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aggiornamento al 22.02.2017

aggiornamento al 03.02.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 22.02.2017

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATASu pensiline, gazebo e pergolati la guida del Consiglio di Stato. Permessi edilizi. Su terrazzi e balconi.
Pergolati, gazebo, tettoie, pensiline e, più di recente, le pergotende, sono opere, normalmente di limitata consistenza e/o di limitato impatto sul territorio, di cui non è sempre agevole individuare il limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell'edilizia libera o per i quali è richiesta una comunicazione all'amministrazione preposta alla tutela del territorio o addirittura necessitano del rilascio di un permesso di costruire.
Spesso sono i regolamenti edilizi comunali che dettano le regole, cui si aggiungono poi, per le aree sottoposte a vincolo paesaggistico o ad altri vincoli, ulteriori limitazioni.

A fare un po' di chiarezza sull'argomento ha recentemente pensato il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 25.01.2017 n. 306.
Vediamo caso per caso le definizioni.
Il pergolato, per sua natura, è una struttura aperta su almeno tre lati e nella parte superiore. Esso costituisce una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze e consiste, quindi, in un'impalcatura, generalmente di sostegno di piante rampicanti, costituita da due (o più) file di montanti verticali riuniti superiormente da elementi orizzontali posti ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Normalmente il pergolato non necessita di titoli abilitativi edilizi. Quando il pergolato viene coperto, nella parte superiore (anche per una sola porzione) con una struttura non facilmente amovibile (realizzata con qualsiasi materiale), è assoggettata tuttavia alle regole dettate per la realizzazione delle tettoie.
Il gazebo, invece, nella sua configurazione tipica, è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore e aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili. Spesso è utilizzato per l'allestimento di eventi all'aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In caso contrario, se infisso al suolo, dovrebbe essere richiesto il permesso di costruire
La veranda è stata recentemente definita come un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» (si veda l’intesa sottoscritta il 20.10.2016 tra Governo, Regioni e Comuni sul regolamento edilizio-tipo). La veranda, realizzabile su balconi, terrazzi, attici o giardini, è caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che all'occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro. Per questo la veranda, dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria dell'edificio e una modifica della sua sagoma e necessita quindi del permesso di costruire.
Infine, la pergotenda è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso (Consiglio di Stato, sentenza 1777/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAIn relazione ad alcune opere, normalmente di limitata consistenza e di limitato impatto sul territorio, come pergolati, gazebo, tettoie, pensiline e, più di recente, le pergotende, non è sempre agevole individuare il limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell’edilizia libera o invece devono farsi rientrare nei casi di edilizia non libera per i quali è richiesta una comunicazione all’amministrazione preposta alla tutela del territorio o il rilascio di un permesso di costruire.
Spesso sono i regolamenti edilizi comunali che dettano le regole, anche sulle dimensioni, che possono avere tali opere per poter essere realizzate liberamente o previa comunicazione o richiesta di assenso edilizio.
Alle disposizioni comunali si aggiungono poi, per le aree sottoposte a vincolo paesaggistico o ad altri vincoli, le limitazioni imposte dai diversi strumenti di tutela.
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Il pergolato costituisce una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze e consiste, quindi, in un’impalcatura, generalmente di sostegno di piante rampicanti, costituita da due (o più) file di montanti verticali riuniti superiormente da elementi orizzontali posti ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Il pergolato, per sua natura, è quindi una struttura aperta su almeno tre lati e nella parte superiore e normalmente non necessita di titoli abilitativi edilizi.
Quando il pergolato viene coperto, nella parte superiore (anche per una sola porzione) con una struttura non facilmente amovibile (realizzata con qualsiasi materiale), è assoggettata tuttavia alle regole dettate per la realizzazione delle tettoie.

Il Consiglio di Stato, al riguardo, ha già affermato che
il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato in una struttura leggera in legno o in altro materiale di minimo peso, deve essere facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, e funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
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Il gazebo
, nella sua configurazione tipica, è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili.
Spesso il gazebo è utilizzato per l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi il gazebo è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.

Nella fattispecie l’opera realizzata dall’appellante non può ritenersi assimilabile ad un gazebo per la sua forma, che non è quella tipica di un gazebo, per i materiali utilizzati, che non sono tutti leggeri, e perché la struttura è stata realizzata in aderenza ad un preesistente immobile in muratura.
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Nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».

La veranda, realizzabile su balconi, terrazzi, attici o giardini, è caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro. Per questo la veranda, dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria dell’edificio e una modifica della sua sagoma e necessita quindi del permesso di costruire.
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La ricorrente insiste nel sostenere che le opere sanzionate dal Comune altro non sono che una “
pergotenda”, realizzata con teli amovibili (appoggiati sul preesistente pergolato), che non ha determinato alcun aumento di volumetria e di superficie coperta.

In proposito questa Sezione ha, di recente, affermato che
tali strutture, la cui agevole realizzazione è oggi possibile grazie a nuove tecniche e nuovi materiali, sono destinate a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e sono installate per soddisfare quindi esigenze non precarie.
Le “pergotende” non si connotano, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo.
Ciò premesso,
la Sezione, nella stessa citata decisione, ha ritenuto che le pergotende, tenuto conto della loro consistenza, delle caratteristiche costruttive e della loro funzione, non costituiscano un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo.
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380 del 2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera (nella fattispecie esaminata in alluminio anodizzato) destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L’opera principale non è, infatti, la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (in alluminio anodizzato) si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una “nuova costruzione”, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda, «onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie».

Inoltre l’elemento di copertura e di chiusura è costituito da una tenda in materiale plastico, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
Anche in una precedente decisione la Sezione aveva affermato che
la pergotenda è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d’uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all’interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso.
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... per la riforma della sentenza del TAR per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione I, n. 2543 del 04.12.2015, resa tra le parti, concernente la demolizione di opere edilizie abusive e il ripristino dello stato dei luoghi.
...
1.- La signora An.Pa. ha impugnato davanti al TAR per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, l’ordinanza, n. 23 del 16.06.2015, con la quale il Responsabile del Settore Ufficio Tecnico del Comune di Altavilla Silentina, le ha ingiunto di provvedere, a sua cura e spese, alla demolizione di una copertura e chiusura perimetrale di un pergolato con teli plastificati, fissati alla struttura con il sistema degli occhielli e chiavetta, con un riquadro di materiale plastico come finestra nella parte centrale, in quanto realizzate in assenza di titolo abilitativo.
1.1- Il TAR per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione I, con sentenza n. 2543 del 04.12.2015, resa in forma semplificata nella camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, ha respinto il ricorso.
Il TAR ha, infatti, ritenuto che «il materiale utilizzato, pur agevolmente amovibile siccome consistente in materiale plastico, non rende l’intervento ex se non sanzionabile con l’impugnato ordine demolitorio, in quanto, per come realizzato, riflette esigenze non di carattere meramente temporaneo», con la conseguenza che le opere realizzate hanno determinato una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con la perdurante modifica dello stato dei luoghi.
2- La signora Pa. ha appellato l’indicata sentenza ritenendola erronea.
In particolare, dopo aver ricordato di aver realizzato la struttura del pergolato nel 2011 con una scia, la signora Pa. ha insistito nel sostenere l’amovibilità della tenda plastificata e quindi l’illegittimità dell’ordinanza demolitoria. La signora Pa. ha anche depositato un perizia tecnica di parte redatta in relazione alle opere oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata.
3- Per valutare la legittimità del provvedimento con il quale il Comune di Altavilla Silentina (che non ha ritenuto di doversi costituire in giudizio) ha ordinato la demolizione delle opere realizzate dall’appellante in assenza di alcun titolo abilitativo occorre qualificare la natura delle opere realizzate.
Come si evince dal provvedimento impugnato, dalla documentazione depositata in giudizio e dalla perizia tecnica di parte, completa di numerose fotografie, la signora Pa. ha realizzato, in aderenza ad un preesistente immobile, una struttura con 3 pilastri verticali in muratura, travi portanti della copertura in legno, copertura in materiale plastico, fissata con chiodi alle travi di legno, e pareti esterne in materiale plastico amovibile, con una porta di accesso.
3.1- Per realizzare tale struttura l’interessata non ha presentato una dichiarazione o richiesta di assenso al Comune. Risulta peraltro dagli atti che la signora Pa., con SCIA del 15.03.2011, aveva realizzato alcuni lavori nell’immobile oggetto dei lavori contestati con l’ordinanza impugnata.
L’appellante sostiene di aver provveduto a seguito della SCIA, fra l’altro, alla pavimentazione dell’area esterna dove sono state realizzate le opere di cui ora si discute e di aver anche realizzato un ampio pergolato esterno su parte del quale è stata realizzata la contestata struttura.
4.- Ciò premesso, si deve osservare che,
in relazione ad alcune opere, normalmente di limitata consistenza e di limitato impatto sul territorio, come pergolati, gazebo, tettoie, pensiline e, più di recente, le pergotende, non è sempre agevole individuare il limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell’edilizia libera o invece devono farsi rientrare nei casi di edilizia non libera per i quali è richiesta una comunicazione all’amministrazione preposta alla tutela del territorio o il rilascio di un permesso di costruire.
Spesso sono i regolamenti edilizi comunali che dettano le regole, anche sulle dimensioni, che possono avere tali opere per poter essere realizzate liberamente o previa comunicazione o richiesta di assenso edilizio.
Alle disposizioni comunali si aggiungono poi, per le aree sottoposte a vincolo paesaggistico o ad altri vincoli, le limitazioni imposte dai diversi strumenti di tutela.

5- Nella fattispecie, vista la documentazione in atti, si può preliminarmente escludere che le opere realizzate e ritenute abusive dal Comune possano farsi rientrare tutte nella nozione di pergolato.
5.1-
Il pergolato costituisce infatti, una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze e consiste, quindi, in un’impalcatura, generalmente di sostegno di piante rampicanti, costituita da due (o più) file di montanti verticali riuniti superiormente da elementi orizzontali posti ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Il pergolato, per sua natura, è quindi una struttura aperta su almeno tre lati e nella parte superiore e normalmente non necessita di titoli abilitativi edilizi.
Quando il pergolato viene coperto, nella parte superiore (anche per una sola porzione) con una struttura non facilmente amovibile (realizzata con qualsiasi materiale), è assoggettata tuttavia alle regole dettate per la realizzazione delle tettoie.

5.2- Il Consiglio di Stato, al riguardo, ha già affermato che
il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato in una struttura leggera in legno o in altro materiale di minimo peso, deve essere facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, e funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 5409 del 29.09.2011).
5.3- In conseguenza le opere oggetto del contestato ordine di demolizione non possono farsi rientrare fra quelli oggetto della suindicata SCIA del 15.03.2011 che includevano la sola realizzazione di un pergolato.
6- La struttura realizzata dall’appellante non può farsi rientrare nemmeno nella nozione di gazebo, pur avendone alcune caratteristiche.
Il gazebo, infatti, nella sua configurazione tipica, è una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili. Spesso il gazebo è utilizzato per l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi casi è considerata una struttura temporanea. In altri casi il gazebo è realizzato in modo permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come giardini o ampi terrazzi.
6.1-
Nella fattispecie l’opera realizzata dall’appellante non può ritenersi assimilabile ad un gazebo per la sua forma, che non è quella tipica di un gazebo, per i materiali utilizzati, che non sono tutti leggeri, e perché la struttura è stata realizzata in aderenza ad un preesistente immobile in muratura.
7- La struttura contestata dal Comune intimato non può poi nemmeno considerarsi una veranda.
In proposito si deve ricordare che
nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016 , ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
7.1-
La veranda, realizzabile su balconi, terrazzi, attici o giardini, è caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro. Per questo la veranda, dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria dell’edificio e una modifica della sua sagoma e necessita quindi del permesso di costruire.
8- La signora An.Pa. nel suo appello
ha insistito nel sostenere che le opere sanzionate dal Comune di Altavilla Silentina altro non sono che una “pergotenda”, realizzata con teli amovibili (appoggiati sul preesistente pergolato), che non ha determinato alcun aumento di volumetria e di superficie coperta.
9- In proposito questa Sezione ha, di recente, affermato che
tali strutture, la cui agevole realizzazione è oggi possibile grazie a nuove tecniche e nuovi materiali, sono destinate a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e sono installate per soddisfare quindi esigenze non precarie (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1619 del 27.04.2016).
Le “pergotende” non si connotano, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo.
9.1- Ciò premesso,
la Sezione, nella stessa citata decisione, ha ritenuto che le pergotende, tenuto conto della loro consistenza, delle caratteristiche costruttive e della loro funzione, non costituiscano un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo.
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380 del 2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera (nella fattispecie esaminata in alluminio anodizzato) destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L’opera principale non è, infatti, la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (in alluminio anodizzato) si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una “nuova costruzione”, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda, «onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie».

Inoltre l’elemento di copertura e di chiusura è costituito da una tenda in materiale plastico, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
9.2- Sulla base di tali considerazioni la Sezione ha quindi ritenuto che una delle due strutture nella fattispecie realizzate, destinata unicamente al sostegno (in alluminio) di un elemento di arredo temporaneo consistente in una tenda retrattile, non abbisognava del previo rilascio di un permesso di costruire, risolvendosi «in un mero elemento di arredo del terrazzo su cui insiste».
Infatti la struttura di alluminio anodizzato (nella fattispecie esaminata) è stata ritenuta un mero elemento di sostegno della tenda e quindi non poteva considerarsi un nuovo organismo edilizio determinante una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
9.3- Mentre nell’altra struttura contestualmente esaminata, la natura e la consistenza del materiale utilizzato (il vetro) faceva sì che la struttura di alluminio anodizzato si configurava non più come mero elemento di supporto di una tenda, ma piuttosto costituiva la componente portante di un vero e proprio manufatto, che assumeva la consistenza di una vera e propria opera edilizia, connotandosi per la presenza di elementi di chiusura che, realizzati in vetro, costituivano vere e proprie tamponature laterali con un carattere di stabilità tale da non poter essere realizzate in assenza del titolo abilitativo necessario per le nuove costruzioni.
9.4- Anche in una precedente decisione la Sezione aveva affermato che
la pergotenda è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d’uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all’interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1777 dell’11.04.2014).
10- Tutto ciò premesso, la Sezione ritiene che l’ordinanza di demolizione impugnata non possa ritenersi legittima perché le opere realizzate dall’appellante, peraltro in un’area che non è sottoposta a vincolo paesaggistico, sono prive, in gran parte, di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano farle connotare come componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
10.1- Le opere oggetto dell’ordinanza impugnata, che si sono già prima sommariamente descritte, si connotano, infatti, per la presenza di teli e tende in materiale plastico facilmente amovibili, che aderiscono ad una struttura di sostegno che è costituita da tre pilastrini verticali in muratura e da alcune travi di legno collocati sia in verticale che nella parte superiore.
La struttura portante, sebbene non tutta con materiali leggeri, può anche farsi rientrare nella categoria dei pergolati (come sostiene l’appellante). Una delle tende laterali può essere poi considerata una vera e propria pergotenda, che può essere aperta o chiusa mediante un sistema di scorrimento veloce. Sostanzialmente hanno la stessa caratteristica anche le tende collocate sugli altri lati che possono essere movimentate manualmente su apposite guide scorrevoli e possono essere chiuse o aperte mediante appositi occhielli.
10.2- Restano evidentemente di meno facile amovibilità la copertura della struttura, che è stata realizzata con teli di plastica che sono stati fissati alla travi di legno superiore con chiodi e rondelle, e la piccola porta posta sul lato A della struttura.
Ma la presenza di tali opere che sono meno facilmente amovibili e che possono avere una certa rilevanza edilizia, anche in base alla disciplina eventualmente dettata dal regolamento edilizio comunale, non giustifica comunque l’emanazione di una ordinanza di demolizione che ha riguardato l’intera struttura, con la conseguente possibile acquisizione, nel caso di mancata ottemperanza, dell’area interessata.
11- Per gli esposti motivi, l’appello deve essere accolto e, in riforma della appellata sentenza del TAR per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione I, n. 2543 del 04.12.2015, deve essere disposto l’annullamento dell’ordinanza di demolizione del Comune di Altavilla Silentina, n. 23 del 16.06.2015, impugnata in primo grado.
Sono fatti salvi gli eventuali ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione per quella parte delle opere realizzate che, anche sulla base della regolamentazione comunale, possono ritenersi di edilizia non libera (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.01.2017 n. 306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla dichiarazione di "non procedibilità" della presentata DIA emessa oltre il termine dei 30 gg.
Il Collegio non ignora, relativamente al dibattito sviluppatosi in dottrina e giurisprudenza, le diverse posizioni distintesi in merito alla natura giuridica della denuncia di inizio attività.
Tenendo conto dello stato dell’arte all’epoca dei fatti di causa occorre considerare che secondo una parte della giurisprudenza, la denuncia di inizio attività non sarebbe stata configurabile come un provvedimento amministrativo, neanche implicito; secondo altro indirizzo, la DIA avrebbe, invece, costituito un titolo edilizio al pari della concessione o del permesso di costruire, ovvero un “titolo abilitativo ex lege”, o, qualche tempo dopo, un atto del privato che “assume valore e consistenza di un atto abilitativo dell'intervento progettato e della sua conformità alle norme urbanistiche”.
È evidente che da tali, eterogenee, impostazioni sono discese altrettanto eterogenee posizioni in ordine alla perentorietà del termine previsto dall’art. 23.
Sul punto, tuttavia, non si è mai registrata una chiusura assoluta della giurisprudenza alla tesi favorevole all’esercizio dei poteri dell’Amministrazione dopo la scadenza del termine di verifica della DIA, essendosi osservato che i Comuni avrebbero sempre potuto adottare eventuali provvedimenti repressivi in relazione a opere in contrasto con prescrizioni urbanistiche e che, dunque, pur dopo tale termine sarebbero persistiti i presupposti per l’emissione di provvedimenti di autotutela, vigilanza e repressivi.
In sostanza, sembra corretto affermare che la DIA costituisse, già al tempo dei fatti di causa, una manifestazione dell’intento di realizzare determinate opere sul presupposto della sussistenza dei requisiti di legge, non potendosi, quindi, revocare in dubbio che tale denuncia non comportasse l’adozione –nell’ambito di un malinteso “procedimento a istanza di parte”– di un provvedimento implicito o esplicito.
Rapportando tali enunciati alla fattispecie di causa deve, pertanto, ritenersi che l’esito della verifica, ancorché condotta dopo lo spirare del termine dei 30 giorni dalla presentata DIA, sull’insufficiente rappresentazione delle opere denunciate dalla ricorrente non potesse che sostanziare la violazione della disciplina di cui all’art. 23, comma 1, del DPR 380/2001, in cui è previsto che “il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare la segnalazione certificata di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la segnalazione, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”.
In sostanza, il progettista ha rappresentato in modo lacunoso i lavori che quest’ultima aveva in animo di realizzare, prospettando in modo fuorviante la consistenza delle opere effettivamente realizzate: il che, paradossalmente, integra il principio espresso nella pronuncia alla quale la ricorrente ha fatto richiamo nella propria memoria, in cui si è statuito che “il decorso del termine per la formazione del titolo abilitativo non può avere alcun effetto di legittimazione dell’intervento soltanto nel caso di dichiarazioni infedeli o recanti una erronea rappresentazione dei fatti, cioè in presenza di un’attività potenzialmente decettiva od ingannevole del dichiarante, non già nei casi di mera incompletezza della documentazione a corredo dell’istanza”.
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... per l'annullamento del provvedimento emesso dal responsabile dell’area tecnica del Comune di Uboldo in data 09.06.2004, con cui è stata disposta "la non procedibilità della Denuncia di inizio attività (…) presentata in data 05.02.2004", dell’ordinanza di sospensione lavori n. 80 del 21.06.2004, nonché dell’ordinanza di demolizione n. 107 del 17.08.2004: atti impugnati con il ricorso principale;
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Ciò premesso, la cognizione va diretta al provvedimento del 09.06.2004, con cui il responsabile dell’area tecnica ha disposto “la non procedibilità della denuncia di inizio attività prot. 2152 P.E. 1/04 presentata in data 05.02.2004”, quest’ultima avente a oggetto la realizzazione di n. 10 box per il ricovero di cavalli, modifiche interne ed esterne nonché ampliamento volumetrico della villetta esistente e recinzione della rete metallica.
Premettendo che dall’esame degli atti emerge che la villetta è stata sanata mediante il rilascio del permesso in sanatoria dell’01.02.2016, occorre considerare che “in data 16.06.2004 veniva eseguito sopralluogo da parte dei tecnici comunali (…) sull'immobile di Via per Cerro, s.n.c. ad Uboldo (…), riscontrando l'esecuzione di lavori edilizi consistenti nel getto in opera di platea di fondazione in cemento armato con rete elettrosaldata e tondini di acciaio di dimensioni planimetriche 10,04 mt. per 19,40 mt. con spessore di circa 30 cm. sul lato ovest del mappale 668 fg. 12”, ricondotta, dal punto di vista strutturale, a una “platea di fondazione (dimensioni di progetto 11,54 per 17,90 alt) per la costruzione di 10 box per ricovero cavalli da realizzarsi con muratura perimetrale in mattoni e tramezzature interne con pannelli di legno e ferro come previsto dalla denuncia di inizio attività presentata, ai sensi dell’art. 22, 3° comma, lett. c), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e succ. modif. ed integraz., dalla sig.ra Ca.Ma. (…) in data 05.02.2004 prot. 2152”.
Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto che il decorso del termine di 30 giorni in assenza di un’interdizione da parte dell’Amministrazione avrebbe condotto al consolidamento dell’efficacia della DIA, e che, comunque, non rileverebbe l’integrazione documentale richiesta dal Comune in data 20.02.2004 (invero formulata per chiarire se fosse programmata, o meno, la realizzazione di una recinzione: lavori, infine, ammessi da parte ricorrente), dovendo, nella specie, trovare applicazione la disciplina di cui al comma 6 dell’art. 23 del DPR 380/2001 nel senso della perentorietà del termine per l’esercizio del potere repressivo (“il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza”).
Tale tesi non può essere condivisa.
Il Collegio non ignora, relativamente al dibattito sviluppatosi in dottrina e giurisprudenza, le diverse posizioni distintesi in merito alla natura giuridica della denuncia di inizio attività.
Tenendo conto dello stato dell’arte all’epoca dei fatti di causa occorre considerare che secondo una parte della giurisprudenza, la denuncia di inizio attività non sarebbe stata configurabile come un provvedimento amministrativo, neanche implicito (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 04.09.2002 n. 4453); secondo altro indirizzo, la DIA avrebbe, invece, costituito un titolo edilizio al pari della concessione o del permesso di costruire (cfr. Tar Veneto, 10.09.2003 n. 4722), ovvero un “titolo abilitativo ex lege” (cfr. Tar Abruzzo, 11.03.2004, n. 267), o, qualche tempo dopo, un atto del privato che “assume valore e consistenza di un atto abilitativo dell'intervento progettato e della sua conformità alle norme urbanistiche” (cfr. Tar Emilia-Romagna, 07.05.2007 n. 457).
È evidente che da tali, eterogenee, impostazioni sono discese altrettanto eterogenee posizioni in ordine alla perentorietà del termine previsto dall’art. 23.
Sul punto, tuttavia, non si è mai registrata una chiusura assoluta della giurisprudenza alla tesi favorevole all’esercizio dei poteri dell’Amministrazione dopo la scadenza del termine di verifica della DIA, essendosi osservato che i Comuni avrebbero sempre potuto adottare eventuali provvedimenti repressivi in relazione a opere in contrasto con prescrizioni urbanistiche (cfr. Tar Lazio, 20.06.2002, n. 5629) e che, dunque, pur dopo tale termine sarebbero persistiti i presupposti per l’emissione di provvedimenti di autotutela, vigilanza e repressivi (cfr. Tar Piemonte, 19.11.2003 n. 1608).
In sostanza, sembra corretto affermare che la DIA costituisse, già al tempo dei fatti di causa, una manifestazione dell’intento di realizzare determinate opere sul presupposto della sussistenza dei requisiti di legge, non potendosi, quindi, revocare in dubbio che tale denuncia non comportasse l’adozione –nell’ambito di un malinteso “procedimento a istanza di parte”– di un provvedimento implicito o esplicito.
Rapportando tali enunciati alla fattispecie di causa deve, pertanto, ritenersi che l’esito della verifica, ancorché condotta dopo lo spirare del termine dei 30 giorni dalla DIA del 05.02.2004, sull’insufficiente rappresentazione delle opere denunciate dalla ricorrente non potesse che sostanziare la violazione della disciplina di cui all’art. 23, comma 1, del DPR 380/2001, in cui è previsto che “il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare la segnalazione certificata di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la segnalazione, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”.
In sostanza, il progettista della sig.ra Ca. ha rappresentato in modo lacunoso i lavori che quest’ultima aveva in animo di realizzare, prospettando in modo fuorviante la consistenza delle opere effettivamente realizzate: il che, paradossalmente, integra il principio espresso nella pronuncia alla quale la ricorrente ha fatto richiamo nella memoria del 30.12.2016, in cui si è statuito che “il decorso del termine per la formazione del titolo abilitativo non può avere alcun effetto di legittimazione dell’intervento soltanto nel caso di dichiarazioni infedeli o recanti una erronea rappresentazione dei fatti, cioè in presenza di un’attività potenzialmente decettiva od ingannevole del dichiarante, non già nei casi di mera incompletezza della documentazione a corredo dell’istanza” (Tar Liguria, 14.01.2011, n. 47).
Sulla scorta di quanto emerso dai controlli comunali si può, quindi, affermare che si trattasse di un intervento di nuova costruzione che sarebbe stato soggetto a domanda di permesso di costruire (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.02.2017 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili.
Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
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Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990, in presenza di una d.i.a. illegittima, è consentito certamente all'Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all'art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d'ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi, dell'affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce, infatti, un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile "quoad effectum" al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria.
Ne consegue l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
Nella fattispecie all’esame, dunque, nella quale si erano prodotti gli effetti abilitativi conseguenti alla presentazione della DIA da parte del controinteressato, il Comune legittimamente ha omesso di esercitare il proprio potere sanzionatorio repressivo, avviando, invece, il procedimento di autotutela, ritenendo, peraltro, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi del privato alla conservazione delle lievi modifiche effettuate e della pubblica collettività all’annullamento dell’atto, che prevalesse il primo e supportando la propria convinzione, altresì, con la sopravvenienza delle modifiche alla normativa urbanistica del comune, alla luce delle quali l’intervento sarebbe risultato pienamente legittimo.
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... per l'annullamento:
- della dichiarazione di inizio attività n. 13/05 depositata da Da.Fe. in data 16.02.2005 ed avente ad oggetto “ristrutturazione e divisione unità immobiliare al piano terreno e recupero del sottotetto a fini abitativi” di un immobile sito in Uboldo;
- con motivi aggiunti, del provvedimento dell’01.06.2007 con il quale il comune di Uboldo ha deciso di non procedere all’annullamento d’ufficio della DIA succitata.
...
Con il ricorso principale e per i motivi nello stesso dedotti, gli istanti, proprietari di fabbricati siti in prossimità di quello del controinteressato nel comune di Uboldo, hanno impugnato la dichiarazione di inizio attività indicata in epigrafe, avente ad oggetto la ristrutturazione e la divisione di un’unità immobiliare al piano terreno e il recupero del sottotetto a fini abitativi depositata dal controinteressato medesimo.
Con ricorso per motivi aggiunti hanno, invece, impugnato, limitatamente alla porzione concernente la ristrutturazione al piano terreno dell’immobile, il provvedimento del primo giugno 2007 con il quale il comune di Uboldo, dopo avere avviato il procedimento teso all’eventuale esercizio dell’autotutela, ha deciso di non procedere all’annullamento d’ufficio degli effetti della DIA succitata.
...
Il Collegio ritiene, in via preliminare, di accogliere l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale sollevata dall’Amministrazione intimata e dal controinteressato.
Ed invero, ai sensi del comma 6-bis dell’art. 19 della legge n. 241/1990, così come introdotto dal d.l. n. 138/2011: “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Ne risulta l’inammissibilità del ricorso proposto in via principale avverso la DIA presentata dal controinteressato.
Riguardo, invece, al ricorso per motivi aggiunti, instaurato avverso il provvedimento con il quale il comune di Uboldo ha ritenuto di non procedere all’annullamento d’ufficio degli effetti della DIA succitata, gli istanti hanno dedotto, sostanzialmente: l’illegittimità dell’intervento di ristrutturazione e divisione dell’unità immobiliare al piano terreno ai sensi dell’art. 42 delle NTA del PRG vigente, trattandosi di un edificio ubicato in zona produttiva D1 e non residenziale, ove sarebbero consentiti solo interventi di manutenzione ordinaria; l’illegittimo esercizio da parte del Comune del potere di autotutela, subordinato alla verifica di un particolare interesse pubblico all’annullamento, invece che di quello sanzionatorio; l’illegittimità del provvedimento comunale nella parte in cui si riferisce alla normativa urbanistica sopravvenuta, che pacificamente ammette l’intervento di ristrutturazione in questione.
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato, atteso che, indipendentemente dal verificarsi o meno di un minimo aumento del carico urbanistico a seguito dell’effettuazione dell’intervento di ristrutturazione al piano terreno, il Comune intimato, nell’esercizio discrezionale del proprio potere di autotutela, si è determinato nel senso della prevalenza dell’interesse del privato che aveva presentato la DIA, in capo al quale si era ingenerato l’affidamento della legittimità della ristrutturazione dallo stesso eseguita.
Ed invero, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990, in presenza di una d.i.a. illegittima, è consentito certamente all'Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all'art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d'ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi, dell'affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo. La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce, infatti, un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile "quoad effectum" al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria. Ne consegue l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 22.09.2014, n. 4780).
Nella fattispecie all’esame, dunque, nella quale si erano prodotti gli effetti abilitativi conseguenti alla presentazione della DIA da parte del controinteressato, il Comune legittimamente ha omesso di esercitare il proprio potere sanzionatorio repressivo, avviando, invece, il procedimento di autotutela, ritenendo, peraltro, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi del privato alla conservazione delle lievi modifiche effettuate e della pubblica collettività all’annullamento dell’atto, che prevalesse il primo e supportando la propria convinzione, altresì, con la sopravvenienza delle modifiche alla normativa urbanistica del comune, alla luce delle quali l’intervento sarebbe risultato pienamente legittimo.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso principale va dichiarato inammissibile e il ricorso per motivi aggiunti va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 31.01.2017 n. 240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denuncia d’inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge”. Affermazione, questa, che ha poi trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della legge n. 241 del 1990 stabilisce espressamente che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
L’atto non muta tale sua natura neppure dopo il decorso del termine normativamente previsto per l’esercizio delle verifiche da parte del Comune.
Conseguentemente, non può sostenersi che, una volta che il terzo sia venuto a conoscenza del titolo, ormai consolidatosi per mancato esercizio dei poteri inibitori, lo stesso terzo disponga di sessanta giorni di tempo per proporre impugnazione giurisdizionale. E’ vero infatti che la sussistenza, in tale ipotesi, di un atto impugnabile era stata autorevolmente sostenuta, sulla base del quadro normativo allora vigente, dall’Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, che aveva ravvisato un provvedimento suscettibile di tutela giurisdizionale demolitoria nel diniego tacito di esercizio del potere inibitorio. Tuttavia, le conclusioni cui era pervenuta l’Adunanza Plenaria sono oggi superate alla luce delle successive novità legislative e, in particolare, di quanto ora disposto dal richiamato articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990.
In base a quest’ultima disposizione, “
(...) Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”. Previsione, questa, che come evidenziato dalla giurisprudenza, anche della Sezione, “vieta sostanzialmente l’impugnazione diretta della DIA o della SCIA –non costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti– ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il citato meccanismo di cui all’art. 31”.
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In tale quadro si colloca il tema della tutela del soggetto che alleghi di essere stato leso dalla denuncia di inizio di attività presentata da altri.
La Sezione ha, anzitutto, rilevato che
i poteri inibitori spettanti all’amministrazione nei confronti degli interventi oggetto di una denuncia di inizio di attività vanno esercitati entro il termine normativamente prescritto, decorso il quale il “consolidarsi” della d.i.a. determina –di regola– l’impossibilità per il Comune di intervenire, se non nell’esercizio dei poteri di autotutela.
Si tratta di conclusioni che trovano ormai pieno riscontro nell’attuale previsione del comma 4 dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, come sostituito dall'articolo 6, comma 1, lett. a) della legge 07.08.2015, n. 124, in base al quale,
una volta decorso il termine per l’esercizio del controllo sulla denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, “l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”.
Disposizione, questa, che è bensì inapplicabile ratione temporis nel presente giudizio, ma che ha sostanzialmente codificato gli esiti del dibattito giurisprudenziale sul punto. E ciò anche avuto riguardo alla natura dei poteri esercitati dall’amministrazione in quest’ultima ipotesi, che sono pur sempre di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela.
Ciò posto, la sentenza della Sezione n. 2799/2014 ha affermato che
l’intervento inibitorio è, tuttavia, da ritenere doveroso, e non soggetto al ricorrere dei presupposti propri del potere di autotutela, laddove la carenza dei presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo, titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter del medesimo articolo 19.
E ciò –come già affermato nella sentenza richiamata–
perché è anzitutto il chiaro tenore testuale della previsione normativa richiamata a non fare alcun riferimento al decorso del termine per il “consolidarsi” della denuncia di inizio di attività.
D’altra parte “
laddove dovesse ritenersi che il terzo, venuto a conoscenza della d.i.a. dopo il decorso del termine per il compimento delle verifiche, non possa chiedere l’esercizio dei poteri inibitori, ne deriverebbe un vulnus nei confronti della tutela offerta dall’ordinamento nei confronti di tale soggetto.” Questi, infatti, da un lato non disporrebbe di alcun provvedimento impugnabile (ostandovi il chiaro tenore del richiamato comma 6-ter dell’articolo 19) e, dall’altro, potrebbe solo invocare l’intervento in autotutela, che è però esercitabile solo in presenza di precisi presupposti, ulteriori rispetto al mero riscontro dell’illegittimità.
La posizione espressa con la sentenza di questa Sezione n. 2799/2014 è stata condivisa e ribadita da numerose successive pronunce di primo grado.
In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato che “
Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile, rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio
.”.
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Posto quindi che, secondo la lettura qui accolta, l’articolo 19, comma 6-ter, impone all’amministrazione di esercitare pieni poteri inibitori della denuncia di inizio di attività, anche dopo il “consolidarsi” del titolo edilizio, qualora sia a ciò sollecitata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, occorre chiedersi se tale soggetto possa sollecitare in qualunque momento l’intervento dell’amministrazione stessa, ovvero abbia l’onere di farlo entro un lasso di tempo stabilito.
Anche questa questione è stata affrontata, sia pure sinteticamente, nella richiamata sentenza n. 2799/2014. In quella pronuncia, infatti, è stato esplicitamente evidenziato che il terzo che si assumeva leso dalla denuncia di inizio di attività presentata dal confinante si era rivolto all’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui, accedendo agli atti della pratica edilizia, aveva preso piena conoscenza del contenuto della d.i.a. e delle esatte caratteristiche dell’intervento progettato.
La pronuncia ha, quindi, implicitamente ritenuto rilevante la circostanza che l’istanza volta a provocare l’esercizio del potere inibitorio fosse intervenuta entro il suddetto termine.
Il rilievo attribuito dalla suddetta pronuncia al momento della presentazione dell’istanza rivolta all’amministrazione non è stato condiviso da un altro orientamento giurisprudenziale recentemente emerso.
In base a tale diversa ricostruzione, il terzo leso dalla d.i.a. (o s.c.i.a.) potrebbe infatti rivolgersi in ogni tempo all’amministrazione, e ottenere comunque il pieno esercizio dei poteri inibitori, senza necessità del riscontro dei presupposti propri dell’autotutela.
Tesi, questa, che viene argomentata sia sulla base del tenore testuale del comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 –il quale non indica testualmente alcun limite temporale per la diffida diretta all’amministrazione– sia in considerazione della circostanza che la possibilità di un intervento “a tutto campo” e in ogni tempo sulla d.i.a., in presenza di una sollecitazione proveniente da un terzo che si assuma pregiudicato dall’intervento, dovrebbe ritenersi giustificata dalla natura stessa dell’istituto, che non dà luogo alla formazione di un provvedimento amministrativo e si basa sulla responsabilità del privato.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tali considerazioni possano essere condivise soltanto in parte, come meglio si illustrerà nel prosieguo.
Deve, anzitutto, confermarsi e ribadirsi in questa sede l’orientamento già espresso –anche in relazione al profilo inerente ai termini per la sollecitazione dei poteri inibitori– dalla sentenza della Sezione n. 2799 del 2014. E’ infatti da ritenere che le conclusioni raggiunte, sul punto, dalla pronuncia richiamata siano necessitate, alla stregua dell’interpretazione sistematica e –ancora una volta– costituzionalmente orientata del dato normativo, costituito dall’articolo 19, comma 3-ter, della legge n. 241 del 1990.
Per ciò che attiene al profilo sistematico,
l’interpretazione della disposizione deve necessariamente tenere conto della circostanza che l’intera disciplina della denuncia di inizio di attività, fino ai più recenti interventi normativi (in parte successivi alla formazione dei titoli oggetto del presente giudizio, ma comunque rilevanti ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema), risulta chiaramente ispirata dalla finalità di coniugare l’esigenza di incentrare il fondamento normativo della d.i.a sull’autoresponsabilità del privato con quella di assicurare comunque una sostanziale stabilità del titolo edilizio –analoga a quella propria del permesso di costruire– dopo il decorso del tempo stabilito per il suo “consolidarsi”.
In tale quadro normativo,
è certamente necessario –come sopra detto–
assicurare al terzo la possibilità di ottenere piena tutela, mediante l’esercizio dei poteri inibitori dell’amministrazione, anche dopo che sia trascorso tale termine di tendenziale “stabilizzazione” del titolo edilizio.
Tuttavia,
tale possibilità non può tradursi nell’eliminazione di qualunque garanzia attinente al “consolidarsi” della d.i.a., né eccedere quanto necessario e sufficiente ad assicurare al terzo leso dalla denuncia di inizio attività una tutela equivalente a quella riconosciuta al soggetto leso da un permesso di costruire.
Per questa ragione,
deve ritenersi che il soggetto titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata che lamenti un pregiudizio derivante da una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività possa ottenere il pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori, senza i limiti propri dell’autotutela, soltanto laddove abbia sollecitato l’intervento dell’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui ha avuto conoscenza della lesione.
Il predetto termine di sessanta giorni, pur non espressamente previsto dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, deve infatti ricavarsi in via sistematica, tenendo conto che la diffida prevista dalla disposizione ora richiamata costituisce l’unico “canale” percorribile dall’interessato al fine di adire eventualmente, in un secondo momento, la tutela giurisdizionale. In tale prospettiva, l’esigenza di assicurare sia la pienezza della tutela (ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione), che la parità di trattamento rispetto al soggetto leso da un permesso di costruire (in relazione all’articolo 3 della Costituzione) impone di fare applicazione del termine ordinariamente previsto per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, fissato dall’articolo 29 del codice del processo amministrativo.
E’ ben vero che il termine di cui all’articolo 29 ora richiamato ha natura processuale e non procedimentale; tuttavia, come detto,
la fase procedimentale necessaria stabilita dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 costituisce un passaggio obbligato per l’accesso alla tutela giurisdizionale, per cui è dalla disciplina propria di quest’ultima che può e deve trarsi il dato necessario all’integrazione in via interpretativa della lacuna normativa.
Tale opzione ermeneutica risulta essere stata accolta, del resto, anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale non ha mancato di rimarcare, in una recente pronuncia, che “
il potere di sollecitazione del terzo non è da intendersi come esercitabile ad libitum, bensì rimane assoggettato al rispetto del termine di decadenza decorrente dalla conoscenza della D.I.A.”.
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Occorre a questo punto domandarsi quid iuris nel caso in cui il terzo abbia richiesto l’intervento dell’amministrazione dopo il decorso di sessanta giorni dal momento in cui ha avuto piena conoscenza del contenuto lesivo della denuncia di inizio di attività.
La difesa del controinteressato ritiene che, in questo caso, l’impugnazione del provvedimento con cui l’amministrazione ha negato l’esercizio dei poteri relativi alla d.i.a. sia radicalmente inammissibile.
Il Collegio non ignora che tale soluzione risulta essere stata accolta dalla sentenza del Consiglio di Stato da ultimo richiamata, ma ritiene –su questo specifico aspetto– di dover addivenire a conclusioni in parte diverse rispetto al giudice d’appello.
Deve, infatti, tenersi presente il dato imprescindibile che
il comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non prevede alcun termine per la sollecitazione dei poteri dell’amministrazione e per l’insorgere del correlativo obbligo, per quest’ultima, di pronunciarsi sull’istanza.
Per le ragioni già diffusamente illustrate,
laddove l’istanza sia presentata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza della d.i.a. o s.c.i.a., l’amministrazione non potrà esimersi dall’esercitare pienamente i propri poteri inibitori.
Ciò, però, non toglie che il terzo ben possa sollecitare l’intervento dell’amministrazione anche oltre tale termine, al fine di invocare non già il pieno esercizio dei poteri inibitori, bensì il riscontro della sussistenza dei –diversi– presupposti normativamente previsti per l’intervento in autotutela.
Al riguardo,
deve precisarsi che –anche laddove la sollecitazione debba intendersi diretta a provocare l’esercizio dei poteri di autotutela– l’amministrazione è comunque tenuta ad esprimersi sull’istanza, eventualmente illustrando le ragioni per le quali ritenga non sussistenti i presupposti per la rimozione del titolo edilizio.
E’ vero, infatti, che –secondo i principi– l’esercizio dell’autotutela è, di regola, tipicamente discrezionale nell’an, per cui l’amministrazione non è tenuta, di norma, neppure a riscontrare l’istanza di autotutela presentata da un privato . Tuttavia, nel caso della denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, la sussistenza di un dovere dell’amministrazione di verificare l’esistenza dei presupposti per l’esercizio del potere è imposta dal chiaro tenore testuale del richiamato comma 3-bis dell’articolo 19, il quale attribuisce espressamente al terzo che si assuma leso dal titolo edilizio un incondizionato accesso anche alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio.
D’altro canto, la soluzione prescelta dal legislatore è coerente con il fondamentale rilievo che, nel caso di intervento di controllo relativo alla d.i.a. o s.c.i.a., non si fa questione di esercizio di poteri di autotutela in senso proprio, poiché manca un provvedimento amministrativo rispetto al quale possa esercitarsi un potere di secondo grado. Piuttosto –come sopra detto– l’amministrazione, in questo caso, esercita pur sempre poteri di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela.
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In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui esposto,
il Collegio ritiene che la previsione del comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 imponga all’amministrazione di riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare,
laddove l’istanza pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto– il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
Logico corollario di quanto sin qui affermato è che la circostanza che
tale terzo abbia avuto conoscenza del titolo edilizio da più di sessanta giorni non comporta conseguenze processuali, in relazione alla eventuale successiva azione giurisdizionale contro il silenzio o il provvedimento negativo emesso dall’amministrazione, ma ha unicamente conseguenze di tipo procedimentale.
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MASSIMA
8. Al fine di inquadrare correttamente la questione, si rende necessario chiarire la portata delle previsioni normative rilevanti nel presente giudizio.
In tale prospettiva, occorre prendere le mosse proprio dalla sentenza di questa Sezione n. 2799 del 2014, che ha raggiunto conclusioni che il Collegio condivide e ritiene di dover ribadire, e che tuttavia non conducono all’esito sostenuto dal controinteressato, come si dirà.
8.1 Deve anzitutto ricordarsi che
la denuncia d’inizio attività, secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, “non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge” (Ad. Plen. n. 15 del 2011). Affermazione, questa, che ha poi trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della legge n. 241 del 1990 –introdotto dall'articolo 6, comma 1, lett. c) del decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– stabilisce espressamente che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
L’atto non muta tale sua natura neppure dopo il decorso del termine normativamente previsto per l’esercizio delle verifiche da parte del Comune.
Conseguentemente, non può sostenersi che, una volta che il terzo sia venuto a conoscenza del titolo, ormai consolidatosi per mancato esercizio dei poteri inibitori, lo stesso terzo disponga di sessanta giorni di tempo per proporre impugnazione giurisdizionale. E’ vero infatti che la sussistenza, in tale ipotesi, di un atto impugnabile era stata autorevolmente sostenuta, sulla base del quadro normativo allora vigente, dall’Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, che aveva ravvisato un provvedimento suscettibile di tutela giurisdizionale demolitoria nel diniego tacito di esercizio del potere inibitorio. Tuttavia, le conclusioni cui era pervenuta l’Adunanza Plenaria sono oggi superate alla luce delle successive novità legislative e, in particolare, di quanto ora disposto dal richiamato articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990.
In base a quest’ultima disposizione, “
(...) Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”. Previsione, questa, che come evidenziato dalla giurisprudenza, anche della Sezione, “vieta sostanzialmente l’impugnazione diretta della DIA o della SCIA –non costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti– ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il citato meccanismo di cui all’art. 31” (TAR Lombardia, Sez. II, 14.01.2014, n. 126).
9. In tale quadro si colloca il tema della tutela del soggetto che alleghi di essere stato leso dalla denuncia di inizio di attività presentata da altri.
9.1 Con la richiamata sentenza n. 2799 del 2014, la Sezione ha, anzitutto, rilevato che
i poteri inibitori spettanti all’amministrazione nei confronti degli interventi oggetto di una denuncia di inizio di attività vanno esercitati entro il termine normativamente prescritto, decorso il quale il “consolidarsi” della d.i.a. determina –di regola– l’impossibilità per il Comune di intervenire, se non nell’esercizio dei poteri di autotutela (Cons. Stato, Sez. VI, 22.09.2014 n. 4780).
Si tratta di conclusioni che trovano ormai pieno riscontro nell’attuale previsione del comma 4 dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, come sostituito dall'articolo 6, comma 1, lett. a) della legge 07.08.2015, n. 124, in base al quale,
una volta decorso il termine per l’esercizio del controllo sulla denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, “l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”.
Disposizione, questa, che è bensì inapplicabile ratione temporis nel presente giudizio, ma che ha sostanzialmente codificato gli esiti del dibattito giurisprudenziale sul punto. E ciò anche avuto riguardo alla natura dei poteri esercitati dall’amministrazione in quest’ultima ipotesi, che sono pur sempre di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela (in coerenza con quanto già da tempo autorevolmente chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
9.2 Ciò posto, la sentenza della Sezione n. 2799 del 2014 ha affermato che
l’intervento inibitorio è, tuttavia, da ritenere doveroso, e non soggetto al ricorrere dei presupposti propri del potere di autotutela, laddove la carenza dei presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo, titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter del medesimo articolo 19.
E ciò –come già affermato nella sentenza richiamata– perché è anzitutto il chiaro tenore testuale della previsione normativa richiamata a non fare alcun riferimento al decorso del termine per il “consolidarsi” della denuncia di inizio di attività.
D’altra parte –come pure si è affermato nella sentenza n. 2799 del 2014– “
laddove dovesse ritenersi che il terzo, venuto a conoscenza della d.i.a. dopo il decorso del termine per il compimento delle verifiche, non possa chiedere l’esercizio dei poteri inibitori, ne deriverebbe un vulnus nei confronti della tutela offerta dall’ordinamento nei confronti di tale soggetto.” Questi, infatti, da un lato non disporrebbe di alcun provvedimento impugnabile (ostandovi il chiaro tenore del richiamato comma 6-ter dell’articolo 19) e, dall’altro, potrebbe solo invocare l’intervento in autotutela, che è però esercitabile solo in presenza di precisi presupposti, ulteriori rispetto al mero riscontro dell’illegittimità.
9.3 La posizione espressa con la sentenza di questa Sezione n. 2799 del 2014 è stata condivisa e ribadita da numerose successive pronunce di primo grado (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 05.03.2015, n. 1410; TAR Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114; TAR Veneto, Sez. II, 12.10.2015, n. 1038 e n. 1039).
In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato che “
Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile, rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio
.” (così TAR Veneto, n. 1038 del 2015, cit.).
10.
Posto quindi che, secondo la lettura qui accolta, l’articolo 19, comma 6-ter, impone all’amministrazione di esercitare pieni poteri inibitori della denuncia di inizio di attività, anche dopo il “consolidarsi” del titolo edilizio, qualora sia a ciò sollecitata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, occorre chiedersi se tale soggetto possa sollecitare in qualunque momento l’intervento dell’amministrazione stessa, ovvero abbia l’onere di farlo entro un lasso di tempo stabilito.
10.1 Anche questa questione è stata affrontata, sia pure sinteticamente, nella richiamata sentenza n. 2799 del 2014, come correttamente rilevato, nel presente giudizio, dalla difesa del controinteressato.
In quella pronuncia, infatti, è stato esplicitamente evidenziato che il terzo che si assumeva leso dalla denuncia di inizio di attività presentata dal confinante si era rivolto all’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui, accedendo agli atti della pratica edilizia, aveva preso piena conoscenza del contenuto della d.i.a. e delle esatte caratteristiche dell’intervento progettato.
La pronuncia ha, quindi, implicitamente ritenuto rilevante la circostanza che l’istanza volta a provocare l’esercizio del potere inibitorio fosse intervenuta entro il suddetto termine.
10.2 Il rilievo attribuito dalla suddetta pronuncia al momento della presentazione dell’istanza rivolta all’amministrazione non è stato condiviso da un altro orientamento giurisprudenziale recentemente emerso.
In base a tale diversa ricostruzione, il terzo leso dalla d.i.a. (o s.c.i.a.) potrebbe infatti rivolgersi in ogni tempo all’amministrazione, e ottenere comunque il pieno esercizio dei poteri inibitori, senza necessità del riscontro dei presupposti propri dell’autotutela (in questo senso: TAR Piemonte, Sez. II, n. 1114 del 2015, cit.).
Tesi, questa, che viene argomentata sia sulla base del tenore testuale del comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 –il quale non indica testualmente alcun limite temporale per la diffida diretta all’amministrazione– sia in considerazione della circostanza che la possibilità di un intervento “a tutto campo” e in ogni tempo sulla d.i.a., in presenza di una sollecitazione proveniente da un terzo che si assuma pregiudicato dall’intervento, dovrebbe ritenersi giustificata dalla natura stessa dell’istituto, che non dà luogo alla formazione di un provvedimento amministrativo e si basa sulla responsabilità del privato.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tali considerazioni possano essere condivise soltanto in parte, come meglio si illustrerà nel prosieguo.
10.3
Deve, anzitutto, confermarsi e ribadirsi in questa sede l’orientamento già espresso –anche in relazione al profilo inerente ai termini per la sollecitazione dei poteri inibitori– dalla sentenza della Sezione n. 2799 del 2014. E’ infatti da ritenere che le conclusioni raggiunte, sul punto, dalla pronuncia richiamata siano necessitate, alla stregua dell’interpretazione sistematica e –ancora una volta– costituzionalmente orientata del dato normativo, costituito dall’articolo 19, comma 3-ter, della legge n. 241 del 1990.
Per ciò che attiene al profilo sistematico,
l’interpretazione della disposizione deve necessariamente tenere conto della circostanza che l’intera disciplina della denuncia di inizio di attività, fino ai più recenti interventi normativi (in parte successivi alla formazione dei titoli oggetto del presente giudizio, ma comunque rilevanti ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema), risulta chiaramente ispirata dalla finalità di coniugare l’esigenza di incentrare il fondamento normativo della d.i.a sull’autoresponsabilità del privato con quella di assicurare comunque una sostanziale stabilità del titolo edilizio –analoga a quella propria del permesso di costruire– dopo il decorso del tempo stabilito per il suo “consolidarsi”.
In tale quadro normativo,
è certamente necessario –come sopra detto– assicurare al terzo la possibilità di ottenere piena tutela, mediante l’esercizio dei poteri inibitori dell’amministrazione, anche dopo che sia trascorso tale termine di tendenziale “stabilizzazione” del titolo edilizio.
Tuttavia,
tale possibilità non può tradursi nell’eliminazione di qualunque garanzia attinente al “consolidarsi” della d.i.a., né eccedere quanto necessario e sufficiente ad assicurare al terzo leso dalla denuncia di inizio attività una tutela equivalente a quella riconosciuta al soggetto leso da un permesso di costruire.
Per questa ragione,
deve ritenersi che il soggetto titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata che lamenti un pregiudizio derivante da una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività possa ottenere il pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori, senza i limiti propri dell’autotutela, soltanto laddove abbia sollecitato l’intervento dell’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui ha avuto conoscenza della lesione.
Il predetto termine di sessanta giorni, pur non espressamente previsto dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, deve infatti ricavarsi in via sistematica, tenendo conto che la diffida prevista dalla disposizione ora richiamata costituisce l’unico “canale” percorribile dall’interessato al fine di adire eventualmente, in un secondo momento, la tutela giurisdizionale. In tale prospettiva, l’esigenza di assicurare sia la pienezza della tutela (ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione), che la parità di trattamento rispetto al soggetto leso da un permesso di costruire (in relazione all’articolo 3 della Costituzione) impone di fare applicazione del termine ordinariamente previsto per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, fissato dall’articolo 29 del codice del processo amministrativo.
E’ ben vero che il termine di cui all’articolo 29 ora richiamato ha natura processuale e non procedimentale; tuttavia, come detto,
la fase procedimentale necessaria stabilita dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 costituisce un passaggio obbligato per l’accesso alla tutela giurisdizionale, per cui è dalla disciplina propria di quest’ultima che può e deve trarsi il dato necessario all’integrazione in via interpretativa della lacuna normativa.
Tale opzione ermeneutica risulta essere stata accolta, del resto, anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale non ha mancato di rimarcare, in una recente pronuncia, che “
il potere di sollecitazione del terzo non è da intendersi come esercitabile ad libitum, bensì rimane assoggettato al rispetto del termine di decadenza decorrente dalla conoscenza della D.I.A.” (così Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015, n. 5161).
11. Occorre a questo punto domandarsi quid iuris nel caso in cui il terzo abbia richiesto l’intervento dell’amministrazione dopo il decorso di sessanta giorni dal momento in cui ha avuto piena conoscenza del contenuto lesivo della denuncia di inizio di attività.
La difesa del controinteressato ritiene che, in questo caso, l’impugnazione del provvedimento con cui l’amministrazione ha negato l’esercizio dei poteri relativi alla d.i.a. sia radicalmente inammissibile.
11.1 Il Collegio non ignora che tale soluzione risulta essere stata accolta dalla sentenza del Consiglio di Stato da ultimo richiamata (Cons. Stato n. 5161 del 2015, cit.), ma ritiene –su questo specifico aspetto– di dover addivenire a conclusioni in parte diverse rispetto al giudice d’appello.
Deve, infatti, tenersi presente il dato imprescindibile (ben evidenziato, come detto, da TAR Piemonte n. 1114 del 2015, cit., che però perviene a conclusioni non coincidenti con quelle qui sostenute) che
il comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non prevede alcun termine per la sollecitazione dei poteri dell’amministrazione e per l’insorgere del correlativo obbligo, per quest’ultima, di pronunciarsi sull’istanza.
Per le ragioni già diffusamente illustrate,
laddove l’istanza sia presentata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza della d.i.a. o s.c.i.a., l’amministrazione non potrà esimersi dall’esercitare pienamente i propri poteri inibitori.
Ciò, però, non toglie che il terzo ben possa sollecitare l’intervento dell’amministrazione anche oltre tale termine, al fine di invocare non già il pieno esercizio dei poteri inibitori, bensì il riscontro della sussistenza dei –diversi– presupposti normativamente previsti per l’intervento in autotutela.
11.2 Al riguardo,
deve precisarsi che –anche laddove la sollecitazione debba intendersi diretta a provocare l’esercizio dei poteri di autotutela– l’amministrazione è comunque tenuta ad esprimersi sull’istanza, eventualmente illustrando le ragioni per le quali ritenga non sussistenti i presupposti per la rimozione del titolo edilizio.
E’ vero, infatti, che –secondo i principi– l’esercizio dell’autotutela è, di regola, tipicamente discrezionale nell’an, per cui l’amministrazione non è tenuta, di norma, neppure a riscontrare l’istanza di autotutela presentata da un privato (v. ex multis Cons. Stato, V, 03.05.2012 n. 2549). Tuttavia, nel caso della denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, la sussistenza di un dovere dell’amministrazione di verificare l’esistenza dei presupposti per l’esercizio del potere è imposta dal chiaro tenore testuale del richiamato comma 3-bis dell’articolo 19, il quale attribuisce espressamente al terzo che si assuma leso dal titolo edilizio un incondizionato accesso anche alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio.
D’altro canto, la soluzione prescelta dal legislatore è coerente con il fondamentale rilievo che, nel caso di intervento di controllo relativo alla d.i.a. o s.c.i.a., non si fa questione di esercizio di poteri di autotutela in senso proprio, poiché manca un provvedimento amministrativo rispetto al quale possa esercitarsi un potere di secondo grado. Piuttosto –come sopra detto– l’amministrazione, in questo caso, esercita pur sempre poteri di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela.
12. In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui esposto,
il Collegio ritiene che la previsione del comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 imponga all’amministrazione di riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare,
laddove l’istanza pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto– il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
Logico corollario di quanto sin qui affermato è che la circostanza che
tale terzo abbia avuto conoscenza del titolo edilizio da più di sessanta giorni non comporta conseguenze processuali, in relazione alla eventuale successiva azione giurisdizionale contro il silenzio o il provvedimento negativo emesso dall’amministrazione, ma ha unicamente conseguenze di tipo procedimentale (secondo quanto già rilevato dalla Sezione con la sentenza n. 585 del 05.03.2014).
In entrambe le ipotesi sopra enunciate, il ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento con cui l’amministrazione abbia negato il proprio intervento sarà quindi ammissibile –sussistendo, beninteso, tutte le altre condizioni dell’azione– ma la risposta dell’amministrazione dovrà essere verificata tenendo conto del diverso potere esercitato nelle due ipotesi sopra dette (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.04.2016 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'atto comunale col quale è stato sospeso il termine previsto dall’art. 26, comma 1, lett. a), della L.R. n. 16/2008 per l’inizio dei lavori di cui alla presentata D.I.A. condizionando la ulteriore efficacia della D.I.A alla produzione di un atto di consenso di terzi, concreta un vero e proprio arresto procedimentale, di natura immediatamente lesiva.
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E' illegittimo l’atto inibitorio adottato oltre il termine perentorio di venti giorni, alla scadenza del quale matura l'autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati e indicati nella denuncia di inizio attività, fermo il potere dell'amministrazione comunale di avviare uno specifico procedimento di autotutela preordinato all’annullamento dell’autorizzazione implicita.
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Il decorso del termine per la formazione del titolo abilitativo non può avere alcun effetto di legittimazione dell’intervento soltanto nel caso dichiarazioni infedeli o recanti una erronea rappresentazione dei fatti, cioè in presenza di un’attività potenzialmente decettiva od ingannevole del dichiarante, non già nei casi di mera incompletezza della documentazione a corredo dell’istanza, che debbono essere evidenziati nell’apposito termine perentorio di cui sopra.
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- Rilevato che, con ricorso notificato in data 29.11.2010, la signora Ch.Ga. ha impugnato il provvedimento 08.10.2010, con il quale il comune di Levanto ha sospeso il termine previsto dall’art. 26, comma 1, lett. a), della L.R. n. 16/2008 per l’inizio dei lavori di cui alla D.I.A. obbligatoria n. 107/2010, presentata in data 01.06.2010 in vista della realizzazione di due finestre, a motivo della mancanza del nulla osta condominiale;
- Rilevato come la sospensione del termine, condizionando la ulteriore efficacia della D.I.A alla produzione di un atto di consenso di terzi, concreti un vero e proprio arresto procedimentale, di natura immediatamente lesiva;
- Ritenuto che il ricorso è fondato, sotto l’assorbente profilo della violazione degli artt. 23 e 26 L.R. Liguria n. 16/2008, essendo stato l’atto inibitorio adottato oltre il termine perentorio di venti giorni, alla scadenza del quale matura l'autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati e indicati nella denuncia di inizio attività, fermo il potere dell'amministrazione comunale di avviare uno specifico procedimento di autotutela preordinato all’annullamento dell’autorizzazione implicita (TAR Toscana, III, 16.03.2009, n. 430; TAR Liguria, I, 04.04.2008, n. 460);
- Considerato che il decorso del termine per la formazione del titolo abilitativo non può avere alcun effetto di legittimazione dell’intervento soltanto nel caso dichiarazioni infedeli o recanti una erronea rappresentazione dei fatti, cioè in presenza di un’attività potenzialmente decettiva od ingannevole del dichiarante, non già nei casi di mera incompletezza della documentazione a corredo dell’istanza, che debbono essere evidenziati nell’apposito termine perentorio di cui all’art. 26, comma 4, della L.R. n. 16/2008 (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 14.01.2011 n. 47 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso e del proprietario del bene.
Per quanto riguarda la possibilità di ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria sostitutiva attraverso la rimozione delle opere abusive, si ritiene che il ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso (o del proprietario del bene) sia idoneo a determinare la perdita del potere di esigere il pagamento della sanzione già applicata.
Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza il prezzo di una sanatoria, non esiste un interesse pubblico che possa opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori acquisiti dal privato in violazione della disciplina urbanistica.
Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di verificare che:
   (a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo tecnicamente possibile ma anche non facilmente reversibile, e
   (b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non comportino pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita in conformità (peraltro è possibile che il privato accetti di modificare anche la parte conforme, se questo appare utile per eliminare in sicurezza le opere abusive).
Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001.
L’amministrazione subirebbe infatti un danno economico se accettasse di perdere l’importo della sanzione in cambio di un’eliminazione solo apparente dell’abuso, e d’altra parte non è possibile lasciare al privato la valutazione circa l’assenza di rischi per la sicurezza delle persone e delle cose.
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Nello specifico, è evidente che il ribassamento del soffitto fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio in legno non costituisce né un intervento irreversibile (essendo anzi facilmente reversibile) né un ostacolo all’utilizzo della superficie del locale per qualsiasi destinazione, comprese quelle incompatibili con la disciplina urbanistica. Si tratta in realtà di una misura che non cancella l’abuso edilizio, e in particolare non riduce la superficie lorda di pavimento e il connesso maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di terreno sulla copertura.
La rimozione radicale delle opere abusive non è stata proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi che un simile intervento potrebbe creare per la parte conforme dell’edificio.
Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento di riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è possibile qualificare come superfici non utili, e quindi urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è appena al di sotto del limite minimo ma comunque perfettamente idonea a consentire la generalità degli utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è possibile conseguire la sanatoria solo formalmente, ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica. L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
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Relativamente ai parametri utilizzati per calcolare l’importo di cui all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, la base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge 392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di produzione sono poi applicati diversi coefficienti in incremento o in riduzione.
Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art. 16, relativo alla tipologia dell’abitazione.
Nel caso del ricorrente, questo significherebbe non applicare il coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo della sanzione pecuniaria. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione, sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria.
Così formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi, il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando conseguentemente il principio di certezza del diritto.
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Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di produzione occorre fare riferimento alla situazione successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore economico rilevante è quello che risulta dal completamento dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può conservare il valore attuale del bene illegittimamente realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie edilizie di favore (come la definizione di locale seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni legittime.
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L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la copertura.
Non sembra tuttavia che questa situazione possa consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione. L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso) di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della propria obbligazione.

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... per l'annullamento dell’ordinanza del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo prot. n. 9128/2015 del 23.01.2015, con la quale è stato nuovamente ingiunto al ricorrente il pagamento di una sanzione pari a € 88.520,28 in luogo della demolizione delle opere abusive, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del DPR 06.06.2001 n. 380;
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1. Il Comune di Carobbio degli Angeli, con ordinanza del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 23.01.2015, ha nuovamente ingiunto al ricorrente Si.Fu. il pagamento di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione delle opere abusive, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del DPR 06.06.2001 n. 380. L’importo della sanzione è stato quantificato in € 88.520,28.
2. L’intervento edilizio abusivo interessa un edificio residenziale situato nella frazione di S. Stefano, e consiste nella realizzazione di una cantina più ampia di quanto assentito e nella trasformazione della stessa in taverna o soggiorno abitabile (e quindi in superficie utile).
3. Questo intervento è stato ritenuto non sanabile, mentre per altre opere abusive eseguite nel medesimo edificio è stato concesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001. La domanda di sanatoria era stata presentata il 25.06.2012, ed era poi stata integrata l’08.01.2013.
4. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 02.03.2013, aveva già quantificato in € 88.520,28 la sanzione ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001. Tale provvedimento non è stato impugnato.
5. In data 04.05.2013 il ricorrente ha contestato direttamente presso gli uffici comunali le modalità di calcolo attraverso una perizia del geom. Ma.An.Br., proponendo una stima diversa. I punti di contrasto (riferiti agli art. 16-19-21-22 della legge 27.07.1978 n. 392) riguardavano (a) il livello di piano (seminterrato o piano terra), (b) lo stato di conservazione dell’immobile (mediocre o normale), e (c) la base di calcolo della sanzione pecuniaria (disapplicazione del coefficiente correttivo riferito alla tipologia di costruzione).
Modificando solo i parametri relativi al livello di piano e allo stato di conservazione, la sanzione sarebbe pari a € 57.226,02. Se poi venisse modificata anche la base di calcolo, non applicando al costo di produzione la maggiorazione collegata alla tipologia di costruzione, la sanzione sarebbe pari a € 40.875,73.
6. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 20.08.2014, ha respinto l’ipotesi di calcolo formulata dal ricorrente, confermando la sanzione in € 88.520,28. Contro questo provvedimento il ricorrente ha presentato ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con atto notificato il 19.12.2014.
7. Nello stesso tempo, il ricorrente, con nota del 19.11.2014, ha reiterato la richiesta di riduzione della sanzione, e, in alternativa, ha proposto un percorso di cancellazione dell’abuso edilizio mediante modifica dello stato dei luoghi (ribassamento del soffitto fino a 2,50 metri, ripristino della destinazione a cantina). L’eliminazione delle opere abusive avrebbe dovuto comportare l’inapplicabilità dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, e la conseguente liberazione del ricorrente dall’obbligazione pecuniaria.
8. Il Comune, con la citata ordinanza del 23.01.2015, ha respinto le richieste del ricorrente, confermando l’importo della sanzione.
9. Contro il suddetto provvedimento il ricorrente ha presentato impugnazione davanti a questo TAR, con atto notificato il 26.03.2015 e depositato il 17.04.2015. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
   (i) violazione delle garanzie procedimentali per omesso invio del preavviso di diniego;
   (ii) violazione dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, in quanto il Comune non ha consentito al ricorrente di sottrarsi alla sanzione pecuniaria rimuovendo le opere abusive;
   (iii) violazione degli art. 15-22 della legge 392/1978, in quanto vi sarebbero degli errori nel calcolo del costo di produzione delle opere abusive (in proposito, il ricorso rinvia a una nuova perizia del geom. Ma.An.Br., datata 12.10.2014).
10. Il Comune si è costituito in giudizio, eccependo l’inammissibilità del ricorso, e chiedendone la reiezione nel merito.
11. Questo TAR, con ordinanza 12.05.2015 n. 793, ha accolto la domanda cautelare in relazione al secondo motivo di ricorso, invitando il Comune a esaminare la proposta di cancellazione delle opere abusive finalizzata a ottenere la liberazione dalla relativa sanzione.
12. In esecuzione dell’ordine del TAR, il Comune ha invitato il ricorrente a chiarire le modalità scelte per l’eliminazione dell’abuso edilizio. Il ricorrente ha presentato un apposito progetto, che prevedeva la riduzione dell’altezza interna del locale destinato a soggiorno mediante l’installazione di un solaio in legno con innesti nella muratura, e contemporaneamente la mimetizzazione della costruzione all’esterno con la posa di terreno sulla copertura.
Il responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo, con provvedimento del 05.08.2015, ha ritenuto che la predetta soluzione non fosse idonea a ripristinare una situazione urbanisticamente conforme, in quanto lasciava invariata la maggiore superficie lorda di pavimento (87,05 mq) rispetto a quella assentita (45,00 mq).
13. Il provvedimento del 05.08.2015 non è stato impugnato.
14. Così riassunta la vicenda contenziosa, sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulle eccezioni preliminari
15. La sanzione pecuniaria ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, sostitutiva della demolizione, è stata definita nello stesso importo in tre distinti provvedimenti: il primo (02.03.2013) non impugnato; il secondo (20.08.2014) impugnato con ricorso straordinario; il terzo (23.01.2015) impugnato nel presente ricorso.
16. Non vi è stata acquiescenza rispetto al primo provvedimento, in quanto la richiesta di riesame ha tenuto aperto il canale di confronto con gli uffici comunali. L’amministrazione, pertanto, sia con il secondo sia con il terzo provvedimento, ha adottato decisioni fondate su una nuova valutazione dei fatti, che hanno ciascuna sostituito la precedente.
17. Proseguendo su questa linea, si può ritenere che non vi sia litispendenza rispetto al ricorso straordinario, in quanto il terzo provvedimento si presenta come la risposta finale dell’amministrazione alle plurime richieste e contestazioni del ricorrente. L’interesse a impugnare il secondo provvedimento sussisteva certamente in origine, ma è stato poi sostituito dall’interesse a impugnare il terzo provvedimento, che ha definitivamente impedito al ricorrente sia di cancellare la sanzione pecuniaria attraverso la rimozione delle opere abusive sia di ottenere una riduzione dell’importo dovuto.
18. Non sussisteva invece un autonomo onere di impugnazione del quarto provvedimento della serie, ossia del nuovo diniego emesso dal Comune il 05.08.2015 in seguito al supplemento istruttorio disposto da questo TAR con l’ordinanza cautelare. Per chiarire questo punto è necessario esaminare il primo motivo di impugnazione, che riguarda la violazione delle garanzie procedimentali.
Sulle garanzie procedimentali
19. In generale, l’omissione del preavviso di diniego in una procedura avviata da tempo e caratterizzata dalla continua interlocuzione tra il privato e gli uffici comunali non può essere considerata come un vizio autonomo del provvedimento finale.
20. Diverso è il problema del mancato esame dell’ultima proposta avanzata dal ricorrente, ossia della possibilità di ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria mediante la rimozione delle opere abusive. Qui, in effetti, l’interlocuzione tra il ricorrente e gli uffici comunali si è arrestata troppo presto, lasciando il dubbio di un’istruttoria inadeguata.
Questo difetto, tuttavia, non riguarda l’intero provvedimento (non incide, in particolare, sui criteri di calcolo della sanzione pecuniaria), e può essere oggetto di convalida in sede giudiziale tramite il meccanismo della motivazione ex post di cui all’art. 21-octies comma 2 della legge 07.08.1990 n. 241.
21. L’ordinanza cautelare, attivando immediatamente il suddetto meccanismo allo scopo di fare economia dei mezzi processuali, ha rimesso in termini le parti per completare il confronto anche su questo profilo della vicenda contenziosa. Tale confronto ha avuto esito negativo per il ricorrente, nel senso che il Comune ha confermato motivatamente la propria posizione.
Tuttavia, poiché il nuovo provvedimento appartiene all’attività processuale, non è necessaria un’autonoma impugnazione, potendovi essere diretta cognizione da parte del giudice, nella fase di merito, sugli atti conseguenti alle pronunce cautelari. La censura riguardante il mancato esame della proposta di rimozione delle opere abusive si trasforma quindi da formale a sostanziale, concentrandosi sulle ragioni che non hanno consentito questo percorso di sanatoria.
Sulla cancellazione delle opere abusive
22. Per quanto riguarda la possibilità di ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria sostitutiva attraverso la rimozione delle opere abusive, si ritiene che il ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso (o del proprietario del bene) sia idoneo a determinare la perdita del potere di esigere il pagamento della sanzione già applicata. Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza il prezzo di una sanatoria, non esiste un interesse pubblico che possa opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori acquisiti dal privato in violazione della disciplina urbanistica.
23. Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di verificare che (a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo tecnicamente possibile ma anche non facilmente reversibile, e (b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non comportino pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita in conformità (peraltro è possibile che il privato accetti di modificare anche la parte conforme, se questo appare utile per eliminare in sicurezza le opere abusive).
24. Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001. L’amministrazione subirebbe infatti un danno economico se accettasse di perdere l’importo della sanzione in cambio di un’eliminazione solo apparente dell’abuso, e d’altra parte non è possibile lasciare al privato la valutazione circa l’assenza di rischi per la sicurezza delle persone e delle cose.
25. Nello specifico, è evidente che il ribassamento del soffitto fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio in legno non costituisce né un intervento irreversibile (essendo anzi facilmente reversibile) né un ostacolo all’utilizzo della superficie del locale per qualsiasi destinazione, comprese quelle incompatibili con la disciplina urbanistica. Si tratta in realtà di una misura che non cancella l’abuso edilizio, e in particolare non riduce la superficie lorda di pavimento e il connesso maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di terreno sulla copertura.
26. La rimozione radicale delle opere abusive non è stata proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi che un simile intervento potrebbe creare per la parte conforme dell’edificio.
27. Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento di riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è possibile qualificare come superfici non utili, e quindi urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è appena al di sotto del limite minimo ma comunque perfettamente idonea a consentire la generalità degli utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è possibile conseguire la sanatoria solo formalmente, ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica. L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
Sulla quantificazione della sanzione pecuniaria sostitutiva
28. Relativamente ai parametri utilizzati per calcolare l’importo di cui all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, si ritiene che il Comune abbia operato correttamente.
29. La base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge 392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di produzione sono poi applicati diversi coefficienti in incremento o in riduzione.
30. Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art. 16, relativo alla tipologia dell’abitazione. Nel caso del ricorrente, questo significherebbe non applicare il coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo della sanzione pecuniaria.
31. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione, sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria. Così formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi, il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando conseguentemente il principio di certezza del diritto.
32. L’art. 19 della legge 392/1978 individua il coefficiente 0,80 per le abitazioni situate al piano seminterrato. Il ricorrente sostiene che il locale abusivo sarebbe appunto seminterrato, tenendo conto della linea originaria del terreno.
33. Questa impostazione non può essere condivisa. Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di produzione occorre fare riferimento alla situazione successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore economico rilevante è quello che risulta dal completamento dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può conservare il valore attuale del bene illegittimamente realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie edilizie di favore (come la definizione di locale seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni legittime.
34. Nello specifico, le stesse cartografie prodotte dal ricorrente in occasione della domanda di sanatoria e la relativa documentazione fotografica (doc. 5 e 6 del Comune) chiariscono che il locale abusivo fuoriesce dal terreno su tre lati, ed è del tutto assimilabile per aspetto e funzionalità a una costruzione fuori terra.
35. L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la copertura.
36. Non sembra tuttavia che questa situazione possa consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione. L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso) di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della propria obbligazione.
37. Nello specifico, come riferito nel provvedimento del 23.01.2015 oggetto di impugnazione, le autocertificazioni e le dichiarazioni allegate alla domanda di sanatoria attestavano la conformità dell’impianto elettrico e dell’impianto termosanitario, e l’idoneità statica del locale. Su questa base, si può ritenere che alla data della domanda di sanatoria, e a maggior ragione alla data di conclusione dei lavori abusivi, l’immobile si trovasse in uno stato di conservazione e manutenzione normale.
Conclusioni
38. Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.12.2016 n. 1792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Assenso dei condomini per sopraelevare l’ultimo piano di un edificio condominiale.
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Concessione edilizia – Sopraelevazione ultimo piano di un edificio condominiale – Assenso proprietari dei piani sottostanti – Non occorre.
Per la sopraelevazione dell'ultimo piano di un edificio condominiale non è necessario l'assenso dei proprietari dei piani sottostanti (1).
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   (1) Ha chiarito il Trga Trento che il diritto di sopraelevare (art. 1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio, o al proprietario esclusivo del lastrico solare, e non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini. L'art. 1120 cod. civ. trova unicamente applicazione alle innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo, ovvero al maggior rendimento, delle cose comuni, regolando le questioni relative alle maggioranze necessarie per la loro approvazione, ma non disciplina affatto il diritto di sopraelevare.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi piani sia la trasformazione di locali preesistenti con aumento delle superfici e delle volumetrie (Cass. n. 2865 del 2008), spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro diviso a più proprietari- a ciascuno di essi nei limiti della propria porzione di piano, con utilizzazione dello spazio aereo sovrastante la stessa (Cass. n. 4258 del 2006).
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nei commi 2 e 3 dell’art. 1127 cod. civ., assumono carattere assoluto solo per quanto concerne il profilo statico (nella fattispecie non in discussione) dell’edificio, residuando la possibilità di eventuali opposizioni dei condomini per le diverse ragioni di ordine architettonico o di notevole diminuzione di aria o di luce ai piani sottostanti (Cass. n. 2708 del 1996), in ordine alle quali, tuttavia, le controversie ricadono nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di questioni prettamente civilistiche (Cass., S.U., n. 1552 del 1986; Cons. St., sez. V, 21.11.2003, n. 7539), senza compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile, nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi (Tar Catanzaro, sez. I, 19.11.2015, n. 1749) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 06.02.2017 n. 45 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento a firma del segretario comunale del Comune di Primiero San Martino di Castrozza prot. n. 5892/P di data 15.06.2016 avente ad oggetto “variante alla ce n. n. 18/2012 del 13.04.2012 inerente il progetto di rifacimento e risanamento della copertura della p.m. 4 p.ed. 164 sita in Val di Roda - CC. Tonadico II - esito cec – sospensione del procedimento”, nonché del presupposto parere del 09.06.2016 della Commissione per la pianificazione territoriale e il paesaggio della Comunità di Primiero, nella parte in cui prescrive la produzione del c.d. "Allegato A" per il rilascio del permesso di costruire in variante richiesto dalla ricorrente;
...
La ricorrente, proprietaria di un’unità immobiliare (p.m. 4 p.ed. 167) sita all’ultimo piano di un edificio condominiale, impugna –previa richiesta di sospensione- il provvedimento in epigrafe con cui il Comune di Primiero San Martino di Castrozza ha sospeso la trattazione della domanda di variante -ad una precedente concessione edilizia- inoltrata dall’interessata per la sopraelevazione della porzione di piano che le appartiene.
Il provvedimento di sospensione è stato adottato dall’amministrazione comunale sulla scorta del parere della commissione edilizia con cui l’organo consultivo ha ritenuto necessario l’acquisizione “della liberatoria dei soggetti aventi diritto sulle parti oggetto di intervento in quanto l’intervento proposto si configura nella fattispecie dell’innovazione, così come definita dall’articolo 1120 del codice civile in quanto le modifiche richieste sulla parte comune comportano una trasformazione radicale della medesima, con esecuzione di opere che eccedono il limite della conservazione, dell’ordinaria amministrazione e del godimento della cosa, importandone una modificazione tale che può incidere sull’interesse di tutti i condomini”.
...
2. Ciò posto, il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato per le seguenti ragioni.
2.1.
Il diritto di sopraelevare (art. 1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio, o al proprietario esclusivo del lastrico solare, e non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini. Peraltro, l’art. 1120 cod. civ. trova unicamente applicazione alle innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo, ovvero al maggior rendimento, delle cose comuni, regolando le questioni relative alle maggioranze necessarie per la loro approvazione, ma non disciplina affatto il diritto di sopraelevare (cfr. Cass. n. 15504/2000).
2.2.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi piani sia la trasformazione di locali preesistenti con aumento delle superfici e delle volumetrie (cfr. Cass. n. 2865/2008), spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro diviso a più proprietari- a ciascuno di essi nei limiti della propria porzione di piano, con utilizzazione dello spazio aereo sovrastante la stessa (cfr. Cass. n. 4258/2006).
2.3.
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nel secondo e terzo comma dell’art. 1127 cod. civ., assumono carattere assoluto solo per quanto concerne il profilo statico (nella fattispecie non in discussione) dell’edificio, residuando la possibilità di eventuali opposizioni dei condomini per le diverse ragioni di ordine architettonico o di notevole diminuzione di aria o di luce ai piani sottostanti (cfr. Cass. n. n. 2708/1996), in ordine alle quali, tuttavia, le controversie ricadono nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di questioni prettamente civilistiche (cfr. Cass. SU, n. 1552/1986; Cons. di Stato, n. 7539/2003), senza compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile, nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi (cfr. Tar Calabria Catanzaro n. 1749/2015).
3. Applicando le surriferite coordinate alla fattispecie, il ricorso si appalesa fondato, anzitutto, per la mancata considerazione ed applicazione, da parte dell’amministrazione, della peculiare disciplina regolante il diritto alla sopraelevazione.
4. Inoltre, dalla disamina dell’estratto progettuale della variante richiesta (doc. 7 fasc. ricorrente) non emerge una soluzione realizzativa contrastante con il diritto a sopraelevare riconosciuto dall’art. 1127 cod. civ., nel mentre i motivi addotti nel parere della Commissione edilizia - su cui è basato il provvedimento di sospensione impugnato - circa una pretesa, e del tutto genericamente esposta, trasformazione radicale della parte comune, non sono corredati da alcuna (necessaria) spiegazione, e sono rimasti viepiù indimostrati nel corso dell’intero giudizio.
5. All’accoglimento del ricorso per le suesposte ragioni consegue l’annullamento degli atti impugnati.

URBANISTICAAi sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, nr. 1150, in sede di approvazione di un piano attuativo di iniziativa privata al Comune spetta un’ampia discrezionalità valutativa, sostanzialmente corrispondente a quella che connota più in generale le scelte pianificatorie dell’Amministrazione comunale.
Se questo è vero, ne discende che tale discrezionalità valutativa non può che vertere, oltre che sugli aspetti tecnici della conformità o meno del piano attuativo agli strumenti urbanistici di livello superiore, anche sull’opportunità di dare attuazione, in un certo momento e a determinate condizioni, alle previsioni dello strumento urbanistico generale, sussistendo fra quest’ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza.
Sicché è ben possibile, e per nulla irragionevole né illegittimo, che il diniego di approvazione di una proposta di piano attuativo sia ancorato, al di là dell’astratta e formale compatibilità con la strumentazione di livello superiore, a un giudizio di obsolescenza di quest’ultima e al contrasto della proposta con le nuove e diverse scelte destinate a concretarsi in un nuovo strumento generale in corso di formazione.

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... per la riforma, previa sospensione, della sentenza del TAR della Campania, Sez. staccata di Salerno, Sez. I, nr. 629/2014, depositata in data 25.03.2014, non notificata, con la quale è stato respinto il ricorso (nr. 515/2013) contro il diniego di P.U.A. della Società Nu.Im..
...
7. Col primo motivo, parte appellante censura il punto 5 della sentenza in epigrafe, laddove il primo giudice ha ritenuto legittima la valutazione di non assentibilità operata dal Comune; in particolare, parte istante riproduce la propria impostazione di primo grado secondo cui l’Amministrazione, esercitando quella che il primo giudice ha definito una “insopprimibile” discrezionalità valutativa, avrebbe in realtà imposto sui suoli de quibus una atipica “misura di salvaguardia” al fine di impedire immutazioni del territorio nelle more dell’approvazione del P.U.C. in itinere.
Secondo l’appellante, al contrario, la valutazione consentita al Comune doveva esaurirsi al riscontro dell’esistenza di un’edificabilità dell’area ed all’insussistenza di ragioni totalmente ostative all’intervento ricavabili dalla pianificazione di livello superiore (ragioni che, almeno in parte, lo stesso TAR ha escluso).
La tesi non può però essere condivisa.
Ed invero, questa Sezione ha già avuto modo di affermare che, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, nr. 1150, in sede di approvazione di un piano attuativo di iniziativa privata al Comune spetta un’ampia discrezionalità valutativa, sostanzialmente corrispondente a quella che connota più in generale le scelte pianificatorie dell’Amministrazione comunale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2012, nr. 2361).
Se questo è vero, ne discende che tale discrezionalità valutativa non può che vertere, oltre che sugli aspetti tecnici della conformità o meno del piano attuativo agli strumenti urbanistici di livello superiore, anche sull’opportunità di dare attuazione, in un certo momento e a determinate condizioni, alle previsioni dello strumento urbanistico generale, sussistendo fra quest’ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza.
Da tali piane considerazioni consegue che è ben possibile, e per nulla irragionevole né illegittimo, che il diniego di approvazione di una proposta di piano attuativo sia ancorato, al di là dell’astratta e formale compatibilità con la strumentazione di livello superiore, a un giudizio di obsolescenza di quest’ultima e al contrasto della proposta con le nuove e diverse scelte destinate a concretarsi in un nuovo strumento generale in corso di formazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2016 n. 5527 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARINei locali della p.a. si deve poter allattare.
Le pubbliche amministrazioni e i singoli dipendenti pubblici dovranno assumere azioni positive, comportamenti collaborativi e comunque non ostacolare le esigenze di allattamento nei locali della p.a..

Lo prevede la direttiva 03.02.2017 n. 1/2017 del dipartimento della funzione pubblica diffusa ieri (Direttiva del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione in materia di comportamenti e atti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 ostativi all’allattamento).
L'allattamento, spiega una nota del ministro Marianna Madia, è un diritto fondamentale dei bambini e le madri devono essere sostenute nella realizzazione del desiderio di allattare.
Diritto riconosciuto dalla legislazione comunitaria e nazionale: la direttiva 2006/141/Ce ad esempio richiama il principio della promozione e della protezione dell'allattamento al seno e la necessità di non scoraggiare la stessa pratica.
I vertici e la dirigenza delle amministrazioni, prevede la direttiva, si adopereranno per prevenire comportamenti o atti in contrasto con le finalità viste sopra, anche nell'ambito di organismi controllati (articolo ItaliaOggi del 04.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Assunzioni e mobilità regioni e enti locali (Dipartimento Funzione Pubblica, nota 02.02.2017 n. 7202 di prot.).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale – scadenza del 02.05.2017. Servizio di ANCE Bergamo per la compilazione e presentazione del MUD (ANCE di Bergamo, circolare 03.02.2017 n. 35).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Aggiornamento del “testo unico” regionale sull’efficienza energetica degli edifici (ANCE di Bergamo, circolare 03.02.2017 n. 32).

