolgimento
nell’azione amministrativa, indichi con sufficiente
precisione quegli elementi, specie di fatto, che avrebbe
potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato chiamato
a partecipare: solo in tal modo, infatti, la censura de qua
si rivela espressione di un’istanza di tutela sostanziale ed
individuale (recte “soggettiva”) e non una mera critica di
una formale e generale (recte “oggettiva”) disfunzione
amministrativa.
---------------
Quanto al merito, il Collegio, sulla scorta della natura
vincolata dell’ordinanza di demolizione gravata, ritiene la
superfluità della comunicazione di avvio.
Si premette che oramai consolidata giurisprudenza esclude la
necessità della partecipazione nei procedimenti di contrasto
all’abusivismo edilizio (ex multis C.d.S., IV,
26.08.2014, n. 4279), ovvero, sotto diversa angolazione
prospettica, nega al vizio de quo carattere
invalidante; in ottica più generale, inoltre, il diritto
vivente richiede che il privato, il quale lamenti il mancato
coinvolgimento nell’azione amministrativa, indichi con
sufficiente precisione quegli elementi, specie di fatto, che
avrebbe potuto additare ai pubblici poteri ove fosse stato
chiamato a partecipare: solo in tal modo, infatti, la
censura de qua si rivela espressione di un’istanza di tutela
sostanziale ed individuale (recte “soggettiva”)
e non una mera critica di una formale e generale (recte
“oggettiva”) disfunzione amministrativa.
Nello specifico della vicenda per cui è causa, a tenore
delle previsioni del locale PRG la zona ove insiste il
fabbricato è soggetta a radicale vincolo inaedificandi;
di converso, le opere in questione concretano con ogni
evidenza un intervento di nuova edificazione, giacché non si
limitano all’elevazione di muri di contenimento, peraltro di
rilevanti dimensioni, ma si sostanziano nella realizzazione
di volumi coperti.
Alla luce di ciò, il Comune non poteva che ordinare la
demolizione dell’opus, non disponendo di uno spazio
di discrezionalità sotto alcun rispetto (an, quid,
quomodo, quando), ma versando, al contrario, nella
condizione di dover solo riscontrare nella realtà materiale
la ricorrenza dei presupposti (edificazione in area
inedificabile) al cui positivo riscontro la legge riconnette
l’esercizio di un potere normativamente in toto conformato.
La natura interamente vincolata del potere nella specie
speso rende, pertanto, applicabile il richiamato art.
21-octies, comma 2, l. 241/1990: l’Amministrazione, mediante
la produzione del verbale del sopralluogo nel corso del
quale sono state rilevate le opere abusive e il preciso
riferimento alle prescrizioni urbanistiche vigenti
nell’area, ha assolto all’onere processuale delineato dalla
disposizione in commento, dimostrando che il “contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Né, per vero, valgono in contrario senso le considerazioni
formulate in primo grado dalla sig.ra Fi.: in disparte
la, peraltro assorbente, considerazione circa la mancata
riproposizione in appello delle medesime, con effetto di
rinuncia ex lege (art. 101, comma 2, c.p.a.), non vi
possono essere dubbi circa il “regime giuridico cui
restano soggette le opere in contestazione”,
inevitabilmente destinate alla demolizione in quanto la loro
stessa esistenza è, a quanto consta, incompatibile con le
vigenti prescrizioni urbanistiche (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 02.02.2017 n. 445 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RUMORE - INQUINAMENTO ACUSTICO - Accertamento
della intollerabilità delle immissioni rumorose - Criterio
valutabile caso per caso o criterio comparativo - Situazione
ambientale - Poteri del giudice di merito - Accorgimenti
idonei o tecnici per ridurre le immissioni - Artt. 844, 2043
e 1226 c.c. - Giurisprudenza.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è,
invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione
ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le
caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e
non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla
fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi
i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio
comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c.,
diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei
limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla
sensibilità dell'uomo medio e, dall'altro, alla situazione
locale.
Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto
il superamento della normale tollerabilità e individuare gli
accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito
della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di
fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi
alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame
l'intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle
emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di
sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del
05/08/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010;
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Livello
di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c. -
Accertamento e mezzi di prova esperibili - Accertamenti di
natura tecnica e prova testimoniale.
I mezzi di prova esperibili per accertare il livello di
normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c.
costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica,
che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza
tecnica d'ufficio con funzione "percipiente", in
quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per
mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone,
l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas,
nonché il loro grado di sopportabilità per le persone.
Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane
ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la
diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli
espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai
testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981;
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE -
Immissioni sonore - Modalità di rilevamento e intensità dei
rumori - Protezione della salute pubblica - Art. 659 c.p.
(Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) art.
674 c.p. (Getto pericoloso di cose).
In tema di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con
riguardo alle modalità di rilevamento o all'intensità dei
rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità
di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e
la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli
applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844 c.c., e
non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati
proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina
dell'art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a
cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo
prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle
stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass.
Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 2319 del 01/02/2011; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n.
5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del
17/01/2011).
Sicché, i criteri dettati dal d.m. 16.03.1998 attengono, al
superamento dei valori limite differenziali di immissione di
rumore nell'esercizio o nell'impiego di sorgente di
emissioni sonore, di cui all'art. 6, comma 2, della legge
26.10.1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute
pubblica mediante predisposizione di apposito illecito
amministrativo (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28386 del
22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).
RISARCIMENTO DEL DANNO - Risarcimento
del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni
illecite - Danno biologico.
Il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite
è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un
danno biologico documentato quando sia riferibile alla
lesione del diritto al normale svolgimento della vita
familiare all'interno della propria abitazione e del diritto
alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di
vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente
garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata
dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo,
norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi
a seguito della cd. "comunitarizzazione" della Cedu
(Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez.
3, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014) (Corte
di cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.01.2017 n. 1606
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CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
CONDOMINIO - Utilizzo della cosa comune - La
sostituzione di un muro di confine comune con un cancello
non viola ex se l'art. 1102 c.c.
In tema di comunione, vale in principio, per cui ciascun
comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune
un'utilità maggiore e più intensa di quella tratta
eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché
non ne venga alterata la destinazione o compromesso il
diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso
sconfini nell'esercizio di una vera e propria servitù.
Pertanto, la sostituzione di un muro di confine comune con
un cancello non viola ex se l'art. 1102 c.c.,
trattandosi soltanto di utilizzo più intenso della cosa
comune, secondo la sua naturale destinazione (delimitazione
perimetrale e protezione/isolamento dell'esterno delle
proprietà), che ne consente il pari uso (cfr. Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 22341 del 21/10/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n.
4900 del 01/04/2003).
L'accertare se gli atti e le opere dei singoli condomini,
miranti ad un'intensificazione del proprio godimento della
cosa comune, siano conformi o meno alla destinazione della
cosa comune, in considerazione dei limiti imposti dall'art.
1102 c.c., è compito del giudice del merito, incensurabile
in sede di legittimità se congruamente motivato (Corte
di cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.01.2017 n. 1606
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INCARICHI PROFESSIONALI: Parcelle,
liti risolte in camera. Procedimento semplificato se si
tratta solo del quantum. AVVOCATI&COMPENSI/ Gli orientamenti
più recenti della Cassazione e dei Tar.
L'ordinamento giuridico generale e speciale stabilisce,
accanto all'obbligo del mandante/committente di retribuire
il proprio difensore, anche il diritto di opporsi alla
quantificazione del relativo compenso.
Si applicherà, pertanto, il procedimento camerale quando
l'opposizione a decreto ingiuntivo concerna soltanto il
quantum della pretesa dell'avvocato.
È quanto stabilito dalla II Sez. civile della Corte
di Cassazione, con la
sentenza
18.01.2017 n. 1212.
Nella stessa sentenza i giudici di piazza Cavour hanno
aggiunto anche che, in ossequio anche ad un ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale, la speciale
procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni
giudiziali degli avvocati in materia civile, regolata dagli
artt. 28 e ss. della legge 13.06.1942, n. 794, non sia
applicabile quando la controversia riguardi non soltanto la
semplice determinazione della misura del corrispettivo
spettante al professionista, bensì anche altri oggetti di
accertamento e decisione, quali i presupposti stessi del
diritto al compenso, i limiti del mandato, l'effettiva
esecuzione delle prestazioni e la sussistenza di cause
estintive o limitative della pretesa azionata, poiché il
procedimento ordinario è il solo previsto e consentito per
la definizione di tali questioni, sicché, in questo caso,
l'intero giudizio deve concludersi con un provvedimento che
abbia forma e sostanza di sentenza, impugnabile con
l'appello (tra le più recenti, Cass. sez. II, sentenza n.
21554 del 13/10/2014).
Inoltre, per la liquidazione del compenso per l'esercizio
della professione forense, quello che è determinante per
l'accoglimento della a domanda dell'avvocato è la
documentazione, ovvero, la prova non equivoca
dell'effettività della prestazione professionale,
indipendentemente dalla correttezza della denominazione di
tale attività indicata nella parcella.
QUALE TARIFFA APPLICABILE
Per quanto, poi, riguarda l'individuazione della tariffa
applicabile all'attività professionale svolta dall'avvocato,
i giudici della Cassazione civile (sez. III, 20/10/2016, n.
21256) hanno affermato che dovrà farsi riferimento al
momento in cui si considera conclusa la prestazione del
legale. E tale momento coincide con la sentenza di primo
grado.
Quindi, i compensi professionali, regolati dal dm n.
140/2012, andranno ad applicarsi in tutti quei casi in cui
la liquidazione giudiziale sia intervenuta dopo l'entrata in
vigore del decreto, a condizione che in tale data la
prestazione professionale non sia ancora stata completata.
Ed, inoltre, qualora, dunque, il grado cui devono essere
liquidate le spese si sia concluso quando erano ancora
vigenti le tariffe professionali di cui al dm n. 127 del
2004, è quest'ultimo che governa la liquidazione. Si
osserva, infatti, che «il giudizio di primo grado sfocia in
una sentenza idonea a concludere ogni accertamento
processuale passando in giudicato, essendo sotto il profilo
del rito una mera eventualità l'impugnazione della
pronuncia».
Tale lettura offerta dagli Ermellini discende dai principi
generali della successione delle leggi nel tempo.
IMPUGNAZIONE TRA APPELLO E CASSAZIONE
Sempre in tema di compensi per le prestazioni giudiziali
degli avvocati, gli stessi giudici della Cassazione, nel
2016 (Cassazione civile, sez. VI, 12/12/2016, n. 25480)
hanno osservato come il provvedimento con cui il giudice
adito, a conclusione di un processo iniziato ai sensi degli
artt. 28 e seguenti della legge n. 794 del 1942, non si
limiti a decidere sulla controversia tra l'avvocato ed il
cliente circa la determinazione della misura degli onorari,
ma pronunci anche sui presupposti del diritto al compenso,
relativi all'esistenza e alla persistenza del rapporto
obbligatorio, può essere impugnato con il solo mezzo
dell'appello e non invece con il ricorso per cassazione
trattandosi di questioni di merito, la cui cognizione non
può essere sottratta al doppio grado di giurisdizione.
Nella sentenza del 2016, sulla base degli atti difensivi,
risultava che il convenuto non si fosse limitato a far
valere in giudizio questioni attinenti le sole tariffe
forensi, ma aveva contestato anche l'esistenza del rapporto
obbligatorio.
Inoltre, qualora, dunque, il grado cui devono essere
liquidate le spese si sia concluso quando erano ancora
vigenti le tariffe professionali di cui al dm n. 127 del
2004, è quest'ultimo che governa la liquidazione.
CHI È OBBLIGATO A PAGARE L'AVVOCATO?
Restando sempre in tema di obbligazioni, la stessa
Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 30/09/2016, n.
19416) ha avuto modo di osservare che obbligato a
corrispondere il compenso professionale all'avvocato per
l'opera professionale richiesta non è necessariamente colui
che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere
colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio,
anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto
nell'interesse di un terzo.
E invero, hanno sottolineato i giudici, potrebbe anche
capitare che una parte, la quale debba essere rappresentata
e difesa in un giudizio destinato a svolgersi in una città
diversa da quella della propria residenza, non conoscendo
legali di quel foro, si rivolga a un professionista della
propria città, e che sia poi quest'ultimo a metterla in
corrispondenza con un legale del foro ove deve aver luogo il
processo, al quale la parte conferisce il mandato ad litem.
Pertanto sarà possibile che la parte abbia inteso
intrattenere un rapporto di clientela unicamente con il
professionista che già conosceva, e abbia conferito al
legale dell'altro foro soltanto la procura tecnicamente
necessaria all'espletamento della rappresentanza
giudiziaria: sicché il mandato di patrocinio in favore di
quest'ultimo non proviene dalla parte medesima, bensì dal
primo professionista, che ha individuato e contattato il
legale del foro della causa e sul quale graverà perciò
l'obbligo di corrispondere il compenso.
È, altresì, vero che potrebbe anche verificarsi che la parte
abbia inteso direttamente conferire ad entrambi i legali il
mandato di patrocinio (oltre che la procura ad litem). Ed è
evidente che, in siffatta ipotesi, secondo i giudici della
Cassazione, è appunto la parte ad essere tenuta al pagamento
del compenso professionale, e non invece il primo legale.
L'accertare, di volta in volta, in quale di tali diverse
situazioni si verta integra dunque, con ogni evidenza, una
questione di fatto, che come tale è rimessa alla valutazione
del giudice di merito e, se decisa in base ad adeguata e
logica motivazione, si sottrae ad ogni possibile vaglio in
sede di legittimità.
QUANDO SARÀ DOVUTA L'IVA
Restando in tema di quantum, in rapporto anche a situazioni
di evidente natura obbligatoria, il Tar (Napoli, (Campania),
sez. VII, 01/09/2016, n. 4145) ha avuto modo di affermare che
l'Iva non è dovuta al legale che difende sé stesso in
giudizio, poiché è un'ipotesi di autoconsumo fuori campo Iva
ex art. 3, comma 3, dpr n. 672 del 1973: non può ovviamente
invocare, come il legale distrattario (cui invece spetta),
un diritto di rivalsa contro il cliente. In ogni caso, in
quanto titolare di partita Iva, ha diritto alla detrazione
di tale imposta.
Secondo la giustizia amministrativa, pertanto, il difensore
dovrà emettere fattura con addebito anche dell'Iva solo nei
confronti del proprio cliente, atteso che l'obbligo di
adempimento del relativo onere per il soggetto soccombente
trova titolo esclusivamente nella statuizione di condanna
contenuta nella sentenza, anche in assenza di espressa
pronuncia in ordine al tributo.
Rileva, tuttavia, che nei
casi in cui il cliente vincitore, destinatario della
fattura, sia soggetto passivo d'imposta e la vertenza
inerisca all'esercizio della propria attività di impresa,
arte o professione, egli ha titolo di recuperare l'imposta,
della quale subisce la rivalsa non solo giuridica ma anche
economica, in sede di esercizio del diritto di detrazione
previsto dall'art. 19 del richiamato dpr n. 633 del 1972
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
prg non guarda indietro. Valida la concessione rilasciata
prima delle modifiche. Tar Campania:
il titolo inizia ad avere effetti al di là della
comunicazione all'interessato.
Quel palazzo s'ha da fare anche se oggi l'area risulta non
edificabile. Possibile? Sì, perché nel momento in cui deve
ritenersi rilasciata la concessione edilizia non erano
ancora intervenute le modifiche alle norme tecniche di
attuazione del piano regolatore generale (prg) che hanno
posto il vincolo nella zona.
È quanto emerge dalla
sentenza
13.01.2017 n. 325, pubblicata dalla
II Sez. del TAR Campania-Napoli, che accoglie il ricorso
del proprietario che dal '93 stava cercando di costruire un
fabbricato in un popoloso centro alle porte di Napoli.
Annullato il provvedimento del comune che nega la
concessione dopo il via libera della commissione edilizia e
il placet dello stesso commissario (che in quel momento
regge l'amministrazione). Il rifiuto viene motivato sul
rilievo che l'area risulta di interesse archeologico e che
l'edificabilità è divenuta nelle more incompatibile con le
parziali modifiche intervenute al prg. Ma nel frattempo
l'interessato ha già versato gli importi al comune relativi
al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione, come
richiesto dallo stesso ente locale.
E la Soprintendenza non si è opposta alla realizzazione
delle opere. Insomma: il procedimento per il rilascio del
titolo edilizio deve ritenersi già concluso al momento di
approvazione della disciplina urbanistica sopravvenuta,
anche se l'interessato non ha ritirato il titolo. Il diritto
alla trasparenza delle amministrazioni è un terreno di forte
scontro fra cittadini e imprese, da una parte, e
istituzioni, dall'altra.
Entro un mese, per esempio, il comune deve pubblicare sul
suo sito web atti e documenti che giustificano la modifica
delle previsioni degli strumenti urbanistici se dalle tavole
grafiche messe in rete finora risulta che lo stato dei
luoghi di una strada non corrisponde al piano regolatore
generale e alla successiva variante approvata dal consiglio
comunale. E ciò grazie al decreto «trasparenza»
invocato dall'azienda, cui evidentemente sta a cuore il
tracciato di quella via.