AMBIENTE-ECOLOGIACriteri e requisiti per l'iscrizione all'Albo, con procedura ordinaria, nelle categorie 1, 4 e 5 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali, deliberazione 03.11.2016 n. 5 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: IL POTERE DI RAPPRESENTANZA NELLE ATTIVITÀ NEGOZIALI PRIVATISTICHE DEGLI ENTI LOCALI TERRITORIALI (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 08-09.01.2015 n. 249-2014/C).
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Sommario: 1. Premesse; 2. I presupposti delle problematiche inerenti l'affidamento del potere rappresentativo; 3. La natura della rappresentanza degli enti locali; 4. L'importanza della distinzione tra “potere politico” e “potere gestionale” ed i suoi limiti; 5. Il sistema di rappresentanza dell'ente locale nelle risultanze del T.U.; 6. Il concreto atteggiarsi del potere di rappresentanza; 7. La deliberazione dell'organo politico; 8. La determina del dirigente responsabile; 9. Le eccezionali “deroghe” alla competenza di rappresentanza del ruolo dirigenziale; 10. La rilevanza del controllo in ordine alla effettiva legittimazione del rappresentante all'intervento nell'atto negoziale.
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Lo studio in sintesi (Abstract): Lo studio tenta un approccio sistematico alle questioni attinenti la competenza del potere di rappresentanza nella realtà degli enti locali territoriali, proponendo una prioritaria digressione sulle ragioni delle problematiche esistenti e sulla natura della rappresentanza stessa con riferimento all'ambito del diritto pubblico.
Indi, in considerazione proprio dei limiti di una applicazione “analogica” delle conclusioni che potrebbero prospettarsi in campo privatistico, nell'ambito del diritto amministrativo al quale è strettamente correlata l'attività della Pubblica Amministrazione, si pone un cenno sull'importanza della distinzione tra “potere politico” e “potere amministrativo” al quale ultimo, le norme poste dal T.U.E.L., riservano in maniera pressoché esclusiva il potere gestorio e di rappresentanza per l'Ente.
Poste tali premesse di massima, il lavoro si addentra nella considerazione delle specifiche norme che riservano al ruolo dirigenziale dell'Ente la competenza per la stipulazione di atti e contratti anche di diritto privato, con specifici riferimenti a tre questioni che maggiormente rilevano nella pratica notarile. In primo luogo l'importanza della deliberazione dell'organo politico quale documento giustificativo dell'agire del dirigente in coerenza con gli indirizzi di programma di governo dell'Ente.
A ciò resta collegato il problema dell'effettiva rilevanza della “determina” dirigenziale quale documento da considerarsi sempre necessario, o solo in alcuni casi, necessario per il perfezionamento della stipula. Infine la verifica dell'effettivo potere di rappresentanza negoziale che si conclude essere competente al Sindaco solo in ipotesi eccezionali e correlate a specifiche previsioni di legge in cui siano previste deroghe alla competenza di rappresentanza del ruolo dirigenziale.
Una breve considerazione finale viene poi riservata alla specifica questione della ammissibilità, o meno, di una delega di poteri da parte del Dirigente competente “ratione materiae” per la stipula di un atto, a terzi e all'eventualità e alla possibilità del ricorso ad una procura notarile.
In chiusura si è considerato inevitabile un brevissimo cenno sulle conseguenze generate da una eventuale stipulazione negoziale privatistica con l'intervento di soggetto che agisce in rappresentanza dell'Ente senza però averne la relativa legittimazione.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 22.02.2017, "Indirizzi per l’applicazione della legge regionale 03.02.2015, n. 2 «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»" (circolare regionale 20.02.2017 n. 3).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO: G.U. 20.02.2017 n. 42 "Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città" (D.L. 20.02.2017 n. 14).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 20.02.2017 "Costituzione della Commissione per la valutazione delle domande presentate dai candidati alla nomina di esperto nell’ambito della commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (L.r. 33/2015 - Art. 4, comma 2)" (decreto D.G. 16.02.2017 n. 1600).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 17.02.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.01.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 06.02.2017 n. 18).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2017, "Approvazione «Linee guida per la predisposizione della proposta di ambiti territoriali ecosistemici ai sensi dell’art. 3, comma 3, della l.r. 28/2016" (deliberazione G.R. 08.02.2017 n. 6204).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2017, "Legge regionale 10.11.2015, n. 38 e d.lgs. 03.04.2006, n. 152 – Approvazione delle modalità realizzative e dei contenuti delle indagini preventive previste dalla l.r. 38/2015 ai fini del rilascio dell’autorizzazione allo scarico in falda di acque sotterranee prelevate per scambio termico tramite pompa di calore" (deliberazione G.R. 08.02.2017 n. 6203).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2017, "Nuove determinazioni in materia di promozione dell’agricoltura didattica ai sensi dell’art. 8-ter della legge regionale 05.12.2008 n. 31" (deliberazione G.R. 08.02.2017 n. 6198).

INCARICHI PROGETTUALI: G.U. 13.02.2017 n. 36 "Regolamento recante definizione dei requisiti che devono possedere gli operatori economici per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria e individuazione dei criteri per garantire la presenza di giovani professionisti, in forma singola o associata, nei gruppi concorrenti ai bandi relativi a incarichi di progettazione, concorsi di progettazione e di idee, ai sensi dell’articolo 24, commi 2 e 5 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 02.12.2016 n. 263).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 10.02.2017, "Aggiornamento delle «Indicazioni operative per la classificazione e la declassificazione amministrativa della rete viaria in Regione Lombardia»" (decreto D.U.O. 06.02.2017 n. 1139).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 06.02.2017, "Determinazioni per l’aggiornamento dell’anagrafe regionale del patrimonio abitativo destinato a servizi abitativi pubblici e sociali, ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 08.07.2016, n. 16 «Disciplina regionale dei servizi abitativi" (deliberazione G.R. 30.01.2017 n. 6163).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: D. Garzia, Legittimità dell’Affidamento Diretto a Società Miste - Natura ed evoluzione dell’istituto (06.02.2017 - link a www.filodiritto.com).

INCARICHI PROFESSIONALI: D. Centrone, Incarichi di consulenza, servizi legali, patrocinio giudiziale: la disciplina per il loro affidamento da parte della P.A. alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici (03.02.2017 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Sommario: I. Il conferimento di incarichi a personale esterno da parte della PA; II. L’estensione delle procedure per il conferimento di incarichi di collaborazione alle società pubbliche; III. Il conferimento di incarichi a professionisti esterni da parte di società pubbliche dopo il d.lgs. n. 175 del 2016; IV. Il conferimento di incarichi di consulenza e collaborazione, da parte di enti locali e società partecipate, alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici; V. La posizione dell’ANAC (deliberazione n. 1158/2016) VI. Una differente proposta interpretativa.

INCARICHI PROFESSIONALI: G. Mantegazza, INCARICHI DI CONSULENZA, SERVIZI LEGALI, PATROCINIO GIUDIZIALE: LA DISCIPLINA PER IL LORO AFFIDAMENTO DA PARTE DELLA P.A. ALLA LUCE DEL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI (03.02.2017 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: E. Boscolo, I DECRETI ATTUATIVI DELLA LEGGE MADIA: LIBERALIZZAZIONI E RIDISEGNO DEL SISTEMA DEI TITOLI EDILIZI (febbraio 2017 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa; 2. La segnalazione certificata dopo la legge Madia e il decreto ‘SCIA 1’; 3. Il nuovo art. 19-bis; 4. Il decreto SCIA 2: la ‘mappatura’ dei procedimenti e la conclusione del percorso di riforma della SCIA; 5. Le rilevanti novità in materia edilizia: una nuova tassonomia dei titoli edilizi; 6. L’attività edilizia libera; 7. La CILA: il nuovo modello residuale; 8. Il ridisegno dello spazio della SCIA; 9. La SCIA alternativa al permesso di costruire; 10. Il permesso di costruire; 11. L’agibilità tramite SCIA; 12. Gli ulteriori adeguamenti.

EDILIZIA PRIVATA: P. Mantegazza, Novità legislative in materia edilizia e urbanistica: appunti di lettura ragionata (febbraio 2017 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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SOMMARIO: I - Riforma Madia; II – Regolamento Edilizio Unico; III – Conferenza di servizi; IV – Provvedimenti regionali.

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGODa tempo parziale a pieno, pesa l’orario iniziale. I criteri per quantificare l’incidenza del contratto sul plafond delle assunzioni.
Pubblico impiego. Il parere fornito dalla sezione regionale dell’Abruzzo della Corte dei conti sul valore della trasformazione.
La trasformazione di un contratto da part-time a tempo pieno intacca il plafond per le assunzioni previsto per gli enti pubblici sulla base dell’orario previsto inizialmente dal contratto individuale di lavoro.
È questo il parere 02.02.2017 n. 12 reso dalla Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo della Corte dei conti a un ente locale che ha chiesto lumi su questo argomento.
Il Comune ha esposto il caso di un lavoratore dipendente assunto a tempo indeterminato e part-time negli anni precedenti. Successivamente all’instaurazione del rapporto di lavoro, l’interessato ha chiesto e ottenuto un ampliamento dell’orario di servizio, senza tuttavia giungere mai al tempo pieno. Questo perché, negli ultimi anni, il legislatore ha imposto rigidi vincoli in materia di assunzione di personale, legando il reclutamento di nuove unità a una determinata percentuale della spesa sostenuta per il personale cessato negli anni precedenti.
A ciò deve aggiungersi che, per il personale assunto a tempo parziale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno può avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni (articolo 3, comma 101, della legge 244/2007), essendo questo caso paragonato a un nuovo ingresso.
Invece non rientra in tale fattispecie la trasformazione a tempo pieno di un contratto part-time che, originariamente, era nato a tempo pieno e che successivamente era stato trasformato in part-time per scelta del lavoratore. Non è equiparata a nuova assunzione neppure l’incremento orario del contratto stipulato originariamente in part-time, purché non si raggiunga il limite del tempo pieno.
Tale possibilità, secondo la magistratura contabile è possibile purché non sia elusiva del divieto. In tal senso si è espressa la Corte dei Conti per la Sardegna con la deliberazione 67/2012 dove si precisa che «non è consentita l’elusione della normativa vincolistica in materia di turn-over quale potrebbe apparire l’incremento orario fino a 35 ore settimanali della prestazione lavorativa di un dipendente assunto a tempo parziale».
Gli enti locali, in materia di personale, devono rispettare precisi limiti di spesa, tra cui il contenimento della stessa entro il valore medio del triennio 2011/2013, nonché il contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa.
Il parere della Corte dei conti prosegue precisando che la spesa collegata all’incremento orario (fermo restando che il dipendente permane in regime di part-time) non viene mai presa in considerazione, se non quando il rapporto di lavoro viene trasformato a tempo pieno.
Pertanto, al fine di evitare comportamenti non rispondenti alla finalità normativa di contenimento della spesa, il plafond assunzionale sarà decurtato dalla differenza oraria tra l’originaria prestazione lavorativa e quella che deriva dal nuovo contratto a tempo pieno. Ciò poiché le ore con cui è stato integrato il contratto part-time nel corso degli anni non hanno mai potuto intaccare gli spazi a disposizione dell’ente.
Un esempio può aiutare a capire. Un lavoratore è stato assunto nel 2000 con part-time al 50 per cento. Successivamente nel 2009 ha ottenuto l’aumento delle ore all’80 per cento. Nel 2017 chiede la trasformazione a tempo pieno. In questo caso la spesa che graverà sul plafond assunzionale sarà data dalla differenza tra il costo a tempo pieno e quello del part-time 50 al per cento
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.02.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti in rapporto ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
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Il Sindaco del Comune di Taranto, con nota prot. n. 1454 del 23.12.2016, registrata al protocollo della Sezione n. 5270 del 27.12.2016, ha formulato una richiesta di parere in merito “alla possibilità o meno di riconoscere l’incentivo di cui all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 anche alle manutenzioni ordinarie e/o straordinarie in ordine a fasi diverse dalla progettazione e dal coordinamento della sicurezza, comunque previste dal citato articolo.
...
L’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 ha completamente modificato il precedente sistema degli incentivi ai dipendenti tecnici interni delle Pubbliche amministrazioni determinando il passaggio dall’istituto del “fondo per la progettazione e l’innovazione” (art. 93, co. 7-bis, del D.Lgs. n. 163/2006) all’istituto degli “incentivi per funzioni tecniche”. In sostanza, con la nuova normativa, risulta abrogata la precedente disciplina sugli incentivi per la progettazione (a sua volta più volte modificata nel corso degli anni) e introdotta una nuova fattispecie di incentivi “per funzioni tecniche” volti a premiare attività, prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la corretta realizzazione dell’opera.
Sia il previgente istituto del “fondo per la progettazione e l’innovazione” (art. 93, co. 7-bis, del D.Lgs. n. 163/2006) che il nuovo istituto degli “incentivi per funzioni tecniche” (art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016) costituiscono eccezioni al generale principio della onnicomprensività del trattamento economico. Tale aspetto risulta fondamentale per la esatta determinazione del perimetro di applicazione della disciplina indicata non essendo disponibile spazio per interpretazioni analogiche.
Gli incentivi per funzioni tecniche potranno quindi essere riconosciuti solo per le attività espressamente previste dalla legge.
In particolare, la norma menzionata (comma 2) stabilisce che “le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento … per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Come espresso a chiare lettere dall’art. 1, lettera rr, della legge delega n. 11/2016, con la nuova normativa, il legislatore ha quindi voluto dare spazio alla fase di programmazione ed esecuzione dell’appalto, “escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”. L’incentivo in parola non può, pertanto, essere applicato nel caso di progettazione interna (ANAC determinazione 14.09.2016 n. 973).
La nuova disposizione, così come accaduto in passato per la disciplina sugli incentivi per la progettazione (prima e dopo le modifiche apportate dall’art. 13-bis, co. 1, del D.L. n.90/2014 convertito in legge n.114/2014), ha sollevato vari dubbi interpretativi ed è alla base di diverse pronunce delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti in sede consultiva.
Alla luce degli orientamenti ermeneutici espressi,
la nuova disciplina riconosce gli incentivi anche in relazione ad appalti per forniture e servizi, a prescindere da ogni collegamento con l’esecuzione di lavori, sempre che siano rispettate le condizioni richieste dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 (Sez. controllo Lombardia parere 16.11.2016 n. 333; Sez. controllo Emilia Romagna parere 07.12.2016 n. 118). Il compenso incentivante non spetta per la progettazione e il coordinamento della sicurezza (Sez. controllo Lombardia parere 16.11.2016 n. 333). Gli incentivi riguardano in via esclusiva e tassativa le attività indicate al menzionato comma 2 (Sez. controllo Puglia parere 13.12.2016 n. 204). L’adozione del regolamento “continua ad essere una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (Sez. controllo Veneto parere 07.09.2016 n. 353).
In vigenza dell’art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006 (anche dopo le modifiche apportate dal D.L. n. 90/2014), la Corte dei conti ha affrontato più volte la delicata questione del rapporto tra incentivi per la progettazione e l’innovazione e attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, in considerazione della “espressione inequivoca” utilizzata in passato dal legislatore (art. 93, co. 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006), aveva escluso l’applicabilità dell’incentivo per la progettazione e l’innovazione in relazione a qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria e straordinaria (Sez. Autonomie deliberazione 23.03.2016 n. 10). Tale orientamento è stato confermato successivamente dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina ma in relazione alla precedente (Sez. controllo Sardegna parere 18.10.2016 n. 122).
La questione della possibilità di corrispondere i nuovi incentivi per funzioni tecniche nelle ipotesi di manutenzione ordinaria e/o straordinaria è stata recentemente affrontata da altra Sezione di questa Corte. In tale occasione è stato espresso l’orientamento secondo il quale
anche se le attività di manutenzione non sono espressamente escluse dalla nuova disposizione, per il carattere tassativo delle attività incentivabili tra le quali non è espressamente ricompresa l’attività di manutenzione e considerato che l’allegato I del D.Lgs. n. 50/2016 (al quale fa riferimento l’art. 3, lettera ll, n. 1, relativo alle definizioni) non indica le attività di manutenzione tra gli appalti pubblici di lavori, il predetto emolumento non può essere corrisposto per remunerare le predette attività (Sez. controllo Emilia Romagna parere 07.12.2016 n. 118).
Questa Sezione ritiene tassativo l’elenco delle attività incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può che confermare l’orientamento secondo il quale gli incentivi per funzioni tecniche riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 (Sez. controllo Puglia parere 13.12.2016 n. 204). Il suddetto emolumento, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, può essere corrisposto solo in presenza di una espressa previsione legislativa.
In definitiva, alla luce di quanto riportato, con specifico riferimento al quesito posto dal Comune di Taranto,
gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti in rapporto ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 24.01.2017 n. 5).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSulle assunzioni dei dirigenti locali la confusione regna sovrana.
Sulle assunzioni dei dirigenti negli enti locali, la confusione regna sovrana.

E ad aumentare lo stato di incertezza contribuisce la Corte dei conti, Sez. regionale di controllo per il Veneto, col parere 11.01.2017 n. 12.
La sezione regionale, in estrema sintesi, considera ancora vigente il congelamento delle assunzioni dei dirigenti, imposto dall'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015. Tale disposizione stabilisce che «nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 8, 11 e 17» della riforma Madia (legge 124/2015), «sono resi indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, come rideterminati in applicazione dell'articolo 2 del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, e successive modificazioni, vacanti alla data del 15.10.2015, tenendo comunque conto del numero dei dirigenti in servizio senza incarico o con incarico di studio e del personale dirigenziale in posizione di comando, distacco, fuori ruolo o aspettativa».
La sezione Veneto fa proprio il ragionamento già proposto dalla sezione regionale di controllo della Puglia col parere 73/2016, secondo il quale il comma 219 «mira a precostituire sotto il profilo dell'efficienza organizzativa, le condizioni migliori per la piena attuazione della riforma della dirigenza tracciata dalla legge 124/2015 e per il completo assorbimento del personale soprannumerario degli enti di area vasta», per cui la sottrazione dei dirigenti degli enti locali in particolare al congelamento delle assunzioni «in assenza di espressa previsione di legge, sarebbe irragionevole alla luce delle finalità che il legislatore intende perseguire».
Le conclusioni cui perviene la magistratura contabile, però, appaiono erronee. I pareri delle sezioni Puglia e Vento non tengono conto di due fattori decisivi per considerare totalmente decaduta la preclusione alle assunzioni posta dal comma 219.
Il primo è la decadenza della delega contenuta nell'articolo 11 della legge 124/2015, finalizzato alla riforma della dirigenza, a seguito della sentenza della Consulta 251/2016. Una volta che la delega risulti non più esplicabile, la condizione posta dall'articolo 219 alle assunzioni dei dirigenti diviene impossibile e, quindi, inoperante. Il secondo fattore è il riassorbimento del personale delle province, che la Funzione pubblica ha da quasi un mese annunciato essersi definitivamente concluso.
Non vi sono, quindi, ragioni né giuridiche, né di fatto, per considerare ancora vigente il congelamento delle assunzioni dei dirigenti, che, come appunto ammette la magistratura contabile, erano finalizzate ad agevolare una riforma della dirigenza che dal 30.11.2016 non è più possibile.
C'è da osservare che se le indicazioni della Corte dei conti sono certamente superabili sul piano della legittimità, l'assenza di un intervento normativo per regolare la disciplina delle assunzioni pone, comunque, problemi per il turnover dei dirigenti. Infatti, resta in vigore il comma 228 della legge 208/2015, che limita la capacità assunzionale degli enti locali al 25% del costo delle cessazioni avvenute l'anno precedente (tetto che sale al 75% per i comuni «virtuosi» fino a 10 mila abitanti), ma solo per il personale non avente qualifica dirigenziale.
Il che significa che le amministrazioni possono assumere dirigenti, ma gli spazi assunzionali non sono finanziati dalle cessazioni dei dirigenti (almeno per il 2016), ma solo dal personale che non ha qualifica dirigenziale. Insomma, nell'attuale fase il tetto finanziario alle assunzioni finisce per essere maggiore rispetto alle percentuali indicate dal comma 228 della legge 208/2015.
Senza una modifica urgente al comma 228, anche se si dovesse seguire l'interpretazione non condivisibile della Corte dei conti ed attendere l'esercizio anche della delega legislativa per la riforma del pubblico impiego contenuta nell'articolo 17 della legge Madia, in ogni caso da quella data resterebbero limiti finanziari molto forti al turnover delle qualifiche dirigenziali (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHESui conti l’incognita dei compensi ai tecnici. Codice appalti. La riforma che ha abolito i premi per la progettazione va coordinata con i vincoli alla spesa.
I compensi per le funzioni tecniche previsti nel nuovo codice degli appalti sfuggono ancora al tetto previsto per il fondo del salario accessorio dei dipendenti degli enti locali? La domanda serpeggia tra gli amministratori e i responsabili dei servizi personale, destando non poche preoccupazioni.
Per capire la questione bisogna risalire alla storia. Come si ricorderà, prima l’articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010 e poi il comma 236 della legge 208/2015 hanno imposto un tetto al fondo per le risorse decentrate, il quale, nell’anno di competenza, non può superare originariamente l’importo del 2010 (Dl 78/2010) e oggi quello del 2015 (legge 208/2015).
A questo vincolo, in sede interpretativa, sono state individuate alcune eccezioni, fra le quali gli abrogati compensi per la progettazione. Per questi emolumenti erano intervenute le sezioni riunite della Corte dei Conti, con la deliberazione 51/2011, che si erano pronunciate affermando che gli incentivi in questione erano esclusi dal vincolo in quanto destinati a remunerare prestazioni professionali specialistiche rese da personale dipendente, in assenza del quale dovrebbero essere acquisite all’esterno ma con costi aggiuntivi per i bilanci dell’ente.
Ora la musica è cambiata. I compensi per funzioni tecniche disciplinati dall’articolo 113 del nuovo Codice degli appalti vanno a remunerare una serie di compiti elencati nella stessa norma, ma fra di essi non sono più ricomprese le funzioni di progettazione: viene premiata una più attenta gestione della programmazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici di appalto.
Quindi, stante la motivazione allora adottata dai giudici contabili, è pacificamente ammesso che questi incentivi siano ancora esclusi dal tetto del fondo? Il dubbio è più che fondato, tanto più che la Corte dei conti per l’Emilia Romagna, con il
parere 07.12.2016 n. 118, ha ritenuto di dover rimettere la questione alla sezione delle Autonomie affinché adotti una deliberazione di orientamento.
Come si diceva, questa decisione è attesa con una certa ansia da parte delle amministrazioni. È evidente che, se la pronuncia confermasse l’esclusione dal tetto, nulla cambia. Ma se i magistrati contabili dovessero decidere affermando l’inclusione nel limite al salario accessorio anche dei compensi per le funzioni tecniche, gli enti potrebbero trovarsi in forte difficoltà nella gestione della partita.
Innanzitutto dovrebbero confrontare due quantità diverse: l’importo del fondo del 2015, con gli incentivi esclusi, e quello del 2017 (e forse anche il 2016, a conti già chiusi) con gli incentivi compresi. E anche volendo omogeneizzare il parametro nei diversi anni, è innegabile che nel 2015 gli investimenti, e quindi le progettazioni, erano sostanzialmente bloccate a causa del patto di stabilità, mentre una ripresa è stata registrata nel 2016 e nel 2017.
In altre parole, per rispettare il vincolo del fondo, i compensi per le funzioni tecniche saranno pagati dagli altri dipendenti che si vedranno erosa la produttività
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni, esterni out. Possono farne parte solo i consiglieri comunali. Vietato prevedere la presenza di membri estranei all'assemblea.
In materia di composizione delle commissioni comunali, ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, è legittimo il regolamento del consiglio di un comune nella parte in cui prevede che la composizione delle commissioni consiliari permanenti sia integrata con la presenza di membri esterni al consiglio nominati dalla giunta comunale?

Ai sensi del citato art. 38, comma 6, lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni consiliari, istituite dal consiglio «nel proprio seno». Una volta istituite, le suddette commissioni sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Lo statuto del comune ha stabilito che il consiglio costituisce, nel proprio seno, le commissioni consiliari permanenti mentre, ai sensi del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale, è previsto che la composizione delle stesse commissioni consiliari possa essere integrata dalla presenza di membri non consiglieri nominati dalla giunta. Tale previsione sarebbe espressione dell'intento della amministrazione di dare attuazione ai principi della partecipazione popolare di cui all'art. 8 del Tuel
Al riguardo, la formulazione della norma regolamentare non appare coerente con la disciplina dettata dal legislatore, e ribadita dallo statuto dell'ente, circa la indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi della norma statale citata, infatti, «il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale» e quindi preclusiva della possibilità che soggetti estranei al consiglio possano farne parte a titolo di veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche dalla dottrina, che sostiene che la composizione delle commissioni deve rispecchiare con criterio proporzionale le forze politiche presenti in consiglio, «con esclusione di componenti non facenti parte del consiglio stesso». L'ente in parola dovrà valutare l'opportunità di pervenire ad una modifica della normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi del 17.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito alla necessità di accertamento di compatibilità paesaggistica quale presupposto per il permesso di costruire in sanatoria di cui all'art. 36 d.P.R. 380/2001 per interventi realizzati prima del vincolo paesaggistico (Regione Lazio, nota 16.02.2017 n. 81219 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito al termine di efficacia delle autorizzazioni paesaggistiche (Regione Lazio, nota 16.02.2017 n. 81172 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Il permesso a costruire.
DOMANDA:
Trattasi della realizzazione di un tratto di nuova rete idrica distributrice di acqua potabile (dove prima non c’era, il cui passaggio ha interessato aree private soggette anche a vincoli paesaggistici) e realizzazione di un nuovo tratto di rete idrica in affiancamento alla rete idrica esistente per una futura sostituzione (su suolo pubblico), il tutto a servizio di una determinata zona del paese.
Sia la progettazione che l’affidamento dei lavori sono avvenute da parte dell’autorità d’ambito competente (consiglio di bacino a.t.o.). Non è stata richiesta autorizzazione al comune e non è stato preventivamente comunicato l’inizio dei lavori di tali opere al comune.
Si chiede se tali opere, essendo opere di urbanizzazione e quindi ricadendo nell'ambito delle disposizioni del DPR 380/2001, art. 3, lettera e.2, “opere di urbanizzazione realizzate da soggetti diversi dal comune”, che le qualifica interventi di nuova costruzione debbano essere soggette al rilascio del permesso di costruire, oppure se si possano considerare opere rientranti nel dettato dell’art. 158-bis del D.Lgs. 152/2006 e quindi non soggette ad autorizzazione comunale.
RISPOSTA:
Per una corretta valutazione della problematica posta si ritiene opportuno preliminarmente ricordare che in base all'art. 148, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006 “l'Autorità d'ambito è una struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l'esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione delle infrastrutture idriche di cui all'articolo 143, comma 1”.
Il successivo comma 2 dispone quindi che “le regioni e le province autonome possono disciplinare le forme ed i modi della cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale, prevedendo che gli stessi costituiscano le Autorità d'ambito di cui al comma 1, cui è demandata l'organizzazione, l'affidamento e il controllo della gestione del servizio idrico integrato”.
Ciò premesso si è dell’avviso che la risoluzione della problematica posta non possa prescindere da una attenta valutazione della disciplina organizzativa dell’ATO ed in particolare verificando se in tale ambito le funzioni urbanistiche relative alle occorrenti autorizzazioni edilizie siano state mantenute o meno in capo ai singoli comuni interessati, pur in presenza di un soggetto diverso che possiede una autonoma personalità giuridica, come previsto al citato comma 1.
E’ chiaro infatti che se l’opera può considerarsi da questo punto di vista di competenza del Comune stesso, non occorrerà il rilascio del permesso a costruire mentre a diverse conclusioni deve pervenirsi ove si debba ritenere che si tratti di intervento ascrivibile, come sembrerebbe dalle notizie riferite, all’ATO e quindi ad un ente pubblico diverso dal Comune.
In quest’ultimo caso troverebbe luogo infatti la disposizione di cui all’art. 3, lett. e.2, del DPR n. 380/2001, citata nel quesito, che considera "interventi di nuova costruzione", “gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal Comune”, come tali assoggettabili a permesso a costruire.
In ogni caso vale la pena di precisare che la necessità o meno del rilascio di tale titolo abilitativo prescinde dal rilievo che l’art. 158-bis del cit. decreto prevede che all'approvazione dei progetti definitivi nei modi ivi indicati possa conseguire la “variante agli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale”, poiché la conformità urbanistica dell’intervento rispetto alla pianificazione deve comunque sussistere come presupposto essenziale di legittimità dell’intervento, sia che occorra o non occorre il rilascio del successivo titolo edilizio richiesto (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: Gli immobili comunali.
DOMANDA:
Il Comune ha affidato nel 2009 alla propria partecipata (affidamento in house) l’attività di manutenzione e valorizzazione degli immobili comunali – quasi tutti destinati a pubblici servizi e fini istituzionali. Gli immobili sono stati affidati in concessione alla Società affinché la stessa avesse titolo giuridico per realizzare gli investimenti, contabilizzarli nel proprio stato patrimoniale ed ammortizzarli per tutta la durata della concessione.
Il Comune, in quanto proprietario -e su parere della Corte dei Conti- ha mantenuto tali immobili nel proprio inventario e stato patrimoniale al valore in corso prima della concessione e proseguendo nell’ammortamento annuale.
Allo scadere della concessione il Comune dovrebbe aggiornare il proprio stato patrimoniale per il maggior valore determinato dalle migliorie/nuovi investimenti realizzati dalla società anche se non è chiaro con quale criterio valorizzerà tali interventi.
Il contratto di servizio prevede un corrispettivo annuo per la gestione ordinaria ed un corrispettivo annuo per la manutenzione straordinaria da riconoscere alla società per una durata di 20 anni.
Il corrispettivo per la manutenzione straordinaria ha lo scopo di remunerare le manutenzioni straordinarie effettuate annualmente ma anche gli oneri diretti e indiretti che la società sostiene a fronte degli investimenti (nuove opere) realizzate nei primi 5 anni di attività.
Fino al 31.12.2015 il Comune registrava tale spesa (il canone per le manutenzioni straordinarie) al titolo II ma come costo nel conto economico. In questo modo si evitava una doppia registrazione di incrementi di valore sugli stessi beni (da parte della società e da parte del Comune).
Chiediamo il vostro parere rispetto alla corretta contabilizzazione della fattispecie tenuto conto dei nuovi principi contabili.
RISPOSTA:
Si ritiene che le procedure seguite fino al 2015 siano corrette; inoltre, si ritiene che, tenuto anche conto di quanto precisato dall'allegato 4/3 al D.lgs. 118/2011, ai paragrafi 4.16 (pagina 7), 4.18 (pagina 8) e 6.12 (pagina 16), l’ente, per il 2016 e anni successivi, debba continuare con il metodo seguito negli anni passati.
Per quanto riguarda i criteri di valorizzazione degli investimenti che sono stati realizzati dalla Società, si ritiene che si debbano applicare i principi illustrati nell'agosto 2014 dall’Organismo Italiano di Contabilità OIC 16 a proposito delle “immobilizzazioni materiali”; in particolare si ritiene che si debba fare riferimento a quanto stabilito per i “costi di acquisto” (si veda i punti da 26 a 28) e per i costi di “ampliamenti, ammodernamenti, miglioramenti e rinnovamento” (si veda i punti 41-43) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La proroga delle graduatorie.
DOMANDA:
Questo Comune, nell'anno 2009, approvava graduatoria di concorso a tempo indeterminato. Si chiede se la stessa sia ancora in corso di validità e sino a quando.
RISPOSTA:
La graduatoria è ancora valida in forza di una serie di proroghe intervenute negli anni. Da ultimo, l'articolo 1, comma 368, della legge 232/2016 (Stabilità 2017) ha prorogato fino al 31.12.2017 le graduatorie dei concorsi a tempo indeterminato, in vigore nel 2013 (D.L. 101/2013).
Per completezza si evidenzia che anche le graduatorie approvate successivamente sono state prorogate alla stessa data dall'art. 1, comma 1, del D.L. 244/2016 (cd. milleproroghe) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ L'accesso non ha limiti. Niente limiti per visionare il protocollo. L'uso dei sistemi informatici potrà alleggerire il compito degli uffici.
Possono essere considerate legittime le numerose istanze di accesso al protocollo del comune, ripetute nel tempo da un consigliere di minoranza?

L'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 stabilisce che «l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità' e la trasparenza».
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece, consente ai consiglieri comunali di accedere a «tutte le notizie e le informazioni» in possesso dell'ente, utili all'espletamento del proprio mandato.
Nel caso di specie, il sindaco ha sospeso ogni richiesta di accesso al protocollo ritenendole «formalizzate in modo abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate a strategie ostruzionistiche comportanti aggravi dell'attività amministrativa dell'ente».
In merito, va considerato che al consigliere comunale, in relazione proprio al munus rivestito, deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.: Cds n. 4525 del 05/09/2014, Cds Sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez. 21/02/1994 n. 119, Cons. stato, V Sez. 26/09/2000 n. 5109, Cons. stato, V Sez. 02/04/2001 n. 1893).
Superando le precedenti decisioni contrarie, fatta salva la necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'ente con richieste emulative, la giurisprudenza (cfr. Tar Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004, Tar Lombardia, Brescia, n. 362/2005, Tar Campania, Salerno, n. 26/2005), è infatti, oggi orientata nel ritenere illegittimo il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita.
Peraltro, i giudici del Tar Sardegna, con la segnalata sentenza n. 29/2007, hanno affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Premesso che la specifica materia potrà trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente, la previa visione dei vari protocolli (dei quali il protocollo informatico rappresenta una innovazione tecnologica già consolidata, prevista, tra l'altro, dall'art. 17, del decreto legislativo n. 82/2005 e successive modificazioni - codice dell'amministrazione digitale) sia necessaria per potere individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi sull'esercizio del diritto in parola (cfr. parere 29.11.2009), sulla base del principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale» (articolo ItaliaOggi del 10.02.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il diritto d'accesso è 2.0. Documenti anche su supporto informatico. Il consigliere può chiedere la password per visionare gli atti.
Un consigliere comunale può esercitare il proprio diritto di accesso agli atti dell'ente richiedendo che l'ostensione della documentazione amministrativa venga effettuata su supporto digitale, o eventualmente indicando il link a cui accedere nella sezione amministrazione trasparente per visionare tale documentazione, in luogo del rilascio delle copie cartacee?

L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 stabilisce che il «diritto di accesso» dei consiglieri comunali deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29/11/2009).
In tal senso anche il Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con la sentenza n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (vedi Consiglio di stato n. 6742/2007 del 28/12/2007).
Tale modalità è, del resto, conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005) che, all'art. 2, prevede che anche «le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione» (articolo ItaliaOggi del 03.02.2017).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Indicazioni operative per un corretto perfezionamento del CIG (delibera 11.01.2017 n. 1 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIStazioni appaltanti e gare, nuovi modelli dell'Anac. Adeguamento alla riforma per segnalare le cause di esclusione.
False dichiarazioni in sede di gara da segnalare all'Anac con nuovi modelli messi a punto dall'Autorità.

È quanto si chiede alle stazioni appaltanti a valle del comunicato del Presidente 21.12.2016 dell'Authority (Modelli di segnalazione all’Autorità per le comunicazioni utili ai fini dell’esercizio del potere sanzionatorio della Autorità, relativamente ad Operatori Economici nei cui confronti sussistono cause di esclusione ex art. 80 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nonché per le notizie, le informazioni dovute dalle stazioni appaltanti ai fini della tenuta del casellario informatico), reso noto in questi giorni e che modifica i modelli di segnalazione da utilizzare anche ai fini dell'esercizio del successivo potere sanzionatorio.
Si tratta dei modelli che concernono l'esistenza delle cause di esclusione degli operatori economici partecipanti a gare di appalto o concessione ma nei cui confronti sussistono cause di esclusione ai sensi di quanto disposto dall'articolo 80 del dlgs 18.04.2016, n. 50.
I modelli servono anche per le notizie e le informazioni dovute dalle stazioni appaltanti ai fini della tenuta del casellario informatico dell'Anac. In passato l'Autorità aveva messo a disposizione a fine 2013 (18 dicembre) tre modelli (da oggi abrogati) per le comunicazioni delle cause di esclusione o per l'applicazione di sanzioni del soppresso art. 48 del dlgs 163/2006 che prevedeva il sorteggio obbligatorio del 10% dei concorrenti rispetto ai quali controllare la veridicità delle dichiarazioni (assieme ai primi due classificati).
Con l'entrata in vigore del nuovo codice si è quindi reso necessario procedere all'adeguamento anche perché la nuova norma di riferimento ha modificato i contenuti dell'ex articolo 38 del codice De Lise. I modelli sono sempre funzionali all'esercizio del potere sanzionatorio dal momento che l'art. 213, comma 13, secondo periodo del decreto 50/2016 ha confermato all'Autorità il potere di irrogare sanzioni nei confronti degli operatori economici che forniscono alle stazioni appaltanti o agli enti aggiudicatori o agli organismi di attestazione, dati o documenti non veritieri circa il possesso dei requisiti di qualificazione.
I nuovi modelli adeguano i precedenti al contenuto dell'articolo 80, ma ancora fanno riferimento alle norme regolamentari del dpr 2017/2010. Nel comunicato si chiarisce che comunque, ancorché l'articolo 48 del codice del 2006 sia stato abrogato «resta comunque obbligatorio il controllo delle dichiarazioni rese dall'aggiudicatario (art. 32, comma 7, dlgs n. 50/2016) anche sui requisiti di ordine speciale, ed indipendentemente dal controllo previsto dall'art. 71, comma 1, del dpr n. 445/2000, che ricade nella discrezionalità della stazione appaltante».
L'Anac avverte che, in caso di esito negativo del controllo, le conseguenze (falsa dichiarazione) sono previste nel nuovo articolo 80 comma 12 del dlgs 50/2016. In tal caso, la stazione appaltante deve effettuare la segnalazione all'Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o colpa grave, dispone l'iscrizione di apposita annotazione interdittiva nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto fino a due anni.
La falsa dichiarazione comporta, peraltro, anche l'applicazione di una sanzione di carattere pecuniario, come previsto dall'articolo 213, comma 13, del decreto 50, da un minimo di 500 a un massimo di 50 mila euro. Le segnalazioni andranno inviate all'Anac alla casella di posta certificata (o per fax) utilizzando tre modelli (A, B e C) relativi ai requisiti di ordine generale, a quelli specifici e a quelli per la qualificazione Soa (articolo ItaliaOggi del 03.02.2017).

PATRIMONIO: Oggetto: Federazione Italiana Sport del Ghiaccio (FISG) – Comitato Regionale Piemonte - affidamento della gestione degli impianti sportivi a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016 - richiesta di parere.
AG 50/2016/AP
Art. 164 e 140 d.lgs. 50/2016
La gestione di impianti sportivi con rilevanza economica, qualificabile quale “concessione di servizi” ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. vv) del Codice, deve essere affidata nel rispetto delle previsioni di cui all’art. 164 e seguenti del Codice stesso, con applicazione delle parti I e II del Codice stesso (per quanto compatibili).
La gestione degli impianti sportivi privi di rilevanza economica, sottratta alla disciplina delle concessioni di servizi (art. 164, comma 3), deve essere ricondotta nella categoria degli “appalti di servizi”, da aggiudicare secondo le specifiche previsioni dettate dal Codice per gli appalti di servizi sociali di cui al Titolo VI, sez. IV.

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Ritenuto in diritto
Al fine di rendere il richiesto parere, si osserva preliminarmente che con riferimento all’assetto normativo recato dal d.lgs. 163/2006, l’Autorità ha espresso avviso in ordine all’affidamento della gestione degli impianti sportivi nel Parere sulla Normativa 02.12.2015 - rif. AG 87/2015/AP .
In tale parere è stato chiarito, in primo luogo,
con riferimento alla natura del bene “impianto sportivo, che esso rientra nella previsione dell’ultimo capoverso dell’art. 826 c.c., ossia in quella relativa ai beni di proprietà dei comuni destinati ad un pubblico servizio e perciò assoggettati al regime dei beni patrimoniali indisponibili i quali, ex art. 828 c.c. non possono essere sottratti alla loro destinazione.
Su tali beni insiste, dunque, un vincolo funzionale, coerente con la loro vocazione naturale ad essere impiegati in favore della collettività, per attività di interesse generale e non vi è dubbio che la conduzione degli impianti sportivi sottenda a tale tipologia di attività (Consiglio di Stato n. 2385/2013). La gestione di tali impianti può essere effettuata dall’amministrazione competente oltre che in forma diretta anche in forma indiretta, mediante affidamento a terzi, individuati in esito ad una procedura selettiva.
A tal riguardo l’Autorità ha osservato che
l’affidamento a terzi della gestione di un impianto sportivo comunale deve essere inquadrato nella concessione di pubblico servizio, pertanto l’ente locale che intenda affidare a terzi tale gestione è tenuto, ai sensi dell’articolo 30, comma 3, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, ad indire una procedura selettiva tra i soggetti qualificati in relazione al suo oggetto.
L’Autorità ha altresì affermato che
l’articolo 90 della legge 27.12.2002, n. 2891 pur mostrando il favor del legislatore per l’affidamento degli impianti sportivi ai soggetti operanti nel settore dello sport, non consente un affidamento diretto degli stessi ma, in conformità alle norme ed ai principi derivanti dal Trattato, occorre procedere ad un confronto concorrenziale tra i soggetti indicati nella stessa disposizione normativa. Detto confronto concorrenziale, secondo le considerazioni svolte, deve essere effettuato nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 30 del d.lgs. 163/2006.
Passando ad analizzare i quesiti formulati dalla FISG, in ordine alla disciplina dei contratti pubblici oggi dettata dal d.lgs. 50/2016, si rappresenta quanto segue.
In via preliminare si osserva che
quanto alla natura del bene “impianto sportivo”, la giurisprudenza più recente (Consiglio di Stato sez. V 26/07/2016 n. 3380) conferma il consolidato orientamento (richiamato anche dall’Autorità nel parere sulla normativa sopra citato) a tenore del quale gli impianti sportivi di proprietà comunale appartengono al patrimonio indisponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 826, ultimo comma, c.c., essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della collettività allo svolgimento delle attività sportive.
La gestione di tali impianti può essere effettuata dall’amministrazione competente in forma diretta oppure indiretta, mediante affidamento a terzi individuati con procedura selettiva.
A tal riguardo, in ordine alle modalità di affidamento di tale gestione, alla luce delle intervenute disposizioni del d.lgs. 50/2016, occorre distinguere tra impianti con rilevanza economica ed impianti privi di rilevanza economica. Laddove
gli impianti sportivi con rilevanza economica sono quelli la cui gestione è remunerativa e quindi in grado di produrre reddito, mentre gli impianti sportivi privi di rilevanza economica sono quelli la cui gestione non ha tali caratteristiche e va quindi assistita dall’ente.
Più in particolare «a
i fini della definizione della rilevanza economica del servizio sportivo è necessario distinguere tra servizi che si ritiene debbano essere resi alla collettività anche al di fuori di una logica di profitto d’impresa, cioè quelli che il mercato privato non è in grado o non è interessato a fornire, da quelli che, pur essendo di pubblica utilità, rientrino in una situazione di mercato appetibile per gli imprenditori in quanto la loro gestione consente una remunerazione dei fattori di produzione e del capitale e permette all’impresa di trarre dalla gestione la fonte della remunerazione, con esclusione di interventi pubblici» (TAR Lazio, 22.03.2011 n. 2538).
Come evidenziato dalla Federazione istante, nel settore sportivo sussistono diverse tipologie di impianti, distinte per bacino d’utenza, per grandezza, per attività alle quali sono deputati; pertanto, la redditività di un impianto sportivo deve essere valutata caso per caso, con riferimento ad elementi quali i costi e le modalità di gestione, le tariffe per l’utenza, le attività praticate.
In ragione di ciò la gestione dei predetti impianti può essere ascritta alla categoria delle concessioni di servizi se ricorrono gli elementi a tal fine indicati dal legislatore.
Si osserva al riguardo che il d.lgs. 50/2016 definisce la concessione di servizi all’art. 3, comma 1, lett. vv), come «un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall'esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi».
Il rischio operativo, come precisato alla successiva lett. zz) è «il rischio legato alla gestione dei lavori o dei servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di entrambi, trasferito al concessionario. Si considera che il concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio trasferita al concessionario deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile».
Il Codice dedica alle concessioni (di lavori e) di servizi la Parte III, prevedendo per le stesse una specifica disciplina, così introducendo un regime differente rispetto alle previsioni del d.lgs. 163/2006 che escludeva, all’art. 30, l’applicabilità del Codice per le concessioni di servizi e prevedeva la scelta del concessionario nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici.
Il d.lgs. 50/2016 prevede, ora, all’articolo 164, comma 2, che alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione. Il successivo comma 3 specifica inoltre che «I servizi non economici di interesse generale non rientrano nell’ambito di applicazione della presente Parte».
Dunque,
ove la gestione di impianti sportivi possa essere qualificata in termini di “concessione di servizi” secondo le indicazioni fornite dall’art. 3 del Codice, la stessa dovrà essere aggiudicata nel rispetto delle parti I e II del Codice stesso (per quanto compatibili).
Nel caso in cui gli impianti siano privi di rilevanza economica (nel senso in precedenza indicato), come chiarito dal comma 3 dell’art. 164, l’affidamento non può avvenire in applicazione delle disposizioni dettate per le concessioni dalla Parte III del Codice.

Conseguentemente occorre chiarire se in tali casi debba trovare applicazione la disciplina in tema di appalti di servizi o se, invece, debba essere esclusa l’applicazione del Codice, come ipotizzato dall’istante sulla base del tenore letterale del citato art. 164, comma 3.
A tal fine occorre sottolineare che, secondo il “vocabolario comune per gli appalti pubblici (CPV)” (Reg. (CE) n. 2195/2002, come mod. dal Reg. (CE) n. 213/2008), il codice CPV “92610000-0” è riferito ai “Servizi di gestione di impianti sportivi”. Detto CPV è attualmente ricompreso nell’Allegato IX (Servizi di cui agli articoli 140, 143 e 144) del d.lgs. 50/2016, nella categoria “servizi amministrativi, sociali, in materia di istruzione, assistenza sanitaria e cultura”.
Si tratta, pertanto, di un appalto di servizi poiché oggetto dell’affidamento è la gestione dell’impianto sportivo, quale servizio reso per conto dell’amministrazione ed in assenza di rischio operativo (secondo le definizioni contenute nell’art. 3 del Codice).
Discende da quanto sopra, che
la gestione degli impianti sportivi privi di rilevanza economica, sottratta alla disciplina delle concessioni di servizi, deve essere ricondotta nella categoria degli “appalti di servizi”, da aggiudicare secondo le specifiche previsioni dettate dal Codice per gli appalti di servizi sociali di cui al Titolo VI, sez. IV.
Resta ferma, inoltre, la disciplina di cui all’art. 36 per gli affidamenti di importo inferiore alle soglie di cui all’art. 35.
Si ritiene pertanto, che a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice, che ha dettato una specifica disciplina per le concessioni di servizi e che ha incluso la “gestione degli impianti sportivi” nell’Allegato IX del Codice, quale appalto di servizi, debba ritenersi superata e non più applicabile la previsione di cui all’art. 90, comma 25, della l. 289/2002, sopra richiamato, dettata in un differente contesto normativo.
Infine, per quanto riguarda la distinzione tra affidamento della gestione degli impianti sportivi fissi e degli impianti sportivi mobili, evidenziata dall’istante, confermando per i primi le considerazioni svolte in precedenza, con riferimento agli impianti mobili (definiti come spazi pubblici concessi dall’ente per lo svolgimento di manifestazioni o eventi sportivi), sembra opportuno sottolineare, in linea generale, che i servizi sportivi (CPV 92600000-7), i servizi connessi allo sport (CPV 92620000-3), i servizi di promozione di manifestazioni sportive (CPV 92621000-0) e i servizi di organizzazione di manifestazioni sportive (CPV 92622000-7), sono inclusi, come i servizi di “gestione degli impianti sportivi” nell’Allegato IX del d.lgs. 50/2016, pertanto gli stessi, quali appalti di servizi, devono essere affidati nel rispetto delle disposizioni del Codice sopra richiamate.
Nel caso in cui l’ente debba concedere esclusivamente l’uso di spazi pubblici per consentire lo svolgimento di eventi, tale fattispecie non rientra nell’ambito di applicazione del Codice, ma costituisce una concessione amministrativa di beni pubblici, da affidare comunque con procedura ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi comunitari di trasparenza, di concorrenza, di parità di trattamento e di non discriminazione (Corte dei conti, parere n. 4/2008, Cons. Stato, sez. VI, 30.09.2010, n. 7239; Cons. Stato, sez. VI, 25.01.2005, n. 168).
...
1 Ai sensi dell’art. 90 (Disposizioni per l'attività sportiva dilettantistica), comma 25, della l. 289/2002 «Ai fini del conseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 29 della presente legge, nei casi in cui l'ente pubblico territoriale non intenda gestire direttamente gli impianti sportivi, la gestione è affidata in via preferenziale a società e associazioni sportive dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline sportive associate e Federazioni sportive nazionali, sulla base di convenzioni che ne stabiliscono i criteri d'uso e previa determinazione di criteri generali e obiettivi per l'individuazione dei soggetti affidatari. Le regioni disciplinano, con propria legge, le modalità di affidamento» (Parere sulla Normativa 14.12.2016 n. 1300 - rif. AG 50/2016/AP - link a www.anticorruzione.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIASmaltimento sotto controllo. In discarica i rifiuti a basso rischio per ambiente e salute. Dall'Ispra i criteri per valutare quando è necessario effettuare il pretrattamento.
Smaltimento dei rifiuti in discarica possibile solo nel rispetto dei nuovi parametri tecnici dettati dall'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.
Il collocamento in deposito definitivo senza un preventivo trattamento è, infatti, ora possibile esclusivamente per quei rifiuti che, in base ai criteri delineati dall'Ispra in attuazione della disciplina nazionale di riferimento (il dlgs 36/2003), non presentano rischi per ambiente e salute umana.
La disciplina generale. Le nuove regole tecniche dell'Istituto devono essere contestualizzate nell'ambito della più generale disciplina nazionale sulle discariche di rifiuti dettata dal dlgs 36/2003. Dopo l'individuazione delle tipologie di rifiuti che non possono essere collocate in discarica (articolo 6), il decreto impone (con il successivo articolo 7) il preventivo trattamento di quelli ammissibili, e ciò al fine di prevenire o ridurre il più possibile le ripercussioni negative per ambiente e salute.
In deroga all'obbligo di trattamento possono, ex medesimo articolo 7 del dlgs 36/2003, essere tuttavia collocati in discarica: i rifiuti inerti tecnicamente non processabili; i rifiuti il cui trattamento non contribuirebbe alle suddette finalità e non risulta indispensabile per assicurare il «rispetto dei limiti fissati dalla normativa vigente». I criteri per valutare quando detto pretrattamento non è necessario ai descritti scopi sono, ancora in base allo stesso articolo 7 del dlgs 36/2003 (e come da ultimo novellato dalla legge 221/2015, c.d. «Green Economy»), individuati dall'Ispra.
Completa il quadro normativo di riferimento il Dm Ambiente 27.09.2010 (anch'esso riformulato nel 2015), regolamento che in attuazione dlgs 36/2003 sancisce i requisiti che i rifiuti devono soddisfare (a valle di tutta la filiera) prima di essere effettivamente ammessi in discarica.
Le regole tecniche Ispra. È in tale contesto che arrivano dall'Ispra i «Criteri tecnici per stabilire quando il trattamento non è necessario ai fini dello smaltimento dei rifiuti in discarica ai sensi dell'articolo 48 della legge 28.12.2015, n. 221».
Il documento 30.07.2016 n. 145/2016 e pubblicato dall'Ispra sul sito istituzionale www.isprambiente.gov.it/it reca le istruzioni che gli operatori devono utilizzare per valutare se le citate finalità di tutela (ambientale e umana) individuate dal citato dlgs 36/2003 siano garantite a prescindere da un eventuale trattamento che non migliorerebbe le caratteristiche dei rifiuti sotto il profilo di cinque parametri, ossia: riduzione del volume; riduzione della pericolosità; facilitazione del trasporto; agevolazione del recupero; smaltimento in condizioni di sicurezza.
In relazione ai rifiuti speciali la valutazione della necessità o meno del pretrattamento andrà effettuata sulla base di alcune caratteristiche dei residui, ossia: stato liquido della materia; biodegradabilità; presenza di matrice organica; presenza di amianto; altre specifiche peculiarità.
Così, rispettivamente, necessiteranno in linea generale di un preventivo trattamento al fine dell'avvio in discarica: rifiuti allo stato liquido o con sostanza secca inferiore al 25% (come, ad esempio, i fanghi da operazioni lavaggio e pulizia); residui biodegradabili o putrescibili (tra cui i residui vegetali non compostati) sottoponibili a processo di riduzione; rifiuti a matrice organica non rapidamente biodegradabile (come i residui tessili) con parametro di carbonio «Toc» maggiore o uguale al 5%; rifiuti anche solo a base di amianto (come alcuni imballaggi metallici); residui con sostanze pericolose immobilizzabili e quelli che possono interagire negativamente con altri in assenza di trattamento.
In relazione ai rifiuti urbani, punto nodale sarà il tipo di raccolta di provenienza: se derivanti da indifferenziata, il pretrattamento interesserà sostanzialmente i rifiuti biodegradabili o putrescibili; se derivanti da raccolta differenziata, la valutazione sul pretrattamento investirà solo ciò che dei rifiuti resterà all'esito delle obbligatorie attività di recupero: gli scarti che usciranno da tali operazioni dovranno così essere pretrattati prima di essere collocati in discarica se presenteranno quelle caratteristiche più sopra menzionate in relazione ai rifiuti speciali.
Il sistema sanzionatorio. Al collocamento dei rifiuti in discarica in violazione delle regole ex articolo 7 del dlgs 36/2003 sul pretrattamento (come ora integrate dalle nuove disposizioni Ispra) si applicano le sanzioni penali previste dall'articolo 16 dello stesso decreto legislativo.
Tali sanzioni, si segnala per onor di completezza, continuano però dal dlgs 36/2003 a essere testualmente individuate mediante un rinvio a quelle in materia previste dal dlgs 22/1997; ma essendo lo storico «Decreto Ronchi» stato abrogato e sostituito dal dlgs 152/2006 è alle relative sanzioni da quest'ultimo (in continuità normativa) previste che occorrerà far riferimento, e rintracciandole in particolare nell'articolo 256, comma 3, dello stesso Codice ambientale, laddove si prevedono l'arresto fino a tre anni e l'ammenda fino a 52 mila euro.
Le novità Ue in arrivo. Una stretta sull'avvio dei rifiuti in discarica è previsto dallo schema di provvedimento destinato a modificare la direttiva 1999/31/Ce (del quale il dlgs 36/2003 costituisce attuazione), schema allo studio delle competenti istituzioni Ue e rientrante nell'ambito del più consistente pacchetto di provvedimenti sulla c.d. «Economia circolare» (in relazione al quale la Commissione Ue ha presentato un report che attesta l'avanzamento dell'iter legislativo proprio lo scorso 26.01.2017).
In base al testo della nuova direttiva discariche in itinere (nella versione all'esame dell'Ue già dal dicembre 2015), in particolare: non saranno più ammissibili in discarica tutti i «rifiuti raccolti separatamente» (novero di cui il citato «pacchetto «Economia circolare» prevede il parallelo allargamento con la modifica della direttiva 2008/98/Ce); entro il 2030 dovrà dagli Stati membri essere ridotto al 10% il volume dei rifiuti urbani in discarica rispetto all'ammontare di quelli analoghi prodotti (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).

LAVORI PUBBLICIAppalti, penali a chi ritarda. Deroghe all'affidamento lavori su progetti esecutivi. Lo prevede il correttivo del Codice. Sarà proposto in consultazione agli stakeholder.
Eliminato il soccorso istruttorio oneroso; deroghe all'obbligo di affidare i lavori sulla base di progetti esecutivi; limite del 30% sul subappalto valido soltanto per la categoria prevalente; obbligatorio stimare i corrispettivi professionali con il «decreto parametri»; qualificazione delle imprese di costruzioni su 10 anni; reintrodotte le penali per ritardi nell'esecuzione, finanza di progetto con contributi pubblici fino al 49%.

Sono queste alcune delle novità contenute nello schema di decreto legislativo messo a punto dal ministero delle infrastrutture, che raccoglie le diverse proposte emerse sia a seguito delle audizioni parlamentari, sia nei pareri del Consiglio di Stato sui diversi provvedimenti attuativi del decreto 50/2016, sia ancora quelle emerse da segnalazioni e rilievi dell'Autorità nazionale anticorruzione, nonché dalla consultazione pubblica dei Rup (responsabili unici dei procedimenti) di gennaio gestita dalla cabina di regia presso la presidenza del consiglio dei ministri.
Le modifiche (si veda ItaliaOggi di ieri), di cui il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio certamente parlerà in audizione parlamentare mercoledì prossimo, non sono certamente di poco rilievo né numericamente (84), né per contenuto, anche se va precisato che si tratta ancora di un testo in alcun modo definitivo che sarà posto in consultazione agli stakeholder. Lo scopo sarebbe quello di arrivare entro una settimana, dieci giorni, alla formale presentazione del testo in Consiglio dei ministri (ieri il testo non era all'ordine del giorno).
Una prima rilevante novità riguarda la disciplina dell'appalto integrato (il contratto di progettazione esecutiva e costruzione), che potrà essere utilizzato per i progetti preliminari e definitivi approvati al 19.04.2016; in questi casi non sarà necessario sviluppare la progettazione a livello esecutivo prima si potrà avviare la gara chiedendo all'impresa di svolgere la progettazione definitiva e/o esecutiva e i lavori.
L'appalto integrato viene poi ammesso in tutti i casi in cui sia «nettamente prevalente la componente tecnologica o innovativa» (in realtà la norma era già presente nell'articolo 28 sui contratti misti) e, in termini generali, nei casi di somma urgenza previsti dal codice, prevedendo nel bando l'obbligo di inizio dei lavori entro trenta giorni dall'affidamento. Sul subappalto (che la stazione appaltante potrà vietare) si torna indietro alla previgente disciplina del decreto 163: il limite del 30% varrà soltanto sulla categoria prevalente (per i lavori) . Non è più prevista l'esclusione per mancanza di requisiti del subappaltatore, che quindi potrà essere semplicemente sostituito. Per i requisiti di ammissione alla gara si specifica che in caso di consorzi e raggruppamenti temporanei si possa indicare le percentuali di possesso in capo ai consorziati o ai raggruppati, con la precisazione che la mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria. Eliminato il soccorso istruttorio a pagamento in ragione della causa pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia per contrasto con i principi di concorrenza previsti dal Trattato europeo.
Per rilanciare gli interventi in finanza di progetto, si prevede che il contributo pubblico possa arrivare fino al 49% del valore dell'intervento (a fronte del 30% di oggi).
Diventa obbligatorio per le stazioni appaltanti stimare i corrispettivi di incarichi di ingegneria e architettura con il decreto 17.06.2016 (c.d. «decreto parametri») e sarà vietato remunerare il progettista con meri rimborsi spese o con contratti di sponsorizzazione. Viene innalzato da cinque a dieci anni il periodo di riferimento per la qualificazione delle imprese di costruzioni.
Introdotto l'obbligo di affidamento diretto degli sviluppi progettuali al vincitore del concorso di progettazione. Il rating di impresa sarà un elemento volontario e non obbligatorio, che non si sovrapporrà con il rating di legalità gestito dall'Antitrust. Ripristinata la disciplina (in passato nel dpr 207/2010) sulle penali da applicare in caso di ritardo nell'esecuzione della prestazione da parte dell'appaltatore; saranno stabilite nel contratto, commisurate ai giorni di ritardo e calcolate in percentuale dell'importo contrattuale.
Si chiarisce anche che i capitolati e il computo estimativo metrico fanno parte integrante del contratto e che l'anticipazione del prezzo è commisurata al valore del contratto e non all'importo a base di gara. Nelle procedure negoziate si dà alla stazione appaltante la facoltà di estendere la verifica anche agli altri partecipanti (articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIASoftware per il Mud.
Disponibile il software Unioncamere per la compilazione del Mud 2017 da inviare online (in www.mud.ecocerved.it). Per le dichiarazioni trasmesse dai soggetti che utilizzano software diversi, invece, il prodotto sarà disponibile dal 23.02.2017.

È quanto si legge nella nota tecnica 09.02.207 di Unioncamere in merito ai tracciati record per la compilazione telematica del modello unico di dichiarazione ambientale.
Il modello di dichiarazione annuale da inviare in camera di commercio è per chiunque effettui a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti, per i commercianti e gli intermediari di rifiuti senza detenzione, per le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e smaltimento, per i consorzi istituiti per il recupero e il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti, nonché per le imprese e gli enti produttori di rifiuti pericolosi (articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICICostruzioni, norme tecniche al vaglio Ue.
Verso l'approvazione definitiva delle nuove norme tecniche delle costruzioni. Entro il prossimo 8 maggio, le norme tecniche delle costruzioni dovranno ricevere il via libera della commissione Ue alla quale spetta la verifica dell'impatto delle nuove disposizioni sul mercato dei materiali da costruzione e la conseguente compatibilità con le norme europee sulla concorrenza.

Il 6 febbraio scorso infatti il ministero dello Sviluppo economico, per conto del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, ha inviato alla commissione Ue il decreto di aggiornamento contenente le «nuove norme tecniche per le costruzioni».
Non è stata richiesta la procedura di emergenza per l'analisi del documento. L'adozione del decreto si è reso necessario per prevedere l'aggiornamento del decreto ministeriale del 14.01.2008 al fine di garantire i livelli di sicurezza armonizzate per gli edifici.
Contenuto decreto. La bozza di decreto è formata da 3 articoli con allegato il testo relativo alla revisione delle norme tecniche per le costruzioni. Il primo dei tre articoli del progetto notificato approva il testo aggiornato delle norme tecniche per le costruzioni. I nuovi standard sostituiscono quelli approvati dal decreto ministeriale del 14.01.2008.
L'articolo 2 stabilisce la durata del periodo transitorio, dopo l'entrata in vigore delle norme tecniche rivisti, durante i quali le norme tecniche esistenti possono continuare ad applicare al pubblico in corso o pubblica utilità funziona, pubblici già assegnati di lavori, opere già premiate con i disegni finali e disegni di lavoro e specifiche, così come opere private le cui opere strutturali sono in corso o per i quali i disegni di lavoro e le specifiche sono già state presentate agli uffici competenti. L'articolo 3 stabilisce che le norme tecniche approvate dal decreto entra in vigore 30 giorni dopo la pubblicazione nella gazzetta ufficiale.
L'allegato contiene 12 capitoli riguardanti il soggetto, la sicurezza e i servizi da fornire, le azioni su edifici civile e industriali, i ponti, la progettazione geotecnica, i design per azioni sismiche, gli edifici esistenti, lo Static test, la preparazione di piani strutturali di costruzione e calcoli, i materiali e prodotti per uso strutturale e riferimenti tecnici.
Valutazione sicurezza. La valutazione della sicurezza di una struttura esistente è un procedimento quantitativo, volto a determinare l'entità delle azioni che la struttura è in grado di sostenere con il livello di sicurezza minimo richiesto dalla presente normativa. L'incremento del livello di sicurezza si persegue, essenzialmente, operando sulla concezione strutturale globale con interventi, anche locali.
La valutazione della sicurezza, argomentata con apposita relazione, deve permettere di stabilire se l'uso della costruzione possa continuare senza interventi, l'uso debba essere modificato (declassamento, cambio di destinazione e/o imposizione di limitazioni e/o cautele nell'uso); o sia necessario aumentare la sicurezza strutturale, mediante interventi (articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017).

LAVORI PUBBLICIOpere pubbliche con costi standard e penali per i ritardi. Appalti. Decreto correttivo in Cdm.
Costi standard per i cantieri e penali per le imprese che non mantengono gli impegni sui tempi di esecuzione.
C’è un nuovo sforzo di trovare misure adeguate al contenimento dei costi delle opere pubbliche nel decreto correttivo della riforma appalti, varata poco meno di dieci mesi fa, che oggi il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio porterà in Consiglio dei Ministri per una prima informativa al Governo. Un passaggio preliminare all’apertura di una (rapida) fase di consultazione del mercato sulle misure contenute nel provvedimento.
Tra le misure della bozza messa a punto dai tecnici di Porta Pia (molte anticipate già ieri da questo giornale), c'è anche l’obiettivo di arrivare finalmente a definire un benchmark dei costi delle opere pubbliche. Un traguardo previsto anche dal Codice del 2006 su cui aveva mosso i primi passi -senza successo- la vecchia Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. Ora ci si dovrà impegnare l’Anac. La misura serve ad attuare una previsione della legge che ha delegato il governo a riformare il sistema degli appalti.
L’obiettivo non è limitato ai lavori. All’Anticorruzione si chiede anche di elaborare prezzi di riferimento di beni e servizi «alle condizioni di maggiore efficienza, tra quelli di maggiore impatto in termini di costo a carico della pubblica amministrazione». Compito tutt’altro che facile, anche considerando le difficoltà organizzative (fondi e personale) con cui è ancora costretta a fare i conti l’Authority di via Minghetti.
In attesa degli standard nazionali sui prezzi, le imprese dovranno comunque fare attenzione a non sforare sui tempi. Il correttivo imporrà l’obbligo di prevedere penali in tutti i contratti, proporzionate sia al tempo aggiuntivo necessario per concludere l’attività che al valore dell’appalto. Stabilita anche la "forbice" entro la quale dovrà muoversi la sanzione. La penale giornaliera dovrà essere compresa tra lo 0,3 e l’uno per mille dell’importo netto contrattuale, entro un limite massimo del 10 per cento.
Tutte queste misure, dopo il primo passaggio a Palazzo Chigi, saranno aperte ai suggerimenti degli operatori. Poi serviranno anche i pareri di Consiglio di Stato, Commissioni parlamentari e Conferenza unificata. Ma la fase di "ascolto" non inizia oggi. In molti si sono già fatti avanti con proposte di cui si è già tenuto conto per mettere a punto la bozza del provvedimento che si estende su 84 articoli. Oltre che dagli operatori di mercato e dal mondo delle amministrazioni, idee e proposte sono arrivate anche dai "think tank" che si occupano delle strategie pubbliche.
Un dossier molto corposo sulla riforma degli appalti è stato, ad esempio, messo a punto dall’osservatorio sui contratti pubblici promosso da Italiadecide, con Aequa, ResPublica e ApertaContrada. Tra i suggerimenti anche quello di non focalizzare l’attenzione solo sui lavori, facendo più spazio a tutta la fase di programmazione e gestione degli acquisti pubblici
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Appalti post calamità veloci. L'aggiudicatario può autocertificare di avere i requisiti. Il correttivo del codice (in dirittura al consiglio dei ministri) prevede norme ad hoc.
Appalti veloci in caso di calamità Nei casi di attuale ed estrema urgenza connessa a emergenze di protezione civile, se c'è l'esigenza impellente di assicurare la tempestiva esecuzione del contratto, gli affidatari delle opere dichiarano, mediante autocertificazione, il possesso dei requisiti di partecipazione previsti per l'affidamento di contratti di uguale importo mediante procedura aperta, ristretta o mediante procedura competitiva con negoziazione.
I relativi controlli sulle autocertificazioni presentate sono comunque effettuati dalle amministrazioni aggiudicatrici entro 60 giorni dalla stipula del contratto.

Lo prevede la bozza di decreto correttivo del codice degli appalti che potrebbe andare già oggi all'esame del consiglio dei ministri. In fase di verifica, si legge nel provvedimento, la p.a. deve dare conto della sussistenza dei relativi presupposti. In assenza, non è possibile procedere al pagamento.
Qualora venga accertato l'affidamento ad un operatore privo dei requisiti, le amministrazioni aggiudicatrici recedono dal contratto, fatto salvo il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso delle spese già sostenute per l'esecuzione della parte rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, e procedono alle segnalazioni alle autorità. Numerose le norme di semplificazione contenute nel decreto.
Come quella secondo cui nel caso di lavori pari o inferiori a 500 mila euro il certificato di collaudo è sostituito da quello di regolare esecuzione, mentre per i lavori sopra 500 mila euro e pari o inferiore a un milione di euro, è facoltà della stazione appaltante di sostituire il certificato di collaudo con quello di regolare esecuzione. Per accelerare lo svolgimento dei lavori, i contratti di appalto prevedono penali per il ritardo nell'esecuzione delle prestazioni contrattuali da parte dell'appaltatore.
Le penali per il ritardato adempimento, sono calcolate in misura giornaliera compresa tra lo 0,3 per mille e l'1 per mille dell'ammontare netto contrattuale, e comunque complessivamente non superiore al 10%, da determinare in relazione all'entità delle conseguenze legate all'eventuale ritardo (articolo ItaliaOggi del 10.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICorruzione, un unico database. La p.a. potrà usarlo per le misure di prevenzione e contrasto. Proposta Anac per mettere in rete gli indicatori di rischio nei settori interessati dai fondi di coesione.
Definire indicatori oggettivi del rischio corruttivo nella pubblica amministrazione desunti da statistiche giudiziarie, della magistratura contabile e inerenti la responsabilità disciplinare; mettere in linea le banche dati in possesso delle informazioni inerenti gli indicatori per applicarli agli interventi finanziati con i fondi di coesione.

È quanto ha proposto l'Anac nel report finale messo a punto con il dipartimento per le politiche di coesione della presidenza del consiglio a valle di una approfondita analisi istruttoria propedeutica all'individuazione di indicatori di rischio corruzione e di misure di prevenzione e contrasto nelle amministrazioni pubbliche coinvolte nella politica di coesione.
Il presupposto da cui è partito il lavoro è che l'elaborazione di indicatori affidabili può rappresentare uno strumento particolarmente utile nelle fasi di progettazione e valutazione di interventi e progetti formulati nell'ambito delle politiche di coesione, cosi da misurarne l'efficacia relativa anche in relazione al rischio di distorsioni derivanti da «abusi di potere delegato a fini privati» legati ad attività di corruzione.
Il lavoro contiene indicazioni di particolare interesse anche perché è, nella sostanza, centrato sulle procedure di affidamento di contratti pubblici, ancorché limitatamente a quelli finanziati con i fondi di derivazione europea.
Lo studio propone una metodologia per la costruzione di indicatori oggettivi e soggettivi di rischio di corruzione e di contrasto alla corruzione, oggi non disponibili in Italia con sistematicità di produzione e adeguato livello di disaggregazione territoriale e ne ipotizza la realizzazione nell'ambito del Pon governance e capacità istituzionale 2014-2020.
L'obiettivo del lavoro è stato quello di riferirsi a indicatori oggettivi di rischio di corruzione da costruirsi per ognuno dei settori compresi negli obiettivi tematici delle politiche di coesione, analogamente a quanto già fatto dall'Anac in materia di contratti; questi indicatori possono essere poi utilizzati anche dalle pubbliche amministrazioni nella scelta delle misure di prevenzione da adottare.
La scelta è stata quella di fare riferimento a misure ricavate dalle statistiche giudiziarie e dalla giurisprudenza contabile, quali ad esempio: misure di repressione penale o di contrasto in materia di responsabilità amministrativa e contabile deducibili dalla giurisprudenza della Corte dei conti; misure di contrasto in materia di responsabilità disciplinare; misure di contrasto di carattere preventivo.
Il sistema, per funzionare efficacemente deve potere disporre, però, di dati di base dettagliati e affidabili. Per questo aspetto lo studio individua come elementi essenziali le banche dati Anac già esistenti e immediatamente disponibili, fra cui la banca dati interna dell'Anac (Bdncp, banca dati nazionale dei contratti pubblici); poi si fa riferimento alle banche dati costituite presso le singole stazioni appaltanti, e gestite dai singoli responsabili di prevenzione alla corruzione (Rpc).
Utili all'analisi e all'applicazione degli indicatori sono le banche dati esterne all'Anac, facilmente acquisibili ma di non facile integrazione (Banca d'Italia, Corte dei conti, ministero dell'interno, ministero della giustizia, presidenza del consiglio dei ministri, ma anche enti pubblici non economici, agenzie, regioni, comuni, aziende sanitarie locali, aziende ospedaliere, università, camere di commercio industria artigianato e agricoltura e unioni regionali).
Infine, il report si sofferma sulla possibilità di implementare indagini campionarie ad hoc per integrare un ideale database completo con informazioni non altrimenti reperibili attraverso le fonti tradizionali (articolo ItaliaOggi del 10.02.2017).

APPALTIWhite list antimafia, niente appalti a chi non è iscritto. Lavori. Un decreto chiarisce l'obbligo.
Si rafforza il ruolo delle white list, per garantire l’assegnazione degli appalti a imprese al riparo dalle infiltrazioni mafiose. D’ora in avanti, chi vorrà ottenere contratti e subappalti nei settori considerati a maggiore rischio di inquinamento da parte della criminalità dovrà risultare iscritto negli elenchi delle prefetture. L’iscrizione alle white list diventa così vincolante, spazzando via i dubbi sull’obbligo, a causa di una ambigua formulazione inserita nel regolamento del 2013 che ha istituito gli albi delle imprese "pulite".
Il chiarimento è arrivato con un nuovo decreto (Dpcm 24.11.2016, pubblicato in Gazzetta il 31 gennaio) che modifica in più punti il vecchio regolamento estendendo il raggio di azione delle white list. L’iscrizione all’elenco potrà sostituire la documentazione antimafia (comunicazione e informativa) per appalti di qualunque importo e anche di natura diversa dal settore specifico per il quale l’impresa ha richiesto l’iscrizione.
La novità riguarda in particolare le decine di migliaia di imprese che operano nei nove settori che la legge Anticorruzione (legge 190/2012) individua come a maggior rischio infiltrazione. Si tratta delle attività legate a trasporti (materiali in discarica e smaltimento rifiuti), movimento terra, ciclo del cemento e del bitume (confezionamento, fornitura e trasporto), fornitura di ferro, noleggi, autotrasporti per conto terzi, guardiania dei cantieri.
Il provvedimento chiarisce definitivamente che, senza iscrizione, chi lavora in questi settori non può ottenere appalti pubblici o subaffidamenti. Il decreto prova anche a stabilire un raccordo tra le white list e la banca dati unica antimafia inaugurata a gennaio 2016. Anche se i due strumenti di verifica rischiano di accavallarsi. Può capitare infatti che un’impresa abbia fatto domanda di iscrizione alle white list ma non risulti ancora tracciata dalla banca dati. In questo caso scattano le procedure ordinarie previste dal codice antimafia, cioè i controlli sull'impresa, da concludere entro un massimo di 30 giorni (45 nei casi più complessi).
Al termine dei 30 giorni, o nei casi più urgenti, la stazione appaltante potrà concludere il contratto salvo revocarlo (fatte salve le opere già eseguite) nel caso di stop del prefetto al termine dei controlli. Se tutto, invece, andrà liscio l'impresa si vedrà iscritta sia nelle white list che nella banca unica antimafia.
Sancito con certezza l’obbligo è del tutto probabile che le finora piuttosto sonnecchianti white list diventino lo strumento principale per la conquista della certificazione antimafia da parte delle imprese. Il nullaosta non sarà infatti limitato a uno specifico settore, ma potrà essere esibito per qualsiasi tipo o dimensione del contratto, senza limiti di importo.
Una volta iscritti in white list, insomma, almeno per un anno le imprese dovrebbero lasciarsi alle spalle il pensiero degli adempimenti antimafia
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIDifesa in giudizio, escluso l'obbligo di previa gara.
L'obbligo di previa gara per l'attribuzione dell'incarico di difesa in giudizio, così come per l'attribuzione dell'incarico di consulenza o di assistenza specialistica sul singolo affare, non è affatto imposto dall'ordinamento. La prestazione dell'avvocato potrà, invece, essere richiesta dalle pubbliche amministrazioni, al pari di ogni altro soggetto, in ragione dell'imprescindibile natura fiduciaria che caratterizza il rapporto tra l'avvocato ed il cliente rappresentato e difeso.

Questo è quanto ha precisato l'Unione nazionale avvocati amministrativisti con la lettera-circolare 19.01.2017 n. 1/2017.
Il chiarimento offerto con questo documento si era reso indispensabile a seguito dell'entrata in vigore del dlgs 50/2016 (nuovo codice dei contratti pubblici).
Più precisamente, si era diffusa l'illogica tesi secondo la quale anche per l'affidamento degli incarichi legali di natura giudiziale dovevano essere applicati i principi generali relativi all'affidamento di contratti pubblici, essendo gli stessi espressamente ricompresi nell'art. 17, c. 1, lett. d), del decreto. Il tutto in forza del tenore letterale della previsione di cui all'art. 4 del codice.
Ebbene, con la circolare si rammenta come ogni interpretazione debba essere condotta muovendo proprio dall'analisi della fonte comunitaria recepita e quindi, nel caso concreto, dalla direttiva 2014/24/Ue dove rileva il considerando n. 25, il quale espressamente chiarisce la scelta di escludere «dall'ambito di applicazione della presente direttiva», oltre ai servizi prestati dai notai o quelli connessi all'esercizio di pubblici poteri, quelli che «comportano la rappresentanza dei clienti in procedimenti giudiziari».
«Non potrà quindi ricavarsi dalla fonte di recepimento nazionale ciò che la fonte comunitaria esplicita all'opposto». Anche l'allegato IX dell'attuale codice dei contratti, nel prevedere i servizi legali nella misura in cui non siano esclusi a norma dell'art. 17, c. 1, lett. d), non fa altro che richiamare l'esatto contenuto della direttiva 24.
Alla luce di queste considerazioni è stata così ritenuta irragionevole la lettura sopra richiamata degli art. 17 e 4 dell'attuale codice e le p.a. potranno conferire l'incarico nel modo più adeguato al perseguimento del loro interesse, dovendo assolvere al solo onere di esplicitare sempre le ragioni che motivano la scelta del professionista (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2017).

PUBBLICO IMPIEGOPiù licenziamenti disciplinari. Quattro nuove cause. Rischia chi non segnala infrazioni. PUBBLICO IMPIEGO/ Lo prevede la bozza di decreto attuativo della riforma Madia.
Quattro nuovi casi di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego. Il rapporto di lavoro dovrà essere risolto per violazione del codice di comportamento (dpr 62/2013 e codici di ciascuna singola amministrazione); mancato esercizio, doloso o gravemente colposo, dell'azione disciplinare, o mancata segnalazione dell'infrazione, o archiviazione sulla base di valutazioni manifestamente irragionevoli (per i dirigenti, queste infrazioni potranno costituire anche responsabilità dirigenziale); scarso rendimento reiterato, qualora nel corso dei due anni precedenti al dipendente sia stata irrogata una sanzione allo stesso titolo, di tenore più lieve; reiterata valutazione negativa ai fini del risultato del dipendente nell'arco dell'ultimo triennio.
Lo si legge nella bozza di decreto legislativo attuativo della riforma Madia che contiene nuove regole sul procedimento disciplinare e anti assenteismo (e poco altro di fondamentale).
Lo schema di decreto, previsto dall'articolo 17 della legge 124/2015, modifica in poche parti l'impianto del testo unico sul lavoro pubblico, il dlgs 165/2001. Le modifiche davvero significative non toccano i temi della riorganizzazione delle attività e dell'efficienza, ma soprattutto la «lotta ai fannulloni».
Qualche rilievo assume la modifica delle relazioni sindacali e la conferma della reintegra ai dipendenti pubblici licenziati illegittimamente. Piatto forte, iter disciplinare e sanzioni.
Competenza. Il testo riordina le competenze oggi ripartite, negli enti con dirigenza, tra dirigenti degli uffici, chiamati ad intervenire per le sanzioni fino alla sospensione dal lavoro con privazione della retribuzione per 10 giorni, e ufficio per i procedimenti disciplinari, che interviene per le sanzioni superiori, fino al licenziamento. La riforma limita la competenza dei dirigenti alla sola sanzione del rimprovero verbale.
Unificazione del procedimento. I procedimenti non connessi a infrazioni che possano comportare il licenziamento colte in flagranza (come per i «furbetti del cartellino») avranno un unico iter. I responsabili delle strutture dovranno segnalare il fatto che possa costituire infrazione disciplinare entro 10 giorni all'ufficio per i procedimenti, autonomamente individuato da ciascuna amministrazione.
L'ufficio deve avviare l'azione disciplinare non oltre i successivi 30 giorni, con la contestazione scritta al dipendente, che viene contestualmente convocato per un'audizione a sua difesa con preavviso di non meno di 20 giorni (rinviabile solo una volta).
Adozione dei provvedimenti. Il procedimento ordinario deve concludersi entro 90 giorni dall'avvio con due alternative. La prima è un provvedimento di archiviazione. La seconda è, invece, l'irrogazione della sanzione. Ad irrogare la sanzione è l'ufficio dei procedimenti disciplinari: il che eliminerà i dubbi ancor oggi sussistenti sull'autorità competente a disporre il licenziamento.
Restano fermi, invece, i termini molto più brevi previsti per il procedimento disciplinare da attivare nei confronti dei dipendenti che attestino falsamente la presenza in servizio: 48 ore per sospenderli dal servizio e 30 giorni complessivi per irrogare il licenziamento disciplinare.
Irrilevanza dei termini. La riforma del procedimento disciplinare mira alla sostanza, più che alla forma. Per un verso, quindi, si introduce un divieto generalizzato ad introdurre (con regolamento, contratti o qualsiasi altro atto) termini e adempimenti ulteriori e diversi da quelli fissati per legge.
In ogni caso, termini e adempimenti ulteriori e diversi da quelli normativi sono nulli. Per altro verso, allo scopo di assicurare efficacia alle sanzioni, si stabilisce che la violazione dei termini procedimentali non comporta la decadenza dall'azione né l'invalidità della sanzione irrogata, a condizione, però, che non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto alla difesa. Può incorrere, comunque, in responsabilità chi abbia dato causa alla violazione dei termini procedurali.
Nuovo procedimento in caso di annullamento. Le amministrazioni dovranno riaprire i termini dei procedimenti disciplinari ex novo, qualora il giudice ordinario abbia annullato la sanzione irrogata per violazione del principio di proporzionalità, in quanto detta sanzione si riveli eccessiva rispetto all'infrazione accertata. Entro 60 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento gli uffici competenti dovranno rinnovare la contestazione degli addebiti e ripartire con l'iter.
Riattivazione procedimento sospeso. Il procedimento disciplinare, come noto, può proseguire anche in pendenza di processo penale. Tuttavia, l'ufficio per i procedimenti disciplinari potrebbe sospenderlo nei casi di particolare complessità. La riforma introduce la possibilità di riattivare il procedimento disciplinare qualora l'ente entri in possesso di elementi utili per chiudere il procedimento, anche sulla base di provvedimenti giurisdizionali non definitivi (articolo ItaliaOggi dell'08.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIANuove dotazioni per l’iscrizione all’Albo. Rifiuti urbani e speciali. Dal 1° febbraio cambiano i criteri per la procedura ordinaria, le domande già presentate seguono le vecchie norme.
Nuove dotazioni minime di personale e mezzi per la raccolta e trasporto di rifiuti urbani e di speciali non pericolosi e pericolosi.
È in vigore dal 1° febbraio la deliberazione 03.11.2016 n. 5 del Comitato nazionale dell’Albo gestori, che ha introdotto nuovi criteri e requisiti per l’iscrizione ad alcune categorie con procedura ordinaria, abrogando le delibere 3/2003, 3/2012 e 6/2012.
Per raccolta e trasporto di rifiuti urbani (categoria 1), rifiuti speciali non pericolosi (4) e rifiuti speciali pericolosi (5) sono stati stabiliti i criteri specifici, le modalità e i termini per la dimostrazione dell’idoneità tecnica e della capacità finanziaria. Inoltre, ai fini dell’iscrizione nella categoria 1, il Comitato ha individuato sottocategorie basate sulla quantità annua di rifiuti gestita.
La dotazione minima dei veicoli tiene conto di una serie di elementi, quali: le diverse potenzialità e tipologie dei veicoli , la loro idoneità per le diverse attività, i differenti contesti in cui operano le imprese e l’esigenza di non ostacolare l’accesso all’attività nelle classi più basse.
La dotazione di veicoli e di personale individuata dalla delibera è quella minima; resta salvo l’obbligo di disporre della più ampia dotazione che, in sede operativa, risulti effettivamente necessaria per lo svolgimento dei servizi.
Per individuare in concreto la dotazione, fanno testo gli allegati:
- A e B riguardano l’iscrizione nella categoria 1 per raccolta e trasporto di rifiuti urbani, rispettivamente, con procedura ordinaria e semplificata (articolo 16, comma 1, lettera a, del Dm 120/2014);
- C si riferisce alla dotazione per iscriversi nella categoria 1 per lo spazzamento meccanizzato;
- D riguarda ancora la categoria 1 ma, per i servizi indicati in sette sottocategorie (si veda la scheda a destra) per i quali si deve disporre solo delle dotazioni minime individuate in tali sottocategorie;
- E è riferito alla dotazione per le categorie del trasporto rifiuti speciali non pericolosi (4) e pericolosi (5).
Il requisito di capacità finanziaria è soddisfatto con 9.000 euro per il primo autoveicolo e 5.000 per ogni ulteriore mezzo, dimostrati da documenti che comprovino le potenzialità economiche e finanziarie (volume di affari, capacità contributiva ai fini Iva, patrimonio, bilanci, affidamenti bancari) o con attestazione di affidamento bancario da imprese autorizzate all’esercizio del credito. Le imprese che hanno dimostrato il requisito ai fini dell’iscrizione all’Albo nazionale delle persone fisiche e giuridiche che esercitano l’autotrasporto conto terzi comprovano la capacità finanziaria con l’iscrizione a tale Albo.
Le iscrizioni nelle categorie 1, 4 e 5 effettuate alla data del 01.02.2017 restano valide ed efficaci fino alla loro scadenza. Restano valide le domande d’iscrizione presentate fino a tale data, da istruire e deliberare con le vecchie regole
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017).

VARI: Origine latte Ingredienti esonerati. Circolare mise.
L'obbligo di indicazione in etichetta dell'origine del latte e del latte usato come ingrediente nei prodotti lattiero caseari ricade in capo all'impresa che rappresenta il soggetto responsabile delle informazioni. Questa riporterà pertanto le informazioni di cui dispone direttamente e quelle di cui è entrato in possesso in quanto rilasciate dai soggetti tenuti a fornirle. L'obbligo di indicazione di origine del latte non investe, invece, gli altri operatori del settore alimentare che hanno fornito gli ingredienti contenenti latte utilizzati nella lavorazione del prodotto lattiero caseario preimballato; in quanto tale obbligo non cade sui prodotti non destinati al consumatore finale.

È con la circolare 02.02.2017 che il Ministero dello sviluppo economico detta le disposizioni applicative al decreto o interministeriale 09.12.2016 (Gazzetta Ufficiale del 19/01/2017 n. 15) concernente l'indicazione dell'origine in etichetta della materia prima per il latte e i prodotti lattiero-caseari, in attuazione del regolamento (Ue) n. 1169/2011 che entrerà in vigore il 19.04.2017.
Il latte o i suoi derivati da tale data dovranno avere obbligatoriamente indicata l'origine della materia prima in etichetta in maniera chiara, visibile e facilmente leggibile. Le diciture utilizzate saranno le seguenti: «Paese di mungitura: nome del paese nel quale è stato munto il latte» e «paese di condizionamento o trasformazione: nome del paese in cui il prodotto è stato condizionato o trasformato il latte».
Qualora il latte o il latte utilizzato come ingrediente nei prodotti lattiero-caseari, sia stato munto, confezionato e trasformato, nello stesso paese, l'indicazione di origine può essere assolta con l'utilizzo di una sola dicitura: per esempio «origine del latte: Italia
».
Se le fasi di confezionamento e trasformazione avvengono nel territorio di più paesi, diversi dall'Italia, possono essere utilizzate, a seconda della provenienza, le seguenti diciture: latte di paesi Ue (se la mungitura avviene in uno o più paesi europei) e latte condizionato o trasformato in paesi Ue (se queste fasi avvengono in uno o più paesi europei). Sono esclusi solo i prodotti Dop e Igp che hanno già disciplinari relativi anche all'origine e il latte fresco già tracciato (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017).

EDILIZIA PRIVATALa mobilità elettrica entra nei regolamenti edilizi.
La mobilità elettrica entra nei regolamenti edilizi. I comuni entro il 31.12.2017 dovranno adeguare i regolamenti edilizi, prevedendo alcuni obblighi per mobilità ecologica. Per ottenere il titolo abilitativo edilizio, gli immobili dovranno includere la predisposizione all'allaccio per la possibile installazione di infrastrutture elettriche per la ricarica dei veicoli.

Questo è quanto emerge dalla lettura dell'articolo 15 del dlgs 16/12/2016 n. 257 (pubblicato su Gazzetta Ufficiale del 13.01.2017 n. 10) sulla realizzazione di una infrastruttura per i combustibili alternativi.
Due le tipologie di edifici interessati dalla riforma: quelli di nuova costruzione non residenziali, con superficie utile superiore a 500 metri quadrati e quelli residenziali di nuova costruzione con almeno dieci unità abitative. In entrambi le situazioni, le nuove regole si applicano anche per i relativi interventi di ristrutturazione edilizia di primo livello, parliamo delle c.d. ristrutturazioni «importanti» che interessano oltre il 50% della superficie disperdente lorda esterna e l'eventuale rifacimento dell'impianto termico.
Per ottenere il titolo abilitativo edilizio, questi immobili dovranno includere «la predisposizione all'allaccio per la possibile installazione di infrastrutture elettriche per la ricarica dei veicoli idonee a permettere la connessione di una vettura da ciascuno spazio a parcheggio coperto o scoperto e da ciascun box per auto, siano essi pertinenziali o no, in conformità alle disposizioni edilizie di dettaglio fissate nel regolamento stesso e, relativamente ai soli edifici residenziali di nuova costruzione con almeno 10 unità abitative, per un numero di spazi a parcheggio e box auto non inferiore al 20% di quelli totali».
Con decreto del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sono individuate le dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni, nonché gli elaborati tecnici da presentare a corredo della segnalazione certificata di inizio attività (articolo ItaliaOggi del 04.02.2017).

LAVORI PUBBLICICodice dei contratti terremotato. Innalzata la soglia per gli affidamenti diretti della p.a.. Tra le deroghe del decreto legge sisma approvato ieri dal cdm c'è il ritorno all'appalto integrato.
In arrivo le deroghe al codice dei contratti pubblici su utilizzo del prezzo più basso e su appalto integrato per la ricostruzione post terremoto che si aggiungeranno a quelle già previste per il G7 di Taormina dal decreto 243/2016.

È quanto prevede il decreto-legge sul terremoto approvato ieri dal consiglio dei ministri, che contiene, oltre alla deroga sull'innalzamento della soglia di un milione di euro entro la quale le amministrazioni possono procedere all'affidamento con il criterio del massimo ribasso, anche la possibilità di utilizzo del contratto di progettazione esecutiva e costruzione (il cosiddetto appalto integrato).
La deroga dovrebbe essere applicata alla sola realizzazione delle 24 scuole individuate nell'ordinanza del commissario governativo Vasco Errani del 14 gennaio scorso, che dovranno essere pronte per la ripresa dell'anno scolastico. I tempi sono serratissimi e quindi nel decreto legge è prevista anche la scelta dell'appaltatore attraverso procedura negoziata con invito di cinque operatori economici.
Si tratta di una deroga necessitata che tocca comunque uno dei punti centrali della riforma del codice degli appalti pubblici e, in particolare, l'obbligo di appaltare lavori sulla base del progetto esecutivo (ad eccezione di quelli nei cosiddetti settori speciali), una novità che da un lato ha determinato il rilancio del mercato dei servizi di ingegneria e architettura e, dall'altro, ha inevitabilmente rallentato la domanda pubblica per appalti di lavori. Una novità che le stazioni appaltanti hanno in diverse occasioni trovato modo di aggirare utilizzando impropriamente strumenti come l'affidamento a contraente generale per affidare lavori di piccolo importo e di nulla complessità.
La partita delle deroghe sugli appalti preoccupa però non poco il Parlamento, già alle prese con l'esame del decreto legge n. 243/2016 dove sono contenute già numerose eccezioni al decreto 50/2016 per l'organizzazione del G7. Non a caso nella seduta di martedì scorso, in commissione lavori pubblici del senato, è stato immediatamente richiamata l'attenzione sulla necessità che il provvedimento di urgenza del governo sia oggetto di esame da parte delle commissioni di merito in sede referente e non consultiva.
Sul G7, peraltro, anche il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, nell'audizione svolta presso la commissione bilancio della camera, ha messo in guardia i parlamentari sulla portata e l'ampiezza delle deroghe previste nel decreto legge di fine dicembre concernente il Sud e in particolare l'organizzazione del G7 di Taormina previsto a maggio. Si tratta di una vera e propria procedura speciale per gli affidamenti degli appalti che consente il ricorso alla procedura negoziata senza bando anche se nel codice e nelle direttive si stabilisce che l'estrema urgenza deve derivare da «eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice».
Difficile ritenere che l'organizzazione del G7, di cui l'ex premier Renzi già dava notizia subito dopo l'estate, possa rientrare negli eventi imprevedibili, anche se, come ha anche notato il presidente Anac, bisogna essere realistici visto che per le infrastrutture nulla è stato ancora fatto. Al momento risultano infatti avviate da Consip le gare per quattro accordi quadro che dovrebbero a breve essere aggiudicati, ma che riguardano i servizi.
Nel decreto-legge si prevede quindi una procedura che, ha detto Cantone, è «senza limiti di importo, con la richiesta di solo 5 preventivi senza alcuna indicazione di come dovranno essere richiesti». Una deroga molto significativa che va oltre i paletti del codice dei contratti che ammette deroghe alle procedure ordinarie soltanto per eventi calamitosi. Su questo punto il presidente dell'Anticorruzione ha avuto modo di notare che «nemmeno per il terremoto è stata fatta una deroga simile» (articolo ItaliaOggi del 03.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIProgettazione, tre i nuovi livelli Ma vanno a regime dopo 6 mesi.
Entrata in vigore graduale per i nuovi livelli di progettazione; il nuovo decreto in materia del ministero delle infrastrutture attualmente in fase di approvazione sarà applicabile, infatti, dopo sei mesi dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
È quanto prevede l'ultima versione del testo, che adesso dovrà essere esaminato dalla Conferenza unificata e da Itaca (l'istituto per l'innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale), attuativo dell'articolo 216.
Il decreto ministeriale, formulato sulla base di una proposta del Consiglio superiore dei lavori pubblici, prevede fra le sue novità la sostituzione del progetto preliminare (il primo step progettuale) con il progetto di fattibilità che assume un ruolo chiave nell'ambito del processo di progettazione; inoltre il decreto prevede la possibilità di articolare in due fasi il progetto di fattibilità, con la prima fase che si conclude con la redazione del «documento di fattibilità delle alternative progettuali».
Proprio in ragione di questa novità che rende il primo livello ancora più «ricco» di contenuti rispetto a quanto previsto dal precedente codice e dalle norme di dettaglio contenute nel dpr 207/2010, nel nuovo testo si prevede una disciplina graduale di applicazione delle nuove regole che dovrebbe aiutare le stazioni appaltanti a gestire al meglio la transizione dal vecchio al nuovo sistema.
In particolare l'articolo 37 del provvedimento stabilisce che «le disposizioni di cui al presente decreto entrano in vigore 180 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale» e che «alle progettazioni affidate prima dell'entrata in vigore delle disposizioni contenute nel presente decreto si applicano le disposizioni vigenti al momento del loro affidamento».
È difficile fare una stima dei tempi su quando realmente i progettisti applicheranno le nuove disposizioni anche perché il testo è ancora potenzialmente soggetto a ulteriori modifiche che potrebbero giungere dalla Conferenza unificata o da Itaca e che dovrebbero essere prima recepite dal ministero e poi inviate alla Gazzetta Ufficiale. Difficile pensare che prima di settembre o forse ottobre sia tutto in vigore.
Nel frattempo, anche in ragione della disciplina transitoria contenuta nel decreto 50, stazioni appaltanti, professionisti e società continueranno ad applicare le norme del regolamento del Codice De Lise che verranno abrogate, in base all'articolo 38 dello schema di decreto ministeriale; quest'ultima norma, peraltro prevede anche che fino all'adozione delle tabelle sul costo del lavoro di cui all'articolo 23, comma 16, del nuovo codice continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti ministeriali già emanati in materia (articolo ItaliaOggi del 02.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIResponsabilità sostenibile per gli appalti.
Con l'accoglimento del quesito da parte della Corte costituzionale e con il voto al referendum potrebbe cambiare ancora una volta la disciplina sulla responsabilità solidale tra committente e appaltatore. Il quesito accolto, infatti, chiede l'abrogazione della norma (introdotta dalla legge 92/2012) che fissa una sorta di cronologia processuale per recuperare il credito in caso di accertata responsabilità solidale.
In particolare, il committente, nella prima difesa e in ogni caso una volta accerta la responsabilità di tutti gli obbligati, può chiedere che l'azione esecutiva nei suoi riguardi sia solo successiva all'infruttuosa escussione del patrimonio degli appaltatori e dei subappaltatori.
La norma non sottrae, dunque, il committente dalla responsabilità solidale, ma si limita a fissare la sequenza temporale dell'azione processuale per il recupero del credito da parte dei creditori (lavoratori e Enti).
L'eventuale esito positivo della consultazione referendaria, darebbe luogo all'abrogazione della norma e, conseguentemente, il lavoratore e gli enti potrebbero agire per recuperare il proprio credito indistintamente su tutta la filiera dell'appalto. In genere, però, queste azioni di recupero sono rivolte nei riguardi del committente anche in ragione della sua maggiore solvibilità rispetto all'appaltatore o al subappaltatore.
Questo scenario, però, porrebbe di nuovo sul tavolo tutti i problemi che erano alla base dell'intervento normativo contenuto nella legge 92.
Da un lato, nessuno discute un provvedimento che si ponga l'obiettivo di tutelare il lavoratore e gli enti previdenziali nell'ambito degli appalti. Non è in discussione anche un ruolo di responsabilità del committente nel caso in cui decida di affidare in appalto un’opera o un servizio poiché egli ha il dovere di accertare preventivamente la correttezza del suo appaltatore (culpa in eligendo).
Il vero nodo da sciogliere è l'attuale sproporzione tra la responsabilità incondizionata attribuita al committente e i suoi limitati strumenti per accertare la correttezza dell'appaltatore. Infatti, il committente non ha potere ispettivo e accertativo nei riguardi degli appaltatori e dei subappaltatori.
L'impresa virtuosa che intende controllare la filiera, oggi organizza un sistema di controllo con forti limiti normativi e di informazione: generalmente sottoscrive un contratto di appalto con clausole di tutela; richiede l'elenco dei lavoratori impiegati nell'appalto e ogni sua variazione; verifica il Durc; chiede il rilascio delle dichiarazioni sottoscritte con i lavoratori per scongiurare che non ci siano pendenze retributive.
Nonostante tutti gli sforzi però l'impresa potrebbe essere chiamata a rispondere comunque in regime di responsabilità solidale. Il committente, infatti, rimane responsabile anche qualora, pur in vigenza di un Durc positivo, in un momento successivo sia accertata in sede ispettiva una qualunque irregolarità previdenziale o assicurativa (ad esempio indennità di trasferte disconosciute).
Un altro caso si ha quando il committente è responsabile qualora i lavoratori dichiarino dopo la conclusione dell'appalto di aver svolgo straordinari o periodi di lavoro non dichiarato negli atti amministrativi. Peraltro, in questi casi, una eventuale eccessiva ingerenza nell'ambito dell'amministrazione del personale dell'appaltatore rischierebbe di attivare un elemento sintomatico di un appalto non genuino.
Si pone, dunque, un problema di certezza del diritto poiché la norma attribuisce una responsabilità solidale al committente a prescindere dalla circostanza che egli sia messo in grado o meno di effettuare controlli efficaci sull'oggetto di cui è chiamato a rispondere.
Una strada potrebbe essere quella di agire sulla culpa in vigilando: la norma deve individuare in modo certo la documentazione periodica che dovrà essere richiesta e controllata dal committente. Solo in caso di mancato riscontro della documentazione indicata sarebbe legittima la responsabilità del committente. Al contrario, qualora tutta la documentazione fosse stata controllata da parte del committente e dovesse residuare un ambito di rischio, lo Stato dovrebbe svolgere il suo ruolo di garante di ultima istanza
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmianto, aiuti ma non per tutto. La bonifica agevolata taglia fuori progettazioni e materiali. I chiarimenti del ministero dell'ambiente per i lavori sugli edifici pubblici contaminati.
Non sono ammissibili al finanziamento della bonifica di edifici pubblici contaminati da amianto la progettazione di interventi di ripristino, la realizzazione di manufatti sostitutivi e la loro messa in opera, le spese di acquisto di beni, mezzi e materiali sostitutivi e loro messa in opera, gli incarichi di progettazione preliminare e definitiva già conferiti al momento dell'ammissione al finanziamento e la progettazione di interventi realizzati prima della pubblicazione del bando o prima dell'ammissione al finanziamento.

Questi alcuni dei chiarimenti forniti dal ministero dell'ambiente in merito all'accesso ai finanziamenti per gli interventi di bonifica di beni contaminati degli edifici pubblici.
La dotazione finanziaria per l'anno 2016 è pari a 5,536 milioni di euro e di 6,018 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018. Non sono finanziabili nel caso di interventi di rimozione di coperture in cemento amianto, gli eventuali costi relativi alla posa in opera del materiale sostitutivo.
Presentazione domande. Le istanze di accesso possono essere presentate dal 30 gennaio al 30.03.2017 collegandosi al sito www.amiantopa.minambiente.ancitel.it. La domanda di ammissione al finanziamento potrà essere riferita a interventi relativi a singoli edifici, all'interno della stessa struttura, nonché più unità locali all'interno dello stesso edificio, purché rientranti nei requisiti di ammissibilità.
Ciascun intervento riferito al singolo edificio o alla singola unità locale sarà autonomamente valutato ai fini dell'ammissione in graduatoria e, pertanto, la relativa richiesta di finanziamento dovrà essere inserita separatamente all'interno dell'applicativo. Ciascun ente può presentare una sola domanda di partecipazione in ragione d'anno. La domanda può essere riferita anche ad interventi in uno o più edifici o unità locali.
Quali sono i costi ammissibili al finanziamento. Sono ammissibili al fondo per la progettazione preliminare e definitiva degli interventi di bonifica di beni contaminati da amianto gli interventi di rimozione dell'amianto e dei manufatti in cemento-amianto da edifici e strutture pubbliche e successivo smaltimento, anche previo trattamento, in impianti autorizzati, effettuati nel rispetto della normativa ambientale, edilizia e di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Sono finanziabili i costi di progettazione preliminare e definitiva degli interventi fino al limite massimo di 15 mila euro a domanda per singola pubblica amministrazione, anche se riferita a interventi relativi a più edifici o unità locali. Il finanziamento può coprire integralmente o parzialmente i costi di progettazione preliminare e definitiva degli interventi.
I costi di progettazione preliminare e definitiva sono determinati in conformità al decreto ministeriale 17.06.2016 recante «Approvazione delle tabelle dei corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle prestazione di progettazione adottato ai sensi dell'articolo 24, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016». Per progettazione preliminare e definitiva si intendono i livelli di progettazione inferiori al progetto esecutivo e comunque finalizzati e necessari alla redazione dello stesso (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2017).

GIURISPRUDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI: E' illegittima la progettazione di opere di urbanizzazione primaria, di un piano attuativo, da parte di un architetto.
La progettazione delle opere viarie non connesse ai singoli fabbricati sono di pertinenza esclusiva degli ingegneri ai sensi dell’art. 51 (che devolve a tali professionisti la progettazione e la conduzione dei lavori relativi alle “vie ed ai mezzi di trasporto del deflusso e di comunicazione”) e dell’art. 52 (che attribuisce ai detti ingegneri le “costruzioni di ogni specie”) del R.D. n. 2537/1925, norme ancora in vigore che costituiscono il punto di riferimento normativo per stabilire il discrimine tra le competenze degli architetti e quelle degli ingegneri.
Deve al riguardo farsi applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui tali disposizioni vanno interpretate nel senso che appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri non solo progettazione delle opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e la progettazione delle costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico-sanitarie e delle opere di urbanizzazione primaria, per tali dovendosi intendere le opere afferenti la viabilità, gli acquedotti, i depuratori, le condotte fognarie e gli impianti di illuminazione, salvo solo il caso che tali opere non siano di pertinenza di singoli edifici civili.

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Nel 2014 il Comune di Puglianello indiceva una gara d’appalto integrato per il “completamento delle opere di urbanizzazione del 2° Comparto del Piano degli Insediamenti Produttivi”, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e con importo base di euro 2.716.239,93.
Le lavorazioni di cui si componevano l’intervento risultavano così specificate: categoria prevalente OG3 – classifica III; categorie scorporabili e subappaltabili OG6 – classifica III e OG1 – classifica III (il Comune di Puglianello rettificava con un successivo comunicato le classifiche riportate nel bando, erroneamente indicate come II).
Alla procedura concorsuale partecipavano solo n. 2 imprese, ovvero la G.Co. s.r.l. che si collocava al primo posto nella graduatoria conclusiva e la seconda graduata La. s.r.l.. Quest’ultima ha proposto il ricorso in esame avverso l’aggiudicazione in favore della prima classificata deducendo violazione di legge ed eccesso di potere sotto distinti profili.
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Viceversa, colgono nel segno le residue censure che attengono, rispettivamente, alla illegittima indicazione (attuata dalla ricorrente in esecuzione della disciplina di gara, gravata in parte qua) di un architetto per la progettazione esecutiva e alla carenza del requisito della regolarità contributiva.
Valgano le seguenti considerazioni.
Il Collegio condivide l’assunto di parte ricorrente, secondo cui la progettazione delle opere viarie non connesse ai singoli fabbricati sono di pertinenza esclusiva degli ingegneri ai sensi dell’art. 51 (che devolve a tali professionisti la progettazione e la conduzione dei lavori relativi alle “vie ed ai mezzi di trasporto del deflusso e di comunicazione”) e dell’art. 52 (che attribuisce ai detti ingegneri le “costruzioni di ogni specie”) del R.D. n. 2537/1925, norme ancora in vigore che costituiscono il punto di riferimento normativo per stabilire il discrimine tra le competenze degli architetti e quelle degli ingegneri.
Deve al riguardo farsi applicazione del principio giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 2938/2000, Sez. VI, n. 1150/2013; TAR Sicilia, Palermo, n. 2274/2002; TAR Calabria, Catanzaro n. 354/2008; TAR Veneto, n. 1153/2011; TAR Puglia, Lecce, n. 1270/2013; TAR Lazio, Latina, n. 608/2013), secondo cui tali disposizioni vanno interpretate nel senso che appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri non solo progettazione delle opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e la progettazione delle costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico-sanitarie e delle opere di urbanizzazione primaria, per tali dovendosi intendere le opere afferenti la viabilità, gli acquedotti, i depuratori, le condotte fognarie e gli impianti di illuminazione, salvo solo il caso che tali opere non siano di pertinenza di singoli edifici civili.
Nel caso specifico, le attività progettuali non riguardano opere a servizio di singoli fabbricati ma opere di urbanizzazione di un comparto del Piano di Insediamenti produttivi del Comune di Puglianello, come tale devoluto alla competenza degli ingegneri.
Ne consegue la illegittimità in parte qua della disciplina di gara e, di conseguenza, del provvedimento di ammissione alla gara della società aggiudicataria (
TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 1023 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - COMPETENZE PROGETTUALI: Avvalimento dell’attestazione SOA di una impresa ausiliaria e competenze degli ingegneri nella progettazione.
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Contatti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Attestazione SOA di una impresa ausiliaria – Art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006 – Possibilità.
Contatti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Attestazione SOA di una impresa ausiliaria – Contenuto del contratto – Individuazione.
Contatti della Pubblica amministrazione – Progettazione – Ingegneri – Competenza – Individuazione.
Contatti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Durc – Regolarità - Regolarizzazione postuma – Dopo art. 31, comma 8, d.l. n. 69 del 2013 – Esclusione – Regolarizzazione – Limiti.
A seguito dell’abrogazione, per contrasto con la normativa comunitaria di cui alla direttiva 2004/18/CE, del comma 7 dell’art. 49, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (secondo cui “il bando può prevedere che l’avvalimento possa integrare un preesistente requisito tecnico o economico già posseduto dalla impresa avvalente”) ad opera del d.lgs. 11.09.2008, n. 152, deve ammettersi la generale operatività dell’istituto di cui al citato art. 49 che, pertanto, consente ad un operatore economico privo di qualificazione di avvalersi anche in toto dell’attestazione SOA di una impresa ausiliaria (1).
In sede di gara pubblica, ai fini del contenuto del contratto di avvalimento, se l’operatore economico privo di qualificazione si avvale dell’attestazione SOA di una impresa ausiliaria, le esigenze di puntuale specificazione dei requisiti economico–finanziari oggetto di avvalimento sono assicurate dall’indicazione della SOA oggetto di avvalimento senza che occorra all’uopo indicare i specifici requisiti sottesi al rilascio dell’attestazione.
Appartiene all’esclusiva competenza degli ingegneri non solo la progettazione delle opere necessarie all’estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e la progettazione delle costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico - sanitarie e di urbanizzazione primaria, per tali dovendosi intendere le opere afferenti la viabilità, gli acquedotti, i depuratori, le condotte fognarie e gli impianti di illuminazione, salvo solo il caso che tali opere non siano di pertinenza di singoli edifici civili.
Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito con modificazioni dalla l. 09.08.2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva (2).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’istituto dell’avvalimento -istituto di derivazione comunitaria- disciplinato dall’ordinamento italiano dall’art. 49, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 ratione temporis vigente (e dall’art. 89 del nuovo Codice dei contatti, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50), ha portata generale.
Esso è finalizzato a consentire alle imprese singole, consorziate o riunite, che intendono partecipare ad una gara di poter soddisfare i requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altra impresa.
Ne consegue, che in ogni caso, ed a prescindere da espressa disposizione del bando, alle imprese che intendono concorrere ad una gara di appalto, è consentito di soddisfare i requisiti di cui sono carenti con l’ausilio dell’avvalimento. La sola condizione è quella di permettere all’amministrazione di verificare che il candidato offerente disponga delle capacità richieste per l’esecuzione dell’appalto.
   (2) Sul punto il Tar ha richiamato i principi espressi da Cons. St., A.P., 29.02.2016, nn. 5 e 6, secondo cui l’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di Durc negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, d.m. 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, d.l. 21.06.2013, n. 69 può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al Durc chiesto dall’impresa e non anche al Durc richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 ai fini della partecipazione alla gara d’appalto (
TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 1023 - commento tratto da link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Applicabilità del rito superaccelerato all’esclusione per carenza dell’offerta e applicazione del soccorso istruttorio in caso di mancata allegazione del cronoprogramma.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito superaccelerato ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a. – Esclusione dalla gara per carenza di elementi essenziali dell’offerta – Non si applica.
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Mancanza del cronoprogramma – Esclusione.
Il rito “superaccelerato” previsto dai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2006, n. 50, non si applica nel caso di esclusione dalla gara fondata su presupposti diversi da quelli soggettivi e, quindi, a seguito di estromissione disposta per carenza di elementi essenziali dell’offerta tecnica prescritti dalla lex specialis di gara (1).
L’omessa allegazione, all’offerta tecnica, del crono programma non è emendabile con il ricorso al c.d. soccorso istruttorio ex art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che all’impugnazione dell’esclusione dalla gara per carenza di elementi essenziali dell’offerta tecnica si applica il rito “ordinario” previsto in materia di appalti pubblici dagli artt. 55, 119 e 120 c.p.a.. Non può infatti ipotizzarsi un’estensione in via analogica delle nuove disposizioni processuali al di fuori delle ipotesi espressamente previste, ostandovi la natura eccezionale del rito.
   (2) Il Tar Napoli ha ricordato che il cronoprogramma assurge ad elemento essenziale dell'offerta rappresentando impegno negoziale sul rispetto della tempistica delle singole fasi lavorative e certificando la serietà della complessiva offerta contrattuale, almeno in relazione ai tempi di esecuzione: pertanto, ove il cronoprogramma sia stato previsto non solo formalmente ma, soprattutto, sostanzialmente quale elemento imprescindibile per la valutazione della serietà dell'offerta dalla sua mancata allegazione può legittimamente farsi discendere la sanzione dell'esclusione dell’impresa concorrente inadempiente.
Ha aggiunto il Tar che la prescrizione non aggrava inutilmente il procedimento, rispondendo alla tutela dell'interesse sostanziale della stazione appaltante di far emergere, già in sede di gara, l'impegno contrattuale delle imprese concorrenti al rispetto dei tempi inerenti alle singole fasi lavorative (
TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 1020 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Decadenza del consigliere per assenze alle sedute del Consiglio comunale.
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Enti locali – Comuni – Consiglio comunale – Decadenza del consigliere per assenze – Presupposti – Individuazione.
Le assenze per mancato intervento dei consiglieri alle sedute del Consiglio comunale non devono essere giustificate di volta in volta in via preventiva, potendo le giustificazioni essere fornite, anche dopo la notificazione all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di apprezzamento del Consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle circostanze addotte a giustificazione delle assenze (1).
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   (1) A supporto delle conclusioni cui è pervenuta, la Sezione ha richiamato Cons. St., sez. V, 09.10.2007, n. 5277, secondo cui le circostanze da cui consegue la decadenza vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus publicum.
Ha aggiunto il giudice di appello del 2007 che gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati con la massima attenzione anche per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione nei confronti delle minoranze.
Ne consegue che la mancanza o l’inconferenza delle giustificazione devono essere obiettivamente gravi per assenza o estrema genericità e tali da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi; le assenze danno luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo.
La Sezione ha ancora chiarito che la protesta politica, dichiarata a posteriori, non è idonea a costituire valida giustificazione delle assenze dalle sedute consiliari, in quanto, affinché l’assenza dalle sedute possa assumere la connotazione di protesta politica occorre che il comportamento ed il significato di protesta che il consigliere comunale intende annettervi siano in qualche modo esternati al Consiglio o resi pubblici in concomitanza alla estrema manifestazione di dissenso, di cui la diserzione delle sedute costituisce espressione.
Ha quindi concluso, richiamando Cons. St., sez. V, 29.11.2004, n. 7761, che legittima la decadenza dalla carica di consigliere comunale per assenza ingiustificata, qualora la giustificazione addotta dall' interessato è talmente relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la adduce (come nel caso della protesta politica non altrimenti e non prima esternata), da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza del motivo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.02.2017 n. 743 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La fondatezza del ricorso in esame va valutata alla luce dei principi che questa stessa Sezione ha già da tempo avuto modo di ben chiarire, dai quali non v’è motivo per discostarsi e che qui si richiamano testualmente:
- “
le assenze per mancato intervento dei consiglieri dalle sedute del consiglio comunale non (devono) essere giustificate preventivamente di volta in volta;
- le giustificazioni possono essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all’interessato della proposta di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di apprezzamento del consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle circostanze addotte a giustificazione delle assenze;
- le circostanze da cui consegue la decadenza vanno interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus publicum;
- gli aspetti garantistici della procedura devono essere valutati con la massima attenzione anche per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione nei confronti delle minoranze;
- le assenze danno luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo;
- la mancanza o l’inconferenza delle giustificazione devono essere obiettivamente gravi per assenza o estrema genericità e tali da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi
” (V Sezione, sentenza 09.10.2007, n. 5277).
La protesta politica, dichiarata a posteriori, non è idonea a costituire valida giustificazione delle assenze dalle sedute consiliari, in quanto, affinché l’assenza dalle sedute possa assumere la connotazione di protesta politica occorre che il comportamento ed il significato di protesta che il consigliere comunale intende annettervi siano in qualche modo esternati al Consiglio o resi pubblici in concomitanza alla estrema manifestazione di dissenso, di cui la diserzione delle sedute costituisce espressione”; “spetta al Consigliere nei confronti del quale è instaurato il procedimento di decadenza di fornire ragionevoli giustificazioni dell’assenza”; “è legittima la decadenza dalla carica di consigliere comunale per assenza ingiustificata, qualora la giustificazione addotta dall' interessato è talmente relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la adduce (come nel caso della protesta politica non altrimenti e non prima esternata), da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza del motivo” (V Sezione - sentenza 29.11.2004, n. 7761).
Con riferimento a tale ultimo criterio e alla sua applicazione alla terza assenza del ricorrente, occorre notare che tale assenza sarebbe stata volta –a detta del ricorrente- a far mancare il numero legale: obiettivo di indubbio contenuto e rilievo politico, di corrente uso nelle assemblee parlamentari e non, e, per sua natura, non preannunciabile pubblicamente, pena la sua stessa vanificazione.
Occorre pertanto specificare il suddetto criterio con la precisazione che, qualora l’assenza sia motivata da un obiettivo politico (far venire meno il numero legale) che presuppone il segreto e quindi la sorpresa, in tal caso affinché il motivo dell’assenza possa essere considerato giustificato, è necessario –anche al fine di evitare facili aggiramenti della norma- che l’assente adduca, successivamente, un elemento di prova precostituito in ordine alla motivazione politica della sua assenza, altrimenti da considerare non giustificata.
Sotto questo profilo, peraltro, gli scarsi elementi addotti dal ricorrente non appaiono sufficienti a così qualificare la terza assenza.
L’attenzione deve quindi spostarsi sulle prime due.
Non va trascurato che la precedente condotta del ricorrente, secondo quanto da lui dichiarato e non contestato da controparte, non dimostra affatto atteggiamento di “disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo”, ma al contrario assidua ed attiva partecipazione ai lavori consiliari.
Occorre dunque attenersi ai richiamati criteri di restrittività ed estremo rigore nell’esaminare le cause di decadenza, criteri doverosi laddove sia in gioco una carica pubblica elettiva (sì che la decadenza si tradurrebbe in una alterazione della rappresentanza quale emersa del voto popolare) e tanto più considerato che la legge rimette la decisione sulla decadenza dalla carica di consigliere comunale al Consiglio comunale stesso, in seno al quale non può escludersi l’influenza di valutazioni ultronee rispetto alla pura e semplice applicazione della legge e dello statuto.
Alla luce dei suddetti criteri di restrittività e rigore –e pur deplorando che il ricorrente non abbia ritenuto, almeno nei due primi casi, di preannunciare assenze e motivazioni- deve concludersi che, quantomeno relativamente alla seconda assenza, gli elementi addotti dal ricorrente a sua giustificazione non possono essere qualificati né inconferenti né gravemente carenti, e i motivi addotti -sia pure successivamente- appaiono sufficientemente fondati, seri e rilevanti, tenuto conto del rilievo dell’attività professionale per la vita del ricorrente.
Il ricorso merita pertanto accoglimento.

APPALTI: Impugnazione immediata del verbale di esclusione e obbligo del concorrente di dichiarare tutte le condanne penali subite.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Atti immediata,mente impugnabili – verbale di gara – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – non è tale.
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per omessa dichiarazione condanna penale – Va esclusa – Valutazione della gravità della condanna – E’ rimessa alla sola stazione appaltante.
Ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è inammissibile il ricorso proposto avverso il verbale della seduta nella quale è stata disposta la sospensione dell’ammissione della ricorrente, trattandosi di atto endoprocedimentale (1).
Deve essere esclusa dalla gara, ai sensi dell’art. 80, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il concorrente che ha omesso di dichiarare l'esistenza di una recente sentenza penale, emessa nei suoi confronti, di condanna per truffa continuata ai danni dello Stato, dovendo la valutazione dell'affidabilità e dell'integrità delle partecipanti – e dunque della gravità di una eventuale condanna subita – essere effettuata dalla sola stazione appaltante e non dalle stesse concorrenti (2).

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   (1) Ha ricordato il Tar che il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. prevede l’immediata impugnabilità –senza quindi attendere la conclusione della procedura– dei “provvedimenti” di ammissione e di esclusione mentre dichiara inammissibile l’impugnazione degli altri atti endo-procedimentali privi di immediata lesività.
   (2) Ha chiarito il Tar che in relazione alla cause di esclusione dalla gara ex art. 80, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, vige la regola secondo la quale la gravità dell'evento è ponderata dalla stazione appaltante, sicché l'operatore economico è tenuto a dichiarare situazioni ed eventi potenzialmente rilevanti ai fini del possesso dei requisiti di ordine generale di partecipazione alle procedure concorsuali ed a rimettersi alla valutazione della stazione, non essendo configurabile in capo all'impresa partecipante ad una gara alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da dichiarare e sussistendo, al contrario, l'obbligo della onnicomprensività della dichiarazione in modo da permettere alla Stazione appaltante di espletare con piena cognizione di causa le valutazioni di sua competenza.
L'aver taciuto le circostanze in questione ha dunque impedito, da un lato, una valutazione completa (falsando la percezione delle condizioni reali della ricorrente) sull'affidabilità e l'integrità morale del candidato e, d'altro lato, è stata sintomatica di una condotta non trasparente e collaborativa della concorrente.
A supporto della conclusione cui è pervenuto il Tar ha richiamato la sentenza della Sez. V del Consiglio di Stato 18.01.2016, n. 122, secondo cui “Deve, infatti, essere rilevato che le stazioni appaltanti dispongono di una sfera di discrezionalità nel valutare quanto eventuali precedenti professionali negativi incidano sull’affidabilità di chi aspira a essere affidataria di suoi contratti. E’ agevole affermare, di conseguenza, che tale discrezionalità può essere esercitata solo se l’Amministrazione dispone di tutti gli elementi che consentono di formare compiutamente una volontà. Deve poi essere ulteriormente rilevato come tale valutazione sia di stretta spettanza della stazione appaltante, per cui non è ammissibile che la relativa valutazione sia eseguita, a monte, dalla concorrente la quale autonomamente giudichi irrilevanti i propri precedenti negativi, omettendo di segnalarli con la prescritta dichiarazione. La concorrente che adotti tale comportamento viola palesemente, ad avviso del Collegio, il principio di leale collaborazione con l’Amministrazione” (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 16.02.2017 n. 171 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Caratteri della finanza di progetto.
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Processo amministrativo – Giudicato – Ricorso per l’ottemperanza – Giudice competente – Art. 113, comma 1, c.p.a. – Individuazione.
Processo amministrativo – Rito appalti – Atto impugnabile – Determina a contrarre - Non è immediatamente impugnabile.
Processo amministrativo – Rito appalti – Determina a contrarre – Annullamento giurisdizionale – Effetti.
Contratti della Pubblica amministrazione – Finanza di progetto – Artt. 3, 180 e 183, d.lgs. n. 50 del 2016 - Differenza con l’appalto tradizionale – Individuazione.
Contratti della Pubblica amministrazione – Gara - Modulo contrattuale - Scelta di modulo diverso a seguito di annullamento giurisdizionale di gara - Per vizio non del modulo che era stato prescelto - Possibilità.
Ai sensi dell’art. 113, comma 1, c.p.a. il criterio al quale occorre fare riferimento per stabilire quale sia il giudice competente a definire il giudizio di ottemperanza va ricercato nel dispositivo della sentenza di secondo grado nel senso che, ove esso si limiti a rigettare l’appello, il giudizio di ottemperanza deve essere proposto al giudice di primo grado; ove invece contenga statuizioni che evidenzino un diverso percorso motivazionale e, conseguentemente, uno scostamento dal dispositivo della decisione gravata, allora la competenza è del giudice d’appello (1).
La determina a contrarre è un atto endoprocedimentale, di regola inidoneo a costituire in capo ai terzi posizioni di interesse qualificato, perché la sua funzione attiene essenzialmente alla corretta assunzione di impegni di spesa da parte dell’Amministrazione.
La revoca della determinazione a contrarre travolge gli atti della procedura di gara.
A differenza dell’appalto tradizionale, la finanza di progetto ex artt. 3, 180 e 183, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è basata essenzialmente sull’equilibrio economico-finanziario del piano economico-finanziario (PEF) per l’intera durata della concessione e su una allocazione dei rischi in capo al concessionario.
A seguito dell'annullamento giurisdizionale della determina a contrarre, l'amministrazione può legittimamente scegliere un diverso modulo contrattuale, a seguito delle mutate condizioni (anche) economiche-finanziarie e a seguito della rivalutazione di tutti gli aspetti dell'operazione, alla luce della mutata situazione di fatto (2).

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   (1) Cons. St., sez. V, 24.07.2013, n. 3958.
Il Tar ha aggiunto, richiamando i principi espressi dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 15.01.2013, n. 2, che al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato amministrativo, le relative doglianze devono essere dedotte innanzi al giudice dell’ottemperanza, sia perché questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, qual è la nullità; pertanto, in presenza di una tale opzione processuale, il giudice dell’ottemperanza è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che, invece, hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori; in particolare, nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’Amministrazione configuri una violazione o elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda; invece, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.
   (2) Nel caso in esame l'amministrazione provinciale, dopo l'annullamento giurisdizionale di una precedente procedura concorsuale relativa all'affidamento di lavori per la realizzazione di un ospedale (annullamento che comunque non aveva riguardato la forma concorsuale ma era stato disposto per vizio della commissione), ha deciso, per ragioni di economicità, di rinnovare la gara mediante appalto tradizionale anziché attraverso il project financing prima deliberato.
Il Tribunale ha giudicato legittima la scelta e ha escluso qualsiasi forma di risarcimento e/o indennizzo. Ha ritenuto, in particolare condivisibili, tra l’altro, le argomentazioni secondo cui “il modello della finanza di progetto ha carattere recessivo in quanto: a) presenta non solo costi molto elevati, ma anche una forte rigidità, perché vincola l’Amministrazione per un lungo periodo; b) nel caso delle c.d. “opere fredde” (come, per l’appunto, gli ospedali), il rischio trasferito agli operatori privati risulta spesso insufficiente per configurare vere e proprie operazioni di partenariato pubblico privato e ciò comporta il rischio che le Amministrazioni debbano riclassificare operazioni della specie, ponendole a carico dei propri bilanci (a differenza di quanto accade con le operazioni di partenariato)”.
Il Trga Trento ha quindi ricordato l’ampiezza della discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nel valutare la convenienza dei diversi sistemi di realizzazione di un’opera pubblica e, in particolare, nel valutare quale sia la migliore allocazione dei rischi connessi al finanziamento, alla progettazione, alla realizzazione e alla gestione dell’opera. Anche alla luce di tale principio, e dunque nei limiti del proprio sindacato, ha quindi concluso nel senso della legittimità della motivazione incentrata sulla maggiore convenienza del ricorso ad un appalto complesso in luogo del project financing (
TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 16.02.2017 n. 53 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Trasmissione telematica delle domande di concorso.
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Pubblica amministrazione – Procedimento ad istanza di parte – Istanza del privato - sottoscritta e presentata unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore – Mancata allegazione fotocopia carta di identità – Conseguenza.
Processo amministrativo – Controinteressati – Impugnazione dell’esclusione da una procedura concorsuale – Non sono configurabili controinteressati.
Concorso – Domanda di partecipazione – Trasmissione telematica - Rigidità di una piattaforma telematica – Illegittimità.
Pubblica istruzione – Concorso a cattedre – Esclusione – Per fatto non imputabile determinante l'esclusione nonostante l'ordinaria diligenza – Illegittimità.
Le istanze da produrre agli organi della Pubblica amministrazione ex art. 38, comma 3, d.P.R. 28.12.2000, n. 445 sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore; la mancata allegazione all’istanza della copia di un documento di identità del sottoscrittore rende l’atto inidoneo a spiegare gli effetti previsti dalla corrispondente fattispecie normativa, in quanto nullo per difetto di una forma essenziale stabilita dalla legge (1).
Nel giudizio proposto avverso il provvedimento di esclusione da una procedura concorsuale, prima della formazione della graduatoria non sono configurabili controinteressati in senso tecnico, sia perché non sussiste un interesse protetto e attuale in capo agli altri concorrenti che potrebbe essere leso dall’eventuale accoglimento del ricorso stesso, sia perché l’interesse degli altri partecipanti non emerge direttamente dal provvedimento impugnato (2).
La rigidità di una piattaforma telematica predisposta in termini tassativi dall’amministrazione per la presentazione delle domande di partecipazione ad un concorso si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e favor partecipationis che improntano l’azione amministrativa nella particolare materia concorsuale, anche se gestita con modalità telematica (3).
E’ illegittima l’esclusione dalla partecipazione al concorso per l’assunzione a tempo indeterminato del personale docente della scuola secondaria di primo e secondo grado degli insegnanti non ancora in possesso dell’abilitazione ove il mancato tempestivo conseguimento dell’abilitazione non sia imputabile all’insegnante interessato.

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   (1) Ha chiarito il Tar che l’allegazione di un valido documento di identità, lungi dal costituire un vuoto formalismo, costituisce piuttosto un fondamentale onere del sottoscrittore, configurandosi come l’elemento della fattispecie normativa teleologicamente diretto a comprovare non tanto le generalità del dichiarante, ma ancor prima l’imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione ad una determinata persona fisica, da ciò ulteriormente conseguendo che l’omessa allegazione del documento di identità non integra una mera irregolarità suscettibile di correzione per errore materiale.
Il Tar ha altresì escluso che nel caso sottoposto al suo esame potesse giovare all’interessato la circostanza che il bando prevedesse solo la possibilità di presentare la domanda on-line e non contenesse apposite istruzioni per la presentazione della stessa su formato cartaceo, atteso da un lato che il predetto obbligo di allegazione deriva direttamente dall’art. 38, comma 3, d.P.R. n. 445 del 2000 e, dall’altro, che nulla impediva all’interessato di allegare alla domanda cartacea la copia del proprio documento di identità.
   (2) Cons. St., sez. IV, 07.07.2008, n. 3382, il quale ha peraltro ricordato che se però al momento della proposizione del ricorso sono già noti al soggetto escluso i beneficiari della procedura, per essere intervenuto il provvedimento conclusivo di aggiudicazione della gara o della approvazione della graduatoria di un concorso, occorre notificarlo ad almeno un controinteressato, a pena di inammissibilità del ricorso.
   (3) Tar Toscana, sez. I, 27.06.2016, n. 1073, che ha ricordato come nella configurazione, organizzazione e gestione dei propri sistemi informatici le amministrazioni, ancor prima che ai principi e criteri specifici dettati dal Codice dell’amministrazione digitale debbono osservare e perseguire quelli più generali fissati per tutta l’azione amministrativa dalla l. 07.08.1990, n. 241, ed in particolare:
a) criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla legge stessa e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario;
b) criterio di non aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria;
c) obbligo di chiara, convincente e congrua motivazione;
d) celerità, espressività e significatività dell’azione amministrativa;
e) strumentalità dell’informatica ad accrescere l’efficienza degli apparati pubblici e ad agevolare il cittadino nell’accesso alle pubbliche funzioni ed ai pubblici servizi, nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri obblighi, doveri ed oneri;
Dunque, sono sistemi informatici -comportanti la responsabilità di chi li ha pensati, configurati, commissionati, accettati e collaudati- che si risolvano in un aggravamento per il cittadino costringendolo, ad esempio, a redigere di nuovo un intero modello informatico -spesso lungo, complesso e di difficile comprensione intellettuale o visibilità materiale- per un banale errore, dimenticanza o svista; nell’ermeticità e non espressività delle determinazioni assunte dal sistema stesso; nell’espropriazione totale e definitiva delle competenze assegnate ai singoli funzionari e dirigenti impedendo l’esercizio di poteri sostitutivi e correttivi e generando, oltretutto, atteggiamenti e convinzioni di irresponsabilità personale; nel creare, all’opposto, la necessità di continui interventi correttivi o sostitutivi di malfunzionamenti o arresti del sistema (
TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 16.02.2017 n. 52 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano regolatore generale. Violazione della legge urbanistica.
In materia urbanistica, a seguito della adozione dei piani urbanistici, ovvero dal momento in cui l'organo amministrativo competente delibera formalmente il piano e lo pubblicizza, onde consentire la presentazione delle osservazione da parte dei soggetti interessati, entrano in vigore le misure di salvaguardia, con lo scopo di impedire che antecedentemente alla approvazione del piano vengano eseguiti interventi che compromettano gli assetti territoriali previsti dal piano stesso, così che integrano la violazione dell'art. 20 della legge 28.02.1985 n. 47, ora art. 44 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 gli interventi posti in essere dopo la adozione ed antecedentemente alla approvazione del piano ed eseguiti in contrasto con le misure di salvaguardia.
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Tuttavia, il provvedimento impugnato è diffusamente motivato, e non presenta profili di mancanza di motivazione o di erronea interpretazione o applicazione delle norme.
Invero, sulla base dell'adozione, da parte dell'Autorità di Bacino, della riclassificazione dell'area a rischio R4 (rischio molto elevato), e, dunque, dell'operatività delle misure di salvaguardia, vincolanti per il Comune e per i privati, ha ritenuto integrato il fumus del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001, vigendo un vincolo di inedificabilità nell'area in oggetto, ricadente in parte in "area a rischio R4" e in parte in "area di rispetto".
Al riguardo, va ribadito che, in materia urbanistica, a seguito della adozione dei piani urbanistici, ovvero dal momento in cui l'organo amministrativo competente delibera formalmente il piano e lo pubblicizza, onde consentire la presentazione delle osservazione da parte dei soggetti interessati, entrano in vigore le misure di salvaguardia, con lo scopo di impedire che antecedentemente alla approvazione del piano vengano eseguiti interventi che compromettano gli assetti territoriali previsti dal piano stesso, così che integrano la violazione dell'art. 20 della legge 28.02.1985 n. 47, ora art. 44 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) gli interventi posti in essere dopo la adozione ed antecedentemente alla approvazione del piano ed eseguiti in contrasto con le misure di salvaguardia (Sez. 3, n. 37493 del 10/06/2003, Soluri, Rv. 226316) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2017 n. 6891).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiante organiche in base all'efficienza.
In tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'organizzazione, la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono determinate in funzione dell'efficienza dell'amministrazione, della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e della migliore utilizzazione delle risorse umane, in conformità ai principi espressi dagli artt. 1, comma 1, e 6 del dlgs n. 165 del 2001, restando alla discrezionalità della p. a. la determinazione e revisione della pianta organica (in conformità a quanto espresso dalla Cassazione con sentenza n. 18191 del 2016).

È questo l'indirizzo espresso dai giudici del Palazzaccio, con la
sentenza 13.02.2017 n. 3738.
La Corte di Cassazione -Sez. lavoro- spiega, inoltre, che, in tema di eccedenze di personale, per come regolate dall'art. 33 del dlgs 165/2001 (prima delle modifiche apportate dal dlgs 150/2009), ove la dichiarazione di esubero interessi un numero di lavoratori inferiore a 10 unità, la fattispecie è disciplinata dai commi 7 e 8 dell'art. 33 suddetto; disciplina che contempla la procedura di consultazione sindacale, limitatamente al collocamento in disponibilità, l'iscrizione in elenchi ex art. 34, la sospensione delle obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro, la percezione del trattamento indennitario e la risoluzione del rapporto allo scadere del termine biennale di permanenza in disponibilità.
La p.a. è inoltre tenuta a dimostrare l'impossibilità di una ricollocazione alternativa del dipendente all'interno della stessa amministrazione, nonché a dimostrare l'adempimento dell'obbligo di comunicazione ex art. 34 del dlgs 165/2001, ai fini della iscrizione del personale in disponibilità negli elenchi finalizzati al recupero delle eccedenze di personale, anche presso altre pubbliche amministrazioni (articolo ItaliaOggi del 14.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORecesso per efficienza anche negli enti pubblici. Necessario seguire una serie di regole di carattere procedurale.
Cassazione. Per i giudici di legittimità criteri di scelta uguali al «privato».
Il datore di lavoro pubblico può ridurre l’organico in funzione delle proprie esigenze di efficienza organizzativa e della necessità di abbassare il costo del lavoro; se decide di procedere, deve rispettare alcuni obblighi procedurali, deve dimostrare di aver adempiuto l’obbligo di repêchage e, al momento del recesso, è tenuto ad applicare i criteri di scelta previsti dalla normativa valida anche per il settore privato.
Così la Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la sentenza 13.02.2017 n. 3738, a conclusione della vicenda avviata da un dipendente pubblico collocato in disponibilità da una Camera di commercio presso cui lavorava, sulla base della procedura prevista dal Testo unico del pubblico impiego per gestire gli esuberi di personale.
Il dipendente ha impugnato sia la determina commissariale con cui è stato coinvolto nella procedura espulsiva, sia il piano triennale allegato a tale provvedimento. La Corte d’appello di Napoli, riformando in parte la sentenza di primo grado, ha respinto l’impugnazione del dipendente, ritenendo che la procedura seguita per il collocamento in disponibilità sia stata correttamente esperita dalla Camera di commercio.
Secondo la Corte territoriale il datore di lavoro ha fornito un’adeguata giustificazione dell’impossibilità di reimpiego del dipendente all’interno della stessa amministrazione di appartenenza. Inoltre, la Corte ha rilevato il corretto adempimento, da parte della Camera di commercio, dell’obbligo di iscrizione del dipendente in esubero presso gli appositi elenchi previsti dalla legge allo scopo di tentare il riassorbimento delle eccedenze di personale presso altre amministrazioni.
La sentenza della Corte di cassazione conferma le conclusioni della Corte territoriale, affermando alcuni importanti principi di diritto. In primo luogo, viene chiarito che nel pubblico impiego l’organizzazione e la consistenza dell’organico devono essere determinate in funzione dell’efficienza dell’organizzazione, della razionalizzazione del costo del lavoro e del migliore utilizzo delle risorse umane.
Inoltre, la Corte precisa che se le eccedenze di personale pubblico sono inferiori alle 10 unità, si applicano parzialmente le norme contenute nell’articolo 33 del Dlgs 165/2001 (nel testo vigente prima delle modifiche apportate nel 2009) che disciplinano le procedure di consultazione sindacale.
In tale ipotesi, prosegue la sentenza, se la contrattazione collettiva non dispone diversamente, la scelta dei lavoratori da licenziare deve seguire i criteri fissati in via generale e per tutti i licenziamenti collettivi dalla legge 223/1991. Pertanto, il datore di lavoro pubblico dovrà selezionare il personale da licenziare contemperando le proprie esigenze tecniche, organizzative e produttive con i carichi di famiglia e l’anzianità aziendale.
Infine, la Corte precisa che il datore di lavoro pubblico è tenuto a dimostrare l’impossibilità di ricollocare il dipendente in una posizione alternativa all’interno della stessa amministrazione, applicando eventuali norme collettive che regolano il cambio di mansioni, e a dimostrare di aver incluso il dipendente collocato in disponibilità negli appositi elenchi previsti dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017).
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MASSIMA
5. Il ricorso è infondato.
6. Il tema centrale della controversia attiene all'interpretazione della disciplina di cui all'articolo 33 (eccedenze di personale e mobilità collettiva) del D.Lgs. n. 165/2001, nel testo vigente ratione temporis (art. 35 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 14 del D.Lgs. n. 470 del 1993 e dall'art. 16 del D.Lgs. n. 546 del 1993 e poi dall'art. 20 del D.Lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 12 del D.Lgs. n. 387 del 1998), anteriormente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 150/2009.
All'epoca dei fatti la norma disponeva nel senso che segue: "1. Le pubbliche amministrazioni che rilevino eccedenze di personale sono tenute ad informare preventivamente Le organizzazioni sindacali di cui al comma 3 e ad osservare le procedure previste dal presente articolo. Si applicano, salvo quanto previsto dal presente articolo, le disposizioni di cui alla legge 23.07.1991, n. 223, ed in particolare l'articolo 4, comma 11 e l'articolo 5, commi 1 e 2, e successive modificazioni ed integrazioni.
2. Il presente articolo trova applicazione quando l'eccedenza rilevata riguardi almeno dieci dipendenti. Il numero di dieci unità si intende raggiunto anche in caso di dichiarazioni di eccedenza distinte nell'arco di un anno. In caso di eccedenze per un numero inferiore a 10 unità agli interessati si applicano le disposizioni previste dai commi 7 e 8.
3. La comunicazione preventiva di cui all'articolo 4, comma 2, della legge 23.07.1991, n.223, viene fatta alle rappresentanze unitarie del personale e alle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale del comparto o area. La comunicazione deve contenere l'indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici e organizzativi per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a riassorbire le eccedenze all'interno della medesima amministrazione; del numero, della collocazione, delle qualifiche del personale eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato, delle eventuali proposte per risolvere la situazione di eccedenza e dei relativi tempi di attuazione, delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell'attuazione delle proposte medesime.
4. Entro dieci giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 1, a richiesta delle organizzazioni sindacali di cui al comma 3, si procede all'esame delle cause che hanno contribuito a determinare l'eccedenza del personale e delle possibilità di diversa utilizzazione del personale eccedente, o di una sua parte. L'esame è diretto a verificare le possibilità di pervenire ad un accordo sulla ricollocazione totale o parziale del personale eccedente, o nell'ambito della stessa amministrazione, anche mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro o a contratti di solidarietà, ovvero presso altre amministrazioni comprese nell'ambito della Provincia e in quello diverso determinato ai sensi del comma 6. Le organizzazioni sindacali che partecipano all'esame hanno diritto di ricevere, in relazione a quanto comunicato dall'amministrazione, le informazioni necessarie ad un utile confronto.
5. La procedura si conclude decorsi quarantacinque giorni dalla data del ricevimento della comunicazione di cui al comma 3, o con l'accordo o con apposito verbale nel quale sono riportate le diverse posizioni delle parti. In caso di disaccordo, le organizzazioni sindacali possono richiedere che il confronto prosegua, per le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e gli enti pubblici nazionali, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, con l'assistenza dell'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni - ARAN, e per le altre amministrazioni, ai sensi degli articoli 3 e 4 del decreto legislativo 23.12.1997, n. 469, e successive modificazioni ed integrazioni. La procedura si conclude in ogni caso entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui al comma 1.
6. 1 contratti collettivi nazionali possono stabilire criteri generali e procedure per consentire, tenuto conto delle caratteristiche del comparto, la gestione delle eccedenze di personale attraverso il passaggio diretto ad altre amministrazioni nell'ambito della provincia o in quello diverso che, in relazione alla distribuzione territoriale delle amministrazioni o alla situazione del mercato del lavoro, sia stabilito dai contratti collettivi nazionali. Si applicano le disposizioni dell'articolo 30.
7. Conclusa la procedura di cui ai commi 3, 4 e 5, l'amministrazione colloca in disponibilità il personale che non sia possibile impiegare diversamente nell'ambito della medesima amministrazione e che non possa essere ricollocato presso altre amministrazioni, ovvero che non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione che, secondo gli accordi intervenuti ai sensi dei commi precedenti, ne avrebbe consentito la ricollocazione.
8. Dalla data di collocamento in disponibilità restano sospese tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro e il lavoratore ha diritto ad un'indennità pari all'80 per cento dello stipendio e dell'indennità integrativa speciale, con esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo comunque denominato, per la durata massima di ventiquattro mesi. I periodi di godimento dell'indennità sono riconosciuti ai fini della determinazione dei requisiti di accesso alla pensione e della misura della stessa. E' riconosciuto altresì il diritto all'assegno per il nucleo familiare di cui all'articolo 2 del decreto-legge 13.03.1988, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 13.05.1988, n. 153, e successive modificazioni ed integrazioni.
"
7. Va premesso che,
in tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'organizzazione, la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono determinate in funzione dell'efficienza dell'amministrazione, della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e della migliore utilizzazione delle risorse umane, in conformità ai principi espressi dagli artt. 1, comma 1, e 6 del D.Lgs. n. 165 del 2001, restando rimessa alla discrezionalità della P.A. la determinazione e revisione della pianta organica (cfr., da ultimo, Cass. n. 18191/2016).
La disciplina di cui all'articolo 33 in esame conferma che ogni amministrazione valuta discrezionalmente in modo unilaterale l'entità e la tipologia degli esuberi. Il presupposto causale della mobilità collettiva, rappresentato da situazioni di eccedenza, non ulteriormente qualificate, rimanda a quelle valutate dalla pubblica amministrazione come attinenti alla sfera degli interessi pubblici.
7.1. Il legislatore ha però inteso fare richiamo alla legge n. 223 del 1991, estendendola al rapporto di pubblico impiego in funzione integrativa della disciplina speciale dettata dall'articolo 33 e comunque nei limiti della compatibilità di disposizioni ed istituti del rapporto lavoro privato al settore pubblico.
Significativamente, nel lavoro pubblico, all'esito della procedura regolata dall'articolo 33 e successivi, non si può far luogo al licenziamento dei lavoratori eccedenti, poiché costoro hanno diritto alla conservazione del rapporto, seppure sospeso, per un periodo massimo di due anni, durante il quale il lavoratore è collocato in disponibilità.
7.2. In tal senso questa Corte già si è espressa con le sentenze n. 11671 e n. 12241 del 2006, dove è stato osservato che il collocamento in disponibilità non dà luogo, in relazione al rapporto di pubblico impiego, alla risoluzione del rapporto di lavoro, come avviene invece nell'area dei rapporti di lavoro privato, configurandosi nel suddetto settore una mera sospensione nel tempo del rapporto (con sostanziali tratti di analogia sul punto con il diverso istituto, proprio del settore privato, della cassa integrazione guadagni), destinata a protrarsi per il periodo massimo di 24 mesi, previsto per un possibile diverso impiego presso la stessa amministrazione ovvero per una diversa ricollocazione presso altre amministrazioni o sino al momento in cui il dipendente non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione che, secondo gli accordi intervenuti, ne avrebbe consentito la ricollocazione.
Come emerge dalla lettera della legge, dalla data di collocamento in disponibilità "si sospendono" tutte le obbligazioni concernenti il rapporto di lavoro (mancano infatti la prestazione lavorativa e la corrispondente retribuzione) per avere il lavoratore diritto soltanto ad una indennità pari all'80% dello stipendio ed alla indennità integrativa speciale per un massimo di due anni, ed escludendosi anche la corresponsione di qualunque altro elemento retributivo (e quindi di qualsiasi trattamento indennitario accessorio), comunque denominato.
8. Venendo all'interpretazione dell'art. 33 D.Lgs. n. 165/2001, deve ritenersi che la procedura ivi prevista trovi applicazione solo "quando l'eccedenza riguardi almeno 10 dipendenti". Il limite numerico si intende raggiunto anche in caso di dichiarazioni di eccedenza distinte nell'arco di un anno (a ritroso dall'ultima), con il fine di evitare eventuali elusioni dei vincoli legali perseguite attraverso il frazionamento nel tempo delle eccedenze. Tuttavia, seppure di regola l'eccedenza di personale viene ad emersione nell'ambito dell'attività programmatoria triennale di cui all'art. 6 D.Lgs. n. 165/2001, non può escludersi che eccedenze possano verificarsi successivamente e in seguito ad eventi sopravvenuti ed imprevisti.
8.1. La questione esula comunque dai temi introdotti nel presente giudizio, atteso che non emerge dalla sentenza impugnata, né è prospettato in sede di ricorso che la valutazione di eccedenza limitata alle due unità interessate dal provvedimento di messa in disponibilità fosse stata operata dalla P.A. con finalità elusive della previsione che indica, quale presupposto quantitativo-temporale, il superamento di dieci unità nell'arco di un anno.
9. Quanto all'interpretazione letterale e logico-sistematica delle previsioni di cui all'art. 33, deve osservarsi che il comma 2 testualmente prevede che, in caso di eccedenze per un numero inferiore a dieci unità, "agli interessati si applicano le disposizioni previste dai commi 7 e 8".
Sebbene il comma 7, a sua volta, menzioni la conclusione della procedura di cui ai commi 3, 4, e 5, l'unico significato possibile (logicamente) del rinvio operato dal comma 2 porta ad espungere l'incipit suddetto, in quanto riferibile alla (sola) ipotesi in cui trova applicazione l'intera procedura speciale dettata dall'art. 33. Difatti, ove si dovesse accogliere l'interpretazione offerta dall'attuale ricorrente, non avrebbe alcuno spazio applicativo la distinzione operata dal secondo comma, la quale resterebbe priva di qualsiasi senso.
9.1. Pertanto, in caso dell'eccedenza riguardante un numero di dipendenti inferiore a dieci unità, la tutela desumibile dai commi 7 e 8 dell'articolo 33 comporta l'assimilazione alla fattispecie regolata dai commi precedenti (soltanto) quanto a collocamento in disponibilità, iscrizione negli elenchi ex art. 34, sospensione delle obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro, percezione del trattamento indennitario, risoluzione del rapporto allo scadere del termine biennale di permanenza in disponibilità.
10. La circostanza che il legislatore abbia previsto il coinvolgimento delle parti sindacali solo in caso di eccedenze qualificate dal superamento di un determinato limite numerico non comporta, tuttavia, l'assenza di vincoli a carico della P.A. ove la dichiarazione di disponibilità interessi un numero inferiore a dieci unità. Laddove non trovi applicazione la disciplina speciale ("salvo quanto previsto dal presente articolo"), operano "le disposizioni di cui alla legge 23.07.1991, n. 223, ed in particolare l'articolo 4, comma 11 e l'articolo 5, commi 1 e 2, e successive modificazioni ed integrazioni".
L'art. 4, comma 11, della legge n. 223/1991 contempla l'eventualità che con accordo sindacale il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti possa avvenire anche in deroga al secondo comma dell'art. 2103 del codice civile, mediante l'assegnazione a mansioni diverse ed eventualmente inferiori. L'art. 5, commi 1 e 2, contempla i criteri di scelta dei lavoratori e prevede -tra l'altro- che l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità debba avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi, ovvero, in mancanza, "nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative".
10.1. Come correttamente rilevato dalla Corte di appello della sentenza impugnata, permane l'obbligo dell'Amministrazione di adoperarsi affinché sia esplorata ogni possibilità di diverso impiego o di ricollocazione alternativa del dipendente, ossia l'obbligo di repechage dei lavoratori reputati in esubero. Del pari trovano applicazione, in via analogica, i criteri di scelta individuati alla stregua dell'art. 5 L. n. 223/1991, purché si faccia questioni in giudizio della selezione dei dipendenti.
10.2. Nel presente giudizio, quanto all'obbligo di repechage, la Corte di appello, alla stregua della documentazione esaminata e ritenuta rilevante ai fini del decidere (segnatamente, il piano triennale ed il piano annuale del personale allegato alla determinazione commissariale n. 36 del 14.06.2005) e tenuto conto delle risultanze della prova testimoniale, ha ritenuto che la C.C.I.A.A. di Benevento avesse fornito un'adeguata giustificazione dell'impossibilità di reimpiego del Ca. nella stessa amministrazione.
10.3. La Corte territoriale ha pure osservato, con riferimento alla ricollocazione presso altre Amministrazioni, che la Camera di Commercio aveva provveduto alla comunicazione ex art. 34 d.lgs. n. 165/2001, adempimento prescritto ai fini della iscrizione del personale in disponibilità negli appositi elenchi, finalizzati al recupero delle eccedenze di personale.
10.4. La sentenza non menziona di accordi collettivi o di previsioni contrattuali di dequalificazione; la relativa questione, introdotta in sede di ricorso per cassazione, deve quindi ritenersi nuova e come tale inammissibile.
10.5. Nel presente giudizio non è stato introdotto neppure il tema dell'inosservanza dei criteri di scelta individuati dell'art. 5 L. n. 223/1991.
I vizi della procedura prospettati in giudizio non hanno riguardato tale profilo. A margine, va osservato che l'applicabilità di tali criteri, all'ipotesi di esuberi inferiori a dieci unità, è stata incidentalmente affermata da questa Corte con le sentenze del 2006 sopra citate, secondo cui, nel caso in cui al termine del periodo di sospensione debba farsi luogo al riassorbimento degli esuberi e vi sia insufficienza dei posti disponibili rispetto al numero dei lavoratori collocati in disponibilità, "in materia devono operare, seppure all'inverso, gli stessi criteri legali (o contrattuali) già utilizzati per il collocamento in disponibilità".
La P.A. è dunque tenuta ad osservare i criteri legali o contrattuali che regolano la scelta del personale da collocare in disponibilità.
11. Infine, è inammissibile la censura secondo cui la determina n. 36/2005 sarebbe viziata, perché la fase di rilevazione delle eccedenze di personale, riservata alla verifica periodica ex articolo 6 D.Lgs. n. 165/2001, avrebbe dovuto precedere temporalmente l'adozione dei provvedimenti di messa in disponibilità. La sentenza impugnata dà atto di una contestualità tra rideterminazione della pianta organica e collocamento in disponibilità dei due lavoratori di posizione economica B1, tra cui il Ca..
Tenuto conto che nel caso di specie non trova applicazione la procedura di consultazione sindacale di cui ai commi 3, 4, e 5, la congruità del provvedimento rispetto agli obblighi gravanti sull'Amministrazione avrebbe richiesto la possibilità di esaminare il contenuto di tali atti, ritenuti contestuali o comunque coevi, ma il ricorso per cassazione risulta carente in relazione agli oneri di specificità, indicazione e allegazione di cui all'art. 366 c.p.c.. La mancata trascrizione di tali atti, almeno nelle loro parti salienti, nonché la mancata produzione in allegato al ricorso e la mancata indicazione della sede processuale in cui essi sarebbero rinvenibili, preclude l'esame funditus della questione.
Difatti, non può escludersi che la messa in disponibilità adottata in unico contesto o comunque coeva alla rideterminazione della pianta organica risponda alle prescrizioni di legge, ove la P.A. abbia dato conto, in tale atto, dell'assolvimento di tutti gli obblighi sopra descritti.
11.1. Secondo costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, Cass. n. 26174 del 2014, n. 2966 del 2014, n. 15628 del 2009; cfr. pure Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. n. 22302 del 2008, n. 4220 del 2012, n. 8569 del 2013 n. 14784 del 2015 e, tra le più recenti, Cass. n. 6556 del 14.03.2013, n. 16900 del 2015), vi è un duplice onere a carico del ricorrente, quello di produrre il documento e quello di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.
12. In conclusione, vanno affermati i seguenti principi di diritto:
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In tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'organizzazione, la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono determinate in funzione dell'efficienza dell'amministrazione, della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e della migliore utilizzazione delle risorse umane, in conformità ai principi espressi dagli artt. 1, comma 1, e 6 del D.Lgs. n. 165 del 2001, restando alla discrezionalità della P.A. la determinazione e revisione della pianta organica (conf. a Cass. n. 18191 del 2016).
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In tema di eccedenze di personale regolate dall'art. 33 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (nel testo vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 150/2009), ove la dichiarazione di esubero interessi un numero di lavoratori inferiore a dieci unità, la fattispecie è disciplinata dai commi 7 e 8 dell'art. 33 cit., restando assimilata alla fattispecie regolata dai commi 3,4, e 5, che contempla la procedura di consultazione sindacale, limitatamente agli esiti, che riguardano il collocamento in disponibilità, l'iscrizione negli elenchi ex art. 34, la sospensione delle obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro, la percezione del trattamento indennitario e la risoluzione del rapporto allo scadere del termine biennale di permanenza in disponibilità.
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Nella predetta ipotesi, in cui la dichiarazione di esubero interessi un numero di lavoratori inferiore a dieci unità, in mancanza di una diversa regolamentazione introdotta dalla contrattazione collettiva, operano i criteri di selezione di cui all'art. 5, commi 1 e 2, L. n. 223/1991.
La P.A. è altresì tenuta a dimostrare l'impossibilità di una ricollocazione alternativa del dipendente all'interno della stessa amministrazione (c.d. repechage), anche alla stregua di eventuali previsioni contrattuali in deroga al secondo comma dell'art. 2103 c.c., nonché a dimostrare l'adempimento dell'obbligo di comunicazione ex articolo 34 d.lgs. n. 165/2001 ai fini della iscrizione del personale in disponibilità negli appositi elenchi, finalizzati al recupero delle eccedenze di personale anche presso altre pubbliche amministrazioni.

LAVORI PUBBLICI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti sulla programmazione triennale dei lavori pubblici e sul programma biennale per servizi e forniture ex art. 21, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016.
La Commissione speciale del Consiglio di Stato ha reso parere favorevole con osservazioni allo schema di regolamento recante procedure e schemi tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali.
In un contesto come quello attuale, attento al corretto utilizzo delle risorse pubbliche disponibili, il parere ha spiegato che la programmazione non è solo un momento di chiarezza fondamentale per la determinazione del quadro delle esigenze, la valutazione delle strategie di approvvigionamento, l’ottimizzazione delle risorse ed il controllo delle fasi gestionali, ma costituisce concreta attuazione dei principi di buon andamento, economicità ed efficienza dell’azione amministrativa.
Per gli appalti di lavori, il Consiglio di Stato ha evidenziato l’importanza della programmazione con particolare riguardo alla disciplina delle “opere incompiute” che, nel passato, sono state causa di un poco efficiente uso delle risorse pubbliche, oltre ad impedire di soddisfare le necessità della collettività cui sono destinate tali opere.
Il parere ha chiesto al Governo di introdurre, nel testo definitivo del decreto, misure adeguate per verificare, successivamente all’entrata in vigore del regolamento, il conseguimento degli obiettivi della programmazione. Difatti –è stato affermato– si tratta di “una funzione cruciale dalla quale dipende il successo dell’intero intervento di riforma”, e, in particolare, la “effettiva e drastica riduzione delle opere incompiute”.
Tra le altre osservazioni, è stata chiesta una maggiore chiarezza nella definizione stessa delle “opere incompiute”, al fine di superare le incertezze che caratterizzano la disciplina vigente, ed è stato raccomandato un migliore coordinamento fra la programmazione triennale e la predisposizione dell’elenco delle stesse opere incompiute.
In relazione agli appalti di servizi e di forniture, il Consiglio di Stato ha posto in evidenza l’importanza di rendere obbligatoria la programmazione anche in questo campo. Per altro verso, il parere ha sottolineato la necessità di coordinare la fase della programmazione con le procedure di evidenza pubblica necessarie per la stipulazione del contratto.
La Commissione speciale ha, infine, suggerito al Governo di riconoscere adeguato rilievo, in sede di fissazione delle priorità dell’attività programmatoria, agli interventi di ricostruzione post-terremoto (Consiglio di Stato, comm. spec., parere 13.02.2017 n. 351 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Clausola sociale degli appalti di lavori e di servizi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale – Applicazione – Art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio – Salvaguardia della concorrenza e della libertà di impresa.
In sede di gara pubblica, la “clausola sociale”, prevista dall’art. 50, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, da un lato lesiva della concorrenza perché scoraggia la partecipazione alla gara e limita ultroneamente la platea dei partecipanti, e, dall’altro, atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 Cost..
Conseguentemente, l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante (1).

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   (1) Data la premessa il Tar Toscana ha concluso -richiamando in termini i principi espressi dal Cons. St., sez. III, 30.03.2016, n. 1255- la clausola non comporta alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria.
Applicando i su esposti principi il Tar Toscana ha dichiarato illegittima la clausola sociale inserita nella lex specialis di gara perché tale da imporre in termini rigidi la conservazione del personale di cui al precedente appalto, dovendo invece essa essere formulata in termini di previsione della priorità del personale uscente nella riassunzione presso il nuovo gestore, in conformità alle esigenze occupazionali risultanti per la gestione del servizio, in modo da armonizzare l’obbligo di assunzione con l’organizzazione d’impresa prescelta dal gestore subentrante.
Ha aggiunto che tale conclusione non cambia anche tenendo conto della direttiva 24/2014/UE. Il secondo Considerando della direttiva citata si limita a prevedere un utilizzo delle procedure di gara “per sostenere il conseguimento di obiettivi condivisi a valenza sociale”, l’art. 18, comma 2, della medesima direttiva prevede l’obbligo degli Stati membri di garantire nell’esecuzione degli appalti il rispetto degli obblighi sociale e del lavoro e l’art. 70 stabilisce che nell’esecuzione dell’appalto possono trovare spazio considerazioni sociali o relative all’occupazione; si tratta di previsioni di sicura importanza e tali da trovare esplicazione anche nella “clausola sociale” qui esaminata, tuttavia senza che le stessi arrivino a giustificare o imporre una clausola sociale di tenore forte, che impone l’obbligo rigido di riassunzione.
Del resto, sempre ad avviso del Tar, l’art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016, che disciplina specificamente la “clausola sociale” in applicazione della disciplina europea e che ha un contenuto più specifico dell’art. 69, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, contiene sì la specifica previsione del “possibile” inserimento nei bandi di gara della suddetta clausola, affermando che essa mira a “promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato”, ma “nel rispetto dei principi dell’Unione Europea”.
Si tratta di disciplina normativa che non innova, ed anzi sussume nel testo di legge i risultati cui era giunta la giurisprudenza, giacché la “stabilità occupazionale”, che è sicuramente un obiettivo normativo importante e un valore ordinamentale, deve essere “promossa” e non rigidamente imposta e comunque deve essere armonizzata con i principi europei della libera concorrenza e della libertà d’impresa, così da escludere un rigido obbligo di garanzia necessaria della stabilità, pur in presenza di variato ambito oggettivo del servizio a gara (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.02.2017 n. 231 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene che la censura in esame sia fondata.
Lo stato della interpretazione giurisprudenziale, peraltro pacificamente ricostruito dalle parti in causa, può essere sintetizzato, richiamando la sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato n. 1255 del 2016, nel modo che segue:
   a)
la “clausola sociale” deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione;
   b) conseguentemente,
l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante;
   c)
la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria (cfr. Cons. Stato, III, n. 1896/2013).
Alla luce di tale interpretazione
la clausola di cui alla presente controversia, congiuntamente letta dalle parti come tale da imporre in termini rigidi la conservazione del personale di cui al precedente appalto, risulta illegittima, dovendo invece essa essere formulata in termini di previsione della priorità del personale uscente nella riassunzione presso il nuovo gestore, in conformità alle esigenze occupazionali risultanti per la gestione del servizio, in modo da armonizzare l’obbligo di assunzione con l’organizzazione d’impresa prescelta dal gestore subentrante (in termini la sentenza della Sezione n. 1426 del 2016 nonché la sentenza della Prima Sezione di questo TAR n. 261 del 2016).
Un tale esito interpretativo non cambia anche tenendo conto della normativa più recente, applicabile alla presente fattispecie, come sostenuto da parte ricorrente.
Il primo riferimento deve essere alla direttiva 24/2014/UE invocata da parte resistente; seppur in essa sia sicuramente riscontrabile una specifica attenzione alle esigenze sociale, cui anche le commesse pubbliche possono essere funzionali, non pare tuttavia che se ne possano ricavare indirizzi specifici nel senso sostenuto dalle resistenti stesse; il secondo <considerando> della direttiva citata si limita a prevedere un utilizzo delle procedure di gara “per sostenere il conseguimento di obiettivi condivisi a valenza sociale”, l’art. 18, comma 2, della medesima direttiva prevede l’obbligo degli Stati membri di garantire nell’esecuzione degli appalti il rispetto degli obblighi sociale e del lavoro e l’art. 70 stabilisce che nell’esecuzione dell’appalto possono trovare spazio considerazioni sociali o relative all’occupazione;
si tratta di previsioni di sicura importanza e tali da trovare esplicazione anche nella “clausola sociale” qui esaminata, tuttavia senza che le stessi arrivino a giustificare o imporre una clausola sociale di tenore forte (che impone l’obbligo rigido di riassunzione) come ritenuto dalle resistenti.
D’altra parte
l’art. 50 del d.lgs. n. 50 del 2016, che disciplina specificamente la “clausola sociale” in applicazione della disciplina europea e che ha un contenuto più specifico dell’art. 69 del d.lgs. n. 163 del 2006, contiene sì la specifica previsione del “possibile” inserimento nei bandi di gara della suddetta clausola, affermando che essa mira a “promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato”, ma “nel rispetto dei principi dell’Unione Europea”.
Ad avviso del Collegio
si tratta di disciplina normativa che non innova, ed anzi sussume nel testo di legge i risultati cui era giunta la giurisprudenza, giacché la “stabilità occupazionale”, che è sicuramente un obiettivo normativo importante e un valore ordinamentale, deve essere “promossa” e non rigidamente imposta e comunque deve essere armonizzata con i principi europei della libera concorrenza e della libertà d’impresa, così da escludere un rigido obbligo di garanzia necessaria della stabilità, pur in presenza di variato ambito oggettivo del servizio a gara.
5.5 – Si impone al Collegio un ulteriore profilo motivazionale, a conferma delle conclusioni raggiunte, in risposta ai rilievi svolti da entrambe le parti resistenti nelle memorie finali, con richiamo da parte di entrambe alla recente pronuncia del Consiglio di Stato, sez. 5^, n. 2433 del 2016, ritenuta dalle stesse di tenore tale da confermare gli assunti difensivi delle resistenti medesime.
Ad avviso delle resistenti tale sentenza si sarebbe pronunciata a favore della legittimità di una clausola che preveda il riassorbimento di tutto il personale uscente, anche in ipotesi in cui tale personale non sia necessario per l’appalto in considerazione, potendo il personale in eccesso essere utilizzato in altre commesse facenti capo allo stesso operatore economico.
In realtà nella citata sentenza il giudice d’appello non sembra affrontare il tema della legittimità della “clausola sociale” che imponga l’integrale riassorbimento di tutto il personale impiegato dall’operatore economico uscente, giacché non risulta che la clausola sociale sia stata fatta oggetto di impugnazione in quel giudizio, ma si occupa del giudizio di anomalia dell’offerta dell’aggiudicatario di una procedura di concessione; l’appellante sostiene che l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere giudicata anomala “perché non recante l’utilizzo di tutti e 13 gli addetti al servizio da essa impiegati nella precedente gestione”, riutilizzo integrale imposto, tra l’altro, dalla “clausola sociale” presente nel disciplinare di gara; il Consiglio di Stato, risolvendo tale questione, afferma invece che l’aggiudicataria ha prestato alla clausola sociale “piena osservanza, assumendo l’impegno di assumere alle proprie dipendenze tutto il personale impiegato dall’odierna appellante nella precedente gestione”, non costituendo violazione della suddetta clausola “il fatto che la cointrointeressata non ne abbia confermato l’integrale destinazione al medesimo servizio, ma ad altri svolti in aree limitrofe, per dichiarate ragioni di economia della gestione”; appare dunque chiaro che la evocata sentenza non affronta il tema della legittimità della “clausola sociale” presa in esame, che non costituisce oggetto del pronunciamento del giudice d’appello, ma si occupa invece delle modalità di sua esecuzione, ritenendo che l’adempimento a quanto imposto dalla clausola sociale (reimpiego di lavoratori della pregressa gestione) possa avvenire anche in servizi diversi da quello originario.
Non ritiene quindi il Collegio che la citata sentenza del giudice d’appello sia idonea a modificare le conclusioni raggiunte.
5.6 – Concludendo dunque sul profilo di censura in esame, esso deve essere accolto, con annullamento degli atti impugnati, limitatamente al disposto di cui all’art. 9.6. del Capitolato nella parte in cui prevede il necessario mantenimento dei livelli occupazionali di cui all’allegato C1 e all’art. 14 dello schema di convenzione ove richiama il suddetto art. 9.6 cit., con riformulazione da parte della stazione appaltante del contenuto della “clausola sociale”, ai fini della esecuzione del contratto, in conformità ai principi giurisprudenziali richiamati nella motivazione della presente sentenza.

PUBBLICO IMPIEGO: Segni di riconoscimento negli elaborati scritti di un concorso pubblico.
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Concorso – Prove – Prove scritte – Segno di riconoscimento – Presupposti – Individuazione.
In sede di pubblico concorso, perché possa configurarsi l’elemento del cd. “segno di riconoscimento” nell’elaborato scritto sono necessari due presupposti, e cioè l'idoneità del segno di riconoscimento a raggiungere lo scopo e il suo utilizzo intenzionale (nella specie è stato escluso che possa costituire segno di riconoscimento l’indicazione di una specifica città nel testo della prova) (1).
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   (1) Il Tar Toscana ha affermato che il principio di anonimato (espressione del valore dell’imparzialità e buon andamento) va applicato “con intelligenza, proporzionalità e correlazione” con l’altro fondamentale principio di massima partecipazione possibile per innalzare la possibilità statistica di scegliere i migliori, a sua volta correlato con due valori anch’essi di rango costituzionale: quello del lavoro e quello del buon andamento. Dunque, non ogni “segno” astrattamente idoneo al riconoscimento può assurgere a causa escludente.
Il segno di riconoscimento è tale se concorrono due condizioni: l'idoneità a raggiungere lo scopo e l’utilizzo intenzionale del segno.
Quanto al primo elemento, il segno è idoneo a fungere da elemento di identificazione solo quando la particolarità riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e incontestabilmente” anomalo, rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato.
Quanto all’elemento psicologico della fattispecie, si è escluso che possa operare un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare, anche qui in modo oggettivo ed inequivoco, l'intenzionalità del concorrente di rendersi riconoscibile (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 13.02.2017 n. 230 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
4 – Il Collegio ritiene di mantenere le decisioni e l’impianto motivazionale della propria ordinanza cautelare sopra riportato in fatto, meritevole di conferma anche alla più approfondita riflessione della fase di merito e non essendo emersi in corso di causa elementi idonei ad un ripensamento.
In particolare, non vale a ribaltare il giudizio di fondatezza del ricorso la Relazione depositata il 14.10.2016 a firma del presidente della Commissione giudicatrice, la quale conferma la presenza di “evidenti” segni identificativi attraverso l’indicazione, nell’ambito del quesito n. 1, della città dove è ubicato il Liceo Scientifico ove ha prestato servizio il candidato (Livorno).
Siffatta indicazione assumerebbe, secondo la presidente di commissione, "carattere oggettivamente ed incontestabilmente anomalo”, tale da rendere l’elaborato astrattamente riconoscibile, a nulla rilevando la concreta identificabilità dell’autore da parte di uno o più membri della Commissione. Inoltre per “segno identificativo” non deve intendersi soltanto l’apposizione di segni grafici anomali, ma anche l’uso di parole o frasi che possano condurre ad identificare il candidato.
5 – La tesi difensiva dell’amministrazione non regge sotto alcun profilo.
Anzitutto, si tratta di motivazione postuma inidonea –per costante giurisprudenza– a colmare tardivamente un evidentissimo difetto di motivazione già ampiamente stigmatizzato con la riportata ordinanza cautelare, con riguardo ad una formula assolutamente criptica quale “segni evidenti di riconoscimento”, senza alcun’altra indicazione di contenuto e di collocazione.
In secondo luogo la Relazione mostra da sé e ulteriormente che non vi poteva essere alcuna “evidenza”, tanto che il Collegio, ad una pur attenta lettura del complesso elaborato, non era riuscito a scorgere alcun segno, grafico o letterale, idoneo a consentire la riferibilità dello scritto ad un soggetto determinato.
5.2 – Anche ad accettare per ipotesi l’integrazione motivazionale tentata con la ricordata Relazione, in ogni caso
manca nella specie ogni elemento che possa far ritenere violato il pur fondamentale principio dell’anonimato con riferimento al quesito numero 1.
Quest’ultimo consisteva nel “collocare” la trattazione di un argomento matematico nell’ambito di una programmazione disciplinare curricolare di un istituto secondario di secondo grado. La risposta del candidato inizia così: “CONTESTO: Classe V superiore – Liceo Scientifico di Livorno”.
5.3 – La predetta indicazione non appare violativa del ricordato principio di anonimato, non assumendo essa i caratteri rilevatori di un intento di farsi riconoscere e di evidente anomalia rispetto alle consuete modalità di redazione di una risposta ad una data traccia.
Quest’ultima, infatti imponeva ai partecipanti di “collocare” la trattazione dell’argomento nel contesto “di un istituto”, in tal modo inducendo la legittima opinione nei candidati stessi di non solo potere, ma anzi di dovere riferire l’esposizione teorica ad una concreta realtà ed esperienza didattica collocata all’interno di uno specifico Istituto di istruzione. Quest’ultimo, quindi, per come era formulato il quesito, poteva essere individuato sia come tipologia generica, sia come concreta realtà operativa scolastica.
La seconda opzione non era esclusa, dunque, dalle possibilità esplicative del candidato, il quale legittimamente (in mancanza di specifiche avvertenze ed ammonimenti) poteva sentirsi legittimato ad indicare un certo istituto scolastico nel quale “collocare” e calare la propria proposta didattica. Mancando ulteriori elementi di specificazione di quella realtà locale da parte della commissione sul piano rivelatosi (ad es., l’esistenza di un solo professore di quella materia nell’intero plesso), una tale indicazione non si mostra rivelatrice di nulla.
6 – D’altra parte,
il principio di anonimato (espressione del valore dell’imparzialità e buon andamento) va applicato con intelligenza, proporzionalità e correlazione con l’altro fondamentale principio di massima partecipazione possibile, a sua volta correlato con due valori anch’essi di rango costituzionale: quello del lavoro e quello del buon andamento, sotto l’altro profilo dell’ampliamento della platea dei partecipanti per innalzare la possibilità statistica di scegliere i migliori: sicché non ogni “segno” astrattamente idoneo al riconoscimento può assurgere a causa escludente.
7 -
La giurisprudenza, infatti, ha delineato i confini entro i quali opera la regola dell'anonimato, individuando nell'idoneità del segno di riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due elementi costitutivi della fattispecie legale.
8 -
Quanto all'idoneità del segno, essa consiste, sì, nell'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, ma solo quando la particolarità riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e incontestabilmente” anomalo, rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato (Cons. St., Sez. V, 11.01.2013, n. 102; nello stesso senso Cons. St., Sez. V, 20.10.2008, n. 5114; Cons. St., Sez. IV, 20.09.2006, n. 5511).
Questa prima condizione (oggettività, incontestabilità, irrilevanza di conoscenze personali) non sussiste nella specie: l’indicazione del Liceo scientifico di Livorno non assume i riportati connotati, sia in relazione al contenuto della traccia del quesito, sia in mancanza di prove circa la assoluta evidenza identificativa di quanto indicato (per un caso analogo cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202).
9 -
Quanto all’elemento psicologico della fattispecie, si è escluso che possa operare un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare, anche qui in modo oggettivo ed inequivoco, l'intenzionalità del concorrente di rendersi riconoscibile (cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202; idem, 01.04.2011, n. 2025).
Nella fattispecie, appare evidente come difetti anche questo ulteriore requisito, trattandosi, come più volte detto, di indicazione perfettamente plausibile e giustificabile alla luce della traccia del quesito.
10 – Peraltro e per concludere, la prova più evidente della mancanza di una valenza identificativa della collocazione logistica della risposta sta nel fatto che il Collegio, pur ad un’attenta lettura dell’elaborato fatta in preparazione e discussione dell’udienza camerale, non era riuscito a capire quale fosse il “segno evidente” di riconoscimento.
11 - Il ricorso va conclusivamente accolto, con conseguente definitivo annullamento degli atti impugnati e relativa condanna alle spese di giudizio.