È quanto emerge dalla
sentenza
16.09.2015 n. 1253,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari. Accolto il
ricorso della società che invoca il decreto legge 33/2013
contro l'illegittimità del silenzio serbato
dall'amministrazione locale. La prima istanza chiede la
pubblicazione degli atti e delle informazioni necessari per
rendere trasparenti e coerenti fra loro le previsioni
normative e grafiche di strumenti urbanistici comunali
vigenti. La seconda scende nel particolare dello stato dei
luoghi della strada «incriminata». Ma
l'amministrazione non dà seguito all'una né all'altra.
I documenti richiesti, però, rientrano nel novero degli atti
dei quali il privato può chiedere l'ostensione. Pesa in
proposito l'articolo 5 del dl 33/2013, che dispone: «Se
il documento, l'informazione o il dato richiesti risultano
già pubblicati nel rispetto della normativa vigente,
l'amministrazione indica al richiedente il relativo
collegamento ipertestuale». Il comune deve dunque
mettere sul suo sito internet gli atti indicando il link al
privato.
E ancora: può bastare la Dia per realizzare l'insediamento
produttivo fuori dal centro abitato nella zona in cui
mancano i piani attuativi previsti dal piano regolatore
generale.
È quanto emerge dalla
sentenza
08.11.2016 n. 705,
pubblicata dalla prima sezione del TAR Abruzzo-L'Aquila. Sbaglia
infatti il comune a bloccare la realizzazione dell'impianto
di stoccaggio di rifiuti non pericolosi senza verificare se
dall'intervento scaturisce un organismo edilizio che per
volumi e superfici coperte supera i limiti indicati dal dpr
380/2001
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.02.2017). |
APPALTI: Anche
il subappaltatore ha accesso alla contabilità.
Fuori la contabilità. Anche il subappaltatore ha diritto a
ottenere dall'ente committente i documenti sullo stato
d'avanzamento dei lavori: l'accesso difensivo, infatti,
prevale sulle esigenze di riservatezza, anche di natura
commerciale; a patto che serva al richiedente per esercitare
in futuro un suo diritto: ad esempio, promuovere un'azione
giudiziaria.
E l'ostensione ben può riguardare documenti contabili quando
è attraverso atti di natura privatistica che
l'amministrazione persegue i suoi fini pubblicistici.
È quanto emerge dalla
sentenza
19.12.2016 n. 1913,
pubblicata dalla II Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Obbligo di trasparenza
Il ricorso della cooperativa è accolto perché in capo alla
subappaltatrice si configura una situazione di incertezza
sulla contabilizzazione negli stati di avanzamento dei
lavori che sono stati svolti dalla società. Sbaglia
l'amministrazione committente quando rifiuta l'accesso alle
carte sul rilievo che il solo legittimato a richiedere
l'ostensione sarebbe l'aggiudicatario, in quanto «unico
soggetto titolare del rapporto», sul piano «formale e
sostanziale».
L'interesse a tutelare i propri interessi giudici risulta
prioritario anche rispetto alle esigenze di segretezza
tecnica. E all'obbligo di trasparenza risultano soggetti
anche gli atti disciplinati dal diritto privato: nella
funzione di tutela degli interessi pubblici curata
dall'amministrazione non rientra soltanto l'attività
puramente autoritativa. All'ente committente non resta che
pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017).
---------------
MASSIMA
1.- Rilevato che la ‘C.M.P. - Co.Mu.Pu. s.c.r.l.’,
sub-appaltatrice in una gara indetta dall’Università del
Salento, formulava istanza di accesso agli atti “relativi
alla contabilizzazione del 14° S.A.L. e successivi’.
2.- Considerato che l’Amministrazione respingeva l’istanza
evidenziando che la Cooperativa non aveva un interesse
concreto e attuale all’estrazione degli atti in parola, da
un lato in quanto “unico soggetto titolare formale e
sostanziale del rapporto” contrattuale doveva reputarsi
il Consorzio Stabile Lavori, aggiudicatario della gara, e,
dall’altro, per aver la CMP interrotto i lavori in un
momento precedente a quello oggetto del 14° SAL e ss..
3.- Osservato che:
- ai sensi dell’art. 22, l. 07.08.1990, n.
241, nelle gare pubbliche l’impresa aggiudicataria di un
appalto ha diritto di accesso alle riserve apposte al
registro di contabilità e alle relative controdeduzioni del
direttore dei lavori, trattandosi di documentazione che,
ancorché privatistica, attiene a un ambito di rilevanza
pubblicistica atteso che l’Amministrazione, mediante
l’esecuzione delle opere, mira essenzialmente a perseguire
le proprie finalità istituzionali
(cfr. Consiglio di Stato, IV, 28.01.2016, n. 326); e ancora:
<<non solo l’attività puramente
autoritativa ma tutta l’attività funzionale alla cura di
interessi pubblici è sottoposta all’obbligo di trasparenza e
di conoscibilità da parte degli interessati, inclusi gli
atti disciplinati dal diritto privato
(Cons. St., A.P., 22.04.1999, n. 4) con la
conseguenza che “la documentazione richiesta, sebbene abbia
natura privatistica (contratto di appalto con la società DEC,
stati di avanzamento lavori, certificati e relativi mandati
di pagamento), rientra comunque nella nozione di documento
amministrativo [cfr. art. 22, comma 1, lett. d) della legge
n. 241 del 1990], in quanto sono stati adottati da un ente
pubblico che, come noto, persegue le proprie finalità
pubblicistiche anche attraverso strumenti di diritto privato
i cui atti sono soggetti all’accesso e, quindi, ostensibili
al privato (cfr.,
Cons. Stato, IV, 04.02.1997, n. 82)” (TAR Lazio Roma, III,
07.10.2013, n. 8639)>>
(TAR Emilia-Romagna Parma, I, 13.03.2015, n. 84).
- la posizione di sub-appaltatrice prima e di diretta
consorziata poi della CMP non determinava il venir meno
della sua soggettività giuridica ed economica, sicché la
stessa era certamente legittimata a esercitare, almeno in
linea generale e in una prospettiva defensionale, il diritto
di accesso.
2.- Ritenuto che, in concreto, l’interesse
all’accesso in parola dev’essere ricondotto alla situazione
di allegata incertezza circa il contenuto dei lavori
eseguiti dalla Cooperativa -situazione relativamente alla
quale non compete a questo Giudice, in fase di accesso,
esprimere alcun giudizio, dovendosi soltanto ‘registrare’,
ai fini dell’accoglimento del ricorso, l’obiettiva esistenza
della medesima: <<Com’è
noto, d’altronde, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel
prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del
comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti
all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale
prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle
antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica
o commerciale delle parti contro-interessate>> (Tar
Puglia Lecce, II, 02.07.2013, n. 1566).
3.- Ritenuto che:
- deve dunque dichiararsi l’illegittimità del rifiuto
opposto dall’Amministrazione intimata e, conseguentemente,
ordinarsi alla stessa di esibire i documenti oggetto
dell’istanza ostensiva datata 16.02.2016, con facoltà per la
ricorrente di estrarre copia di quelli di ritenuta utilità. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Decoro
architettonico, la Soprintendenza non è vincolante.
Capita spesso che i
condòmini abbiano interesse a intervenire sulle parti comuni
con modificazioni finalizzate ad un miglior godimento delle
proprie unità immobiliari. Come aprire o allargare porte,
realizzare nuove finestre, recuperare sottotetti o
realizzare abbaini.
Il problema che si pone è come e se lo possano fare e se
occorra una preventiva autorizzazione da parte
dell’assemblea del condominio.
È necessario innanzitutto verificare che il regolamento non
ponga limitazioni o divieti. Poi si passa al Codice civile:
l’articolo 1102 prevede che il comproprietario, e quindi
ogni condòmino, possa intervenire sulle parti comuni a
proprio vantaggio, senza alcuna autorizzazione assembleare,
per ottenere un più proficuo utilizzo delle parti comuni,
purché non alteri la destinazione del bene, non impedisca
agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il
loro diritto, e non crei particolari pregiudizi e (qui entra
inscena l’articolo 1120) non si tratti di innovazioni che
possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza
del fabbricato alterino il decoro architettonico o rendano
talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso od al
godimento anche di un solo condòmino.
Sulla congiunta applicazione dei limiti degli articoli 1102
e 1120 è stato estremamente chiaro il TRIBUNALE di Milano
-Sez. XIII civile-
con la
sentenza 30.11.2016 n. 13226,
che, richiamandosi ai principi già espressi dalla Corte di
Cassazione con la sentenza 2406/2004, ha chiarito quali
appunto siano i limiti all’intervento dei singoli condomini.
Per quanto riguarda la tutela della stabilità e della
sicurezza del fabbricato non si pongono particolari
questioni interpretative.
Per quanto riguarda la tutela del decoro architettonico,
posto che si tende a mantenere inalterate le linee generali
del fabbricato e le sue specifiche caratteristiche
architettoniche in modo da non recarne una alterazione
sensibile (Cassazione, sentenze 7398/2001 e 16098/2003), la
sentenza milanese ha inoltre chiarito che, in caso di
immobili vincolati, l’eventuale autorizzazione della
Soprintendenza non è vincolante per il giudizio estetico, ma
il giudice può liberamente valutarla al pari delle altre
prove.
L’articolo 1122 del Codice civile ha poi posto una
limitazione al libero intervento da parte del singolo
condòmino, stabilendo che non può eseguire opere che rechino
danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla
stabilità, alla sicurezza od al decoro architettonico
dell’edificio; e che debba in ogni caso darne preventiva
notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea.
La novità è che, mentre sulla base del solo articolo 1102
del Codice civile il singolo poteva agire senza alcuna
informativa o comunicazione preventiva, ora, prima di
eseguire le opere dovrà informare compiutamente
l’amministratore degli interventi che intende realizzare e
questi dovrà riferirne all’assemblea. L’assemblea a sua
volta, qualora ravvisi la sussistenza di un pregiudizio,
potrà intervenire deliberando un divieto o agendo
direttamente nei confronti del condòmino per il blocco o la
sospensione delle opere (articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: La
conformità dei manufatti alle norme urbanistico edilizie
costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità come si evince dagli
artt. 24, comma 3, del DPR n. 380/2001 e 35, comma 20, della
Legge n. 47/1985, in quanto, ancor prima della logica
giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere
utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non
conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale,
in potenziale contrasto con la tutela del fascio di
interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è
preordinata.
---------------
3.5 Nessun pregio, infine, può attribuirsi all’ultimo
rilievo con cui le parti ricorrenti in entrambi i giudizi
affermano che la destinazione d’uso pubblico del porticato
non costituisce vincolo d’inedificabilità assoluta, ma ha
natura pattizia: proprio per questo –cioè che il vincolo ha
carattere contrattuale e che giammai il Comune ha prestato
il proprio consenso a modificare l’originaria determinazione
negoziale– il vincolo esiste tutt’ora e va rispettato.
4.- Dalla testé riscontrata infondatezza dei proposti
gravami deriva, come si è innanzi anticipato, l’infondatezza
della domanda contenuta nel ricorso Rg. n. 2619/2015: la
conformità dei manufatti alle norme urbanistico edilizie
costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità come si evince dagli
artt. 24, comma 3, del DPR n. 380/2001 e 35, comma 20, della
Legge n. 47/1985, in quanto, ancor prima della logica
giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere
utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non
conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale,
in potenziale contrasto con la tutela del fascio di
interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è
preordinata (TAR Campania, Napoli, VIII, 07.04.2016, n. 1767
cit.).
Pertanto correttamente l’Ente, dopo aver provveduto a
legittimare dal punto di vista edilizio le opere di chiusura
di parte di porticato e di cambio di destinazione d’uso del
piano terra, ha rivisto la pregressa attività amministrativa
come culminata nell’adozione di titoli in sanatoria
rilasciati in violazione del vincolo di destinazione ad uso
pubblico dei porticati; a nulla rileva, poi, che la
realizzazione dei porticati sia stata scomputata dagli oneri
d’urbanizzazione, atteso che si trattava di aree destinate
alla collettività quali sono risultate quasi dimezzate
dall’avanzamento del fronte edificato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 17.10.2016 n. 4737 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO OCCASIONALE.
Rifiuti - Trasporto occasionale di propri rifiuti - Obbligo
di
iscrizione all'Albo - Sussistenza - Errore sul fatto -
Rilevanza
- Esclusione.
Artt. 212, 256, D.Lgs. n. 152/2006; artt. 5, 47, cod. pen..
In tema di trasporto di rifiuti, l'occasionalità
del trasporto
non è un requisito previsto dalla normativa per
escludere l'obbligo della comunicazione all'Albo Nazionale
dei Gestori Ambientali in quanto, secondo l'art.
212, comma 8, D.Lgs. n. 152/2006, in caso di trasporti
saltuari di rifiuti non pericolosi effettuato dal loro
produttore,
non eccedenti la quantità di 30 chilogrammi o
di 30 litri per volta, si è esonerati soltanto dalla
necessità
del formulario di cui all'art. 193: pertanto gli
imprenditori
che producano rifiuti e li trasportino, indipendentemente
dal fatto che il trasporto possa essere occasionale,
hanno l'obbligo di iscriversi all'Albo.
La mancata
conoscenza della necessità di iscrizione all'Albo non
integra
né errore di diritto, né errore sul fatto di cui all'art.
47 cod. pen. se fondati sulla personale convinzione che
il titolare dell'impresa abbia dell'applicabilità nei suoi
confronti di un obbligo penalmente presidiato, soprattutto
se tale convinzione derivi dal silenzio serbato sul
punto dal proprio consulente.
Nella specie, all'imputato era stato contestato di aver
esercitato
attività di raccolta e trasporto di macerie derivanti da
demolizioni edili senza essere iscritto all'Albo Nazionale
dei
Gestori Ambientali: il C., infatti, era stato controllato
dalla
Polizia Stradale di Magenta mentre trasportava, a bordo
del proprio autocarro, rifiuti provenienti da demolizione di
costruzioni edili, come da formulario esibito agli operanti.
Il prevenuto si era difeso affermando di non essere a
conoscenza
della necessità dell'iscrizione all'Albo perché non
informato
in tal senso dal proprio commercialista. Questa tesi,
non accolta nel giudizio di merito, è stata riproposta nel
ricorso per cassazione unitamente alla questione della
mancanza di illiceità della condotta contestata.
La Corte di Cassazione ha osservato, prima di tutto, che
era palesemente infondata la prospettazione difensiva
dell'errore
scusabile fondato sul non aver svolto l’attività in
forma professionale (l'imputato, infatti, aveva dedotto di
essere titolare di un’impresa, operante nel campo delle
ristrutturazioni
edili, che raramente aveva necessità di effettuare
il trasporto dei propri rifiuti tanto che ne aveva
effettuato,
in precedenza, uno solo, nel 2003).
Secondo la Corte, l'occasionalità del trasporto non è un
requisito
previsto dalla normativa per escludere l'obbligo della
comunicazione: infatti, il trasporto occasionale e saltuario
dei rifiuti non pericolosi effettuato dal loro produttore,
quando non ecceda la quantità di 30 chilogrammi o di 30
litri per volta, esime soltanto dalla necessità del
formulario
di cui all'art. 193 D.Lgs. n. 152/2006 (documento di cui,
peraltro,
l'imputato era invece in possesso al momento del
controllo).
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, l'art. 212,
comma 8, cit. dec. si applica proprio agli imprenditori che,
in virtù dell'attività svolta, producano rifiuti e li
trasportino,
indipendentemente dal fatto che il trasporto possa essere
occasionale perché non sempre necessaria conseguenza
della propria attività.
In secondo luogo, la Cassazione, in coerenza con il proprio
consolidato orientamento sul punto, ha osservato che né
l'errore di diritto, né l'errore sul fatto di cui all'art.
47 cod.
pen., possono trovare alimento, per essere scusati, nella
personale convinzione che l'imputato abbia
dell'applicabilità
nei suoi confronti di un obbligo la cui omissione è
penalmente
sanzionata, tanto meno se tale convinzione si fonda
sul silenzio serbato sul punto dal consulente dell'impresa.
Infatti, non può essere invocata l'ignoranza della legge
penale
ex art. 5 cod. pen. da parte di chi, professionalmente
inserito in un campo di attività collegato alla materia
disciplinata
dalla legge integratrice del precetto penale, non si
uniformi alle regole di settore, per lui facilmente
conoscibili in ragione dell'attività professionale svolta (Corte
d
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.03.2015
n. 12946 -
Ambiente & sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: MOLESTIE OLFATTIVE.
Emissioni in atmosfera - Molestie olfattive - Assenza di
limiti
predeterminati per legge - Parametro di legalità
dell’emissione
- Stretta tollerabilità - Prova della molestia.
Art. 674 cod. pen.