EDILIZIA PRIVATADeve rilevarsi, in aderenza ad una diffusa giurisprudenza, che la sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi, anche di infissi, serrande, rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 3, lett. a), t.u. 06.06.2001 n. 380 e, cioè, di attività libera e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con materiali diversi.
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Il ricorso è parzialmente fondato e, pertanto, va accolto nei limiti di seguito indicati.
Segnatamente va accolta la domanda spiegata avverso la statuizione di cui al punto 2 della richiamata ordinanza, con la quale –a fronte della sostituzione degli infissi esterni e muovendo dalla qualificazione del suddetto intervento come di manutenzione straordinaria– è stato ingiunto il pagamento della somma di € 1.000,00.
Sul punto, deve rilevarsi, in aderenza ad una diffusa giurisprudenza, che la sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi, anche di infissi, serrande, rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 3, lett. a), t.u. 06.06.2001 n. 380 e, cioè, di attività libera e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con materiali diversi (cfr. TAR Torino, (Piemonte), sez. I, 12/04/2010, n. 1761; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 09/05/2005, n. 3438; sez. II-bis 1322/2017 del 25.01.2017).
Nel caso di specie tale soluzione viepiù s’impone in ragione del fatto che non risultano adeguatamente comprovati (rispetto al preesistente assetto dei luoghi, quale risultante da una necessaria valutazione di insieme) i dedotti profili di significativa novità sì da giustificare –a cagione dell’impatto ingenerato- la sussunzione delle opere de quibus nella diversa categoria della manutenzione straordinaria.
Nei limiti suddetti il ricorso va, pertanto, accolto (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.02.2017 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sussiste l'ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal Comune, anche a cagione dell’assenza di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si pone all’Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro, appaiono le previsioni di cui all’art. 21-octies della legge 241/1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

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In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo –e cioè, in questo caso, il permesso di costruire- l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
In considerazione delle divisate emerge processuali si rivela immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione. Nel modello legale di riferimento non vi è, infatti, spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria ripristinatoria qui avversata.
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Per il resto (id est rispetto all’ordine di demolizione) il ricorso va respinto.
Prive di pregio si rivelano, anzitutto, le doglianze con cui la parte ricorrente lamenta la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta all’Autorità procedente dall’art. 7 della legge 241/1990 ovvero, nei procedimenti ad istanza di parte, anche dall’art. 10-bis della medesima legge.
L’infondatezza delle censure in esame discende, invero, come già ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (cfr., tra le tante, sentenze TAR Campania, Napoli, n. 1847 del 30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d’appello (cfr. Cons. Stato, sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277), dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal Comune di Napoli, anche a cagione dell’assenza –come di seguito meglio evidenziato- di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all’Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro, appaiono le previsioni di cui all’art. 21-octies della legge 241/1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
...
Appare, dunque, pienamente giustificata l’applicazione della sanzione demolitoria.
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo –e cioè, in questo caso, il permesso di costruire- l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 15.07.2010, n. 16807; sez. VII n. 1624 del 28.03.2008).
In considerazione delle divisate emerge processuali si rivela immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione. Nel modello legale di riferimento non vi è, infatti, spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria ripristinatoria qui avversata (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.02.2017 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ritiene il Collegio che l’inserimento di un balcone, corredato della relativa tettoia, e le ulteriori modifiche introdotte nella muratura esterna (con apertura di un vano balcone in luogo di preesistente finestra e di realizzazione di una nicchia) in ragione dell’incremento di superficie (ancorché accessoria) che la realizzazione del balcone comporta e, comunque, per effetto della complessiva modifica dei prospetti non possono che qualificarsi come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi degli artt. 3, c. 1, lett. d) e 10, c. 1, lett. c) del T.U. 06.06.2001, n. 380 e non come opere di mera manutenzione.
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Alcun pregio hanno, poi, le ulteriori censure con cui parte ricorrente, mediante argomentazioni generiche, lamenta l’inadeguatezza dell’istruttoria condotta dal Comune intimato e l’insufficienza del corredo motivazionale dell’atto impugnato.
Sul punto, è sufficiente osservare che alcun dubbio residua sulla completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal Comune attraverso i propri organi, di cui vi è indiretta conferma nella stessa mancanza di una contestazione, in fatto, sulla natura degli abusi accertati.
Risulta, invero, acquisito agli atti di causa –siccome nemmeno fatto oggetto di contestazione– la realizzazione in assenza dei prescritti titoli abilitativi di un “1) balcone ad angolo di m. 1,10 x 20,00 con tettoia in lamiere coibentate di copertura sorretta da struttura in ferro; modifica di un vano finestra in vano di accesso al balcone e di un altro vano finestra in nicchia di mt. 1,10x2,20 d’altezza x 0,50 di profondità chiusa da persiana…”.
Anche sul piano della qualificazione giuridica dell’illecito ritiene il Collegio che l’inserimento di un balcone, corredato della relativa tettoia, e le ulteriori modifiche introdotte nella muratura esterna (con apertura di un vano balcone in luogo di preesistente finestra e di realizzazione di una nicchia) in ragione dell’incremento di superficie (ancorché accessoria) che la realizzazione del balcone comporta e, comunque, per effetto della complessiva modifica dei prospetti non possono che qualificarsi come intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi degli artt. 3, c. 1, lett. d) e 10, c. 1, lett. c) del T.U. 06.06.2001, n. 380 e non come opere di mera manutenzione (Consiglio di Stato, sez. VI, 04/10/2011 n. 5431; TAR Napoli, (Campania), sez. VII, 07/06/2012, n. 2717) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.02.2017 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: L’accesso ai documenti è la regola.
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Accesso ai documenti – Diritto – E’ la regola – Diniego – E' l'eccezione.
L’accesso ai documenti è la regola ed il rifiuto è l’eccezione, da dimostrare sempre e comunque con chiara, esauriente e convincente motivazione; corollario di tale regole è che il silenzio serbato su istanze di accesso è ipotesi ancora più eccezionale, da circoscrivere in ambiti limitatissimi di domande palesemente pretestuose, incerte, vaghe e emulative (1).
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   (1) Nel caso all’esame del Tar, dopo la proposizione del ricorso e prima del passaggio in decisione della causa l’Amministrazione ha rilasciato i documenti richiesti, determinando, sul piano processuale, la cessazione della materia del contendere. Il Tar ha, nonostante ciò, esaminato nel merito la causa, su richiesta di parte ricorrente, ai fini della rifusione delle spese.
Ha ricordato il Tar che in linea di principio l’Amministrazione detentrice dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili alla tutela, anche di carattere conoscitivo, preventivo e valutativo da parte del richiedente, di un interesse personale e concreto, non può limitare il diritto di accesso se non per motivate esigenze di riservatezza.
Si tratta di regola ispirata a valori fondanti di qualsiasi vera democrazia in cui la burocrazia è al servizio del cittadino e non di se stessa, secondo una logica perversa di autoreferenzialità in base alla quale il cittadine è suddito e non referente dell’azione amministrativa.
La violazione del principio di correttezza e lealtà, nonché la sussistenza degli elementi costitutivi della colpa, di negligenza, imprudenza e imperizia non è certo affievolita dall’accoglimento tardivo della richiesta in corso di causa, il quale anzi evidenzia ancor di più l’intollerabile superficialità dell’azione amministrativa e del suo autore, il quale ha costretto senza ragione alcuna un cittadino a sopportare i costi di un processo per potersi vedere riconosciute le proprie ragioni.
Data la premessa, il Tar ha accolto la domanda del ricorrente di condanna alle spese (liquidate in cinquemila euro), misura giudicata coerente anche con il grado della colpa della parte virtualmente soccombente.
Per le stesse esposte ragioni il Tar ha inviato copia della sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei Conti in conseguenza del ben prevedibile (art. 26 c.p.a.) ed agevolmente evitabile danno erariale per condanna alle spese che il comportamento dell’amministrazione ha recato alla finanza pubblica (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 10.02.2017 n. 200 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
... per l'annullamento:
- del diniego tacito del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca – Ufficio Regionale per la Toscana di accesso agli atti afferenti alla prova scritta e pratica del Concorso Docenti 2016, relativa alla Classe B20, bandito con DDG M.I.U.R. n. 106 del 23.02.2016, avanzata dal ricorrente per poter verificare la “valutazione ottenuta e dell'effettiva corrispondenza del testo e degli elaborati sottoposti a valutazione con quanto effettivamente prodotto in sede di svolgimento delle prove scritte”;
- accertamento del diritto del ricorrente di prendere visione ed estrarre copia integrale della documentazione suddetta;
- condanna del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, in persona del Ministro pro tempore, nonché del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca – Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana all'ostensione dei documenti richiesti.
...
1 - Il ricorrente ha partecipata al concorso per l’assunzione di docenti meglio specificato in epigrafe per la classe B20, Laboratorio di Servizi enogastronomici, settore cucina, ma, avendo appreso dal sito web dell’amministrazione di non avere superato gli scritti, ha fatto richiesta d’accesso agli atti ai sensi della L. 241/1990, con riferimento ai propri elaborati scritti ed ai presupposti criteri di valutazione.
2 - A fronte del silenzio serbato dall’amministrazione egli impugna il provvedimento implicito di rigetto dell’istanza d’accesso deducendo i seguenti motivi.
Violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.). Violazione artt. 22 e 24, comma 7, L. n. 241/1990.
L’art. 22, comma 2, della L. n. 241/1990 stabilisce che il diritto di accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza (cfr. TAR Torino, Sez. I, 23.05.2014, n. 932).
Ne discende che l’esercizio del suddetto diritto può essere compresso esclusivamente nelle ipotesi indicate dal legislatore, secondo quanto previsto dalle disposizioni di cui all’art. 24 della L.P.A. (L. 241/1990).
Nulla di tutto ciò, nel caso di specie, in quanto:
   - non si è trattato di alcuna informazione attinente a “documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi” (lett. d, comma 1), bensì della richiesta dei propri elaborati e delle schede/griglie di valutazione, attinenti alla propria posizione;
   - non si è trattato di una richiesta suscettibile di mero differimento, ai sensi dell’art. 3.2 del D.M. 60/1996 (secondo cui l’accesso relativo a “elaborati ed alle schede di valutazione” è consentito in relazione alla conclusione delle varie fasi del procedimento… Fino a quando il procedimento non sia concluso, l’accesso è limitato ai soli atti che riguardino direttamente il richiedente, con esclusione degli atti relativi ad altri concorrenti”) in quanto la richiesta riguardava i soli atti del ricorrente, e non anche degli altri candidati – per la quale sarà, se del caso, formulata apposita richiesta.
Peraltro, il diniego tacito formatosi con il decorso di trenta giorni dalla proposizione dell’istanza deve ritenersi illegittimo per violazione dell’art. 24, comma 7, della L. 241/1990 ai sensi del quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
3 - L’amministrazione si è difesa con memoria depositata solo in formato cartaceo.
4 – Nella camera di consiglio del giorno 08.02.2017 il difensore di parte ricorrente ha dichiarato di avere avuto finalmente copia degli atti richiesti, con conseguente intervenuta cessazione della materia del contendere, insistendo tuttavia per la condanna dell’amministrazione alle spese, essendosi l’inerzia protrattasi anche dopo la proposizione del ricorso. La difesa erariale si è opposta alla richiesta di condanna alle spese.
5 – Il Collegio non può che prendere atto della dichiarazione di parte ricorrente, accogliendone l’istanza di condanna alle spese in virtù del principio di soccombenza virtuale.
6 -
Il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa è nel senso in virtù dell’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990, va garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici, senza che da parte dell’Amministrazione possa legittimamente sindacarsi la fondatezza ovvero la pertinenza delle azioni che l’interessato intenda intraprendere; sicché, sotto tale profilo, è sufficiente che l’istante fornisca elementi idonei a dimostrare in maniera chiara e concreta la sussistenza di un tale astratto interesse che ricolleghi comunque la domanda d’accesso ai documenti richiesti; inoltre, una volta che l’istante abbia dimostrato il proprio interesse, è illegittimo il divieto di estrarre copia e la limitazione dell’accesso alla sola visione degli atti, che spesso non è sufficiente a consentire la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi (cfr., fra le tantissime, Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4286; TAR Torino, Sez. II, 29.08.2014, n. 1458).
7 - Ai sensi del citato art. 24, quindi,
l’accesso va in ogni caso garantito qualora sia strumentale e funzionale a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale. Pertanto, l’interesse all’accesso va valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza, plausibilità o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (tra le tante e per tutte: TAR Catania sez. VI,. 12.05.2016, n. 1285).
8 - In linea di principio, dunque,
l’amministrazione detentrice dei documenti amministrativi, purché direttamente riferibili alla tutela –anche di carattere conoscitivo, preventivo e valutativo da parte del richiedente, di un interesse personale e concreto- non può limitare il diritto di accesso se non per motivate esigenze di riservatezza (Tar Lazio, Roma, Sez. III, 05.11.2009 n.10838).
9 –
Si tratta di acquisizioni consolidate ed ormai note (o almeno dovrebbero esserlo secondo criteri di perizia ed intelligenza) dopo quasi un ventennio di esperienze e affermazioni giurisprudenziali, che qui è inutile ripetere e dalle quali emerge un principio di fondo che dovrebbe guidare tutti i funzionari e dirigenti pubblici, la cui osservanza eviterebbe una mole cospicua di inutile contenzioso, come quello presente. Tale principio può sintetizzarsi in ciò: l’accesso è la regola ed il rifiuto è l’eccezione, da dimostrare sempre e comunque con chiara, esauriente e convincente motivazione. Corollario di tale regole è che il silenzio serbato su istanze d’accesso è ipotesi ancor più eccezionale, da circoscrivere in ambiti limitatissimi di domande palesemente pretestuose, incerte, vaghe, emulative.
10 –
Si tratta di regole semplici e fondamentali, ispirate, secondo l’ormai noto insegnamento dei giudici amministrativi, a valori fondanti di qualsiasi vera democrazia in cui la burocrazia è al servizio del cittadino e non di se stessa, secondo una logica perversa di autoreferenzialità in base alla quale il cittadine è suddito e non referente dell’azione amministrativa.
11 -
Nella specie la citata regola è stata inspiegabilmente e slealmente violata dall’amministrazione scolastica con un silenzio tanto più inspiegabile a fronte dell’oggetto della richiesta, riguardante esclusivamente gli elaborati del solo richiedente e non quelli di altri: vicenda per la quale le stesse norme interne dell’amministrazione prevedevano l’immediata accessibilità.
Infatti, in base alla circolare dello stesso Ministero del 18.05.2016, singolarmente richiamata dal medesimo USR Toscana nella comunicazione/Avviso del 04.08.2016 (doc. 8 deposito ricorrente), l’accesso relativo agli “elaborati ed alle schede di valutazione” è consentito in relazione alla conclusione delle varie fasi del procedimento… Fino a quando il procedimento non sia concluso, l’accesso è limitato ai soli atti che riguardino direttamente il richiedente, con esclusione degli atti relativi ad altri concorrenti.
La violazione del principio di correttezza e lealtà, nonché la sussistenza degli elementi, costitutivi della colpa, di negligenza, imprudenza e imperizia non è certo affievolita dall’accoglimento tardivo della richiesta in corso di causa, il quale anzi evidenzia ancor di più l’intollerabile superficialità dell’azione amministrativa e del suo autore, il quale ha costretto senza ragione alcuna un cittadino a sopportare i costi di un processo per potersi vedere riconosciute le proprie ragioni, che un qualsiasi funzionario appena dotato di intelligenza ed umanità avrebbe subito compreso e soddisfatto.
12 – E’ per quanto detto che la richiesta di domanda alla condanna alle spese formulata dalla difesa del ricorrente va accolta nella misura coerente
anche con il grado della colpa della parte soccombente virtualmente e per le stesse esposte ragioni il Collegio invia copia della presente sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei Conti in conseguenza del ben prevedibile (art. 26 c.p.a.) ed agevolmente evitabile danno erariale per condanna alle spese che il comportamento dell’amministrazione scolastica ha recato alla finanza pubblica.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Condanna le amministrazioni resistenti, in solido, al pagamento di spese ed onorari del presente giudizio, che liquida in complessivi euro cinquemila, oltre accessori di legge.
Manda alla Segreteria perché invii copia della presente sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei Conti.

ATTI AMMINISTRATIVI- TRIBUTINotifica sottoscritta digitalmente. Ctp Savona boccia la comunicazione fatta con il pdf.
Invalide le notifiche di atti di cartelle e intimazioni di pagamento a mezzo Pec, se non sottoscritte digitalmente o accompagnate da attestazione di conformità all'originale.

Questo in estrema sintesi il principio espresso dalla Ctp Savona con la recentissima sentenza 10.02.2017 n. 100/1/2017 (pres. e rel. Giovanni Claudio Zerilli), che ha annullato un'intimazione di pagamento notificata a mezzo Posta elettronica certificata (Pec).
La questione affrontata dai giudici liguri è di estrema attualità, poiché è noto che l'Agente della riscossione e, talvolta, anche gli stessi Enti pubblici, notificano i propri atti proprio mediante Pec: i risparmi in termini di costi e soprattutto la possibilità di avere un riscontro pressoché immediato e incontestabile dell'avvenuta consegna del messaggio rendono tale modalità quella, ovviamente, preferibile.
Nel caso specifico la parte ricorrente aveva impugnato (tra gli altri) un'intimazione di pagamento che aveva ricevuto a mezzo Pec. Tuttavia, tale allegato, non solo era privo di sottoscrizione elettronica, ma non era neppure qualificabile quale documento informatico ai sensi degli artt. 20 ss., dlgs 82/2005 e, inoltre, era anche privo dell'attestazione di conformità all'eventuale originale analogico (cartaceo), che permettesse di considerarlo del tutto equivalente a detto originale secondo il disposto dall'art. 22, dlgs 82/2005.
Alla luce di tali presupposti di fatto e valutata la consulenza tecnica che correttamente ha accompagnato il ricorso introduttivo, la Ctp Savona ha accolto la domanda di annullamento del contribuente, osservando che la notifica di documento con siffatte caratteristiche non può essere accettata, mancando quei requisiti minimi previsti dal Legislatore a tutela della genuina paternità del documento e della univocità e immodificabilità dello stesso. Tali lacune, infatti, hanno privato il documento notificato di certezza anche in merito al suo contenuto: a mezzo Pec, pertanto, possono essere notificati esclusivamente documenti informatici veri e propri, sottoscritti digitalmente o accompagnati da dichiarazione di conformità all'originale, se si tratta di copie informatiche di documenti analogici.
L'arresto ligure rappresenta un importantissimo passo avanti verso il rispetto del principio di legalità da parte degli Uffici finanziari: infatti, se l'ordinamento, in materia tributaria, riconosce all'Amministrazione e allo stesso Agente della riscossione l'enorme potere di espropriare il contribuente delle sue ricchezze senza l'intervento di un giudice terzo e imparziale, è assolutamente imprescindibile che tale potere venga esercitato nel rispetto della legge anche in ordine alle modalità. Proprio la correttezza procedurale dell'agire pubblico è, infatti, la prima legittimazione della pretesa fiscale ed il primo baluardo dei diritti del contribuente.
Si apre, quindi, un nuovo fronte relativamente a tutti quegli atti notificati senza il rispetto dei requisiti voluti dalla Ctp Savona: ciò, in quanto, se è corretta -come pare- tale pronuncia, non si può parlare di mera nullità bensì di vera e propria inesistenza giuridica, ovvero di un atto che non esiste per l'ordinamento e che, quindi, non può svolgere alcun tipo di effetto.
La conseguenza evidente a tutti è che un atto giuridicamente inesistente è sempre impugnabile e a esso non può conseguire alcuna esecuzione. Ove, invece, ciò accada, sorge il diritto dell'esecutato al giusto risarcimento dei danni che dovesse patire (articolo ItaliaOggi del 14.02.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIAnnullabile l’intimazione in Pdf. Necessaria la presenza di quanto può garantire la genuinità del file.
Ctp Savona. In due sentenze affrontato il tema della validità delle comunicazioni ufficiali in modalità digitale.
È nulla l’intimazione di pagamento, seppure inviata via Pec al contribuente, in quanto il formato Pdf non dà alcuna garanzia di genuinità del documento.
Con una doppia sentenza (sentenza 10.02.2017 n. 100/1/2017 e sentenza 10.02.2017 n. 101/1/2017) la Ctp di Savona apre un nuovo fronte sulla firma digitale dei documenti e, pertanto, sulla validità procedimentale degli stessi.
Il caso deciso la scorsa settimana riguarda due vicende collegate a un medesimo contribuente, una Srl del posto. La società aveva ricevuto nove cartelle di pagamento -che spaziavano da Iva a Ires, Irpef, Irap, bollo e altro- relative alle annualità 2006, 2010 e 2011, oltre a due avvisi di intimazione per Irpef e Irap.
Il versante dell’impugnazione relativo alle cartelle è stato respinto dalla Ctp poiché, nonostante il ricorrente sostenesse fossero state notificate via Pec -sollevando già lì il tema centrale contestato dal difensore Gi.Le.- Equitalia ha dimostrato l’avvenuto recapito anche tramite servizio postale, come previsto dal Dpr 602/1973 (articolo 26).
Le censure della difesa hanno colto nel segno, invece, circa i due avvisi di intimazione di pagamento. Secondo una perizia tecnica di parte -le cui conclusioni la Commissione ha comunque ritenuto dirimenti- l’esame dei documenti inviati in via telematica dall’agente di riscossione portava a concludere che «gli stessi sono del tutto carenti di quelle procedure atte a garantire la genuina paternità, nonché mancanti della firma informatica e/o digitale».
Pertanto, sempre stando alle conclusioni della perizia di parte, tali documenti «non rispondono ai criteri di univocità e di immodificabilità, per cui non garantiscono il valore di certezza e di corrispondenza». Oltretutto, segnala ancora la versione della difesa del contribuente, l’attestazione di conformità è «del tutto assente» nonostante la legge la richieda «indefettibilmente».
A giudizio della Commissione, che ha sposato le conclusioni della consulenza di parte, «l’argomento relativo alla firma digitale e dei requisiti informatici è stato da ultimo ben dettagliato nella deliberazione 45 del 21.05.2009 da parte del Centro nazionale informatica nella pubblica amministrazione nonché dal Decreto del presidente del consiglio del 22.02.2013».
In sostanza -e fuori dalla stringatissima motivazione della Ctr- pare corretto dedurre che il documento allegato in pdf (l'intimazione) non è da considerare giuridicamente un documento informatico, ma piuttosto una copia informatica che come tale è priva di qualsiasi valore probatorio. Equitalia a processo aveva invece incentrato la difesa sulla circostanza della legittimità della Pec in sé.
La Ctr, almeno in questo grado di giudizio, ha però censurato il (mancato) contenuto delle comunicazione, che non rispetta gli standard di “sicurezza” previsti dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017).

EDILIZIA PRIVATARicorre il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento.
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Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione alla configurabilità dei reati di cui ai capi 2 e 3 dell'imputazione.
Argomenta che l'imputato doveva essere assolto da tali reati perché le opere realizzate non incidevano sulla struttura portante realizzata in cemento armato ma riguardavano solo una delle pareti esterne del fabbricato; inoltre, per la realizzazione di una finestra non era richiesto il previo rilascio del permesso di costruire.
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2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte, ricorre il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Rv. 251284; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Rv. 266033) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.02.2017 n. 6039).

EDILIZIA PRIVATAL'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività.
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Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione alla configurabilità dei reati di cui ai capi 2 e 3 dell'imputazione.
Argomenta che l'imputato doveva essere assolto da tali reati perché le opere realizzate non incidevano sulla struttura portante realizzata in cemento armato ma riguardavano solo una delle pareti esterne del fabbricato; inoltre, per la realizzazione di una finestra non era richiesto il previo rilascio del permesso di costruire.
...
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
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Inoltre, contrariamento all'assunto difensivo, è stato ritenuto che l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Rv. 259905) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.02.2017 n. 6039).

APPALTIAziende mafiose subito chiuse. Il Cds: il codice antimafia è immediatamente applicabile. La sentenza del Consiglio di stato non tollera vuoti di tutela nella regolazione del mercato.
La regolazione del mercato non sopporta vuoti di tutela.

Il Consiglio di Stato - Sez. III (sentenza 09.02.2017 n. 565, si veda ItaliaOggi dell'11/02/2017) ha lanciato il suo j'accuse contro l'impresa criminale ed ha letto il codice antimafia (dlgs 159/2011) nella sua immediata applicabilità. Anche se manca il decreto attuativo, anche se l'impresa da controllare non lavora con un ente pubblico (appalto o concessione), anche se il valore dell'impresa è sotto soglia, anche se si aspetta una sentenza della Corte costituzionale sull'eventuale eccesso di delega del codice antimafia, nonostante tutto questo la legge ha dato all'autorità pubblica gli strumenti per espellere dal circuito economico le imprese contigue alle mafie.
Più poteri ai prefetti, dunque, per valutare rischi di infiltrazioni mafiose. La sentenza spiega che anche le attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze o a Scia soggiacciono alle informative antimafia. Inoltre con l'istituzione della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia (art. 2, legge 13.08.2010, n. 136) si realizza una vera e propria mappatura delle imprese, comprensiva anche delle informative interdittive, espressamente riferite «a tutti i rapporti». Ciò comporta in pratica che, anche quando si tratta di attività soggette ad autorizzazione, in cui al prefetto si chiede di emettere solo una comunicazione antimafia, egli può comunque eseguire gli accertamenti tipici dell'informativa, invece di limitarsi a riscontrare semplicemente l'assenza di misure definitive di prevenzione o di condanne.
La decodifica della pronuncia può articolarsi su vari livelli. Un primo livello è quello strettamente tecnico-giuridico e si risolve in una questione strettamente interpretativa: si deve appurare se i controlli antimafia riguardano solo i casi in cui un'impresa stipula un contratto con una p.a. (ad esempio, un appalto o una concessione) o anche i casi in cui l'impresa deve chiedere un'autorizzazione per poter lavorare.
La risposta del Consiglio di stato è affermativa: l'ambito delle autorizzazioni non è escluso dalle verifiche antimafia. La legge non solo non lo esclude, ma anzi lo prevede, se solo non ci si nasconde dietro un dito. Il codice antimafia parla di rapporti con la pubblica amministrazione e c'è un rapporto (che obbliga alle verifiche preventive antimafia) anche quando un'impresa chiede un'autorizzazione. E anche quando un'attività è assoggettata a procedure semplificate, come la Scia (segnalazione certificata di inizio attività).
La semplificazione amministrativa significa meno pastoie per le imprese sane e non maglie larghe per le imprese criminali.
Un secondo livello riguarda i rapporti tra economia e autorità. L'estensione del potere regolatorio a tutti gli ambiti economici significa una mano pesante dello stato nel flusso in entrata sul mercato. Il pericolo è che la regolazione del mercato sia una propaggine dello stato che sanziona. E la regolazione del mercato, perché sia efficace richiede un uso sapiente del potere di inibire l'attività: l'appello del Consiglio di stato alle prefetture non è un atto di fede ma l'avviso che il sindacato del giudice può colpire eccessive disinvolture e arbitri.
Un terzo livello riguarda l'apporto tecnologico dei sistemi informativi. Se la questione si è posta in una certa maniera e se la decisione è stata quella del via libera al controllo antimafia anche sulle autorizzazioni, se tutto ciò è avvenuto è anche perché c'è un data base unico, cui si può attingere per trovare le necessarie notizie, intrecciare informazioni e abbinare nomi e fatti. Questo pone il problema degli standard da seguire per la formazione e la manutenzione delle base di dati.
Un quarto livello riguarda i rapporti tra legislatore e governo, chiamato ad approvare i provvedimenti attuativi.
Nel caso specifico una tesi dell'impresa (cui è stata negata l'autorizzazione necessaria per il suo business) è stata la mancanza del decreto attuativo, che dovrebbe individuare i casi di autorizzazione sottoposti ai controlli antimafia; lapidaria la risposta di Palazzo Spada: non è nemmeno inimmaginabile che l'inerzia del governo porti acqua agli interessi malavitosi, che possono, nelle more, far girare denaro sporco e alimentare circuiti economici viziosi.
Né si può invocare la libertà di impresa: il principio costituzionale non copre chi fa affari in contiguità con o per le associazioni a delinquere (articolo ItaliaOggi del 14.02.2017).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAInformativa antimafia ampia. Vi soggiacciono le autorizzazioni, le licenze e la Scia. Sentenza del Consiglio di stato aumenta i poteri dei prefetti contro il rischio infiltrazioni.
Più poteri ai prefetti per valutare eventuali rischi di infiltrazioni mafiose. La III Sez. del Consiglio di Stato, accogliendo l'appello della provincia di La Spezia su una sentenza del Tar Emilia Romagna, ha affermato che anche le attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze o a Scia soggiacciono alle informative antimafia.

Palazzo Spada ha infatti ritenuto con la sentenza 09.02.2017 n. 565 che la «tradizionale distinzione tra le comunicazioni antimafia, applicabili agli atti autorizzativi ed abilitativi, e le informative antimafia, applicabili a contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni pubbliche, non si ponga più in un rapporto di necessaria alternatività, come nella legislazione anteriore al nuovo codice delle leggi antimafia».
La comunicazione antimafia è costituita da un'attestazione relativa all'assenza di misure di prevenzione penale o condanne per alcuni gravi delitti: è necessaria per il rilascio di autorizzazioni, licenze o Scia ed è autocertificabile dall'imprenditore.
L'informativa antimafia è costituita invece da una valutazione del prefetto sul rischio di infiltrazione mafiosa, fondata non solo sulle condanne ma anche su altri elementi (rapporti di polizia, cointeressenze economiche, frequentazioni). L'informativa costituisce, quindi, uno strumento di prevenzione molto più avanzato. Essa era necessaria, secondo la precedente normativa, solo quando l'impresa doveva stipulare contratti con l'amministrazione, ricevere sovvenzioni, o sfruttare economicamente beni pubblici.
La distinzione tra i due strumenti, ha osservato il Consiglio di stato nella sentenza, «ha fatto sì che le associazioni di stampo mafioso potessero, comunque, gestire tramite imprese infiltrate, inquinate o condizionate da essa, lucrose attività economiche, in vasti settori dell'economia privata, senza che l'ordinamento potesse efficacemente intervenire per contrastare tale infiltrazione, anche quando, paradossalmente, a dette imprese fosse stata comunque interdetta la stipulazione dei contratti pubblici per effetto di una informativa antimafia».
Gli effetti di questa distinzione sono venuti meno, secondo i giudici amministrativi, con l'istituzione della Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia (prevista dalla legge 136/2010, ossia il Piano straordinario antimafia). In essa c'è una vera e propria mappatura delle imprese, comprensiva anche delle informative interdittive, espressamente riferite «a tutti i rapporti».
Nella pratica, dunque, anche quando si tratta di attività soggette ad autorizzazione, in cui al basta una comunicazione antimafia, il prefetto può comunque eseguire gli accertamenti tipici dell'informativa invece di limitarsi a riscontrare semplicemente l'assenza di misure definitive di prevenzione o di condanne. Ciò estende la possibilità per lo Stato di non riconoscere, come operatori economici, i soggetti a rischio di legami mafiosi: non più soltanto quando essi debbano stipulare contratti con una pubblica amministrazione, ma anche quando essi svolgano attività che devono essere autorizzate dall'amministrazione.
«L'ordinamento», ha sancito il Consiglio di stato, «non riconosce dignità e statuto di imprenditore economico a soggetti condizionati, infiltrati, controllati da organizzazioni mafiose, poiché l'interesse pubblico generale è nel senso di preservare la legalità nel tessuto dell'economia reale, proteggendola dall'inquinamento pervasivo criminale»: il timore che «estendendo l'applicazione delle informative antimafia alle attività economiche soggette al regime autorizzatorio, si schiuda la via all'arbitrio dell'autorità prefettizia nella valutazione della permeabilità mafiosa e quindi anche nell'accesso alle attività economiche (solo) private -si legge nella sentenza- è del tutto infondato poiché la valutazione prefettizia deve sempre fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti che consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale, apprezzamento dei fatti» (articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017).

APPALTI L'art. 38, comma 1, lett. b) e c), D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato dalla legge 12.07.2011, n. 106, di conversione del D.L. 70/2011, laddove circoscrive l'obbligo di verifica della sussistenza dei requisiti di moralità professionale, al socio unico “persona fisica”, non offre alcuna ambiguità interpretativa; pertanto, il socio unico "persona giuridica" non può che ritenersi escluso dal novero dei soggetti tenuti a rendere le dichiarazioni in parola pur dovendosi dare atto che una previsione di tal fatta può consentire elusioni tramite la creazione di società prive di uno scopo reale o società-schermo.
La giurisprudenza è pressoché unitariamente attestata su tale interpretazione, che il Collegio ritiene doverosamente condivisibile in ossequio al principio per cui in claris non fit interpretatio.
D’altra parte la pronuncia del TAR lombardo, invocata dalla ricorrente, è rimasta un caso isolato atteso che lo stesso Tribunale, stessa sezione e stesso collegio, pochi giorni prima, si era espresso nel senso che l'obbligo dichiarativo posto dall'art. 38, D.Lgs. 163/2006, a carico del socio di maggioranza di società con meno di quattro soci deve ritenersi circoscritto ai soli soci persone fisiche e non anche al socio di maggioranza persona giuridica.
In ogni caso il Collegio rileva che, stante il principio di tassatività delle cause di esclusione, giammai l’amministrazione avrebbe potuto, senza incorrere (in quel caso si) in violazione di legge, escludere una concorrente sulla base di una interpretazione normativa che sarebbe risultata quanto mai discutibile, data la richiamata inequivocabilità della norma in commento.
Invero, da una parte l’amministrazione non avrebbe avuto alcun appiglio normativo, atteso che la lex specialis non ha previsto alcuna deroga al disposto di legge, in ipotesi ampliandone lo spettro applicativo, dall’altra, anche qualora avesse inteso aderire all’interpretazione prospettata ed auspicata dalla ricorrente, avrebbe dovuto necessariamente attivare il c.d. soccorso istruttorio a pagamento di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.Lgs. 163/2006.
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3. Il ricorso non può essere accolto.
3.1. Nella memoria conclusiva la ricorrente si è soffermata lungamente (da pag. 5 a pag. 21) sulle ragioni per le quali, a suo dire, l’amministrazione avrebbe dovuto escludere la controinteressata per la mancata presentazione delle dichiarazioni ex art. 38 D.Lgs. 163/2006 da parte del socio unico persona giuridica; ha poi riproposto quasi pedissequamente le argomentazioni sviluppate nel secondo motivo di ricorso. Ha, invece, sostanzialmente abbandonato le ulteriori censure minoritarie, risultate peraltro smentite in punto di fatto.
Quanto al primo motivo, in particolare, la ricorrente assume come dato di partenza il fatto che il capitale sociale di Se.Gr. S.r.l. è interamente in capo ad un unico soggetto, Se.Se. S.r.l., il cui capitale sociale, a sua volta, è ripartito, in quote uguali del 50%, ai Sigg.ri Ma.Fi. e Om.Me. (doc. 20 del fascicolo della ricorrente).
Tali soggetti sarebbero qualificabili "socio di maggioranza in caso di società con meno di 4 soci" per i quali la legge impone il possesso dei requisiti generali di cui all'art. 38 D.Lgs. 163/2006 e la relativa dichiarazione.
Ciò posto, preso atto che i suddetti soggetti, che rappresentano il socio unico, e l'amministratore unico, Sig. Ce., della società titolare dell'intero capitale sociale della aggiudicataria, non hanno presentato le dichiarazioni di cui all'art. 38, comma 1, lett. b), c), m-ter), del richiamato codice dei contratti, la ricorrente sostiene che l’amministrazione avrebbe dovuto escludere Se.Gr. S.r.l. in ossequio all'art. 38, comma 1, lett. b), c) e m-ter), che estende l'operatività delle cause di esclusione e quindi i relativi obblighi di attestazione, anche al socio unico persona fisica o al socio di maggioranza in caso di società con meno di 4 soci, nel caso il concorrente sia una società di capitali.
La questione, secondo la ricorrente, si incentra sul significato da attribuire alla locuzione "persona fisica", con cui la norma definisce il socio unico del soggetto che partecipa alla gara, significato che non potrebbe essere quello fatto palese dalla lettura testuale della norma in discorso, come ritenuto dal Collegio in sede di delibazione sommaria, bensì dovrebbe essere inteso in modo più elastico ed estensivo sì da far ricadere tale obbligo anche sul socio unico “persona giuridica”.
Secondo la ricorrente l’interpretazione letterale della norma in commento, pur seguita dalla giurisprudenza prevalente, si porrebbe in contrasto con la stessa ratio ad essa sottesa, nel senso che consentirebbe l’elusione di principi comunitari e costituzionali.
Di conseguenza la ricorrente propugna una diversa interpretazione, fatta propria dal TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, con la sentenza 29.06.2015, n. 1507, e conclude che, seguendo tale diversa interpretazione, la controinteressata dovrebbe essere esclusa dalla gara.
3.2. La tesi della ricorrente non può essere condivisa.
Innanzitutto deve rilevarsi che l'art. 38, comma 1, lett. b) e c), D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato dalla legge 12.07.2011, n. 106, di conversione del D.L. 70/2011, laddove circoscrive l'obbligo di verifica della sussistenza dei requisiti di moralità professionale, al socio unico “persona fisica”, non offre alcuna ambiguità interpretativa; pertanto, il socio unico "persona giuridica" non può che ritenersi escluso dal novero dei soggetti tenuti a rendere le dichiarazioni in parola pur dovendosi dare atto che una previsione di tal fatta può consentire elusioni tramite la creazione di società prive di uno scopo reale o società-schermo (Cons. Stato, Sez. V, 21.04.2016, n. 1593).
La giurisprudenza è pressoché unitariamente attestata su tale interpretazione (v. TAR Friuli-Venezia Giulia, 13.07.2016, n. 345; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 05.11.2015, n. 2849), che il Collegio ritiene doverosamente condivisibile in ossequio al principio per cui in claris non fit interpretatio.
D’altra parte la pronuncia del TAR lombardo, invocata dalla ricorrente, è rimasta un caso isolato atteso che lo stesso Tribunale, stessa sezione e stesso collegio, pochi giorni prima, si era espresso nel senso che l'obbligo dichiarativo posto dall'art. 38, D.Lgs. 163/2006, a carico del socio di maggioranza di società con meno di quattro soci deve ritenersi circoscritto ai soli soci persone fisiche e non anche al socio di maggioranza persona giuridica (TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 01.06.2015, n. 1287).
In ogni caso il Collegio rileva che, stante il principio di tassatività delle cause di esclusione, giammai l’amministrazione avrebbe potuto, senza incorrere (in quel caso si) in violazione di legge, escludere una concorrente sulla base di una interpretazione normativa che sarebbe risultata quanto mai discutibile, data la richiamata inequivocabilità della norma in commento.
Invero, da una parte l’amministrazione non avrebbe avuto alcun appiglio normativo, atteso che la lex specialis non ha previsto alcuna deroga al disposto di legge, in ipotesi ampliandone lo spettro applicativo, dall’altra, anche qualora avesse inteso aderire all’interpretazione prospettata ed auspicata dalla ricorrente, avrebbe dovuto necessariamente attivare il c.d. soccorso istruttorio a pagamento di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.Lgs. 163/2006 (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 08.02.2017 n. 2131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La tesi secondo cui l’affidabilità complessiva dell’offerta non andrebbe riguardata con riferimento al permanere dell’utile di impresa ma valutando aspetti singolarmente considerati, quali il costo del lavoro in rapporto alle ore lavorate ovvero agli scatti di anzianità e alle turnazioni, non può essere condivisa.
Segnatamente, nel richiamare l’ormai granitico principio per cui la sostenibilità dell’offerta va valutata nel suo complesso e non parcellizzandola nelle singole componenti, il Collegio rileva che è proprio la sussistenza di un utile di impresa, anche esiguo, a rendere, in definitiva, congrua l’offerta.
E’ necessario, infatti, che all'esito dell'analisi delle voci di costo il margine rimanga comunque positivo atteso che neanche l'esiguità dell'utile (comunque positivo) può essere ex se assunta quale ragione dirimente per affermare il carattere incongruo dell'offerta, laddove non si alleghino circostanze puntuali atte a dimostrare che il ridotto margine di utile costituisca comunque, e in base a specifici elementi, un indice univoco del carattere inattendibile dell'offerta.
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Il giudizio di anomalia dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica di esclusiva pertinenza dell'amministrazione ed esula dalla competenza del giudice amministrativo, che può sindacare le valutazioni della P.A. solo in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi errori di valutazione, ovvero valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto; in tal caso, il giudice di legittimità esercita il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione e di procedere ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, che costituirebbe un'inammissibile invasione della sfera della P.A..
La valutazione, inoltre, deve essere globale e sintetica e non concentrata esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono.
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3.3. Con il secondo motivo la ricorrente sostiene l’incongruità dell'offerta della controinteressata, soprattutto con riferimento al costo del lavoro indicato, che rappresenterebbe la voce prevalente nell'economia complessiva del servizio posto in gara.
In particolare la ricorrente si sofferma in prima battuta sul numero di ore annue (14.010), delle 44.460 previste dal bando, che Se. ha dichiarato di voler far eseguire a personale di nuova assunzione, quindi beneficiando di costi orari ridotti e di sgravi fiscali e contributivi, e conclude che si tratterebbe di stima errata per difetto non essendo possibile destinare soltanto 30.450 ore annue al personale da riassorbire, ai sensi dell'art. 10 del disciplinare di gara.
Per sostenere la sua tesi la ricorrente si affida ad una serie di calcoli basati sul coefficiente dettato dalla contrattazione collettiva, per concludere che, per i 19 addetti al servizio che dovrà assumere, la aggiudicataria non potrà beneficiare di alcuno sgravio fiscale contributivo, né li potrà inquadrare ad un livello inferiore a quello che già posseggono in base al trattamento normativo ed economico goduto con l'impresa uscente.
Da tale calcolo risulterebbe che le ore da far eseguire necessariamente al personale riassorbito ammontano a 32.205 annue (1695 x 19) e non alle 30.450 annue dichiarate da Se., con la conseguenza che le ore potenzialmente attribuibili al personale di nuova assunzione, dunque avvalendosi di sgravi fiscali e contributivi, ammontano a 12.255 e non a 14.010, come rappresentato dalla controinteressata.
Un secondo profilo di insostenibilità dell’offerta riguarderebbe il costo orario indicato, con riferimento alla turnazione e alla gestione degli scatti di anzianità.
Anche in questo caso la ricorrente si affida ad una serie di calcoli dai quali alla fine desume che risulterebbe un totale di ore da attribuire al personale riassorbito pari a 34.856, dato superiore a quello di 30.450 dichiarato da Se., per cui l'incidenza del costo orario dichiarata a giustificazione della propria offerta sarebbe fuorviante.
Dalle argomentazioni fin qui sintetizzate la ricorrente ricava l’incongruità dell’offerta della controinteressata che, nella memoria conclusiva, sostiene risiedere non nell’abbattimento dell’utile ma nel mancato rispetto dei trattamenti minimi salariali.
3.4. Il motivo, così come prospettato, è infondato.
La tesi della ricorrente secondo cui, in sostanza, l’affidabilità complessiva dell’offerta non andrebbe riguardata con riferimento al permanere dell’utile di impresa ma valutando aspetti singolarmente considerati, quali il costo del lavoro in rapporto alle ore lavorate ovvero agli scatti di anzianità e alle turnazioni, non può essere condivisa.
Segnatamente, nel richiamare l’ormai granitico principio per cui la sostenibilità dell’offerta va valutata nel suo complesso e non parcellizzandola nelle singole componenti, il Collegio rileva che è proprio la sussistenza di un utile di impresa, anche esiguo, a rendere, in definitiva, congrua l’offerta.
E’ necessario, infatti, che all'esito dell'analisi delle voci di costo il margine rimanga comunque positivo atteso che neanche l'esiguità dell'utile (comunque positivo) può essere ex se assunta quale ragione dirimente per affermare il carattere incongruo dell'offerta, laddove non si alleghino circostanze puntuali atte a dimostrare che il ridotto margine di utile costituisca comunque, e in base a specifici elementi, un indice univoco del carattere inattendibile dell'offerta (Cons. Stato, sez. V, 31.10.2016, n. 4562; id. 20.07.2016, n. 3271).
Nel caso di specie la ricorrente si sofferma ad analizzare solo singole voci dell’offerta della controinteressata, in rapporto alle giustificazioni addotte, ma non offre elementi utili a dimostrare che l’utile della stessa ne risulti azzerato o talmente esiguo da rendere inverosimile l’offerta, né tanto meno allega macroscopiche illegittimità commesse dall’amministrazione in termini di gravi errori di valutazione o di oggettivi errori di fatto.
Il Collegio deve ricordare che il giudizio di anomalia dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica di esclusiva pertinenza dell'amministrazione ed esula dalla competenza del giudice amministrativo, che può sindacare le valutazioni della P.A. solo in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi errori di valutazione, ovvero valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto; in tal caso, il giudice di legittimità esercita il proprio sindacato, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione e di procedere ad una autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, che costituirebbe un'inammissibile invasione della sfera della P.A..
La valutazione, inoltre, deve essere globale e sintetica e non concentrata esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.11.2016, n. 4755; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 06.10.2016, n. 4619; Cons. Stato, sez. V, 13.09.2016, n. 3855).
Conclusivamente, per quanto precede, il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 08.02.2017 n. 2131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Permanenza dell’interesse alla decisione del ricorso avverso l’ammissione di altro concorrente anche dopo che il ricorrente si è aggiudicato la gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione concorrente in gara – Impugnazione immediata – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Necessità - Operatore economico collocatosi in graduatoria in posizione potiore rispetto al ricorrente stesso – Irrilevanza ex se.
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione concorrente in gara – Impugnazione immediata – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Ricorrente risultato poi aggiudicatario – Permane l’interesse.
Ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è ammissibile il ricorso proposto nei confronti dell’operatore economico collocatosi in graduatoria in posizione potiore rispetto al ricorrente stesso, ritenendo sussistente un suo interesse simile, simmetrico e simultaneo, a contestare l’ammissione dell’altro concorrente, per non incorrere nella successiva preclusione prevista dalla stessa norma (1).
Permane l’interesse al ricorso proposto, ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, dal concorrente ad una gara pubblica avverso l’ammissione alla procedura di altro concorrente anche nel caso in cui il ricorrente stesso si sia nelle more aggiudicato la gara (2).

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   (1) Ha chiarito il Tar che il legislatore del nuovo Codice dei contratti, derogando al principio dettato dall’art. 100 c.p.c., secondo cui “per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”, ed innovando rispetto alla granitica giurisprudenza amministrativa in merito, ha onerato tutti i partecipanti ad una gara dell’impugnazione immediata delle ammissioni in una fase antecedente al sorgere della lesione concreta e attuale data dall’aggiudicazione, in ragione dell’impossibilità a far valere poi i profili inerenti all’illegittimità di tali determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale, proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata impugnata l’aggiudicazione; ciò, nella precipua ottica di cristallizzare e rendere intangibile la fase di gara relativa agli operatori economici ammessi a partecipare, ovvero, in altri termini, “a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara” (parere Consiglio di Stato, comm. spec., 01.04.2016, n. 855), in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione, evitando così un possibile annullamento dell’affidamento per un vizio a monte della procedura.
   (2) Ha chiarito il Tar che deve ritenersi ormai superata, per effetto del nuovo “super accelerato” rito appalti, l’orientamento tradizionale secondo cui se in corso di causa dovesse intervenire un fatto esterno incidente sull’interesse a ricorrere facendo venir meno l’utilità del ricorso anticipato (come l’aggiudicazione allo stesso ricorrente), l’azione diventerebbe improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, perché ormai incapace di portare un distinto vantaggio al ricorrente, meglio soddisfatto con il bene finale.
Ad avviso del Tar Lazio tale conclusione deve essere rivista alla luce dell’eccezionalità del nuovo rito, che ha definito un modello complessivo di contenzioso appalti a duplice sequenza, in cui il nuovo sottosistema accelerato viene disgiunto da quello successivo delle impugnazioni per altri vizi della procedura di gara (es. vizi del bando, della composizione della commissione, della documentazione prodotta ma verificata dopo l’aggiudicazione, dell’offerta stessa), ovvero per vizi relativi all’esito oggettivo della stessa.
Ed invero, se l’omessa impugnazione dell’ammissione degli altri concorrenti fa consumare il potere di dedurre le relative censure in sede di impugnazione dell’aggiudicazione, parimenti tali censure non potranno essere mosse dall’aggiudicatario che volesse paralizzare, con lo strumento del ricorso incidentale, quello principale proposto avverso l’affidamento dell’appalto, allorquando non abbia tempestivamente esercitato detto potere ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a..
Dichiarare, allora, il ricorso inammissibile, recte improcedibile, in ragione del raggiungimento del bene ultimo dell’aggiudicazione da parte del ricorrente, e quindi del mancato ottenimento di ulteriori benefici dall’esclusione dei controinteressati, non utilmente collocati –secondo la regola classica– comporterebbe da ultimo una situazione alquanto singolare, ove non del tutto violativa del diritto di difesa, per cui il ricorrente aggiudicatario si vedrebbe precluso l’esame delle proprie doglianze nei confronti degli altri concorrenti, i quali, invece, ben potrebbero ottenere l’accoglimento delle proprie ragioni contro l’ammissione del ricorrente, ed in via derivata, l’aggiudicazione ottenuta.
In altri termini, in ragione della separazione delle due fasi processuali, cui corrispondono anche riti diversi, la successiva aggiudicazione non può ritenersi tale da incidere sull’interesse a ricorrere ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. non essendo venuta meno l’utilità (o la ratio) del ricorso anticipato (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 08.02.2017 n. 2118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Potere di sospensione del procedimento – Effetti immotivati o sine die – Divieto – Cause di interruzione o sospensione del termine - Tipicità – Artt. 7, c. 2 e 21-quater l. n. 241/1990.
Il potere di sospensione del procedimento che deve riconoscersi in capo all’Amministrazione, non consente la determinazione di effetti sospensivi immotivati o sine die. Dal tenore degli artt. 7, c. 2 e 21-quater della l. n. 241/1990, infatti, si rileva che, pur circondata dai necessari presupposti delle "gravi ragioni" necessarie per la sua emanazione e del "tempo strettamente necessario" entro il quale può essere disposta, la sospensione di precedenti provvedimenti riveste un carattere pur sempre eccezionale atteso che un potere generalizzato di sospensione dell'efficacia degli atti amministrativi compete -in presenza di diversi presupposti- unicamente al giudice amministrativo in sede di tutela cautelare.
In definitiva, le cause di interruzione o sospensione del termine assegnato all'Amministrazione per provvedere sull'istanza del privato finalizzate all'adozione di un determinato provvedimento, sono tipiche e di stretta interpretazione e non lasciano spazio a sospensioni “sine die” motivate da qualsivoglia esigenza estranea al paradigma normativo che regola l'attività amministrativa (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 08.02.2017 n. 91 - link a www.ambientediritto.it).

PATRIMONIO: Manutenzione di strade e responsabilità.
E' in colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada, né provveda ad inibirne l'uso generalizzato.
Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione.

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4.3. La memoria depositata dal Comune di San Giovanni Rotondo deduce altresì, quanto al merito dell'impugnazione, che:
   - il giudice di merito non ha mai accertato se la strada ove avvenne il fatto fosse di uso pubblico o meno;
   - il relativo accertamento costituisce oggetto di un apprezzamento di fatto;
   - conseguentemente, esso non è censurabile in sede di legittimità.
Tali deduzioni sono in tesi corrette, ma non pertinenti rispetto al presente giudizio: esse, pertanto, non consentono di rigettare il ricorso.
La Corte d'appello di Bari, infatti, ha rigettato la domanda sul presupposto che la vittima patì lesioni cadendo su una strada di proprietà privata.
I ricorrenti hanno impugnato tale statuizione, deducendo che il Comune ha il dovere di vigilare e manutenere anche le are private aperte al pubblico transito di veicoli e pedoni.
Tale deduzione è sostanzialmente corretta, per le ragioni già indicate dalla relazione preliminare, e sopra trascritte.
Ne consegue che oggetto del terzo motivo di ricorso non è una quaestio facti (la proprietà privata o pubblica di un'area), ma una quaestio iuris (stabilire se l'obbligo di custodia gravante sull'amministrazione locale si estenda alle aree aperte al pubblico transito ma di proprietà privata).
4.4. Il ricorso deve quindi essere accolto limitatamente al terzo motivo.
Il giudice di rinvio, nel riesaminare la domanda, si atterrà al seguente principio di diritto: "
E' in colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada, né provveda ad inibirne l'uso generalizzato. Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale, se per la destinazione dell'area o perle sue condizioni oggettive, l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione" (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 07.02.2017 n. 3216).

APPALTI: Ricorso cumulativo nel rito appalti.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorso cumulativo – Avverso le singole aggiudicazioni di più lotti – Inammissibilità – Limiti.
Ai sensi dell’art. 120, comma 11-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è inammissibile il motivo di ricorso, proposto avverso l’aggiudicazione di più lotti, volto a contestare la validità e la congruenza delle offerte economiche presentate dalle concorrenti in relazione ai singoli lotti oggetto di aggiudicazione, essendo nel rito appalti tale ricorso cumulativo tollerato soltanto nell'ipotesi in cui vi sia articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (1).
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   (1) Ha chiarito il Trga Bolzano che il comma 11-bis dell’art. 120 c.p.a. ha recepito l’indirizzo giurisprudenziale consolidatosi già prima dell'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, alla stregua del quale in via eccezionale, è ammesso il gravame di più atti, con un solo ricorso, solo quando tra di essi sia ravvisabile una connessione procedimentale o funzionale (da accertarsi in modo rigoroso onde evitare la confusione di controversie con conseguente aggravio dei tempi del processo, ovvero l'abuso dello strumento processuale per eludere le disposizioni fiscali in materia di contributo unificato), tale da giustificare la proposizione di un ricorso cumulativo (Cons. St., Ad. plenaria, 27.04.2015, n. 5; id., sez. V, 13.06.2016, n. 2543; id. 26.08.2014, n. 4277; Tar Milano, sez. I, 12.01.2017, n. 69).
Nel contenzioso appalti, dunque, il ricorso cumulativo che investa più aggiudicazioni (relative a più lotti, assegnati a diverse imprese concorrenti) è tollerato dall'ordinamento, come eccezione alla regola dei ricorsi separati e distinti, soltanto nell'ipotesi in cui vi sia articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni. In questa situazione, infatti, si verifica una identità di causa petendi e una articolazione del petitum che, tuttavia, risulta giustificata dalla riferibilità delle diverse domande di annullamento alle medesime ragioni fondanti la pretesa demolitoria, che, a sua, volta ne legittima la trattazione congiunta.
Data la premessa il Tribunale, di tutti i motivi rivolti avverso le singole aggiudicazioni dei diversi lotti, ha giudicato ammissibile il solo motivo con il quale è stata denunciata errata applicazione di una disposizione del disciplinare di gara che si assume aver determinato la “retrocessione” della ricorrente in posizione non utile ai fini dell’aggiudicazione di due lotti assegnati alle imprese controinteressate (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 07.02.2017 n. 46 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, «grazia» dal Comune. L’esecuzione della condanna neutralizzata anche da un piano futuro.
Cassazione. Stop dei giudici alla demolizione del manufatto gestita in sede penale come pena accessoria.
Nuovi spiragli per chi ha commesso modesti abusi edilizi, subendo una condanna penale e rimanendo esposto alla demolizione attuata dallo stesso magistrato penale.

È la conseguenza della sentenza 06.02.2017 n. 5454, depositata dalla III Sez. penale della Corte di Cassazione. Si può infatti chiedere una sospensione in attesa di modifica del piano urbanistico.
L’autore di un abuso era stato condannato con emissione, quale sanzione amministrativa accessoria, dell’ordine di demolizione. L’esecuzione penale (art. 31, co. 9, Dpr 380/2001) avviene sotto la vigilanza della magistratura, che utilizza ausiliari tecnici e seleziona imprese. Procedura insidiosa perché tra l’altro non è soggetta a prescrizione (Cass. pen. 20.01.2016 n. 9949) e non esige la collaborazione del Comune.
Dopo la condanna il giudice penale aveva nominato un perito, che aveva individuato le modalità esecutive; ma nel frattempo, l’autore dell’abuso aveva chiesto la sospensione dell’esecuzione penale, sostenendo che appariva probabile l’approvazione di una sua richiesta di rilascio di permesso a costruire, a sua volta connessa a una pianificazione in corso di approvazione. Il giudice dell’esecuzione penale non aveva sospeso la riduzione in pristino, sicché era imminente l’affidamento dei lavori per l’eliminazione dell’abuso.
Eppure, osservava l’interessato, si trattava di sanatoria di “opere minori”, quali il ripristino di originarie tramezzature e la tamponatura di 3 finestre, per le quali era ragionevolmente prevedibile un esito favorevole del procedimento amministrativo di sanatoria.
Si è giunti in Cassazione, impugnando il diniego di sospensione dell’esecuzione, con esito favorevole al condannato, in quanto la Cassazione ricorda che in caso di condanna per manufatti edilizi privi di concessione, l’ordine giudiziale di demolizione delle opere deve essere sempre mantenuto, salvo che non risulti che la demolizione sia già avvenuta, che l’abuso sia stato sanato sotto il profilo urbanistico o che il consiglio comunale abbia deliberato che le opere devono essere conservate in funzione di interessi pubblici prevalenti sugli interessi urbanistici (art. 36, co. 5, del Dpr n. 380/2001).
Ma, sottolinea la Cassazione, basta anche ipotizzare una futura adozione di una delibera comunale incompatibile con la prescritta demolizione delle opere per ottenere una sospensione dell’intervento del giudice penale. La novità della pronuncia consiste nell’ammettere la sospensione non solo se già esistano provvedimenti amministrativi incompatibili con essa, ma anche se vi è il mero avvio di una procedura destinata poi ad evolversi in adozione.
Anche prima della revoca dell’esecuzione, può essere una semplice sospensione della sua esecutività, cioè un provvedimento temporaneo che può essere disposto già quando, appunto, sia concretamente prevedibile l’emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi incompatibili con il provvedimento demolitorio (articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Pescara Fi.An. De Ce. fu condannato per reati in materia edilizia, con emissione, quale sanzione amministrativa accessoria, dell'ordine di demolizione dei manufatti abusivi.
2. Con successiva istanza, formulata in executivis, lo stesso De Ce. chiese la sospensione dell'ordine di demolizione; istanza respinta con ordinanza in data 26/01/2016 dal Tribunale di Pescara, in qualità di giudice dell'esecuzione.
Dopo avere premesso che il perito, nominato nel procedimento di esecuzione, aveva rassegnato le sue conclusioni relativamente "alle modalità esecutive anche con riferimento al ripristino dei luoghi ed alla necessità di un piano esecutivo e di sicurezza", il tribunale abruzzese affermò che le questioni relative alla "eseguibilità della pronuncia" dovevano, allo stato, considerarsi "risolte". Quindi, il giudice dell'esecuzione rilevò che l'istante si era limitato a prospettare, a supporto della richiesta di sospensione, la probabile approvazione di una recente richiesta di rilascio di permesso a costruire, da valutare anche alla luce di pianificazione in corso di approvazione.
Pertanto, rilevando l'insussistenza di alcuno dei casi per i quali il procedimento esecutivo avrebbe potuto essere sospeso, non essendo emersa alcuna situazione di incompatibilità dell'esecuzione dell'ordine di demolizione con atti nel frattempo adottati dalla pubblica amministrazione, il tribunale, "approvati i progetti redatti dall'arch. D'An.", dichiarò la chiusura dell'incidente di esecuzione, mandando al Pubblico ministero per quanto di competenza.
3. Avverso l'ordinanza in esame, De Ce. propone ricorso per cassazione, a mezzo dei difensori fiduciari, deducendo due distinti motivi di impugnazione.
Con il primo vengono dedotti, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., i vizi di mancanza di motivazione e di vizio di violazione di legge per avere la decisione omesso di vagliare alcune acquisizioni procedimentali.
Dopo aver ricordato l'obbligo di motivazione incombente sull'ordinanza emessa in executivis, il ricorrente denuncia la mancata disamina di una serie di deduzioni, prospettate in esordio dell'udienza del 18/12/2015, in relazione alla possibile sanatoria delle cd. "opere minori", previste come necessarie al ripristino delle originarie tramezzature al piano terra ed al primo piano e della tamponatura di n. 3 finestre al primo piano.
Opere che secondo la difesa avrebbero dovuto essere escluse dall'intervento di demolizione in quanto sanabili in via ordinaria a norma dell'art. 36 del DPR n. 380/2001, come indicato dalla sentenza n. 121/2013 del TAR Abruzzo, Sezione di Pescara, essendo già stata inoltrata la richiesta di un permesso di costruire a sanatoria, avendo lo stesso Comune di Pescara attestato la sanabilità delle opere in questione ed essendo stata rilasciata l'autorizzazione paesaggistica da parte della Sovrintendenza BB.AA. della Regione Abruzzo in vista della sanatoria delle stesse. E peraltro, sulla base del progetto esecutivo depositato dal perito, che si era espresso a favore della effettiva sanabilità delle "opere minori", era stata sollecitata la ripresa dell'iter procedimentale delle richieste in questione.
Non rispondendo sulle questioni poste, il giudice dell'esecuzione avrebbe omesso di pronunciarsi su un profilo potenzialmente decisivo, dovendo farsi luogo alla sospensione del'esecuzione quando sia ragionevolmente prevedibile il prossimo esaurimento del procedimento amministrativo conseguente alla istanza di sanatoria.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce di avere chiesto la sospensione dell'ordine di demolizione e del procedimento di esecuzione alla luce del disposto dell'art. 5, comma 25, del Piano demaniale marittimo, adottato dalla Regione Abruzzo con delibera consiliare n. 20/4 del 24.02.2015, in attuazione dell'art. 2 della legge della Regione Abruzzo 17.12.1997, n. 141 ("Norme per l'attuazione delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo con finalità turistiche e ricreative").
In base al piano regionale, l'immobile per cui è processo sarebbe realizzabile, sul piano urbanistico, nel rispetto delle prescrizioni date dalla competente Soprintendenza BBCC, sicché la società del ricorrente avrebbe presentato istanza di permesso a costruire in data 17/12/2015, chiedendo al giudice dell'esecuzione di sospendere il giudizio ove avesse valutato potenzialmente accoglibile, se del caso previa richiesta al perito nominato, la domanda di permesso a costruire già proposta. E tuttavia, il giudice dell'esecuzione, ancora una volta, non avrebbe in alcun modo trattato la questione posta dal ricorrente, sicché l'ordinanza sarebbe affetta, anche sotto tale profilo, da grave vizio della motivazione.
4. Con requisitoria scritta depositata il 17/06/2016, il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo l'annullamento della ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Pescara, in funzione di giudice dell'esecuzione, per un nuovo giudizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
2. Il giudice della esecuzione, dopo avere esaminato la relazione prodotta dal perito, arch. D'An., concernente le modalità esecutive della disposta demolizione, del ripristino dello stato dei luoghi e della previsione di un piano esecutivo di sicurezza, ha escluso che sussistesse alcuno dei casi per i quali il procedimento esecutivo debba essere sospeso, dichiarando "chiuso l'incidente di esecuzione" e "mandando al P.M. per quanto di competenza".
Rileva, nondimeno, il Collegio che
in caso di condanna per la realizzazione di manufatti edilizi in assenza di concessione, l'ordine giudiziale di demolizione delle opere deve essere sempre mantenuto, salvo che non risulti che la demolizione sia già avvenuta, che l'abuso sia stato sanato sotto il profilo urbanistico o che il consiglio comunale territorialmente competente abbia deliberato che le opere devono essere conservate in funzione di interessi pubblici prevalenti sugli interessi urbanistici ai sensi dell'art. 36, comma 5, del DPR n. 380/2001.
 Orbene, l'ordinanza gravata, emessa all'esito di un'istruttoria nel corso della quale è emersa la presentazione di una richiesta di rilascio di permesso di costruire e di una pianificazione in corso di approvazione, "ha dichiarato chiuso l'incidente", con ciò respingendo la richiesta di sospensione dell'ordine di demolizione, senza in alcun modo motivare sulla questione essenziale prima evidenziata; ovvero se alla stregua della documentazione amministrativa acquisita potesse ipotizzarsi la futura adozione di una delibera comunale incompatibile con la prescritta demolizione delle opere.
In questo modo, la motivazione dell'ordinanza ha totalmente omesso di esplicitare per quale motivo dovesse escludersi non già l'esistenza di provvedimenti amministrativi incompatibili con la esecuzione della demolizione, allo stato da escludersi, quanto piuttosto l'avvio di una procedura, verosimilmente destinata ad evolversi nel senso dell'adozione dei citati provvedimenti, soprattutto considerando che oggetto dell'istanza era non già l'eventuale revoca dell'ordine di demolizione, quanto piuttosto una semplice sospensione della sua esecutività, che può essere disposta quando, appunto, sia concretamente prevedibile l'emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi incompatibili con il provvedimento demolitorio.

AMBIENTE-ECOLOGIALegno, lo scarto di lavorazione va considerato rifiuto. Ambiente. Il sottoprodotto va «provato».
Lo scarto di lavorazione rappresentato dalla segatura e dai trucioli di legno è rifiuto a meno che il loro produttore non dimostri che i requisiti richiesti dalla legislazione ambientale per la venuta a esistenza dei sottoprodotti siano soddisfatti.
In difetto, la sua cessione a terzi per lo smaltimento deve necessariamente avvenire con le dovute autorizzazioni.

È questo il principio di diritto espresso dalla III Sez. penale della Corte di Cassazione che, con sentenza 06.02.2017 n. 5442, ha giudicato fondato il ricorso del Procuratore della Repubblica di Asti con annullamento, per “violazione di legge”, della decisione assunta del Tribunale locale.
Infatti, il Tribunale astigiano aveva negato “apoditticamente” la qualifica di rifiuto alla segatura e ai truciolati di legno che erano stati affidati ad una ditta non autorizzata a gestire i rifiuti. Il Tribunale aveva fondato l'assoluzione dell'imputato sul fatto che i materiali lignei fossero costantemente ceduti ad altra società “dietro fatturato pagamento di denaro”, anziché riferirsi alla loro natura o alla loro destinazione “in ragione delle intenzioni del detentore” (che, nel caso di specie, coincideva con il produttore).
La Corte di cassazione, invece, ha condiviso l'approccio del Pm ricorrente, sicché lo scarto assume qualifica di rifiuto per il concretarsi di elementi positivi (l'oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti richiesti dall’articolo 184-bis, Dlgs 152/2006 per la venuta a esistenza dei sottoprodotti). Al fine di conseguire la trasfigurazione di un rifiuto in un sottoprodotto, infatti, non basta certo “un mero accordo con terzi ostensibile all'autorità (oppure creato proprio a tal fine)”.
La Corte di Cassazione sottolinea, infatti, che l'esistenza del rifiuto prescinde dal carattere oneroso o gratuito del disfarsi Non è la gratuità della cessione che trasforma il rifiuto in qualcosa che rifiuto non è. Nel momento in cui un rifiuto diventa tale, il conferimento deve essere effettuato da soggetti debitamente autorizzati alla relativa gestione.
La Corte riafferma che non ci si deve porre “nella sola ottica del cessionario del prodotto e della valenza economica” che costui attribuisce alla cosa “sì da essere disposto a pagare per ottenerla”. Quel che occorre, invece, è “verificare a monte” il rapporto tra il prodotto e il suo produttore e, soprattutto, la sua necessità o volontà di disfarsi del bene.
Diversamente, si creerebbero pericolose aree di impunità dove numerose condotte, oggettivamente integranti una fattispecie di reato, verrebbero ad essere dissimulate da accordi “dolosamente preordinati” a privare il bene di una qualifica che è stata acquisita a monte e che è “insuscettibile di essere cancellata”.
Non è la prima volta che la Corte di cassazione ascrive agli scarti delle lavorazioni in legno, rappresentati da segatura e truciolati, la qualifica di rifiuto. Infatti, ha affrontato la questione più volte con numerose e risalenti sentenze, tra le quali la stessa Corte cita: 51422/2014; 37208/2013; 48809/2012; 18743/2011
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017).
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MASSIMO
3. Il ricorso è fondato.
Come noto,
ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi; esattamente quel che accade con gli scarti di produzione, come nel caso di specie, salva la possibilità della diversa qualificazione in sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152 del 2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge, invero neppure ipotizzati nella sentenza impugnata (a: la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana).
Con particolare riferimento, poi, alla segatura ed ai truciolati, scarti delle lavorazioni in legno operate dalla "I. s.r.l.", la giurisprudenza di questa Corte ne ha costantemente affermato la natura di rifiuto (ex plurimis, Sez. 3, n. 51422 del 06/11/2014, D'Itri; Sez. 3, n. 37208 del 09/04/2013, Cartolano; Sez. 3, n. 48809 del 28/11/2012, Solimeno; Sez. 3, n. 18743 del 19/10/2011, Rosati, tutte non massimate), salvi i casi in cui il citato onere probatorio in senso contrario -all'evidenza incombente sull'interessato- risulti soddisfatto.
Orbene, con riguardo al caso in esame, si osserva che
il Tribunale di Asti è in effetti incorso nella denunciata violazione di legge, negando apoditticamente ai materiali in esame la qualifica di rifiuto non già con riguardo alla loro natura od alla loro destinazione in ragione delle intenzioni del detentore (in questo caso, coincidente con il produttore), ma facendo leva soltanto sul fatto che fossero costantemente cedute ad altra società dietro fatturato pagamento di danaro.
Il che, però
, come affermato dal Procuratore ricorrente, non risulta sufficiente per escludere la natura medesima di rifiuto, che, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis sopra citato), invero ravvisabili nel caso di specie, non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all'autorità (oppure creato proprio a tal fine), in questo caso sub specie di cessione a titolo oneroso, come se il negozio giuridico riguardasse l'oggetto stesso della produzione e non -come in effetti- proprio un rifiuto.
Ciò, peraltro, a prescindere dal "valore" economico o commerciale di questo, specie nell'ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica; d'altronde, come affermato dal Procuratore ricorrente e già sostenuto da questa Corte (Sez. 3, n. 15447 del 20/1/2015, Napolitano, non massimata), nell'indagine in esame -volta all'accertamento dell'effettiva natura di rifiuto- si deve evitare di porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto, e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare "a monte" il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene.
Opinare in termini diversi, al pari del primo Giudice, comporterebbe dunque la facile creazione di pericolose aree di impunità, nelle quali numerose condotte oggettivamente integranti una fattispecie di reato ben potrebbero esser dissimulate da accordi -dolosamente preordinati- volti a privare il bene di una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo penale, invero già "a monte" acquisita ed insuscettibile di esser cancellata.
La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio, affinché il Tribunale di Asti verifichi compiutamente la natura del materiale di cui trattasi, con ogni penale implicazione, a prescindere dagli accordi che, con riguardo allo stesso, l'imputato abbia in effetti raggiunto con terzi soggetti.

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOResponsabilità «soft» per dirigenti all’edilizia. Non c’è l’obbligo giuridico di impedire l’illecito ma è esigibile solo una vigilanza a posteriori sulle irregolarità.
Responsabilità diluite per i dirigenti dell’edilizia comunale che abbiano colposamente rilasciato un permesso di costruire illegittimo: non vi è infatti l’obbligo giuridico di impedire l’abuso edilizio.
A questa conclusione giunge la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza 06.02.2017 n. 5439), applicando l’articolo 40, c. 2, del codice penale, secondo cui chi non impedisce un evento è ritenuto responsabile dell’evento stesso se aveva l’obbligo di impedire ciò che è accaduto.
Il dirigente dell’area tecnica di un Comune che aveva rilasciato un permesso di costruire illegittimo non è stato perciò ritenuto responsabile della violazione edilizia perché non aveva appunto l’obbligo di impedirla. Un conto è la vigilanza sull’attività edilizia (art. 27 Dpr 380/2001), cioè l’attività successiva al rilascio del titolo edilizio, altro è l’attività di istruttoria e verifica, che avviene prima del rilascio del permesso e termina con il permesso medesimo.
La distinzione è stata applicata più volte: ad esempio, si è esclusa la responsabilità penale del capo dell’ufficio urbanistica in caso di «condotta commissiva» (per aver emanato provvedimenti istruttori o definitivi: Cass. 9281/2011), mentre scatta la responsabilità penale se, dopo una denuncia, non sono emessi provvedimenti interdittivi e cautelari (sospensione lavori, Cass. 36571/2011).
Secondo la magistratura c’è quindi responsabilità solo con specifica omissione, cioè il mancato compimento dell’azione che ci si attendeva da parte di un soggetto obbligato giuridicamente. Non c’è invece responsabilità nell’ipotesi in cui l’agente ha adottato una condotta «commissiva» anche se ha contribuito, con tale condotta, alla produzione dell’evento.
In materia edilizia l’art. 27 del Dpr n. 380 pone a carico del responsabile del competente ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, imponendogli di intervenire se viene accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità, attraverso la emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari. Il tecnico è quindi titolare di una posizione “di garanzia”, che gli impone di attivarsi per impedire l’evento dannoso.
Tuttavia, se è mancata una specifica denuncia (che avrebbe dovuto generare una sospensione lavori), ma vi è una condotta commissiva (il rilascio del permesso edilizio illegittimo), il tecnico comunale non risponde penalmente.
La distinzione tra momento del rilascio del permesso di costruire e quello del controllo successivo (con responsabilità del dirigente solo se manca il secondo), opera ovviamente nel caso in cui il dirigente stesso non ha contribuito (con dolo o colpa grave) a realizzare l’evento. In sintesi, se c’è un esposto su un permesso di costruire illegittimo, c’è responsabilità del dirigente che ometta di intervenire
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
1. Il ricorso è fondato.
2. Assorbente appare l'accoglimento del primo motivo di ricorso, concernente la qualifica di soggetto attivo dell'odierno ricorrente.
Invero, nonostante un risalente orientamento interpretativo affermasse che, in materia edilizia, risponde del reato di cui all'art. 20 della legge 28.02.1985 n. 47, ora sostituito dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il dirigente dell'area tecnica comunale che abbia rilasciato una concessione edilizia (ora permesso di costruire) illegittima, atteso che questi, in quanto incaricato in ragione del proprio ufficio del rilascio di quello specifico atto, è titolare in via diretta ed immediata della relativa posizione di garanzia che trova il proprio fondamento normativo nell'art. 40 cod. pen. (Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004, D'Ascanio ed altri, Rv. 228888), la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata nel ritenere che non è configurabile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cpv. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento [Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785, che, in motivazione, ha precisato che la titolarità della posizione di garanzia, discendente dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, ne determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari, ma non in caso di condotta commissiva; in senso analogo Sez. 3, n. 36571 del 21/06/2011, Garetto, Rv. 251242, secondo cui "Non è configurabile a carico del Sindaco alcuna responsabilità penale per non aver impedito lo svolgimento di attività abusive incidenti sull'assetto urbanistico e paesaggistico del territorio comunale, non sussistendo in capo al medesimo un generale dovere di vigilanza sulle attività in questione (in motivazione la Corte ha precisato che l'esclusione della "culpa in vigilando" del Sindaco discende dall'art. 107, comma terzo, lett. g) del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, che attribuisce tale vigilanza al dirigente di settore)"].
Invero, per potere ritenere configurabile la responsabilità ex art. 40 cpv. cod. pen., deve venire in rilievo una omissione (vale a dire, come è stato ritenuto dalla dottrina, "il mancato compimento dell'azione che si attendeva" da parte di un soggetto che era obbligato giuridicamente a compiere una determinata azione, che, se compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento), dovendo, invece, ritenersi al di fuori della previsione normativa l'ipotesi in cui l'agente abbia posto in essere una condotta commissiva, contribuendo con essa alla produzione dell'evento.
Tanto premesso, in materia edilizia non c'è dubbio che l'art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 ponga a carico del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull'attività urbanistico- dilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, imponendogli di intervenire ogni qualvolta venga accertato l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso la emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001). Egli è quindi certamente titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di attivarsi per impedire l'evento dannoso.
Tuttavia, al ricorrente, al di là del richiamo (improprio) all'art. 40 c.p., non si contesta di non essersi attivato, pur avendone l'obbligo, omettendo, ad esempio, in presenza di una specifica denuncia, i necessari provvedimenti cautelari ed interdittivi. Si contesta, invece, di aver posto in essere una condotta commissiva, mediante il rilascio di un permesso di costruire illegittimo, e di aver quindi consentito l'esecuzione di lavori in una zona vincolata, in quanto rientrante in fascia di rispetto. Si è quindi al di fuori della previsione dell'art. 40 cpv. cod. pen..
Giova chiarire che è indubbio che nel reato "proprio" di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 -i cui autori sono individuati, dall'art. 29 d.P.R. cit., nel committente, nel costruttore e nel direttore dei lavori)- possa concorrere l'extraneus.
Invero il precetto penale è diretto non a chiunque, ma soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto; tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art. 29, compreso il sindaco che con la concessione edilizia illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi (cfr., ex multis, Sez. 3 n. 996 del 15/10/1988).
È necessario, però, che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa).
Nella sentenza impugnata, invece, non viene individuata "alcuna forma di concorso o cooperazione", essendosi la Corte territoriale limitata ad evidenziare la illegittimità del permesso di costruire ed a far derivare da tale illegittimità la responsabilità del tecnico comunale ai sensi dell'art. 40 cpv. cod. pen..
La funzione di dirigente dell'area tecnica comunale che ha rilasciato un permesso di costruire illegittimo, dunque, non implica, in assenza di elementi di fatto indizianti un concorso consapevole, o quantomeno colposo, nella condotta, una responsabilità omissiva nella realizzazione di opere illegittime, in quanto il dirigente non è previsto tra i soggetti attivi del reato proprio indicati dall'art. 29 d.P.R. 380/2001, e, ai sensi dell'art. 27 d.P.R. cit., riveste una posizione di garanzia limitata alla vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale ed alla demolizione delle opere abusive, non già di carattere generale.

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante va riconosciuto l'obbligo dell'ente locale di concludere il procedimento repressivo sanzionatorio avviato con l’adozione dell’ordinanza di demolizione e spetta, nel contempo, al proprietario confinante la legittimazione a sollecitare l'adozione di provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive realizzate nella vicinanza della sua proprietà.
Ed infatti, in capo al comune, nella specie sussiste il potere, oltre che di vigilanza edilizia sul territorio, anche in ordine all’adozione dei provvedimenti repressivo sanzionatori conseguenti all’espletamento di tale controllo territoriale in particolare quando, come è avvenuto nel caso in esame, già sia stato adottato un intervento comunale espresso dichiarativo in ordine alla abusività o meno di opere edilizie (l’ordinanza di demolizione), tenuto conto che il proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio dei detti poteri e può pretendere, se non vengano adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il silenzio serbato sull'istanza e sulla successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente.