In caso di odori promananti da un
impianto munito di
autorizzazione per le emissioni in atmosfera, l'evento
del reato di cui all'art. 674 cod.pen. consiste nella
molestia
arrecata alle persone da apprezzarsi secondo il criterio
della "stretta tollerabilità" e non della normale
tollerabilità
di cui all'art. 844 cod. civ. e ciò perché non esiste
una normativa statale che preveda disposizioni specifiche
(e cioè valori-soglia) in materia di odori.
Qualora
difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con
adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio
sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse
ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni purché
non si risolvano nell'espressione di valutazioni meramente
soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano
nel riferimento a quanto percepito.
Il legale rappresentante di una compagine societaria,
accusato
di aver provocato emissioni in atmosfera tali da provocare
odori nauseabondi fastidiosi per le persone residenti
nella zona, veniva condannato per la contravvenzione di
cui all'art. 674 cod. pen..
Nel proporre ricorso per cassazione, l’imputato deduceva:
- inosservanza o erronea applicazione di legge penale con
riferimento all'art. 674 cod. pen. in quanto il Tribunale lo
aveva condannato anche se erano stati rispettati i valori
limite
di cui alle autorizzazioni, sì che la condotta avrebbe
dovuto esser collocata in ambito esclusivamente civilistico;
- mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della
motivazione con riguardo all'elemento soggettivo in quanto
il Tribunale avrebbe dovuto negare il profilo psicologico
della condotta, atteso che l'imputato -attenendosi alle
prescrizioni
di cui all'autorizzazione- sarebbe caduto in errore
sul fatto che costituisce reato; la buona fede, inoltre,
sarebbe
stata rafforzata dall'esito positivo dei sopralluoghi più
volte compiuti dalle autorità di protezione ambientale;
- mancanza, insufficienza e/o contraddittorietà della
motivazione
con riguardo alla prova delle molestie in quanto, a
fondamento della condanna, erano state poste le
dichiarazioni
di testimoni che avevano riferito soltanto di sensazioni,
peraltro non supportate da certificati medici o perizie;
- mancanza, insufficienza e/o contraddittorietà della
motivazione
con riguardo alla prova dell'avvenuto superamento
della normale tollerabilità delle emissioni.
La Cassazione ha respinto il ricorso.
Con riguardo al primo e terzo motivo, esaminati insieme, il
Collegio ha osservato che il reato di cui all'art. 674 cod.
pen. è configurabile anche in presenza di "molestie
olfattive"
promananti da un impianto munito di autorizzazione
per le emissioni in atmosfera e ciò perché non esiste una
normativa statale che preveda disposizioni specifiche (e
cioè valori soglia) in materia di odori con conseguente
individuazione
del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro
di legalità dell'emissione, più adeguato di quello della
"normale tollerabilità", previsto dall'art. 844 cod. civ..
La Corte ha replicato all'assunto difensivo secondo cui è
stato affermato in alcune decisioni che la configurabilità
del reato è esclusa in presenza di immissioni provenienti
da attività autorizzata e contenute nei limiti di legge o
dell'autorizzazione
osservando che tali pronunce si riferiscono
a casi diversi da quello in esame, in cui cioè vi era piena
corrispondenza "qualitativa" e "tipologica" tra le
immissioni
riscontrate e quelle oggetto del provvedimento
amministrativo
o disciplinate dalla legge, tra quelle accertate e quelle
che l'agente si era impegnato a contenere entro determinati
limiti; situazione nella quale, invero, il rispetto dei
limiti
implica una presunzione di legittimità del comportamento,
concepita dall'ordinamento come necessaria per contemperare
le esigenze di tutela pubblica con quelle della produzione
economica.
Nel caso di specie, la Cassazione ha perciò ribadito i
seguenti
principi:
a) l'evento del reato consiste nella molestia,
che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia
previsti dalla legge, essendo sufficiente il superamento del
limite della stretta tollerabilità;
b) qualora difetti la
possibilità
di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti,
l'intensità
delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non
tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle
dichiarazioni
di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti,
quando
tali dichiarazioni non si risolvano nell'espressione di
valutazioni
meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica,
ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente
percepito dagli stessi dichiaranti.
In forza di queste premesse giuridiche, la Corte ha concluso
che la sentenza era priva di contraddizioni ed era
logicamente
argomentata: infatti, il Giudice aveva dato atto che,
pur nel rispetto dei valori limite autorizzati di
immissioni,
non riferiti né riferibili agli odori, proprio questi ultimi
si erano
presentati con caratteri pacificamente molesti; che numerosi
testi -abitanti nelle vicinanze della torrefazione-
avevano indicato un odore terribile di caffè bruciato che,
specie all'ora di pranzo, si diffondeva nelle loro case,
provocando
nausea e, talvolta, anche vomito ed iniziale immissione
di un fumo nero nelle loro abitazioni.
Per il supremo Collegio risultava irrilevante la censura
secondo
cui il Giudice non aveva disposto alcun accertamento
tecnico in ordine al contestato superamento della normale
tollerabilità delle immissioni atteso che la molestia
olfattiva
non può esser "accertata" in via scientifica, con
qualsivoglia esame, ma deve esser affidata alla prova
testimoniale
ed alla verifica della sua attendibilità.
Ha poi ritenuto corretta la decisione del Giudice che non
aveva tenuto conto degli accertamenti effettuati dagli
organi
competenti in quanto il ricorrente aveva sovrapposto
impropriamente
le immissioni autorizzate (ed oggetto di limiti) con quelle
estranee all'autorizzazione, come le olfattive, e
così pretendeva che gli esami compiuti sulle une
riverberassero
i propri effetti, in termini probatori, anche sulle altre.
Da ultimo, è stato ritenuto infondato anche il motivo
riguardante
l'elemento soggettivo perché il Giudice di merito aveva
sottolineato che l'imputato aveva proseguito nell'attività
senza adottare alcun accorgimento pur consapevole degli
esposti e delle segnalazioni da parte di molti abitanti
della
zona con riguardo agli odori nauseabondi (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.03.2015
n. 12019 -
Ambiente & sviluppo 6/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: TERRE E ROCCE DA SCAVO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Attività di
frammentazione
o macinatura - Obbligo di autorizzazione - Esclusione.
Artt. 186, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Non è configurabile il reato di gestione
di rifiuti abusiva
in presenza di un'attività di frammentazione o macinatura
di terre e rocce da scavo, in quanto tale attività
non costituisce un'operazione di trasformazione preliminare
ai sensi dell'art. 186, D.Lgs. n. 152/2006 non determinando
di per sé stessa alcuna alterazione dei requisiti
merceologici e di qualità ambientale del materiale.
Il titolare di una società di costruzioni veniva condannato
per il reato di cui all'art. 256, comma 2, D.Lgs. n.
152/2006
per avere effettuato attività di messa a riserva e raccolta
di
rifiuti non pericolosi (provenienti dalla attività di
costruzione
e demolizione e dalla lavorazione della pietra) in assenza
della prescritta autorizzazione.
Contro tale decisione l’imputato proponeva ricorso per
cassazione
deducendo l'erronea qualificazione del materiale
come rifiuto: a detta del ricorrente, parte del materiale
era
già esistente al momento dell'acquisto e parte era stato
portato in seguito dall'imputato, il quale, contrariamente a
quanto ritenuto dal giudice, non aveva iniziato nessuna
attività
di messa a riserva e gestione di rifiuti prima di ottenere
l'autorizzazione, essendosi limitato a sistemare l'area.
In sostanza, il ricorrente riteneva applicabile la
disciplina
dei sottoprodotti di cui all'art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006
trattandosi di materiali immediatamente riutilizzabili.
Il ricorso è stato accolto.
La Cassazione ha rilevato che il giudice di merito aveva
preso atto di quanto "lealmente" ammesso dall'imputato
con la conseguenza che andava accettata anche la
dichiarazione
riguardante la preesistenza di parte dei materiali rispetto
all'acquisto del sito avvenuto nel 2008: in tal caso, a
prescindere dalla individuazione del tipo di materiale
rinvenuto,
andava esclusa la responsabilità dell'imputato in
applicazione
del generale principio di diritto secondo cui la
compravendita di un terreno sul quale sono stati raccolti
da terzi rifiuti non può integrare, a carico del compratore,
il
reato di deposito incontrollato di rifiuti neanche sotto il
profilo
che, trattandosi di reato permanente, esso debba essere
addebitato anche a colui che, pur non essendo concorso
nell'attività di accumulazione di rifiuti, abbia acquistato
la
proprietà del terreno ove gli stessi si trovino.
Per il restante materiale, la Corte ha ribadito che non è
configurabile il reato di attività di gestione di rifiuti
non
autorizzata in presenza di un'attività di frammentazione o
macinatura di terre e rocce da scavo, in quanto tale
attività
non costituisce un'operazione di trasformazione preliminare
ai sensi dell'art. 186 non determinando di per sé stessa
alcuna alterazione dei requisiti merceologici e di qualità
ambientale.
Dalla sentenza impugnata in effetti risultava che era in
corso
la frantumazione del materiale con l'uso di un mezzo
meccanico che, secondo il ricorrente, serviva per adattare i
materiali alla sistemazione della pavimentazione dell'area
per renderla idonea a svolgere l'attività per cui era stata
avanzata la richiesta di autorizzazione per la messa a
riserva
e recupero di rifiuti.
La Corte ha perciò concluso che l'attività di
riutilizzazione
per rifacimento della pavimentazione posta in essere dal
prevenuto con i restanti materiali non integrava il reato
contestato (Cote
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.03.2015
n. 10483 - Ambiente &
sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI DI COSTRUZIONE E DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Scarico di rifiuti di costruzione e da demolizione
-
Responsabilità del proprietario dell'area - Sussistenza
Artt. 192, 256 D.Lgs. n. 152/2006.
La responsabilità per l'attività di
gestione non autorizzata
non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza
e volontarietà della condotta, ma può scaturire
da comportamenti che violino i doveri di diligenza
per la mancata adozione di tutte le misure necessarie
per evitare illeciti nella predetta gestione e che
legittimamente
si richiedono ai soggetti preposti alla direzione
dell'azienda.
Ritenendo sussistente il pericolo di aggravamento della
contravvenzione di abbandono/deposito incontrollato di
rifiuti
di costruzione e da demolizione, la Polizia Giudiziaria
disponeva in via di urgenza il sequestro preventivo di
un’area.
Nel successivo provvedimento cautelare, il GIP, dopo aver
condiviso la prospettazione accusatoria ed aver individuato
nella fattispecie quali soggetti responsabili dell'abbandono
dei rifiuti il proprietario dell'area, il legale
rappresentante
dell'impresa incaricata dei lavori e il direttore dei
lavori, riteneva
potersi configurare un loro coinvolgimento in quanto
non "appar[iva] credibile l'affermazione [...] circa la non
conoscenza
degli autori del deposito".
Il Tribunale del riesame rigettava la richiesta di riesame
avverso
il decreto di sequestro preventivo.
Contro detta ordinanza, seguiva l’articolato ricorso per
Cassazione
da parte di uno degli imputati.
Il ricorrente sosteneva che l'ipotesi accusatoria
ascrittagli
(artt. 192 e 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006) ha natura
di reato proprio, il quale richiede, quale elemento
costitutivo,
la qualità di titolare di impresa e di responsabile di ente
in capo all'autore della violazione in virtù del qualificato
ruolo di responsabilità nella gestione dei rifiuti connesso
alla
loro attività: su questa premessa, eccepiva che né al
proprietario
dell'area, né al direttore dei lavori, in quanto non
riconducibili nel novero dei destinatari del precetto
penale,
poteva essere contestata tale ipotesi di reato. Al più,
sempre
che l'autorità amministrativa deputata alla irrogazione
delle sanzioni avesse riscontrato una corresponsabilità con
gli autori dell'illecito abbandono in termini di
comportamento
commissivo o omissivo, colposo o doloso, il proprietario
poteva essere destinatario dell'ordine di smaltimento
previsto dall'art. 192 e della sanzione amministrativa
di cui all'art. 255.
In conclusione, non potendosi configurare nel caso di specie
il reato contestato, bensì solo un illecito amministrativo,
sarebbe mancato in radice il fumus commissi delicti, e, con
esso, il presupposto per potersi far luogo al sequestro.
Il ricorrente evidenziava inoltre che il Corpo Forestale
dello
Stato aveva riferito che i rifiuti rinvenuti nell'area
sequestrata,
variamente depositati all'interno e all'esterno della
stessa,
provenissero di certo da altri cantieri senza che fosse
dato sapere chi li avesse ivi abbandonati.
Tuttavia, a parte queste circostanze, sulla cui veridicità
non
potevano essere nutriti dubbi, tutti gli altri rilievi,
quali la
destinazione dei rifiuti al riempimento degli scavi e alla
creazione del sottofondo, così come la probabile presenza
di altri non visibili, secondo il ricorrente, erano solo
ipotesi
e illazioni, come tali inutilizzabili ai fini di un giudizio
prognostico
di colpevolezza.
Alla luce delle uniche risultanze processuali di indagine
connotate da "certezza", quindi, nel caso di specie, non vi
erano elementi di prova che consentissero di ricondurre alla
condotta degli indagati l'attività contestata di deposito di
rifiuti, né, tantomeno, altre condotte illecite solamente
supposte.
La Cassazione ha ritenuto i motivi del ricorso non
meritevoli
di accoglimento.
Quanto alla lamentata violazione di legge circa la natura
del reato ipotizzato a carico del ricorrente, la sentenza ha
ricordato che, in più occasioni, si è affermato che la
responsabilità
per l'attività di gestione non autorizzata non attiene
necessariamente al profilo della consapevolezza e
volontarietà
della condotta, potendo scaturire da comportamenti
che violino ì doveri di diligenza per la mancata adozione
di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella
predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai
soggetti preposti alla direzione dell'azienda
(1).
La Cassazione ha poi osservato che il Tribunale di Sondrio,
facendo applicazione di tale principio, aveva offerto una
congrua motivazione in termini di fumus del reato: infatti,
dopo aver ricordato che il 02.04.2014 personale del Corpo
Forestale dello Stato aveva eseguito un controllo in
località
Poggiridenti, occupata da un cantiere per esecuzione
dei lavori di costruzione di autorimesse interrate,
l’ordinanza
aveva dato atto che, nel corso del controllo, era stata
notata la presenza di rifiuti provenienti da attività di
costruzione
e di demolizione sparsi in varie parti del cantiere.
Si trattava segnatamente:
a) di circa 10-15 mc. all'interno
dello scavo di realizzazione delle autorimesse e livellati
per
il successivo interramento e formazione di sottofondo;
b) di
altri 1015 mc. all'esterno dei muri perimetrali delle
autorimesse
ed impiegati come materiale di riempimento dei
muri esterni delle stesse;
c) infine, nell'area nord del
cantiere,
di un ulteriore accumulo di circa 20-25 mc. di rifiuti di
varia natura (materiali da demolizioni, cartongesso, secchi
vuoti di plastica, rifiuti di legno e ferrosi, monitor di pc),
il
tutto come meglio descritto nel verbale di accertamenti
urgenti.
La sentenza riportata ha quindi rilevato che la proprietaria
dei terreni era la "G.B. Im. srl" di cui il P. era
socio
ed amministratore unico; che i rifiuti in questione non
potevano
essere stati generati all'interno del cantiere e ciò sia
per la natura dei lavori autorizzati (scavo con successive
opere in calcestruzzo armato, senza alcuna costruzione o
demolizione con laterizi, pannelli in cartongesso e secchi
di
plastica per pitture), sia per la natura stessa di parte dei
rifiuti,
del tutto inconferenti con le opere di costruzione (ad
es. pannelli di monitor e travi di legno), sia infine perché
tali
rifiuti erano comparsi in cantiere a molti mesi di distanza
dall'inizio dei lavori dato che il 05.03.2013 personale
del
Corpo Forestale dello Stato aveva fatto un accesso in quel
cantiere ed i rifiuti non erano presenti.
La polizia giudiziaria aveva perciò reputato provata la
miscelazione
di tali rifiuti con terre e rocce derivanti dallo scavo
e destinate al riempimento degli scavi esterni ai muri di
contenimento delle autorimesse, essendo oltretutto
presumibile
che ulteriori rifiuti, non più visibili, fossero stati
miscelati
all'interno dell'area.
Alla luce di quanto sopra, il fumus del reato ipotizzato è
stato ritenuto sussistente evidenziando come i rifiuti non
potessero derivare da lavori di scavo del terreno e
successivo
getto di calcestruzzo per la esecuzione delle autorimesse
interrate oggetto del permesso di costruire comunale,
ma provenissero da altre attività di costruzione e/o di
demolizione, ovvero costituissero rifiuti che non avevano a
nulla che vedere con attività edilizie (es.: monitor di
computer).