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... per la declaratoria dell’illegittimità del comportamento omissivo e del silenzio-inadempimento posto in essere dal Comune di Montecompatri con riguardo al mancato completamento della procedura repressivo sanzionatoria edilizia relative alle opere descritte nell’ordinanza comunale di demolizione n. 26 del 2002;
e per la conseguente declaratoria dell’obbligo da parte del Comune di provvedere al completamento della suindicata procedura.
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Premesso che i ricorrenti sono comproprietari di un immobile sito nel Comune di Montecompatri e confinante con l’immobile di proprietà del Signor Ag.Pe. (deceduto nel 2009) e della Signora Ig.Me. e quindi, ora, di proprietà di quest’ultima e dei figli Al.Pe. e Ma.Pe. e che detti ricorrenti hanno a suo tempo contestato al Comune di Montecompatri la realizzazione di opere abusive inerenti al balcone dell’appartamento dei vicini eseguite nel 2002;
Preso atto che in data 29.08.2002, con ordinanza n. 26, il Comune di Montecompatri ingiungeva ai coniugi Pe.-Me. la demolizione delle opere realizzate, senza titolo abilitativo, di ampliamento del preesistente balcone;
Considerato che gli odierni ricorrenti, in data 05.08.2006, inviavano istanza al Comune di Montecompatri per conoscere lo stato del procedimento repressivo sanzionatorio avviato con l’ordinanza di demolizione n. 26 del 2002 e che, non ottenendo risposta, proponevano ricorso giurisdizionale dinanzi a questo Tribunale, ai sensi dell’allora vigente art. 21-bis della l. 06.12.1971, n. 1034, che veniva accolto, ordinandosi al Comune di Montecompatri di emettere un provvedimento espresso in ordine alla istanza presentata dai ricorrenti, con sentenza n. 5802/2008 confermata anche in sede di appello dal Consiglio di Stato;
Specificato che la sentenza del TAR Lazio n. 5802/2008 precisava come il completamento della procedura repressivo sanzionatoria di cui alla ordinanza n. 26 del 2006 era, all’epoca, precluso dalla contemporanea pendenza di un giudizio di impugnazione nei confronti della predetta ordinanza di demolizione il quale, successivamente, è stato dichiarato perento con decisione del TAR Lazio n. 1979 del 2015;
Dato atto che gli odierni ricorrenti propongono nuovamente domanda giudiziale di silenzio inadempimento a fronte della mancata risposta alla istanza del 06.05.2015 con la quale essi chiedevano nuovamente al Comune di Montecompatri di concludere il procedimento repressivo sanzionatorio edilizio, avendo quest’ultimo solo risposto con una nota, del 03.06.2015, con la quale gli uffici riferivano che si sarebbero attivati quanto prima “per le procedure previste per legge al fine dell’emissione dei successivi atti conseguenti”;
Rilevato che, costituendosi in giudizio, sia il Comune di Montecompatri che i controinteressati hanno eccepito la inammissibilità del ricorso perché identico a quello già definito con la sentenza del TAR Lazio n. 5802/2008, violando così il principio del ne bis in idem, nonché la irricevibilità dello stesso perché l’odierno ricorso è stato notificato oltre il termine annuale previsto dall’art. 31 c.p.a. da farsi decorrere “dalla data di pubblicazione del decreto di perenzione del giudizio avente ad oggetto l’ordinanza di demolizione (27.02.2015), da intendersi come momento in cui è venuto meno ogni elemento ostativo” (così, testualmente, a pag. 2 della memoria di replica depositata dal Comune intimato), oltre alla infondatezza del ricorso nel merito, stante l’intervenuta risposta alla nuova richiesta del 06.05.2015 con la nota del 03.06.2015;
Ritenuto che:
   - il ricorso non è inammissibile per violazione del principio del ne bis in idem, in quanto, come è ben chiarito nella sentenza del TAR Lazio n. 5802/2008, a fronte del silenzio dell’amministrazione sull’istanza presentata dagli odierni ricorrenti e volta a conoscere l’esito del procedimento repressivo sanzionatorio avviato con l’ordinanza di demolizione n. 26 del 2006, sostanzialmente l’amministrazione era condizionata, nel completare detto percorso procedimentale, dalla pendenza di un giudizio avente ad oggetto la legittimità o meno di dell’ordinanza di demolizione.
Il presente ricorso, quindi, ha ad oggetto una nuova inerzia dell’amministrazione comunale, relativa al periodo successivo rispetto alla conclusione del percorso giurisdizionale di scrutinio della ridetta ordinanza (segnato dal decreto di perenzione del TAR Lazio n. 1979 del 2015) e collegato alla acquisita intangibilità giuridica della stessa, anche con riferimento alla sua efficacia;
   - il ricorso non è irricevibile in quanto, per come sopra si è già accennato, la circostanza nuova, costituita dal decreto di perenzione del TAR Lazio n. 1979 del 2015, relativo al giudizio avverso l’ordinanza di demolizione n. 26 del 2006, cristallizzando la validità di tale ultimo provvedimento e riespandendo elasticamente ogni sua efficacia, ha rinnovato l’obbligo in capo al Comune di Montecompatri di concludere il procedimento repressivo sanzionatorio edilizio in questione, indipendentemente da sollecitazioni da parte di terzi.
In siffatto contesto, l’istanza presentata dagli odierni ricorrenti in data 06.05.2015 al Comune per sollecitare la conclusione del (rinnovato) procedimento ha prodotto l’effetto di imporre all’ente locale di esprimersi nuovamente sull’esito della procedura che ha l’obbligo di completare, circostanza che la nota interlocutoria non ha, per l’oggettivo contenuto non decisionale che reca, fatto venire meno.
Ne deriva che il termine annuale per proporre l’azione ai sensi dell’art. 31 c.p.a. è decorso a far data dallo scadere di trenta giorni (ai sensi dell’art. 2, comma 2, l. 241/1990) dal 06.05.2015, sicché la notifica del ricorso qui in esame avvenuta in data 13.05.2016 è tempestiva;
   - il ricorso è fondato in quanto per giurisprudenza costante va riconosciuto l'obbligo dell'ente locale di concludere il procedimento repressivo sanzionatorio avviato con l’adozione dell’ordinanza di demolizione e spetta, nel contempo, al proprietario confinante la legittimazione a sollecitare l'adozione di provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive realizzate nella vicinanza della sua proprietà (cfr., da ultimo, TAR Campania, Napoli, Sez. II, 03.05.2016 n. 2174).
Ed infatti, in capo al Comune di Montecompatri, nella specie sussiste il potere, oltre che di vigilanza edilizia sul territorio, anche in ordine all’adozione dei provvedimenti repressivo sanzionatori conseguenti all’espletamento di tale controllo territoriale in particolare quando, come è avvenuto nel caso in esame, già sia stato adottato un intervento comunale espresso dichiarativo in ordine alla abusività o meno di opere edilizie (l’ordinanza di demolizione), tenuto conto che il proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio dei detti poteri e può pretendere, se non vengano adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il silenzio serbato sull'istanza e sulla successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 17.01.2014 n. 233);
Ritenuto quindi di poter accogliere il ricorso dichiarando l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione comunale sull’istanza diffida presentata dai ricorrenti in data 06.05.2015, con condanna del Comune di Montecompatri, e per esso dell’ufficio competente per materia, di fornire esplicito e motivato riscontro circa l'istanza-diffida di cui sopra, nel termine perentorio di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero, se anteriore, dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza;
Valutato il Tribunale di riservarsi, a fronte dell'eventuale inottemperanza, da parte del ridetto Comune, ai dettami della presente decisione, di nominare, su istanza di parte, un commissario ad acta, che a tanto provveda in vece dell'Amministrazione inadempiente;
Stimato che, per effetto del principio della soccombenza, dall'accoglimento del ricorso consegue la condanna del Comune resistente al pagamento, in favore della parte ricorrente, di spese e compensi di giudizio, liquidati come in dispositivo, oltre che alla rifusione, in favore della medesima parte, del contributo unificato se versato, potendo restare compensate le spese di giudizio con riferimento ai controinteressati, atteso che dell’inadempimento è responsabile il solo Comune di Montecompatri;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sez. II-quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, ordina al Comune di Montecompatri -e per esso all’ufficio competente per materia- di fornire esplicito e motivato riscontro alla diffida, presentata in data 06.05.2015, nel termine perentorio di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero, se anteriore, dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza.
Condanna il Comune di Montecompatri, in persona del Sindaco pro tempore, al pagamento, in favore dei ricorrenti, Signori Vi.Mo. e Pa.Me., delle spese di giudizio che liquida complessivamente in € 1.000,00 (euro mille/00), oltre accessori come per legge e al rimborso, in favore degli stessi ricorrenti, del contributo unificato, se versato.
Spese compensate con riferimento ai controinteressati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.02.2017 n. 2029 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATANel giudizio sull’accesso, il giudice amministrativo deve limitarsi a rilevare la sussistenza di un’esigenza di tutela che non sia manifestamente pretestuosa o priva di qualsivoglia nesso con il contenuto dei documenti richiesti.
In particolare, ai fini dell’esercizio del diritto di accesso in materia edilizia, è sufficiente il requisito della vicinitas, che sussiste in capo al confinante ma anche al frontista e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la zona in cui si trova l’edificio.
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Nella specie è evidente che la documentazione richiesta è funzionale alla tutela (in sede stragiudiziale o nelle varie sedi giurisdizionali) dei diritti e degli interessi legittimi di ricorrenti, in presenza dell’allegazione di una situazione di possibile illegittimità dell’attività edilizia in questione.
D’altra parte non si rilevano chiari indici di emulatività o pretestuosità della richiesta; indici che peraltro sono difficilmente apprezzabili nella presente sede, nella quale si controverte del riconoscimento, meramente strumentale e conoscitivo, del solo diritto di accesso agli atti, impregiudicate restando -ovviamente- le questioni di merito sottostanti.
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Quanto ai profili attinenti la riservatezza dei dati attinenti alla situazione dei controinteressati, va rilevato che essi non attengono a dati cd. sensibili, bensì a profili edilizi, e che comunque sono recessivi -ai sensi dell’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990- rispetto all’esigenza di garantire la tutela degli interessi giuridici dei ricorrenti.

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... per l'annullamento del diniego tacito del Comune di Artena di accesso ai documenti amministrativi richiesti con istanza depositata il 28.04.2016.
...
Considerato in fatto e in diritto:
1. I ricorrenti, agendo nella qualità di proprietari di immobili che prospettano sul terreno di proprietà della Soc. La. s.r.l., sul quale è in corso di realizzazione un intervento urbanistico-edilizio, impugnano il diniego tacito del Comune di Artena sulla domanda di accesso presentata il 28.04.2016, avente ad oggetto i seguenti atti:
- permessi di costruire assentiti alla soc. LA., con eventuali varianti, nonché provvedimenti, se esistenti, di proroga della relativa scadenza;
- atto pubblico di cessione delle aree destinate al Comune con gli estremi della sua trascrizione nei RR.II.;
- atto di fidejussione/garanzia prodotta dalla soc. LA. con il relativo rinnovo alla scadenza del 10.06.2014.
2. Con il presente ricorso, ritualmente notificato e depositato, gli istanti -rilevato il silenzio serbato dal Comune intimato sull’istanza- chiedono l’accertamento del diritto di accesso a tutti i documenti richiesti, finalizzato alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi, con specifico riguardo alla questione della legittimità delle opere in corso di esecuzione sul terreno confinante.
3. Il ricorso è stato chiamato per la discussione alla Camera di Consiglio del 17.01.2017, e quindi trattenuto in decisione.
4. Sussistono nella specie la legittimazione e l’interesse dei ricorrenti a chiedere e a ottenere l’accesso alla documentazione in questione, considerata la natura della situazione azionata in giudizio.
E’ noto che, nel giudizio sull’accesso, il giudice amministrativo deve limitarsi a rilevare la sussistenza di un’esigenza di tutela che non sia manifestamente pretestuosa o priva di qualsivoglia nesso con il contenuto dei documenti richiesti.
In particolare, ai fini dell’esercizio del diritto di accesso in materia edilizia, è sufficiente il requisito della vicinitas, che sussiste in capo al confinante ma anche al frontista e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la zona in cui si trova l’edificio (TAR Lazio, sez. II-quater, 15.04.2015, n. 5613).
Nella specie è evidente che la documentazione richiesta è funzionale alla tutela (in sede stragiudiziale o nelle varie sedi giurisdizionali) dei diritti e degli interessi legittimi di ricorrenti, in presenza dell’allegazione di una situazione di possibile illegittimità dell’attività edilizia in questione.
D’altra parte non si rilevano chiari indici di emulatività o pretestuosità della richiesta; indici che peraltro sono difficilmente apprezzabili nella presente sede, nella quale si controverte del riconoscimento, meramente strumentale e conoscitivo, del solo diritto di accesso agli atti, impregiudicate restando -ovviamente- le questioni di merito sottostanti.
Quanto ai profili attinenti la riservatezza dei dati attinenti alla situazione dei controinteressati, va rilevato che essi non attengono a dati cd. sensibili, bensì a profili edilizi, e che comunque sono recessivi -ai sensi dell’art. 24, comma 7, della L. n. 241/1990- rispetto all’esigenza di garantire la tutela degli interessi giuridici dei ricorrenti.
5. Il ricorso deve conclusivamente essere accolto.
Va quindi ordinato al Comune di Artena di consentire ai ricorrenti, entro trenta giorni dalla comunicazione della presente decisione in via amministrativa o dalla notificazione della stessa a cura della ricorrente medesima, l’accesso a tutti documenti richiesti con l’istanza, mediante estrazione delle relative copie.
6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.02.2017 n. 2025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALICompensi, no servizi indeterminati. Tar sui legali.
La procedura di gara per l'affidamento del servizio giuridico-legale di un comune, sebbene risulti esclusa dall'ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici, deve comunque rispettare le regole delle procedure selettive pubbliche della massima partecipazione e della leale concorrenza.

Lo ha precisato il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III con la sentenza 06.02.2017 n. 334.
Nel caso in esame l'Ordine degli avvocati di Palermo aveva impugnato gli atti della procedura di affidamento del servizio giuridico-legale per il Comune di Monreale, lamentando la violazione delle norme a tutela dell'autonomia degli avvocati, nonché degli articoli del codice deontologico.
Più precisamente tale bando, nella definizione di ciò che era compreso nel servizio, prevedeva l'obbligo del professionista di portare a termine, oltre la scadenza del contratto, tutte le cause instaurate «sino all'esecutività delle sentenze», senza previsione di ulteriore compenso. Lo svolgimento del servizio legale, quindi, era destinato a rimanere senza una definizione temporale e gratuito per un tempo indeterminato.
Il Tar accoglie il ricorso. Per quanto concerne i compensi previsti, se è vero che è venuto meno il sistema tariffario con il c.d. decreto Bersani, deve altresì darsi atto dell'orientamento espresso dal Consiglio di Stato secondo il quale un prezzo inferiore alla tariffa minima non risulterebbe decoroso per la professione.
Inoltre, osserva il Collegio, nella specie si verte nella particolare ipotesi della indeterminatezza dei servizi richiesti: tale previsione da un lato può generare un'accentuazione dell'esiguità del compenso, dall'altro «incide gravemente sulla stessa correttezza dell'attivazione, da parte del Comune, di una procedura di tipo comparativo che dovrebbe consentire, a tutti gli aventi diritto, di partecipare alla selezione in condizioni di parità e uguaglianza».
Alla luce di queste considerazioni si è, pertanto, ravvisata la violazione delle regole delle procedure selettive pubbliche della massima partecipazione e della leale concorrenza (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).
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MASSIMA
I – Osserva il Collegio, in via preliminare, che il ricorso introduce censure in ordine alla correttezza della legge di gara ed ai successivi atti della procedura, sicché esula dal presente giudizio ogni profilo attinente ai rapporti tra professionista e l’ordine di appartenenza -differentemente da come evidenziato da parte resistente- dovendo essere delimitato l’ambito della cognizione di questo giudice e la sua giurisdizione (cfr. Tar Campania-Salerno, Sez. II, 16.07.2014, n. 1383), con riferimento al petitum.
II – In primo luogo appare necessario procedere ad una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
La gara, su cui si verte, è stata indetta in esecuzione della determinazione dirigenziale n. 63 del 30.03.2016, ai sensi dell’All. B al cod. dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, con bando del 15.04.2016, in data dunque antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Il nuovo Codice ha chiarito, all’art. 17, l’esclusione della propria applicazione, sotto il profilo oggettivo, degli appalti e delle concessioni di servizi concernenti i servizi legali, pur essendo precisata la necessità del rispetto –tra gli altri- dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
Nella vigenza del previgente Codice dei contratti (di cui al d.lgs. 12.04.2006, n. 163) i servizi legali rientravano nell’All. II B tra gli appalti di servizi parzialmente esclusi.
La giurisprudenza amministrativa affermava, a riguardo, che anche sotto la soglia comunitaria la scelta del contraente avrebbe dovuto seguire le regole comunitarie della trasparenza, non discriminazione e pubblicità della procedura
(TAR Calabria n. 330/2007 e n. 15430/2006; Cons. di Stato n. 3206/2002), differenziandosi tra incarico occasionalmente svolto dal professionista e servizio legale esternalizzato (Autorità di Vigilanza, determinazione n. 4/2011; Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2730 dell’11.05.2012).
III – Orbene, tale quadro normativo rileva ai fini della presente decisione, poiché le censure di parte istante non risultano tese solo ad sottolineare la violazione delle specifiche norme poste a tutela dell’autonomia e del decoro della professione forense in quanto tali, ma anche sono dirette –sotto una ulteriore prospettazione– ad evidenziare come l’eccessiva riduzione del compenso (ipotizzata in riferimento alla possibile ‘espansione’ dei servizi che potranno essere richiesti al professionista) e la connessa mancanza di determinazione dell’oggetto dell’incarico, proprio in quanto incidenti sull’autonomia ed il decoro del professionista, sono stati elementi idonei a comprimere notevolmente la partecipazione alla procedura selettiva, alterandone in radice lo svolgimento in violazione delle regole della concorrenza e di buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione (motivo II).
In tale ottica, dunque, le censure svolte da parte ricorrente di cui al motivi II-IV possono essere esaminate congiuntamente per ragioni di sinteticità, perché –come detto- con esse gli istanti deducono l’illegittimità della procedura e prima ancora del bando, in quanto l’indeterminatezza del contenuto delle prestazioni richieste e la conseguente irrisorietà del compenso sarebbe in grado di compromettere, con il decoro dell’ordine e dei professionisti, il meccanismo della competizione.
IV – Osserva il Collegio, anche a seguito dell’ulteriore approfondimento proprio della presente fase di giudizio, come sollecitato dal CGA, con la richiamata ordinanza resa in sede di appello, che, nel senso dedotto da parte ricorrente, depone particolarmente il secondo punto dell’art. 5, co. 1, del disciplinare.
Con esso, a fronte della definizione di ciò che è compreso nel servizio (art. 2, co. 2, del disciplinare), si prevede l’obbligo del professionista di portare a termine, oltre la scadenza del contratto, tutte le cause instaurate “sino all’esecutività delle sentenze”, senza previsione di ulteriore compenso. Ne discende che lo svolgimento del servizio legale –dopo il decorso del biennio- è destinato a rimanere senza una definizione temporale e sostanzialmente gratuito per un tempo indeterminato.
Rileva, altresì, che l’art. 2 del disciplinare prevede nell’ambito dell’incarico anche il supporto giuridico–legale ai vari Uffici e l’emissione di pareri ai singoli dirigenti.
Siffatte disposizioni del disciplinare/schema di contratto allegato al bando assumono una connotazione specificamente rilevante, nell’esame congiunto con l’art. 9 del bando, che a fronte di una iniziale previsione della possibilità del professionista di svolgere il servizio presso il proprio studio, dispone che il medesimo dovrà garantire la propria presenza presso gli uffici comunali “ogni volta che l’amministrazione comunale o ritenga necessario”.
Ne discende palesemente contraddetta l’affermazione difensiva dell’Amministrazione in ordine alla libertà del professionista di svolgere la propria attività presso il suo studio. Ma valgono le ulteriori considerazioni che seguono.
Per un verso,
è senza dubbio vero quanto affermato dalla difesa comunale in ordine al venir meno del sistema tariffario con il c.d. decreto Bersani (d.l. 04.07.2006, n. 223, convertito in L. 04.08.2006, n. 248), che ha eliminato i minimi tariffari inderogabili spingendo in direzione della determinazione consensuale e omnicomprensiva del prezzo della prestazione, ed altresì, deve darsi, atto dell’orientamento espresso dal Consiglio di Stato con sentenza 22.01.2015, n. 238 con la quale si è menzionata criticamente la circostanza, accertata dall’AGCM (nell’ambito del procedimento all’esame) che la prospettiva ordinistica è tesa a ritenere che un prezzo inferiore alla tariffa minima non risulterebbe decoroso per la professione, comportando di fatto una reintroduzione dei minimi tariffari, eludendo così l’abolizione degli stessi disposta dal legislatore (art. 2 decreto legge 04.07.2006, n. 223, convertito in legge 04.08.2006, n. 248; art. 9 del decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito in legge 24.03.2012, n. 27).
Tuttavia, proprio nella richiamata pronunzia il Consiglio di Stato ha evidenziato i principi posti dalla Corte di giustizia nella sentenza 18.07.2013, C-136/12, tra i quali quello secondo cui la nozione eurounitaria di impresa include anche l’esercente di una professione intellettuale, rimettendo alla valutazione del giudice nazionale l’esame di comportamenti anticoncorrenziali (nel caso che veniva all’esame si verteva nella diversa ed opposta fattispecie in cui un ordine professionale aveva ancorato il decoro ad un livello tariffario).
Nella predetta pronunzia, peraltro, si è affermato anche che il principio secondo cui “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione” è già insito nell’ordinamento ed è previsto nell’art. 2233, cod. civ., che espressamente si occupa del contratto d’opera intellettuale, precisando che tale norma, contenuta nel codice civile, si indirizza, infatti, al singolo professionista, disciplinando i suoi rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto contrattuale, senza attribuire alcun potere di vigilanza agli Ordini in merito alle scelte contrattuali dei propri iscritti.
Tuttavia, nella specie si verte nella particolare ipotesi in cui l’indeterminatezza dei servizi richiesti al professionista, come emerge dalla lettura combinata del bando e del disciplinare (come sopra evidenziato), per un verso è suscettibile di generare un’accentuazione dell’esiguità del compenso, per altro incide gravemente sulla stessa correttezza della attivazione, da parte del Comune, di una procedura di tipo comparativo idonea a consentire, a tutti gli aventi diritto, di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del miglior contraente.
Deve condividersi, pertanto, la censura contenuta nel secondo motivo di ricorso, con cui la parte ricorrente deduce (unitamente e in modo connesso e conseguente, non solo la violazione dei principi in tema di equo compenso) anche la violazione delle regole delle procedure selettive pubbliche, della massima partecipazione della leale concorrenza, di cui –per ciò che rileva sotto il profilo dell’interesse– l’Ordine ed il suo Presidente in proprio assumono la lesione ai fini del più ampio concorrere di professionisti alla procedura medesima, nell’interesse della collettività unitariamente considerata coincidente con i principi di buona amministrazione e di garanzia della trasparenza e della par condicio, come elencati tra i principi comunque applicabili anche in ipotesi di procedure selettive nei settori esclusi dall’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici.
VI – Tali considerazioni sono sufficienti a comportare l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento degli atti gravati con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti, con conseguente condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite, che sono liquidate come in dispositivo.

APPALTI: Modifiche soggettive del Raggruppamento temporaneo per fallimento di una delle imprese che lo compongono.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di imprese – Modifiche soggettive – Quote di partecipazione al raggruppamento – Possibilità – Condizione.
Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di imprese – Fallimento di una delle imprese componenti il raggruppamento – Conseguenza.
In sede di gara pubblica le modifiche soggettive di una Associazione temporanea di imprese, anche in termini di quote di partecipazione al raggruppamento, sono ammissibili dopo la prequalificazione e in sede di presentazione dell’offerta, purché non siano strumentali a garantire una qualificazione che non esisteva in capo al raggruppamento sin dall’origine (1).
In sede di gara pubblica il fallimento di una delle imprese componenti un raggruppamento temporaneo di imprese prima dell’aggiudicazione definitiva non determina l’esclusione di tale raggruppamento, essendo possibile per detta Associazione continuare a prendere parte alla gara e ottenere l’aggiudicazione dopo aver tempestivamente espulso l’impresa fallita, senza incidere sui requisiti soggettivi in capo al raggruppamento (2).
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   (1) A supporto di tale conclusione il Tar ha richiamato quanto affermato da C.g.a. nella sentenza 22.10.2015, n. 642 nella quale si è ritenuto che “pur essendo possibili modifiche soggettive tra la fase di prequalificazione e quella della gara non potesse assumere rilievo sanante l’acquisizione avvenuta per la prima volta solo in sede di offerta dei requisiti prescritti e palesemente mancanti ab origine, atteso che la mandataria mancava di qualificazione per i lavori in categoria prevalente, suddivisi tra le sole mandanti”.
Nel caso sottoposto all’esame del Tar Brescia le altre due partecipanti al raggruppamento avrebbero potuto assumere in proprio la lavorazione, forti della loro qualificazione nella categoria principale, prevedendone il subappalto a soggetto qualificato e, quindi, al riparto delle lavorazioni tra i partecipanti può essere riconosciuto un rilievo del tutto relativo, non preclusivo della sua modificazione nella successiva fase di presentazione dell’offerta.
Ha ancora chiarito il Tar che la conformità all’ordinamento di tale principio trova riscontro anche nella sentenza del Cons. St., sez. V, 08.09.2010, n. 6490, in cui si è affermato che in sede di prequalificazione non sussiste la necessità di conoscere come sarà ripartita l’esecuzione dei lavori tra i partecipanti al raggruppamento, in quanto l’Amministrazione non esamina, in tale fase, il progetto offerto, ma si limita soltanto a verificare se il soggetto che chiede l’ammissione ha i relativi requisiti.
   (2) Ha ricordato il Tar che la possibilità di un tale mutamento “interno” è stata ritenuta legittima dal Consiglio di Stato (sez. VI, 13.05.2009, n. 2964), nella quale si chiarisce che “il divieto di modificazione soggettiva non ha l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara. Il rigore di detta disposizione va, infatti, temperato in ragione dello scopo che persegue, che è quello di consentire alla stazione appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari. Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è evidente come le uniche modifiche soggettive elusive del dettato legislativo siano quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento; in tal caso, infatti, le esigenze succitate non risultano affatto frustrate poiché l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi”.
Ha aggiunto il Tar che tale interpretazione non penalizza la stazione appaltante, non creando incertezze, né le imprese “le cui dinamiche non di rado impongono modificazioni soggettive di consorzi e raggruppamenti, per ragioni che prescindono dalla singola gara, e che non possono precluderne la partecipazione se nessun nocumento ne deriva per la stazione appaltante”.
Sul punto v. anche Cons. St., sez. VI, 16.02.2010, n. 842; id., sez. V, 10.09.2010, n. 6546; id., sez. IV, 06.07.2010, n. 4332 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 06.02.2017 n. 167 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBuoni pasto super. Sì al cumulo. Più concorrenza. Ok dal Consiglio di stato allo schema di decreto.
Buoni pasto fruibili in forma cumulativa nel lavoro pubblico e maggiore tutela nella concorrenza per gli affidamenti dei relativi appalti di servizi.

Il Consiglio di Stato ha espresso favorevole parere 03.02.2017 n. 287 allo schema di decreto dello Sviluppo economico sui servizi sostitutivi di mensa tramite erogazione dei buoni pasto, previsto dall'art. 144 del dlgs 50/2016, norma che consente di semplificare ed uniformare gli affidamenti dei servizi, l'erogazione dei buoni pasto e di garantire agli esercizi commerciali pagamenti puntuali e tutela dal rischio di ribassi eccessivi e ulteriori imposti dalle società che si aggiudicano i servizi.
Servizio sostitutivo. Lo schema di decreto (Schema di decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, concernente il "Regolamento recante disposizioni in materia di servizi sostitutivi di mensa, in attuazione dell'articolo 144, comma 5, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50") individua con precisione l'oggetto del servizio emissione di buoni pasto, che consiste nell'attività finalizzata a rendere di dipendenti pubblici, per il tramite di esercizi convenzionati, il servizio sostitutivo di mensa aziendale.
In particolare i servizi sostitutivi di mensa sono le somministrazioni di alimenti e bevande e le cessioni di prodotti alimentari pronti per il consumo effettuate dagli esercizi aderenti ed il buono pasto è il documento di legittimazione, anche in forma elettronica al dipendente, ai sensi dell'articolo 2002 del codice civile, il diritto a ottenere il servizio sostitutivo di mensa per un importo pari al valore del buono medesimo, in modo che l'esercizio convenzionato provi l'avvenuta prestazione nei confronti delle società di emissione.
Cumulabilità. Possibilità ai dipendenti pubblici di fruire dei buoni pasto in modo cumulativo, entro un tetto massimo di dieci buoni pasto. Il Consiglio di stato apprezza questa scelta, sulla base di un approccio realistico e tecnico. Sul piano fattuale, infatti, Palazzo Spada osserva che il divieto di cumulo dei buoni pasto previsto dalla disciplina previgente era sostanzialmente inapplicato. Meglio, quindi, consentire l'uso cumulativo, limitato comunque a non oltre il numero complessivo di dieci buoni pasto, sebbene per i giudici di Palazzo Spada potrebbe essere opportuno ridurre di poco il limite dei dieci buoni previsto.
In ogni caso, la cumulabilità è da considerare opportuna «sia in considerazione della circostanza che, nella maggioranza dei casi, l'importo del buono fissato non consente, stante il valore facciale, di poter usufruire di un pasto completo, sia ritenendo maggiormente rispondente a criteri di ragionevolezza ed equità consentire all'utente di scegliere, ove lo ritenga, di utilizzare più buoni pasto ai fini della prestazione alla quale ha diritto».
No all'indicazione nominativa del fruitore. Il parere apprezza anche la scelta del Ministero di non accogliere la richiesta della grande distribuzione di prescrivere l'indicazione nominativa del titolare su tutti i buoni pasto, per quanto essa è indirettamente prevista per i buoni pasto elettronici.
Secondo Palazzo Spada andava evitato di introdurre elementi di complicazione pratica rispetto all'attuale assetto: infatti l'indicazione nominativa non è sempre presente sui buoni pasto cartacei già in uso e alcuni datori di lavoro hanno evidenziato la necessità di non chiedere l'indicazione dei nominativi dei dipendenti sui buoni anche per evitare potenziali problemi relativamente alla tutela dei dati personali.
Tutela della concorrenza. Il regolamento ministeriale impone il divieto alle società emettitrici dei buoni, aggiudicatarie del servizio sostitutivo di mensa, di richiedere agli esercizi convenzionati uno sconto incondizionato più elevato di quello dichiarato in sede di offerta ai fini dell'aggiudicazione o in sede di conclusione del contratto con il cliente.
Questo, all'evidente scopo di evitare agli esercizi condizionati condizioni economiche gravose o, comunque, non convenienti, che finiscono per alterare la concorrenza e per rendere la distribuzione territoriale del servizio incompleta ed inefficiente. Il regolamento precisa che lo sconto incondizionato remunera tutte le attività necessarie e sufficienti al corretto processo di acquisizione, erogazione e fatturazione del buono pasto.
Puntualità nei pagamenti. Il regolamento impone che il termine di pagamento deve essere indicato negli accordi tra società emettitrice ed esercizio convenzionato. Introdotta una disposizione che richiama l'applicabilità anche a tali termini di pagamento delle disposizioni del dlgs 231/2002, come modificato dal dlgs 192/2012 (articolo ItaliaOggi del 04.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di Regolamento sui servizi sostitutivi di mensa (c.d. buoni pasto).
Il Consiglio di Stato ha reso parere favorevole con osservazioni sullo schema di decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero delle infrastrutture dei trasporti, sui servizi sostitutivi di mensa tramite erogazione dei buoni pasto, ai sensi dell’art. 144 del nuovo Codice dei contratti pubblici.
Il parere ha condiviso la ratio generale dell’intervento, ispirata all’aumento della concorrenza e delle possibilità di fruizione del servizio da parte dell’utenza. Apprezzamento è stato espresso per il metodo di consultazione delle categorie di operatori interessati.
Il parere si è soffermato, tra l’altro, sul superamento del divieto assoluto di cumulabilità dei buoni pasto, attualmente previsto e sostanzialmente inapplicato. Il nuovo decreto (Schema di decreto del Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, concernente il "Regolamento recante disposizioni in materia di servizi sostitutivi di mensa, in attuazione dell'articolo 144, comma 5, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50") consente di cumulare l’utilizzo dei buoni entro il limite di 10. Il Consiglio di Stato condivide il principio, che è frutto di un accordo con le parti sociali e recepisce una esigenza diffusa, dovuta ai costi effettivi del pasto rispetto al valore dei buoni.
Suggerisce però una “pur lieve riduzione” del limite dei 10, al fine di evitare “effetti non propriamente neutri sulle diverse categorie di esercizi” e rischi legati al possibile “snaturamento delle caratteristiche del buono pasto”, che resta un titolo “rappresentativo del servizio sostitutivo di mensa” e non può essere utilizzato come “una sorta di buono spesa universale e surrogato del danaro contante”.
Il parere ha condiviso la scelta di non introdurre, per i titoli “non elettronici”, l’obbligo di indicazione sul buono del nominativo del titolare. È una scelta che segue una “apprezzabile ottica di semplificazione” e che non pregiudica le finalità di accertamento, assicurate comunque dall’obbligo di firma del titolare al momento dell’utilizzo.
La Commissione speciale ha reso parere favorevole anche alle misure contro il ritardo nei pagamenti agli esercizi convenzionati, salvi alcuni miglioramenti del testo, per renderle ancora più efficaci.
E’ stato inoltre affronta il fenomeno dell’aumento indiscriminato dei “servizi aggiuntivi” richiesti dalle società emettitrici di buoni pasto agli esercenti, che comporta una traslazione sulla rete degli esercizi convenzionati degli elevati ribassi presentati dalle stesse società emittenti in sede di offerta economica. Per contenere tale criticità, il parere suggerisce una riformulazione che, in linea con quanto già osservato anche dall’ANAC, limiti i “servizi aggiuntivi” ammessi solo a quelli “che consistono in prestazioni ulteriori rispetto all’oggetto principale della gara e abbiano un’oggettiva e diretta connessione intrinseca con l’oggetto della gara”.
Da ultimo, il Consiglio di Stato ha suggerito un adeguato monitoraggio sull’efficacia del nuovo regime e ha ricordato che l’adozione del decreto è particolarmente urgente, poiché colma una lacuna normativa generatasi sin dall’aprile 2016, con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti.
Per evitare situazioni di stallo delle procedure di gara, attesa la dimensione economica del fenomeno, la Commissione speciale ha suggerito al Ministero -“se sussistono i presupposti, anche di fattibilità tecnica”- di “contenere maggiormente” il termine di entrata in vigore delle nuove norme (che lo schema fissa in 60 giorni) (Consiglio di Stato, comm. spec., parere 03.02.2017 n. 287  - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVII dati del fisco? Senza segreti. Il fatto che serva elaborarli non deve frenare l'accesso. Il Tar Puglia è intervenuto sulla richiesta di una donna in odore di separazione.
L'Agenzia delle entrate non può negare i dati sui rapporti finanziari richiesti da un contribuente sul rilievo che le informazioni non sono disponibili così come volute ma richiedono invece un'elaborazione, dunque nuovo lavoro per gli uffici dell'amministrazione finanziaria. Il fisco dunque deve tirare fuori le carte che servono alla moglie per esercitare un diritto nei confronti del marito nell'ambito della controversia giudiziaria.
Entro 30 giorni la donna vicina alla separazione ha diritto di sapere dalle Entrate quanto guadagna l'uomo. E la presenza di figli minori prevale sul diritto alla riservatezza del padre perché pende la causa all'esito della quale sarà determinato l'assegno di mantenimento. Attenzione, però: la signora non può ottenere copia degli atti ma ha soltanto titolo a vederli.

È quanto emerge dalla sentenza 03.02.2017 n. 94, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Interesse concreto. Accolto il ricorso della donna dopo il no delle Entrate, secondo cui le «comunicazioni» sui rapporti finanziari dell'ex non costituirebbero documenti per i quali si può chiedere l'accesso all'amministrazione in base alla legge sulla trasparenza. In realtà è l'articolo 7 del decreto sull'anagrafe tributaria a disciplinare in modo compiuto la forma, i contenuti e le modalità di trasmissione delle «comunicazioni» alle quali si riferisce l'Agenzia.
E il dpr 605/1973 regola anche conservazione, tenuta, destinazione e possibili impieghi dei dati contenuti nei database. Insomma: l'amministrazione non può sostenere che si tratta di atti interni privi di ogni rilevanza giuridica né che si tratti di mere informazioni rispetto alle quali non si può chiedere agli uffici un'attività di elaborazione o di ricerca.
Assetto familiare. Nel nostro caso, d'altronde, la signora dimostra che la causa di separazione dal marito risulta in corso e dunque ha diritto ad accedere alla documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale dell'altro coniuge per tutelare il proprio interesse giuridico. Ed è quindi un'esigenza di tutela è attuale e concreta, non semplicemente ipotizzata.
La moglie sostiene che il marito non collabora al ménage e sta accumulando risparmi con i soldi che sottrae alla famiglia. Risultato? La tutela degli interessi economici e della serenità dell'assetto familiare consente allora la compressione delle esigenze del marito rispetto ai dati sensibili contenuti nelle richieste avanzate dalla moglie.
In definitiva si configurano l'eccesso di potere e la violazione della normativa sulla trasparenza denunciate nel ricorso della donna. All'Agenzia delle entrate non resta che pagare le spese processuali e il contributo unificato aggiuntivo (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive su aree dichiarati di notevole interesse pubblico - Illegittimità costituzionale 181, c. 1-bis, del D.Lgs. n. 42/2004 - Effetti - Artt. 142, 146 e ss., 181, c. 1-bis, D.Lgs. n. 42/2004 - Artt. 44, lett. e), 72 e 95 D.P.R. n. 380/2001 e 734 cod. pen..
L'illegittimità costituzionale dell'art. 181, comma 1-bis, lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui, anche quando non risultino superati i limiti quantitativi previsti dalla successiva lettera b), punisce con la sanzione della reclusione da uno a quattro anni, anziché con le pene più lievi previste dal precedente comma 1- che rinvia all'art. 44, comma 1, lettera e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A)- colui che, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su immobili o aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori.
Pertanto, a seguito dell'intervento del Giudice delle leggi, ai fini dell'integrazione dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, non è più sufficiente che la condotta ricada su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori o su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142, essendo anche necessario che le opere realizzate siano di notevole impatto volumetrico e che superino, dunque, limiti quantitativi previsti dalla lettera b) dell'art. 181, comma 1-bis (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.02.2017 n. 4912 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Termine per impugnare l’ammissione alla gara dei concorrenti.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione alla gara di concorrente poi risultato aggiudicatario – Omessa tempestiva impugnazione ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Impugnazione dell’aggiudicazione – Motivi rivolti avverso l’ammissione – Irricevibilità del ricorso.
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione alla gara e esclusione – Impugnazione immediata ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Pubblicazione atti sul profilo del committente ex art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 – Termine di due giorni dall’adozione del provvedimento – Natura ordinatoria.
E’ irricevibile il ricorso proposto avverso l’aggiudicazione di una gara pubblica nel quale si sollevano censure avverso l’ammissione alla procedura dell’aggiudicataria, censure che invece avrebbero dovuto essere tempestivamente proposte nel termine di trenta giorni dalla comunicazione del relativo provvedimento ai sensi del comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (1).
Ha natura ordinatoria il termine di due giorni, previsto dall’art. 29, comma 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, per la pubblicazione sul profilo del committente del provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali, termine finalizzato a garantire la piena conoscenza di tali determine e la loro immediata impugnazione ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. (2).

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   (1) Ha ricordato il Tar che l'art. 120, comma 2-bis, c.p.a. prevede l’impugnativa immediata dei provvedimenti che determinano le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa. Per queste ipotesi il comma 6 bis dell'art. 120 c.p.a. delinea un rito "superspeciale", che va celebrato in camera di consiglio entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, rendendolo applicabile esclusivamente ai casi di censura dei provvedimenti di ammissione ed esclusione dalla gara in ragione del possesso (o mancato) dei requisiti di ordine generale e di qualificazione per essa previsti e non per l’impugnazione del successivo provvedimento di aggiudicazione della gara (Tar Napoli, Sez. VIII, 19.01.2017, n. 434).
La previsione di un rito “superaccelerato” per l’impugnativa dei provvedimenti di esclusione ed ammissione è evidentemente volta, nella sua ratio legis, a consentire la pronta definizione del giudizio prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione; ovverosia, in sostanza, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione. Al tempo stesso il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. pone evidentemente un onere di immediata impugnativa dei provvedimenti in esame, a pena di decadenza, non consentendo di far valere successivamente i vizi inerenti agli atti non impugnati.
In sostanza, una volta che la parte interessata non ha impugnato l’ammissione o l’esclusione non potrà più far valere i profili inerenti all’illegittimità di tali determinazioni con l’impugnativa dei successivi atti della procedura di gara, quale, come nel caso di specie, il provvedimento di aggiudicazione.
Ha aggiunto il Tar che stante la ratio acceleratoria sottesa all’art. 120 c.p.a. -finalizzata alla sollecita definizione del processo in una materia rilevante come quella degli appalti, in piena conformità con il principio di ragionevolezza dei tempi del processo e, in ultima istanza, del principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, che trova eco nell’art. 24 e 113 Cost., oltre che nell’art. 1 c.p.a.– non può porsi una questione di costituzionalità e di compatibilità comunitaria della disciplina che prevede l’onere di immediata impugnativa, entro trenta giorni, dell’atto di ammissione alla gara in relazione alla piena conoscibilità del provvedimento, stante la comunicazione dell’avvenuta ammissione, riportante gli estremi della stessa.
Al limite si potrebbe porre una questione di coordinamento con la normativa che disciplina l’accesso agli atti, comunque superabile in base all’istituto della proposizione dei motivi aggiunti per i profili di illegittimità conosciuti successivamente per effetto dell’integrale conoscenza gli atti.
   (2) Ha aggiunto il Tar che costituisce mera irregolarità la mancata indicazione dell’ufficio, o il collegamento informatico ad accesso riservato, dove sono disponibili i relativi atti (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.02.2017 n. 696 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nullità della previsione del bando di esclusione dalla gara per l’affidamento di un appalto servizio per omesso sopraluogo.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Appalto servizi – Omesso sopralluogo – Previsto a pena di esclusione – Art. 83, d.lgs. n. 50 del 2016 – Illegittimità.
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Dichiarazione del legale rappresentante di assenza di pregiudizi penali di terzi – Omissione – Soccorso istruttorio – Applicabilità.
Il concorrente ad una gara pubblica per l’affidamento di un appalto di servizi di refezione scolastica non può essere escluso per non avere effettuato il sopralluogo, anche se tale sopralluogo è stato previsto a pena di esclusione dalla lex specialis di gara con clausola che è quindi nulla ai sensi del art. 83, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non essendo riconducibile alle cause tassative di esclusione
Nelle gare d'appalto l'obbligo di dichiarare l'assenza dei "pregiudizi penali" è da considerarsi assolto dal legale rappresentante dell'impresa anche riguardo ai terzi, compresi i soggetti cessati dalla carica, specie quando la legge di gara non richieda la dichiarazione individuale di detti soggetti; l’omessa dichiarazione costituisce irregolarità rispetto alla quale opera il c.d. soccorso istruttorio, non essendo in presenza di un vizio tale da non consentire l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della documentazione ai sensi del citato comma 9 dell’art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.

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   (1) Ha chiarito il Tar che l’art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 codifica i principi, di elaborazione giurisprudenziale, di divieto di aggravio del procedimento di evidenza pubblica, di massima partecipazione alle gare di appalto e di interpretazione in quest’ottica delle clausole ambigue della lex specialis. Dal tenore della citata disposizione si evince che il Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per violazioni meramente formali, costituendo “cause di esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da espresse previsioni di legge.
La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato (A.P. 25.02.2014, n. 9) –già in relazione all’art. 46, comma 1-bis, del previgente Codice– certamente meno restrittivo in punto di cause di esclusione rispetto al richiamato art. 83 del nuovo Codice, ha interpretato in maniera sostanzialistica il principio di tassatività delle stesse, ritenendo sussistente una causa di esclusione implicita in ogni norma imperativa che preveda un espresso obbligo o un divieto a carico della candidata alla selezione per il conferimento di un appalto pubblico.
Allo stesso modo, con parere del 30.09.2014, n. 50, l’ANAC ha precisato, proprio in riferimento a un caso praticamente identico a quello posto all’esame del Tribunale, che mentre nell’ambito di una procedura per l’affidamento di lavori pubblici, la previsione della legge di gara che subordina la partecipazione al sopralluogo sulle aree e gli immobili interessati non viola il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto, di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in quanto puntualmente giustificata da una previsione contenuta nell’art. 106, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, altrettanto non può dirsi per gli appalti di servizi dove, in assenza di una specifica prescrizione, la legittimità di un’analoga previsione a pena di esclusione inserita nella lex specialis deve essere valutata in concreto e la sanzione dell’esclusione collegata a un simile adempimento può essere considerata legittima solo quando vi siano ragioni oggettive (ostese o immediatamente percepibili) che possano far presumere l’assoluta inidoneità dell’offerta, se formulata in assenza della preventiva visione dei luoghi di esecuzione dell’appalto.
Né il quadro normativo è mutato di seguito all’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti, posto che, intanto, il comma 8 del richiamato art 83, come premesso, indica ipotesi ancora più circoscritte rispetto a quelle richiamate dall’art. 46, comma 1-bis, del vecchio testo e, inoltre, allo stato, anche l’art. 106 del Regolamento del Codice (che concerne comunque la diversa ipotesi di appalti di opere pubbliche) è stato abrogato, così come stabilito dall’art. 217, comma 1, lett. u), n. 2), d.lgs. n. 50 del 2016, che ha operato un’abrogazione in parte immediata e in parte differita del detto Regolamento.
   (2) Tar Catanzaro, sez. I, 21.07.2016, n. 1575 (
TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 02.02.2017 n. 234 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
IX. - Ciò premesso in punto di fatto, il Collegio osserva che, con riferimento alle cause di esclusione e al cd. soccorso istruttorio, l’art. 83 del D.lgs. n. 50/2016 così prevede: “8. Le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità, congiuntamente agli idonei mezzi di prova, nel bando di gara o nell'invito a confermare interesse ed effettuano la verifica formale e sostanziale delle capacità realizzative, delle competenze tecniche e professionali, ivi comprese le risorse umane, organiche all'impresa, nonché delle attività effettivamente eseguite. I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle.
9. Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica, obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 5.000 euro. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere, da presentare contestualmente al documento comprovante l'avvenuto pagamento della sanzione, a pena di esclusione. La sanzione è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione. Nei casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la procedura di cui al periodo precedente, ma non applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa
”.
Com’è noto,
la disposizione codifica i principi, di elaborazione giurisprudenziale, di divieto di aggravio del procedimento di evidenza pubblica, di massima partecipazione alle gare di appalto e di interpretazione in quest’ottica delle clausole ambigue della lex specialis.
Dal tenore della citata disposizione si evince che
il Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per violazioni meramente formali, costituendo “cause di esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da espresse previsioni di legge.
La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato –già in relazione all’art. 46, comma 1-bis, del previgente Codice– certamente meno restrittivo in punto di cause di esclusione rispetto al richiamato art. 83 del nuovo Codice, ha interpretato in maniera sostanzialistica il principio di tassatività delle stesse, ritenendo sussistente una causa di esclusione implicita in ogni norma imperativa che preveda un espresso obbligo o un divieto a carico della candidata alla selezione per il conferimento di un appalto pubblico (si veda in particolare quanto statuito in proposito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 25.02.2014 n. 9).
Allo stesso modo, con parere del 30/09/2014 n. 50, l’ANAC ha precisato, proprio in riferimento a un caso praticamente identico a quello posto all’esame del Collegio, che
mentre nell’ambito di una procedura per l’affidamento di lavori pubblici, la previsione della legge di gara che subordina la partecipazione al sopralluogo sulle aree e gli immobili interessati non viola il principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto, di cui all’art. 46, comma 1-bis d.lgs. n. 163/2006, in quanto puntualmente giustificata da una previsione contenuta nell’art. 106 del d.P.R. n. 207/2010, altrettanto non può dirsi per gli appalti di servizi dove, in assenza di una specifica prescrizione, la legittimità di un’analoga previsione a pena di esclusione inserita nella lex specialis deve essere valutata in concreto e la sanzione dell’esclusione collegata a un simile adempimento può essere considerata legittima solo quando vi siano ragioni oggettive (ostese o immediatamente percepibili) che possano far presumere l’assoluta inidoneità dell’offerta, se formulata in assenza della preventiva visione dei luoghi di esecuzione dell’appalto.
Né il quadro normativo è mutato di seguito all’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, posto che, intanto, il richiamato comma 8 dell’art. 83, come premesso, indica ipotesi ancora più circoscritte rispetto a quelle richiamate dall’art. 46, comma 1-bis, del vecchio testo e, inoltre, allo stato, anche l’art. 106 del Regolamento del Codice (che, è bene ribadire, concerne la diversa ipotesi di appalti di opere pubbliche) è stato abrogato, così come stabilito dall’articolo 217, comma 1, lettera u), numero 2), del del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, che, come è noto, ha operato un’abrogazione in parte immediata e in parte differita del detto Regolamento.
Né è possibile accedere alla soluzione proposta dalla Ti.Ec. 2000, secondo la quale la ratio giustificatrice della riserva del sopralluogo e, quindi, la legittimità dell’esclusione della ricorrente, potrebbero rinvenirsi nell’art. 79 del nuovo Codice, posto che la norma, al comma 2, stabilisce semplicemente che “quando le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara e relativi allegati, i termini per la ricezione delle offerte, comunque superiori ai termini minimi stabiliti negli articoli 60, 61, 62, 64 e 65, sono stabiliti in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte”.
Dal testo della norma emerge, intanto, ancora una volta, che non sussiste un obbligo indifferenziato di sopralluogo e, di più, che tale obbligo determina, semmai, un prolungamento del termine dell’offerta e non già l’esclusione delle partecipanti.
Richiamando il condivisibile assunto dell’ANAC nel parere sopra indicato, una previsione siffatta, in quanto relazionata a una tipologia di appalto il cui servizio ha natura estremamente semplice (certamente diversa dalle esigenze logistiche rinvenibili in tema di opere pubbliche, circostanza, questa, che giustifica la diversa disciplina sopra richiamata con il previgente Regolamento), amplia eccessivamente, e in senso formalistico, le cause di esclusione dalla procedura, senza alcuna necessità in relazione alle esigenze organizzative della stazione appaltante.
Facendo applicazione dei suesposti principi al caso di specie, il Collegio rileva che:
   1)
la prescrizione del bando nella parte in cui dispone che l'attestazione di avvenuto sopralluogo è richiesta a pena di esclusione (art. 4 della lettera di invito), deve considerarsi nulla ai sensi del citato art. 83, comma 8, non essendo riconducibile alle cause tassative di esclusione ivi previste, non rinvenendosi alcuna norma imperativa che imponga in termini di divieto o di obbligo un siffatto adempimento e non ravvisandosi ragioni oggettive e immediatamente percepibili, che possano far presumere l’assoluta inidoneità dell’offerta, nella previsione secondo cui, per quanto attiene ai Consorzi partecipanti, per uno o più consorziati a pena di esclusione saranno tenuti a partecipare al sopralluogo sia il legale rappresentante del Consorzio sia i legali rappresentanti di ciascuno dei soggetti consorziati per i quali lo stesso Consorzio concorre.
   2) Non va obliterata la considerazione secondo la quale, comunque, un delegato, legittimamente, posto che nessun obbligo di attestazione documentale in sede di delega poteva ritenersi necessaria, ha effettuato un più che sufficiente sopralluogo, al fine di redigere una non complessa offerta.
   3) E’ altresì fondato anche il primo motivo di ricorso, risultando condivisibile la giurisprudenza richiamata da parte ricorrente secondo cui
nelle gare d'appalto l'obbligo di dichiarare l'assenza dei "pregiudizi penali" è da considerarsi assolto dal legale rappresentante dell'impresa anche riguardo ai terzi, compresi i soggetti cessati dalla carica, specie quando la legge di gara non richieda la dichiarazione individuale di detti soggetti (v. da ultimo TAR Calabria-Catanzaro Sez. I, Sent., 21/07/2016, n. 1575 che richiama Tar Lazio-Roma, sez. III-quater, n. 6682/2012 e Cons. St., n. 1894 del 2013); in ogni caso trattasi di irregolarità per cui poteva operare il soccorso istruttorio non essendo in presenza di un vizio tale da non consentire l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della documentazione ai sensi del citato comma 9 dell’art. 83 del D.lgs. n. 50/2016.
X. - Per le considerazioni che precedono il ricorso, come integrato dai motivi aggiunti, va accolto e conseguentemente, previa declaratoria di nullità dell’art. 4 della lex specialis (nella parte in cui prevede a pena di esclusione l’effettuazione del sopralluogo dei locali adibiti a centro cottura e dei locali dove dovranno essere consegnati e somministrati i pasti), va dichiarata l’illegittimità della esclusione del Consorzio ricorrente.

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul disposto differimento all'esercizio del diritto di accesso agli atti della Polizia Locale quali "atti di polizia giudiziaria".
Il segreto istruttorio, opponibile alla parte, viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento, non anche quando l'Amministrazione operi nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, e si limiti a presentare una denuncia all'autorità giudiziaria.
Nella prima eventualità, la giurisprudenza amministrativa ha ravvisato ragioni di segretezza tali da escludere l’ostensione degli atti o giustificarne il differimento.
In particolare, il massimo organo di giustizia amministrativa ha chiarito che:
   a) ai sensi dell'art. 24, c. 1, lett. a), L. n. 241 del 1990 come sostituito dall'art. 16 L. n. 205/2000, sono esclusi dal diritto di accesso i documenti amministrativi coperti da segreto o da divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge.
In particolare, i documenti dell'amministrazione che costituiscono atti di polizia giudiziaria sono soggetti esclusivamente alla disciplina stabilita dall'art. 329 c.p.p. in base alla quale "sono coperti da segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari"; tali atti inoltre sono soggetti alla disciplina sul divieto di pubblicazione stabilita dall'art. 114 e ss c.p.p.;
   b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la giurisprudenza amministrativa sostiene che con riferimento ai documenti per i quali il diritto di richiedere copie, estratti, o certificati sia riconosciuto da singole disposizioni del codice di procedura penale nelle diverse fasi del procedimento penale, l'accesso vada esercitato secondo le modalità previste dal medesimo codice;
   c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o comunque su loro iniziativa; di conseguenza la giurisprudenza amministrativa ritiene che tali atti, anche se redatti da una pubblica amministrazione, siano sottratti al diritto di accesso regolato dalla L. n. 241/1990.
Il Consiglio di Stato ha chiarito, altresì, che l'accesso agli atti amministrativi non può riguardare atti su cui operi il segreto istruttorio penale, perché formatisi in occasione di attività di indagine compiute dalla Polizia municipale quale organo di Polizia giudiziaria, su delega del p.m., atti per i quali, in assenza di autorizzazione di quest'ultimo, è esclusa "in radice" l'ostensibilità.
Si tratta di valutare l’atto di cui si chiede ostensione atteso che, come anticipato, il segreto istruttorio penale viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento.

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Il Collegio ritiene che nel caso di specie l’ostensione del verbale di sopralluogo legittimamente sia stata differita alla conclusione del procedimento in quanto atto di natura ispettiva, connesso direttamente ed immediatamente all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite all’organo che lo detiene, inerenti accertamenti rilevanti ex art. 399 c.p.c., pertanto plausibilmente sottratto alla visione ai sensi dell’art. 329 c.p.p. fino alla conclusione del procedimento medesimo.
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... per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 633/2016 del corpo di polizia locale Roma Capitale XII Gruppo Monteverde - con il quale si è disposto un differimento all'esercizio del diritto di accesso agli atti della ricorrente.
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Il 09/09/2016, la signora Ca., socia della PE.FR. srl al 50%, in rappresentanza di quest’ultima, ha chiesto di estrarre copia della relazione del Comandi di Polizia locale prot. CQ 62024.
Con D.D. n. 633/2016, l’Amministrazione ha opposto il differimento dell’accesso agli atti per la seguente motivazione: “in disparte al momento ogni valutazione circa la situazione legittimante all’accesso e circa diritti procedurali, per quanto consta a questo Comando è stata avviata un’attività istruttoria di natura ispettiva, di verifica o di controllo e che la conoscenza degli atti, al momento, può gravemente ostacolare il buon andamento dell’azione amministrativa … pertanto in disparte al momento ogni valutazione circa gli interessi sottesi e circa la natura della questione, al fine di consentire regolare svolgimento dell’azione amministrativa e nelle more della definizione del procedimento avviato con provvedimento che eroga sanzioni amministrative ovvero con l’archiviazione, non può essere consentito l’accesso agli atti …”.
La società ricorrente, premessa la legittimazione della signora Ca. ad instare l’amministrazione per l’accesso agli atti, censura il “differimento” per difetto di motivazione.
...
Nel merito, il ricorso è infondato.
Il segreto istruttorio, opponibile alla parte, viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento, non anche quando l'Amministrazione operi nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, e si limiti a presentare una denuncia all'autorità giudiziaria.
Nella prima eventualità, la giurisprudenza amministrativa ha ravvisato ragioni di segretezza tali da escludere l’ostensione degli atti o giustificarne il differimento (TAR Lazio, 2^ Sez., n. 11188/2015; Consiglio di Stato, sez. IV, 28/10/2016, n. 4537).
In particolare, il massimo organo di giustizia amministrativa ha chiarito che:
   a) ai sensi dell'art. 24, c. 1, lett. a), L. n. 241 del 1990 come sostituito dall'art. 16 L. n. 205/2000, sono esclusi dal diritto di accesso i documenti amministrativi coperti da segreto o da divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge. In particolare, i documenti dell'amministrazione che costituiscono atti di polizia giudiziaria sono soggetti esclusivamente alla disciplina stabilita dall'art. 329 c.p.p. in base alla quale "sono coperti da segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari" (cons. St. n. 1923/2003); tali atti inoltre sono soggetti alla disciplina sul divieto di pubblicazione stabilita dall'art. 114 e ss c.p.p.;
   b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la giurisprudenza amministrativa sostiene che con riferimento ai documenti per i quali il diritto di richiedere copie, estratti, o certificati sia riconosciuto da singole disposizioni del codice di procedura penale nelle diverse fasi del procedimento penale, l'accesso vada esercitato secondo le modalità previste dal medesimo codice (così, Cons. Stato Sez. VI n. 2780 del 2011; sez. VI, n. 6117 del 2008);
   c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o comunque su loro iniziativa; di conseguenza la giurisprudenza amministrativa ritiene che tali atti, anche se redatti da una pubblica amministrazione, siano sottratti al diritto di accesso regolato dalla L. n. 241/1990 (Cons. St., n. 6117/2008 e n. 1923/2003).
Il Consiglio di Stato, sez. V, 12/05/2015, n. 2357 ha chiarito, altresì, che l'accesso agli atti amministrativi non può riguardare atti su cui operi il segreto istruttorio penale, perché formatisi in occasione di attività di indagine compiute dalla Polizia municipale quale organo di Polizia giudiziaria, su delega del p.m., atti per i quali, in assenza di autorizzazione di quest'ultimo, è esclusa "in radice" l'ostensibilità.
Si tratta di valutare l’atto di cui si chiede ostensione atteso che, come anticipato, il segreto istruttorio penale viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento.
Ebbene, dalla versata documentazione si evince che la Polizia di Roma Capitale, a seguito di sopralluogo effettuato il 13/07/2016 (verbale di cui si chiede ostensione), “ha dato corso ad accertamenti di natura ispettiva che sono tuttora in corso”.
All’ispezione hanno fatto seguito le note con le quali la Polizia locale ha interpellato gli Uffici capitolini e la ASL per ulteriori accertamenti.
Con nota prot. 23727 del 15.09.2017, il Dipartimento Patrimonio Sviluppo e Valorizzazione di Roma Capitale ha riscontrato le richieste di notizie.
Con successiva nota datata 12.08.2016, Roma Capitale ha avviato il procedimento di decadenza dell’autorizzazione di somministrazione.
I documenti sono stati depositati da Roma Capitale.
Il Collegio ritiene che nel caso di specie l’ostensione del verbale di sopralluogo legittimamente sia stata differita alla conclusione del procedimento in quanto atto di natura ispettiva, connesso direttamente ed immediatamente all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite all’organo che lo detiene, inerenti accertamenti rilevanti ex art. 399 c.p.c., pertanto plausibilmente sottratto alla visione ai sensi dell’art. 329 c.p.p. fino alla conclusione del procedimento medesimo.
Per le considerazioni che precedono, il ricorso, in conclusione, è infondato e va, pertanto, respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 01.02.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Soccorso istruttorio in relazione ai requisiti di partecipazione alla gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio - Modifica elemento afferente ad un requisito di partecipazione alla gara – Art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione.
Il disposto dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non consente la modifica di un elemento afferente ad un requisito di partecipazione alla gara non posseduto dal concorrente entro il termine di scadenza dell’offerta (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che il comma 9 dell’art. 83 del nuovo Codice dei contratti dispone che “le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'art. 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica”.
Nel caso all’esame del Tar il concorrente alla gara, indetta per l’affidamento del servizio di igiene urbana, a seguito della richiesta di integrazione della documentazione inerente all’impianto di trattamento dei rifiuti indicato nella domanda di partecipazione, ha prodotto le autorizzazioni di due nuovi impianti
Ad avviso del Tribunale l’indicazione di due nuove piattaforme per il conferimento dei rifiuti, mai dichiarate né menzionate nella domanda di partecipazione è idonea a incidere sugli elementi attinenti proprio all’offerta, con conseguente vanificazione del canone generale della parità di trattamento e dell'essenza stessa della procedura selettiva, il cui fondamento volontaristico, finalizzato alla conclusione del contratto posto a gara, rende le offerte immodificabili una volta presentate nei termini previsti dalla lex specialis (Cons. St., sez. V, 02.08.2016, n. 3481) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 01.02.2017 n. 685 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Deve escludersi una competenza degli agrotecnici in materia di sia progettazione di opere di miglioramento fondiario, sia –a maggior ragione– di pianificazione territoriale, soprattutto in materia forestale.
All’agrotecnico sono riservate le competenze in materia tecnico-economica aziendale, anche in relazione alla progettazione di opere di trasformazione fondiaria (ad es. fattibilità economica), ma non anche quelle di progettazione vera e propria.
La stessa formulazione della lett. c) accredita questa interpretazione, se si vuol dare senso compiuto a un periodo sconnesso sul piano grammaticale.
“L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente: … c) l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e direzione di piani aziendali ed interaziendali, anche ai fini della concessione dei mutui fondiari nonché le opere di trasformazione e miglioramento fondiario”.
È chiaro, infatti, che la frase finale “opere di trasformazione e miglioramento fondiario” non è retta dall’incipit generale “L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente”, perché in tal modo non avrebbe alcun senso logico: la proposizione “L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente … le opere di trasformazione e miglioramento fondiario” non individua l’attività dell’agrotecnico avente ad oggetto le opere in questione.
Dunque, la frase “opere di trasformazione e miglioramento fondiario” è retta dall’incipit particolare “l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e direzione di piani aziendali ed interaziendali”.
In conclusione, tale norma vale ad precisare la competenza di assistenza tecnico-economica aziendale, in relazione alla progettazione e direzione di piani aziendali e delle opere di trasformazione e miglioramento fondiario.

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1.4 Con il quarto e quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 11, comma 1, lett. c), della legge 06.06.1986, n. 251, come modificato dall’art. 26, comma 2-bis, del decreto legge 31.12.2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.02.2008, n. 31; violazione e falsa applicazione dell’art. 1-bis, comma 16, del D.L. 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116; eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria.
Deve escludersi una competenza degli agrotecnici in materia di sia progettazione di opere di miglioramento fondiario, sia –a maggior ragione– di pianificazione territoriale, soprattutto in materia forestale.
L’Amministrazione ha erroneamente interpretato la normativa di riferimento, ritenendo un ampliamento delle competenze degli agrotecnici, che non è previsto né dalla novella del 2008, né dalla norma c.d. interpretativa del 2014.
1.5 In subordine si solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 2-bis, del d.l. n. 248 del 2007, convertito nella legge n. 31 del 2008, che modifica l’art. 11, comma 1, lett. c), l. 251 del 1986, nonché dell’art. 1-bis, comma 16, del d.l. 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116, nell’ipotesi in cui si riconoscesse a tali disposizioni l’effetto di estendere le competenze degli agrotecnici, rispettivamente, alla progettazione di opere di trasformazione e miglioramento fondiario, nonché alla pianificazione territoriale, anche in materia forestale.
2. L’appello è fondato con riguardo all’assorbente motivo di cui al precedente punto 1.4.
2.1 Occorre preliminarmente definire le competenze degli agrotecnici.
L’art. 11 della legge 06.06.1986, n. 251, istitutiva dell’albo professionale degli agrotecnici, individua le competenze degli agrotecnici, prevedendo che “L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente: a) la direzione e l’amministrazione di cooperative di produzione, commercializzazione e vendita di prodotti agricoli; b) la direzione, l’amministrazione e la gestione di aziende agrarie e zootecniche e di aziende di lavorazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti agrari e zootecnici, limitatamente alle piccole e medie aziende, ivi comprese le funzioni contabili, quelle di assistenza e di rappresentanza tributaria e quelle relative all’amministrazione del personale dipendente delle medesime aziende; c) l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e direzione dei piani aziendali ed interaziendali, anche ai fini della concessione dei mutui fondiari, nonché le opere di trasformazione e miglioramento fondiario; d) l’assistenza alla stipulazione dei contratti agrari; e) la formulazione e l’analisi dei costi di produzione e di consulenza ed i controlli analitici per i settori lattiero-caseario, enologico ed oleario; f) la rilevazione dei dati statistici; g) l’assistenza tecnica per i programmi e gli interventi fitosanitari e di lotta integrata; h) la curatela di aziende agrarie e zootecniche; i) la direzione e manutenzione di parchi e la progettazione, direzione e manutenzione di giardini, anche localizzati, gli uni e gli altri, in aree urbane; 1) le attività connesse agli accertamenti e alla liquidazione degli usi civici; m) l’assistenza tecnica ai produttori singoli e associati; [...]”.
È di plastica evidenza che dette competenze siano circoscritte alla gestione economico-aziendale e amministrativa delle aziende agricole o zootecniche.
Non altera questo quadro la lett. c), frutto di modifica ad opera dell’art. 26, comma 7-ter, del decreto legge 31.12.2007, n. 248, convertito con modificazioni dalla legge 28.02.2008, n. 31, giacché il riferimento alle “opere di trasformazione e miglioramento fondiario” non può che essere inteso in coerenza con tutte le altre previsioni, dunque inerente allo sviluppo tecnico-economico aziendale.
L’interpretazione giurisprudenziale conferma tale inquadramento.
L’identificazione delle competenze professionali non può che essere operata in relazione al curriculum di studi, e in tal senso la Corte costituzionale, con sentenza n. 441 del 2000 aveva affermato che: «Come la Corte ha avuto più volte occasione di affermare, compete al legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, individuare competenze ed attribuzioni di ciascuna categoria professionale, essenzialmente sulla scorta del principio di professionalità specifica, il quale richiede, per l’esercizio delle attività intellettuali rivolte al pubblico, un adeguato livello di preparazione e di conoscenza delle materie inerenti alle attività stesse (vedi, tra le molte, sentenze n. 5 del 1999, n. 456 del 1993 e n. 29 del 1990).
Nel caso qui all’esame, va considerato che la preparazione dell’agrotecnico, secondo il bagaglio formativo che si desume dal previsto curriculum scolastico (decreto del Ministro della pubblica istruzione 15.04.1994, recante i programmi e gli orari di insegnamento per i corsi post-qualifica degli istituti professionali di Stato), e che si evince, altresì, dal programma di base per l’esame di Stato di abilitazione professionale (art. 18 del decreto del Ministro della pubblica istruzione del 06.03.1997, n. 176, avente ad oggetto il regolamento recante norme per lo svolgimento di detti esami di Stato), è rivolta, prevalentemente, agli aspetti economici e gestionali dell’azienda agraria, laddove le cognizioni in materia di catasto appaiono circoscritte ad un livello descrittivo, sì da risultare soltanto un complemento della formazione primaria ed essenziale
».
Con sentenza 10.04.2014, n. 1738, la Sezione ha ribadito che, anche dopo la novella legislativa del 2008, le competenze professionali degli agrotecnici sono rivolte prevalentemente agli aspetti economici e gestionali dell’azienda agraria e, inoltre, che non comprendono interventi di sistemazione forestale, rimboschimento o difesa del suolo.
In definitiva, all’agrotecnico sono riservate le competenze in materia tecnico-economica aziendale, anche in relazione alla progettazione di opere di trasformazione fondiaria (ad es. fattibilità economica), ma non anche quelle di progettazione vera e propria.
La stessa formulazione della lett. c) accredita questa interpretazione, se si vuol dare senso compiuto a un periodo sconnesso sul piano grammaticale.
L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente: … c) l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e direzione di piani aziendali ed interaziendali, anche ai fini della concessione dei mutui fondiari nonché le opere di trasformazione e miglioramento fondiario”.
È chiaro, infatti, che la frase finale “opere di trasformazione e miglioramento fondiario” non è retta dall’incipit generale “L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente”, perché in tal modo non avrebbe alcun senso logico: la proposizione “L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente … le opere di trasformazione e miglioramento fondiario” non individua l’attività dell’agrotecnico avente ad oggetto le opere in questione.
Dunque, la frase “opere di trasformazione e miglioramento fondiario” è retta dall’incipit particolare “l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e direzione di piani aziendali ed interaziendali”.
In conclusione, tale norma vale ad precisare la competenza di assistenza tecnico-economica aziendale, in relazione alla progettazione e direzione di piani aziendali e delle opere di trasformazione e miglioramento fondiario.
Occorre, tuttavia, considerare la disposizione di cui all’art. 1-bis, comma 16, del D.L. 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116, secondo cui “l’art. 11, comma 1, lettera c) della legge 06.06.1986, n. 251, come modificato dall’art. 26, comma 2-bis, del decreto legge 31.12.2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.02.2008, n. 31, si interpreta nel senso che sono anche di competenza degli iscritti all’albo degli agrotecnici le attività di progettazione e direzione delle opere di trasformazione e miglioramento fondiario sia agrario che forestale”.
Il testo, infatti, sembrerebbe accreditare un’interpretazione difforme da quella sinora patrocinata, anzi allargando la competenza degli agronomi alla materia della pianificazione forestale.
Proprio tale aspetto, però, deve indurre a riflessione, poiché una norma interpretativa non può ampliare il significato della disposizione interpretata.
L’intervento del legislatore non può, allora, che essere inteso nel senso di chiarire che le competenze economico-gestionali dell’agrotecnico riguardano la progettazione, ivi compresa la materia forestale.
Infatti, nella formulazione della citata lett. c) manca proprio l’elemento linguistico di collegamento tra “la progettazione e direzione di piani aziendali ed interaziendali” e “le opere di trasformazione e miglioramento fondiario”.
In definitiva, se tale disposizione avesse previsto che “L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente: … c) l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e direzione di piani aziendali ed interaziendali, anche ai fini della concessione dei mutui fondiari, nonché delle opere di trasformazione e miglioramento fondiario”, allora la norma interpretativa sarebbe stata superflua nel riferirsi alla progettazione qualora non avesse voluto sganciarla dall’assistenza tecnico-economica.
Invece, alla luce della cattiva redazione di codesta lett. c), la norma interpretativa ha puntualizzato che l’assistenza tecnico-economica alle aziende concerne pure l’attività di progettazione, con l’ulteriore specificazione della materia forestale.
A sostegno di tale lettura militano due argomenti sistematici, complementari.
L’art. 2 della legge 07.01.1976, n. 3 (Ordinamento della professione di dottore agronomo e dottore forestale) assegna ai dottori agronomi e dottori forestali: “c) lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la liquidazione, la misura, la stima, la contabilità e il collaudo di opere inerenti ai rimboschimenti, alle utilizzazioni forestali, alle piste da sci ed attrezzature connesse, alla conservazione della natura, alla tutela del paesaggio ed all’assestamento forestale; q) gli studi di assetto territoriale ed i piani zonali, urbanistici e paesaggistici; la programmazione, per quanto attiene alle componenti agricolo-forestali ed ai rapporti città-campagna; i piani di sviluppo di settore e la redazione nei piani regolatori di specifici studi per la classificazione del territorio rurale, agricolo e forestale; r) lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la misura, la stima, la contabilità ed il collaudo di lavori inerenti alla pianificazione territoriale ed ai piani ecologici per la tutela dell’ambiente; la valutazione di impatto ambiente ed il successivo monitoraggio per quanto attiene agli effetti sulla flora e la fauna; i piani paesaggistici e ambientali per lo sviluppo degli ambiti naturali, urbani ed extraurbani; i piani ecologici e i rilevamenti del patrimonio agricolo e forestale”.
È una disposizione cristallina nel definire le competenze di tale categoria con riguardo alla materia della pianificazione territoriale e forestale in particolare. Gli appellati obiettano che non vi è ragione di ritenere tale competenza esclusiva, non essendovi attribuzione di riserva.
Tuttavia, è regola di carattere generale che, atteso la forte specializzazione delle professioni, rivelata dalla proliferazione di autonome categorie professionali e dei relativi albi, con le conseguenti protezioni normative, le competenze di ciascun ramo, almeno per i settori che li connotano maggiormente, siano esclusive e non concorrenti.
Poca logica avrebbe distinguere gli agronomi e i forestali dagli agrotecnici se si creasse un settore promiscuo di competenze in una materia come la progettazione e la pianificazione forestale.
Secondo argomento è che all’albo degli agrotecnici possono accedere, diversamente da quanto accade per quello degli agronomi, anche non laureati, che siano in possesso del diploma di istruzione secondaria superiore (di istituto professionale o tecnico) ad indirizzo agrario. Il che fa venir meno le considerazioni degli appellati in ordine alla sostanziale equivalenza ai fini in discussione del percorso di studio dell’agronomo e dell’agrotecnico, ciò potendo valer al più solo per gli agrotecnici laureati.
3.2 A questo punto si tratta di stabilire se l’incarico di redazione del piano di gestione e assestamento forestale affidato dall’Azienda Calabria Verde al dott. Ma. comprendesse attività non rientranti nelle competenze degli agrotecnici, come sopra definite. Che è poi l’oggetto dell’istruttoria disposta dalla Sezione, con particolare riferimento alle attività di cui all’art. 7, lettere f) ed i) della legge regionale Calabria n. 45/2012.
Calabria Verde ha depositato una prima relazione, affermando che l’incarico comprende le attività indicate nel predetto art. 7, ritenendo però che esse rientrino nella competenza dell’agronomo proprio in forza dell’art. 1-bis, comma 16, legge 116/2014, e una seconda relazione nella quale descrive il contenuto di dette attività.
La Regione Calabria non ha risposto direttamente al quesito, ma ha sottinteso pure una risposta affermativa, ritenendo l’incarico –proprio per questa afferenza ai profili di progettazione forestale– riservato alla competenza degli agronomi e per questo attivando una segnalazione di danno erariale.
In sostanza le parti richieste concordano sul contenuto delle attività commissionate.
In particolare, il piano comprende oltre alla gestione, anche la preliminare attività di sistemazione e di assetto idrogeologico e forestale.
Ciò vale per le analisi pedoclimatiche e vegetazionali (art. 7, comma 2, lettera d) l.r. n. 45/2012), per la descrizione dei tipi forestali, dei comparti colturali e delle unità colturali (lettera e) e, soprattutto, per le valutazioni e la progettazione delle opere idrogeologiche (lettere f) ed i).
L’inerenza alla pianificazione forestale è confermata dalle Linee guida della Regione Calabria, le quali richiamano le Prescrizioni di massima e di polizia forestale (PMPF) approvate con D.G.R. n. 450 del 27.06.2008, successivamente sostituite dalle PMPF approvate con D.G.R. n. 218 del 20.05.2011.
Tali ultime PMPF, in vigore, hanno ad oggetto, non soltanto la gestione ottimale dei boschi, ma prima ancora la tutela attiva degli ecosistemi e dell’assetto paesaggistico e idrogeologico del territorio, oltre che la salvaguardia dello stato di conservazione delle specie e degli Habitat della rete natura 2000 (art. 1, punto 1 PMPF n. 218/2011).
La pianificazione forestale si attua “attraverso l’elaborazione e l’applicazione dei piani di assestamento o di gestione di proprietà pubbliche e private, singole, associate e collettive” (art. 1, punto 2).
Secondo il punto 3 del medesimo articolo 1, “le presenti PMPF costituiscono strumento per la: a) tutela dell’assetto idrogeologico (L. 183/1989; RD 3267/1923; RD 1126/1926); b) salvaguardia e la valorizzazione delle zone montale (L. 97/1994); c) tutela e la valorizzazione dei beni ambientali e paesaggistici (L. 394/1991; D.lgs. 42/2004; D.lgs. 152/2006); tutela della biodiversità e degli habitat naturali della rete Natura 2000 (D.P.R. 357/1997; D.P.R. 120/2003; L. 157/1992)”.
Inoltre, i piani di assestamento o di gestione una volta approvati sono parificati alle PMPF (art. 2, punto 5).
Alla luce di quanto evidenziato sub 3.1, l’incarico in esame ha dunque un oggetto in parte esorbitante dalle competenze dell’agrotecnico.
3.3 L’appello è accolto, anche nei confronti della Regione Calabria, la cui richiesta di estromissione dal giudizio non può essere accolta, perché ente che ha adottato gli atti di avvio della procedura impugnata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 01.02.2017 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAppalti di servizi in house, ok del Cds alle linee Anac.
Affidamenti di appalti di servizi alle società in house al via. Il Consiglio di stato ha dato il via libera, sia pure con richieste di modifica, alle Linee Guida dell'Anac per l'iscrizione nell'elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, previsto dall'art. 192 del dlgs 50/2016.