---------------
Nota
(1) In fattispecie analoga, v. in senso contrario Cass. 10.06.2014,
n. 40528, Cantoni, in questa Rivista, 2015, 247, che, a
proposito della
affermazione che compare nella sentenza in epigrafe e cioè
che la responsabilità
per la attività di gestione non autorizzata non attiene
necessariamente
al profilo della consapevolezza e volontarietà della
condotta,
potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di
diligenza,
per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per
evitare
illeciti nella predetta gestione, ha osservato che tale
principio attiene
non alla responsabilità del proprietario dell'area, ma a
quella del titolare
di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto
e lo smaltimento degli stessi
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
02.03.2015 n. 8980
- Ambiente & sviluppo 7/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ISCRIZIONE ALL'ALBO.
Rifiuti - Trasporto occasionale di propri rifiuti - Obbligo
di
iscrizione all'Albo - Mancanza - Reato.
Art. 212, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
In base alla normativa vigente, sussiste
l'obbligo di
iscrizione nell'albo nazionale dei gestori ambientali per
le imprese che effettuano il trasporto dei propri rifiuti
non pericolosi come attività ordinaria e continuativa,
costituente parte integrante ed accessoria
dell'organizzazione
dell'impresa da cui provengono i rifiuti.
Invece,
nel caso di trasporti occasionali, pur in assenza
dell'obbligo
di iscrizione nell'albo, i titolari delle imprese che
eseguano un trasporto di rifiuti propri non pericolosi
con mezzi non autorizzati commettono il reato di cui
all’art.
256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.
Anche questa sentenza è relativa alla problematica dei
trasporti
occasionali, ma contiene affermazioni in parte differenti
da quelle che si leggono nella decisioni sopra riportata.
Nel corso di un controllo effettuato dagli agenti del Corpo
Forestale dello Stato, tal F. veniva colto mentre
trasportava
rifiuti provenienti da demolizioni edili senza essere
provvisto
della prescritta autorizzazione e senza che la ditta MC
C., intestataria dell'automezzo, fosse iscritta all'Albo
nazionale
del gestori ambientali.
Gli Agenti disponevano perciò il sequestro probatorio del
mezzo e del suo contenuto ritenendo ricorrere gli estremi
del reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n.
152/2006. Il sequestro era convalidato dal Pm, ma veniva
impugnato dal C. legale rappresentante della MC C.
Il Tribunale del riesame annullava il decreto di convalida
del Pm motivando in questo senso: la MC C. operava
prevalentemente
nel campo edilizio e dunque era lecito ritenere
che oggetto del trasporto in atto al momento dell'intervento
degli agenti fossero costituito da materiali di risulta
derivanti da detta attività; sulla base di tale premessa,
secondo
il Tribunale l'illecito riscontrabile non era quello
previsto
dal 1° comma dell'art. 256, ma, semmai, dal 4° comma
del medesimo articolo il quale non costituisce illecito
penale, ma amministrativo.
Avverso detta ordinanza proponeva ricorso per cassazione
il Procuratore della Repubblica osservando che, essendo
pacifica la mancata iscrizione sia del mezzo che
dell’impresa
nell'Albo nazionale dei gestori ambientali, l'illecito
realizzato
non era, come ritenuto dal Tribunale, quello amministrativo,
che ha ad oggetto solo la mancata, incompleta o
inesatta redazione dei formulari da parte dei soggetti
abilitati
al trasporto dei rifiuti, ma l'illecito, penalmente
rilevante,
del trasporto di rifiuti propri non pericolosi da parte di
soggetto non autorizzato.
Il ricorso è stato accolto.
La Corte ha, infatti, preso le mosse dall'art. 212, D.Lgs.
n.
152/2006 che ha disciplinato l’iscrizione nell'albo
nazionale
dei gestori ambientali, prevedendo un regime ordinario di
iscrizione a carico delle imprese esercenti
professionalmente
l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non
pericolosi
prodotti da terzi, caratterizzato da una serie di
adempimenti
volti a valutare l'idoneità di tali imprese e ad assicurare
la
loro solvibilità mediante la prestazione di idonee garanzie
finanziarie a favore dello Stato, ed un regime semplificato
(comma 8) per le imprese che, invece, effettuano la raccolta
e il trasporto dei rifiuti non pericolosi esclusivamente
prodotti da esse stesse, nonché per le imprese che
trasportano
i propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedente
trenta chilogrammi o trenta litri al giorno, a condizione
che
"tali operazioni costituiscano parte integrante ed
accessoria
dell'organizzazione dell'impresa dalla quale i rifiuti sono
prodotti".
Quanto alla condizione in presenza della quale è prescritta
l'iscrizione nell'albo dei gestori ambientali, la Corte ha
ritenuto,
secondo l'interpretazione letterale dell'inciso "rifiuti
costituenti parte integrante ed accessoria
dell'organizzazione
dell'impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti", che
l'attività
di trasporto di rifiuti non pericolosi da parte della stessa
impresa che li produce, per essere sottoposta a tale regime
semplificato, debba avere i caratteri della ordinarietà
e continuità, ossia deve trattarsi di attività inserita, sia
pure
in via accessoria, nell'organizzazione dell'impresa.
Quindi,
alla stregua della normativa vigente, ha ritenuto
sussistente
l'obbligo di iscrizione nell'albo nazionale dei gestori
ambientali,
sia pure con modalità semplificate ed oneri minori,
per le imprese che effettuano la raccolta ed il trasporto di
propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e
continuativa,
costituente parte integrante ed accessoria
dell'organizzazione
dell'impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti.
La Corte ha poi chiarito che, quanto ai trasporti
occasionali
di rifiuti, non aventi i caratteri suindicati, l'assenza
dell'obbligo
di iscrizione non comporta che le imprese possano
effettuare eventuali trasporti episodici di rifiuti propri
non
pericolosi senza alcun controllo. Difatti, anche un solo
trasporto
di rifiuti da parte dell'impresa che li produce integra
il reato in esame che ha natura istantanea e quindi si
perfeziona
nel momento in cui si realizza la singola condotta tipica
(la sentenza ha ribadito che per i trasporti episodici ed
occasionali di rifiuti non pericolosi, le imprese che li
producono,
pur non essendo tenute all'obbligo di iscrizione nell'albo
nazionale gestori ambientali, anziché provvedere al
trasporto con mezzi propri, devono rivolgersi ad imprese
esercenti servizi di smaltimento, regolarmente autorizzate
ed iscritte all'albo gestori ambientali).
L'ordinanza impugnata è stata perciò annullata avendo
affermato
l’irrilevanza penale dell'attività non autorizzata di
trasporto di rifiuti non pericolosi derivanti dall'ordinario
svolgimento della propria attività di impresa (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.03.2015 n. 8979
- Ambiente & sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Differenza tra il reato di gestione abusiva e
l’abbandono
di rifiuti - Nozione di impresa.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L’ipotesi contravvenzionale disciplinata
dall'art. 256,
comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 sanziona ogni attività -da
intendersi come condotta- che non sia caratterizzata
da assoluta occasionalità, così distinguendosi da quella
di cui al comma 2 del medesimo articolo che si caratterizza
per la rilevanza dell’episodicità della condotta posta
in essere da qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti
nell'esercizio, anche di fatto, di una attività economica,
indipendentemente dalla qualifica formale sua o
dell'attività
medesima.
Avverso il provvedimento del Tribunale del riesame di
annullamento
del decreto di sequestro preventivo di un autocarro,
il Pubblico Ministero proponeva ricorso per Cassazione
deducendo che era stata ritenuta non configurabile
l'ipotesi di reato di trasporto abusivo di rifiuti,
formulata a
sostegno della richiesta di sequestro, sulla sola
circostanza
che il trasporto non era accompagnato dal formulario dei
rifiuti; di contro, l'autocarro utilizzato non era iscritto
all'albo
dei gestori ambientali e pertanto non era autorizzato
all'attività
di trasporto dei rifiuti. Di conseguenza, risultava violato l’art. 259, comma 2 D.Lgs. n. 152/2006 che impone
il sequestro ai fini della confisca obbligatoria del mezzo
utilizzato,
anche solo eccezionalmente, per il trasporto dei rifiuti.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso
notando,
prima di tutto, che il trasporto di rifiuti non pericolosi
eseguito in assenza del prescritto formulario o con il
corredo
di un formulario inesatto o incompleto è effettivamente
sanzionato dall'art. 258 non come reato, ma come illecito
amministrativo, ma che, tuttavia, il GIP aveva ordinato il
sequestro
dell'autocarro ravvisando nei confronti dell’indagato
il fumus del diverso reato di cui all'art. 256, comma 1.
A questo riguardo, la Corte ha ribadito la natura di reato
comune della disposizione appena richiamata asserendo
che l’ipotesi disciplinata al comma 1 dell'art. 256 sanziona
ogni attività -da intendersi come condotta- che non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità così distinguendosi
da quella di cui al comma 2 del medesimo articolo che si
caratterizza, invece, anche per la rilevanza della mera
episodicità
della condotta, posta in essere pure di fatto o in
modo secondario o consequenziale all'esercizio di una
attività
primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno
dei titoli abilitativi indicati. Il reato è inoltre
configurabile
nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti
nell'esercizio,
anche di fatto, di una attività economica, indipendentemente
dalla qualifica formale sua o dell'attività
medesima.
La Cassazione ha rilevato che già il Gip aveva ricordato -evidentemente in relazione al fatto che l'autocarro
de quo risultasse di proprietà della U.L. spa e che l’indagato ne
fosse il conducente e locatario- la consolidata
giurisprudenza
di legittimità secondo cui in tema di gestione dei rifiuti,
in caso di trasporto non autorizzato il proprietario del
mezzo, che assuma di essere terzo estraneo al reato, può
evitare la confisca ed ottenerne la restituzione solo
provando
la sua buona fede, ovvero di non essere stato a conoscenza
dell'uso illecito o che tale uso non era collegabile
ad un proprio comportamento negligente.
La sentenza ha quindi concluso che non aveva fatto un
buon governo dei principi di diritto ricordati il
provvedimento
impugnato laddove aveva sostenuto che l’indagato era
"titolare di una piccola impresa individuale edile che
trasporta
verso una discarica autorizzata rifiuti edili" e aveva
affermato, a fronte -come ricordato dal PM ricorrente-
dell'incontestata circostanza che l'autocarro utilizzato non
fosse iscritto all'albo dei gestori ambientali, che ciò non
integrava
il reato di cui all'art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.02.2015
n. 5933 - Ambiente &
sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: FRANTUMAZIONE
DEI MATERIALI DI CAVA.
Emissioni in atmosfera - Impianti di frantumazione dei
materiali di cava - Obbligo di richiedere l’autorizzazione.
Artt. 269 e 279, D.Lgs. n. 152/2006.
Le disposizioni in tema di prevenzione
dell'inquinamento
atmosferico si applicano anche agli impianti di
frantumazione
dei materiali di cava stante la oggettiva attitudine
di questi a dare luogo ad emissioni di pulviscolo
e di particolato dell'atmosfera; ai fini della integrazione
del reato è sufficiente che siano in atto emissioni moleste
derivanti dall’attività produttiva, a prescindere dalla
loro intensità.
Nella specie, la Cassazione ha confermato la sentenza con
cui il Tribunale di Sulmona aveva condannato il legale
rappresentante
della M.S. per aver prodotto emissioni in atmosfera
in assenza della prescritta autorizzazione.
Infatti, era risultato che l’azienda gestita dal prevenuto
svolgesse attività nell'ambito della coltivazione di una
cava.
A tale proposito, la Corte ha ribadito, da un lato, che le
disposizioni
in tema di prevenzione dell'inquinamento atmosferico
si applicano anche agli impianti di frantumazione
dei materiali di cava stante la oggettiva attitudine di
questi
a dare luogo ad emissioni di pulviscolo e di particolato
dell'atmosfera.
Dall’altro lato, che la contravvenzione prevista dall'art.
279,
comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, è configurabile
indipendentemente dal fatto che le emissioni in atmosfera
superino o meno i valori limite stabiliti dalla legge, in
quanto è sufficiente che le stesse siano comunque moleste
attesa la natura formale del reato in questione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2015 n. 1713 - Ambiente &
sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO DI RIFIUTI PERICOLOSI SENZA FORMULARIO.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario -
Reato - Insussistenza.
Artt. 258 e 260-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Il trasporto di rifiuti pericolosi senza
il prescritto formulario
o con un formulario con dati incompleti o inesatti
non è più sanzionato penalmente né dal nuovo testo
dell'art. 258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006, che si riferisce
alle imprese che trasportano i propri rifiuti e che
prevede la sanzione penale per altre condotte né dall'art.
260-bis del medesimo decreto che punisce il trasporto
di rifiuti pericolosi non accompagnato dalla
scheda Sistri.
Il legale rappresentante della ditta "Za. s.r.l.", che
aveva
conferito presso l'impianto della ditta "Ro. S.p.A."
rifiuti non pericolosi (pneumatici fuori uso), aventi codice
CER diverso da quello 160106 (indicato nel formulario di
trasporto), veniva mandato a giudizio per il reato di cui
all'art.
256, comma 1, lett. a) e comma 2, D.Lgs. n. 152/2006.
Il Tribunale di Verona proscioglieva il soggetto «perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato» osservando
che era intervenuta la depenalizzazione del reato ad opera
del D.Lgs. n. 205/2010, rimanendo come reato solo il
trasporto
di rifiuti pericolosi, non accompagnato dalla copia
cartacea della scheda SISTRI.
Il Procuratore della Repubblica proponeva pertanto ricorso
per cassazione deducendo che il fatto costituiva ancora
reato perché:
- il D.Lgs. 03.12.2010, n. 205, entrato in vigore il 25.12.2010, aveva depenalizzato l'ipotesi di cui all'art.
258, comma 4, in quanto le vecchie sanzioni relative al
formulario
di trasporto dei rifiuti sono state sostituite dalla
nuova normativa in materia di SISTRI. In particolare,
secondo
la novella, il sistema SISTRI istituisce, di regola, per
la raccolta ed il trasporto di rifiuti, l'obbligo della
scheda SISTRI
che sostituisce l'obbligo del formulario: l'inosservanza
di questo obbligo è sanzionata con le nuove disposizioni
dell'art. 260-bis che sostituiscono la sanzione prevista
dalla
vecchia formulazione dell'art. 258 cit.;
- a fronte di questo chiaro intento del legislatore si
inserisce
il D.M. 02.12.2010 che rinvia al 01.06.2011 la
piena operatività del SISTRI, con conseguente rinvio delle
relative sanzioni penali previste, ai sensi del disposto
dell'art.
39, comma 1. Peraltro l'art. 6, D.L. 13.08.2011, n.
138 ha differito al 15.12.2011-09.02.2012 il
termine di entrata in operatività del SISTRI, differenziato
secondo
i diversi soggetti cui si riferisce;
- ove si accedesse alla tesi difensiva, si verificherebbe un
incongruo ed inammissibile vuoto sanzionatorio, nel corso
del quale sarebbe consentito il trasporto di rifiuti senza
alcun
obbligo e sanzione;
- non appare congruo ritenere applicabile all'ipotesi de qua
la sanzione amministrativa prevista dal novellato art. 258
che presuppone comunque la piena operatività del SISTRI;
- per rendere pertanto l’attuale normativa, prima in vigore
fino al 01.06.2011 e ora fino a dicembre 2011, conforme
all'intento di un legislatore rigoroso sul piano sostanziale
della difesa dell'ambiente, ma confuso ed atecnico sul
piano redazionale, deve accedersi ad una interpretazione
che ritenga operante l'intero vecchio impianto sanzionatorio
fino alla piena entrata in vigore del SISTRI, con una
ultrattività
normativa che appare connaturata alla struttura
stessa della disciplina e legata al rinvio della operatività
del
sistema SISTRI, disposto con successivo D.M.;
- questa impostazione ermeneutica appare l'unica che non
contrasti col canone di ragionevolezza dettato dall'art. 3
Cost.
La Cassazione ha respinto il ricorso confermando l'indirizzo
secondo cui il trasporto di rifiuti pericolosi senza il
prescritto
formulario o con un formulario con dati incompleti o
inesatti
non è più sanzionato penalmente (né dal nuovo testo
dell'art. 258, comma quarto, né dall'art. 260-bis) (1).
Pur senza trascurare l’orientamento di segno contrario (2),
la Corte ha osservato, innanzitutto, che la questione
controversa
riguardava il trasporto di rifiuti pericolosi che non
rilevava nel caso in esame in cui era stato contestato il
trasporto
di rifiuti non pericolosi. Del resto, ha osservato la
Corte, già secondo la normativa previgente alle modifiche
introdotte dal D.Lgs. n. 205/2010, le violazioni relative ai
rifiuti
non pericolosi integravano solo un illecito amministrativo.
In secondo luogo, la Cassazione ha sostenuto che, in ogni
caso, doveva ritenersi che le modifiche introdotte dal
D.Lgs. n. 205/2010, eliminando dall'art. 258, comma 4, il
riferimento
al trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario
contenente dati incompleti o inesatti avesse sottratto
tali condotte alla sanzione penale. Vi sarebbe stato
quindi un vuoto normativo (sempre che tale si potesse
considerare,
dal momento che in materia penale tutte le condotte
non qualificate come illecite da una specifica norma
penale sono positivamente qualificate come lecite, potendosi
perciò configurare solo una c.d. lacuna ideologica, ovvero
la mancanza di una norma che si vorrebbe che ci fosse)
nel periodo intercorrente tra il 25.12.2010, data
di entrata in vigore del citato decreto ed il 16.08.2011,
data che segna l'inizio della vigenza dell'intervento c.d.
riparatore
effettuato con l'art. 4, comma 2, D.Lgs. n.