Il parere 01.02.2017 n. 282 di Palazzo Spada condivide l'impianto delle Linee Guida sottoposte al suo esame dall'autorità presieduta da Raffaele Cantone, chiedendo, però, «limature» sia ai poteri che l'Anac può svolgere sia ai contenuti.
Procedura. Le Linee guida chiariscono che le amministrazioni che intendano affidare appalti a proprie società in house possono richiedere l'iscrizione nell'Elenco previsto dall'articolo 192 del dlgs 50/2015. L'Anac chiuderà il procedimento, a regime, entro 90 giorni, anche se si prevede una fase di avvio con termini diversificati.
Natura iscrizione. In caso di esito positivo, l'Anac iscrive le amministrazioni nell'elenco. Prima di un eventuale diniego, inviterà le amministrazioni a far pervenire eventuali controdeduzioni o a richiedere l'iscrizione con riserva e l'impegno a rimuovere le cause ostative all'iscrizione entro i successivi 90 giorni.
A seguito dell'iscrizione, le amministrazioni potranno attivare gli affidamenti diretti alle società in house, con la garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza derivante dall'attuazione delle prescrizioni del codice dei contratti e delle linee guida. Palazzo Spada precisa, però, che l'iscrizione non ha natura di atto «costitutivo» di un diritto o di «abilitazione». Il parere paragona la domanda di iscrizione a una segnalazione di inizio attività: le pubbliche amministrazioni hanno il potere di affidare gli appalti alle partecipate in house.
La domanda di iscrizione al registro, tuttavia, «innesca una fase di controllo dell'Anac, tesa a verificare la sussistenza dei presupposti soggettivi ai quali la normativa –Ue e nazionale– subordina la sottrazione alle regole della competizione e del mercato». Così, appunto, si garantiscono trasparenza e pubblicità richieste dalla normativa Ue.
Se il controllo dell'Anac ha esito positivo, secondo Palazzo Spada non si dà vita ad un «consenso», incompatibile con l'assenza di un regime autorizzatorio; si tratta di un «mero riscontro» della sussistenza dei requisiti di legge, con conseguente iscrizione che consolida una legittimazione già assicurata, nei termini descritti, dalla presentazione della domanda». La verifica Anac si traduce in provvedimento solo se ha esito negativo.
Verifica requisiti. Le Linee guida descrivono le modalità del controllo svolto dall'Anac, che riguardano il possesso da parte delle partecipate dei requisiti previsti dal dlgs 175/2016 e dall'articolo 5 del codice dei contratti. Il parere del Consiglio di stato rileva, però, che le indicazioni Anac introducono requisiti ulteriori e diversi da quelli indicati dalla legge per stabilire se vi sia il «controllo analogo»che consente l'affidamento diretto ed invita l'autorità ad eliminarli.
Cancellazione dall'elenco. Palazzo Spada chiede all'Anac di eliminare il passaggio secondo cui nel caso di cancellazione delle amministrazioni dall'elenco i contratti già aggiudicati devono essere revocati (articolo ItaliaOggi del 03.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZIIn house, ok di Palazzo Spada alle linee guida dell’Anac. Appalti. Per affidare i contratti basterà la domanda di iscrizione.
La scelta dell'Anac di cancellare una società dall'albo delle aziende legittimate ad assegnare appalti in house (senza gara) non comporta la revoca automatica dei contratti già affidati.
È questo uno dei punti più rilevanti del parere 01.02.2017 n. 282 con cui il Consiglio di Stato ha promosso -con qualche obiezione- le linee guida dell'Anticorruzione destinate a mettere in piedi l’albo delle società in house. (Linee guida per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall’art. 192 del d.lgs. 50/2016). Si tratta del primo passo per tentare di portare in piena luce un mercato che finora è vissuto all’ombra (confortevole) degli affidamenti diretti, evitando abusi del regime di deroga concesso dal codice appalti.
L'albo conterrà tutte le informazioni delle amministrazioni controllanti e delle società in house, con l’indicazione esplicita della clausola statutaria che impone lo svolgimento di una quota del fatturato pari almeno all'80% nei confronti dell'ente controllante «e che la produzione ulteriore rispetto a questo limite sia consentita solo se assicura economie di scala».
Insieme al «controllo analogo», cioè lo stringente potere di indirizzo esercitato dall'amministrazione che controlla la società in house, è uno dei requisiti fondamentali, anche ai sensi delle regole europee, per consentire deroghe all’obbligo di affidare gli incarichi con gare aperte al mercato. Per questo i controlli dell’Anac si concentreranno sul rispetto di entrambi questi parametri.
Il punto su cui i giudici di Palazzo Spada dissentono riguarda proprio l’effetto dei controlli esercitati dall'Autorità. Innanzitutto i giudici chiariscono che per poter procedere agli affidamenti senza gara non serve aspettare un atto di assenso dell’Anticorruzione. La semplice domanda di iscrizione consente di per sé «di procedere all'affidamento senza gara, senza bisogno» di un esplicito atto Anac.
Per contro la domanda «innesca una fase di controllo dell'Anac» che, in caso di esito negativo, si traduce in un provvedimento che impedisce futuri affidamenti in house. Questo provvedimento, specificano i magistrati, è impugnabile davanti al giudice amministrativo, poiché «ha carattere autoritativo ed effetto lesivo».
In caso di cancellazione dall’elenco, si precisa inoltre nel parere, la conseguenza non può essere la revoca dei contratti già affidati e la loro riassegnazione con gara, come previsto dalle linee guida. Gli affidamenti in house già in essere restano efficaci, ma l’Anac potrà agire attraverso la cosiddetta «raccomandazione vincolante», prevista dal nuovo codice degli appalti, invitando l’amministrazione a rimuovere il provvedimento illegittimo.
Quanto ai requisiti sostanziali necessari per procedere all'affidamento in house, il Consiglio di Stato (con particolare riferimento al cosiddetto «controllo analogo») rileva che i parametri fissati dall'Anac «sono esemplificativi e non fissano una griglia esaustiva», poiché altrimenti ciò costituirebbe una integrazione o una modifica delle «regole elastiche fissate dalla legge»
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza ha chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, 1. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6, lett. d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del diritto di accesso fa riferimento ai documenti che riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non ricorre nella fattispecie trattandosi di attività amministrativa (e non di attività di polizia giudiziaria), peraltro posta in essere prima delle denunce e degli esposti presentati all’autorità giudiziaria e per la quale allo stato non risultano essere stati adottati specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR Campania-Napoli: "La circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto della domanda di accesso, al vaglio della magistratura penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione dell'art. 258 c.p.p.".
Anche la Corte di Cassazione, nell’individuare gli atti e i documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p., per i quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto in oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria [“Se per gli atti di indagine in senso stretto formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone informate, interrogatori di indagati, confronti, ricognizioni, ecc.) nessun problema -a questi fini- si pone, atteso che si tratta di necessità, sempre e comunque, di atti ricadenti nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso -e differenziato- non può non essere il discorso per la categoria dei documenti che pur siano entrati nel contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto, rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g., e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di certo non può valere ove si tratti di documenti aventi origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non processuale, generati non da iniziativa degli organi delle indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel procedimento per disposta acquisizione”].
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per l’amministrazione presentare una denuncia agli organi giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia con le norme di rango primario dettate in materia.
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... per l'annullamento della nota del Comando di Polizia municipale prot. N. 332/C/PM del 06.05.2016, con la quale il Comune in intestazione ha denegato alla ricorrente l’accesso agli atti richiesti con le istanze presentate il 15.04.2016, nonché per la declaratoria del diritto della società ricorrente di prendere visione ed estrarre copia della documentazione richiesta.
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Con una prima istanza in data 15.04.2016 la società ricorrente chiedeva al Comune in intestazione l’accesso alla documentazione del Comando di Polizia municipale relativa ai “lavori di realizzazione di un parcheggio pubblico” in via Verdi, in ditta M. s.r.l., ed in particolare al verbale di sopralluogo della Polizia municipale in data 15.01.2016 e agli atti relativi a sopralluoghi, accessi, contestazioni operati dal comando di P.M. nel cantiere di via Verdi.
Con una seconda istanza in pari data, la società ricorrente chiedeva al Comune di accedere agli atti del Comando di Polizia municipale relativi alle segnalazioni di disturbo alla quiete pubblica per emissioni sonore connesse all’utilizzo di impianti sportivi all’aperto in via Verdi n. 8 da parte della ditta M. s.r.l. E.C., ed in particolare chiedeva di accedere all’ordinanza sindacale n. 12 del 28.04.2015 e a tutti gli atti amministrativi relativi all’atto di diffida dal produrre le predette emissioni sonore, prot. N. 266/C/PM del 15.04.2016, emesso nei confronti della MGF s.r.l.
Con la nota quivi impugnata, il comando di P.M. di S. Giovanni La Punta negava in parte l’accesso richiesto con riferimento agli atti delle due procedure che erano stati inseriti in informative dirette all’Autorità Giudiziaria, e precisamente, denegava l’accesso al verbale di sopralluogo della Polizia municipale in data 15.01.2016 e alla nota n. 93 del 07.04.2016 con riferimento al procedimento afferente i “lavori di realizzazione di un parcheggio pubblico” in via Verdi e, con riferimento al procedimento concernente la diffida alla società ricorrente per disturbo alla quiete pubblica per emissioni sonore connesse all’utilizzo di impianti sportivi (campetti di calcio) all’aperto in via Verdi n. 8, denegava l’accesso ai vari esposti e segnalazioni di disturbo alla quiete pubblica che erano pervenuti al comando di polizia municipale.
Con il ricorso in esame, la ricorrente chiede pertanto l’annullamento della nota di diniego parziale indicata in epigrafe e la condanna dell’amministrazione comunale a consentire l’accesso alla documentazione richiesta, evidenziando di avere interesse alla conoscenza di tutti gli atti afferenti ai citati procedimenti ispettivi e di vigilanza avviati nei suoi confronti in vista della tutela, anche in giudizio, dei propri interessi.
Si è costituito per resistere al ricorso il Comune di S. Giovanni La Punta, che non nega la sussistenza di un interesse qualificato della ricorrente all’accesso, ma ritiene che si tratti, nella fattispecie, di atti non più accessibili in quanto l’Amministrazione ha, in relazione ai procedimenti prima menzionati, presentato diversi esposti-denunce alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania.
Da quanto precede deriverebbe che vertendosi di atti inerenti a informative-denunce sporte agli organi giudiziari penali, gli atti sarebbero sottratti all’accesso, atteso che il personale di polizia municipale avrebbe agito nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria e che, dunque, gli atti richiesti sarebbero coperti dal segreto istruttorio.
La prospettazione del Comune resistente non può essere condivisa.
La giurisprudenza ha chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (cfr. TAR Puglia, Lecce, n. 2331/2014).
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, 1. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6, lett. d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del diritto di accesso fa riferimento ai documenti che riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non ricorre nella fattispecie trattandosi di attività amministrativa (e non di attività di polizia giudiziaria), peraltro posta in essere prima delle denunce e degli esposti presentati all’autorità giudiziaria e per la quale allo stato non risultano essere stati adottati specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR Campania Napoli, Sez. I, 23.02.1995, n. 38: "La circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto della domanda di accesso, al vaglio della magistratura penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione dell'art. 258 c.p.p." (conformi anche Cons. Stato, Sez. IV, 28.10.1996, n. 1170, TAR Bari, sentenza n. 287/2011).
Anche la Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 09.03.2011, n. 13494, nell’individuare gli atti e i documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p., per i quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto in oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria [“Se per gli atti di indagine in senso stretto formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone informate, interrogatori di indagati, confronti, ricognizioni, ecc.) nessun problema -a questi fini- si pone, atteso che si tratta di necessità, sempre e comunque, di atti ricadenti nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso -e differenziato- non può non essere il discorso per la categoria dei documenti che pur siano entrati nel contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto, rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g., e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di certo non può valere ove si tratti di documenti aventi origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non processuale, generati non da iniziativa degli organi delle indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel procedimento per disposta acquisizione”].
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per l’amministrazione presentare una denuncia agli organi giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia con le norme di rango primario dettate in materia.
Nel caso di specie l’accesso è stata richiesto in relazione ad atti di origine extraprocessuale che non risultano coperti da segreto o dal vincolo del sequestro, sicché in definitiva, non ricorrendo alcuna ipotesi di esclusione normativamente prevista dal diritto di accesso, il ricorso deve essere accolto con conseguente accertamento del diritto all’ostensione, per effetto del quale il Comune resistente dovrà consentire l’accesso, secondo le modalità indicate in dispositivo (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 01.02.2017 n. 229 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Obbligo di indicare nel bando per l’affidamento di una concessione di servizi il fatturato stimato della concessione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione – Concessione servizi - Omessa indicazione fatturato stimato della concessione – Art. 167, commi 1 e 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Illegittimità – Concessione di modico valore – Irrilevanza ex se.
E’ illegittimo il bando di gara per l’affidamento della concessione di un servizio che non indichi il fatturato stimato della concessione, ai sensi dell’art. 167, commi 1 e 2, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, a nulla rilevando il valore minimo della concessione stessa (1).
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   (1) Ad avviso del Tar si tratta di una previsione dal contenuto obbligatorio che costituisce sostanziale recepimento, nell’ordinamento italiano, dell’art. 8 della direttiva del Parlamento e del Consiglio 26.02.2014, n. 2014/23/UE, senza alcuna previsione (ed in questo è una significativa differenza con la direttiva comunitaria) di soglie minime di applicabilità o di una qualche esenzione riservata alle concessioni di minore valore economico.
Non sussiste pertanto alcuna possibilità di recepire le argomentazioni delle Amministrazioni resistenti, tendenti ad escludere l’applicabilità della previsione alle concessioni di minore valore o complessità applicativa, trattandosi di costruzione che non trova alcun addentellato nel testo normativo che, come già ribadito, prevede la necessità dell’adempimento con riferimento a tutte le concessioni, indipendentemente dalla natura della prestazione o dal valore.
Si tratta, infatti, di previsione finalizzata a garantire al partecipante alla procedura la possibilità di formulare la propria offerta nella più completa conoscenza dei dati economici del servizio da svolgere ovvero di una necessità che si presenta comune a tutte le concessioni (sia di minimo importo che di elevato valore economico.
Il Tar ha poi escluso che l’indicazione del valore stimato della concessione possa essere surrogata dalla stima del numero dei possibili utenti, operando il citato art. 167, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, un preciso riferimento ad un valore della concessione stimato in termini monetari (secondo i precisi criteri di cui al comma 4 dell’art. 167) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 01.02.2017 n. 173 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto.
Gli importanti nessi logici e sistematici sussistenti tra le prime due censure di ricorso impongono di cominciare l’esame delle censure dal secondo motivo che assume preminenza logica e funzionale.
A questo proposito,
la Sezione ha già rilevato, in sede cautelare (TAR Toscana, sez. II, ord. 07.12.2016, n. 624), la sicura illegittimità del bando di gara che non ha dato applicazione alla previsione dell’art. 167, 1° e 2° comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) che impone, anche con riferimento alle concessioni, l’inserimento nella lex specialis della procedura, del <<valore di una concessione, ….. costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell'IVA, stimato dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori e servizi>>.
Con tutta evidenza,
si tratta, infatti, di una previsione dal contenuto obbligatorio che costituisce sostanziale recepimento, nell’ordinamento italiano, dell’art. 8 della direttiva del Parlamento e del Consiglio 26.02.2014, n. 2014/23/UE, senza alcuna previsione (ed in questo è una significativa differenza con la direttiva comunitaria) di soglie minime di applicabilità o di una qualche esenzione riservata alle concessioni di minore valore economico.
Non sussiste pertanto alcuna possibilità di recepire le argomentazioni delle Amministrazioni resistenti, tendenti ad escludere l’applicabilità della previsione alle concessioni di minore valore o complessità applicativa, trattandosi di costruzione che non trova alcun addentellato nel testo normativo che, come già ribadito, prevede la necessità dell’adempimento con riferimento a tutte le concessioni, indipendentemente dalla natura della prestazione o dal valore.
Del resto, si trattava di una soluzione che era già stata affermata dal Consiglio di Stato anche sotto il vigore del previgente d.lgs. 12.04.2006, n. 163; superando l’orientamento contrario di una parte della giurisprudenza (tra cui quella della Sezione: TAR Toscana, sez. II, 24.09.2015, n. 1282),
la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, infatti, concluso, sulla base di esigenze sistematiche, per l’essenzialità ed obbligatorietà dell’indicazione nel bando del valore della concessione: <<l’AVCP ha rilevato che sebbene sia difficoltoso per le stazioni appaltanti stimare i proventi del servizio poiché provengono interamente dagli utenti e non da chi bandisce la gara, nondimeno l’esatta determinazione del valore dell’affidamento assume rilievo sotto molteplici aspetti: è essenziale per poter fornire una corretta informazione agli operatori economici potenzialmente interessati a prestare il servizio, serve ad individuare con esattezza la forma di pubblicità idonea, è necessaria per determinare l’entità delle cauzioni e del contributo dovuto all’Autorità.
Già nella Deliberazione n. 9 del 25/02/2010, l’Autorità aveva precisato che: “Come è noto, ai sensi dell’art. 29, commi 1, invece, “il calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori o servizi pubblici è basato sull'importo totale pagabile al netto dell'IVA, valutato dalle stazioni appaltanti. Questo calcolo tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto”.
Per le concessioni in particolare, nella nozione di “importo totale pagabile” è sicuramente da ricomprendere il flusso dei corrispettivi pagati dagli utenti per i servizi in concessione. Infatti, così come nella stessa nozione è ricompreso il corrispettivo pagato dalla stazione appaltante nel caso di appalto, qualora si tratti di una concessione, non essendovi un prezzo pagato dalla stazione appaltante, ma solo quello versato dagli utenti, sarà quest’ultimo a costituire parte integrante dell’“importo totale pagabile” di cui è fatta menzione nella norma sopra citata; il canone a carico del concessionario potrà, altresì, essere computato ove previsto, ma certamente proprio in quanto solo eventuale non può considerarsi l’unica voce indicativa del valore della concessione”.
Ha poi precisato che la mancata indicazione del valore stimato degli appalti, pone le imprese partecipanti alla gara in una situazione di estrema incertezza nella formulazione della propria offerta, rilevando che il calcolo relativo alla determinazione dell’importo del servizio oggetto di concessione deve essere effettuato in conformità a quanto previsto dall’art. 29, comma 1, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, tenendo conto dei ricavi ipotizzabili in relazione alla sua futura gestione. Ha precisato, infatti, l’Autorità che “l’esatto computo del valore del contratto, assume rilevanza anche per garantire condizioni di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione, ex art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006 che si traducono nell’informare correttamente il mercato di riferimento sulle complessive e reali condizioni di gara” (cfr. deliberazione AVCP n. 40 del 19/12/2013).
Nel caso di specie, come già stigmatizzato dall’Autorità di Vigilanza, il valore della concessione non può essere computato con riferimento al c.d. “ristorno” e cioè al costo della concessione, che è un elemento del tutto eventuale, ma deve essere calcolato sulla base del fatturato generato dal consumo dei prodotti da parte degli utenti del servizio di distribuzione automatica
>> (Cons. Stato, sez. III, 18.10.2016, n. 4343).
Con tutta evidenza,
si tratta di un percorso argomentativo finalizzato a garantire al partecipante alla procedura la possibilità di formulare la propria offerta nella più completa conoscenza dei dati economici del servizio da svolgere ovvero di una necessità che si presenta comune a tutte le concessioni (sia di minimo importo che di elevato valore economico); non sussiste pertanto alcuna possibilità di recepire la costruzione delle Amministrazioni resistenti tendenti a limitare l’applicabilità del principio affermato dal Consiglio di Stato ed oggi dall’art. 167 del d.lgs. d.lgs. 18.04.2016, n. 50 solo alle concessioni di maggior valore economico.
Deve poi escludersi che l’indicazione del valore stimato della concessione possa essere surrogata dalla stima del numero dei possibili utenti (dato contenuto nel bando di gara del 29.07.2016 prot. n. 6472/G8 emanato dall’Istituto “Francesco Redi” di Arezzo); l’art. 167 del d.lgs. d.lgs. 18.04.2016, n. 50 opera, infatti, un preciso riferimento ad un valore della concessione stimato in termini monetari (secondo i precisi criteri di cui al quarto comma della disposizione) ed appare pertanto del tutto insufficiente l’utilizzazione di altri criteri di valutazione che, per di più, come nel caso di specie, non possono strutturalmente individuare quale sia il numero concreto di utenti interessati ad utilizzare il servizio e per quale volume di prestazioni.
Conclusivamente, deve poi rilevarsi come l’accoglimento del motivo di ricorso non sia precluso dall’eccezione d’inammissibilità articolata dalle Amministrazioni resistenti; nel caso di specie, appare, infatti, del tutto ovvio come l’incertezza in ordine al valore economico della concessione non potesse essere ravvisata con riferimento alla ricorrente (che, essendo il precedente gestore del servizio, conosceva perfettamente i dati in questione ed ammette di avere formulato regolarmente la propria offerta), ma non altrettanto può dirsi con riferimento all’altra partecipante alla procedura, che ha pertanto formulato un’offerta in mancanza di un dato essenziale per la corretta valutazione della fattibilità e convenienza del servizio.
Si tratta pertanto di un vizio evidentemente incidente sulla corretta formulazione e valutazione delle offerte e che può pertanto essere sollevato anche dal concorrente che, per effetto della propria qualità di precedente gestore del servizio, conosca già i dati economici fondamentali della concessione.
Quanto sopra rilevato evidenzia poi plasticamente come la lesività della detta violazione si sia manifestata nei confronti della ricorrente, non al momento di emanazione della lex specialis della procedura, ma nel momento successivo in cui è intervenuta l’aggiudicazione finale della procedura a favore di un soggetto che non poteva essere considerato in grado di formulare un’offerta consapevole, non conoscendo il valore economico della concessione (ed in questa prospettiva, non appare secondario il fatto che la ricorrente abbia più volte sosstolineato l’insostenibilità dell’offerta dell’aggiudicataria).
L’accenno sopra effettuato all’impossibilità sostanziale di valutare la congruità e fattibilità delle offerte in mancanza della stima del valore economico della concessione permette poi di ribadire quanto già rilevato in sede cautelare (TAR Toscana, sez. II, ord. 07.12.2016 n. 624) in ordine all’assorbimento della prima censura di ricorso per effetto dell’accoglimento del motivo di ricorso sopra richiamato; appare, infatti, di tutta evidenza come non si possa neanche parlare di valutazione dell’equilibrio finanziario o di eventuale anomalia dell’offerta in un quadro in cui sussiste totale incertezza in ordine al valore della concessione; si tratta pertanto di un vizio talmente invalidante da rendere impossibile i normali meccanismi di valutazione della congruità dell’offerta.
La necessità di rinnovare integralmente la procedura a partire dal bando permette poi di procedere all’assorbimento delle ulteriori censure proposte da parte ricorrente.
In definitiva, il secondo motivo di ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto, con conseguenziale annullamento di tutti gli atti di gara, a partire dal bando di gara 29.07.2016 prot. n. 6472/G8 emanato dall’Istituto “Francesco Redi” di Arezzo; deve, al contrario, essere rigettata l’azione di declaratoria di inefficacia del contratto, non risultando che l’atto negoziale sia stato stipulato.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l’onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico.
In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione di cui si tratta è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato. La tipicità della condotta di diffamazione consiste nell’offesa della reputazione. È dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo.
In tal senso la divulgazione di fatti non veritieri concernenti la vita di quest’ultimo può non determinare automaticamente tale lesione, giacché quelli attribuiti possono risultare indifferenti per l’integrità della sua reputazione. Ciò però non dipende esclusivamente dall’oggettiva natura del fatto divulgato, ma altresì delle implicazioni che la sua divulgazione assume in ragione delle qualifiche soggettive della persona cui viene accostato.

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6. Infondate sono le censure svolte con il quarto motivo in merito all'offensività del fatto addebitato alla Fi..
6.1 Secondo l'elaborazione tradizionale di questa Corte e della dottrina,
oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l'onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (così tra le tante Sez. 5, n. 3247 del 28.02.1995, Labertini Padovani ed altro, Rv. 20105401).
In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell'onore, ciò che viene tutelato attraverso l'incriminazione di cui si tratta è l'opinione sociale del "valore" della persona offesa dal reato.
6.2
La tipicità della condotta di diffamazione consiste nell'offesa della reputazione. E' dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo.
In tal senso la divulgazione di fatti non  veritieri concernenti la vita di quest'ultimo può non determinare automaticamente tale lesione, giacché quelli attribuiti possono risultare indifferenti per l'integrità della sua reputazione. Ciò però non dipende esclusivamente dall'oggettiva natura del fatto divulgato, ma altresì delle implicazioni che la sua divulgazione assume in ragione delle qualifiche soggettive della persona cui viene accostato.

6.3 I giudici del merito dimostrano di aver fatto buon governo di questi peraltro consolidati principi. Il fatto falsamente attribuito alla persona offesa ha, infatti, perduto la sua apparente neutralità in ragione del ruolo istituzionale ricoperto dalla stessa e dalla descrizione del particolare contesto in cui sarebbe accaduto, accostamento quest'ultimo oggettivamente insidioso per l'integrità della reputazione di un capo di Stato. Quanto al riferimento all'immagine compiuto in sentenza è evidente che il termine è stato utilizzato al fine di rafforzare il concetto di reputazione cui pure è stato accostato, formulando una sorta di endiadi (massima tratta da https://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 31.01.2017 n. 4672).

CONDOMINIOIl cortile e tutti i beni che danno aria e luce sono condominiali. Presunzioni. Salvo titolo contrario.
La Corte di Cassazione - Sez. II civile, con la sentenza 31.01.2017 n. 2532 è tornata sulla nozione di cortile, comunemente inteso come «l’area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti».
La stessa, in linea con le precedenti sentenze, non manca di riferire come «avuto riguardo all’ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio -quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi- che, sebbene non menzionati espressamente nell’articolo 1117 Codice civile, vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione (Cassazione 7889 Cassazione 7889 del 09/06/2000)» (si veda anche: Consiglio di Stato 757/2015).
In questa nozione risulterebbero comprese anche le aree scoperte con funzione di accesso agli edifici, nonché quelle con ulteriori ed eventuali funzioni, quali quella di parcheggio o deposito temporaneo di materiali (Tar Lombardia Milano n. 245/2015), ma anche il cavedio, altrimenti detto chiostrina, vanella, pozzo luce (Cassazione 17556/2014).
Per tutti questi beni, riconducibili alla nozione omnicomprensiva di cortile e, in generale, per tutte le aree scoperte che assolvono la funzione di dare luce e aria al fabbricato e agli ambienti circostanti, nonché a quelle che servono da accesso o parcheggio al condominio, vige la presunzione di condominialità: i beni si considerano cioè comuni se il contrario non risulta dal titolo, vale a dire qualora venga dimostrata la proprietà esclusiva in ragione di un valido titolo di acquisto.
In virtù di questo principio la Cassazione, nella sentenza 2532/2017, cassa la sentenza della Corte d’appello di Napoli con la quale erano state ritenute di proprietà privata di alcuni condòmini le aree scoperte dagli stessi locate a terze persone e utilizzate come parcheggio, in danno degli altri condòmini che, al contrario, ne rivendicavano la proprietà comune e indivisa tra tutti i partecipanti al condominio.
Impugnata la sentenza di secondo grado, per violazione e falsa applicazione dell’articolo 1117 del Codice civile, nel testo ante riforma del 2012, la Cassazione afferma come nell’impugnata sentenza il giudice di merito non avrebbe accertato l’eventuale esistenza di un titolo contrario che escludesse la natura condominiale del bene, nel caso di specie, un cortile, inteso quale area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ma anche come spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio, quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi.
Per completezza, con riferimento al «titolo contrario» attestante la proprietà esclusiva, si evidenzia come sia necessario esaminare l’atto costitutivo del condominio o, comunque, il primo atto di trasferimento dell’unità immobiliare a cura dell’iniziale unico proprietario ad altro soggetto, al fine di verificare se sussista la volontà di destinare a uno o più condòmini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano anche solo potenzialmente destinati all’utilizzo comune (Cassazione, sentenza 26609/2016)
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAGiurisprudenza consolidata stabilisce che il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale per l’impugnativa di un permesso a costruire va individuato non nel momento del rilascio o della pubblicazione dell’atto e neanche nella data di apposizione o presa visione del cartello di cantiere bensì nel completamento delle opere ovvero nel momento in cui le stesse hanno raggiunto un grado di consistenza tale da palesarne la portata il contenuto lesivo.
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Il fenomeno dell’ultimazione delle opere, che segna il limite temporale estremo individuato alla giurisprudenza quale dies a quo massimo di decorrenza del termine decadenziale per impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa del permesso di costruire, dies che, inoltre, in disparte l’avvenuto completamento delle opere, e da determinare anche nel momento in cui le stesse abbiano raggiunto uno stadio idoneo a fugare ogni dubbio sulla loro consistenza (…).
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E' consolidato “il principio secondo il quale il dies a quo per l’impugnazione di un permesso di costruire decorre dal momento in cui si è raggiunta la piena conoscenza del contenuto lesivo del titolo autorizzatorio, che può verificarsi o con la cognizione del medesimo e dei relativi allegati progettuali o a livello fenomenico, con la percezione della portata effettiva dell’intervento edilizio, conseguibile allorché esso sia stato ultimato o abbia raggiunto un livello esecutivo tale da fugare ogni dubbio sulla sua consistenza”.
In generale il Consiglio di Stato ha in proposito precisato i limiti del concorso del criterio basato sulla presa visione del permesso di costruire con quello oggettivo derivante dalla conseguita contezza della portata dell’intervento edilizio affermando che “nell'ipotesi di costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede giurisdizionale” e che il termine a ricorrere decorre solo dalla piena conoscenza del contenuto specifico della concessione o del progetto e dell'entità delle violazioni urbanistiche, “ovvero dal completamento, quanto meno strutturale, dell'opera stessa (d.p.r. n. 380/2001 - T.U. Edilizia)”, in tal modo giustapponendo in termini di rilevanza la cognizione del titolo e del relativo progetto, alla raggiunta consapevolezza della portata dei lavori.
Oltretutto, estendendo i confini dell’elemento oggettivo oltre il completamento delle opere, in armonia con la rilevanza attribuita dalla Sezione con la pronuncia n. 3939/2014 all’elemento oggettivo, il Consiglio aveva del resto già chiarito che “Il termine per l’impugnazione del permesso di costruire rilasciato a terzi decorre, in linea di massima, dal momento in cui la nuova costruzione rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera, in modo da evidenziare la eventuale non conformità della stessa al titolo”.
Dal che, più di recente la giurisprudenza ha apportato ulteriori elementi di chiarezza in argomento, mitigando la nettezza del riferimento al momento del completamento strutturale dell’opera ai fini dell’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine a ricorrere e annettendo dirimente rilievo al momento di percezione della concreta entità dell’intervento, al riguardo precisando che “Il termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso il rilascio di permesso di costruire decorre dalla data in cui è palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, il che si verifica quando é percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua effettiva incidenza sulla propria posizione giuridica”.

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2.1. Ad avviso del Collegio l’eccezione è infondata alla luce della giurisprudenza consolidata, espressa anche dalla Sezione, che stabilisce che il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale per l’impugnativa di un permesso a costruire va individuato non nel momento del rilascio o della pubblicazione dell’atto e neanche nella data di apposizione o presa visione del cartello di cantiere bensì nel completamento delle opere ovvero nel momento in cui le stesse hanno raggiunto un grado di consistenza tale da palesarne la portata il contenuto lesivo.
La Sezione ha di recente precisato infatti che “il fenomeno dell’ultimazione delle opere, che segna il limite temporale estremo individuato alla giurisprudenza quale dies a quo massimo di decorrenza del termine decadenziale per impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa del permesso di costruire (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, 04.06.2015 n. 1856; TAR Sicilia-Catania, Sez. I, 19.11.2015 n. 2677), dies che, inoltre, in disparte l’avvenuto completamento delle opere, e da determinare anche nel momento in cui le stesse abbiano raggiunto uno stadio idoneo a fugare ogni dubbio sulla loro consistenza (…)” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 09.03.2016, n. 1300).
2.2. Segnala in argomento il Collegio che la Sezione ha già denotato che è consolidato “il principio secondo il quale il dies a quo per l’impugnazione di un permesso di costruire decorre dal momento in cui si è raggiunta la piena conoscenza del contenuto lesivo del titolo autorizzatorio, che può verificarsi o con la cognizione del medesimo e dei relativi allegati progettuali o a livello fenomenico, con la percezione della portata effettiva dell’intervento edilizio, conseguibile allorché esso sia stato ultimato o abbia raggiunto un livello esecutivo tale da fugare ogni dubbio sulla sua consistenza” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 15.07.2014, n. 3939).
In generale il Consiglio di Stato ha in proposito precisato, a conferma della sentenza della Sezione distaccata di questo TAR n. 890/2013, i limiti del concorso del criterio basato sulla presa visione del permesso di costruire con quello oggettivo derivante dalla conseguita contezza della portata dell’intervento edilizio affermando che “nell'ipotesi di costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede giurisdizionale” e che il termine a ricorrere decorre solo dalla piena conoscenza del contenuto specifico della concessione o del progetto e dell'entità delle violazioni urbanistiche, “ovvero dal completamento, quanto meno strutturale, dell'opera stessa (d.p.r. n. 380/2001 - T.U. Edilizia)” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.04.2014, n. 1995), in tal modo giustapponendo in termini di rilevanza la cognizione del titolo e del relativo progetto, alla raggiunta consapevolezza della portata dei lavori.
2.3. Oltretutto, estendendo i confini dell’elemento oggettivo oltre il completamento delle opere, in armonia con la rilevanza attribuita dalla Sezione con la pronuncia n. 3939/2014 all’elemento oggettivo, il Consiglio aveva del resto già chiarito che “Il termine per l’impugnazione del permesso di costruire rilasciato a terzi decorre, in linea di massima, dal momento in cui la nuova costruzione rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera, in modo da evidenziare la eventuale non conformità della stessa al titolo” (Cons. di Stato, Sez. IV, 21.11.2013, n. 5522).
Dal che, più di recente la giurisprudenza, sulla scia di quest’ultimo precedente, a partire dal Consiglio di Stato, seguito da questo Tribunale, ha apportato ulteriori elementi di chiarezza in argomento, mitigando la nettezza del riferimento al momento del completamento strutturale dell’opera ai fini dell’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine a ricorrere e annettendo dirimente rilievo al momento di percezione della concreta entità dell’intervento, al riguardo precisando che “Il termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso il rilascio di permesso di costruire decorre dalla data in cui è palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, il che si verifica quando é percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua effettiva incidenza sulla propria posizione giuridica” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.04.2015 n. 1746; TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, 04.11.2015 n. 5118) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 31.01.2017 n. 681 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’articolo 30, comma 1, lett. a), del d.l. n. 69 del 2013, convertito in legge n. 98 del 2013, ha introdotto all’articolo 3, lett. d), del Tuel l’inciso: “nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Prima di allora, la Giurisprudenza riteneva che la ristrutturazione comprendesse solo interventi in cui la demolizione e fedele ricostruzione avvenissero contemporaneamente.
La nuova normativa tuttavia è chiara nel modificare tale situazione ricomprendendovi anche ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza; sicché dall’entrata in vigore del d.l. n. 69 del 2013, deve ritenersi che anche l’intervento proposto dall’odierno ricorrente (NDR: richiesta del permesso di costruire per una ristrutturazione edilizia attraverso la fedele ricostruzione di un fabbricato residenziale preesistente e demolita perché in condizioni di degrado in ottemperanza all’ordinanza sindacale) rientri a pieno titolo nell’ambito di quelli di cui all’articolo 3, lett. d), del Tuel.
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Per il principio del tempus regit actum, cioè per il principio di legalità dell’agire amministrativo, al provvedimento amministrativo si applica la disciplina vigente al momento della sua adozione (cfr. Tar Palermo, sentenza n. 1963 del 2016), sicché è con riferimento alla normativa più favorevole introdotta dal d.l. n. 69 del 2013, articolo 30, che deve essere esaminata l’istanza di parte ricorrente.
Né tale disciplina di maggior favore contiene un obbligo di accertare se la precedente demolizione sia avvenuta per ordine dell’Amministrazione o per volontà del proprietario, come si evince dalla locuzione “per crollo o demolizione”, sicché appare del tutto ingiustificata la considerazione contenuta nella relazione del Comune di Pescara, secondo cui il ricorrente scegliendo la via della demolizione, prima dell’entrata in vigore dell’articolo 30, comma 1, lett. a), della legge n. 98 del 2013, si sarebbe precluso la possibilità della ristrutturazione.
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Il ricorrente in data 07.01.2014 ha chiesto al Comune di Pescara il permesso di costruire per una ristrutturazione edilizia attraverso la fedele ricostruzione di un fabbricato residenziale preesistente (ex Casa Cantoniera, asseritamente costruita in data prossima al 1870, accatastata il 27.06.1940, e demolita perché in condizioni di degrado in ottemperanza all’ordinanza sindacale n. 436 del 23.05.2008) ai sensi dell’art. 30 del D.L. 69/2013 conv. in L. 98/2013 (cd. decreto del fare); intervento ricadente tra l’altro all’interno della cd. riserva “Pineta Dannunziana”.
Con provvedimento del 24.06.2015 il Comune resistente ha dichiarato l’improcedibilità della richiesta di autorizzazione paesaggistica presentata in ragione della zona in cui ricade l’intervento, ritenendo che esso non potesse rientrare “tra gli interventi ammissibili dagli strumenti pianificatori vigenti” giacché “la sagoma del fabbricato preesistente è posta all’interno del perimetro della “Pineta Dannunziana” (dove) sono consentiti gli interventi di cui alla L.R. n. 18/1983 art. 30, comma 1, lett. a), b), c) e d)”.
Tale provvedimento è stato impugnato con separato ricorso avanti a questo Tribunale amministrativo.
In data 16.11.2015 è stato quindi adottato il provvedimento qui impugnato, di diniego del permesso di costruire, così motivato: “non è assentibile in quanto prevede la ricostruzione di un fabbricato già demolito in contrasto con quanto previsto dall’art. 50 lett. A) delle NTA del PRG vigente in quanto l’immobile proposto risulta essere incluso nella sottozona F1 e nello specifico anche all’interno del Piano Particolareggiato n. 3 Parco D’Avalos di iniziativa pubblica”.
Ai sensi dell’articolo 50, lett. a), per quanto d’interesse, è previsto che “Per gli edifici privati presenti all’interno dell’ambito, in assenza del P.P., sono consentiti gli interventi di cui alle lett. a), b), e c) dell’art. 9 delle presenti Norme Tecniche di Attuazione”; che corrisponde a quanto più in generale previsto dall’articolo 15, comma 4, delle medesime NTA: “In assenza di strumento attuativo, gli interventi consentiti sono quelli di cui alle lettere a), b), e c) dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, e il rifacimento del tetto senza aumento dell'altezza del fabbricato”.
Le lettere a), b) e c) dell’articolo 9 in questione contemplano sostanzialmente interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria nonché risanamento conservativo e restauro.
Il ricorrente lamenta sostanzialmente che avendo iniziato la valutazione della compatibilità paesaggistica l’Amministrazione avrebbe implicitamente valutato positivamente la conformità edilizia e urbanistica dell’intervento atteso che da un punto di vista procedimentale tali valutazioni dovrebbero essere precedenti, a mente dell’articolo 20, comma 3, del tuel; lamenta inoltre la violazione del comma 6 dell’articolo 50 delle NTA del PRG il quale prevede che: “Per i manufatti preesistenti sono consentiti gli interventi di cui alla lett. a), b), c) e d), dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 e successive integrazioni e modificazioni, come meglio specificato all’art. 9 delle presenti Norme Tecniche di Attuazione con il mantenimento delle destinazioni d’uso esistenti, ad eccezione delle modifiche di cui al precedente comma 2” (in sostanza quindi sarebbero ammessi nel caso di specie anche interventi di ristrutturazione con demolizione e fedele ricostruzione, anche se nel caso di specie demolizione e ricostruzione non sarebbero contestuali, e ciò in applicazione dell’articolo 3, lett. d), del D.P.R. 380/2001, ancor prima delle modifiche introdotte dall’articolo 30 della L. 98/2013; e a tal fine richiama Cass., S.U., sentenza n. 21578/2011); che la stessa Amministrazione, ordinando la demolizione dell’immobile perché pericolante, avrebbe manifestato di ritenere ammissibili in quelle aree anche interventi ulteriori rispetto a quelli di cui alle lett. a), b), e c) dell’art. 9 delle vigenti Norme Tecniche di Attuazione (e per converso se tale ordine di demolizione fosse illegittimo la stessa demolizione dovrebbe ritenersi tamquam non esset e quindi si dovrebbe considerare contemporanea la demolizione e fedele ricostruzione); che nel caso di lotti interclusi o in situazioni di diffusa urbanizzazione la previa approvazione di piani attuativi non sarebbe necessaria; che il vincolo di piano di cui si discute sarebbe stato imposto nel 2001 e poi reiterato nel 2006, quindi ora la zona sarebbe da considerare come zona bianca essendo trascorsi oltre 15 anni e quindi si applicherebbe la disciplina di cui all’articolo 41-quinquies della L. n. 1150/1942 con conseguente possibilità di realizzare interventi di demolizione e ricostruzione.
All’udienza del 13.01.2017 la causa è passata in decisione.
Il ricorso è fondato.
Dalla relazione dell’Amministrazione del 01.02.2016, depositata in giudizio, emerge che quest’ultima ha ritenuto che l’intervento non potesse rientrare nella previsione di cui all’articolo 3, lett. d), del Tuel, in quanto nell’ordinanza n. 439 del 2009, emessa per motivi di pubblica incolumità, si è imposto al ricorrente di provvedere alla demolizione o al consolidamento dell’immobile in questione, sicché egli scegliendo la via della demolizione, prima dell’entrata in vigore dell’articolo 30, comma 1, lett. a), della legge n. 98 del 2013 (che ha introdotto nell’ambito della ristrutturazione anche gli interventi di fedele ricostruzione di immobili già demoliti la cui consistenza possa essere determinata con certezza), si sarebbe precluso la possibilità della ristrutturazione secondo il vecchio regime; inoltre il vincolo di piano, non avendo natura espropriativa, non sarebbe affatto decaduto.
Come noto, l’articolo 30, comma 1, lett. a), del d.l. n. 69 del 2013, convertito in legge n. 98 del 2013, ha introdotto all’articolo 3, lett. d), del tuel l’inciso: “nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Prima di allora, la Giurisprudenza riteneva che la ristrutturazione comprendesse solo interventi in cui la demolizione e fedele ricostruzione avvenissero contemporaneamente (cfr. Tar Napoli, sentenza n. 5668 del 2014).
La nuova normativa tuttavia è chiara nel modificare tale situazione ricomprendendovi anche ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza; sicché dall’entrata in vigore del d.l. n. 69 del 2013, deve ritenersi che anche l’intervento proposto dall’odierno ricorrente rientri a pieno titolo nell’ambito di quelli di cui all’articolo 3, lett. d), del tuel.
Ne consegue la fondatezza della pretesa, atteso che il comma 6 dell’articolo 50 delle NTA del PRG, nel disciplinare in generale la sottozona F1, comprendente i parchi pubblici a) Parco D’Avalos – P.P. n. 3 e b) Parco Fluviale – P.P. n. 4, come ricordato prevede che: “Per i manufatti preesistenti sono consentiti gli interventi di cui alla lett. a), b), c) e d), dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 e successive integrazioni e modificazioni”.
Del resto l’Amministrazione non contesta che il manufatto in questione fosse preesistente né che avesse la consistenza postulata da parte ricorrente.
Per il principio del tempus regit actum, cioè per il principio di legalità dell’agire amministrativo, al provvedimento amministrativo si applica la disciplina vigente al momento della sua adozione (cfr. Tar Palermo, sentenza n. 1963 del 2016), sicché è con riferimento alla normativa più favorevole introdotta dal d.l. n. 69 del 2013, articolo 30, che deve essere esaminata l’istanza di parte ricorrente.
Né tale disciplina di maggior favore contiene un obbligo di accertare se la precedente demolizione sia avvenuta per ordine dell’Amministrazione o per volontà del proprietario, come si evince dalla locuzione “per crollo o demolizione”, sicché appare del tutto ingiustificata la considerazione contenuta nella relazione del Comune di Pescara, secondo cui il ricorrente scegliendo la via della demolizione, prima dell’entrata in vigore dell’articolo 30, comma 1, lett. a), della legge n. 98 del 2013, si sarebbe precluso la possibilità della ristrutturazione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 31.01.2017 n. 56 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Senza certificato di abitabilità la casa non si può vendere. Ricorda la Cassazione che tale mancanza legittima la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.
L'immobile non è commerciabile se manca il certificato di abitabilità.
Lo ha sancito la II Sez. civile della Corte di Cassazione (con la sentenza 30.01.2017 n. 2294), esprimendosi in una vicenda che vedeva un acquirente chiamare in causa il venditore a causa del mancato rilascio del certificato di abitabilità dell'appartamento acquistato, data l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerlo "in dipendenza della presenza di un fenomeno di umidità di ampie proporzioni".
La violazione di tale obbligo legittima, perciò, si legge nella sentenza "sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno -sia ancora- l'eccezione di inadempimento" e non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, "abbia già presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarità amministrativa dell'immobile" (commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
Va debitamente premesso che,
in materia di vendita di immobile destinato ad abitazione, questa Corte spiega che integra ipotesi di consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica (cfr. Cass. 27.07.2006, n. 17140).
E soggiunge che
il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l'immobile stesso è incommerciabile; e che la violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, abbia già presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarità amministrativa dell'immobile (cfr. Cass. 23.01.2009, n. 1701; cfr. Cass. 20.04.2006, n. 9253, ove si precisa inoltre che è irrilevante la concreta utilizzazione dell'immobile ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari).

TRIBUTISanzioni ko se la p.a. è in ritardo.
Se il mancato o tardivo pagamento delle imposte è imputabile all'esistenza di crediti incagliati, vantati nei confronti di amministrazioni pubbliche, l'inadempimento del contribuente non deve essere sanzionato. Il ritardo nei pagamenti della p.a., infatti, si qualifica come una causa di forza maggiore, non punibile ai sensi dell'articolo 6, comma 5, del dlgs 472/1997.

È quanto si legge nella sentenza 30.01.2017 n. 2021/16/2017 della Ctp di Roma.
La vertenza prende le mosse dal ricorso proposto da una società a responsabilità limitata della capitale, contro una cartella di pagamento emessa ai sensi degli articoli 36-bis del dpr 600/1973 e 54-bis del dpr 633/1972, a seguito di omessi e/o tardivi versamenti d'imposta per l'anno 2012.
Il difensore della società sosteneva principalmente l'argomentazione della non colpevolezza della contribuente, evidenziando come i mancati o tardivi pagamenti fossero imputabili a una carenza di liquidità, provocata dal ritardo nell'incasso di alcuni crediti iscritti in bilancio e relativi a commesse realizzate per conto di enti pubblici. Il motivo di ricorso ha convinto i giudici capitolini, che hanno annullato sanzioni per oltre 3 milioni di euro, pur compensando le spese del giudizio, in ragione della novità dell'interpretazione fornita.
A tal proposito, la Commissione richiama il dlgs 472/1997, contenente le disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, e in particolare la causa di «non punibilità» prevista dall'articolo 6, comma 5, secondo cui «non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore».
Per forza maggiore, spiega la Ctp, deve intendersi, nel caso di specie, la carenza di liquidità determinata da ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione. Analogo principio era stato affermato dalla Ctr di Roma nella sentenza n. 4203/03/16, secondo cui il citato comma 5 prevede proprio una causa di non punibilità dell'inadempimento tributario, quando esso sia dipeso da una forza maggiore, ovvero da una ragione esterna al soggetto obbligato, non potendo sussistere, in tal caso, la sanzione tributaria a carico di costui.
Dunque, qualora il mancato o tardivo pagamento d'imposte sia in stretta connessione con i ritardi nei pagamenti delle commesse eseguite in favori di enti pubblici, la relativa sanzione è passibile di annullamento. Ciò anche in ragione dell'unicità o della stretta connessione tra stato impositore e amministrazione pubblica.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Sul ricorso presentato il 30/05/2016 dalla società ( ) rappresentata e difesa dal dottore commercialista Na.Gi., presso il cui studio elegge domicilio, in Roma piazzale ... n. 8 [ ] contro Agenzia delle entrate direzione provinciale II di Roma. Avverso la cartella esattoriale emessa ai sensi dell'art. 36-bis dpr 600/1973 per imposte Ires e Iva relative all'anno 2012.
Chiede la ricorrente l'annullamento delle sanzioni per omessi/tardivi versamenti causati da illiquidità e crisi finanziaria della società e quindi una causa di «forza maggiore» in presenza di crediti vantati con la pubblica amministrazione che superano di gran lunga il 50% del totale, idonea a escludere l'applicazione delle sanzioni tributarie (dlgs 472/1997, art. 6, c. 5).
[omissis] La Commissione dopo aver esaminato il ricorso, le deduzioni dell'ufficio, la memoria e la documentazione in atti ritiene che il ricorso stesso vada accolto.
Nel comportamento della società non è assolutamente ravvisabile il dolo, ma seppure una colpa attenuata dalla dimostrata situazione finanziaria per lo più causata dal tardivo pagamento di ingenti crediti vantati nei confronti di pubbliche amministrazioni sebbene diverse dall'amministrazione finanziaria.
Il comportamento della ricorrente non è quindi stato finalizzato alla elusione o evasione fiscale, ma trattasi di omessi versamenti scaturenti da regolare dichiarazione per complessivi € 623.023,00 nonché di ritardati versamenti relativi a tutti i mesi da gennaio a settembre 2012 che hanno generato sanzioni amministrative (30%) per complessivi € 2.585.485,00 che vengono contestate. Tra l'altro una gestione più accorta di questi pagamenti tardivi con il 1° pagamento di gennaio alla fine di tutti e gli altri pagati nei termini, avrebbe comportato una sanzione di gran lunga più contenuta.
La Commissioni ritiene doversi applicare alla fattispecie il comma 5 dell'art. 6 del dlgs del 18/12/1997 n. 472 «Non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore». Per forza maggiore, come nel caso di cui si discute, è da intendersi la mancanza di liquidità dovuta a ingenti crediti contabilizzati nei confronti di pubbliche amministrazioni. Questo fatto legittima l'esclusione delle sanzioni per l'assenza del requisito della colpevolezza.
La Commissione ritiene non dovute le sanzioni tributarie e trattandosi della non facile interpretazione della norma sulle cause di non punibilità, compensa le spese di giudizio.
PQM
La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).

TRIBUTIPer l’edificabilità del terreno è sufficiente il piano generale. Immobili. Anche se manca lo strumento attuativo.
I terreni inseriti nei piani strutturali comunali nell’ambito di nuovi insediamenti devono essere considerati edificabili ai fini fiscali, anche in assenza del piano operativo che regola la reale possibilità di trasformazione del territorio.

Lo ha statuito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 27.01.2017 n. 2107.
Ancorché la pronuncia, molto attesa da enti impositori e contribuenti considerando il rilevante contenzioso pendente presso le commissioni tributarie, abbia riguardato i riflessi fiscali dei nuovi strumenti urbanistici che diversi comuni dell’Emilia Romagna hanno adottato in ossequio alla l.r. 20/2000, i principi in essa contenuta avranno inevitabili effetti, con riguardo a qualsiasi tributo, anche nelle altre regioni ove sono stati abbandonati i tradizionali strumenti urbanisti in favore di una più moderna pianificazione del territorio.
Venendo al caso di specie, due contribuenti avevano impugnato cinque avvisi di accertamento Ici (per gli anni d’imposta dal 2004 al 2008) con il quale il comune pretendeva l’imposta per un terreno sulla base del valore di mercato anziché su quello catastale. I ricorrenti ritenevano infatti che il terreno dovesse essere considerato agricolo, anche ai fini Ici, in quanto il fatto che il nuovo piano strutturale comunale (Psc) avesse ricompreso il terreno in un ambito destinato a nuovi insediamenti residenziali sarebbe stato irrilevante fino all’adozione del piano operativo comunale (Poc).
Sia la commissione tributaria provinciale che quella regionale condividevano l’assunto dei contribuenti in base al rilievo che l’articolo 28 della l.r. 20/2000, definendo il Psc strumento di pianificazione urbanistica generale predisposto dal comune per delineare le scelte strategiche di assetto e sviluppo, non gli attribuisce alcuna potestà edificatoria, a differenza del Poc che regola invece la reale possibilità di trasformazione del territorio.
Di diverso avviso è stata invece la Cassazione. Secondo i giudici del Palazzaccio l’edificabilità di un terreno ai fini della determinazione del suo valore venale non può, una volta che essa è riconosciuta da uno strumento urbanistico generale, ritenersi inficiata dalla eventuale mancanza di un piano particolareggiato o attuativo.
E ciò in ossequio all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità incentrato sull’articolo 36, comma 2, del dl 223/2006, convertito dalla legge 248/2006, secondo il quale l’edificabilità di un’area ai fini fiscali deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel piano regolatore generale adottato dal comune, indipendentemente dall’approvazione da parte della regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi (Cassazione 21156/2016, 11182/2014 ed altre).
Richiamando i principi già espressi dalle sezioni unite n. 25506/2006, la Corte ha pertanto ritenuto che i terreni collocati dal Psc in un ambito destinato a nuovi insediamenti residenziali debbano essere considerati edificabili, a nulla rilevando che la potestà edificatoria possa conseguire unicamente dall’inclusione del terreno nel Poc trattandosi, quest’ultimo, di uno strumento urbanistico che incide sul mero ius edificandi.
Nonostante l’articolo 28 della l.r. 20/2000 sia stato modificato nel 2009 con l’introduzione dell’inciso che «il Psc non attribuisce in nessun caso potestà edificatoria alle aree né conferisce alle stesse una potenzialità edificatoria subordinata all’approvazione del Poc», dalla sentenza 2107/2017 è dato desumere che ai fini fiscali tale precisazione sia comunque irrilevante avendo solo riflessi di natura urbanistica
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICAAllo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.

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12. L’appello è improcedibile, perché è corretta l’affermazione del Comune secondo cui, essendo venuto meno e sostituito da altro strumento urbanistico il piano particolareggiato oggetto della delibera impugnata, gli appellanti non otterrebbero alcun vantaggio da un eventuale accoglimento dell’impugnazione proposta avverso un atto non più efficace.
13. A questa tesi gli appellanti oppongono che, per quanto di interesse, il nuovo P.G.T. non si discosterebbe dalle previsioni del piano precedente, rispetto al quale si porrebbe come atto meramente confermativo.
14. Viene in questione l’art. 27, comma 1, delle N.T.A. al piano delle regole previsto dal P.G.T. del 2013, il quale recita: “Per gli interventi in zone che sono già state oggetto di Pianificazione attuativa, o di convenzioni relative a PA vigenti, sono confermati i parametri edilizi e le norme previste dalle convenzioni stesse, o dalla norme di Piani di iniziativa pubblica o di Programmazione Integrata”.
15. La conferma da parte del P.G.T. delle previsioni del piano particolareggiato è testuale. Tuttavia, questo dato incontrovertibile non basta a rendere fondata la replica degli appellanti all’eccezione di improcedibilità mossa dal Comune, in quanto non è corretto il corollario che essi pretendono di trarne, essere cioè il P.G.T. in parte qua puramente confermativo della precedente previsione urbanistica.
16. A questo proposito, va ricordata la costante giurisprudenza elaborata in tema di atto di conferma.
17. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi. In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2014, n. 1805; sez. IV, 12.02.2015, n. 758; sez. IV, 29.02.2016, n. 812; sez. IV, 12.10.2016, n. 4214).
18. Nel caso di specie, la lettura integrale dell’art. 27 delle N.T.A. dimostra che -al contrario di quanto sostiene la difesa degli appellanti, che ha ribadito l’argomento nella discussione in udienza pubblica- nel dettare una organica disciplina urbanistica del proprio territorio, l’Amministrazione comunale, anche là dove ha ritenuto di confermare le scelte in precedenza operate, abbia disposto una nuova e articolata istruttoria, il cui atto conclusivo rappresenta l’esito di una rinnovata valutazione anche della situazione controversa. Infatti, i commi successivi al primo, sopra riportato, recano una disciplina che, dopo averla confermata come quadro generale, integra, specifica o deroga (si veda il comma 6) quella dei precedenti piani attuativi.
Nella parte che interessa, il P.G.T. costituisce dunque un atto di conferma, per le ragioni che si sono dette; e perciò atto che ha preso il posto di quello impugnato in primo grado e che, per essere dotato di una propria e autonoma efficacia lesiva, avrebbe richiesto una separata impugnazione, la mancanza della quale rende l’appello improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, trasferendosi l'interesse del ricorrente dall'annullamento dell'atto impugnato, sostituito dal nuovo provvedimento, a quest'ultimo (cfr. in termini Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2004, n. 731, con ampio apparato di precedenti).
19. Diversamente da quanto sostengono gli appellanti, questa conclusione non può essere contrastata sulla base della nota giurisprudenza che, partendo dalla premessa che i piani particolareggiati attuativi dei piani regolatori generali hanno efficacia decennale, con esclusione degli allineamenti e delle prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso destinati a essere applicati a tempo indeterminato anche in presenza di uno strumento urbanistico generale, trae la conseguenza che, in considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, le prescrizioni urbanistiche relative rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza (gli appellanti citano Cons. Stato, sez. IV, 27.10.2009, n. 6568; ivi riferimenti ulteriori).
E ciò, sia perché quella giurisprudenza nasce in relazione al ben diverso quesito del se la scadenza del termine decennale trasformi o no le aree considerate in “zone bianche”, sia perché nel caso in questione non di scadenza del piano attuativo si tratta, ma della sua sostituzione ad opera di un diverso e rinnovato strumento urbanistico.
20. Dalle considerazioni che precedono discende che -come anticipato- l’appello è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
21. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, cfr. Cass. civ., sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012 n. 7663) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2017 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe controversie in materia di determinazioni e pagamento degli oneri concessori, investendo l’esistenza o l’entità di un’obbligazione legale, concernono diritti soggettivi e rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con la conseguenza che la relativa domanda non soggiace al regime di decadenza proprio del processo di impugnazione, ma può essere proposta nel termine di prescrizione ordinaria ed indipendentemente dall’impugnazione di eventuali atti.
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Deve dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo quanto alla questione relativa all’escussione della polizza fideiussoria.
Come, infatti, affermato dalla Suprema Corte, la controversia avente ad oggetto l’escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l’autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la Pubblica Amministrazione agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri.
Va, quindi, indicato il giudice ordinario quale giudice munito di giurisdizione, innanzi al quale il processo potrà essere riproposto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11, secondo comma, c.p.a..

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Come affermato dalla giurisprudenza, allorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, ovvero quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pubblica Amministrazione, anche ai sensi dell’art. 2033 o, comunque, dell’art. 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il contributo concessorio, infatti, è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio e, quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare, cosicché l’importo versato va restituito, con la precisazione che il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente, tenuto conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all’oggetto della costruzione, di talché l’avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata.
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Con il presente gravame la società ricorrente ha chiesto al Tribunale di dichiarare non dovuta la somma di € 46.949,13, richiesta dal Comune di Messina a titolo di oneri concessori in relazione ad un intervento edilizio, con conseguente inibizione per l’Ente di escutere la polizza fideiussoria stipulata dalla società.
Nel ricorso si espone in fatto quanto segue:
   a) la società ha presentato istanza per il rilascio di una concessione edilizia per la costruzione di un fabbricato da realizzare in località Montepiselli del Comune di Messina;
   b) il progetto prevedeva la realizzazione di due corpi di fabbrica: il primo (denominato “A”) a quattro elevazioni fuori terra, più piano portico destinato a parcheggio e piano interrato destinato a cantine a servizio delle abitazioni; il secondo (denominato “B”) destinato alla realizzazione di cantine, il quale si sarebbe dovuto sviluppare su tre livelli interrati;
   c) dopo l’inizio dei lavori, la società, con nota in data 06.05.2009, ha comunicato all’Amministrazione che sarebbe stato realizzato soltanto il corpo di fabbrica “A” e che, per l’effetto, sarebbero stati comunicati i nuovi conteggi relativi agli oneri concessori dovuti;
   d) più esattamente, rispetto al calcolo effettuato in fase progettuale (per un importo pari ad € 66.681,00), il contributo, in seguito alla effettiva realizzazione dell’opera, veniva rideterminato in € 55.543,20, con un residuo debito della società nei confronti dell’Amministrazione pari ad € 13.746,73;
   e) ciò nonostante, il Comune di Messina ha tentato di escutere la polizza fideiussoria stipulata dalla società a garanzia del pagamento del costo di costruzione per un importo complessivo di € 46.949,13.
La ricorrente ha osservato che, come affermato dalla giurisprudenza, a fronte di opere non compiute, l’Amministrazione non può richiedere il pagamento degli oneri concessori.
...
Il Collegio ritiene che l’eccezione di tardività del gravame proposta dall’Amministrazione intimata debba essere rigettata.
Al riguardo, deve osservarsi che le controversie in materia di determinazioni e pagamento degli oneri concessori, investendo l’esistenza o l’entità di un’obbligazione legale, concernono diritti soggettivi e rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con la conseguenza che la relativa domanda non soggiace al regime di decadenza proprio del processo di impugnazione, ma può essere proposta nel termine di prescrizione ordinaria ed indipendentemente dall’impugnazione di eventuali atti (sul punto, cfr. TAR di Catania, Sez. I, n. 1881/2015).
Deve, inoltre, dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo quanto alla questione relativa all’escussione della polizza fideiussoria.
Come, infatti, affermato dalla Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. Un., n. 4319/2010), la controversia avente ad oggetto l’escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia, attesa l’autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la Pubblica Amministrazione agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri.
Va, quindi, indicato il giudice ordinario quale giudice munito di giurisdizione, innanzi al quale il processo potrà essere riproposto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11, secondo comma, c.p.a..
Tanto precisato, il ricorso appare, per il resto, fondato.
Invero, come affermato dalla giurisprudenza, allorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, ovvero quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pubblica Amministrazione, anche ai sensi dell’art. 2033 o, comunque, dell’art. 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il contributo concessorio, infatti, è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio e, quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare, cosicché l’importo versato va restituito, con la precisazione che il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente, tenuto conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all’oggetto della costruzione, di talché l’avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 105/1988, n. 894/1995 e n. 3714/2003; TAR Lombardia, Sez. II, n. 728/2010; TAR Abruzzo, n. 890/2006; TAR di Parma, n. 149/1998; TAR di Catania, Sez. I, n. 159/2013).
In conclusione, il ricorso va in parte dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e in parte va accolto, dichiarandosi non dovuta, per l’effetto, la pretesa di pagamento del Comune di Messina per l’importo di € 46.949,13 (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 27.01.2017 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIO firma digitale o costituzione ko. Il Tar Calabria sull'impresa in gara.
Azienda batte Regione, almeno per ora: l'impresa non può essere esclusa d'emblée dalla gara per la realizzazione di un impianto di valorizzazione dei rifiuti. Ma il punto è che l'amministrazione non riesce a far valere in sede cautelare le sue ragioni in quando la sua costituzione in giudizio risulta nulla per violazione delle norme sul processo amministrativo telematico. E ciò perché è impossibile controllare la provenienza dell'atto tanto che esso appare privo dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo ex articolo 156, secondo comma, Cpc.

È quanto emerge dall'ordinanza 26.01.2017 n. 33, pubblicata dal TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, che costituisce una delle prime sentenze pronunciate sulle nuove regole del Pat.
Doppio errore. Il ricorso della spa merita accoglimento, almeno in base alla cognizione sommaria tipica della fase cautelare. Il bando per gestire l'impianto in grado di «riciclare» materie prime secondarie richiede per ogni associato al raggruppamento temporaneo dei progettisti una corrispondenza tra quota di partecipazione e quota di esecuzione lavori, al di là della qualifica professionale posseduta.
Ma la mancata corrispondenza tra quota di esecuzione e quota di qualificazione per il geologo e il professionista con comprovata esperienza nel campo degli impianti elettrici e dell'automazione non appare essere una causa di esclusione.
Intanto tutto tace dalla parte della Regione che si è autoesclusa dalla partita: infatti la mancanza della firma digitale apposta sull'atto di costituzione impedisce di verificarne la paternità, cioè che esso provenga dal difensore che ne appare l'autore (si configura dunque la violazione dell'articolo 136, comma 2-bis Cpa e dell'articolo 9, comma 1, del decreto ministeriale 40/2016).
L'ente territoriale ha inoltre depositato la copia digitale per immagini della procura conferita dal presidente della Regione senza attestarne la conformità all'originale, violando ancora le norme del codice processo amministrativo e del Pat: non si può dunque controllare provenga veramente dal legale rappresentante. Non resta che aspettare l'udienza pubblica fissata per il 10 maggio. Compensate le spese della fase cautelare (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

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MASSIMA
- Rilevato che il ricorso è stato depositato l’11.01.2017 e pertanto esso è sottoposto alla disciplina del processo amministrativo telematico;
- Ritenuto, alla stregua di tale elemento temporale, che la costituzione della Regione Calabria non sia conforme al modello stabilito dalla legge, in quanto tale amministrazione:
a) ha depositato copia digitale per immagini di un atto di costituzione cartaceo, in violazione dell’art. 136, comma 2-bis c.p.a. e dell’art. 9, comma 1 d.m. 16.02.2016, n. 40, che prescrivono che gli atti delle parti siano redatti in formato di documento informatico sottoscritto con firma digitale;
b) ha depositato copia digitale per immagini della procura conferita dal Presidente della Regione, senza attestarne la conformità all’originale ai sensi dell’art. 136, comma 2-ter c.p.a. e dell’art. 8, comma 2 d.m. 16.02.2016, n. 40;
- Ritenuto che nel caso di specie l’atto di costituzione manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo (art. 156, comma II c.p.c.), in quanto:
a) la mancanza della firma digitale apposta sull’atto di costituzione impedisce di verificarne la paternità, e cioè che esso provenga dal difensore che ne appare l’autore (cfr. anche l’art. 44, comma 1 c.p.a. con riferimento al ricorso);
b) non è possibile, in mancanza della prescritta attestazione, ritenere la conformità all’originale della copia digitale della procura prodotta;
- Ritenuto, pertanto, che la costituzione sia nulla;

APPALTIConsorzio stabile, fruibili qualifiche delle consorziate. Qualificazione per appalti di servizio.
I consorzi stabili operanti negli appalti di servizi si qualificano ancora con le regole del dpr 207/2010 e quindi possono utilizzare le qualifiche delle imprese consorziate.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, con la sentenza 25.01.2017 n. 1324.
La questione affrontata dai giudici riguardava la possibilità per un consorzio stabile operante nel settore dei servizi di qualificarsi, in una gara bandita dopo l'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, con i requisiti delle consorziate e non secondo le regole dell'art. 47.
In questa materia peraltro l'articolo 83 del decreto 50 rinvia per i lavori alle linee guida che l'Anac dovrebbe emanare entro aprile 2017 per la definizione dei «requisiti e capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all'articolo 45, lettere b) e c)» e stabilisce che «fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14».
Quest'ultima norma rende applicabile anche l'articolo 81 del dpr 207/2010 e l'art. 36, comma 7, del decreto 163/2006, ovvero la regola per la quale i consorzi stabili si qualificano sulla base delle qualificazioni possedute dalle singole imprese consorziate.
Si tratta di una disciplina che, nota la sentenza, «realizza una particolare forma di avvalimento che non richiede il ricorso all'avvalimento ex art. 49, dlgs 163/2006. Con la conseguenza che il consorzio stabile può partecipare alle gare di appalto avvalendosi dei requisiti delle proprie consorziate, senza necessità di stipulare un contratto di avvalimento».
I giudici precisano quindi che questa disciplina, che non faceva differenza fra lavori e servizi, risulta applicabile anche oggi e, finché non usciranno le linee guida, anche agli appalti di servizi banditi dopo il 19.04.2016.
Per i giudici, infatti, il rinvio alle regole antecedenti, ancorché espresso immediatamente dopo la rimessione all'Anac del compito di predisporre le linee guida per i lavori, è di carattere assoluto («Fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14», non essendo stata richiamata, anche in tal caso, la delimitazione che connota il periodo precedente («per i lavori») (articolo ItaliaOggi del 03.02.2017).

EDILIZIA PRIVATALa moschea è considerata un servizio. Tar Lazio. La qualificazione dell’attività svolta e il cambio di destinazione d’uso.
Una moschea rientra nella categoria dei “servizi”, se il piano urbanistico comprende in tale generica categoria le attrezzature culturali e religiose, i pubblici esercizi, gli sportelli tributari e bancari, le sedi universitarie.

Lo precisa, per un intervento nella capitale, il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con sentenza 25.01.2017 n. 1323.
Il caso esaminato riguarda un edificio in località Centocelle, nel «tessuto della città consolidata», per un seminterrato di 280 metri quadrati destinato a deposito con il piccolo zona vendita in un edificio di più piani. Del locale era stato chiesto il cambio di destinazione d’uso per farne luogo di preghiera dei fedeli dell’Islam, con esecuzione di opere edili consistenti nella suddivisione di una sala principale per la preghiera degli uomini, una piccola per le donne, una vasca di purificazione, un ufficio per imam e nuovi servizi igienici.
La diversa distribuzione della superficie interna e il cambio di destinazione d’uso in sanatoria, da commerciale a luogo di preghiera, era stato impedito dal Comune, ma il Tar ha accolto il ricorso escludendo che la moschea possa essere equiparata ad un «artigianato produttivo». La difficile collocazione delle moschee ha numerosi precedenti, soprattutto quando si genera un cambio destinazione d’uso da «produttivo» (capannone industriale) a «sede di comunità islamica».
La possibilità di cambiare destinazione assimilando la moschea a un’attività produttiva, è esclusa dal Tar Parma (792/2009): i due usi sono infatti radicalmente diversi, e non è nemmeno possibile un provvedimento edilizio “in deroga”. Le deroghe ai piani urbanistici sono possibili se sussistono interessi pubblici (articolo 14 Dpr 380/2001), ma senza stravolgere le destinazioni di zona: considerare una moschea come luogo di interesse pubblico altererebbe l’impostazione stessa del piano regolatore generale, e quindi non è possibile alcuna elasticità, nemmeno ragionando in termini di interesse pubblico.
Principi analoghi sono espressi dal Tar Milano (n. 4665/2009), che ritiene abusivo il mutamento della destinazione d’uso di un immobile da residenziale a tempio buddista, qualora vi sia una frequenza settimanale festiva, e, saltuariamente, anche nei giorni feriali. Infine, per collocare moschee non sono utilizzabili le norme sulle associazioni di promozione sociale che svolgano attività di utilità sociale (legge 383/2000). La legge 383 prevede che le sedi di associazioni di promozione sociale siano localizzabili in qualsiasi parte del territorio urbano, cioè siano compatibili con ogni destinazione d’uso urbanistico, a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio impressa specificamente e funzionalmente al singolo fabbricato con il permesso di costruire.
Tuttavia, é necessario che l’attività di culto sia collegata ad una attività di promozione sociale che l’associazione intende realizzare, con la conseguenza che non basta quindi prevedere generica attività di studio e diffusione della lingua e cultura islamica, o la generica volontà di agevolare i rapporti tra gli associati e le istituzioni locali.
Se manca il legame tra l’attività di culto e altre attività sociali, secondo il Consiglio di Stato (181/2013, ordinanza 4599/2016) non basta il legame del credo religioso per affermare l’esistenza di finalità di promozione sociale. In conseguenza, le agevolazioni che possono spettare ad una bocciofila non possono estendersi ad una moschea
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2017).
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MASSIMA
3. Premesso
- che il centro islamico ricorrente impugna due provvedimenti di Roma Capitale: la nota del 20.09.2016 con cui il dirigente comunale ha inibito gli interventi di cui alla denuncia di inizio attività presentata il 13.09.2016, in quanto non conforme alla normativa urbanistica e la successiva determinazione dirigenziale del 19.10.2016, notificata il 26.10.2016, di ingiunzione a rimuovere o demolire gli interventi di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzati in via dei ... al numero 14;
- che, con la denuncia di inizio attività del 13.09.2016, presentata in alternativa al permesso di costruire, era stato chiesto il cambio di destinazione d’uso in sanatoria da commerciale a luogo di preghiera dell’immobile sito in Roma, via dei ... numero 14, accompagnato di opere di demolizione e ricostruzione di servizi igienici;
- che si tratta di un locale di 280 m² al piano seminterrato con destinazione d’uso a deposito per 250 m² e con una zona annessa per la vendita di 30 m²;
- che gli interventi abusivi contestati consisterebbero nel cambio di destinazione d’uso dell’intero locale seminterrato da deposito, con annessa zona di vendita di 30 m², a luogo di preghiera per i fedeli dell’Islam, mediante l’esecuzione di opere edili con la suddivisione interna in una sala principale ampia per la preghiera degli uomini, una piccola sala secondaria per la preghiera delle donne, una vasca di purificazione, un ufficio per imam e un nuovo gruppo di servizi igienici, con una diversa distribuzione della superficie interna;
- che la denuncia di inizio attività non sarebbe conforme alla normativa vigente perché l’intervento sarebbe escluso dal campo di applicazione dell’articolo 44, comma 5, lettera E, del piano regolatore generale approvato dal Comune di Roma; l’intervento risulta già eseguito, non rientrerebbe nelle caratteristiche della denuncia di inizio attività in alternativa al permesso di costruire e sarebbe stato utilizzato un modulo non predisposto per la denuncia di inizio attività a sanatoria;
4. Ritenuto fondato e assorbente il primo motivo dedotto:
- sono, difatti, incomprensibili le ragioni che hanno condotto al rigetto della denuncia di inizio attività in sanatoria;
la destinazione d’uso richiesta rientra certamente nella categoria dei “servizi” di cui all’articolo 6, comma 5, delle Norme tecniche di attuazione del PRG; la norma regolamentare richiamata ricomprende nella categoria dei “servizi”, oltre a pubblici esercizi, uso direzionale privato, sportelli tributari bancari e finanziari, sedi di pubblica amministrazione e delle pubbliche istituzioni, sedi ed attrezzature universitarie, anche le attrezzature culturali e religiose;
- ebbene, l’articolo 45 delle Norme tecniche di attuazione, per i “tessuti della città consolidata” consente, salve ulteriori limitazioni, la destinazione d’uso a servizi; invece, per quanto riguarda le destinazioni d’uso produttive, la norma consente solo l’uso “artigianato produttivo”;
- non si comprende, pertanto, la ragione per cui il cambio di destinazione d’uso richiesto sarebbe incompatibile con la normativa urbanistica richiamata;
- il difetto di motivazione del provvedimento inibitorio della d.i.a. a sanatoria vizia, per illegittimità derivata, il conseguente ordine di ripristino;
5. Ritenuto, pertanto, di dover accogliere il ricorso, in quanto manifestamente fondato e, per l’effetto, di dover annullare i provvedimenti impugnati;

EDILIZIA PRIVATALe opere consistenti nell’ampliamento (vano cucina) e nella realizzazione “ex novo” di nuovi ambienti (vano lavanderia e veranda) formano opere innovative della consistenza originaria dell’immobile assentito, in alcun modo descrivibili quali interventi non costituenti variazioni essenziali o di natura pertinenziale.
Questi ultimi possono riguardare solo manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico, che non possono formare oggetto di autonoma valutazione ed utilizzazione ma che esistono con esclusiva funzione di servizio e completamento della cosa principale.
Viceversa, le opere realizzate introducono nuovi volumi con autonoma funzionalità, per cui sono annoverabili nella nozione di nuova costruzione e, pertanto, per essi era richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.

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Ricorre l’ipotesi di nuova costruzione anche se le opere sono state intraprese su un preesistente immobile. Invero, la giurisprudenza ha statuito che:
   - <<il concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di potersi ritenere avverata una “trasformazione del territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur legittimamente edificate>>;
   - <<nella fattispecie si è trattato di un intervento di trasformazione edilizia del territorio con creazione di nuove superfici e volumi, per il quale indubbiamente necessitava del previo rilascio del permesso di costruire, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, concetto comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente …>>.
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Non può asserirsi che la veranda chiusa perimetralmente costituisca una tettoia a protezione dagli agenti atmosferici e, comunque, anche in tal caso la sua realizzazione esige il rilascio del permesso di costruire (giurisprudenza pacifica; cfr. da ultimo, in fattispecie simile, la sentenza di questa Sezione del 27/08/2016 n. 4110: “gli interventi consistenti nella realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile alterazione dell’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite”).
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Il ricorrente insorge avverso il provvedimento con cui è stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente realizzate alla Traversa ... n. 7, in difformità dalla licenza edilizia n. 92 del 31/07/1968, ordinando il rispristino dello stato dei luoghi.
Trattasi:
a) dell’ampliamento della superficie assentita, realizzando un ulteriore vano adibita a cucina (di circa mq. 19,00 e altezza mt. 3,00);
b) della realizzazione “ex novo”:
   - di un vano lavanderia-w.c. di mq. 4,00 (di altezza variabile da mt. 2,46 a mt. 3,00, in muratura e con copertura in lamiere grecate coibentate);
   - di una veranda di circa mq. 23,00 (con copertura a falde in lamiere coibentate, poggiante su una struttura in ferro, chiusa lateralmente da un parapetto in muratura e pannelli di alluminio preverniciato e vetro, collegata al piano di campagna da una scala esterna in ferro zincato);
c) della diversa distribuzione degli spazi interni dell’appartamento, con la diversa disposizione del bagno interno.
...
1- Il ricorso è parzialmente fondato, nei seguenti termini.
1.1- Le opere consistenti nell’ampliamento (vano cucina) e nella realizzazione “ex novo” di nuovi ambienti (vano lavanderia e veranda) formano opere innovative della consistenza originaria dell’immobile assentito, in alcun modo descrivibili quali interventi non costituenti variazioni essenziali o di natura pertinenziale.
Questi ultimi possono riguardare solo manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico, che non possono formare oggetto di autonoma valutazione ed utilizzazione ma che esistono con esclusiva funzione di servizio e completamento della cosa principale (giurisprudenza costante; cfr., per tutte, la sentenza di questa Sezione del 24/10/2016 n. 4859).
Viceversa, le opere realizzate introducono nuovi volumi con autonoma funzionalità, per cui sono annoverabili nella nozione di nuova costruzione e, pertanto, per essi era richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, questa Sezione ha già avuto modo di rilevare che ricorre l’ipotesi di nuova costruzione, anche se le opere sono state intraprese su un preesistente immobile (cfr. la sentenza del 07/06/2016 n. 3367: <<il concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di potersi ritenere avverata una “trasformazione del territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur legittimamente edificate>>; cfr., altresì, la sentenza del 19/07/2016 n. 4109: <<nella fattispecie si è trattato di un intervento di trasformazione edilizia del territorio con creazione di nuove superfici e volumi, per il quale indubbiamente necessitava del previo rilascio del permesso di costruire, trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001, concetto comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero modificativo di altro preesistente …>>).
Né può asserirsi che la veranda chiusa perimetralmente costituisca una tettoia a protezione dagli agenti atmosferici e, comunque, anche in tal caso la sua realizzazione esige il rilascio del permesso di costruire (giurisprudenza pacifica; cfr. da ultimo, in fattispecie simile, la sentenza di questa Sezione del 27/08/2016 n. 4110: “gli interventi consistenti nella realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici non possono ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile alterazione dell’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite”; cfr., altresì, Cons. Stato, sez. VI, 26/01/2015 n. 319).
Consegue da tutto ciò che, per tali opere, il Comune di Torre del Greco ha correttamente fatto ricorso al potere repressivo degli abusi edilizi, dettato dal D.P.R. n. 380/2001 per le opere prive del permesso di costruire e sanzionabili con la demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 25.01.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' esclusa la necessità della previa comunicazione di avvio del procedimento, come univocamente statuito dalla giurisprudenza. Invero, il Collegio ritiene, quanto alla violazione delle regole in tema di partecipazione al procedimento per omessa comunicazione dell'atto di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. n. 241 del 1990, che, in caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorra la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, L. n. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.
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Non inficia il provvedimento la circostanza che non sia stato indicato il termine di 90 giorni (stabilito dall’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 per la spontanea esecuzione dell’ordine di demolizione, in previsione della successiva acquisizione), stante la previsione legislativa che impedisce di far luogo anzi tempo all’apprensione del bene ed essendo in facoltà dell’interessato, in ogni caso, richiedere una proroga per l’adempimento (su quest’ultimo aspetto, cfr. la sentenza della Sez. IV di questo Tribunale del 23/12/2015 n. 5883: “D’altronde, la pretesa (ma non dimostrata) insufficienza del lasso di tempo concesso dal Comune per demolire l’abuso potrebbe al più giustificare la richiesta di una proroga, ma non può di per sé ritenersi sufficiente per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione”).
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Non rileva il lasso di tempo intercorso dalla commissione degli abusi, il quale non preclude (se non in ipotesi eccezionali) la doverosa adozione dei provvedimenti sanzionatori.
Invero, "I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo”.

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Il ricorrente insorge avverso il provvedimento con cui è stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente realizzate alla Traversa ... n. 7, in difformità dalla licenza edilizia n. 92 del 31/07/1968, ordinando il rispristino dello stato dei luoghi.
Trattasi:
a) dell’ampliamento della superficie assentita, realizzando un ulteriore vano adibita a cucina (di circa mq. 19,00 e altezza mt. 3,00);
b) della realizzazione “ex novo”:
   - di un vano lavanderia-w.c. di mq. 4,00 (di altezza variabile da mt. 2,46 a mt. 3,00, in muratura e con copertura in lamiere grecate coibentate);
   - di una veranda di circa mq. 23,00 (con copertura a falde in lamiere coibentate, poggiante su una struttura in ferro, chiusa lateralmente da un parapetto in muratura e pannelli di alluminio preverniciato e vetro, collegata al piano di campagna da una scala esterna in ferro zincato);
c) della diversa distribuzione degli spazi interni dell’appartamento, con la diversa disposizione del bagno interno.
...
Quanto alle altre censure, va considerato che:
   - è esclusa la necessità della previa comunicazione di avvio del procedimento, come univocamente statuito dalla giurisprudenza [cfr., per tutte, la sentenza di questa Sezione del 27/08/2016 n. 4110 e, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 12/10/2016 n. 4204: “Il Collegio ritiene, quanto alla violazione delle regole in tema di partecipazione al procedimento per omessa comunicazione dell'atto di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 L. n. 241 del 1990, che, in caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive, non occorra la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, L. n. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470)”];
   - gli abusi realizzati sono stati correttamente qualificati (ad eccezione di quanto si dirà appresso) ed il provvedimento contiene la puntuale descrizione delle opere;
   - non inficia il provvedimento la circostanza che non sia stato indicato il termine di 90 giorni (stabilito dall’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 per la spontanea esecuzione dell’ordine di demolizione, in previsione della successiva acquisizione), stante la previsione legislativa che impedisce di far luogo anzi tempo all’apprensione del bene ed essendo in facoltà dell’interessato, in ogni caso, richiedere una proroga per l’adempimento (su quest’ultimo aspetto, cfr. la sentenza della Sez. IV di questo Tribunale del 23/12/2015 n. 5883: “D’altronde, la pretesa (ma non dimostrata) insufficienza del lasso di tempo concesso dal Comune per demolire l’abuso potrebbe al più giustificare la richiesta di una proroga, ma non può di per sé ritenersi sufficiente per l’annullamento dell’ordinanza di demolizione”);
   - non rileva il lasso di tempo intercorso dalla commissione degli abusi, il quale non preclude (se non in ipotesi eccezionali) la doverosa adozione dei provvedimenti sanzionatori [cfr., per tutte, la sentenza della Sezione del 20/02/2016 n. 951: “I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228)”] (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 25.01.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per operare una diversa distribuzione ambienti interni non necessita il previo rilascio del permesso di costruire atteso che l’intervento de quo non può configurarsi quale “ristrutturazione”, ai sensi dell’art. 33, D.P.R. n. 380/2001, né ovviamente, quale “nuova costruzione”, ai sensi del precedente art. 31 (per operare i quali occorrerebbe il previo rilascio di un permesso di costruire), con la rilevante conseguenza che non sussistono i presupposti per l’irrogazione della sanzione della riduzione in pristino dello stato dei luoghi prevista dagli artt. 31, co. 2, e dall’art. 33, co. 1, D.P.R. n. 380 del 2001, in mancanza di permesso di costruire, rispettivamente, per le nuove opere e per gli interventi di ristrutturazione edilizia.
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Il ricorrente insorge avverso il provvedimento con cui è stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente realizzate alla Traversa ... n. 7, in difformità dalla licenza edilizia n. 92 del 31/07/1968, ordinando il rispristino dello stato dei luoghi.
Trattasi:
a) dell’ampliamento della superficie assentita, realizzando un ulteriore vano adibita a cucina (di circa mq. 19,00 e altezza mt. 3,00);
b) della realizzazione “ex novo”:
   - di un vano lavanderia-w.c. di mq. 4,00 (di altezza variabile da mt. 2,46 a mt. 3,00, in muratura e con copertura in lamiere grecate coibentate);
   - di una veranda di circa mq. 23,00 (con copertura a falde in lamiere coibentate, poggiante su una struttura in ferro, chiusa lateralmente da un parapetto in muratura e pannelli di alluminio preverniciato e vetro, collegata al piano di campagna da una scala esterna in ferro zincato);
c) della diversa distribuzione degli spazi interni dell’appartamento, con la diversa disposizione del bagno interno.
...
1.2- Il ricorso è fondato, relativamente alla sanzionata distribuzione interna degli spazi.
Questa Sezione ha già avuto modo di rilevare (cfr. la sentenza del 06/11/2015 n. 5202, con ulteriori richiami) che “per operare una diversa distribuzione ambienti interni non necessita il previo rilascio del permesso di costruire atteso che l’intervento de quo non può configurarsi quale “ristrutturazione”, ai sensi dell’art. 33, D.P.R. n. 380/2001, né ovviamente, quale “nuova costruzione”, ai sensi del precedente art. 31 (per operare i quali occorrerebbe il previo rilascio di un permesso di costruire), con la rilevante conseguenza che non sussistono i presupposti per l’irrogazione della sanzione della riduzione in pristino dello stato dei luoghi prevista dagli artt. 31, co. 2, e dall’art. 33, co. 1, D.P.R. n. 380 del 2001, in mancanza di permesso di costruire, rispettivamente, per le nuove opere e per gli interventi di ristrutturazione edilizia”.
Pertanto, per questa parte, limitatamente al punto relativa dell’impugnata ordinanza (“diversa distribuzione degli spazi interni all’appartamento”), il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento, in parte qua, della predetta ordinanza.
2- Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso va dunque accolto in parte, come sopra chiarito, con conseguente annullamento, in parte qua, dell’impugnata ordinanza (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 25.01.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACila, no al silenzio del comune. Senza la demolizione arriva il commissario prefettizio. La giurisprudenza più recente in materia di abusi edilizi, verifiche e diffide dei vicini.
Il comune che dopo la comunicazione di inizio lavori asseverata fa finta di non vedere il manufatto contro legge rischia l'arrivo del commissario dalla prefettura a far abbattere l'abuso edilizio: la presentazione della Cila, infatti, non dispensa l'ente locale dall'esercitare i suoi poteri repressivi contro le irregolarità, mentre risulta illecita la condotta dell'amministrazione che non riscontra entro trenta giorni la diffida del vicino, il quale punta alla demolizione della veranda.
È quanto emerge dalla sentenza 25.01.2017 n. 522, pubblicata dalla VII Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del condomino, atto che va qualificato come soggetto al rito del silenzio di cui agli articoli 31 e 117 del codice del processo amministrativo. Sbaglia il comune a non compiere entro un mese le verifiche sulla Cila richieste nella diffida perché il parere della Soprintendenza allegato parla chiaro: va ridimensionato il terrazzo che costituisce la copertura della veranda.
Soltanto così si può ottenere la sanatoria. Risulta quindi illegittimo il silenzio serbato dal Comune perché dai documenti emerge che il manufatto è abusivo, mentre l'ente locale è deputato al controllo del territorio in base all'articolo 27 del Testo unico sull'edilizia e doveva dunque controllare la sussistenza dei requisiti per la Cila.
Insomma: non soltanto l'amministrazione deve riscontrare la diffida del vicino entro trenta giorni, ma nello stesso termine deve ordinare la demolizione della veranda e del terrazzo soprastante. E se non provvederà sarà «commissariato» da un funzionario della prefettura.
I precedenti: lesione e consapevolezza. Le guerre fra vicini finiscono tutte al Tar quando c'è un'autorizzazione di mezzo. E anche se la Dia-Scia si è consolidata, il vicino può sempre ottenere l'inibitoria sul progetto di ristrutturazione della costruzione contigua alla sua se ha agito entro sessanta giorni dal momento in cui si è reso conto che il titolo del confinante risulta viziato, dopo essersi procurato le pratiche edilizie.
È quanto emerge dalla sentenza 15.04.2016 n. 735, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Accolto il ricorso del proprietario dell'immobile preoccupato per le intenzioni del vicino che punta ad abbattere e ricostruire un fabbricato.
Secondo il confinante il progetto contiene violazioni alle norme sulle distanze minime tra fabbricati oltre che alle stesse disposizioni urbanistiche.
Per il comune, invece, niente da segnalare, visto che «decorsi i termini a seguito della presentazione della documentazione integrativa» la Dia-Scia ha ormai consolidato i suoi effetti. E invece no, perché è l'articolo 19, comma 6-ter, legge 241/1990 a imporre all'amministrazione anzitutto di riscontrare l'istanza che proviene dal terzo titolare di un situazione giuridica differenziata, come è il vicino che vuole bloccare i lavori.
Ma soprattutto il comune deve anche bloccare l'opera se risulta che il confinante ha agito entro sessanta giorni da quando ha avuto notizia dei profili lesivi dell'intervento: altrimenti il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire. E se sono passati più di due mesi il terzo può sempre chiedere all'ente locale di agire in autotutela.
Attenzione, però. Solo se i lavori sono a buon punto scatta il termine per impugnare il permesso a costruire del vicino. Altro che decaduto. Il confinante ha ancora tempo per impugnare il titolo edilizio rilasciato dal comune dal proprietario del fondo limitrofo. E ciò perché, quando si contesta la difformità dall'originario progetto, il confinante si rende conto del danno che la sua proprietà sta rischiando soltanto quando i lavori che si svolgono poco lontano hanno raggiunto uno stadio tale da mostrarne l'illegittimità.
È quanto emerge dalla sentenza 21.06.2016 n. 1049, pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana, che ha accolto il ricorso del vicino contro il titolo edilizio fondato sulla precisa qualificazione dell'intervento come ristrutturazione conservativa posta in essere dall'amministrazione comunale.
Infondata l'eccezione di tardività proposta dal rivale. Manca la prova che il confinante abbia preso piena conoscenza delle differenze tra il nuovo manufatto e quello precedente, differenze che invece risultano fondamentali.
Né si può sostenere legittimamente che il vicino conosca il progetto prima che sia presentato al comune. Il confinante contesta la diversità del manufatto realizzato rispetto a quello esistente: deve dunque ritenersi che si sia reso conto dell'illegittimità soltanto quando i lavori erano già a buon punto ed era possibile notare a occhio nudo le difformità.
La costruzione risulta ancora in corso nel giugno 2015: il 22 del mese il vicino è convocato per acquisire i documenti edilizi dei lavori mentre il ricorso al Tar è presentato il successivo 21 settembre e deve dunque ritenersi in termini. Spese di giudizio compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASecondo i principi giurisprudenziali enucleati da questo Consiglio, poi sostanzialmente confluiti nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (nel testo ratione temporis applicabile ovvero quello antecedente alle novelle del 2014 e 2015), i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente motivazione allorché la caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo.
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Circa il denunciato profilo della tardività dell’esercitato potere di autotutela, vero è che erano trascorsi cinque anni dall’approvazione del piano esecutivo in contestazione, nondimeno il criterio del non superamento del “ragionevole termine” (entro cui esercitare il potere di autotutela) non riveste un carattere assoluto e categorico dovendosi correlare la “tempistica” alla specificità della fattispecie e all’interesse pubblico sotteso all’adottato atto di rimozione.
Nel caso de quo vi sono stati degli accertamenti particolarmente complessi ed inoltre è indubbio che si è in presenza di interessi pubblici particolarmente delicati, aventi un rilievo costituzionale, quali la salute pubblica, l’ambiente e la sicurezza pubblica, la tutela dei quali in ragione della loro essenziale e preminente rilevanza non possono essere assoggettati ad un termine di decadenza, potendo tutt’al più il trascorrere del tempo richiedere una più argomentata motivazione a sostegno della decisione di annullamento d’ufficio, circostanza questa puntualmente intervenuta sol che si proceda a scorrere il testo dell’impugnato provvedimento di autotutela dove l’Amministrazione si occupa diffusamente delle ragioni che l’hanno indotta ad assumere le relative determinazioni.
Infine, il Comune ha correttamente proceduto ad annullare con effetto ex tunc gli atti di approvazione del P.I.I. proprio perché le criticità rilevate hanno dato luogo a vizi di legittimità che sono insorti sin dall’origine senza che si possa ricondurre le rilevate mende a fatti o accadimenti sopravvenuti che soli, avrebbero postulato l’esercizio del potere di revoca; appare fuor di dubbio, quindi, che le adottate delibere consiliari costituiscono provvedimenti a contenuto fortemente vincolato e/o obbligatorio, la cui adozione, in quanto volta a rimuovere una esistente (e persistente) situazione contra legem non può soggiacere a quale che sia limite temporale.
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22. Ciò precisato, con riferimento ai rilievi di illegittimità mossi dal Comune a carico dell’approvato P.I.I., parte ricorrente articola le sue critiche su tre punti fondamentali:
   a) contesta la legittimità in sé dell’esercitato potere di autotutela perché avvenuto in assenza di presupposti e perché in ogni caso l’annullamento è stato adottato tardivamente (non entro un “termine ragionevole”);
   b) sostiene che la localizzazione delle opere costituite dal parco pubblico e dalla scuola materna nonché la prevista realizzazione delle unità immobiliari di cui al “lotto 2” non contrastano con la normativa dettata in tema di inquinamento acustico;
   c) rileva che l’approvato P.I.I. non viola le disposizioni disciplinanti il rischio da incidente rilevante
23. In relazione alla questione di cui alla suindicata lettera a), vanno scrutinate le censure di cui ai motivi indicati come I e II del ricorso di primo grado, con cui si deduce la tardività dell’annullamento parziale d’ufficio intervenuto a distanza di più di cinque anni dall’approvazione del P.I.I. Bellaria (e ad oltre quattro anni dal rilascio dei titoli edilizi) nonché l’insussistenza dei presupposti per farsi luogo all’annullamento d’ufficio.
24. In particolare, ad avviso di parte appellante, non sussisterebbero le condiciones iuris per l’annullamento in autotutela, sarebbe poi stato comunque superato il “termine ragionevole” stabilito dall’art. 21-nonies entro cui poter esercitare lo ius poenitendi ed inoltre gli eventi addotti a sostegno della misura di autotutela sarebbero intervenuti solo successivamente agli originari atti annullati, sicché non si poteva far luogo ad un annullamento ex tunc.
25. L’assunto non è condivisibile.
26. Secondo i principi giurisprudenziali enucleati da questo Consiglio, poi sostanzialmente confluiti nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (nel testo ratione temporis applicabile ovvero quello antecedente alle novelle del 2014 e 2015), i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente motivazione allorché la caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo (cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 27/11/2010 n. 8291; Sez. IV, n. 2885 del 2016; Sez. IV, n. 2908 del 2016).
27. Ebbene, dall’esame degli atti tutti di causa emerge che nella specie l’Amministrazione (prima) e il Tar (poi) hanno fatto buon governo dei principi giurisprudenziali che reggono la materia.
In primo luogo il procedimento di annullamento d’ufficio è stato avviato e gestito in ragione di riscontrati vizi di legittimità che giustificano la determinazione di rimuovere gli effetti delle previsioni urbanistiche e dei titoli edilizi per cui è causa, laddove l’Amministrazione comunale fa avuto cura di fornire sufficiente contezza dell’esistenza oltreché della fondatezza dei profili di invalidità che inficiano gli atti in parola.
28. Quanto alla necessità di un’adeguata valutazione dell’interesse pubblico in assoluto e in comparazione con l’interesse privato, non può non osservarsi come il Comune, nella parte motiva della delibera consiliare n. 52/2012, ha avuto modo di riconoscere la prevalenza dell’interesse pubblico ad una corretta gestione del proprio territorio, con la puntuale evidenziazione dei valori giuridici ritenuti prevalenti (ambiente, salute, sicurezza).
29. Relativamente poi all’affidamento dei privati, l’Amministrazione ha evidenziato che per le opere edilizie interessanti le parti in discussione non erano state eseguite, a differenza invece di quelle riguardante i lotti 1 e 3, tant’è che per questi ultimi, proprio in considerazione degli acquisti delle unità immobiliari avvenuti in buona fede da parte dei terzi, ha deciso di soprassedere all’adozione di misure di autotutela.
30. Rimane da esaminare il denunciato profilo della tardività dell’esercitato potere di autotutela.
31. Ora, vero è che erano trascorsi cinque anni dall’approvazione del piano esecutivo in contestazione, nondimeno il criterio del non superamento del “ragionevole termine” (entro cui esercitare il potere di autotutela) non riveste un carattere assoluto e categorico dovendosi correlare la “tempistica” alla specificità della fattispecie e all’interesse pubblico sotteso all’adottato atto di rimozione.
32. Nel caso de quo vi sono stati degli accertamenti particolarmente complessi ed inoltre è indubbio che si è in presenza di interessi pubblici particolarmente delicati, aventi un rilievo costituzionale, quali la salute pubblica, l’ambiente e la sicurezza pubblica, la tutela dei quali in ragione della loro essenziale e preminente rilevanza non possono essere assoggettati ad un termine di decadenza (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 27/12/2012 n. 1081), potendo tutt’al più il trascorrere del tempo richiedere una più argomentata motivazione a sostegno della decisione di annullamento d’ufficio, circostanza questa puntualmente intervenuta sol che si proceda a scorrere il testo dell’impugnato provvedimento di autotutela dove l’Amministrazione si occupa diffusamente delle ragioni che l’hanno indotta ad assumere le relative determinazioni.
33. Infine, il Comune ha correttamente proceduto ad annullare con effetto ex tunc gli atti di approvazione del P.I.I. proprio perché le criticità rilevate hanno dato luogo a vizi di legittimità che sono insorti sin dall’origine senza che si possa ricondurre le rilevate mende a fatti o accadimenti sopravvenuti che soli, avrebbero postulato l’esercizio del potere di revoca; appare fuor di dubbio, quindi, che le delibere consiliari nn. 42/2012 e 52/2012 costituiscono provvedimenti a contenuto fortemente vincolato e/o obbligatorio, la cui adozione, in quanto volta a rimuovere una esistente (e persistente) situazione contra legem non può soggiacere a quale che sia limite temporale.
34. Come si è visto, una delle due ragioni giustificative del disposto annullamento d’ufficio è riconducibile alla rilevata presenza di “criticità acustiche” a carico di alcune strutture previste dal Piano (la scuola materna e il parco pubblico).
Parte ricorrente sul punto contesta (specificatamente con il terzo motivo d’impugnazione) la fondatezza dei rilievi mossi dall’Amministrazione procedente e riguardanti:
   a) il mancato inserimento delle aree destinate ad ospitare le predette strutture in classe I di zonizzazione acustica a fronte invece del loro avvenuto inquadramento nelle classi III e IV;
   b) l’incompatibilità della localizzazione di dette opere con i parametri di inquinamento acustico connesso alla immissione di rumore derivante dalla vicinanza delle strade provinciali e in ogni caso il superamento dei limiti di rumorosità previsti dalla normativa.
35. I profili di doglianza all’uopo formulati non appaiono meritevoli di positivo apprezzamento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.01.2017 n. 293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Progettista - False attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia (D.I.A.) - Reato di falsità ideologica in certificati - Persone esercenti un servizio di pubblica necessità - Articolo 481 Codice Penale - Attestazione sullo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistica - Art. 23, 44, c. 1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
Le false attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia integrano il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod. pen.), in quanto detta relazione ha natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed ai regolamento edilizio.
E, più in particolare, va ribadito che, rispetto alla d.i.a.. assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità e risponde, quindi, del reato di falsità ideologica in certificati, il progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento di cui all'art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità di quest'ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato.
Nella specie: la falsa attestazione riguardava lo stato dei luoghi e non l'intenzione del committente di realizzare una certa tipologia di opere o l'eventuale futura difformità di quanto realizzato rispetto a quanto progettato.
Reato di falsità ideologica in certificati - Natura plurioffensiva dei delitti contro la fede pubblica e legittimazione alla costituzione di parte civile - Tutela dell'ambiente e del territorio - DANNO AMBIENTALE - Diritto del Comune al risarcimento del danno sia per il reato edilizio sia per il connesso reato di falso.
I delitti contro la fede pubblica, per la loro natura plurioffensiva, tutelano direttamente non solo l'interesse pubblico alla genuinità materiale e alla veridicità ideologica di determinati atti, ma anche quello dei soggetti sulla cui sfera giuridica l'atto sia destinato a incidere concretamente, con la conseguenza che essi, in tal caso, sono legittimati a costituirsi parte civile (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 2511 del 16/10/2014 Ud., dep. 21/01/2015).
Pertanto, la legittimazione alla costituzione di parte civile sussiste non solo per i reati urbanistici o ambientali, ma anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell'ambiente e del territorio (Sez. 5, Sentenza n. 2076 del 05/12/2008 Ud., dep. 20/01/2009).
Nella specie: sia il Tribunale e la Corte d'appello hanno ritenuto sussistente il diritto del Comune al risarcimento del danno sia per il reato edilizio di cui al capo A, sia per il connesso reato di falso di cui al capo E (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2017 n. 3067 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permanenza del reato di edificazione abusiva - Momento conclusivo della fattispecie - Ininterrotto utilizzo abitativo del bene - Giudice civile determinazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio - Limite alle statuizioni civili - Estinzione del reato.
La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta (ad esempio, il sequestro del manufatto), cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado.
Ne consegue che, ai fini dell'individuazione del momento di cessazione dei lavori, il completamento dell'opera con tutte le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie.
Ciò che conta, è dunque l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene, del quale l'attivazione delle utenze è solo uno degli elementi sintomatici e non è da solo sufficiente a far ritenere cessata la permanenza, ben potendosi dare il caso di attivazione delle utenze a lavori ancora in corso. Il giudice civile, in applicazione dei principi sopra enunciati in relazione alla determinazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio, dovrà preventivamente valutare se l'estinzione del reato sia maturata prima della pronuncia di primo grado.
Infatti, se l'estinzione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado, il giudice di secondo grado -ivi compreso quello di rinvio- non può pronunciarsi sulle statuizioni civili (Cass. pen., sez. un., 11/07/2006, n. 25083) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2017 n. 3067 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAVincoli negoziali sulle bonifiche. La sottoscrizione di accordi urbanistici impegna i titolari a farsi carico di tutte le fasi dell’iter.
Inquinamento. Le ultime pronunce dei Tar chiariscono la portata degli obblighi assunti dal proprietario non responsabile.
Il proprietario non responsabile dell’inquinamento che ha aderito a un vincolo negoziale che lo impegna a bonificare un sito contaminato deve seguire tutte le fasi del procedimento. E il vincolo permane anche se i costi degli interventi sono superiori a quanto preventivato o sono necessari interventi non presi in considerazione al momento dell’adesione.