121/2011, con conseguente applicabilità dell'art. 2 c.p.
Per il supremo Collegio, a tale disposizione può attribuirsi
soltanto la natura di norma penale innovativa, con la
conseguenza
della applicabilità della norma penale più favorevole
per i fatti commessi in epoca antecedente al 16.08.2011. Non può invece attribuirsi alla disposizione natura
di norma interpretativa con conseguente effetto retroattivo
e reviviscenza anche per il passato di una norma
sanzionatrice
penale già espressamente abrogata dal legislatore
con cessazione della sua efficacia.
E’ noto -ha scritto la Corte- che l'effetto abrogativo
opera
automaticamente al momento dell'entrata in vigore della
norma abrogatrice. Il futuro legislatore può certamente
successivamente abrogare la norma abrogatrice e disporre
la reviviscenza della norma precedentemente abrogata, ma
se si tratta di norma penale questa potrà tornare in vigore
solo dal momento dell'entrata in vigore della norma che, per
così dire, l'ha richiamata in vita attraverso l'abrogazione
della norma che l'aveva abrogata. Ora, con l'art. 4, comma
2, del D.Lgs. n. 121/2011 il legislatore ha appunto inteso
colmare il vuoto che si era creato o, meglio, porre rimedio
alla nuova situazione normativa, ponendo nuovamente norme
penali per sanzionare quelle stesse violazioni o, meglio,
disponendo che riprendessero vigore quelle norme penali
precedentemente abrogate.
Ma, in forza del principio
costituzionale
di legalità e di irretroattività delle norme penali tale
nuova efficacia non può che decorrere ex nunc e non
ex
tunc. Né questa efficacia retroattiva può essere conferita
mediante l'attribuzione alla disposizione di una natura di
norma meramente interpretativa.
---------------
Note
(1) Cass. 21.06.2011, Rigotti.
(2) Cass. 17.12.2013, La Valle (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.12.2014
n. 51417 - Ambiente &
sviluppo 3/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: REATO ISTANTANEO.
Rifiuti - Trasporto occasionale di rifiuti - Reato
istantaneo
- Requisito della continuatività e stabilità dell’attività -
Irrilevanza.
Art. 6, legge n. 210/2008; artt. 212, 256 D.Lgs. n.
152/2006.
Il delitto previsto dall'art. 6, comma
1, lett. d), legge n.
210/2008, come l'omologo reato contravvenzionale previsto
dall'art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, costituisce
un reato istantaneo, solo eventualmente abituale,
che si perfeziona nel momento in cui si realizza la
condotta tipica, sicché per l’integrazione del reato non
è necessario il requisito della continuatività e stabilità
dell’attività.
La Corte d'Appello di Napoli confermava la condanna di tal
G. per il reato di cui all'art. 6, lett. d), legge n.
210/2008 per
avere effettuato, in mancanza di autorizzazione, attività di
raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti non
pericolosi (trenta sacchi di spazzatura solida urbana di
grandi e medie dimensioni, cartoni e plastica) motivando la
decisione nel senso che il reato si configura anche in
presenza
di una condotta occasionale.
L'imputato proponeva ricorso per cassazione osservando
che la norma, entrata in vigore nel periodo dell'emergenza
rifiuti in Campania, si prefigge di porre un freno
all'abbandono
incontrollato di rifiuti presso siti non autorizzati e alle
condotte non occasionali, ma caratterizzate da una stabile
organizzazione, in grado di alterare il normale ciclo di
smaltimento
dei rifiuti.
Essa, quindi, ad avviso del ricorrente,
non intende colpire il singolo individuo che raccoglie i
propri
rifiuti domestici e li getta negli appositi contenitori
situati
in aree a ciò destinate (l'attività da lui posta in essere,
del
tutto occasionale, consisteva nel fornire un servizio ai
condomini
dello stabile gettando i loro rifiuti negli appositi
cassonetti
e nel rispetto degli orari).
Il ricorso è stato giudicato manifestamente infondato perché
il G. aveva riproposto ancora una volta la tesi
dell’irrilevanza
penale del fatto per essersi limitato in modo occasionale
alla raccolta, trasporto e deposito di rifiuti: sul tema, il
Tribunale aveva invece accertato, anche sulla base delle
stesse dichiarazioni dell'imputato, "l'effettuazione di una
attività"
e la "non occasionalità" della condotta ritenendo
quindi sufficiente "un minimo di organizzazione".
La Corte non si è discostata dalla sua pregressa
giurisprudenza
secondo cui il delitto previsto dall'art. 6, comma 1,
lett. d), così come l'omologo reato contravvenzionale
previsto dall'art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006,
costituisce
reato istantaneo per la cui integrazione è sufficiente un
unico
trasporto abusivo di rifiuti.
A riprova di tale tesi la sentenza ha osservato che solo con
riguardo al diverso reato di cui all'art. 260, D.Lgs. n.
152/2006 il legislatore ha testualmente previsto una
condotta
di trasporto accompagnata da "mezzi e attività continuative
organizzate", ben potendo affermarsi, dunque, la irrilevanza
penale, solo in tal caso, di una condotta caratterizzata
da occasionalità (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2014
n. 48015 -
Ambiente & sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ATTIVITÀ DI AUTOLAVAGGIO.
Acque - Reflui derivanti da attività di autolavaggio -
Natura
di scarico industriale.
Artt. 124 e 137, D.Lgs. n. 152/2006.
Gli scarichi provenienti dall'attività
di autolavaggio devono
essere autorizzati in quanto assimilabili agli scarichi
d'acque reflue industriali stante la presenza di
caratteristiche
inquinanti diverse e più rilevanti di quelle di
un insediamento civile per la presenza di oli minerali,
sostanze chimiche e particelle di vernice che possono
staccarsi dalle autovetture.
Il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale
di
Asti, disattendendo la richiesta del Pubblico Ministero di
decreto penale di condanna, assolveva il titolare di una
ditta
di autotrasporti dal reato di scarico di acque reflue
industriali
nella pubblica fognatura osservando che l'attività rilevata
(lavaggio di alcuni mezzi) era del tutto marginale rispetto
a quella principale di autotrasporto e che gli scarichi
effettuati erano ascrivibili ad un’attività diversa da
quella
presa in considerazione dalle norme violate. Aveva inoltre
escluso la natura industriale dello scarico anche perché nel
piazzale non vi erano tracce di schiuma, ma solo una patina
d'acqua, sicché gli scarichi accertati non potevano
assimilarsi
a quelli di una attività di autolavaggio.
La Cassazione ha accolto il ricorso del Pubblico Ministero
che aveva sostenuto che la norma non esclude dall'obbligo
autorizzativo l'attività episodica o saltuaria e che lo
scarico
derivante dall'attività di lavaggio è da qualificarsi tra
quelli
industriali.
In primo luogo, la Corte ha ribadito il costante
orientamento
per cui il giudice per le indagini preliminari può
prosciogliere
la persona nei cui confronti il PM abbia avanzato
istanza di decreto penale di condanna solo nel caso in cui
risulti evidente la prova positiva dell'innocenza
dell'imputato
ovvero quella negativa della sua colpevolezza nel senso
della radicale impossibilità di acquisirla: siffatta
pronuncia
non può invece essere adottata nel caso in cui il giudice,
per addivenire alla medesima, debba procedere ad operazioni
di comparazione e valutazioni di dati riservate ad una
fase da svolgersi in contraddittorio tra le parti.
Nel caso di specie, secondo la Corte, si era verificata tale
ultima ipotesi perché al dato obiettivo dell'avvenuto
lavaggio
dei veicoli nel cortile della ditta di autotrasporti
mediante
l'uso di una lancia idropulitrice, in assenza di
autorizzazione
allo scarico, aveva fatto poi seguito una valutazione
del giudice di merito sulla natura e sulle modalità della
attività
posta in essere (lavaggio eseguito su mezzi destinati a
trasporto generico, senza rinvenimento di schiuma sul
piazzale), attività ritenuta del tutto marginale, episodica
ed
estranea rispetto a quella svolta dalla società di
autotrasporti
di cui il G. è legale rappresentante: l'errore di diritto
del GIP pertanto era nel non essersi fermato all'attività di
mera constatazione, ma nell'avere invece compiuto -per
escludere l'assimilazione alla attività di autolavaggio-
ulteriori
valutazioni e approfondimenti (consistenti nel rapportare
alla attività principale di autotrasporti quella connessa
al periodico lavaggio dei mezzi utilizzati dalla ditta,
apprezzando
la natura del refluo e ritenendo lecito "dubitare della
capacità inquinante degli scarichi") non consentiti ai fini
della pronuncia ex art. 129 cod. proc. pen.
La sentenza è stata annullata fissando il principio secondo
cui l'attività di autolavaggio è assimilabile a quella di
acque
reflue industriali, stante la presenza di caratteristiche
inquinanti
diverse e più rilevanti di quelle di un insediamento civile
per la presenza di oli minerali, sostanze chimiche e
particelle
di vernice che possono staccarsi dalle autovetture e
che l'autorizzazione richiesta non ammette equipollenti (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.11.2014
n. 46184 - Ambiente &
sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO DI RIFIUTI DIVERSI DA QUELLI AUTORIZZATI
Rifiuti - Trasporto - Rifiuti diversi da quelli autorizzati
- Reato - Sussistenza.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il trasporto di rifiuti diversi da
quelli oggetto di autorizzazione
configura il reato di cui all'art. 256, comma 1,
D.Lgs. n. 152/2006.
Nella specie veniva ordinato dal Gip il sequestro di un
autocarro
di proprietà della Se.Gr. srl in relazione alla assunta
violazione dell'art. 258, comma 4, D.Lgs. n.
152/2006 in quanto il veicolo era stato usato per il
trasporto
di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi in assenza del
formulario previsto dall'art. 193.
Il Tribunale del riesame annullava il decreto osservando
che, pur non potendosi accedere alla tesi difensiva proposta
dalla ricorrente, in base alla quale i materiali oggetto di
trasporto non erano rifiuti, ma "materie prime secondarie",
nella specie non erano riscontrabili gli estremi
dell'illecito
penale posto che l'art. 258, comma 4, attribuisce rilevanza
penale esclusivamente all'attività di trasporto di rifiuti
propri
non pericolosi ove l'azienda che effettui il trasporto si
serva di certificazioni false ovvero formate sulla base di
false
dichiarazioni, mentre l'art. 260-bis, comma 7, dello stesso
decreto punisce il trasporto di rifiuti pericolosi non
accompagnato
dalla scheda SISTRI.
Infine secondo il Tribunale non emergeva neppure il fumus
del reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n.
152/2006 -cioè il trasporto non autorizzato di rifiuti non
pericolosi- poiché la Se.Gr. era autorizzata a trasportare
tutti i tipi di rifiuti che erano nel cassone dell'autocarro
sequestrato.
Il procuratore della Repubblica ricorreva per cassazione
rilevando,
preliminarmente, che gli indagati avevano trasportato,
in assenza di autorizzazione, rifiuti non pericolosi e
che il Tribunale aveva perciò errato nel qualificare il
fatto
come violazione, avente esclusivo rilievo amministrativo,
dell'art. 260-bis, comma 7, laddove la corretta
qualificazione
del fatto sarebbe stata la violazione dell'art. 256 perché
la Se.Gr. non era titolare di autorizzazione per il
trasporto
di rifiuti del tipo di quelli per cui era causa.
Il ricorso è stato accolto.
La Corte ha incidentalmente dato atto del contrasto
interpretativo
riscontrabile nella sua giurisprudenza in merito alla
perdurante, o meno, rilevanza penale della fattispecie
entro il cui paradigma normativo il Tribunale del riesame
inscrive l'episodio di cui al presente processo,
consistente,
secondo la tesi del Tribunale, nel trasporto di rifiuti non
pericolosi
senza la scheda SISTRI, condotta che, secondo un
certo orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi oramai
non più sanzionata penalmente né dal nuovo testo dell'art.
258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006 né dall'art. 260-bis del
medesimo decreto, mentre, secondo un diverso indirizzo,
essa conserva rilevanza penale atteso che, in tema di
trasporto
di rifiuti pericolosi eseguito senza formulario ovvero
con formulario recante dati incompleti o inesatti, la
parziale
depenalizzazione prevista dal D.Lgs. n. 205/2010 è stata
differita al momento in cui acquisterà piena operatività il
nuovo sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti
(SISTRI),
per effetto dell'art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 121/2011.
Tuttavia, senza prendere posizione sul tema, la
Cassazione
ha rilevato che il Tribunale aveva errato nel qualificare
il reato di cui alla contestazione provvisoria: infatti, era
contestato non il fatto di avere eseguito un trasporto di
rifiuti
in assenza della prescritta documentazione, bensì
quello di avere eseguito il detto trasporto in assenza della
prescritta autorizzazione o, meglio, in assenza della
autorizzazione
per il genere di rifiuti in questione.
Al riguardo il Tribunale aveva affermato, in aperto
contrasto
con le risultanze delle indagini ed in termini del tutto
apodittici, che la Se.Gr. Srl fosse autorizzata al
trasporto
dei rifiuti, consistenti in rottami metallici sottoposti
ad una prima operazione di recupero da parte di un soggetto
diverso dal trasportatore, di cui al provvedimento di
sequestro.
Il Tribunale non aveva invece considerato la perdurante
idoneità della autorizzazione posseduta dalla Se.Gr.
srl, pur in presenza dell'intervenuto inizio del processo di
recupero dei rifiuti in questione, a consentire il trasporto
dei rifiuti in questione.
Il provvedimento impugnato è stato perciò annullato con
rinvio al Tribunale per nuovo esame sul punto (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2014 n. 44073 - Ambiente &
sviluppo 3/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
SOTTOPRODOTTI.
Rifiuti - Infissi in legno - Riutilizzo come legna da ardere
-
Applicazione della disciplina sui sottoprodotti - Esclusione.
Artt. 184-bis e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
I rifiuti costituiti da infissi in
legno, provenienti da lavori
di ristrutturazione edile, non sono qualificabili come
sottoprodotto
in quanto, non trattandosi di legno vergine,
l’utilizzazione come legna da ardere del citato materiale
non può prescindere, quanto meno, dalla privazione dei
residui di colla e di vernice sicché, in assenza di tale
preventivo
trattamento, è evidente la nocività della combustione
dei materiali sia per l'ambiente che per la salute.
Il Tribunale di Catania condannava il direttore tecnico
della
M. perché aveva trasportato e smaltito infissi in legno,
provenienti
dai lavori di ristrutturazione eseguiti presso la sede della
Capitaneria di Porto di Catania. Tali rifiuti erano stati
rinvenuti
nei pressi di uno dei moli del porto di Catania e il
direttore
tecnico non era stato in grado di fornire la documentazione
relativa al loro trasporto in discarica; a suo dire gli
infissi
in legno erano stati lasciati presso un deposito di
proprietà
della M. per essere riutilizzati per combustione.
Nel proposto ricorso per cassazione, il B. censurava la
definizione
di rifiuto data agli infissi in legno atteso che il legno
ha una specifica inclinazione ad essere riciclato.
La Corte ha negato fondamento alla tesi secondo la quale
il materiale legnoso in questione potesse essere considerato
un sottoprodotto: infatti, l'art. 184-bis, D.Lgs. n.
152/2006, nel dettare la definizione di sottoprodotto,
impone
che questo sia certamente riutilizzato nel corso di un
successivo processo produttivo o di utilizzazione, senza la
necessità di alcun ulteriore trattamento e che tale
utilizzazione
non porti a impatti complessivamente negativi sull'ambiente
e sulla salute umana.
A giudizio della Corte, non uno di questi requisiti, tutti
necessari
ai fini della qualificazione del materiale come
sottoprodotto,
risultava rispettato posto che: a) non vi era alcuna
certezza
di tale riutilizzo; b) non trattandosi di legno vergine, la
sua corretta utilizzazione come legna da ardere non poteva
prescindere quanto meno dalla privazione di esso dai residui
di colla e di vernice da esso; c) in assenza di tale
preventivo
trattamento era evidente la nocività della combustione di
tali materiali sia per l'ambiente sia per la salute (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2014
n. 44057 - Ambiente &
sviluppo 2/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ROTTAMI METALLICI.
Rifiuti - Rottami metallici - Inapplicabilità della
disciplina
sui rifiuti per effetto del regolamento comunitario n.
333/2011 - Esclusione.
Artt. 183 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Alcuni tipi di rottami metallici possono
cessare di essere
considerati rifiuti, ma non già e non solo in base alla
loro natura, alla loro consistenza e ai trattamenti che
subiscono sul luogo di produzione (tutti requisiti che
comunque devono essere accertati e certificati), ma anche
per effetto del rispetto delle specifiche prescrizioni
(in materia di formulari, ecc.) e del positivo esito delle
procedure preliminari delineate dalla normativa.
Il legale rappresentante della ditta L.F. spa, esercente
l'attività
di produzione e commercializzazione di materiali ferrosi,
veniva condannato per non avere rispettato la condizione
dettata dall'art. 183, lett. m), D.Lgs. n. 152/2006, in
quanto non aveva avviato alle operazioni di recupero, nei
limiti
temporali o quantitativi previsti, rottami ferrosi, sfridi
di
lavorazione ferrosi e trucioli, imballaggi metallici tanto
che i
rifiuti in deposito raggiungevano il volume di circa 700 mc.
e l'ultima operazione di scarico annotata nel registro
risaliva
al 26.09.2008; analoga violazione riguardava gli oli
esausti, il cui deposito veniva effettuato in violazione
delle
norme tecniche e di quelle che disciplinano l'imballaggio e
l'etichettatura delle sostanze pericolose.
Nel proposto ricorso per cassazione, il prevenuto deduceva
che, a partire dal 09.10.2011, era intervenuto il
regolamento
UE n. 333/2011 del 03.03.2011 che ha previsto
una serie di condizioni in presenza delle quali, come si
legge
nell'art. 1, i "rottami di ferro, acciaio e alluminio,
inclusi i
rottami di leghe di alluminio, cessano di essere rifiuti".
Secondo la difesa, era stata introdotta, da una fonte di
immediata
applicazione nell'ordinamento interno, una eccezione
alla generale definizione di rifiuto che, nella prospettiva
penalistica, configura una ipotesi di vera e propria abolitio
criminis disciplinata dall'art. 2, comma 2, cod. pen.
Il ricorrente in sostanza rilevava che:
(I) il regolamento
comunitario
trova diretta ed immediata applicazione nell'ordinamento
interno e pertanto, spirato il termine dilatorio di
cui all'art. 7, diviene diritto vigente a prescindere da
interventi
di recepimento del legislatore nazionale;
(II) la disciplina
ambientale è caratterizzata dalla presenza di una specifica
disposizione (art. 184-bis) contenente la disciplina della
categoria dei sottoprodotti;
(III) dopo aver
significativamente
precisato che i sottoprodotti "non sono rifiuti ai sensi
dell'art. 183, comma 1, lett. a)", in tale categoria il
legislatore
include le sostanze e gli oggetti il cui "ulteriore utilizzo
è
legale";
(IV) a seguito dell'entrata in vigore del citato
regolamento
comunitario, l'utilizzo dei rottami metallici che
soddisfino,
nel merito, le condizioni regolamentari, è da considerarsi
di per sé legale e, quindi, sottratto alla categoria dei
rifiuti;
(V) la legalità della fattispecie contravvenzionale
di
cui all'art. 256 è definita da un rapporto di strettissima
accessorietà
con la nozione di "rifiuto" fornita dalla norma definitoria
attraverso la quale il legislatore li identifica;
(VI) il
rinvio alla nozione di "rifiuto" quale elemento essenziale
della fattispecie, trasforma la norma definitoria in
elemento
normativo costitutivo della tipicità legale del fatto,
unitamente
alla costellazione delle previsioni 'satellite' che il
legislatore
utilizza per definire eccezioni alla stessa;
(VII) nella
categoria dei rifiuti non rientrano più, a partire dal 09.10.2011, i rottami metallici che soddisfano le condizioni
fissate
dal regolamento;
(VIII) la descritta modifica rende,
pertanto,
inapplicabile al fatto di cui alla lettera a) del capo di
imputazione, la norma sanzionatoria perché il "fatto non è
più previsto dalla legge come reato";
(IX) tale conclusione,
deriva dalla constatazione dell'avvenuto intervento
abolitivo
operato dalla normativa comunitaria.
Il ricorrente deduceva ancora che era necessario
l'accertamento
circa la ricorrenza di tutti gli elementi richiesti dalla
predetta fonte comunitaria per sottrarre il processo di
gestione
dei rottami metallici alla più stringente disciplina dettata
in materia di rifiuti ferrosi. Di tale circostanza la difesa
aveva offerto, anche con l'atto di appello, un principio di
prova, dimostrando documentalmente e con specifico
riferimento
alle risultanze istruttorie richiamate:
(I) l'esistenza
di un sistema di gestione della qualità certificato, anche
sotto il profilo della sua effettiva implementazione, da una
primaria società del settore;
(II) la destinazione
dell'insieme
dei rottami ferrosi prodotti dalla L.F. al ciclo produttivo
delle
acciaierie;
(III) la circostanza che i rottami metallici
prodotti
dalla L.F. generavano un reddito per la stessa perché,
contrariamente a quanto di norma avviene in relazione ai
rifiuti, il produttore veniva pagato dal successivo
utilizzatore
degli stessi.
La Cassazione, nel prendere in esame la tesi dell'abolitio
criminis basata sul motivo che i rottami ferrosi di cui
all’imputazione
non si sarebbero potuti considerare rifiuti dopo
l'entrata in vigore del regolamento UE n. 333/2011 (recante
i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami
metallici
cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della
direttiva
n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio),
ha rilevato, prima di tutto, che la Corte d'appello aveva
rigettato la specifica eccezione difensiva ritenendo che
il detto regolamento europeo potesse trovare applicazione
solo per il futuro, come peraltro previsto dal suo art. 7
(il
quale dispone che il regolamento entra in vigore il
ventesimo
giorno successivo alla pubblicazione nella G.U. della
UE, ma si applica a decorrere dal 09.10.2011), in quanto
lo stesso, oltre a determinare in quali casi i rottami di
ferro,
acciaio e alluminio cessano di essere considerati rifiuti,
prevede che a tal fine vengano poste in essere tutta una
serie di procedure preventive (burocratiche e materiali
quanto alla gestione ed al trattamento dei rifiuti da
operarsi già nel luogo di produzione) che sono
imprescindibili per
l'attuazione della normativa di che trattasi.
Il supremo Collegio ha condiviso pienamente questa
interpretazione.
Infatti, l'art. 3 del regolamento dispone che «i
rottami di ferro e acciaio cessano di essere considerati
rifiuti
allorché, all'atto della cessione dal produttore ad un altro
detentore, sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
[...] d) il produttore ha rispettato le prescrizioni degli
artt. 5
e 6».
L'art. 5, in particolare, prevede una «dichiarazione di
conformità» e prescrive che (comma 1) «Il produttore o l'importatore
stila, per ciascuna partita di rottami metallici, una
dichiarazione
di conformità in base al modello di cui all'allegato
III)», e (comma 2) che «Il produttore o l'importatore
trasmette
la dichiarazione di conformità al detentore successivo
della partita di rottami metallici. Il produttore o
l'importatore
conserva una copia della dichiarazione di conformità
per almeno un anno dalla data del rilascio mettendola a
disposizione
delle autorità competenti che la richiedano»;
mentre l'art. 6 dispone che il produttore deve applicare un
sistema di gestione della qualità, che prevede tutta una
serie
di procedimenti documentati, nonché obblighi specifici
di monitoraggio (indicati per ciascun criterio dagli
allegati I
e II), sistema che deve essere verificato da uno speciale
organismo
di valutazione.
Dal complesso sistema delineato dal regolamento, si evince
che alcuni tipi di rottami metallici possono cessare di
essere considerati rifiuti, ma non già e non solo in base
alla
loro natura, alla loro consistenza e ai trattamenti che
subiscono
sul luogo di produzione (tutti requisiti che comunque
devono essere accertati e certificati), ma anche per effetto
del rispetto delle specifiche prescrizioni (in materia di
formulari,
ecc.) e del positivo esito delle procedure preliminari
delineate da detta normativa.
Proprio per questo motivo, secondo la Cassazione, non è
possibile una applicazione del regolamento prima della sua
entrata in vigore, come è confermato dalla circostanza che
prevede un congruo termine per la sua effettiva e successiva
applicazione.
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata aveva
ritenuto
che il semplice fatto che i rifiuti metallici di diversa
natura
prodotti dalla L.F. fossero stati accumulati per più di
un anno indistintamente all'esterno della ditta, senza avere
subito alcun effettivo e certificato processo di
pretrattamento
e di separazione, rendeva già di per sé inapplicabile
agli stessi la nuova disciplina comunitaria, anche a
prescindere
dalla presenza di tutti gli altri requisiti dalla stessa
richiesti.
Per le ragioni indicate, era perciò impossibile ritenere, in
mancanza dei controlli e procedure prescritte dal
sopravvenuto
regolamento europeo, che i materiali rinvenuti nell'azienda
dell'imputato avessero perso la natura di rifiuti, e
quindi che si fosse determinata una abolitio criminis.
Poiché era stato accertato che l'impresa dell'imputato per
più di un anno non aveva conferito i propri rifiuti
metallici e
li aveva ammassati in un'area esterna all'edificio, la
sentenza
in rassegna ha ritenuto irrilevante stabilire se le ditte a
cui la stessa conferiva in precedenza tali rifiuti li
destinassero
o meno ad acciaierie o ad altri impianti di recupero,
posto che quello che era concretamente emerso era, appunto,
che i rifiuti in questione da lungo tempo non venivano
conferiti ad alcuna ditta e giacevano abbandonati.
La Cassazione, nel disattendere altre doglianze del
ricorrente,
ha rilevato che nel piazzale dell'azienda erano stati
rinvenuti 700 mc di rottami metallici, ivi accumulati
nell'ultimo
anno; nello stesso luogo, all'aperto, vi erano anche
600 litri di oli esausti riposti in vari fusti che,
all'atto del
controllo, erano privi di coperchio e di etichettatura e,
quindi,
esposti agli agenti atmosferici.
Inoltre, dalla
documentazione
fotografica risultava che i rifiuti solidi, oltre ad essere
depositati in maniera incontrollata su di un'area non
coperta
di circa 350 mq e con pavimento in cattivo stato di
manutenzione,
non erano costituiti solo da rottami ferrosi, ma
anche da imballaggi metallici e sfridi di lavorazione
ferrosi
con presenza di emulsione oleosa, nonché da stracci in
carta sporchi, plastica, indumenti protettivi e guanti
utilizzati,
nonché rifiuti derivanti dalla pulizia dei piazzali.
Parte
dei contenitori ove erano contenuti gli oli, poi, oltre a
trovarsi
all'aperto senza alcuna sovrastante copertura, non
erano dotati proprio di coperchio tanto che sotto alcuni di
essi era stata rilevata la fuoriuscita degli oli esausti.
La Corte d'appello aveva quindi plausibilmente ritenuto
che, se era vero che non vi erano in atto sversamenti di
tale
portata da poter contaminare il terreno circostante, era
anche vero che comunque sussisteva la necessità di evitare
la dispersione incontrollata dei rifiuti pericolosi presenti
sul posto ed i pericoli (anche solo potenziali) derivanti
all'ambiente
circostante da un accumulo smisurato dei rifiuti
di altra natura, causato a sua volta dalla violazione delle
prescrizioni normative relative ai limiti temporali e
quantitativi
di smaltimento.
La Corte suprema ha perciò concluso che correttamente
erano stati ritenuti sussistenti gli elementi costitutivi
dei
reati contestati, per la cui integrazione non è necessaria
la
presenza di un pericolo in concreto
(Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.10.2014
n. 43430 - Ambiente & sviluppo 2/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI IMMOBILI AVENTI VALORE PAESISTICO-AMBIENTALE.
Protrazione di vincoli di inedificabilità - Vincoli ad
iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata - Beni immobili
aventi valore paesistico-ambientale - Obbligo
dell'indennizzo,
esclusione.
D.P.R. 14.10.1959; legge 17.08.1942, n. 1150,
art. 17, comma 1; legge 18.04.1962, n. 167, art. 9,
comma 1.
In tema di protrazione di vincoli di inedificabilità, va
escluso l'obbligo dell'indennizzo in presenza di vincoli
ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, e che
non implichino quindi necessariamente l'espropriazione
o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica, nonché
riguardanti
beni immobili aventi valore paesistico-ambientale,
che, in quanto previsti in virtù della localizzazione
dei beni o della loro inserzione in un complesso
avente le qualità indicate dalla legge, interessano una
generalità di soggetti, sottoposti indifferenziatamente
ad un particolare regime in ragione delle caratteristiche
intrinseche dei beni stessi.
Venne sottoscritto un contratto preliminare per l’acquisto
di un immobile in costruzione, con contestuale versamento
di caparra confirmatoria.
Il proprietario dei fondi convenne in giudizio il Comune,
chiedendone la condanna al pagamento del controvalore
degli immobili o al risarcimento dei danni derivanti
dall'appropriazione sine titulo della relativa cubatura, nonché al risarcimento
dei danni derivanti dall'occupazione o al pagamento
dell'indennità per il mancato godimento.
In particolare l’attore, premesso che nel piano regolatore
generale approvato con D.P.R. 14.10.1959 i fondi erano
originariamente compresi in zona estensiva residenziale,
con indice di edificabilità di 2,5 mc/mq, espose che tale
indice era stato ridotto a 0,27 mc/mq a seguito
dell'inclusione
degl'immobili nel piano per l'edilizia economica e popolare
(PEEP), aggiungendo che i fondi, dei quali era stata
prevista l'espropriazione con delibera comunale erano stati
occupati dall'Amministrazione, la quale li aveva espropriati
soltanto in parte, utilizzando invece per intero l'indice di
fabbricabilità degli altri, senza tuttavia procedere
all'espropriazione,
ed assegnando agli stessi una destinazione a
servizi, che ne escludeva l'edificabilità.
Il Tribunale rigettò la domanda; pronuncia confermata in
appello.
La questione giunge quindi in Cassazione la quale
respingendo
il ricorso -per quanto qui rileva- osserva preliminarmente
che, in armonia con la giurisprudenza amministrativa
(Cons. Stato, Ad. plen., n. 28/2012, Cons. Stato n.
6572/2009 e Cons. Stato n. 1216/2008), la scadenza del
limite
temporale entro il quale le aree sono destinate a rimanere
vincolate, scadenza alla quale non faccia riscontro la
rinnovazione del piano, fa venir meno la possibilità di
procedere
agli espropri ed all'edificazione residenziale per la
parte di esso che non ha avuto esecuzione, ma non rende
inefficaci le relative prescrizioni urbanistiche, le quali
continuano
a trovare applicazione, avendo il piano natura di
strumento urbanistico di attuazione, le cui prescrizioni di
zona sono destinate a conservare efficacia a tempo
indeterminato,
ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150,
art. 17, comma 1, nonostante la scadenza del termine
previsto
per la sua attuazione.
In linea generale, dunque, in ordine all’efficacia dei
vincoli
d'inedificabilità, una volta oltrepassato il periodo di
durata
temporanea, quale determinata dal legislatore entro limiti
non irragionevoli, la reiterazione del vincolo (legittima
sul
piano amministrativo, se corredata da una congrua e
specifica
motivazione sull'attualità della previsione, con nuova
ed adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati
coinvolti e con giustificazione delle scelte urbanistiche di
piano) non può essere dissociata, in via alternativa
all'espropriazione,
dalla previsione di un indennizzo, ponendosi
altrimenti in contrasto con l'art. 42, comma 3, Cost. (si
veda
in tal senso cfr. Corte cost., n. 179/1999).
Pertanto, con
riferimento alla situazione derivante dalla scadenza del
termine
di efficacia di un PEEP, la Cassazione ricorda come la
Corte costituzionale abbia dichiarato l'illegittimità del
meccanismo
di proroga delle prescrizioni di piano previsto da
una legge regionale, nella parte in cui consentiva
l'automatica
protrazione dei vincoli d'inedificabilità senza la
previsione
di un indennizzo in favore del proprietario (si veda
Corte cost. n. 148/2003).
Ciò posto, i Giudici di legittimità osservano però che nella
specie non occorre porsi il problema dell'eventuale
illegittimità
costituzionale delle norme statali o regionali che
consentono
la protrazione del vincolo imposto sui fondi di proprietà
dell'attore anche dopo la scadenza del termine di efficacia
del PEEP ciò in quanto:
- la domanda proposta dall'attore non aveva ad oggetto il
riconoscimento dell'indennizzo per la protrazione del
vincolo,
ma il risarcimento dei danni derivanti dalla sottrazione
dell'indice di edificabilità originariamente attribuito agli
immobili,
la cui illegittimità deve essere nella specie esclusa;
- il vincolo conseguente all'attribuzione di una
destinazione
che esclude l'edificabilità, originariamente apposto
nell'ambito
di un piano la cui attuazione comportava l'espropriazione
degli immobili, non è incompatibile con uno sfruttamento
degli stessi ad iniziativa privata;
- nella specie, la scadenza del termine di efficacia del
PEEP
era stata preceduta dall'approvazione del piano territoriale
di coordinamento paesistico, nell'ambito del quale i fondi
hanno ricevuto una destinazione che ne esclude parimenti
l'edificabilità, senza però configurarsi come vincolo
preordinato
all'esproprio.
Ciò posto, la Cassazione conferma, richiamando ancora la
giurisprudenza costituzionale (si veda ancora Corte cost. n.
179/1999) che “in tanto può porsi una questione di
legittimità costituzionale delle norme che consentono la
protrazione
di vincoli d'inedificabilità in quanto si tratti di vincoli
a
carattere sostanzialmente espropriativo, aventi cioè come
effetto pratico uno svuotamento del contenuto della
proprietà
di rilevante entità ed incisività, mediante imposizione,
immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare
su beni determinati”: si è pertanto escluso l'obbligo
dell'indennizzo
in presenza di vincoli che comportino una destinazione
realizzabile -precisa la Cassazione- “ad iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata, e che non implichino
quindi necessariamente l'espropriazione o interventi ad
esclusiva iniziativa pubblica, nonché di vincoli riguardanti
beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, che, in
quanto previsti in virtù della localizzazione dei beni o
della
loro inserzione in un complesso avente le qualità indicate
dalla legge, interessino una generalità di soggetti,
sottoposti
indifferenziatamente ad un particolare regime in ragione
delle caratteristiche intrinseche dei beni stessi”.
A ciò la Cassazione aggiunge che nella specie, la prevalenza
del vincolo derivante dal piano territoriale di
coordinamento
paesistico su quello apposto nell'ambito del PEEP è stata
contestata dai ricorrenti attraverso il richiamo dell'art. 6
delle
norme di L.R. n. 39/1984, art. 5, comma 3, che limita la
predetta
prevalenza ai casi previsti dall'art. 2, lett. a), b), c),
d) e
g) della medesima legge: tale affermazione -osserva la
Cassazione- si pone tuttavia in contrasto con la natura sovraordinata
del piano territoriale di coordinamento paesistico, al
quale è demandato, ai sensi del citato art. 2, il compito
d'indicare
non solo gli interventi a protezione dell'ambiente in
relazione
alla potenzialità d'uso delle risorse territoriali ed ai
loro
valori storico-culturali, ma, "anche in termini di
destinazione
d'uso", l'organizzazione spaziale del sistemi sia
infrastrutturali
che insediativi (comma 1), prevedendo, in particolare,
la disciplina dei modi e delle forme di utilizzazione del
patrimonio
ambientale nelle sue diverse espressioni, ivi compresa
quella insediativa (comma 2, lett. c) (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 13.10.2014
n. 21584 -
Ambiente & sviluppo 2/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RESPONSABILITÀ DEL SINDACO.
Rifiuti - Stoccaggio provvisorio per la raccolta dei rifiuti
solidi urbani - Gestione irregolare - Responsabilità del
Sindaco
e del Dirigente
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 107, D.Lgs. n.
267/2000
La distinzione operata dall'art. 107 del
Testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di
indirizzo
e di controllo politico-amministrativo, demandati
agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti
ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere
di attivazione del sindaco allorché gli siano note
situazioni,
non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze
tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute
delle persone o l'integrità dell'ambiente.
Il dirigente della To.Sa.Pu.Se. S.p.a.,
partecipata
dal Comune di Forio d'Ischia e incaricata della gestione
e del trattamento completo dei rifiuti, e il Sindaco
dello stesso comune venivano condannati per il reato di
cui all'art. 256 per avere gestito un sito di stoccaggio
provvisorio
per la raccolta dei rifiuti solidi urbani in contrasto
con le prescrizioni contenute nell'autorizzazione n. 6419/03
e comunque in contrasto con le prescrizioni contenute con
quanto stabilito con D.M. 08.04.2008 del Ministero
dell'Ambiente.
Il ricorso presentato dal dirigente è stato respinto dalla
Corte
perché la sua condotta di natura colposa e fondamentalmente
omissiva era sufficiente a fondare l'affermazione di
responsabilità derivante appunto dal non avere adottato
quelle misure che avrebbero evitato una gestione dei rifiuti
gravemente inadempiente, quanto meno in relazione alla
necessità di evitare lo sversamento del percolato e dei
rifiuti
direttamente sul suolo e sulla pubblica via.
La Corte ha rigettato anche il ricorso del Sindaco che
lamentava
la violazione dell'art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 che
sancisce la netta separazione tra atti di indirizzo politico
ed
atti di gestione, solo i primi facendo capo al Sindaco.
Infatti, la Corte ha osservato che l'art. 107 stabilisce, al
comma 1, che ai dirigenti degli enti locali spetta la
direzione
degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme
dettati
dagli statuti e dai regolamenti, che devono uniformarsi
al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo
politico-
amministrativo spettano agli organi di governo, mentre
la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è
attribuita
ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione
delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Proprio con specifico riferimento alla materia dei rifiuti,
la
sentenza che si riporta ha ricordato che la stessa
Cassazione
ha già chiarito che il sindaco resta esente da
responsabilità
solo per quelle situazioni derivanti da problemi di
carattere
tecnico-operativo, riservati ai dirigenti amministrativi,
rispondendo invece delle scelte programmatiche e di
quelle contingibili ed urgenti adottate nell'ambito dei suoi
poteri. Tuttavia, al sindaco spetta comunque, anche in caso
di specifica delega di funzioni ad un particolare settore
dell'amministrazione,
porre in essere i necessari atti di indirizzo
e di mettere il delegato in condizioni di adeguatamente
operare, specie qualora gli sia noto lo smaltimento in
violazione
di legge.
Insomma, secondo la Corte, la distinzione operata dall'art.
107 delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i
poteri
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo,
demandati
agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti
ai
dirigenti, non esclude il dovere di attivazione del sindaco
allorché gli siano note situazioni, non derivanti da
contingenti
ed occasionali emergenze tecnico-operative, che
pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità
dell'ambiente.
Nella specie, la sentenza impugnata aveva fatto corretta
applicazione di detti principi: infatti, ciò che era stato
rimproverato
al Sindaco era sostanzialmente il fatto che lo
stesso, pur attivatosi, in un primo tempo, per sopperire
alla
situazione dello smaltimento dei rifiuti, si era poi, in
contrasto
con la permanenza a suo carico dei compiti generali di
controllo, fondamentalmente disinteressato della situazione
di tenuta del sito, per di più a fronte del fatto che la
gestione
dello stesso era stata devoluta a società partecipata,
per l'intero capitale sociale, dal Comune (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
07.10.2014 n. 41695 - Ambiente &
sviluppo 3/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
TRASPORTO E ABBANDONO OCCASIONALE.
Rifiuti - Trasporto e abbandono occasionale da parte di
un privato di propri rifiuti - Reato - Esclusione -
Ricorrenza
del solo illecito amministrativo.
Art. 255, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il soggetto privato, non titolare di
impresa, che abbandoni
in modo incontrollato un proprio rifiuto e che, a tal
fine, lo trasporti occasionalmente nel luogo ove lo stesso
verrà abbandonato, risponde solo dell'illecito
amministrativo
di cui all’art. 255, D.Lgs. n. 152/2006, per l'abbandono,
e non anche del reato di cui all'art. 256, comma
1, per il trasporto, in quanto questa condotta si
esaurisce nella fase meramente preparatoria e preliminare
rispetto alla condotta finale e principale di abbandono,
e non assume autonoma rilevanza ai fini penali.
Il Tribunale condannava un privato per il reato di cui
all'art.
256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 per avere
effettuato
un trasporto di rifiuti non pericolosi (cemento,
calcestruzzo,
mattonelle provenienti di attività di costruzione e
demolizione).
Il fatto si era svolto nel seguente modo: l'imputato
trasportava,
a mezzo di un rimorchio trainato da un trattore agricolo,
i rifiuti provenienti da una demolizione effettuata
nell’abitazione
della madre, al fine di abbandonarli in un posto
imprecisato. A un certo punto, il trattore uscì di strada
ed,
essendosi ribaltato il rimorchio, i rifiuti si sversarono
sul terreno
adiacente. Stante l'ora tarda e l'oscurità, il prevenuto
decise di abbandonare sul posto il rimorchio ed i rifiuti,
col
proposito di recuperarli il giorno seguente, ma l'indomani
mattina i vigili urbani scorsero il rimorchio ribaltato e
denunciarono
l'imputato per il reato contestato.
Nel proporre ricorso per cassazione, il soggetto deduceva,
in primo luogo, l’erronea applicazione dell'art. 256, comma
1: la fattispecie prevista da tale norma ha natura di reato
proprio in quanto richiede quale elemento costitutivo la
qualità di titolare di impresa o di responsabile di ente, in
assenza della quale deve configurarsi il solo illecito
amministrativo
di cui all'art. 255, comma 1. L'imputato non possedeva
tale qualità, esercitando l'attività di fornaio.
In secondo luogo, lamentava che il giudice erroneamente
lo avesse ritenuto colpevole del trasporto abusivo del
materiale
come se per l'abbandono non fosse necessario il trasporto.
Il ricorso è stato accolto.
La sentenza impugnata, oltre ad accertare che i rifiuti da
demolizione provenivano dall'appartamento della madre
dell'imputato, aveva anche accertato che costui non svolgeva
alcuna attività imprenditoriale e non era titolare di
impresa
o titolare di ente, né si occupava di smaltimento, trasporto
o gestione di rifiuti, in quanto svolgeva l'attività di
fornaio per cui la condotta di abbandono dei rifiuti non
integrava
il reato di cui all'art. 256, comma 2.
Il giudice aveva però ritenuto che l'imputato fosse comunque
responsabile della condotta (precedente e finalizzata
all'abbandono) di trasporto dei rifiuti a norma dell’art.
256,
comma 1, che non prevede un reato proprio, potendo essere
commesso da «chiunque».
Per giungere a questa conclusione, il giudice del merito
aveva ritenuto che il reato di trasporto abusivo di rifiuti
fosse integrato anche nell'ipotesi in cui si fosse trattato
di un
trasporto meramente occasionale, effettuato da un semplice
privato non titolare di impresa.
La Cassazione ha cominciato con il rilevare che, secondo il
principio di diritto implicitamente applicato dal giudice di
merito, qualora un privato abbandoni (questo l’esempio
fatto dalla Corte) «un vecchio mobile o un elettrodomestico
fuori del portone di casa, commetterebbe solo l'illecito
amministrativo
di cui all'art. 255, mentre qualora li abbandoni
all'angolo della strada a qualche decina (o centinaia) di
metri
di distanza, commetterebbe, oltre all'illecito
amministrativo,
anche il reato di trasporto abusivo di rifiuti di cui
all'art.
256, comma 1».
Secondo i giudici romani, questa interpretazione
attribuirebbe
al sistema normativo conseguenze manifestamente
illogiche (il che mostra anche la sua erroneità), se non
altro
perché in tale modo il sistema, così interpretato,
attribuirebbe
alla fase preparatoria (trasporto) del comportamento
tenuto dal privato una gravità maggiore della fase finale e
conclusiva (abbandono incontrollato).
Inoltre, il giudice non aveva chiarito se alla condotta di
trasporto
dei residui di demolizione dovesse attribuirsi, per
una qualche ragione, natura diversa e rilevanza autonoma
rispetto alla condotta finale e conclusiva di abbandono
incontrollato
ovvero se la stessa avesse natura meramente
preparatoria della condotta di abbandono e come tale fosse
priva di autonomo rilievo penale.
Inoltre, pur volendo attribuire al trasporto finalizzato
all'abbandono
rilevanza autonoma, il giudice non aveva comunque
spiegato perché nella specie quel comportamento integrava
il reato contestato.
La Corte al riguardo ha sostenuto che «…è vero che la
giurisprudenza
di questa Corte, richiamata dalla sentenza impugnata,
afferma che il reato di trasporto non autorizzato
di rifiuti di cui all'art. 256, comma 1, si può configurare
anche
in presenza di una condotta occasionale, ma è anche
vero che le massime citate si riferiscono tutte a soggetti
che in realtà svolgevano una «attività di trasporto» (anche
se non di rifiuti) o una attività di impresa nella quale
erano
stati prodotti i rifiuti trasportati o comunque a soggetti
che
avevano compiuto un trasporto per conto di terzi».
Tuttavia, secondo la Cassazione, la giurisprudenza emessa
in argomento avrebbe ritenuta irrilevante l'occasionalità
perché si trattava comunque di condotta tenuta nell'ambito
di una «attività di trasporto», e comunque non di un
trasporto
occasionale e finalizzato esclusivamente all'abbandono
di un proprio rifiuto.
Passando invece all’altro tema, e cioè se il reato di cui
all'art.
256, comma 1, costituisca o meno un reato proprio,
che possa essere commesso solo dai soggetti in favore
quali, in forza dell'art. 212, può essere effettuata la
relativa
iscrizione nell'albo, la Cassazione ha ritenuto che tale
questione
poteva anche non essere affrontata perché, quale
che fosse la sua corretta soluzione, nel caso in esame il
reato non era comunque integrato dalla condotta di un
soggetto privato (che cioè non agisca nell'ambito di una
attività
di impresa) il quale abbandoni occasionalmente in
modo incontrollato un proprio rifiuto e che, a questo scopo,
lo porti nel luogo dove poi lo abbandonerà.
Ciò perché deve ritenersi che rilevi solo la condotta
principale
e finale costituita dall'abbandono del rifiuto, mentre il
suo trasporto sul luogo di abbandono costituisce
esclusivamente
una fase preliminare e preparatoria che non acquista
autonomo rilievo sotto il profilo penale, rimanendo appunto
assorbita nella condotta di abbandono.
Quindi, se l'abbandono del rifiuto venga commesso da un
soggetto non titolare di una impresa o non responsabile di
un ente, e pertanto costituisca l’illecito amministrativo
punito
ai sensi dell'art. 255, il trasporto dello stesso rifiuto
per
essere abbandonato in un certo luogo rientra nella condotta
punita dalla sanzione amministrativa e non integra un
autonomo e distinto reato di trasporto di rifiuti senza
iscrizione
o autorizzazione.
Questa soluzione, ha concluso la Corte suprema, corrisponde
non solo ad una esegesi adeguatrice (in riferimento
soprattutto al principio costituzionale di ragionevolezza
sancito dall'art. 3 Cost., stante la manifesta
irragionevolezza,
come dianzi rilevato, della soluzione contraria, che
considera
più grave la fase preparatoria rispetto a quella finale),
ma anche ad una interpretazione sia letterale della
disposizione
(che parla di «attività di trasporto») sia sistematica,
che tiene conto della ratio del sistema punitivo.
Altrimenti, si dovrebbe, ad esempio, ritenere razionale un
sistema che, per una ipotesi di detenzione di sostanza
stupefacente
finalizzata allo spaccio, punisse lo spaccio con
una sanzione amministrativa e punisse altresì in modo
autonomo anche la detenzione con una sanzione penale.
La Cassazione ha quindi affermato il seguente principio di
diritto: «il soggetto privato, non titolare di una impresa e
non titolare di un ente, che abbandoni in modo incontrollato
un proprio rifiuto, e che a tal fine lo trasporti
occasionalmente
nel luogo ove lo stesso verrà abbandonato, risponderà
solo dell'illecito amministrativo di cui all'art. 255,
D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, per l'abbandono e non anche
del reato di trasporto abusivo di cui all'art. 256, comma 1,
in quanto la condotta di trasporto si esaurisce nella fase
meramente preparatoria e preliminare rispetto alla condotta
finale e principale di abbandono, e non assume autonoma
rilevanza ai fini penali» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
06.10.2014 n. 41352 - Ambiente &
sviluppo 1/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RESPONSABILITÀ DEI TITOLARI DELL’IMPRESA.
Rifiuti - Abbandono da parte di dipendenti di un’impresa
- Responsabilità dei titolari - Condizioni.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006, art. 40, cod. pen.
Va affermata la responsabilità dei
titolari di un’impresa
edile produttrice di rifiuti per il trasporto e l’abbandono
incontrollato degli stessi, avvenuto con automezzo di
proprietà della società, quantomeno sotto il profilo della
omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno
posto in essere la condotta illecita.
Nella presente vicenda, il Tribunale condannava per il reato
di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, il
proprietario
e l’amministratore unico della Ed.To. srl per
non aver ottemperato al dovere di vigilanza sui dipendenti
che avevano abbandonato rifiuti bituminosi come risultava
provato dalle videoriprese di una telecamera.
Secondo il Tribunale, le dimensioni dell'azienda non
consentivano
di ritenere lo scarico abusivo una iniziativa autonoma
degli operai i quali, peraltro, non avevano alcun interesse
a porre in essere una tale condotta, anziché recarsi in
discarica.
Nel proposto ricorso per cassazione, gli imputati
sostenevano
che il giudice di merito avesse ravvisato una sorta di
responsabilità oggettiva trascurando l'accertamento
dell'elemento
psicologico ed omettendo di considerare una serie
di elementi di fatto che suffragavano la tesi del movente
ritorsivo
sostenuto dalla difesa. Asserivano inoltre l'impossibilità
di controllare ogni comportamento dei dipendenti
che, nel caso di specie, poteva essere stato determinato da
finalità ritorsive o dall'esigenza di evitare le attese alla
discarica.
Il ricorso è stato ritenuto manifestamente infondato.
La Cassazione ha richiamato la giurisprudenza della stessa
Corte sul tema: in primo luogo, ha citato quelle sentenze in
cui si è affermato che il D.Lgs. n. 22/1997, art. 2, comma
3, già prevedeva la responsabilizzazione e la cooperazione
di tutti i soggetti "coinvolti", a qualsiasi titolo, nel
ciclo di
gestione non soltanto dei rifiuti ma anche degli stessi
"beni
da cui originano i rifiuti" e il D.Lgs. n. 152/2006, art.
178,
comma 3, ha puntualmente ribadito il principio di
"responsabilizzazione
e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti
nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel
consumo
di beni da cui originano i rifiuti"
(1).
Si è poi ricordato che le responsabilità per la corretta
effettuazione
della gestione dei rifiuti gravano su tutti i soggetti
coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e
consumo
dei beni dai quali originano i rifiuti stessi, e le stesse
si configurano
anche a livello di semplice istigazione, determinazione,
rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli
illeciti.
Dopo aver ricordato che il reato di cui all'art. 256, comma
1, non è un reato proprio, dal momento che la norma fa
riferimento
a "chiunque", la sentenza ha osservato che, in
presenza di una attività di gestione svolta da un'impresa,
vige il principio che la responsabilità per l'attività di
gestione
non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza
e volontarietà della condotta, potendo scaturire da
comportamenti che violino i doveri di diligenza per la
mancata
adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti
nella predetta gestione che legittimamente si richiedono
ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda
(2).
Nella specie, il Tribunale aveva osservato che le dimensioni
dell'impresa (14 dipendenti, numero limitato di mezzi ed un
unico furgone, presenza quotidiana degli imputati a contatto
con i dipendenti) non erano tali da far ritenere la condotta
frutto di una autonoma iniziativa dei lavoratori contro le
direttive e ad insaputa dei datori di lavoro; aveva
considerato
anche il risparmio di spesa determinato dallo scarico
abusivo rispetto al regolare smaltimento in discarica e
l'irrilevanza,
per i dipendenti di recarsi in discarica piuttosto
che nel parco fluviale, nonché la mancanza di un interesse,
per costoro a contravvenire alle disposizioni.
Il Tribunale aveva inoltre ritenuto irrilevante l'affissione
in
bacheca di una lettera dei titolari dell’impresa, avvenuta
quattro anni prima, perché il problema consisteva nello
stabilire
se i dipendenti operassero in un contesto favorevole
a condotte vietate, tenuto conto della mancanza di un
autonomo interesse a scaricare abusivamente i detriti. Ha
infine ritenuto che il datore di lavoro fosse a conoscenza
delle modalità di scarico dei rifiuti perché, in caso di
smaltimento
in discarica, veniva rilasciata apposita documentazione
da restituire in azienda a cura del lavoratore che vi
aveva provveduto.
Note
(1) Si veda: Cass. 25.05.2011, Ced Cass., rv. 250485.
(2) Si veda: Cass. 05.11.2003, Bellesini, in
RivistAmbiente, 2004, 630 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
01.10.2014 n. 40530 - Ambiente &
sviluppo 1/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ORDINANZE DI SGOMBERO.
Rifiuti - Ordinanza di sgombero di rifiuti - Emissione da
parte del dirigente comunale anziché del Sindaco -
Inottemperanza
- Reato - Esclusione.
Artt. 255 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L'inottemperanza all'ordinanza, con la
quale si impone
al privato di rimuovere la propria autovettura lasciata
in stato di abbandono sulla pubblica via e di affidarla ad
un centro autorizzato per la raccolta, non integra il reato
di cui all'art. 255, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006 se è
stata emessa dal dirigente comunale anziché dal Sindaco.
Nella specie, all'imputato era stato contestato di non aver
ottemperato all'ordinanza con la quale gli era stato imposto
di rimuovere un’autovettura, lasciata in stato di abbandono
sulla pubblica via, e di affidarla ad un centro autorizzato
per la raccolta e per questo motivo era stato condannato
per il reato di cui all'art. 255, comma 3, D.Lgs. n.
152/2006.
Nel ricorrere per cassazione, il M. eccepiva che si trattava
di ordinanza dirigenziale e non sindacale e quindi la sua
violazione non integrava il reato de quo.
La Corte ha accolto il ricorso mettendo in evidenza che la
competenza del Sindaco, mantenuta espressamente dal
legislatore
del 2006 anche dopo l’attribuzione ai dirigenti comunali
del potere di ordinanza di cui all'art. 107, D.Lgs. n.
267/2000, è stata unanimemente interpretata dalla
giurisprudenza
amministrativa come volontà di riservare in via
esclusiva all'organo apicale dell'amministrazione comunale
la competenza a emettere le ordinanze ex art. 192, D.Lgs.
n. 152/2006, con conseguente annullabilità, per
incompetenza,
dell'ordinanza eventualmente adottata dal dirigente
comunale.
La Corte ha poi fatto presente che le precedenti sentenze
della Cassazione che attribuivano al dirigente comunale la
competenza esclusiva o concorrente riguardavano una
condotta posta in essere in epoca anteriore al D.Lgs. n.
152/2006, quando, cioè, in base all'art. 107 cit., si
riteneva
legittima l'adozione dell'ordinanza de qua, anche da parte
del dirigente comunale.
Secondo la sentenza in epigrafe, l'assetto normativo attuale
rende invece più corretta, e più armonica, l'interpretazione
della latitudine applicativa del precetto penale che
individua
espressamente, come elemento costitutivo del reato,
l'«ordinanza del Sindaco», non una qualsiasi ordinanza
emessa ai sensi dell'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006.
La conclusione è stata dunque obbligata: l'inottemperanza
all'ordinanza emessa dal dirigente comunale non integra il
reato contestato (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.09.2014
n. 40212 -
Ambiente & sviluppo 2/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: COMBUSTIONE DI RIFIUTI.
Rifiuti - Combustione di rifiuti agricoli - Reato.
Artt. 185, 215 e 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Gli sfalci e le potature, come ogni
altro rifiuto agricolo,
costituiscono rifiuto quando il loro produttore se ne disfi:
ne consegue che la loro combustione è penalmente
sanzionata, non rilevando che l'incenerimento venga
effettuato
direttamente dal produttore, nel luogo di produzione,
trattandosi comunque di forma di autosmaltimento
non consentita in assenza, quantomeno, di comunicazione
di inizio attività di cui all'art. 215, D.Lgs. n.
152/2006.
La sentenza che si riporta fa parte di un gruppo di
decisioni
che hanno esaminato la stessa questione: il Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Avellino aveva,
infatti,
chiesto al Giudice per le indagini preliminari di emettere
decreto penale di condanna in ordine al reato di cui agli
artt. 81 cpv., cod. pen., 256, comma 1, lett. a), in
relazione
all'art. 185, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 e 674 cod. pen.,
per
aver effettuato «senza alcuna autorizzazione, un'attività di
smaltimento, mediante incenerimento a terra, di scarti
vegetali
(rifiuti speciali non pericolosi: CER 02.01.03 non
qualificabili
come materiale agricolo o forestale naturale utilizzato
in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa mediante processi o metodi che
non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute
umana), nonché perché illegalmente provocava, in luogo
di pubblico transito e comunque verso luoghi privati di
altrui uso, fumi atti ad offendere o molestare le persone».
Il Giudice per le indagini preliminari aveva però assolto
l'imputato
sostenendo che:
1) l'abbruciamento dei residui derivanti
dalla pulitura o dalla manutenzione del fondo costituisce
uso contadino locale invalso;
2) si tratta di pratica
agronomica lecita perché prevista e disciplinata tanto dal
legislatore nazionale (legge n. 353/2000) quanto dal
legislatore
regionale;
3) l'art. 6, commi 3 e 6, del capo I
dell'allegato
3, L.R. Campania 07.05.1996, n. 11, in particolare,
prevede espressamente l'attività di «abbruciamento delle
ristoppie
e degli altri residui vegetali», regolamentandone le
concrete modalità e prescrivendo le relative attività
preparatorie;
4) la violazione delle prescrizioni è punita a titolo di
illecito amministrativo (art. 47, lett. b, capo I, allegato
C alla
L.R. cit.);
5) a norma dell'art. 185, comma 1, lett. f), non
rientrano nel campo di applicazione del decreto, la paglia,
gli sfalci e le potature, nonché altro materiale agricolo o
forestale
naturale non pericoloso utilizzato in agricoltura, nella
selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa
mediante processi o metodi che non danneggiano
l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana;
6) le
ceneri
di legno, provenienti da legname non trattato chimicamente
dopo l'abbattimento, sono utilizzabili come concime
(come prevede il regolamento CEE n. 2092/91, Allegato II,
parte A);
7) la cenere, inoltre, è notoriamente utilizzata
in
agricoltura come concime, come si può evincere dall'articolo
di una rivista specializzata nel settore («Vita in campagna
2/2006»), secondo cui per cento metri quadri di terreno
necessitano non più di 25 kg. di cenere, pari a 5 metri
cubi di legna da ardere;
8) si tratta di quantità che sono
assolutamente
compatibili con la modesta attività di bruciatura
posta in essere nel caso di specie, come rilevata
fotograficamente
dalla polizia giudiziaria;
9) gli usi dell'agricoltura
e la stessa normativa regionali costituiscono elementi che,
in ogni caso, depongono a favore della buona fede di chi
pratica questa attività, escludendo che possa avere
coscienza
della antisocialità della propria condotta.
Nel ricorrere per cassazione, il Procuratore della
Repubblica
osservava che:
1) a norma dell'art. 185, comma 1, lett.
f), non è sufficiente l'esistenza di una prassi in
agricoltura,
ma è necessario che si tratti di processi o metodi che non
danneggiano l'ambiente, né mettono in pericolo la salute
umana;
2) nel caso di specie, l'ARPAC, con nota informativa
allegata al ricorso, aveva evidenziato che l'attività
oggetto
di imputazione non rientrava tra le tecniche agricole che
non danneggiano l'ambiente;
3) si tratta di rifiuti
espressamente
previsti dall'allegato A alla parte IV del D.Lgs. n.
152/2006;
4) l'attività di smaltimento mediante
incenerimento
a terra è espressamente prevista dall'allegato B alla
parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006 (D10);
5) il giudice,
dunque, non solo aveva errato nell'applicazione della norma,
ma aveva anche travisato la prova derivante dal certificato
ARPAC, ponendo a fondamento della propria decisione
la propria personale scienza (un articolo di una rivista,
peraltro nemmeno presente in atti);
6) la normativa
regionale
citata in sentenza disciplina la sola attività in essa
prevista,
ma non può incidere, nel senso di escluderlo, sul regime
autorizzatorio di necessaria competenza esclusiva
dello Stato;
7) il che esclude anche la buona fede di chi
ponga in essere questa attività senza autorizzazione;
8)
peraltro
si tratta di norme che non sono tra loro in rapporto di
specialità (dovendosi far riferimento alla specialità in
astratto)
e, quand'anche lo fossero, quella penale sarebbe applicabile
perché in rapporto di specialità unilaterale per
specificazione.
La Cassazione ha accolto il ricorso.
Dopo aver ricordato la nozione di rifiuto e di smaltimento e
aver evidenziato che l'allegato B della parte quarta del
decreto
n. 152 include, tra le operazioni di smaltimento,
«l'incenerimento
a terra» (D10) per il cui svolgimento, se effettuato
direttamente dal produttore, nel luogo di produzione
dei rifiuti stessi, è necessaria la comunicazione di inizio
attività,
la sentenza è passata ad analizzare le argomentazioni
del Giudice per le indagini preliminari e del Procuratore
della
Repubblica nonché dell'imputato che, in una memoria
difensiva, aveva insistito sul fatto che «bruciare i residui
agricoli equivale a produrre ceneri che, da sempre, vengono
utilizzate come fertilizzanti», in accordo a pratiche
agricole,
da sempre invalse nel mondo contadino, avallate anche
da numerosi studi scientifici che ne dimostrano l'efficacia
fertilizzante.
Orbene, secondo la Cassazione gli sfalci e le potature, come
ogni altro rifiuto agricolo, costituiscono rifiuto quando il
produttore se ne disfi; la loro provenienza da un'attività
agricola, ancorché non svolta con le forme imprenditoriali
di cui all'art. 2135 cod. civ., non incide sulla loro natura
di
«rifiuto», ma solo sulla loro classificazione: i rifiuti
agricoli,
infatti, restano tali anche se prodotti in contesti non
imprenditoriali
(dovendosi intendere per imprenditore agricolo
anche il piccolo coltivatore agricolo di cui all'art. 2083
cod.
civ.).
La Corte ha osservato:
- che il D.Lgs. n. 152/2006 condiziona
l'esclusione di quei rifiuti dal proprio ambito di
applicabilità
al riutilizzo diretto in agricoltura;
- che il concetto di
«utilizzo»
è presente in tutte le versioni che nel tempo ha avuto la
medesima
norma (art. 185);
- che esula dal concetto di «utilizzo»,
e rientra a pieno titolo nell'ambito applicativo del D.Lgs.
n.
152/2006, lo smaltimento definitivo del rifiuto mediante la
procedura dell'incenerimento al suolo;
- che non rileva, a tal
fine,
che l'incenerimento venga effettuato direttamente dal
produttore, nel luogo di produzione, trattandosi comunque
di forma di autosmaltimento non consentita in assenza,
quantomeno, di comunicazione di inizio attività di cui
all'art.
215 e penalmente sanzionata dall'art. 256, comma 1;
- che
l'incenerimento al suolo non è condotta che possa integrare
la «cessazione della qualifica di rifiuto», presupponendo -quest'ultima- un'operazione di «recupero» del rifiuto e non
di «smaltimento»;
- che l’utilizzo del rifiuto deve essere
oggetto
di rigoroso accertamento;
- che la relativa prova non può
essere affidata ad usi e consuetudini; che in ossequio al
principio della riserva assoluta di legge in materia penale,
e
nel rispetto della gerarchia delle fonti, gli usi e le
consuetudini,
se non espressamente richiamati dalla legge, non hanno
alcuna efficacia scriminante, tanto meno limitativa della
portata
applicativa del decreto, né possono essere utilizzati per
aggirare la necessaria rigorosità della prova dell'utilizzo
del
rifiuto nella pratica agricola;
- che la L.R. Campania 07.05.2006, n. 11, come qualunque legge regionale, non può avere
efficacia modificativa/abrogativa di una norma penale;
-
che peraltro, il suo ambito applicativo (e la ratio della
previsione
di cui all'art. 6, comma 6, cit.) riguarda la prevenzione
degli incendi boschivi, non lo smaltimento dei rifiuti;
- che
in
tale contesto, la denunzia al Sindaco e al Comando Stazione
Forestale competente è indirizzata ad autorità del tutto
diverse
ed assolve a finalità del tutto eterogenee rispetto alla
comunicazione
di cui all'art. 215, D.Lgs. n. 152/2006 non potendosi
ritenere ad essa sostitutiva o equipollente;
- che in
ogni caso, il richiamo a tale legge è improprio,
disciplinando
essa condotte, quali la bruciatura (direttamente sul
terreno)
delle stoppie, nonché la pulizia dei castagneti (mediante
bruciatura
di piccoli mucchi dei ricci, del fogliame e delle felci),
del tutto diverse da quelle oggetto d'imputazione (grossi
falò
di potature ed altri residui vegetali non derivanti dalla
pulizia
di castagneti);
- che ciò vale ad escludere qualsiasi riflesso
sull'elemento psicologico del reato (pure invocato per
ritenere
l'assenza di colpa per buona fede);
- che a seguito
dell'introduzione
del delitto di cui all'art. 256-bis, comma 2, la
combustione non autorizzata, quale modalità di smaltimento
dei rifiuti dolosamente perseguita all'esito dell'attività
di raccolta,
trasporto e spedizione, qualifica le corrispondenti condotte
previste dagli artt. 256 e 259 D.Lgs. n. 152/2006, facendole
assurgere a fattispecie autonoma di reato, ancorché
a tali fasi di gestione del rifiuto, prodromiche alla
combustione,
non segua la combustione stessa;
- che il residuo illecito
amministrativo di cui all'art. 256-bis, comma 6, ha invece
ad
oggetto i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali
giardini,
parchi e aree cimiteriali di cui all'art. 184, lett. e), non
dunque la paglia, gli sfalci, le potature e il materiale
agricolo
o forestale non pericoloso di cui all'art. 185, comma 1,
lett.
f);
- che la condotta, però, deve avere ad oggetto rifiuti
vegetali
abbandonati o depositati in modo incontrollato (tale il
senso del richiamo al comma 1), non anche raccolti e
trasportati
dallo stesso autore della combustione, poiché, in tal
caso, la condotta ricadrebbe nella previsione di cui al
comma
2 dello stesso art. 256-bis;
- che, infine, la condotta di
autosmaltimento mediante combustione illecita di rifiuti
continua
ad avere penale rilevanza (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
01.08.2014 n. 34098
- Ambiente & sviluppo 2/2015). |
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