Sono questi i principi chiariti dalle sentenze emesse lo scorso gennaio dal TAR Veneto - Sez. III (sentenza 23.01.2017 n. 65) e dal TAR Lombardia-Brescia - Sez. I (sentenza 17.01.2017 n. 48).
I giudici amministrativi stanno infatti delineando le caratteristiche dell’obbligo di bonifica determinato dall’adesione dei proprietari non responsabili ad accordi urbanistici.
L’obbligo di bonifica
In base al principio del “chi inquina paga”, il Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006) stabilisce una netta separazione tra il soggetto responsabile dell’inquinamento, che è tenuto per legge a bonificare, e il proprietario non responsabile che invece non è, di regola, sottoposto a tale obbligo.
Ma, in alcuni casi, anche il soggetto non responsabile può decidere di accollarsi gli obblighi di bonifica.
La “parte interessata”.
In primo luogo, il proprietario non responsabile può decidere di farsi carico della bonifica in qualità di “parte interessata”. È un’ipotesi molto comune, che si verifica quando il responsabile dell’inquinamento non si assume gli obblighi di bonifica (perché non è noto o non può o non vuole farlo) ed è quindi la Pa ad effettuare la decontaminazione.
La Pa, avendo preventivamente iscritto onere reale, potrà quindi soddisfare il proprio credito attraverso la vendita forzata dell’area e chiedendo il rimborso dei costi al proprietario nei limiti del valore di mercato dell’area dopo l’esecuzione degli interventi. Per evitare gravami sulla propria area, quindi, i proprietari non responsabili possono decidere di partecipare attivamente alla procedura di bonifica.
Successione nella titolarità.
È possibile assumere l’obbligo di bonificare anche con la compravendita di aree compromesse a livello ambientale (ad esempio con successioni societarie). I nuovi proprietari subentrano nella bonifica e sono considerati dalla Pa come i (nuovi) referenti.
Gli accordi. Il proprietario non responsabile può poi essere tenuto a bonificare in virtù di accordi urbanistici che gli consentono di trarre vantaggi sul futuro utilizzo dell’area (in termini di volumetrie, destinazioni d’uso, oneri di urbanizzazione eccetera).
La portata dei vincoli
È proprio su queste forme di vincolo negoziale, inteso in senso ampio, che la giurisprudenza sta facendo chiarezza con recenti pronunce. In particolare, il Tar Veneto (sentenza 65/2017) ha individuato nell’adesione ad un accordo di programma il vincolo che impegna l’aderente (sia esso il soggetto che ha inquinato o meno) al rispetto delle azioni di bonifica decise nell’ambito dell’accordo stesso. I giudici veneti hanno sottolineato la forza vincolante dell’accordo chiarendo che l’atto (iniziale) di adesione ad esso obbliga l’aderente a seguire tutte le fasi di bonifica necessarie per la conclusione del procedimento.
Il Tar Brescia con la sentenza 48/2017 ha focalizzato l’attenzione sulla vincolatività degli atti unilaterali d’obbligo chiarendo che essi ben possono essere titoli giuridici da cui derivano le obbligazioni di bonifica con una forza vincolante notevole: essi continuano a impegnare il proprio sottoscrittore anche nel caso in cui i costi degli interventi si rivelino maggiori di quanto preventivato o qualora si rendano necessari ulteriori interventi non presi in considerazione al momento della sottoscrizione.
In tal senso, anche il TAR Lombardia-Milano, Sez. III (sentenza 29.06.2016 n. 1297) e il TAR Toscana, Sez. I (sentenza 11.11.2016 n. 1635) hanno chiarito che l’approvazione di piani attuativi e le conseguenti convenzioni urbanistiche possono determinare il sorgere dell’obbligo di bonifica in capo ai non inquinatori.
Resta, comunque inteso che in assenza di un vincolo giuridico, legale o negoziale, nessun soggetto può essere costretto a bonificare anche se è proprietario dell’area inquinata.

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Costi non indicati nelle intese a carico dei privati. spese. Se causati da eventi prevedibili.
Anche se non è responsabile dell’inquinamento, il proprietario ha comunque alcuni obblighi, a cominciare dall’adozione delle cosiddette misure di prevenzione, ossia di iniziative volte a contrastare eventi che creano una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente.
La circostanza di non avere inquinato non lo esime inoltre dalla partecipazione (in forma indiretta) ai costi di bonifica.
Se il responsabile dell’inquinamento non provvede, le attività di bonifica vengono condotte dalla Pa. Ma l’eliminazione della contaminazione determina un miglioramento valutabile anche in termini economici.
Per questo l’ordinamento giuridico permette alla Pa di:
   - iscrivere onere reale in relazione al bene (e quindi di attivare una azione reale di garanzia con relativo diritto di prelazione sul bene);
   - chiedere al privato il rimborso delle spese degli interventi adottati (nei limiti del valore di mercato del bene a seguito dell’esecuzione degli interventi).
Il privato non responsabile deve quindi valutare i costi da sostenere per mantenere la proprietà del bene o per ripagare l’amministrazione. Una ponderazione economica che si allaccia spesso alle valutazioni legate ai possibili sviluppi urbanistici.
La stipula di convenzioni urbanistiche, accordi di programma o atti unilaterali d’obbligo è il punto di arrivo di valutazioni negoziali tra Pa e privati in cui si bilanciano gli interessi pubblici (di eliminazione della contaminazione e di sviluppo o riqualificazione delle aree) con gli interessi economici dei privati.
L’obbligo del proprietario non responsabile di bonificare previsto nelle convenzioni urbanistiche di solito è strettamente correlato all’attività di trasformazione urbanistica prevista dal piano attuativo. Con la conseguenza che al decadere per qualsiasi motivo in tutto o in parte delle previsioni edificatorie (ad esempio per decadenza del piano o variante urbanistica) vengono meno in tutto o in parte gli obblighi di bonifica.
Inoltre, durante la fase esecutiva del contratto, possono intervenire imprevisti (difficoltà tecniche, impossibilità di perfezionare varianti urbanistiche, dichiarazione di illegittimità della procedura da parte dell’autorità giudiziaria eccetera) che possono determinare uno squilibrio economico.
In questo caso l’operatore privato può sottrarsi alla bonifica ma secondo il Tar Brescia (sentenza 48/2017) bisogna fare una distinzione:
   - se lo squilibrio era prevedibile, il privato non potrà liberarsi unilateralmente dagli obblighi negoziali assunti con la Pa (e quindi resterà obbligato a bonificare);
   - se lo squilibrio, invece, non era prevedibile e altera pesantemente le spese ipotizzate (ad esempio nel caso in cui il piano attuativo venga annullato), allora può chiedere all’amministrazione misure compensative volte a ristabilire l’equilibrio economico che spetta all’amministrazione individuare di volta in volta e possono consistere in minori contributi di costruzione, soluzioni perequative relative ai diritti edificatori, ed anche rimodulazione delle operazioni di bonifica
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria emissioni moleste o fastidiose - Impianto munito di regolare autorizzazione alle emissioni in atmosfera e molestie olfattive - Emissioni odorigene realizzata nell'ambito dell'ordinario ciclo produttivo dell'impresa - Reato di getto pericoloso di cose - Configurabilità - Adozione di puntuali accorgimenti tecnici - All.ti Parte V del TUA - Art. 674 cod. pen. - Art. 844 c.c..
Anche nel caso in cui un impianto sia munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in caso di produzione di "molestie olfattive" il reato di getto pericoloso di cose è, comunque, configurabile, non esistendo una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori (Cass. Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni; Sez. 3, n. 2475 del 9/10/2007, dep. 17/01/2008, Alghisi e altro).
Ne consegue che non può riconoscersi automatica valenza scriminante alla produzione di emissioni odorigene pur realizzata nell'ambito dell'ordinario ciclo produttivo dell'impresa, ancorché regolarmente autorizzato.
Né può condividersi l'assunto difensivo secondo cui l'unicità e la coerenza dell'ordinamento non potrebbero consentire che da un lato sia permesso e, dall'altro, sia punito uno stesso identico comportamento, atteso che l'attività autorizzata potrebbe essere in ogni caso realizzata con modalità tali da garantire, grazie all'adozione di puntuali accorgimenti tecnici, il mancato prodursi di emissioni moleste o fastidiose (in termini, v. Sez. 3, n. 15734 del 12/02/2009, dep. 15/04/2009, Schembri e altro).
ARIA - Configurabilità del reato di cui all'art. 674 cod. pen. - Natura di reato di pericolo concreto - Criterio di valutazione della tollerabilità delle emissioni olfattive - Non necessario un accertamento tecnico - Giurisprudenza.
Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 674 cod. pen. è necessario che le condotte consistenti nel gettare o versare abbiano attitudine concreta a molestare persone, non essendo sufficiente una attitudine potenzialmente idonea alla molestia (Sez. 3, n. 25175 del 11/05/2007, dep. 03/07/2007, Gagliardi e altro).
Tuttavia, la natura di reato di pericolo concreto e il peculiare criterio di valutazione della tollerabilità delle emissioni olfattive, comporta che sia sufficiente l'apprezzamento diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di alcune persone, dalla cui testimonianza il giudice può logicamente trarre elementi per ritenere l'oggettiva sussistenza del reato, a prescindere dal fatto che tutte le persone siano state interessate o meno dallo stesso fenomeno o che alcune non l'abbiano percepito affatto; non essendo nemmeno necessario un accertamento tecnico (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni; in termini sostanzialmente analoghi v. Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, dep. 23/03/2015, Pippi, secondo cui ai fini dell'accertamento può farsi riferimento al fastidio dichiarato dai testimoni che hanno una percezione quotidiana dell'intensità dello stesso, nonché Sez. 3, n. 19206 del 27/03/2008, Crupi).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Valori limite in materia di odori - Parametro per valutare la legittimità dell'emissione - Criterio della "stretta tollerabilità" previsto dall'art. 844 cod. civ. - Protezione dell'ambiente e della salute umana.
Non esistendo una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, il parametro alla stregua del quale valutare la legittimità dell'emissione deve essere individuato nel criterio della "stretta tollerabilità", attesa la inidoneità di quello della "normale tollerabilità" previsto dall'art. 844 cod. civ., ad assicurare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni; Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, dep. 17/01/2008, Alghisi e altro; Sez. 3, n. 11556 del 21/02/2006, dep, 31/03/2006, Davito Bava; Sez. 3, n. 19898 del 21/04/2005, Pandolfini) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.01.2017 n. 2240 - link a www.ambientediritto.it).

TRIBUTILa Tosap è compatibile con il canone concessorio. Consiglio di stato: non si realizza una doppia imposizione.
Il canone concessorio e la tassa o il canone di occupazione spazi e aree pubbliche sono compatibili. Dunque, le amministrazioni comunali o provinciali possono richiedere il canone cosiddetto non ricognitorio unitamente alla Tosap o al Cosap. In questi casi non si realizza una doppia imposizione per la stessa occupazione di suolo pubblico.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, II Sez., con il parere 18.01.2017 n. 120.
I giudici amministrativi hanno ritenuto infondato il ricorso straordinario al presidente della repubblica proposto dall'Enel per l'annullamento, per doppia imposizione, della deliberazione del consiglio comunale con la quale era stato approvato il regolamento per l'applicazione del canone concessorio patrimoniale non ricognitorio.
Per il Consiglio di stato, invece, «mentre il canone concessorio non ricognitorio costituisce per l'ente pubblico proprietario del terreno una entrata patrimoniale (e non tributaria) che trova la sua giustificazione nella necessità di trarre un corrispettivo per l'uso esclusivo e per l'occupazione dello spazio, concessi contrattualmente o in base a provvedimento amministrativo a soggetti terzi; la Tosap è un tributo e deve essere corrisposta al comune, quale ente impositore, al verificarsi di determinati presupposti ritenuti indici seppure indiretti di capacità contributiva. Ancora, la Cosap è un'entrata di carattere patrimoniale, la cui istituzione è rimessa alla facoltà dei comuni e delle province in alternativa alla tassa».
Con la pronuncia in esame, inoltre, è stata respinta per inammissibilità la contestazione dell'Enel, concernente sempre la legittimità del regolamento, nella parte in cui assoggetta a imposizione le occupazioni realizzate al di fuori della sede stradale, poiché non aveva dimostrato che il comune avesse richiesto il pagamento del canone anche per le suddette occupazioni. Peccato che il giudice non si sia espresso nel merito, perché la questione non è pacifica.
I contrasti sui presupposti di legge per richiedere il pagamento del canone sono emersi anche all'interno del Consiglio di stato che con la sentenza 1926/2016, contrariamente a quanto sostenuto con la pronuncia 6459/2014, ha stabilito che non può essere richiesto il canone concessorio per qualsiasi utilizzo della sede stradale da parte delle aziende erogatrici di acqua, luce e gas, ma solo per lo spazio soprastante ad essa e a condizione che limiti il suo tipico uso pubblico. Ciò che conta è l'uso della sede stradale, che l'articolo 3 del Codice della strada (decreto legislativo 285/1992) definisce come la superficie compresa entro i confini stradali. Questa comprende la carreggiata e le fasce di pertinenza.
Pertanto, la norma di legge esclude che il presupposto per l'imposizione di un canone possa essere costituito dall'uso del sottosuolo, con la posa di cavi e tubi interrati. Quest'ultima pronuncia, però, non è condivisibile. Si ritiene corretta la tesi espressa dallo stesso Consiglio di stato laddove non ha escluso dall'esigibilità del canone l'utilizzo del sottosuolo stradale.
In effetti, l'articolo 27 del Codice della strada fa riferimento all'uso o all'occupazione delle strade e delle loro pertinenze e il successivo articolo 28, che disciplina gli obblighi dei concessionari di linee elettriche, telefoniche, di servizi di oleodotti, metanodotti, distribuzione di acqua potabile o gas, dispone che le concessioni possono essere sia aeree che sotterranee (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Disposizioni in tema di conglomerato cementizio armato o in metallo - Assicurare la stabilità della struttura in funzione statica.
La "ratio legis" delle disposizioni in tema di conglomerato cementizio armato è quella di assicurare la stabilità del fabbricato in tutti i casi nei quali siano comunque adoperate strutture in cemento armato o in metallo in funzione statica.
Non assume rilievo, quindi, l'entità dell'elemento materiale, atteso che non è necessario che questo sia costituito da un complesso di strutture, essendo rilevante l'elemento funzionale.
Violazione della normativa urbanistica - Rilascio del permesso di costruire in sanatoria - Effetti e limiti - Estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche - Violazioni della disciplina per le costruzioni in zone sismiche - Artt. 36, 44, 64, 65, 71, 72, 93 e 95 DPR 380/2001.
In materia di violazione della normativa urbanistica, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 d d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientrano né le violazioni della disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. 3, n. 10110 del 21/01/2016, Navarra; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, Conforti) né, per le stesse ragioni, i reati previsti un tempo dalla legge 05.11.1971 n. 1086, e oggi dagli artt. 64 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alle opere in conglomerato cementizio, atteso che le citate disposizioni estinguono i soli reati contravvenzionali previsti dalla norme urbanistiche, fra le quali non possono essere ricomprese le disposizioni aventi oggettività giuridica diversa, quale la citata legge n. 1086, rispetto alla tutela urbanistica del territorio.
Omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato - Reato omissivo proprio del costruttore - Responsabilità del committente di lavori edilizi - Concorso al reato in qualità di "extraneus" - Giurisprudenza.
Il committente di lavori edilizi concorre, in qualità di "extraneus", quale concorrente morale, nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), pur trattandosi di reato omissivo proprio del costruttore (Sez. 3, n. 21775 del 23/03/2011, Rv.250377) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.01.2017 n. 1959 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Conglomerato cementizio armato, nella normativa non conta l'entità dell'elemento materiale.
Cassazione: non è necessario che l'elemento materiale sia costituito da un complesso di strutture, essendo rilevante l'elemento funzionale.
Il committente di lavori edilizi “concorre, in qualità di "extraneus", quale concorrente morale, nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), pur trattandosi di reato omissivo proprio del costruttore”.

Lo ha ribadito la III Sez. penale della Corte di Cassazione nella sentenza 17.01.2017 n. 1959.
La suprema Corte ricorda che “la "ratio legis" delle disposizioni in tema di conglomerato cementizio armato è quella di assicurare la stabilità del fabbricato in tutti i casi nei quali siano comunque adoperate strutture in cemento armato o in metallo in funzione statica. Non assume rilievo, quindi, l'entità dell'elemento materiale, atteso che non è necessario che questo sia costituito da un complesso di strutture, essendo rilevante l'elemento funzionale”.
Inoltre, “secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte in materia di violazione della normativa urbanistica, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 d d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientrano né le violazioni della disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (…) né, per le stesse ragioni, i reati previsti un tempo dalla legge 05.11.1971 n. 1086, e oggi dagli artt. 64 e ss. del d. P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alle opere in conglomerato cementizio, atteso che le citate disposizioni estinguono i soli reati contravvenzionali previsti dalla norme urbanistiche, fra le quali non possono essere ricomprese le disposizioni aventi oggettività giuridica diversa, quale la citata legge n. 1086, rispetto alla tutela urbanistica del territorio
(commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Il primo motivo è inammissibile.
Questa Corte ha affermato che
il committente di lavori edilizi concorre, in qualità di "extraneus", quale concorrente morale, nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), pur trattandosi di reato omissivo proprio del costruttore (Sez. 3, n. 21775 del 23/03/2011, Rv. 250377).
Il ricorrente articola sul punto motivo privo di concretezza, senza censurare con elementi specifici la valutazione del giudice di merito (pag. 3 della sentenza impugnata).
2. Il secondo motivo è infondato.
La "ratio legis" delle disposizioni in tema di conglomerato cementizio armato è quella di assicurare la stabilità del fabbricato in tutti i casi nei quali siano comunque adoperate strutture in cemento armato o in metallo in funzione statica.
Non assume rilievo, quindi, l'entità dell'elemento materiale, atteso che non è necessario che questo sia costituito da un complesso di strutture, essendo rilevante l'elemento funzionale
(con riguardo alla previgente normativa, Sez. 3, n. 6814 del 11/01/2002, Rv. 221428; Sez. 3, n. 5220 del 29/11/2000, dep. 07/02/2001, Rv. 218797).
Inoltre, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte in materia di violazione della normativa urbanistica,
il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 d d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientrano né le violazioni della disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. 3, n. 10110 del 21/01/2016, Navarra, Rv. 266252; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, Conforti, Rv. 261099) né, per le stesse ragioni, i reati previsti un tempo dalla legge 05.11.1971 n. 1086, e oggi dagli artt. 64 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alle opere in conglomerato cementizio, atteso che le citate disposizioni estinguono i soli reati contravvenzionali previsti dalla norme urbanistiche, fra le quali non possono essere ricomprese le disposizioni aventi oggettività giuridica diversa, quale la citata legge n. 1086, rispetto alla tutela urbanistica del territorio (Sez. 3, n. 12869 del 2009 e Sez. 7, n. 38907 del 2016 non massimate, nonché con riguardo alla previgente normativa, Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna, Rv. 221439; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997, dep. 11/02/1998, Rv. 209571).

APPALTINon sempre si va al giorno feriale seguente.
Quando la data di scadenza per presentare la domanda di partecipazione a una gara d'appalto coincide con un giorno festivo, il termine non slitta per forza al giorno feriale seguente.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 17.01.2017 n. 170.
Il Collegio ha soppesato un risalente precedente del 2003 (la pronuncia n. 1214) secondo cui per le domande di gara si applicano i principi generali (propri anche del processo civile) sullo slittamento al primo giorno feriale successivo del termine che cade in un giorno festivo.
I giudici hanno rilevato tuttavia che nella vicenda non si ravvisava, come nel precedente indicato nel ricorso, una analoga incertezza riguardo al contenuto del bando, che anzi risultava chiaro in ordine sia alle modalità di inoltro delle offerte sia alla tempistica del loro atteso arrivo presso la stazione appaltante.
Tanto è vero che gli altri partecipanti alla procedura selettiva non avevano avuto dubbi rispetto al termine entro cui inoltrare la documentazione. Inoltre la stazione appaltante, con il bando, aveva consentito ai partecipanti di ricorrere ad una pluralità di forme di inoltro dei plichi, e quindi la parte poteva scegliere la modalità più adatta a far risultare (anche ex post) il proprio adempimento.
L'Amministrazione avrebbe poi avuto l'onere di dover eventualmente giustificare la ragione della mancata accettazione del plico proprio nell'ultimo giorno stabilito. Palazzo Spada ha concluso affermando che «assolutamente nulla impedisce che una stazione appaltante voglia e possa tenere aperti propri uffici, per lavorare ad una procedura di selezione competitiva, anche di domenica o altro giorno festivo» (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
5. L’appello va respinto, giacché infondato, risultando la sentenza impugnata meritevole di conferma in quanto non affetta dalle censure che le sono state rivolte.
5.1. Nonostante il precedente costituito dalla sentenza del CdS, V, n. 1214/2003, depositata in data 05.03.2003, che ha sostenuto che alle scadenze dei termini di presentazione di domande di gara si applicano i principi generali (propri anche del processo civile) sullo slittamento al primo giorno feriale successivo del termine cadente in giorno festivo, si può confermare la sentenza impugnata tenuto conto del fatto che:
   - rispetto al precedente citato, nel caso di specie non si ravvisa una analoga incertezza nel tenore del bando, che anzi risulta adeguatamente chiaro in ordine sia alle modalità di inoltro delle offerte sia alla tempistica del loro atteso arrivo presso la stazione appaltante;
   - non risulta che la dedotta incertezza interpretativa abbia colpito anche gli altri partecipanti alla procedura selettiva, circostanza questa che può far anche propendere –nei riguardi della ricorrente– un misto tra incertezza, mera distrazione in ordine al tempo massimo di consegna dell’offerta, semplice ritardo nella predisposizione del materiale costituente l’offerta, con ciò avendosi ulteriore differenza rispetto al caso oggetto del precedente citato;
   - la stazione appaltante, con il bando, aveva consentito ai partecipanti (ed in ciò altro aspetto differente rispetto al caso precedente) di ricorrere ad una pluralità di forme di inoltro dei plichi, onde nulla impediva alla parte di scegliere, tra i diversi, la modalità più adatta a far risultare (anche ex post) che il suo adempimento era stato pienamente conforme alla regola di partecipazione stabilita dall’Università, lasciando così a quest’ultima l’onere di dover eventualmente giustificare la ragione della mancata accettazione del plico proprio nel giorno ultimo da essa stessa stabilito;
   - assolutamente
nulla impedisce che una stazione appaltante voglia e possa tenere aperti propri uffici, per lavorare ad una procedura di selezione competitiva, anche di domenica o altro giorno festivo (sua essendo la scelta di quanto debba essere sollecita la procedura stessa), mentre nella fattispecie la ricorrente neppure ha dato un principio di prova sul fatto (in tal modo non assodato) che l’Università avesse tradito quanto fatto intendere col bando, lasciando chiuso l’ufficio preposto che, invece, sarebbe dovuto essere aperto per la ricezione dei plichi contenenti le offerte;
   - al di là della affermazione di parte, non v’è prova circostanziata che un dipendente della stazione appaltante, abilitato a fornire risposte attendibili in merito alla procedura selettiva, abbia realmente indotto la ricorrente a ritenere che le offerte potessero pervenire utilmente anche il giorno successivo a quello ultimo stabilito proprio dalla stazione appaltante.

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - CONDOMINIO - Rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete - Situazione di pericolo concreto per la quiete pubblica - Dimostrazione del pericolo con apprezzamento "in fatto" - Art. 659 c.p. - Fatttispecie: attività di un centro di formazione svolta in ambito condominiale.
La dimostrazione della sussistenza di una situazione di pericolo concreto per la quiete pubblica può essere offerta anche alla stregua delle dichiarazioni dei soggetti disturbati, potendo tale valutazione essere compiuta secondo un parametro di comune esperienza, purché idoneo a dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete.
Nella specie, il giudice è stato in grado di accertare, con apprezzamento "in fatto", come l'attività rumorosa determinata dall'uso dell'ascensore e dal continuo afflusso di frequentatori del centro di formazione, "con il connesso moltiplicarsi delle voci, delle attese, delle discussioni tra i frequentatori del centro", avesse determinato una situazione di grave pregiudizio per la quiete pubblica e per il riposo delle persone, incidendo non soltanto sulla sfera personale di pochi soggetti, ma anche sull'intera collettività condominiale.
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE - Dimostrazione della sussistenza di una situazione di pericolo concreto per la quiete pubblica - Immissioni sonore superiori alla "normale tollerabilità" - Verifica della effettiva idoneità della condotta - Natura di reato di pericolo concreto - Art. 659 c.p. giurisprudenza.
La fattispecie di cui all'art. 659, comma 1 c.p., riveste la natura di reato di pericolo concreto, sicché al fine della sua integrazione, è necessario verificare la effettiva idoneità della condotta, secondo una valutazione da compiere in concreto ed ex ante, ad arrecare disturbo al riposo o alle occupazioni di un numero indeterminato di persone (Cass. Sez. 1, n. 7748 del 24/01/2012, dep. 28/02/2012, Giacomasso e altro; Sez. 1, n. 44905 del 11/11/2011, dep. 02/12/2011, Mistretta e altro; Sez. 1, n. 246 del 13/12/2007, dep. 7/01/2008, Guzzi e altro; Sez. 1, n. 40393 del 08/10/2004, dep. 14/10/2004, P.G. in proc. Squizzato).
E nel caso di attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio (Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, dep. 13/11/2013, Virgillito e altro; v., in termini, anche Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, dep. 05/06/2014, Ioniez, relativa all'esercizio di una discoteca e del disturbo recato al riposo delle persone abitanti nell'edificio in cui era ubicato il locale), pur se, poi, in concreto soltanto alcune persone se ne possano lamentare (Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, dep. 20/12/2011, lori), configurandosi in caso contrario un illecito civile che resta confinato nell'ambito dei rapporti di vicinato (così Sez. 1, n. 17825 del 23/04/2002, dep. 10/05/2002, Tonello ed altro; Sez. 1, n. 17670 del 19/03/2002, dep. 09/05/2002, Baratta e altro; Sez. 1, n. 1406 del 12/12/1997, dep. 05/02/1998, P.C. e Costantini; Sez. 1, n. 5578 del 06/11/1995, dep. 04/06/1996, Giuntini ed altro).
Peraltro, la dimostrazione della sussistenza di una situazione di pericolo concreto per la quiete pubblica può essere offerta anche alla stregua delle dichiarazioni dei soggetti disturbati (v. Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montali e altro; Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez; Sez. 1, n. 20954 del 18/01/2011, Torna; Sez. 1, n. 7042 del 27/05/1996, Fontana), potendo tale valutazione essere compiuta alla stregua di un parametro di comune esperienza, purché idoneo a "dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete" (così, ancora, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montali e altro).
INQUINAMENTO ACUSTICO - Ipotesi di reato ex art. 659 cod. pen. - Contravvenzioni concernenti l'ordine pubblico e la tranquillità pubblica.
L'art. 659 del codice penale, tra le contravvenzioni concernenti l'ordine pubblico e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, la quale punisce il comportamento di colui il quale "mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici"; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di "chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità".
Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell'autorità.
In ogni caso, entrambe le fattispecie in questione tutelano la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone, con conseguente messa in pericolo del bene giuridico della pubblica tranquillità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2017 n. 1746 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTILa relazione tecnica troppo lunga fa perdere l’appalto. Consiglio di Stato. Se il bando dà limiti.
Non può essere valutato il tempo di esecuzione dell’appalto indicato alla fine di relazioni “papiro” sulla gestione, quindi oltre il limite dimensionale stabilito dal bando per «un’esigenza di speditezza e funzionalità della procedura». L’offerta tecnica presentata è quindi «incompleta» di un «elemento essenziale» la cui mancanza non può essere sanata.
Il Consiglio di Stato –sentenza 16.01.2017 n. 95, V Sez.- conferma così l’esclusione di una società di costruzioni aggiudicataria di una procedura bandita nel 2014 da un Comune (base d’asta circa 4 milioni) nonostante la commissione giudicatrice avesse provveduto, come previsto dalla lex specialis, a oscurarle i documenti dell’offerta tecnica poiché illustrata in un numero di pagine superiore al massimo consentito (18 fogli A4 fronte-retro anziché 10). Negli atti oscurati, c’era la richiesta «gestione del cantiere» improntata sull’obiettivo determinante di chiusura lavori in 210 giorni.
In linea col primo grado (Tar Napoli, sentenza 2221/2016), la pronuncia dà ragione all’impresa seconda in graduatoria: aveva invocato l’esclusione della prima per incompletezza dell’offerta, ritenendo illegittimo e irragionevole valutarne il pregio «essenziale» definito non più utilizzabile dalla stessa stazione appaltante.
A detta invece dell’affidataria ricorrente in secondo grado, il limite di pagine per la relazione descrittiva va considerato solo «indicativo», e chi lo viola non può essere sanzionato con l’esclusione: il “sistema appalti” è fondato sui princìpi di favor partecipationis e tassatività delle cause di esclusione.
In base alla stessa tesi, l’affidamento in tal caso era «assolutamente logico e coerente»: l’offerta tecnica era stata comunque valutata dalle pagine “leggibili” e con indicazioni anche sulla tempistica, posto che il cronoprogramma richiesto consisteva in una sintesi grafica di quanto descritto.
Il Consiglio di Stato spiega che «a prescindere da un’espressa comminatoria di esclusione, il (sub)punteggio basato sul tempo di esecuzione… non può che fondarsi su di un’adeguata comprensione delle modalità di gestione dell’appalto», perciò «è necessaria anche la lettura secondo ragione del cronoprogramma, che racchiude in sé proprio l’offerta temporale, scandendo la tempistica esecutiva del contratto».
In casi come questi, non essendo utilizzabile «tale elemento (essenziale), l’offerta risulta incerta sul contenuto» e l’esclusione legittimata dal “vecchio” Codice appalti (articolo 46, comma 1-bis, Dlgs 163/2006). Una «soluzione» dettata dallo Regolamento di attuazione (articolo 40, comma 2, Dpr 207/2010) per cui il cronoprogramma va presentato assieme all’offerta se l’appalto è di lavori con progettazione esecutiva su base di un progetto definitivo o preliminare (lettere b e c, comma 2, articolo 53, Codice appalti).
Affidando la gara alla seconda in graduatoria (al netto di verifiche dei requisiti), il collegio ha sottolineato che in questo caso la parte non oscurata della relazione descrittiva indicava solo «per suggestioni» la modalità di gestione del cantiere poiché in più punti si riferiva sia al cronoprogramma sia alla «tabella delle maestranze e della manodopera».
Quindi a parti non valutabili, poiché oltre la soglia che il disciplinare aveva fissato per valutare l’offerta su criteri esecutivi oltre che qualitativi
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAPubblicità all'incrocio con cautela. Parere cds.
Niente pubblicità ingombrante nelle rotatorie stradali. Ma se gli impianti non interferiscono con il traffico e sono stati autorizzati poi è difficile rimuoverli.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere 13.01.2017 n. 60.
Una società autorizzata all'esercizio di due impianti pubblicitari posizionati in prossimità di una rotatoria stradale è divenuta destinataria di un provvedimento di revoca della licenza con un'ordinanza comunale di autotutela.
Contro questa misura sfavorevole l'interessato ha proposto con successo ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. L'ordinanza di revoca della licenza è tardiva e poco motivata, specifica il collegio.
Trattandosi di due impianti regolarmente autorizzati, infatti, nell'istruttoria comunale non risultano adeguate verifiche su tutti gli interessi in gioco. Anzi per uno dei due pannelli la polizia locale sottoscrive la piena compatibilità dell'impianto con le esigenze della circolazione (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017).
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MASSIMA
Nel merito, il ricorso è fondato nei profili e nei limiti che seguono.
Con il primo capo della prima censura si lamenta che l’istanza di nulla-osta all’apposizione dei cartelli inoltrata al Comune doveva essere ritenuta comprensiva anche del profilo paesaggistico. Per cui una volta rilasciata, previo nulla-osta provinciale, l’autorizzazione del Comune, questa era stata ritenuta perfettamente legittima. L’intervento del regime semplificato avrebbe dovuto comportare l’obbligo dello stesso Comune di istruire e di valutare anche il profilo relativo alla autorizzabilità dei cartelli pubblicitari sotto il profilo paesaggistico ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/1994 e del regime semplificato d.p.r. n. 139/2010.
Con il secondo motivo di gravame la parte ricorrente lamenta, in estrema sintesi, la violazione dei principi in materia di autotutela per il superamento dei 18 mesi ivi previsti e l’erroneità della motivazione e dei presupposti dell’ordinanza di revoca del nulla osta all’istallazione dei due cartelli pubblicitari lungo la strada provinciale che non avrebbe tenuto conto del fatto che i cartelli non solo erano stati legittimamente autorizzati nel 2011, ma erano stati poi prorogati nel 2013.
Con il terzo motivo di gravame si lamenta poi il difetto di motivazione, di istruttoria, e di presupposti dato che, dal verbale di sopralluogo, non risultavano né violazioni paesaggistiche e né pericoli alla circolazione, al contrario sottolineati dal verbale della Polizia Municipale del 03.02.2016.
Tutti i predetti profili possono essere congiuntamente condivisi nei limiti che seguono.
1.§. E’ rilevante che successivamente all’ottenimento del nulla osta della Provincia di Caserta e nelle more dell’emissione del provvedimento di nulla osta del comune, fosse entrato in vigore il d.p.r. n. 139 del 09.07.2010 perché il n. 15. dell’all. 1) di cui all’art. 1 del cit. d.p.r. n. 139 include tra gli interventi di lieve entità sottoposti al regime semplificato, la “posa in opera di cartelli e altri mezzi pubblicitari non temporanei di cui all'art. 153, comma 1 del Codice, di dimensioni inferiori a 18 mq, ivi comprese le insegne per le attività commerciali o pubblici esercizi”.
L’art. 4 d.p.r. n. 139 del 2010 impone l'obbligo dell'Amministrazione Comunale di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, completando tutte le fasi del procedimento, così come del resto stabilito dall'art. 2, l. n. 241 del 1990 (richiamato espressamente dal comma 9 dell'art. 4 cit.). Nel caso di specie, ai sensi dell’art. 3 del predetto d.p.r. n. 139, è rilevante che, non essendo intervenuto entro trenta giorni dalla domanda il provvedimento negativo di conclusione anticipata del procedimento di cui all'articolo 4, comma 2, l’espressa autorizzazione del Comune del 11.05.2011 ben ricomprendesse anche il profilo paesaggistico.
2.§. Essendo ancora pendente l’iter in esame alla data di entrata in vigore del regime semplificato, sussisteva infatti l'obbligo dell'Amministrazione di concludere tempestivamente il procedimento con un espresso provvedimento paesaggistico.
Proprio in relazione alla specialità della disciplina che governa le fattispecie in esame,
è onere dell’amministrazione richiedere il parere della competente soprintendenza al fine di acquisire il giudizio sulla compatibilità paesaggistica dell’istallazione (in tal senso si è già espressa anche la giurisprudenza: cfr. TAR Roma, Lazio, sez. II, 11/11/2015, n. 12760).
3.§. Sotto altra angolazione, si osserva che
la determinazione di annullamento in sede di autotutela dell’autorizzazione per la rimozione dei due cartelli pubblicitari di 1,80x1,40 apposti da quasi un lustro lungo una cancellata, presupponeva comunque l’adozione di un atto di autotutela ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990.
Anche sotto il profilo della ragionevolezza l’ordinanza di revoca avrebbe dunque dovuto dare specifico atto non solo delle ragioni di interesse pubblico, ma anche in relazione al superamento del termine dei diciotto mesi dal momento della prima adozione, avrebbe dovuto motivare tenendo specificamente conto anche degli interessi secondari del privato.

Il provvedimento al contrario è del tutto immotivato sul punto.
4.§. Con riguardo poi al secondo presupposto dell’ordinanza relativo alla sicurezza della circolazione stradale, si osserva che non vi sono dubbi sulla legittimità dell’ordinanza impugnata nella parte in cui impone la rimozione dell’insegna posta sulla sinistra dell’esercizio commerciale lungo la via Caduti del Lavoro. Infatti, come emerge dal verbale di sopralluogo della Polizia Municipale del 14.03.2016 n. 274 tale insegna “… occupava parzialmente la visuale, con possibile pericolo per i veicoli che si immettono sulla sede stradale di via Caduti...” (cfr. all. n. 4 al fascicolo introduttivo).
Al contrario invece appare rilevante sul punto la differente conclusione del Comando di Polizia Municipale dopo il secondo sopralluogo, avvalorata anche dall’evidenza delle 22 fotografie allegate al medesimo, per cui essendo stata ridotta la siepe ornamentale che limitava la visibilità, l’insegna posta sulla destra “non impedisce la visuale a coloro che si immettono sulla sede stradale di cui sopra”.
5.§. In conclusione, appare evidente che
il provvedimento di rimozione sia illegittimo sia nella parte in cui procede senza un’appropriata motivazione all’annullamento in autotutela di un provvedimento in violazione dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990 e sia con riferimento alla sola insegna posta sulla destra dell’esercizio commerciale lungo la via Caduti del Lavoro essendo risultato insussistente il pericolo alla circolazione dei veicoli, fatti in ogni caso salvi gli ulteriori provvedimenti concernenti la necessità di valutazione del profilo paesaggistico della ulteriore permanenza del medesimo cartello.
Il ricorso per l’assorbente rilievo dei seguenti capi di doglianza, è dunque fondato nei limiti che seguono.
La domanda di sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato resta in conseguenza assorbita.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba essere accolto in parte nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti.

APPALTIAppalti, si diradano nubi sul rito superspeciale.
Si diradano le nubi sul rito superspeciale per gli appalti ex articolo 120, comma 2-bis, Cpa introdotto dal nuovo codice dei contratti pubblici. Può capitare che l'atto di ammissione di un'azienda alla procedura non sia pubblicato sul profilo committente della stazione appaltante, come invece prevede l'articolo 29, comma 1, del decreto legislativo 50/2016: in tal caso il termine decadenziale di trenta giorni decorre da quando l'impresa concorrente riceve il messaggio di posta elettronica certificata con il provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara.

È quanto emerge dalla sentenza 13.01.2017 n. 24, pubblicata dal TAR Basilicata.
Ammissibile il ricorso dell'azienda. Nessun dubbio che al caso si applichi il nuovo codice appalti, entrato in vigore il 18.04.2016: il bando per la procedura aperta è stato pubblicato il successivo 28 giugno. È vero, l'articolo 29 del decreto legislativo 50/2016 precisa che «l'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti del procedimento di affidamento».
Ma nella specie non c'è traccia dell'atto di ammissione del vincitore sul profilo committente della Provincia appaltante: il termine decadenziale decorre dunque solo dal 13 ottobre, data in cui l'impresa ha ricevuto la Pec che comunica l'aggiudicazione dell'appalto concludendo la procedura.
E quindi risulta ricevibile il ricorso inviato per posta il 29 ottobre, a meno di un meno di un mese dal messaggio e-mail: fa fede la data di spedizione (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Immobili abusivi - Atto di vendita - Nullità e divieto di stipula degli atti di disposizione - Responsabilità - Estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria - Assenza di dichiarazione dell'alienante - Tutela dell'acquirente del bene - Fattispecie - Artt. 28 Legge notarile e 46 d.P.R. 380/2001.
L'art. 46 d.P.R. 380/2001 si riferisce ad edifici ed a loro parti e prevede la nullità ed il divieto di stipula degli atti di disposizione che li riguardano in assenza di dichiarazione dell'alienante indicante gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria.
Il comma 5-bis estende poi l'applicabilità delle precedenti disposizioni agli interventi edilizi realizzati mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell'articolo 22, comma 3, qualora nell'atto non siano indicati gli estremi della stessa. La disposizione ha tuttavia uno scopo evidente, che è quello di impedire la circolazione degli immobili abusivi, ponendo un ulteriore ostacolo al fenomeno dell'abusivismo edilizio, tutelando così l'interesse pubblico all'ordinata trasformazione del territorio, oltre che l'acquirente del bene.
Se questo, dunque, è il senso della norma, è chiaro che l'ambito di efficacia della stessa deve ritenersi comprensivo anche di quegli interventi successivi alla realizzazione dell'immobile che ne abbiano determinato la trasformazione in maniera significativa e, segnatamente, quelli che, per la loro esecuzione, richiedano un titolo abilitativo specifico quale, nel caso in esame, il permesso di costruire.
Fattispecie: interventi ad oggetto:
   1) il cambio di destinazione di una loggia (con originario uso agricolo) mediante chiusura, realizzazione di impianti di riscaldamento e impianto elettrico, nonché dotazione di finiture (pavimento) ed infissi, tali da farne parte integrante dell'abitazione e, quindi, con ampliamento di superficie utile e volumetrico;
   2) cambio di destinazione di un locale accessorio destinato a magazzino a parte integrante dell'abitazione e conseguente ampliamento di superficie utile e volumetrico;
   3) Falsa attestazione da parte del tecnico, la conformità agli strumenti urbanistici e la sanabilità degli interventi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.01.2017 n. 1165 - link a www.ambientediritto.it).

TRIBUTISgravi Ici alle società agricole. Le agevolazioni sono riconosciute anche prima del 2012. Una pronuncia della Cassazione che inverte rotta rispetto alle precedenti interpretazioni.
Le agevolazioni Ici vanno riconosciute agli imprenditori agricoli che esercitano l'attività in forma societaria anche prima del 2012. I benefici fiscali, dunque, si applicano anche alle società agricole e non solo alle persone fisiche che hanno la qualifica di coltivatori diretti o imprenditori agricoli. Quindi, se il terreno è posseduto e condotto da una società agricola non può essere assoggettato a imposizione come area edificabile, nonostante l'immobile abbia questa qualificazione in base al piano regolatore comunale.

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. VI civile, con l'ordinanza 10.01.2017 n. 375.
I giudici di legittimità hanno rivisto le precedenti interpretazioni, prendendo posizione in maniera più chiara e netta, fissando i paletti anche a livello temporale sul riconoscimento delle agevolazioni Ici per le società agricole.
Per la Cassazione, il giudice d'appello avrebbe dovuto valutare solo la sussistenza del requisito soggettivo, «non essendo a ciò di per sé ostativo lo svolgimento dell'attività agricola da parte di imprenditore agricolo professionale nella forma di società di persone purché sussistano i succitati requisiti di cui all'art. 1 del dlgs n. 99/2004 e successive modifiche».
Per le annualità in contestazione, infatti, «erano già entrate in vigore le disposizioni di cui al dlgs n. 228/2001 e del dlgs n. 99/2004, che hanno profondamente inciso sulla stessa configurazione del requisito soggettivo per la fruizione dell'agevolazione».
Le regole. Bisogna ricordare che il terreno sul quale venivano esercitate le attività agricole non era soggetto all'Ici come area edificabile, anche se il bene era qualificato come tale dal piano regolatore comunale. Tuttavia, gli articoli 2 e 9 del decreto legislativo 504/1992 escludevano il beneficio della finzione giuridica di non edificabilità dei terreni per le società agricole in qualsiasi forma costituite. Il citato articolo 2, applicabile anche all'Imu, dispone che sono considerati non fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai coltivatori diretti o da imprenditori agricoli sui quali persiste l'utilizzazione agro-silvo-pastorale.
L'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997 prevedeva però che, per quanto concerne le agevolazioni Ici sui terreni agricoli, si considerassero coltivatori diretti o imprenditori agricoli a titolo principale solo le «persone fisiche» iscritte negli appositi elenchi comunali previsti dall'articolo 11 della legge 9/1963 e soggette al corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia. Dunque, la presa di posizione della Cassazione non può essere condivisa, tenuto conto della formulazione letterale della norma di legge.
In realtà, l'articolo 58 del decreto legislativo 446/1997 era una norma speciale e imponeva che «ai fini Ici» il terreno fosse posseduto e condotto dall'agricoltore persona fisica. Non a caso gli stessi giudici di legittimità, con l'ordinanza 14734/2014, hanno stabilito che le agevolazioni previste dall'articolo 9 del decreto legislativo 504/1992 «si applicano unicamente agli imprenditori agricoli individuali e non anche alle società cooperative a responsabilità limitata che svolgono attività agricola, non rientrando queste ultime nella definizione di imprenditore agricolo a titolo principale».
Hanno, inoltre, precisato che «la limitazione agli imprenditori agricoli individuali è stata successivamente ribadita ed, anzi, ulteriormente ristretta dall'art. 58, comma 2, del dlgs 15.12.1997, n. 446 mediante la previsione della necessaria iscrizione delle persone fisiche negli appositi elenchi comunali».
In questo senso si era già espressa la Cassazione con le sentenze 14145/2009, 5931/2010, 9770/2010.
Va infine precisato che le agevolazioni Ici e Imu spettano al coltivatore diretto o all'imprenditore agricolo solo nel caso in cui possieda, di diritto, il terreno.
Le norme suindicate richiedono il possesso del bene da parte del titolare, nella sua qualità di soggetto passivo, oltre che la conduzione del terreno da parte dello stesso.
Se la conduzione del terreno è effettuata sulla base di un contratto di affitto o di comodato da parte di un soggetto diverso dal proprietario non si ha diritto ai benefici fiscali. In questi casi l'agricoltore che non sia possessore di diritto dei terreni non è soggetto al pagamento delle imposte locali e, per l'effetto, non ha bisogno di fruire delle agevolazioni.
Le stesse regole valgono per la Tasi sulle aree edificabili possedute e condotte da coltivatori diretti e imprenditori agricoli. Gli agricoltori non pagano l'imposta sui servizi indivisibili sulle aree edificabili se utilizzate per l'esercizio delle attività agricole.
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I terreni esenti dal 2016.
Se esistono i presupposti per la finzione giuridica di non edificabilità, le aree relative oggi non possono essere assoggettate a imposizione neppure come terreni agricoli. Dal 2016, infatti, non sono tenuti al pagamento dell'imposta i titolari di terreni montani o di collina ubicati nei comuni elencati nella circolare del Ministero dell'economia e delle finanze 9/1993. Inoltre, sono esonerati i terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione, quelli ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile.
Il legislatore, come è già avvenuto in passato, per individuare i comuni montani o di collina rinvia alla circolare ministeriale 9/1993. Quindi, non fa più fede l'elenco predisposto dall'istituto nazionale di statistica (Istat), al quale le amministrazioni locali hanno dovuto fare riferimento per il 2015. Nell'elenco allegato alla citata circolare, redatto utilizzando i dati forniti dal Ministero dell'agricoltura e delle foreste, sono indicati i comuni, suddivisi per provincia di appartenenza, sul cui territorio i terreni agricoli saranno esenti dall'imposta municipale, come previsto dall'articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 504/1992.
Se a fianco dell'indicazione del comune non è riportata alcuna annotazione, vuol dire che l'esenzione opera sull'intero territorio. Qualora, invece, sia riportata l'annotazione parzialmente delimitato «PD», l'agevolazione sarà circoscritta a una parte del territorio. Questo comporta che negli enti montani e di collina non sono più richiesti requisiti soggettivi in capo ai possessori dei terreni, ma conta solo la loro inclusione nella circolare ministeriale.
Gli altri terreni, indipendentemente dalla loro ubicazione, possono invece fruire del trattamento agevolato solo se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola.
Sono poi esonerati dal prelievo i terreni ubicati nei comuni delle isole minori di cui all'allegato A della legge 448/2001 e quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Fino al 2015 erano esonerati dal pagamento coloro che erano titolari di terreni ubicati in comuni montani, sia agricoli che incolti, e parzialmente montani.
Per questi ultimi l'esonero dal pagamento dell'Imu spettava solo qualora i terreni fossero posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli. I comuni parzialmente montani erano indicati in un elenco predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat). Pertanto, non tutti gli agricoltori potevano fruire dell'esenzione sui terreni (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).

APPALTIP.a., il Rup ha poteri limitati. Il responsabile del procedimento non adotta atti finali. Il Consiglio di stato chiarisce in un parere una questione che si trascina da anni.
Il responsabile del procedimento ha esclusivamente poteri istruttori e non può adottare provvedimenti finali.
Il Consiglio di Stato, col parere 10.01.2017 n. 22, in merito al regolamento sulla definizione dei contenuti della progettazione in materia di lavori pubblici nei tre livelli progettuali (Schema di decreto, su proposta del Consiglio superiore dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo recante “definizione dei contenuti della progettazione in materia di lavori pubblici nei tre livelli progettuali”), previsto dall'articolo 23, comma 3, del dlgs 50/2016, chiarisce in modo tranciante e ultimativo una questione che si trascina da anni, rispondendo negativamente al quesito se il responsabile del procedimento disponga della competenza ad adottare i provvedimenti «negoziali», che costituiscono, modificano o estinguono situazioni giuridiche.
La Commissione speciale di palazzo Spada col proprio parere parte dall'analisi delle norme contenute nella bozza di regolamento ministeriale, per enunciare, poi, principi di carattere generale, che illustrano i confini delle competenze dei responsabili del procedimento.
In particolare, il parere stigmatizza la circostanza che il decreto analizzato in molte parti affida direttamente al responsabile del procedimento il potere di disporre una variazione del contenuto progettuale, individuando gli elaborati o le relazioni tecniche che devono comporre il progetto.
Tali previsioni, spiega il Consiglio di stato, si pongono in contrasto con l'articolo 23, comma 4, del dlgs 50/2016, ai sensi del quale è la stazione appaltante dotata del potere di indicare le caratteristiche, i requisiti e gli elaborati progettuali necessari per la definizione di ogni fase della progettazione.
Per «stazione appaltante» si deve intendere l'organo competente per legge ad adottare i provvedimenti amministrativi finali, che nel caso di specie va identificato nel dirigente o responsabile di servizio.
Per altro, osserva Palazzo Spada, è lo stesso regolamento ministeriale oggetto del parere che all'articolo 4 ribadisce la prescrizione dell'articolo 23, comma 4, del codice, assegnando al responsabile del procedimento la sola cura dell'istruttoria, mentre all'amministrazione la competenza all'adozione del provvedimento finale.
Ancor più chiaro è il passaggio nel quale il Consiglio di stato afferma con estrema chiarezza che «assegnare poteri finali e il correlato obbligo di motivazione non è coerente con il ruolo che il responsabile del procedimento assume nel sistema amministrativo, in base alla legge 241 del 1990». Rilievo che, come detto sopra, estende gli effetti dell'analisi di palazzo Spada a tutte le materie amministrative e non solo a quella degli appalti.
Con specifico riferimento, comunque, alla materia dei contratti pubblici, il Consiglio di stato sottolinea che non può portare a una conclusione diversa da quella dell'assenza di poteri finali al Rup l'articolo 31 del codice, ai sensi del quale «il Rup, ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti».
Tale disposizione, spiega Palazzo Spada, deve essere interpretata alla luce della legge 241/1990, cui si fa espresso rinvio, ma, soprattutto, esclude che il Rup possa assorbire competenze attribuite ad altri organi. Nella specie, come visto, il Codice attribuisce all'amministrazione il potere in questione.
Il Consiglio di stato specifica, quindi, che la funzione del responsabile del procedimento è solo istruttoria, finalizzata a raccogliere gli elementi di valutazione, per sintetizzarli nelle «risultanze» dell'istruttoria stessa, previste dall'articolo 6, comma 1, lettera e), della legge 241/1990 come base per l'adozione del provvedimento finale da parte del soggetto competente; il quale potrà discostarsi da tali risultanze -che vanno formalizzate in relazioni o schede sottoscritte dal responsabile del procedimento ad accompagnamento della proposta di provvedimento- solo esprimendo una specifica motivazione che espliciti le ragioni della visione contraria a quella esposta dalle risultanze istruttorie (articolo ItaliaOggi del 03.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICAQuesto Consiglio di Stato ha ribadito alcuni principi in tema di pianificazione urbanistica di attuazione ed in tema di competenza degli organi in relazione alla adozione degli atti ad essa riconducibili, dai quali il Collegio non ha ragione di discostarsi.
Si è, in particolare, affermato:
   - “il piano di lottizzazione (o altro strumento di pianificazione attuativa) e lo schema di convenzione ad esso allegato costituiscono atti distinti ma giuridicamente connessi, la cui approvazione non può che avvenire contestualmente da parte dell’unico organo al quale, nell’ambito dell’ente locale, è attribuito l’indirizzo politico-amministrativo in relazione alla pianificazione del territorio, e cioè da parte del Consiglio comunale”;
   - “mentre piano urbanistico attuativo e schema di convenzione formano oggetto di un unico atto di approvazione (di competenza del Consiglio comunale), la convenzione propriamente detta (cioè il contratto ad oggetto pubblico successivamente stipulato) costituisce certamente .... un atto negoziale autonomo (nel senso di essere giuridicamente distinto dal provvedimento–atto unilaterale di approvazione), la cui sottoscrizione deve essere effettuata dal dirigente del Comune, ex art. 107, co. 3, lett. c) T.U. enti locali”, il quale, se non ha “un potere di modifica e/o integrazione delle clausole, che inciderebbe sul contenuto stesso della potestà pianificatoria precedentemente esercitata dal Consiglio comunale”, tuttavia “laddove ritenga che le clausole contrattuali in sé considerate, ovvero lo stesso piano urbanistico attuativo contrastino con disposizioni di legge, ben può rimettere le sue osservazioni all’organo competente, onde sollecitarne una ulteriore valutazione ed, eventualmente, l’esercizio del potere di annullamento in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990”;
   - “qualora tra approvazione del piano attuativo/schema di convenzione e momento di stipulazione della stessa, vengano meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata fondata, l’amministrazione, la quale ben può verificare la persistenza di detti presupposti fino al momento della stipula, non può ritenersi obbligata alla stipulazione della convenzione, ma valuterà la sussistenza di ragioni di revoca dell’approvazione, ai sensi dell’art. 21-quinquies l. n. 241/1990”, ovvero di annullamento del piano già approvato, in esercizio del potere di autotutela.
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Alla luce dei principi giurisprudenziali ora riaffermati, appare evidente che la competenza alla stipulazione della convenzione inerente uno strumento urbanistico attuativo è del dirigente; che questi ben può verificare la legittimità di quanto dalla stessa previsto e che, in ogni caso, l’amministrazione non è tenuta alla stipula della convenzione (pur avendone in precedenza approvato lo schema), laddove non sussistano i dovuti presupposti di legittimità ovvero, nelle more, siano venuti meno presupposti o condizioni che avevano determinato l’approvazione del piano e/o del predetto schema di convenzione.

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2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Questo Consiglio di Stato ha, anche di recente, ribadito alcuni principi in tema di pianificazione urbanistica di attuazione ed in tema di competenza degli organi in relazione alla adozione degli atti ad essa riconducibili, dai quali il Collegio non ha ragione di discostarsi.
Si è, in particolare, affermato:
   - “il piano di lottizzazione (o altro strumento di pianificazione attuativa) e lo schema di convenzione ad esso allegato costituiscono atti distinti ma giuridicamente connessi, la cui approvazione non può che avvenire contestualmente da parte dell’unico organo al quale, nell’ambito dell’ente locale, è attribuito l’indirizzo politico-amministrativo in relazione alla pianificazione del territorio, e cioè da parte del Consiglio comunale” (Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2016 n. 4027);
   - “mentre piano urbanistico attuativo e schema di convenzione formano oggetto di un unico atto di approvazione (di competenza del Consiglio comunale), la convenzione propriamente detta (cioè il contratto ad oggetto pubblico successivamente stipulato) costituisce certamente .... un atto negoziale autonomo (nel senso di essere giuridicamente distinto dal provvedimento–atto unilaterale di approvazione), la cui sottoscrizione deve essere effettuata dal dirigente del Comune, ex art. 107, co. 3, lett. c) T.U. enti locali”, il quale, se non ha “un potere di modifica e/o integrazione delle clausole, che inciderebbe sul contenuto stesso della potestà pianificatoria precedentemente esercitata dal Consiglio comunale”, tuttavia “laddove ritenga che le clausole contrattuali in sé considerate, ovvero lo stesso piano urbanistico attuativo contrastino con disposizioni di legge, ben può rimettere le sue osservazioni all’organo competente, onde sollecitarne una ulteriore valutazione ed, eventualmente, l’esercizio del potere di annullamento in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990” (sent. n. 4027/2016 cit.);
   - “qualora tra approvazione del piano attuativo/schema di convenzione e momento di stipulazione della stessa, vengano meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata fondata, l’amministrazione, la quale ben può verificare la persistenza di detti presupposti fino al momento della stipula (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2016 n. 3334), non può ritenersi obbligata alla stipulazione della convenzione, ma valuterà la sussistenza di ragioni di revoca dell’approvazione, ai sensi dell’art. 21-quinquies l. n. 241/1990”, ovvero di annullamento del piano già approvato, in esercizio del potere di autotutela (v. sent. n. 4027/2016 cit.).
Alla luce dei principi giurisprudenziali ora riaffermati, appare evidente che la competenza alla stipulazione della convenzione inerente uno strumento urbanistico attuativo è del dirigente; che questi ben può verificare la legittimità di quanto dalla stessa previsto e che, in ogni caso, l’amministrazione non è tenuta alla stipula della convenzione (pur avendone in precedenza approvato lo schema), laddove non sussistano i dovuti presupposti di legittimità ovvero, nelle more, siano venuti meno presupposti o condizioni che avevano determinato l’approvazione del piano e/o del predetto schema di convenzione.
Ciò comporta, con riferimento al caso di specie, che il dirigente “competente” alla stipulazione (e non solo meramente “delegato” alla stessa), nutrendo perplessità sulla legittimità complessiva della operazione urbanistico-edilizia, ben poteva svolgere una propria verifica tecnico-amministrativo in ordine all’oggetto del piano e dello schema di convenzione, anche con riferimento alle autorizzazioni ed ai titoli edilizi successivamente da emanarsi
E ciò a maggior ragione nel caso di specie, posto che la delibera n. 73/2010 del Consiglio comunale di Tarquinia, nel “delegare” al dirigente la stipula della convenzione, subordinava (né avrebbe potuto essere altrimenti) il rilascio del permesso di costruire ad essa inerente alla acquisizione di tutte le autorizzazioni.
Alla luce di quanto sinora esposto, e contrariamente a quanto sostenuto dall’appellata (v. pagg. 3-4 memoria di costituzione), il fondamento della facoltà di verifica della sussistenza delle condizioni di legittimità di quanto oggetto della stipulanda convenzione non è da rinvenirsi nella “delega” eventualmente in tal senso effettuata dal Consiglio comunale al dirigente, bensì nelle attribuzioni proprie del dirigente che, qualora rinvenga motivi ostativi (come è emerso nel caso di specie), non solo non è tenuto alla stipulazione, ma deve rimettere le proprie considerazioni al competente Consiglio comunale.
Pertanto, ed in accoglimento del primo motivo di appello (sub a) dell’esposizione in fatto), appare del tutto legittimo l’impugnato provvedimento adottato dal dirigente dell’area tecnica del Comune di Tuscania.
Ed è appena il caso di osservare (e ciò a prescindere da ogni valutazione sugli atti emanandi, estranea al presente giudizio), che, come risulta dalla documentazione depositata in data 03.09.2016, proprio in esito alla verifica tecnico-amministrativa, il Comune di Tuscania ha adottato comunicazione di avvio del procedimento di revoca/annullamento in autotutela della delibera del Consiglio comunale n. 73/2010 e di ulteriori titoli edilizi in precedenza adottati.
3. La riscontrata legittimità dell’atto impugnato con il ricorso instaurativo del giudizio di I grado già sorregge, di per sé, l’accoglimento del secondo motivo di appello (sub lett. b) dell’esposizione in fatto), con il quale si contesta la disposta condanna del Comune di Tuscania al risarcimento del danno; e determina altresì l’assorbimento del terzo motivo (sub lett. c), relativo alla condanna alle spese del giudizio di I grado, stante la nuova regolazione conseguente all’accoglimento dell’impugnazione.
Pertanto, l’appello deve essere accolto, e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettato il ricorso instaurativo del giudizio di I grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.01.2017 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTILe delibere Tari devono essere dettagliate.
Il piano finanziario Tari deve contenere tutte le indicazioni previste dalla legge, altrimenti rende illegittima la delibera che fissa le tariffe. Il piano finanziario non può tradursi in una tabella riassuntiva dei costi del servizio, distinti in fissi e variabili. E non è sufficiente che gli elementi richiesti dalla legge siano indicati in una relazione allegata alla delibera comunale.

E' quanto affermato dal TAR Lazio-Latina con la sentenza 04.01.2017 n. 1.
Per i giudici, il piano approvato dall'amministrazione comunale «non è un documento di tipo pianificatorio ma una semplice tabella riassuntiva dei costi del servizio, distinti in costi fissi e costi variabili, e con finale indicazione della incidenza percentuale di questi ultimi sul costo complessivo».
Mancano, infatti, nella tabella gli elementi richiesti dall'articolo 8 del dpr. 158/1999 per il piano e la relazione. E non sono state rispettate le regole stabilite dal regolamento sul metodo normalizzato. Ancorché possano essere sintetici gli atti suddetti, devono tuttavia contenere i requisiti essenziali. Dunque, secondo il Tar, il comune non può invocare la circostanza che essi sono rinvenibili in una relazione che «non fa parte del piano approvato e costituisce quindi un semplice atto istruttorio».
Il fatto che «nelle premesse della delibera venga richiamata la relazione del 04.08.2014 non rileva ai fini del rispetto delle prescrizioni dell'articolo 8». In particolare, il citato articolo 8 prescrive che il piano finanziario deve comprendere il programma degli interventi necessari; il piano finanziario degli investimenti e la specifica dei beni, delle strutture e dei servizi disponibili.
Inoltre, occorre specificare se si fa ricorso all'utilizzo di beni e strutture di terzi o si affida il servizio a terzi. Vanno fornite informazioni sul grado di «copertura dei costi afferenti alla tariffa rispetto alla preesistente tassa sui rifiuti». Al piano va allegata una relazione dalla quale deve emergere il modello gestionale ed organizzativo, i livelli di qualità del servizio ai quali deve essere commisurata la tariffa e l'elencazione degli impianti esistenti per l'anno precedente. Infine, devono essere posti in evidenza gli eventuali scostamenti e le motivazioni (articolo ItaliaOggi del 10.02.2017).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Il citato articolo 8 D.P.R. n. 158 del 1999, infatti, prescrive al comma 2 che il piano finanziario debba comprendere “a) il programma degli interventi necessari; b) il piano finanziario degli investimenti; c) la specifica dei beni, delle strutture e dei servizi disponibili, nonché il ricorso eventuale all'utilizzo di beni e strutture di terzi, o all'affidamento di servizi a terzi; d) le risorse finanziarie necessarie; e) relativamente alla fase transitoria, il grado attuale di copertura dei costi afferenti alla tariffa rispetto alla preesistente tassa sui rifiuti”; il comma 3 aggiunge che al piano debba essere allegata una relazione “nella quale sono indicati: a) il modello gestionale ed organizzativo; b) i livelli di qualità del servizio ai quali deve essere commisurata la tariffa; c) la ricognizione degli impianti esistenti; d) con riferimento al piano dell'anno precedente, l'indicazione degli scostamenti che si siano eventualmente verificati e le relative motivazioni”.
I ricorrenti denunciano che il piano non contiene le indicazioni prescritte al comma 2 e che manca del tutto la relazione richiesta dal comma 3.
Il comune replica sostenendo che il piano approvato contiene in realtà tutti i dati che sono prescritti dalla legge (sia pure in forma sintetica) e che la relazione non costituirebbe un elemento necessario ai fini della validità della delibera di approvazione del piano; in punto di fatto il comune ha inoltre evidenziato che le informazioni di cui i ricorrenti lamentano l’assenza sono in realtà contenute in una relazione datata 04.08.2014 elaborata dal dipartimento II ambiente la quale “seppur non adottata con la deliberazione consiliare, viene in essa richiamata”.
Le argomentazioni dei ricorrenti sono fondate.
Se si esamina il piano approvato è agevole rendersi conto che esso non è un documento di tipo pianificatorio ma una semplice tabella riassuntiva dei costi del servizio, distinti in costi fissi e costi variabili, e con finale indicazione della incidenza percentuale di questi ultimi sul costo complessivo.
Nella tabella non v’è traccia di alcuno dei contenuti che l’articolo 8 citato richiede per il piano e la relazione; non è in discussione quindi il problema della necessità o meno che vi sia una relazione, nel senso che si può senz’altro ammettere che la relazione formalmente manchi qualora i suoi contenuti siano rinvenibili nel piano;
il problema reale è che per quanto il piano e/o la relazione possano essere sintetici essi devono contenere le informazioni che in base all’articolo 8 devono essere rinvenibili nel combinato del piano e della relazione approvati; nella fattispecie questi contenuti mancano e il comune non può invocare la circostanza che essi sono rinvenibili nella relazione del 04.08.2014 richiamata nelle premesse della delibera n. 56; tale relazione, infatti, non fa parte del piano approvato –come del resto si ammette in memoria– e costituisce quindi un semplice atto istruttorio; la circostanza, quindi, che nelle premesse della delibera venga richiamata la relazione del 04.08.2014 non rileva ai fini del rispetto delle prescrizioni dell’articolo 8, perché nella fattispecie non viene in rilievo un problema di sufficienza di istruttoria o motivazione (peraltro, trattandosi di un atto di pianificazione la motivazione non è necessaria) ma di corrispondenza al modello legale del piano approvato.
In altri termini
la legge prescrive che il consiglio comunale approvi un piano con allegata relazione che deve obbligatoriamente avere i contenuti minimi indicati nell’articolo 8; questi contenuti devono costituire l’immediato oggetto delle delibera (in modo che su questi contenuti possa svolgersi il dibattito consiliare), sicché l’approvazione di una tabella riassuntiva dei costi fissi e variabili del servizio non può essere considerata equipollente all’approvazione di un piano (che di fatto non risulta essere stato sottoposto all’approvazione del consiglio comunale).
Ciò comporta, con assorbimento di ogni altra censura, l’annullamento della delibera n. 56 del 2014 e, per illegittimità derivata, della delibera n. 57.

EDILIZIA PRIVATA: Violazioni disposizioni antisismiche - Deposito "in sanatoria" degli elaborati progettuali - Soluzioni realizzative diverse - Sanatoria delle varianti - Responsabilità - Artt. 45, 52, 83, 93, 94 e 95 d.P.R. n.380/2001.
Il deposito "in sanatoria" degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica, che punisce l'omesso deposito preventivo di detti elaborati in quanto l'effetto estintivo è limitato dall'art. 45 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 alle sole contravvenzioni urbanistiche (Cass. Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino).
Violazioni edilizie e norme tecniche - Responsabilità del proprietario, del committente, del titolare della concessione edilizia dell'esecutore delle opere e di qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità dell'immobile o dell'area - Chiunque violi o concorra a violare a disciplina in materia - Costruzioni in zone sismiche - Responsabilità del direttore dei lavori - Assenza del previo deposito del progetto presso il Genio Civile - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti e, quindi, dal proprietario, dal committente, dal titolare della concessione edilizia e da qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da coloro, come il direttore e l'assuntore dei lavori, che abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato la costruzione senza il doveroso controllo del rispetto degli adempimenti di legge (Sez. 3, n. 49991 del 10/11/2015, Terenzi).
Inoltre, in materia di costruzioni in zone sismiche, il direttore dei lavori risponde del reato previsto dall'art. 95 d.P.R. n. 380 del 2001, per l'esecuzione di interventi edilizi in assenza del previo deposito del progetto presso il Genio Civile, in virtù della posizione di controllo affidatagli su costruzioni potenzialmente lesive della pubblica incolumità e del conseguente obbligo di verificare il rispetto degli adempimenti prescritti dalla normativa in materia (Sez. 3, n. 7775 del 05/12/2013, dep. 2014, Damiano; Sez. 3, n. 6675 del 20/12/2011, dep. 2012, Lo Presti: "Il reato di omesso deposito del progetto per le costruzioni edificate in zona sismica (artt. 17 e 20 legge 02.02.1974, n. 64) può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto e, quindi, anche dal direttore dei lavori che non abbia controllato il rispetto degli adempimenti prescritti dalla normativa antisismica"); il direttore dei lavori risponde del reato previsto dagli artt. 93 e 94 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo anch'egli destinatario del divieto di esecuzione dei lavori in assenza della autorizzazione ed in violazione delle prescrizioni tecniche contenute nei decreti ministeriali di cui agli artt. 52 e 83 del d.P.R. n. 380/2001, atteso che le disposizioni sulla vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, prevedendo un complesso sistema di cautele rivolto ad impedire l'esecuzione di opere non conformi alle norme tecniche, ha determinato una posizione di controllo su attività potenzialmente lesive in capo al direttore dei lavori (Sez. 3, n. 33469 del 15/06/2006, Osso, Rv. 235122) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.12.2016 n. 55303 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Violazioni urbanistiche e paesaggistiche e applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. - Criteri e presupposti - Consistenza dell'intervento abusivo - Speciale causa di non punibilità.
Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso, che, in applicazione del principio, ha escluso la ricorrenza della speciale causa di non punibilità nel caso di concorrente violazione di legge urbanistica, antisismica e in materia di conglomerato in cemento armato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.12.2016 n. 55303 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Devesi richiamare l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 DM 1444/1968 (il quale stabilisce le distanze minime da rispettare fra pareti finestrate di edifici frontistanti) secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente.
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4.1. Come già accennato, il primo giudice ha ritenuto che nella specie fosse stato violato l’art. 9 del d.m. nr. 1444 del 1968, il quale stabilisce le distanze minime da rispettare fra pareti finestrate di edifici frontistanti.
L’Amministrazione comunale e l’odierna istante si erano difesi assumendo che nella specie avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 99 del Regolamento edilizio comunale, il quale stabilisce che, ai fini del calcolo delle distanze tra fabbricati, non debba tenersi conto di balconi, sporti ed aggetti di lunghezza fino a mt 1,20 (ciò che avrebbe assicurato il rispetto delle distanze di cui al precitato art. 9); il TAR ha però ritenuto di dover disapplicare tale prescrizione siccome illegittima, escludendo che il Comune abbia in sede di pianificazione urbanistica il potere di derogare a qualsiasi titolo alle distanze fissate dal d.m. nr. 1444/1968.
4.2. A fronte delle suesposte conclusioni, le parti appellanti articolano un duplice ordine di critiche:
   a) si assume, innanzi tutto, che il citato art. 9 del d.m. nr. 1444/1968 non avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie, trattandosi di intervento di demolizione e ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova edificazione;
   b) in secondo luogo, si sostiene che deve ritenersi del tutto consentito ai Comuni introdurre nei propri strumenti urbanistici previsioni del tipo di quella di che trattasi.
4.2.1. La prima censura è manifestamente infondata, dovendo richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini all’intervento di recupero di un immobile già esistente può essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni esterne dell’edificio preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, nr. 3929).
Nel caso che qui occupa, come si legge in sentenza e non risulta specificamente contestato dalle parti appellanti che col permesso di costruire in variante nr. 26 del 22.02.2013 è stato assentito un incremento delle altezze rispetto al preesistente, ciò che è sufficiente a far escludere che si ricada nell’ipotesi derogatoria suindicata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.12.2016 n. 5552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche.

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4.2.2. È invece fondata la seconda subcensura sopra richiamata.
Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2, della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse possano essere derogate dagli strumenti urbanistici generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi architettonici possano non essere compresi nel computo delle distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968, qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio stessa della previsione delle distanze minime fra edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus abbiano le suddette caratteristiche (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.12.2016 n. 5552 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Il possesso dello spazio va provato dall’origine. Beni e confini. Vent’anni di lite per pochi centimetri.
Rivendicare la proprietà si può ma solo con la prova (anche risalendo ai propri danti causa) dell’acquisto a titolo originario del bene oggetto della controversia.
Lo afferma la Corte di Cassazione (Sez. II civile, relatore Antonio Scalisi) con la sentenza 29.12.2016 n. 27366 sul diritto di una vicina di occupare una piccola striscia con dei vasi di fiori, dopo vent’anni di liti.
In particolare, chi viene chiamato in causa non ha l’onere di fornire alcuna prova, mentre chi agisce in giudizio per dimostrare il possesso di un piccolo basamento davanti alla propria abitazione deve fornire la cosiddetta probatio diabolica (alla lettera, significa, prova del diavolo, nel senso che non vi sono prove per dimostrare che il diavolo esista ma neppure che non esista).
In relazione a un bene immobile, colui che afferma di esserne proprietario e desidera che il bene stesso gli venga restituito da chi lo detiene o lo possiede dovrà provare la sua proprietà non solo in base ad un valido titolo di acquisto, ma anche che ha ricevuto questo diritto da chi a sua volta era proprietario e così anche per il precedente proprietario fino a giungere al primo e incontestabile proprietario da cui è sorto a titolo originario il diritto di proprietà in contestazione.
Questa prova può essere “attenuata” nel caso in cui chi rivendica la proprietà ne dimostri l’usucapione attraverso il possesso ininterrotto, con quello dei danti causa, per 20 anni o per 10 anni, se si tratta di possesso in buona fede. Dal punto di vista processuale, il proprietario non deve essere in possesso della cosa che vuole recuperare.
La Cassazione ha quindi cassato (con rinvio) la sentenza della Corte d’appello di Torino che non aveva tenuto conto di questi princìpi
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017).

APPALTIIl provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell’articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici, adottato in attuazione della Legge 28.01.2016 n. 11.
L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale. E’ altresì inammissibile l’impugnazione della proposta di aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti endo-procedimentali privi di immediata lesività.

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Ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è illegittima l’esclusione dalla gara di un concorrente disposta per asseriti gravi illeciti professionali nel caso in cui la risoluzione contrattuale che è alla base del provvedimento sia giurisdizionalmente contestata con giudizio civile pendente, non sussistendo il presupposto delle “significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, purché non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio”, previsto dalla citata lett. c del comma 5 dell’art. 80 del Codice dei contratti, che legittima l’esclusione dalla gara.
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Il ricorso è fondato e va accolto.
In via preliminare, osserva il Collegio che il ricorso è stato tempestivamente e ritualmente proposto in conformità a quanto previsto dall’art. 120, comma 2-bis c.p.a. (inserito dall’art. 204 del nuovo “Codice degli appalti” approvato con Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50), statuente che: “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell’articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici, adottato in attuazione della Legge 28.01.2016 n. 11. L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale. E’ altresì inammissibile l’impugnazione della proposta di aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti endo-procedimentali privi di immediata lesività”.
Sempre preliminarmente, si rileva che la parte ricorrente ha esplicitamente richiesto, avvalendosi della facoltà concessa dall’art. 120, comma 6-bis c.p.a., che il giudizio venga definito in udienza pubblica.
Nel merito, è necessario, innanzitutto, rammentare –in punto di fatto– che l’impugnato provvedimento di esclusione si basa sulla seguente motivazione: ”La società TRA. s.r.l. viene esclusa a seguito di valutazione dei requisiti di idoneità professionale e, nello specifico, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs. 50/2016, il quale recita: le Stazioni Appaltanti escludono dalla partecipazione alla proecdura di appalto l’operatore economico …… omissis……qualora:……omissis….lett. c) La stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto d’appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata a seguito di un giudizio…..omissis, tutto ciò così come anche previsto nella lettera di invito al paragrafo 3.1.2. Alla luce del dettato normativo ed a seguito della dichiarazione prodotta dalla ditta in sede di gara, la commissione ha eseguito una propria istruttoria consultando gli atti del Comune di Montesilvano (Pe), da cui si evince che con determinazione R.G. n. 215 del 25/02/2016 è stata effettuata una risoluzione contrattuale (Contratto rep. 3673/2013) sottoscritto in data 05/11/2013 con la ditta TRA. relativo al servizio di gestione rifiuti e igiene ambientale, essendo la ditta incorsa in gravi e ripetute violazioni contrattuali nel corso della gestione del servizio di igiene urbana del Comune di Montesilvano. La ditta, a seguito di tale risoluzione contrattuale, ha resistito in giudizio promuovendo azione davanti al Tribunale de L’Aquila. Il Giudice Unico, presso il Tribunale delle Imprese de L’Aquila, Dott. Ro.Fe., con ordinanza del 23/06/2016, ha rigettato l’istanza cautelare proposta dalla società TRA. s.r.l., finalizzata alla disapplicazione della determinazione dirigenziale del Comune n. 215/2016, recante risoluzione del contratto di affidamento del servizio in questione. Tali circostanze si evincono dalla delibera di G.C. del Comune di Montesilvano n. 198 del 18/07/2016. A seguito di tali circostanziate valutazioni, la commissione ritiene che la ditta TRA. s.r.l. non abbia i necessari requisiti di affidabilità nella gestione del servizio e, pertanto, esclude la stessa dalla procedura di gara”.
Ciò premesso, il Tribunale ritiene sufficiente osservare, sinteticamente, –in diritto– che appare condivisibile, in primo luogo, la prospettata censura formulata dalla Società ricorrente incentrata sulla violazione e falsa applicazione, da parte della Stazione Unica Appaltante intimata, dell’art. 80, quinto comma lett. c), del Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50, considerato –da un lato– che quest’ultima norma consente alla stazione appaltante di escludere dalla partecipazione alla procedura di appalto l’operatore economico allorquando dimostri con mezzi adeguati che lo stesso si è reso colpevole di gravi illeciti professionali (tali da rendere dubbia la sua affidabilità), tra i quali rientrano (per esplicita previsione normativa) le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, purché non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio; e –dall’altro– che, nel caso di specie, risulta invece “per tabulas” che la TRA. S.r.l. ha giurisdizionalmente contestato dinanzi al Tribunale Civile - Sezione Imprese di L’Aquila la risoluzione contrattuale disposta in suo danno dal Comune di Montesilvano (con determinazione dirigenziale n. 215 del 2016), richiamata nella motivazione del provvedimento di esclusione impugnato, e che tale giudizio civile è tutt’ora pendente (essendo solo stata rigettata l’istanza cautelare incidentalmente avanzata dalla Società attrice), sicché –nella fattispecie concreta de qua– non si è in presenza di una risoluzione anticipata del precedente contratto di appalto confermata -con sentenza- all’esito di un giudizio.
Infatti, è agevole rilevare che la predetta innovativa norma introdotta dal Codice degli appalti del 2016 (in vigore dal 19.04.2016) –interpretata alla stregua dei consueti ortodossi canoni ermeneutici–, a differenza della previgente similare disciplina dettata dall’art. 38, primo comma, lett. f), del Decreto Legislativo 12.04.2006 n. 163 e ss.mm., rende irrilevante –ai fini della esclusione degli operatori economici dalle procedure di gara indette dalla P.A.– la risoluzione anticipata di un precedente contratto di appalto o di concessione ancora “sub judice” (pur in presenza di una pronuncia cautelare negativa da parte dell’adito Tribunale Civile).
Il Collegio è dell’avviso meditato che vada disattesa la tesi interpretativa sostenuta dalla difesa della Società controinteressata secondo cui le espressioni letterali adoperate dal legislatore nell’art. 80, quinto comma, lett. c), del Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50 possono portare al risultato pratico (esplicitamente precluso, invece, dalla stessa norma) di consentire alla stazione appaltante di escludere dalla gara anche l’operatore economico nei cui confronti sia stata disposta dalla P.A. una risoluzione contrattuale anticipata, in ragione di ravvisate significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione, contestata in sede giurisdizionale e non confermata -con sentenza (ancorché non definitiva)- all’esito del relativo giudizio, ovvero contestata in un giudizio non ancora concluso (nemmeno in primo grado), ma nel quale l’istanza cautelare del privato sia stata non accolta dal giudice.
Né si ravvisa l’allegato contrasto dell’art. 80, quinto comma, lett. c), del Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50 –così inteso– con l’art. 57, punto 4, della Direttiva 2014/24/UE (recepito dal legislatore italiano con tale norma) che, peraltro, non avendo carattere puntualmente completo e dettagliato, non è “self executing”.
L’acclarata illegittimità della impugnata esclusione della TRA. S.r.l. produce la denunciata illegittimità derivata della determina di aggiudicazione provvisoria (pure gravata) della gara ufficiosa adottata in data 06.09.2016 in favore della controinteressata Società Az.Se.Va. S.p.A..
Per le ragioni innanzi illustrate il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 22.12.2016 n. 1935 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, parcelle da provare. Credito ed entità della prestazione per agire in giudizio. Secondo la Cassazione parere dell'Ordine non decisivo nella causa contro il cliente.
L'avvocato che agisce giudizialmente nei confronti del cliente per ottenere il pagamento delle proprie competenze professionali ha l'onere di dimostrare l'esistenza del credito e l'entità delle prestazioni eseguite. Non può, infatti, attribuirsi alcuna rilevanza probatoria all'eventuale nota spese depositata nel giudizio in cui egli abbia prestato assistenza, né può ritenersi vincolante il parere espresso dal Consiglio dell'Ordine di appartenenza, il cui peso è sempre più «leggero».

Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 16.12.2016 n. 26065.
La vicenda è quella di un giudizio di opposizione promosso dai clienti di un legale avverso un decreto ingiuntivo avente ad oggetto i compensi relativi all'attività professionale prestata da quest'ultimo e cristallizzato in una parcella peraltro corredata dal parere di congruità del Consiglio dell'Ordine.
Sia l'opposizione, sia il gravame proposto dall'avvocato sono stati integralmente rigettati, inducendo il professionista a proporre ricorso per Cassazione.
I giudici di Piazza Cavour hanno rigettato anche tale impugnativa, evidenziando che, in tema di compenso per prestazioni professionali, il parere espresso dal Consiglio dell'Ordine di appartenenza non è mai vincolante, essendo riservata al giudice la possibilità di sindacare la liquidazione anche nel merito in ipotesi di contestazione del compenso richiesto.
Corollario di tale assunto è che, solo ai fini dell'emissione del decreto ingiuntivo (art. 636 cod. proc. civ.), la prova dell'espletamento dell'opera e dell'entità delle prestazioni professionali può essere fornita semplicemente con la produzione della parcella e del relativo parere di congruità della competente associazione professionale.
Viceversa, nell'eventuale giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo da parte dei clienti, l'avvocato, deve, in qualità di «attore sostanziale», fornire integralmente gli elementi dimostrativi della propria pretesa, sia con riferimento alle attività prestate sia alla loro valorizzazione, ossia assolvere pienamente il c.d. onere della prova, senza più ritrarre un sostanziale beneficio dal parere dell'Ordine di appartenenza.
Pertanto, il giudice di merito non può assumere come base di calcolo per la determinazione del compenso le voci della parcella contestate dal debitore (trattandosi di un documento di formazione unilaterale), e il parere del Consiglio dell'Ordine è idoneo esclusivamente ad attestare la conformità della parcella alle «tariffe» vigenti, non provando, viceversa, l'effettiva esecuzione delle prestazioni in essa indicate (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIABonifica, non serve la certezza. Spese a carico dell'azienda anche se non è responsabile. Una pronuncia del Tar Piemonte: applicato il principio europeo del più probabile che non.
L'impresa che ha operato sul terreno risultato contaminato deve bonificarlo anche se non c'è la certezza che sia responsabile delle immissioni vietate perché nell'area si sono alternate nel tempo varie aziende tutte impegnate in lavorazioni simili. E ciò in quanto il criterio eurounitario «chi inquina paga» prevede che a far scattare la diffida a provvedere risulti sufficiente che vi sia più della metà delle probabilità che la società sia responsabile della contaminazione rilevata nella falda acquifera locale.

È quanto emerge dalla sentenza 16.12.2016 n. 1543, pubblicata dalla I Sez. del TAR Piemonte.
Certezza superflua. Niente da fare per l'azienda che lavora nel settore automotive: deve farsi carico delle spese necessarie alla rimessione in pristino del terreno dopo che l'agenzia regionale di protezione ambientale ha rilevato nell'area inquinamento storico da cromo esavalente e da solventi clorurati. In effetti nell'area esiste da un secolo un'officina meccanica e la porzione contaminata corrisponde alla vecchia cromatura, reparto chiuso molto prima che fosse impiantata in loco l'attività di produzione di ammortizzatori dell'azienda subentrata.
Ma eccepirlo non giova all'impresa sopravvenuta, perché ai fini della diffida a bonificare non si applica il criterio penalistico che richiede la certezza «al di là di ogni ragionevole dubbio», ma quello eurounitario del «più probabile che non». E le sostanze inquinanti rinvenute nelle acque costituiscono scarti e prodotti industriali tipici anche della lavorazione dell'impresa subentrata e nonostante le ultime bonifiche l'area risulta inquinata dalle stesse sostanze. Non resta che provvedere, dunque. Le spese di giudizio compensate per la complessità della situazione di fatto.
Il precedente. I rapporti fra le aziende nostrane e l'inquinamento industriale, dunque, risultano regolati anzitutto da norme Ue e della questione si è occupata anche la Corte di giustizia europea con la sentenza C-534/13, pubblicata il 04.03.2015 dalla terza sezione. I giudici di Lussemburgo hanno stabilito che la legge italiana è compatibile con la direttiva 2004/35/Ce laddove non impone misure di riparazione ai proprietari dei terreni inquinati laddove essi risultano estranei alle contaminazioni rilevate. Resta però fermo il rimborso degli interventi realizzati dall'amministrazione.
Gli stati membri dell'Unione europea sono liberi di prevedere una responsabilità soltanto patrimoniale. In base alla direttiva sulla responsabilità ambientale, l'operatore che gestisce un sito deve, in linea di principio, sopportare i costi delle misure di prevenzione e di riparazione adottate in risposta al verificarsi di un danno ambientale nel sito. Ma questi esborsi non sono a carico dell'azione se la società può provare che il danno è stato causato da un terzo.
La direttiva consente comunque agli stati membri di adottare norme più severe. La normativa italiana risulta conforme alla direttiva perché il principio «chi inquina paga» (articolo 191, paragrafo 2, Tfue), si rivolge all'azione dell'Unione: la disposizione non può dunque essere invocata in quanto tale da privati o da autorità amministrative.
Le persone diverse dagli operatori economici non rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva e, quando non può essere accertato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l'attività dell'operatore, tale situazione non rientra nel diritto dell'Unione, bensì nel diritto nazionale. Il codice ambientale, decreto legislativo 152/2006, obbliga dal canto suo soggetti pubblici e privati a tutelare l'ambiente mediante un'adeguata azione, informata ai principi della precauzione e dell'azione preventiva, della correzione dei danni causati all'ambiente e del «chi inquina paga». Prevede che l'amministrazione, dopo la scoperta della contaminazione di una superficie, diffidi il responsabile o adotti gli interventi necessari alla messa in sicurezza, nei casi in cui il responsabile della contaminazione non sia individuabile e non provveda il proprietario.
Il caso è finito all'attenzione dei giudici europei perché alcune società erano divenute proprietarie di diversi terreni situati nella provincia di Massa Carrara. I suoli erano gravemente contaminati da sostanze chimiche in seguito alle attività economiche svolte dai precedenti proprietari, appartenenti a un gruppo industriale Montedison che vi produceva insetticidi e diserbanti. I nuovi proprietari non erano autori della contaminazione, ma le autorità italiane avevano ordinato loro di realizzare una barriera idraulica per proteggere la nappa freatica.
Il Consiglio di stato, adito in appello con ricorsi contro le corrispondenti decisioni amministrative, ha constatato che la legislazione italiana limita la responsabilità patrimoniale dell'operatore al valore del suo terreno. Il Consiglio di stato ha chiesto, quindi, alla Corte di giustizia se tali norme nazionali siano compatibili con il principio «chi inquina paga» cui dà attuazione la direttiva.
E la Corte ha risposto che la normativa italiana è conforme alla direttiva: il principio «chi inquina paga» si rivolge all'azione dell'Ue e la disposizione non può essere invocata in quanto tale da privati o da autorità amministrative (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017).
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MASSIMA
3) Nel secondo motivo viene invece esaminata la posizione della ricorrente rispetto all’inquinamento. Sostiene la difesa della I. la sua assoluta estraneità e quindi l’assenza di ogni forma di responsabilità, neppure sotto forma di responsabilità solidale, rispetto all’inquinamento storico da cromo esavalente e da solventi clorurati: quando I. acquistò il sito nel 1986 la vecchia cromatura era già terminata e smantellata.
Lamenta la ricorrente il difetto di istruttoria, in quanto la conclusione cui è giunta la Provincia, di “estendere” la responsabilità anche alla I. è assunta solo sulla base della sentenza del Tribunale di Asti, poi riformata, senza indicare la natura dell’inquinamento, la soglia di contaminazione e la riconducibilità dell’inquinamento all’attività di I..
Va evidenziato che la ricorrente non si sofferma tanto sul profilo della “successione societaria”, al fine di escludere la propria responsabilità, ma contesta in radice la propria responsabilità, censurando l’istruttoria condotta dalla Provincia, laddove è giunta a ritenere che anche la I. possa avere responsabilità per l’inquinamento dell’area vecchia cromatura.
Anche questo motivo non può essere accolto.
Ritiene il Collegio che la conclusione cui è giunta la Provincia sia corretta: dalla ricostruzione dei fatti non può escludersi che anche per il breve periodo in cui ha svolto l’attività I. possa aver contribuito all’inquinamento del sito.
In materia di accertamento del nesso causale, tra operatore e inquinamento, nel rispetto del principio “chi inquina paga”, il criterio oggi maggiormente applicato è quello del “più probabile che non”, secondo cui per affermare il legame causale non è necessario raggiungere un livello di probabilità (logica) prossimo ad uno (cioè la certezza), bensì è sufficiente dimostrare un grado di probabilità maggiore della metà (cioè del 50%) (cfr. Tar Lazio Roma, n. 998 del 2014; Cassazione sentenza n. 21619 del 2007), escludendo invece la possibilità di applicare il criterio penalistico che richiede una certezza al di là di ogni ragionevole dubbio (TAR Pescara, (Abruzzo), sez. I, 30/04/2014, n. 204).
In applicazione dei principi sopra riportati, non pare illegittima la conclusione cui è pervenuta la Provincia di indicare come responsabile anche la società I..
Non appare analiticamente ed efficacemente contestato dalla ricorrente che le sostanze inquinanti rinvenute nelle acque costituiscono scarti e prodotti industriali tipici dell'attività esercitata anche da I. e che l’area della vecchia cromatura, nonostante le opere di bonifica approntate negli ultimi anni, risulti contaminata dalle medesime sostanze.
Ne deriva che la contaminazione della falda discende ragionevolmente dalla contaminazione interna del sito, nel quale anche I. ha svolto attività per la quale sono utilizzate le suddette sostanze inquinanti.
Né può escludersi una responsabilità della I. alla luce della sentenza della Corte d’Appello di Torino, laddove si afferma la mancanza di “emergenze probatorie certe” sulle infiltrazioni da cromo esavalente precedentemente all’episodio dell’incidente del 1999: va infatti evidenziata la differente indagine che il giudice civile ha compiuto per affermare la responsabilità dei danni subiti dai cittadini, rispetto a quella posta in essere dall’Amministrazione (e oggetto di valutazione da parte del giudice amministrativo), sull’accertamento del nesso causale.
Il giudizio civile aveva ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dai residenti, a causa dell’inquinamento diffuso nonché di un incidente avvenuto nel 1999, che ha provocato una immissione massiccia di sostanze inquinanti.
Il giudice civile ha escluso la responsabilità della I. ritenendo che nel corso del giudizio non fosse stata raggiunta la prova che prima dell’incidente del 1999 vi fosse effettivamente una contaminazione delle acque dei pozzi privati che superasse la soglia di rischio per la salute umana e che tale contaminazione provenisse dalla vecchia vasca di cromatura dismessa negli anni 80.
Al fine di accertare una responsabilità risarcitoria è infatti necessario provare l’esistenza del nesso causale tra l’evento e il danno: in tal caso il Giudice d’appello ha ritenuto che non fosse provato che il danno lamentato dai cittadini fosse causalmente riconducibile all’attività di I..
Differente è l’indagine che deve compiere l’Amministrazione nella ricerca dei soggetti responsabili dell’inquinamento e quindi tenuti alle opere di bonifica: in base al principio del “più probabile che non” la P.A. può presumere l'esistenza di un nesso di causalità alla luce di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell'impianto dell'operatore all'inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore (così, ad es., TAR Sicilia, Catania, sez. I, sent. n. 2117 del 2012), tutti elementi indiziari che ben ricorrono nella presente fattispecie e che sono rinvenibili nella citata perizia della prof.ssa Za. e dagli accertamenti effettuati nel corso del procedimento: la collocazione del laboratorio “Vecchia Cromatura” sull’area ove si è riscontrato il maggior inquinamento, la pacifica corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e le sostanze utilizzate dall’operatore nell’esercizio della propria attività industriale (si vd., al riguardo, con specifico riferimento ai solventi clorurati, quanto riporta la perizia Ra.-So. a pag. 124: “... la metà degli anni ’50 è il periodo in cui si iniziano ad usare massicciamente i solventi clorurati e perché inizia la produzione di ammortizzatori. Siamo arrivati fino alla metà del 1966 perché il 3 giugno di quell’anno è la data dell’ultimo scarico di solventi ricavabile dal registro carico-scarico”).
Non può quindi escludersi una responsabilità della I. per l’effettiva attività che ha svolto dal 1986 al 1993, di produzione di ammortizzatori, comprendente attività di cromatura, in cui si utilizzano le stesse sostanze rinvenute nelle acque, ed una omissiva, in quanto nella sua veste di proprietaria dell’intera area, non ha posto in essere quelle condotte per eliminare la situazione dannosa e permanente riscontrata nel sito.
Il motivo va quindi respinto.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICASportello unico non può bloccare la variante.
Non può essere lo sportello unico del comune a bloccare la variante urbanistica sprint all'attività produttiva che vuole ingrandirsi. Dopo il riordino degli Suap, infatti, il ruolo del responsabile unico del procedimento costituisce soltanto un filtro contro domande inadeguate: è dunque escluso che il Rup possa evitare di convocare la conferenza di servizi.

È quanto emerge dalla sentenza 15.12.2016 n. 2655, pubblicata dal TAR Campania-Salerno, I Sez..
Accolto il ricorso dell'impresa che ha bisogno di un nuovo impianto. Si tratta di una carrozzeria di grandi automezzi: serve più spazio per l'allestimento dei veicoli. Ma serve anche una variante allo strumento urbanistico del Comune perché l'area risulta classificata come zona agricola. La società sceglie di avvalersi dell'iter semplificato ex articolo 8 del dpr 160/2010, il regolamento che ha riformato gli Suap.
Ma è proprio il responsabile dello sportello unico a bloccare il progetto sul rilievo che il piano urbanistico comunale dev'essere ancora emanato e bisognerebbe salvaguardarne la mission di programmazione del territorio. Il punto è che le norme attuali non consentono al Rup alcuna discrezionalità: nell'ambito del procedimento semplificato al responsabile dello sportello per le attività produttive non è dunque riconosciuta la facoltà di pronunciarsi sulla compatibilità urbanistica dell'intervento. Lo stop è quindi frutto di un eccesso di zelo del dirigente.
Non giova al Rup evidenziare che in materia mancano «indirizzi dell'amministrazione» proprio perché si tratta di valutazioni che non gli competono. Il provvedimento impugnato, peraltro, richiama l'articolo 4 del dpr 447/1998, da tempo superato da successivi interventi normativi. E soltanto con le vecchie regole il responsabile unico del procedimento aveva un autonomo potere di rigetto dell'istanza.
È d'altronde la stessa legge sulla trasparenza a consentire al privato di chiedere la conferenza di servizi quando bisogno del consenso di più amministrazioni alla sua iniziativa: risulta escluso che l'ente competente a emettere il provvedimento finale abbia la facoltà di non convocarla. Al comune non resta che provvedere e pagare le spese di lite (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
I. Il ricorso è fondato.
II.1. Assume dirimente rilievo quanto articolato con il primo mezzo, ove le deducenti valorizzano il tratto testuale dell’art. 8 del D.P.R. n. 160/2010 al fine di evidenziare che la norma, ai sensi della quale l’istanza di convocazione della Conferenza di Servizi è stata presentata, non attribuisce all’ufficio del SUAP alcun diaframma di discrezionalità bensì impone l’obbligo di procedere nel senso richiesto.
La deduzione trova adeguato riscontro nel testo della norma, che così provvede: “1. Nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa disciplina regionale, l'interessato può richiedere al responsabile del SUAP la convocazione della conferenza di servizi di cui agli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, e alle altre normative di settore, in seduta pubblica. Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, ove sussista l'assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale è trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente del Consiglio comunale, ove esistente, che lo sottopone alla votazione del Consiglio nella prima seduta utile. Gli interventi relativi al progetto, approvato secondo le modalità previste dal presente comma, sono avviati e conclusi dal richiedente secondo le modalità previste all'articolo 15 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Per vero,
poiché la procedura semplificata di variante urbanistica si fonda su esigenze sostanziali, che giustificano l’applicazione di tale fattispecie dal “carattere eccezionale e derogatorio della disciplina generale (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 20.10.2016, n. 4380) il ruolo del responsabile del RUP può esplicarsi nel senso di assicurare una sorta di filtro rispetto a quelle istanze che si palesino del tutto estranee alla piattaforma applicativa dell’istituto, ma è da escludere, in base alla norma stessa, che l’attivazione del modulo semplificatorio sia demandata a valutazioni discrezionali del responsabile del SUAP afferenti alla compatibilità urbanistica del progettato intervento.
Ebbene,
il corredo motivazionale dell’atto impugnato non risulta coerente con tale impostazione normativa, avendo il redattore dell’atto oggetto di gravame prospettato l’esigenza di salvaguardare il redigendo PUC del Comune di Montoro nel suo disegno “programmatorio”, ma per tal via effettuando valutazioni di compatibilità urbanistica dell’intervento che non competono all’organo emanante.
Non vanno trascurate le differenze, già sul piano lessicale, tra la norma in esame ed il previgente art. 5, comma 1, del D.P.R. n. 447/1998, che, come evidenziato dalle ricorrenti, non solo attribuiva al responsabile del procedimento un'autonoma potestà di rigetto dell'istanza (che oggi non è più prevista), ma, subito dopo, prescriveva che "allorché il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro, ma lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato, il responsabile del procedimento può, motivatamente, una conferenza di servizi (...), per le conseguenti decisioni, dandone contestualmente avviso pubblico"; a sua volta l’art. 14, comma 4, L. n. 241/1990 (come sostituito dall'art. 9, comma 1, L. n. 340/2000), già da tempo, prescrive che "quando l'attività del privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di competenza di più amministrazioni pubbliche, la conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell'interessato, dall'amministrazione competente per l'adozione del provvedimento finale" così anch’esso escludendo che quest'ultima sia titolare di una facoltà discrezionale di non convocare la conferenza richiesta dal privato.
Anche una lettura diacronica e sistematica della norma di riferimento, di cui al ridetto art. 8, conferma la configurazione dell’
effettivo ruolo del responsabile del SUAP che ha mero carattere propedeutico all’intervento della conferenza di servizi, essa sola deputata all’adozione dell’atto conclusivo del decorso procedimentale involgente valutazioni di contenuto discrezionale.
Inoltre, come evidenziato in sede cautelare, il riferimento in motivazione al PUC del Comune di Montoro è formulato in termini meramente generici, senza alcun riferimento né a specifiche parti o norme dello stesso, né alla sua prossima o imminente adozione.
Va condiviso infatti quanto sul punto dedotto da parte ricorrente circa la inidoneità ostativa delle misure di salvaguardia in epoca antecedente all’adozione del piano urbanistico, in base a quanto statuito dall’art. 10 L.R.C. n. 16/2004. Il motivo in esame è quindi fondato, risultando idoneo a compromettere la parte della motivazione impingente in valutazioni di stampo urbanistico.
II.2. Va altresì condiviso quanto ulteriormente dedotto, col secondo mezzo, nel senso della inattitudine degli ulteriori passaggi motivazionali a confortare la contestata determinazione reiettiva.
In tale sede, il Responsabile del SUAP evidenzia che sarebbe inconferente l’ordinanza di questo Tribunale n. 61/2013, richiamata dall’istante nelle sue controdeduzioni, sollevate a seguito della comunicazione del preavviso di diniego, in quanto non sarebbe in discussione la regolare attivazione del contraddittorio preventivo stigmatizzata nel citato provvedimento cautelare.
Tale considerazione, come condivisibilmente dedotto in ricorso, nemmeno in astratto rappresenta un motivo concettualmente idoneo a sorreggere la determinazione negativa, risultando così del tutto ininfluente sul piano logico-argomentativo; l’osservazione è plausibilmente dettata dalla mera finalità di ribattere al contributo dialogico reso dall’istante in sede procedimentale invece che dall’esigenza di evidenziare una ragione potenzialmente ostativa all’accoglimento della domanda.
Nemmeno possono suffragare l’atto impugnato quegli ulteriori passaggi motivazionali con i quali si richiama l’art. 4 del d.P.R. n. 447/1998, peraltro già da tempo superato da successivi interventi normativi, o si evidenzia la mancanza di “indirizzi” da parte dell’Amministrazione, implicitamente affermandosi una sfera di discrezionalità del SUAP che invece, per le ragioni sopra esposte, non si configura.
III. Tanto è sufficiente, ritenuta assorbita ogni altra deduzione, per il complessivo accoglimento del gravame, di tal che dell’atto impugnato occorre disporre l’annullamento.

ATTI AMMINISTRATIVIGli articoli 21-quater e 21-nonies L. n. 241/1990 sono stati modificati da ultimo con la Legge 07.08.2015 n. 124, che ha ora previsto il termine massimo di diciotto mesi entro cui l’Amministrazione può procedere in autotutela alla sospensione o all’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi autorizzatori o comunque attributivi di vantaggi economici.
Dal momento che tale novella, nel sancire una sorta di “decadenza” (in senso atecnico) per l’esercizio del potere amministrativo in autotutela, ha profondamente innovato la previgente disciplina (ove si prevedeva il più elastico concetto di “termine ragionevole” senza fissare un preciso dies ad quem), occorre procedere ad una interpretazione conforme al principio tempus regit actum, senza accedere ad improvvide interpretazioni reatroattive della suddetta novella legislativa, che non solo si porrebbero in palese contrasto con l’art. 11 delle disp. prel. al codice civile, ma comporterebbero la incongrua conseguenza di pregiudicare irrimediabilmente la posizione della Pubblica Amministrazione.
Pertanto una interpretazione conforme alla ratio della suddetta novella deve portare l’interprete ad abbracciare un’opzione ermeneutica idonea a contemperare la tutela del legittimo affidamento del privato (per il cui presidio è stato ora fissato il termine massimo di esercizio del potere amministrativo in autotutela) e la tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione garantito dall’art. 97 della Costituzione.
Utilizzando le suddette coordinate ermeneutiche si ritiene che, in caso di provvedimenti favorevoli adottati prima dell’entrata in vigore della novella del 2015, la Pubblica Amministrazione gode, in linea generale, del termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della Legge n. 124/2015 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di sospensione in autotutela, salvo le ipotesi, da valutare caso per caso, in cui il lungo lasso di tempo già trascorso induce comunque a ritenere decorso il “termine ragionevole” per l’esercizio del potere di annullamento o sospensione in autotutela, a maggior tutela del legittimo affidamento del privato.
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... per l'annullamento del provvedimento 08.08.2016, protocollo 376786/2016, con il quale il Dirigente del Settore Commercio del Comune di Venezia ha disposto "la sospensione dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande sita in Venezia, San Marco ... esercitata dalla ditta Ca. & Ca. sas in forza dell'autorizzazione n. 998746 del 05/03/2009 con decorrenza il 30° giorno dalla notifica del presente provvedimento fino all'ottenimento della piena conformità edilizia e dell'agibilità dei locali”, nonché per il risarcimento del danno ingiusto.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Gli articoli 21-quater e 21-nonies L. n. 241/1990 sono stati modificati da ultimo con la Legge 07.08.2015 n. 124, che ha ora previsto il termine massimo di diciotto mesi entro cui l’Amministrazione può procedere in autotutela alla sospensione o all’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi autorizzatori o comunque attributivi di vantaggi economici.
Dal momento che tale novella, nel sancire una sorta di “decadenza” (in senso atecnico) per l’esercizio del potere amministrativo in autotutela, ha profondamente innovato la previgente disciplina (ove si prevedeva il più elastico concetto di “termine ragionevole” senza fissare un preciso dies ad quem), occorre procedere ad una interpretazione conforme al principio tempus regit actum, senza accedere ad improvvide interpretazioni reatroattive della suddetta novella legislativa, che non solo si porrebbero in palese contrasto con l’art. 11 delle disp. prel. al codice civile, ma comporterebbero la incongrua conseguenza di pregiudicare irrimediabilmente la posizione della Pubblica Amministrazione.
Pertanto una interpretazione conforme alla ratio della suddetta novella deve portare l’interprete ad abbracciare un’opzione ermeneutica idonea a contemperare la tutela del legittimo affidamento del privato (per il cui presidio è stato ora fissato il termine massimo di esercizio del potere amministrativo in autotutela) e la tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione garantito dall’art. 97 della Costituzione.
Utilizzando le suddette coordinate ermeneutiche si ritiene che, in caso di provvedimenti favorevoli adottati prima dell’entrata in vigore della novella del 2015, la Pubblica Amministrazione gode, in linea generale, del termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della Legge n. 124/2015 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di sospensione in autotutela, salvo le ipotesi, da valutare caso per caso, in cui il lungo lasso di tempo già trascorso induce comunque a ritenere decorso il “termine ragionevole” per l’esercizio del potere di annullamento o sospensione in autotutela, a maggior tutela del legittimo affidamento del privato.
Utilizzando tali principi nel caso di specie, si deve rilevare, in primo luogo, che non risulta decorso il termine di 18 mesi, dal momento che il provvedimento impugnato è stato adottato nell’agosto del 2016, a distanza di 12 mesi dall’entrata in vigore della L. n. 124/2015.
Né è possibile ritenere che, nella presente fattispecie, sia decorso comunque il “termine ragionevole” per l’esercizio del potere di sospensione in autotutela (o di annullamento d’ufficio), in quanto tale “ragionevolezza” deve essere calibrata e misurata in ragione dell’affidamento del privato che, per essere tutelato, deve essere “legittimo”, ovvero incolpevole e connotato dal requisito della buona fede.
Nel caso di specie, come già illustrato, la società odierna ricorrente, sin dal 2009 ha presentato plurime domande di permesso di costruire in sanatoria, con ciò dimostrando la piena consapevolezza in ordine alla non conformità edilizia dei locali ove viene svolta l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, con la conseguenza che, nel caso oggetto del presente giudizio, difetta a monte la natura incolpevole dell’affidamento nutrito dal privato, con conseguente legittimità del provvedimento di sospensione adottato dal Comune.
Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Infondato è, altresì, il secondo motivo di ricorso.
Il provvedimento di sospensione impugnato reca, infatti, quale giustificazione dei gravi motivi, la situazione di non conformità edilizia dei locali ove viene esercitata l’attività della ricorrente, considerando altresì che, proprio per non pregiudicare definitivamente gli interessi della Ca. & Ca., il Comune di Venezia si è risolto ad archiviare il precedente procedimento amministrativo per l’annullamento d’ufficio dell’autorizzazione (che avrebbe poi comportato l’impossibilità di richiedere una nuova autorizzazione), in favore di una diversa misura maggiormente proporzionata, quale è appunto la semplice sospensione dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande.
Il secondo motivo, pertanto, deve essere rigettato.
Infondato è infine il terzo motivo di ricorso.
L’impugnata sospensione è stata disposta “fino all’ottenimento della piena conformità edilizia e dell’agibilità dei locali”, ancorando la cessazione dell’effetto sospensivo non ad una condizione, come infondatamente argomentato dal ricorrente, in quanto non dipendente da un evento esterno futuro ed incerto, ma ad un termine finale che, pur non indicato a data fissa, è agevolmente individuabile per relationem e direttamente collegato alla volontà del ricorrente, il solo titolare del potere di richiedere e di adoperarsi per l’agibilità dei locali e per la loro conformità edilizia.
Il terzo motivo di ricorso, pertanto, deve essere respinto.
Dalla infondatezza dei motivi di ricorso discende, altresì, l’infondatezza della domanda di risarcimento del danno che, pertanto, deve essere rigettata.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 07.12.2016 n. 1345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIAspettativa edificabilità non tassabile ai fini Ici.
Ai fini dell'imposizione locale (Ici, Imu) l'aspettativa di edificabilità non è tassabile; di più: il valore di un'area fabbricabile non può essere determinato utilizzando i valori normali desunti dalle banche dati, trattandosi di mere presunzioni che esulano dalle fattispecie concrete.

Sono queste le conclusioni che si leggono nella sentenza 26.11.2016 n. 7356/17/2016 emessa dalla Sez. XVII della Commissione tributaria regionale di Roma.
La vicenda tratta di un avviso d'accertamento Ici per l'anno 2007. Impugnando l'atto notificato dal comune di Roma, la società ricorrente palesava che l'area identificata come edificabile, era stata ricompresa tra quelle di interesse archeologico, con conseguente cancellazione della stessa dalle aree della zona a destinazione urbanistica e inserimento in quelle adibite a parco pubblico. A seguito di questo, veniva avviato il procedimento di perequazione urbanistica.
L'operazione perequativa, avallata anche dal Tar del Lazio nella sentenza n. 1652/1999, consiste nel trasferire la capacità dell'area su altre aree individuate dalla stessa amministrazione o su altre aree possedute dallo stesso proprietario. La Commissione regionale, quindi, veniva chiamata a decidere se la potenzialità edificatoria trasferita su un'area diversa da quella originariamente individuata (così detta area di atterraggio) fosse dovuta l'imposta locale.
La Commissione provinciale di Roma ha accolto il ricorso e la decisione è stata confermata in appello. «Nel caso di specie» si legge nella sentenza di cui al commento «
non risulta portato a termine il procedimento in base a cui sia stato trasferito il diritto su di un'area così detta di atterraggio. Quindi nessuna area edificabile è stata attribuita alla società ricorrente».
Ne deriva che, non essendo ancora esercitabile lo ius edificandi, in mancanza della sottoscrizione di una apposita convenzione con il comune da parte della società, si configura solo una aspettativa di edificabilità non capace di istaurare un rapporto da cui sorga il diritto a esigere l'imposta. Il collegio aggiunge che, quanto al merito, il valore di un'area edificabile non può essere determinato utilizzando i valori normali desunti dalle banche dati, trattandosi di mere presunzioni che esulano dalle fattispecie concrete.
La Commissione, annullando definitivamente l'accertamento illegittimo, ha condannato il comune di Roma al pagamento delle spese processuali quantificato in euro tremila.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il Tar del Lazio, con la sentenza n. 1652/1999, ha avallato l'operazione perequativa, con la quale, nel caso in cui un'area edificabile privata perde tale requisito per effetto di una variante dello strumento urbanistico generale o di una creazione di un vincolo per sopravvenute esigenze pubbliche e venga destinata alla collettività, la capacità edificatoria dell'area in questione non possa essere annullata con l'obbligo di indennizzo a favore del proprietario, ma possa essere esercitata su altre aree individuate dalla stessa amministrazione o su altre aree possedute dallo stesso proprietario.( )
In relazione a tale oggetto del decidere, la Commissione tributaria provinciale di Roma, con decisione n. 8597/98/15, accoglieva il ricorso della società ( ).
Ha proposto appello il comune, deducendo l'inadeguata argomentazione in ordine al metodo di stima adottato in quanto per la stima del valore venale in comune commercio all'01/01/2007, anno interessato dalle operazioni di controllo e accertamento fiscale, il valore ottenuto all'01/01/2002 è stato attualizzato attraverso indici che tenessero conto dell'andamento del mercato immobiliare romano nel periodo 2002-2007. ( )
Il ricorso del comune è infondato e non merita accoglimento.
Deve preliminarmente rilevarsi che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti impositivi in ordine all'Ici: nella fattispecie in esame, come in altre analoghe, non risulta portato a termine il procedimento in base alla quale l'area in questione, quale cosiddetta di atterraggio, risulti effettivamente edificabile e attribuita come tale alla contribuente.
Ne deriva che, non essendo ancora esercitabile lo ius aedificandi, in mancanza della sottoscrizione di un'apposita convenzione con il comune da parte della società, ma configurandosi soltanto un'aspettativa in tal senso, tendente appunto alla compensazione edificatoria, non sorge il diritto a esigere la chiesta imposta. In più è da rilevare, quanto al merito, che il valore di un'area fabbricabile non può essere determinato utilizzando i valori normali desunti dalle banche dati, trattandosi di mere presunzioni che esulano dalle fattispecie concrete; inoltre, anche la percentuale di riduzione sul coefficiente di rivalutazione stabilita dal comune di Roma nella misura del 30%, risulta arbitrario e senza una plausibile valutazione.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
La Commissione rigetta l'appello e condanna l'Ufficio alla rifusione delle spese processuali che liquida in 3.000,00, omnicomprensivi (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).

TRIBUTI: Tarsu illegittima per il 2010 e a seguire.
Le somme relative alla richiesta di Tarsu per l'anno 2010 e seguenti sono illegittime e quindi devono essere rimborsate dall'ente impositore; con l'abrogazione della Tarsu (articolo 49 del dlgs n. 22/1997) e l'introduzione del Codice dell'ambiente, ogni eventuale delibera comunale risulta, comunque, viziata in quanto priva di riferimento normativo.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 24.11.2016 n. 7390/13/2016 emessa dalla Sez. XIII della Commissione tributaria regionale del Lazio.
La vertenza riguarda un ricorso presentato avverso un silenzio rifiuto del comune di San Giorgio a Liri per il rimborso della Tarsu relativa all'anno 2010. Il contribuente richiedente, riteneva che la Tarsu non fosse dovuta in assenza di una legge che ne prevedesse l'applicabilità.
La Commissione tributaria provinciale di Frosinone aveva rigettato il ricorso; di diverso parere la Commissione tributaria regionale del Lazio, che con la sentenza di cui al commento, ha accolto l'appello del contribuente, e disposto il rimborso della tassa richiesta in assenza di una disposizione di legge. La materia dei rifiuti solidi urbani nel corso degli anni è stata disciplinata da cinque diversi principali interventi legislativi (come ben puntualizzato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238 del 16/07/2009 in G.U. del 29/07/2009).
E ciò non poteva essere diversamente, tenuto conto che l'articolo 23 della Costituzione testualmente dispone che «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge (così detta riserva relativa di legge)
».
Di conseguenza è di palese evidenza la non legittimità dell'intervento legislativo adottato con il dlgs n. 23/2011 che all'articolo 14, comma 7, dispone testualmente che «Sino alla revisione della disciplina relativa ai prelievi relativi alla gestione dei rifiuti solidi urbani, continuano ad applicarsi i regolamenti comunali adottati in base alla normativa concernente la tassa sui rifiuti solidi urbani e la tariffa di igiene ambientale, restando, quindi, ferma la possibilità per i comuni di adottare la tariffa integrata ambientale».
Nel caso specifico, il collegio regionale aggiunge che il comune di San Giorgio a Liri, peraltro nemmeno costituito, nemmeno poteva considerarsi ancora in termine per effetto di quanto previsto dall'articolo 53, comma 16, della legge n. 388/2000, stante appunto l'abrogazione della disciplina istitutiva della Tarsu. Il collegio regionale capitolino, disapplicando la norma che consente l'utilizzo di una norma ormai abrogata, ha accolto l'appello e disposto il rimborso della Tarsu illegittima.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Tuttavia, l'attento esame delle pronunce citate a sostegno di entrambi gli orientamenti espressi dalla Ctr di Latina non rileva contraddittorietà tra le pronunce medesime (e cioè tra le sentenze della Corte di cassazione, sez V, n. 3756/2012; della Corte costituzionale n. 238/2009; del Consiglio di stato, sez. V, n 4756/2013).
Tale conclusione appare in effetti coerente sia con la sentenza della Corte di cassazione n. 3756/2012 sia con la sentenza della corte Costituzionale n. 238/2009 sia con la sentenza del consiglio di stato, sez. V, n. 4756/2013 in quanto con la prima la fattispecie esaminata dalla Suprema Corte riguarda la fattispecie (diversa da quella in esame) del passaggio dalla TIA/1 già istituita alla TIA/2 (laddove, al punto 6 dei motivi della decisione, si trova affermato che «la tariffa integrata ambientale, di cui al dlgs n. 152 del 2006, art. 238, è stata istituita previa soppressione (e, dunque, in conseguente sostituzione) della tariffa d'igiene ambientale. Per incidens, essa non risulta ancora applicabile non essendo stato emanato il previsto regolamento attuativo, di cui ai commi 3 e 6 della disposizione citata. (...)
».
Da quanto sopra precede, dopo l'abrogazione dell'art. 49 del dlgs n. 22/1997 per effetto dell'entrata in vigore del Codice dell'ambiente, non poteva più ritenersi consentito il passaggio alla tariffa di igiene ambientale per la semplice ragione che alla data del 30/05/2006 detta normativa (art. 49 del dlgs 22/1997) era ormai stata abrogata e dunque non era più esistente; sicché la delibera emanata dal consiglio comunale, peraltro non costituito in nessuno dei gradi di giudizio e dimostrare il contrario, risulta viziata nella parte in cui istituisce la TIA sulla base dell'art. 49 del dlgs 22/1997, come modificato dall'art. 1, comma 28, della legge n. 426 del 1998.
Alla luce di quanto precede non ha pertanto fondamento neppure l'argomento secondo il quale il comune poteva considerarsi ancora in termine per effetto di quanto previsto dall'art. 53, comma 16, della legge n 388/2000, stante, appunto, l'abrogazione della disciplina istitutiva della Tariffa di igiene ambientale.
Tale conclusione risulta in armonia anche con il disposto di cui all'art. 1, comma 184, della legge n. 296/2006 in quanto, alla data del 29.04.2006, il regime di prelievo relativo al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti adottato nel comune per l'anno 2010 non era quello della TIA/1 e, pertanto, si accoglie l'appello della contribuente. (...) (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017).

VARILa scuola paga per la caduta del bimbo in cortile. Tribunale di Treviso. Responsabilità.
Vanno risarciti i genitori del bimbo che cade nel cortile dell’asilo se, né scuola, né insegnante provano che l’infortunio é dipeso da causa loro non imputabile. Al danneggiato, dunque, basterà dimostrare che il fatto sia accaduto in orario e luogo scolastici, ossia quando il figlio era sotto la responsabilità dell’istituto e dei maestri.
Lo annota il TRIBUNALE di Treviso, Sez. I civile, con sentenza 25.10.2016 n. 2615.
A promuovere la causa, sono i genitori di una bimba scivolata, durante la ricreazione, nel cortile dell’asilo. Sinistro –avvenuto mentre girava, in sella ad una biciclettina priva di rotelle di sicurezza– di cui, sostiene l’avvocato della coppia, erano responsabili maestra e scuola.
Di qui, la domanda risarcitoria tesa ad avere un ristoro economico per le lesioni subìte dalla piccola, che il giudice trevigiano accoglie, condannando in solido i convenuti. Nell’ipotesi di danno cagionato dall’alunno a se stesso –ricorda il Tribunale– la responsabilità dell’istituto scolastico e quella dell’insegnante «hanno natura contrattuale e pertanto si applica il regime probatorio imposto dall’articolo 1281 del codice civile sicché, mentre il danneggiato deve provare esclusivamente che l’evento si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, la scuola ha l’onere di dimostrare che l’evento è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all'insegnante».
Nel puntualizzarlo, la sentenza si allinea alla tesi –ribadita da Cassazione 20475/2015– per cui, in tema di responsabilità dei soggetti obbligati alla sorveglianza di minori, il regime probatorio non muta, sia che la si riconduca alla presunzione di cui all’articolo 2048 del Codice civile, comma 2 (responsabilità per fatti accaduti sotto vigilanza del genitore, precettore o maestro) sia che la si intenda come contrattuale (da negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza).
D’altronde, cardine della responsabilità dell’insegnante per il danno subito dall’allievo, è l’averne la custodia.
Ecco che, nel caso di specie, essendo stati provati –più che la dinamica della caduta– il luogo e l’orario in cui era avvenuta, ossia nel cortile dell’asilo e in orario scolastico, gli unici a poter far qualcosa per fuggire alla condanna per danni, erano proprio maestra e istituto che, però, non avevano offerto alcuna prova che l'evento non fosse loro imputabile. A nulla era valso, infatti, sostenere l’imprevedibilità dell’agire della bimba che, per evitare l’impatto con la direttrice (tenuta, invece, alla «dovuta attenzione» nell’aggirarsi in un cortile destinato al gioco di bimbi piccolissimi), aveva svoltato a U, frenando bruscamente.
La scuola, poi, era responsabile, per «rapporto negoziale generato dall’iscrizione del minore», di non aver vigilato sulla sicurezza degli allievi, controllando la corretta funzionalità dei giochi e omettendo «di adottare misure di protezione e prevenzione quali l’utilizzo di caschetti, ginocchiere o gomitiere». Accorgimenti il cui uso, doveva essere monitorato dall’insegnante, anche impedendo alla minore di adoperare una bici priva di rotelle.
Riconosciuto, così, per i genitori, il risarcimento di un danno di circa 20mila euro, onnicomprensivo –secondo l’ottica delle sentenze “gemelle” di Cassazione (8827/2003 e 8828/2003)- di quello non patrimoniale personalizzato
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2017).

LAVORI PUBBLICIL’appalto non esonera il Comune. Risarcimenti. L’ente non può far pagare all’impresa i danni per la caduta.
Per la caduta in una buca, l’ente proprietario della via è responsabile nei confronti del cittadino solo se il sinistro è dipeso da situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, non percepibili né prevedibili con l’ordinaria diligenza.
Lo conferma la Corte d’appello di Roma, con la sentenza 13.10.2016 n. 6055 (presidente Reali, relatore Mariani).
Il caso nasce dalla domanda di una donna che aveva citato per danni Roma Capitale perché si era fratturata il malleolo cadendo in una buca in un marciapiede. Richiesta accolta dal tribunale, che aveva condannato Roma Capitale a versare il risarcimento.
L’ente aveva impugnato la pronuncia, sostenendo che la ricostruzione dei fatti era errata e che, in ogni caso, l’eventuale responsabilità sarebbe da addebitare alla ditta appaltatrice della manutenzione della strada, chiamata in giudizio per la manleva. La Corte, però, non concorda e boccia il ricorso del Comune.
Secondo i giudici, la donna, nel dimostrare di essersi infortunata cadendo in un fosso piccolo ma profondo, non segnalato né transennato, aveva assolto all’onere probatorio richiesto dall’articolo 2043 del Codice civile in caso di responsabilità extracontrattuale. Era palese, quindi, la colpa specifica dell’ente tenuto, secondo l’articolo 14 del Codice della strada, a garantire la sicurezza della circolazione, con manutenzione, pulizia e gestione delle vie.
Inoltre, la responsabilità non può essere addebitata esclusivamente all’impresa appaltatrice, non potendo il Comune -proprietario del marciapiede e, quindi, obbligato a custodirlo in base all’articolo 2051 del Codice civile– liberarsi da ogni debito adducendo di averne appaltato la manutenzione a una società, se non dimostra di averle anche trasferito «integralmente il potere di fatto sulla porzione interessata da lavori».
La Corte, quindi, inquadrata la fattispecie nell’alveo della responsabilità extracontrattuale (per la presenza dell’insidia) e di quella da custodia (per i rapporti con l’appaltatrice), ha dichiarato infondato il ricorso di Roma Capitale, non essendo emersa alcuna prova che l’ente avesse passato alla ditta ogni potere e dovere di controllo e manutenzione del tratto incriminato.
Secondo il collegio, la norma del capitolato speciale di appalto, che prevede la responsabilità dell’appaltatore per i danni derivanti da mancata sorveglianza o tardivo intervento, è semplice previsione “di stile”, inidonea a «determinare la chiara manifestazione di volontà di esonero della posizione del Comune quale custode del territorio e delle strade con relative pertinenze». D’altronde, il committente non è esonerato da responsabilità per il solo fatto di aver appaltato lavori o servizi (si veda la sentenza 3793/2014 della Cassazione)
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2017).

VARIPATENTE/ I requisiti di sicurezza sotto la lente.
Niente di più sbagliato che litigare con gli agenti di polizia e ripartire a tutto gas in barba alle regole di sicurezza. In questo caso la segnalazione dei vigili alla motorizzazione attiva la possibile revisione della patente per dubbi sulla persistenza dei requisiti per guidare.

Lo ha chiarito il TAR Sardegna, Sez. I, con la sentenza 29.09.2016 n. 743.
Un autista munito di tagliando per la circolazione e la sosta dei veicoli al servizio delle persone invalide ha litigato con la polizia municipale in prossimità di una scuola ripartendo a tutta velocità e creando pericolo per la circolazione.
Al ricevimento della segnalazione la motorizzazione di Cagliari ha adottato un provvedimento di revisione della licenza di guida, per possibili dubbi sulla persistenza dei requisiti di idoneità del soggetto. Contro questa determinazione l'interessato ha proposto censure al collegio ma senza successo.
Il provvedimento non ha alcuna valenza sanzionatoria ma serve solo per verificare l'idoneità dell'autista messa in dubbio dal suo comportamento di guida (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017).

APPALTIL'anomalia scatta con l'aggiudicazione.
Nelle gare d'appalto il momento in cui la soglia di anomalia viene cristallizzata in modo intangibile coincide con l' aggiudicazione definitiva.

Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. I, con la sentenza n. 1372 del 19.09.2016.
La controversia era nata perché la stazione appaltante, dopo la riammissione in gara di alcune ditte inizialmente espulse, aveva proceduto al ricalcolo della soglia di anomalia. Ciò aveva portato all'esclusione dell'offerta della ricorrente, giudicata anomala. Per determinare il momento in cui la soglia di anomalia viene fissata in modo irreversibile, il Collegio ha puntato l'attenzione sull'esegesi della locuzione usata dal legislatore nell'ultima parte dell'art. 38, comma 2-bis, dlgs n. 163/2006.
Il confine invalicabile previsto dalla norma fa riferimento a «ogni variazione che intervenga successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte». Ai fini della soluzione ermeneutica va preliminarmente tenuto a mente che in questo contenzioso non si era proceduto né all'aggiudicazione definitiva, né a quella provvisoria.
Partendo anche da tale presupposto, il consesso fiorentino ha rimeditato il proprio orientamento. Col richiamo a «ragioni di carattere sistematico e logico», l'organo giudicante ha prescelto la soluzione che esclude il potere della stazione appaltante di agire in autotutela solo dopo l'adozione dell'atto di aggiudicazione definitiva, rimanendo quindi possibile prima di tale momento.
Da notare in sentenza la precisazione che è anche vero che la norma citata potrebbe legittimare una diversa interpretazione maggiormente restrittiva circa i poteri d'intervento dell'amministrazione. In pratica l'interprete deve ritenere che il divieto di ricalcolo delle soglie e delle medie operi solo dopo la conclusione di una «fase effettiva» della procedura di evidenza pubblica (articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIPRISTINO DEI LUOGHI O PAGAMENTO DI SOMMA: CONDIZIONI.
Obblighi concordati con l’ente pubblico per la messa in sicurezza di un’area- Inadempimento - Condanna al pagamento di una somma di denaro - Valutazione equitativa.
Art. 18, Legge n. 349/1986.
La previsione secondo cui il giudice disponga, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, presuppone che il soggetto condannato sia colui il quale abbia arrecato il danno all'ambiente.
Nel caso in cui, invece, il convenuto sia stato inadempiente rispetto agli obblighi concordati con l’ente pubblico e finalizzati alla messa in sicurezza di un’area, accertata la responsabilità dello stesso non può censurarsi la pronuncia di merito che abbia condannato il medesimo al pagamento di una somma di denaro disposta in via equitativa.

Un comune aveva rilasciato ad una Società l’autorizzazione per l'esecuzione dei lavori di messa in sicurezza di un'area, di proprietà della Società stessa; area che era stata adibita, da altro soggetto, a discarica abusiva di rifiuti industriali pericolosi (fanghi da attività metallurgiche).
Tuttavia, i lavori in questione non venivano eseguiti e la fideiussione rilasciata dalla Società a garanzia del proprio impegno si rivelava inutilizzabile (in quanto prestata da una società già cancellata dal relativo albo e poi dichiarata fallita).
Il Comune agì quindi in giudizio chiedendo che detta Società fosse condannata al risarcimento del danno ambientale, ai sensi della legge 08.07.1986, n. 349, art. 18, conseguente all'inadempimento rispetto agli obblighi concordati e finalizzati alla messa in sicurezza dell’area in questione.
Il Tribunale accolse la domanda, condannando la Società convenuta al pagamento di una somma di denaro a favore del Comune.
Respinto dalla Corte d’appello il gravame proposto dalla Società convenuta, la controversia giungeva dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, la quale si è trovata a pronunciarsi in merito ad alcuni dei principali meccanismi risarcitori del danno ambientale derivanti dall’applicazione del richiamato art. 18, legge n. 349/1986.
La questione concerne, in particolare, il tema della condanna al ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile: la società ricorrente lamentava, infatti, dinanzi alla Suprema Corte che, a norma del citato art. 18, comma 8, il rimedio del ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile, da ritenere di carattere prioritario, è obbligatorio per legge: da ciò deriverebbe che la condanna al pagamento di una somma di denaro costituirebbe, nella specie, una palese violazione della norma suindicata.
La censura risulta infondata.
In via generale, la Cassazione ricorda innanzitutto sul punto quanto segue:
   - il risarcimento del danno ambientale deve comprendere sia il pregiudizio patrimoniale arrecato ai beni pubblici o privati sia quello non patrimoniale, rappresentato dal vulnus all'ambiente in sé e per sé considerato, cioè come bene immateriale (si veda al riguardo Cass. n. 10118/2008 e n. 25010/2008);
   - a tal fine la legge n. 349/1986, art. 18 -norma abrogata ma comunque applicabile nella presente fattispecie ratione temporis- ha collocato l'obbligo risarcitorio nell'ambito più vasto della responsabilità extracontrattuale (si veda al riguardo anche C. Cost. n. 641/1987);
   - in tale contesto, l'art. 18, comma 8, prevede che il giudice nella sentenza di condanna dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
Ciò posto la Cassazione osserva che si tratta di un “principio coerente con gli obiettivi che quella legge si prefiggeva e che sono stati portati ad ulteriore compimento con la normativa successiva”: la previsione del ripristino risponde, in particolare, “alla ovvia e comprensibile finalità di far sì che colui il quale danneggia l'ambiente sia tenuto, innanzitutto e fin dove possibile, ad una sorta di restitutio in integrum”.
Al rimedio del ripristino dello stato dei luoghi, però, va condannato, appunto, colui il quale danneggia l’ambiente.
Nel caso di specie, invece, il responsabile del danno arrecato all'ambiente non era la società in questione, bensì -come detto- coloro i quali avevano in passato adibito l'area a discarica abusiva di rifiuti industriali pericolosi.
Da ciò discende, illustra la pronuncia in commento, che l'obbligo di messa in sicurezza del terreno costituiva, come correttamente rilevato dal Giudice di merito, proprio l'oggetto dell'obbligazione a carico della Società convenuta.
Società che rispetto a tale obbligazione era rimasta inadempiuta; ne consegue, prosegue la Cassazione, che “censurare la sentenza per la mancata previsione dell'obbligo di ripristino dello stato dei luoghi si risolve, in sostanza, nel censurare la mancata concessione di un ulteriore termine per l'adempimento in favore di chi era già inadempiente”.
La condanna al pagamento di una somma di denaro va quindi confermata, essendo in tal caso conforme al dettato normativo in questione.
La pronuncia in commento analizza, poi, anche la tematica del quantum del risarcimento.
Secondo la Società ricorrente, infatti, l’art. 18 in questione indica la possibilità di una determinazione del danno in via equitativa ove non sia possibile una precisa determinazione del medesimo, con la conseguenza che, in considerazione del carattere eccezionale della disposizione, il giudice del merito avrebbe dovuto valutare precise prove del danno, che il Comune avrebbe dovuto fornire.
Anche su tale aspetto la Cassazione giudica corretta la decisione impugnata in quanto la Corte d'appello, spiegano i Giudici di legittimità, dato conto del costo del ripristino dell'area, ha incrementato tale somma in considerazione del tempo trascorso e del ragionevole profitto che la Società aveva comunque ottenuto dal complessivo risparmio.
La Società aggiunge infine che l’avere innalzato il risarcimento, rispetto alla somma prevista per la messa in sicurezza, di circa 200.000 euro, come fatto dal Giudice d’appello, costituirebbe una sorta di indebita sanzione a carico della parte, non prevista dalla legge.
La Suprema Corte, invece, illustra, che trattasi di liquidazione fatta con criteri presuntivi ed equitativi, di un danno che l'inadempimento della Società ricorrente ha senza dubbio arrecato al Comune, costretto a rivolgersi ad altri per ottenere la messa in sicurezza dell'area: anche l'incremento della somma, quindi, di carattere risarcitorio, si giustifica pienamente (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 22.05.2015 n. 10532 - Ambiente & sviluppo 8-9/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO ILLECITO: CONFISCA VEICOLO.
Rifiuti - Legge dell’emergenza - Veicolo utilizzato per trasporto illecito - Obbligatorietà della confisca.
Art. 6, legge n. 210/2008.
L'art. 6, comma 1-bis, legge n. 210/2008 prevede, per tutte le fattispecie penali di cui al predetto articolo, poste in essere con l'uso di un veicolo, che si proceda, nel corso delle indagini preliminari, al sequestro preventivo del medesimo veicolo, disponendo che, alla sentenza di condanna, consegua la confisca del veicolo stesso.
La confisca del mezzo ha pertanto luogo anche nelle ipotesi di trasporto illecito di rifiuti e di realizzazione dell'attività di miscelazione di categorie diverse di rifiuti pericolosi di cui all'Allegato G della Parte IV D.Lgs. n. 152/2006 ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi (art. 6, lett. g).

Nella specie, il tribunale della libertà di Messina rigettava l'appello proposto avverso il rigetto della richiesta di dissequestro di un autocarro Fiat Iveco il cui vincolo era stato imposto in quanto il figlio dell'appellante era imputato di aver effettuato, utilizzando il predetto autocarro, un'attività di raccolta e di trasporto di rifiuti speciali pericolosi e non, in mancanza di autorizzazione e di avere effettuato un'attività di miscelazione di rifiuti pericolosi e non pericolosi (art. 6, lett. d) e g), legge n. 210/2008).
Avverso il provvedimento di rigetto, veniva proposto ricorso per cassazione in cui il ricorrente assumeva di essere un autotrasportatore, oltre che titolare del mezzo sequestrato; che egli era stato affetto da ("gastroenterite acuta") con tre giorni di prognosi e che perciò non poteva recarsi al lavoro; che, per tale motivo, il figlio si era recato, alla guida dell'autocarro in questione, presso il detentore del materiale R.G. al fine di raccogliere il materiale e consegnarlo a M.r.snc.
Si doleva, pertanto, del fatto che l'ordinanza impugnata non si fosse fatta carico di alcuna motivazione diretta ad inquadrare la legittimità del provvedimento di sequestro, omettendo di considerare che, ai fini del sequestro preventivo di cosa di cui è consentita la confisca, è necessario uno specifico, non occasionale e strutturale nesso strumentale tra res e reato. Il fatto che, il giorno in cui fu sequestrato il mezzo, l'autocarro fosse condotto da G.R., mentre il ricorrente era assente per malattia dall'azienda, costituiva invece elemento di estraneità del ricorrente alla realizzazione del reato.
Il ricorso è stato rigettato perché il tribunale cautelare aveva sostenuto che non fosse stata provata la buona fede del proprietario del mezzo in considerazione del rapporto di lavoro, anche se in prova, espletato da G.R. nell'azienda del padre. Quest'ultimo, pur avendo comprovato di essere affetto da "gastroenterite acuta" con prognosi di tre giorni, non aveva affatto provato, essendo il certificato medico silente sul punto, l'impossibilità a deambulare e pertanto la dedotta malattia, secondo il Collegio cautelare, non costituiva prova che lo stesso non si fosse recato sul posto di lavoro.
Al ricorrente, in altre parole, è stato accollato un addebito di negligenza per difetto di vigilanza perché non aveva dato la prova di non aver impedito che il figlio, con l'uso del veicolo sequestrato, commettesse i reati ambientali contestati, in una zona ove era stato dichiarato lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti.
La Corte ha poi ribadito che l'art. 6, comma 1-bis, legge n. 210/2008 per tutte le fattispecie penali di cui al predetto articolo, poste in essere con l'uso di un veicolo, prevede che si proceda, nel corso delle indagini preliminari, al sequestro preventivo del medesimo veicolo, disponendo che, con la sentenza di condanna, consegua la confisca del veicolo stesso.
Ne consegue che la norma va annoverata nel gruppo di disposizioni che rendono obbligatoria la confisca, in deroga al regime generale di tipo facoltativo di cui all'art. 240 cod. pen. sicché il mezzo di trasporto utilizzato per il traffico o per il trasporto illecito di rifiuti, o per le altre ipotesi tipizzate, è oggetto di una presunzione legislativa di pericolosità che ne giustifica la confisca.
La Corte ha concluso che, nel caso di specie, il nesso di strumentalità tra sequestro e reato era di palmare evidenza, con riferimento ovviamente al soggetto cui il fatto è stato addebitato (ossia il figlio del ricorrente) ed ha altresì ricordato che non si è mai dubitato che la misura di sicurezza non possa essere applicata anche quando il mezzo sia, come nella specie, di proprietà di un soggetto terzo estraneo al reato, purché sia accertato che l'utilizzo del veicolo, per una delle condotte vietate, sia avvenuto per negligenza del terzo estraneo, ossia ove si dimostri che questi abbia violato le regole di diligenza o che non versi in buona fede, intesa, quest'ultima, come assenza di condizioni che rendano probabile a carico del terzo un qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità dell'uso illecito della cosa e senza che esistano collegamenti, diretti o indiretti, ancorché non punibili, con la consumazione del reato e con l’ulteriore precisazione che incombe sul terzo, che chiede la restituzione del bene, la dimostrazione rigorosa degli indicati presupposti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.05.2015 n. 18515 - Ambiente & sviluppo 8-9/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: SOTTOPRODOTTI.
Rifiuti - Sottoprodotti - Riutilizzo di materiali di scarto nella realizzazione di manufatti.
Art. 184-ter, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Secondo il D.M. 08.05.2003, n. 203, che regolamenta l’uso dei materiali riciclati per la realizzazione di manufatti, detti materiali (fra i quali certamente rientrano i prodotti di scarto rispetto a quelli di natura litoide), classificabili ex art. 2, comma 1, lett. a) come “rifiuti derivati dal post-consumo”, costituiscono rifiuti che devono essere assoggettati ad un trattamento specifico prima di essere reimpiegati per la realizzazione di manufatti.
Nella specie si contestava a tal B., nella sua qualità di amministratore unico dell’impresa B. s.p.a., di avere realizzato opere edilizie utilizzando ghiaia mista a materiale vario (lattine, bottiglie, sacchetti e legno) derivante dalla vagliatura della sabbia estratta dal lago d'Iseo.
Per l'annullamento della sentenza di condanna, il B. ricorreva per cassazione deducendo erronea applicazione e/o inosservanza del D.Lgs. n. 152/2006 e del D.M. 08.05.2003 n. 203, nonché vizio di travisamento della prova e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione, come rifiuto, del materiale estratto dall'impresa e posizionato in parte dell'area di proprietà dell’impresa medesima.
Per affrontare queste tematiche, la Cassazione ha ricordato che la Corte di appello aveva, anzitutto, riconosciuto che il materiale che l'impresa B. s.p.a. aveva utilizzato per realizzare un piazzale di circa 3.000 mq. corrispondente a quasi 1/5 dell'area di pertinenza della società a ridosso della foce del fiume Oglio (estesa in totale 14.991 mq.) era lo stesso che l'impresa estraeva dal fondo del lago d'Iseo.
La Corte territoriale, pur dando atto dell'esistenza di materiale escavato di natura mista e pur riconoscendo la bontà della tesi difensiva circa la necessità di una operazione preliminare di selezione del materiale attraverso la vagliatura, era però giunta alla conclusione, avvalorata dalla constatazione diretta del teste del Corpo Forestale dello Stato e dalle fotografie in atti, che i residui (a detta del ricorrente di trascurabile portata) esistenti nel materiale adoperato per la sistemazione del piazzale fossero, invece, in quantità nettamente superiore, tanto da notarsi "ad occhio nudo": da qui la considerazione che tale materiale dovesse considerarsi rifiuto, non pericoloso, stoccato sull'area.
Insomma, il materiale estratto non era solo di origine litoide, ma conteneva residui di altra variegata natura. Vero è -come asserito dal ricorrente- che l'art. 1 ultimo capoverso del D.M. Ambiente 12.08.2012, n. 161 attuativo dell'art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 precisa che i materiali da scavo possono contenere anche altri elementi quali calcestruzzo, bentonite, pvc, vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo meccanizzato, ma la Corte distrettuale aveva evidenziato che nel materiale estratto erano presenti componenti quali, legno, lattine e bottiglie che non rientravano di certo nel materiale "aggiuntivo" indicato dal detto art. 1.
Inoltre, la Cassazione ha sostenuto che il ricorrente aveva reiterato censure cui la Corte di merito aveva dato ampia e convincente risposta, con particolare riguardo all'affermazione che il materiale depositato dall’impresa fosse solo materia prima, mentre la sentenza impugnata aveva precisato che, oltre alla materia prima, vi erano altri componenti non consentiti, costituenti materiali di scarto da qualificare come rifiuti.
Al riguardo, la Corte d’appello, con riferimento al D.M. Ministero Ambiente 08.05.2003, n. 203, asseritamente violato secondo la tesi del ricorrente, aveva opportunamente rimarcato che tale normativa mira a disciplinare l'uso dei materiali riciclati per la realizzazione di manufatti, traendone, quale conseguenza logica, la conclusione che i materiali riciclati -quali certamente i prodotti di scarto rispetto a quelli di natura litoide- classificabili come "rifiuti derivanti dal post-consumo" (art. 1, lett. a), del detto D.M.) costituiscono rifiuti che debbono essere assoggettati ad un trattamento specifico, con l'ulteriore conseguenza che, laddove impiegati per la realizzazione di manufatti (come, nel caso di specie, il piazzale) integrano il reato di cui all'art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
La sentenza, infine, ha preso posizione in ordine all'asserita esistenza dei requisiti richiesti dall'art. 184-ter per far sì che un determinato prodotto venga escluso dalla qualifica di rifiuto: correttamente, la Corte di merito aveva escluso che tali requisiti, o almeno parte di essi (l'esistenza di un mercato commerciale e l'assenza di impatto per l'ambiente) fossero presenti, avendo affermato che «non può di regola ritenersi oggetto di commercializzazione materiale litoide non correttamente vagliato o separato e che tali rifiuti, per la loro quantità, avevano determinato un impatto negativo sull'ambiente tanto da indurre il Comune interessato ad emettere una serie di ordinanze di rimessione in pristino» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17114 - Ambiente & sviluppo 8-8/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: NOZIONE DI SCARICO.
Acque - Nozione di scarico - Rifiuti liquidi - Rapporto tra le normative.
Artt. 137, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
La disciplina sugli scarichi trova applicazione soltanto se il collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto ed attuato mediante un sistema stabile di collettamento. Se presenta, invece, momenti di soluzione di continuità, di qualsiasi genere, si è in presenza di un rifiuto liquido, il cui smaltimento deve essere come tale autorizzato.
Il titolare di un’azienda zootecnica riversava i reflui, relativi a 750 capi di bestiame, mediante ruscellamento su un terreno incolto; i reflui si immettevano poi in un canale sottostante, a sua volta confluente nel torrente Alimenta, da considerare acqua pubblica così danneggiando un bene appartenente al demanio. Per questi fatti si ipotizzava nei confronti di tal D. il reato di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 e 635 cod. pen..
La presente pronuncia ha per oggetto l’esame del ricorso per cassazione del Procuratore della Repubblica avverso l’ordinanza di revoca del sequestro preventivo operato di iniziativa dalla polizia giudiziaria e riguardante un terreno aziendale di circa due ettari.
Nel ricorso il Pubblico Ministero faceva presente che l'area in questione era interessata dallo sversamento di reflui zootecnici, precedentemente raccolti in vasche ormai ricolme e invase da vegetazione spontanea, nonché dall'abbandono di un grosso quantitativo di reflui palabili e non palabili.
Rilevava perciò che la condotta, contrariamente a quanto opinato dal Tribunale, era penalmente rilevante in quanto non era corretta l’equiparazione delle acque reflue provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame alle acque reflue domestiche. Osservava, inoltre, che nella fattispecie non era applicabile la disciplina degli scarichi, ma quella dei rifiuti, tali essendo quelli versati sull'area in sequestro, risultando documentato in atti che i reflui riempivano le vasche, per poi tracimare e raggiungere, mediante ruscellamento, il terreno incolto, ove ristagnavano per poi immettersi nel corso d'acqua.
Il ricorso è stato accolto.
La Corte ha premesso che il Tribunale, dopo aver dato atto della condotta contestata e dell'esito del sopralluogo effettuato dalla polizia giudiziaria, osservando al riguardo che i reflui zootecnici venivano immessi «in due vasche con formazione di un canale naturale e versamento in un terreno retrostante incolto di proprietà dell'istante con ruscellamento nel torrente», aveva richiamato il contenuto dell'art. 101, comma 7, D.Lgs. n. 152/2006 e l'assimilazione delle acque reflue provenienti da imprese dedite all'allevamento di bestiame a quelle domestiche e quindi aveva posto in evidenza la depenalizzazione conseguente a tale assimilazione e la rilevanza solo amministrativa della condotta, che indicava come l'unica contestata (il Tribunale, infatti, aveva osservato che nulla emergeva in merito al danneggiamento delle acque, pure oggetto di contestazione).
Per la Cassazione era chiara la fattispecie: questa non poteva essere correttamente inquadrata quale scarico di acque reflue, trattandosi di un abbandono di rifiuti.
Gli effluenti, infatti, non defluivano in condotte di scarico, ma raggiungevano direttamente un terreno incolto, sul quale ristagnavano per poi immettersi nel torrente sottostante e ciò indicava chiaramente l'insussistenza dei presupposti per qualificare la condotta come scarico.
Dopo aver ricordato che i rapporti tra la normativa sulla tutela delle acque e quella in tema di rifiuti sono stati più volte presi in considerazione dalla giurisprudenza di legittimità, la sentenza ha osservato che la disciplina delle acque è applicabile quando si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile; in tutti gli altri casi, nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore, si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti.
Nella specie, la raccolta nelle vasche interrompeva la necessaria continuità tra il luogo in cui i reflui venivano prodotti (le stalle o gli altri ambienti dell'allevamento) e il recapito finale (il torrente) e, in ogni caso, il percorso seguito dai reflui mancava comunque di continuità, considerando che, all'iniziale collocazione nelle vasche di raccolta, seguiva la tracimazione, il ristagno su un terreno incolto e il successivo ruscellamento fino al torrente.
Secondo la Cassazione, si trattava di una situazione che non era possibile qualificare come «scarico», in quanto, sebbene tale nozione non richieda la presenza di una «condotta» nel senso proprio del termine, costituita da tubazioni o altre specifiche attrezzature, vi è comunque la necessità di un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore.
E’ stato conseguentemente ribadito che la disciplina sugli scarichi trova applicazione soltanto se il collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto e attuato mediante un sistema stabile di collettamento. Se presenta, invece, momenti di soluzione di continuità, di qualsiasi genere, si è in presenza di un rifiuto liquido il cui smaltimento deve essere come tale autorizzato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.04.2015 n. 16623 - Ambiente & sviluppo 8-9/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: ILLECITO AMBIENTALE DI UN COMUNE: GIURISDIZIONE.
Comune titolare di uno scarico autorizzato dalla Provincia - Violazione delle prescrizioni dell’autorizzazione - Ordinanza ingiunzione emessa dalla Provincia - Opposizione del Comune- Giurisdizione del giudice ordinario.
Art. 133, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006.
Il Comune titolare di uno scarico autorizzato dalla Provincia che violi le prescrizioni contenute nel provvedimento di autorizzazione, commette l’illecito amministrativo di cui all'art. 133, comma 3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152. 
Pertanto, l'opposizione del Comune all'ordinanza ingiunzione emessa dalla Provincia per detto illecito rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.

Con ordinanza-ingiunzione la Provincia di Bergamo aveva irrogato una sanzione al Comune di Carona per la violazione del D.Lgs. n. 152/2006, art. 133, comma 3, avendo il Comune mantenuto uno scarico senza osservare le prescrizioni indicate nel provvedimento provinciale di autorizzazione (l'impianto di depurazione di immissione di acque reflue urbane in corsi d'acqua superficiali, provenienti dalla pubblica condotta di fognatura comunale, aveva superato più volte un parametro massimo prescritto nell'autorizzazione).
La relativa controversia è oggetto di regolamento di competenza, sostenendosi che con l'ingiunzione emessa a norma della legge n. 689/1981, sia stata erroneamente incardinata la giurisdizione ordinaria, come se il Comune fosse un soggetto privato che produce reflui urbani, e non un soggetto che concorre con la Provincia per i fini di cui al D.Lgs. n. 152/2006 (e in particolare per l'abbattimento dei parametri inquinanti); con la conseguenza, sostiene il Comune ricorrente, che il conflitto è tra due enti territoriali e perciò dovrebbe radicarsi la giurisdizione amministrativa, ai sensi della legge n. 133/2000, art. 133, comma 1, punto v).
La Cassazione conferma invece la giurisdizione del giudice ordinario.
Al riguardo la Suprema Corte, all’esito di una lunga disamina di tutta la normativa di settore, illustra come, per la difesa del suolo, la tutela delle acque dall'inquinamento e la gestione delle risorse idriche, la disciplina degli scarichi sia unitaria; con la conseguenza che essa risulta applicabile a chiunque sia autorizzato allo scarico in corpi recettori idrici (che perciò è obbligato a rispettare le prescrizioni limitative e conformative contenute nel provvedimento autorizzatorio per la tutela della qualità dell'acqua).
Ne consegue che il Comune che sia titolare dello scarico finale in corsi d'acqua superficiali delle acque reflue urbane provenienti dalla pubblica fognatura dell'agglomerato, e gestore del relativo impianto di depurazione, risulta destinatario dell'obbligo di rispettare le prescrizioni a tutela dell'ambiente dall'inquinamento contenute nell'autorizzazione (esso era nella specie, in particolare, tenuto a verificare l’idoneità del trattamento di depurazione a mantenere le acque reflue nei limiti ammessi e in caso contrario, prosegue la Cassazione, ad attivarsi per i necessari trattamenti stabiliti per non superare i limiti di accettabilità delle sostanze inquinanti).
Pertanto, non scaturendo il rapporto instauratosi per effetto dell’autorizzazione provinciale in questione tra Provincia e Comune non scaturisce da un accordo tra pubbliche amministrazioni (D.Lgs. 02.07.2010, n. 104, art. 133, lett. a), n. 1), ovvero da procedura di affidamento di un pubblico servizio (art. 133, lett. e), n. 1, stesso D.Lgs.), la violazione delle prescrizioni contenute nell'atto di autorizzazione allo scarico configura un illecito amministrativo comune ex art. 133, comma 3, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152.
Ciò posto, la Suprema Corte osserva che:
   - per disposizione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 135, all'irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie "provvede, con ordinanza-ingiunzione ai sensi degli artt. 18 e seguenti della legge 24.11.1981, n. 689, la regione ...", ma, la Regione Lombardia, con la legge n. 26/2003, art. 43, comma 1, lett. b), ha attribuito alle province "l'attività sanzionatoria";
   - il D.Lgs. n. 150, art. 6, comma 4, lett. c) del primo settembre 2011, dispone che l'opposizione all'ordinanza - ingiunzione si propone davanti al Tribunale, anziché davanti al Giudice di Pace, quando la sanzione è stata applicata per una violazione concernente disposizioni in materia di "tutela dell'ambiente dall'inquinamento, della flora, della fauna e delle aree protette" (applicabile al procedimento in questione).
In conclusione, la giurisdizione spetta quindi all'autorità giudiziaria ordinaria (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 26.03.2015 n. 6059 - Ambiente & sviluppo 8-9/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO.
Rifiuti - Trasporto abusivo - Terzo proprietario del mezzo - Onere della prova per evitare la confisca del veicolo.
Artt. 256, 260-ter, D.Lgs. n. 152/2006.
In tema di sequestro di mezzi di trasporto per i quali è obbligatoria la confisca, il terzo proprietario che invochi la restituzione delle cose sequestrate, è tenuto a provare l'estraneità al reato e la buona fede, intesa come assenza di condizioni tali da configurare a suo carico un qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità dell'uso illecito del bene.
Avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame che aveva rigettato la richiesta di riesame presentata nell'interesse della ricorrente e avente a oggetto il decreto di sequestro preventivo di un autocarro in relazione al reato di trasporto abusivo di rifiuti, Fe.Mo. proponeva ricorso deducendo che i giudici avevano rigettato la sua richiesta di riesame senza fornire alcuna motivazione; in particolare, la ricorrente si doleva del fatto che il tribunale non aveva ritenuto applicabile al caso in esame una norma (l'art. 260-ter D.Lgs. n. 152/2006) che, invece, si applicherebbe alla raccolta e al trasporto abusivo di rifiuti non pericolosi; i giudici del riesame, poi, avevano richiesto un onere probatorio a carico della ricorrente anziché a carico del PM, senza poi entrare nel merito della questione, non valutando la conformità alla legge del provvedimento di sequestro.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso osservando che il tribunale correttamente aveva escluso l'applicabilità al caso in esame dell'art. 260-ter, comma 4, che prevede la confisca in caso di trasporto abusivo di rifiuti pericolosi "salvo che gli stessi appartengano non fittiziamente a persona estranea al reato".
Infatti, il Tribunale aveva enunciato che: a) era comprovato che nessuno degli indagati (la ricorrente, proprietaria del mezzo, e gli esecutori del trasporto) risultavano essere in possesso delle necessarie autorizzazioni e che il co-indagato aveva prodotto tre ricevute di vendita di materiale ferroso alla ditta B.; b) che la reiterazione di tale commercio dimostrava che non si trattava di un episodio casuale e che la ricorrente non poteva ignorare l'impiego che i suoi "amici" facevano del veicolo sequestrato; c) che nessuna prova vi era in atti sulle ragioni della titolarità del veicolo da parte della ricorrente.
Il supremo Collegio ha poi osservato che la norma evocata dalla ricorrente presuppone che gravi a carico del proprietario del mezzo adibito al trasporto abusivo, che assume di essere estraneo al reato da terzi commesso, l'onere probatorio di dimostrare di esserlo "non fittiziamente".
Alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte (che ha affermato in più occasioni come in tema di sequestro di cose pertinenti al reato che ne renda obbligatoria la successiva confisca, il terzo che invochi la restituzione delle cose sequestrate, qualificandosi come proprietario o titolare di altro diritto reale è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa e, in particolare, oltre alla titolarità del diritto vantato, anche l'estraneità al reato e la buona fede, intesa come assenza di condizioni in grado di configurare a suo carico un qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità dell'uso illecito del bene), era dunque corretta l'affermazione del tribunale del riesame che aveva sottolineato che la ricorrente, dichiaratasi asseritamente estranea al trasporto abusivo di rifiuti, avrebbe dovuto fornire prova della sua buona fede e di non aver violato i propri obblighi di diligenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.03.2015 n. 12245 - Ambiente & sviluppo 8-8/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: VEICOLI FUORI USO.
Rifiuti - Veicoli fuori uso - Natura di rifiuto pericoloso - Necessità di particolari accertamenti - Esclusione.
Artt. 184, 227, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
La natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti quando risulti, anche soltanto per le modalità di gestione, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi e delle altre componenti pericolose.
Il titolare di una ditta abilitata all'affidamento di veicoli sottoposti a sequestro, veniva condannato per aver effettuato un deposito incontrollato di rifiuti speciali pericolosi costituiti da 250 autoveicoli e 150 motocicli e ciclomotori, nonché materiali inerti provenienti da demolizioni edilizie, su un'area recintata scoperta.
Nel proposto ricorso per cassazione il prevenuto deduceva il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta natura di rifiuto dei mezzi rinvenuti, osservando che per l'attività svolta non era richiesta alcuna autorizzazione inerente alla gestione di rifiuti, svolgendo egli un'attività di deposito giudiziario e che l'individuazione dei mezzi quali rifiuti sarebbe stata data per presupposto senza alcuno specifico accertamento.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.
I giudici di merito avevano accertato, in fatto, le caratteristiche dei mezzi depositati presso la struttura dell'imputato e le condizioni in cui venivano mantenuti: si trattava di veicoli in disuso, in parte incidentati, incendiati, mancanti di parti e di targhe o giacenti da anni, consegnati direttamente dai proprietari per la demolizione o già radiati dal PRA su richiesta presentata da autoscuole o demolitori. Detti mezzi risultavano, inoltre, abbandonati senza alcuna cautela o preventivo trattamento, su un'area priva di impermeabilizzazione del terreno, esposti agli agenti atmosferici ed al dilavamento senza alcun sistema per il convogliamento e lo smaltimento dei reflui.
Non si trattava, dunque, di soli mezzi ricevuti in qualità di custode giudiziario, ma di autoveicoli e motocicli pacificamente qualificabili come rifiuti, così come era indubbia la natura di rifiuto dei residui provenienti da demolizione, pure depositati sull'area nella disponibilità del ricorrente.
La Cassazione ha svolto un’articolata analisi in merito alla natura di rifiuto dei veicoli fuori uso cominciando dall'art. 227, comma 1, lett. c) D.Lgs. n. 152/2006 il quale richiama espressamente il D.Lgs. 24.06.2003, n. 209, con cui è stata data attuazione alla direttiva n. 2000/53/CE, relativa ai veicoli fuori uso, oltre, non avendo la disciplina comunitaria contemplato tutte le categorie di veicoli a motore, l'art. 231 cit. dec. il quale costituisce un necessario complemento della particolare normativa introdotta dal D.Lgs. n. 209/2003, in quanto tratta dei veicoli fuori uso non disciplinati dal quest'ultimo decreto.
La sentenza ha poi ricordato che nella giurisprudenza della stessa Corte Suprema si è precisato che le richiamate disposizioni considerano sia il veicolo di cui il proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, sia quello destinato alla demolizione, ufficialmente privato delle targhe di immatricolazione, anche prima della consegna ad un centro di raccolta, nonché quello che risulti in evidente stato di abbandono, ancorché giacente in area privata.
Tale condizione di rifiuto peraltro non può essere del tutto esclusa neppure con riferimento ai veicoli sottoposti a sequestro quando questi, per le modalità con le quali sono detenuti, siano da considerare obiettivamente destinati all'abbandono.
Secondo i giudici romani, le condizioni del deposito dei veicoli di cui danno conto i giudici del merito evidenziavano, inequivocabilmente, una obbiettiva condizione di abbandono che escludeva ogni dubbio sulla loro condizione di rifiuto. Per la Cassazione era corretta anche la qualificazione dei veicoli come rifiuti pericolosi.
Il comma 4 dell'art. 184, D.Lgs. n. 152/2006 specifica che: sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all'allegato I della Parte Quarta del presente decreto.
Anch'esso individuava, in precedenza, tra i rifiuti speciali, al comma 3, lettera I) veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti (il periodo è stato poi soppresso con l'intervento correttivo ad opera del D.Lgs. n. 205/2010). Inoltre il comma 5 del medesimo articolo chiarisce che l'elenco dei rifiuti di cui all'Allegato D alla Parte IV include i rifiuti pericolosi e tiene conto della loro origine e composizione e, quando necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose.
L'Allegato D individua con il codice CER 16 01 04* e, quindi, quali rifiuti pericolosi, i veicoli fuori uso in generale e, con il codice CER 16 01 06, i veicoli fuori uso, non contenenti liquidi né altre componenti pericolose, che sono dunque rifiuti non pericolosi.
La sentenza ha ritenuto opportuno formulare alcune precisazioni. È evidente che un veicolo funzionante contiene una serie di elementi e sostanze che ne consentono la normale utilizzazione e che sono normalmente riconducibili nel novero dei liquidi e delle componenti cui il catalogo dei rifiuti attribuisce rilievo ai fini della classificazione del veicolo fuori uso come rifiuto pericoloso. Si pensi, ad esempio, al combustibile, alla batteria, all'olio motore, alle sospensioni idrauliche, all'olio dell'impianto frenante, ai liquidi refrigeranti o antigelo, ai detergenti per i cristalli, ad alcune parti dell'impianto elettrico o del motore.
Tali componenti, normalmente presenti in tutti i veicoli marcianti, richiedono, per essere rimossi, operazioni oggettivamente complesse, le quali comportano non soltanto la previa selezione dei singoli elementi da eliminare, ma anche la disponibilità di particolari attrezzature per lo smontaggio.
Si tratta, inoltre, di attività che, per essere eseguite, richiedono una minima competenza tecnica ed il rispetto di specifiche norme di sicurezza o, quanto meno, di una certa prudenza al fine di evitare danni alle persone o alle cose.
Tali interventi di “bonifica” risultano, peraltro, ancor più complessi quando le condizioni del veicolo, a causa di precedenti eventi, come, ad esempio, nel caso di danni ingenti alla carrozzeria a seguito di sinistro stradale, rendono meno agevole le operazioni di movimentazione e di smontaggio delle singole componenti.
Inoltre, una volta rimossi, i liquidi e le componenti non più utilizzabili vanno pure trattati come rifiuti e sono, pertanto, soggetti alla disciplina prevista per la loro gestione, cosicché attività quali, ad esempio, il deposito, il trasporto o lo smaltimento richiedono specifici titoli abilitativi e dovrebbero risultare comunque tracciabili perché documentate.
È dunque evidente che le effettive modalità di conservazione del veicolo e la presenza o meno dei mezzi necessari per l'espletamento delle attività di cui si è appena detto costituiscono dati obiettivi di valutazione e che l'esclusione dal novero dei rifiuti pericolosi dei veicoli fuori uso non può essere presunto, essendo al contrario pacifico che un veicolo, non sottoposto ad alcun preventivo trattamento volto ad eliminarne i liquidi e le componenti pericolose, le contenga ancora, considerando la complessità delle operazioni di rimozione.
E’ stato conseguentemente affermato il principio secondo il quale
«la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti quando risulti, anche soltanto per le modalità di gestione, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi e delle altre componenti pericolose. Nella fattispecie, la presenza di liquidi e sostanze pericolose nei veicoli risultava effettivamente accertata dal giudice del merito mediante il richiamo al contenuto del verbale di sopralluogo, corredato da fotografie, nella parte in cui evidenzia l'opportunità, dopo la rimozione dei veicoli ...di effettuare un'indagine per accertare l'eventuale contaminazione dei suoli a causa del percolamento di liquidi (oli, benzina, refrigeranti) e del dilavamento da parte delle piogge di parti meccaniche arrugginite...».
Della di liquidi ed oli minerali degli automezzi, oltre che delle generali condizioni di degrado dell'area, viene dato atto in altra parte della decisione di primo grado osservando come tale situazione fosse stata comprovata dalle dichiarazioni di un teste (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.03.2015 n. 11030 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: PRODUTTORE DEL RIFIUTO.
Rifiuti - Impresa che esegue opere in appalto - Produttore del rifiuto - Conseguenti responsabilità.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L'appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un’opera o alla prestazione di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto e su di lui, quindi, gravano i relativi oneri.
Il Sindaco del Comune di S. Pio delle Camere e il legale rappresentante della B.C. s.r.l., subappaltatrice di lavori di «messa in sicurezza di cavità ipogee del centro storico», commissionati dal Comune, venivano condannati per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 perché depositavano in modo incontrollato cumuli di rifiuti costituiti da scarti di cemento e sbriciolati (materiale di risulta del cantiere) su terreno vegetale in assenza di protezione del suolo ed esposti all'azione degli agenti atmosferici.
In sede di ricorso, il Sindaco deduceva che il giudice del merito aveva ritenuto la sua responsabilità sulla base della circostanza che l'autorizzazione al deposito era stata data dall'amministrazione comunale, pur dando atto dell'esistenza di una bozza di autorizzazione non firmata dal sindaco e del fatto che l'ufficiale di polizia giudiziaria intervenuto sul posto aveva riferito che il Sindaco, messo al corrente dell'accertamento, aveva dichiarato di non essere a conoscenza di nessun tipo di accordo, mentre il responsabile dell'ufficio tecnico comunale aveva riferito di aver assunto personalmente la decisione di autorizzare il deposito dei rifiuti.
La Cassazione ha ricordato che più volte è stato analizzato il ruolo dell'appaltatore con riferimento alle attività di gestione dei rifiuti, seppure, nella maggior parte dei casi, al fine di distinguerne gli obblighi e le responsabilità rispetto alle diverse figure del committente e del subappaltatore; in queste pronunce, si è osservato che nessuna fonte legale, né scaturente da norma extrapenale, quale la disciplina generale sui rifiuti, né da contratto, individuava tali soggetti come gravati da un obbligo di garanzia in relazione all'interesse tutelato e il correlato potere giuridico di impedire che l'appaltatore commettesse il reato di abusiva gestione dei rifiuti, con la conseguenza che, tranne nel caso di un diretto concorso nella commissione del reato, non poteva ravvisarsi alcuna responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma 2, cod. pen. per mancato intervento al fine di impedire violazioni della normativa in materia di rifiuti da parte della ditta appaltatrice.
Pertanto, l'appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un’opera o alla prestazione di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare casi in cui, per la particolarità dell'obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull'attività dell'appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto.
La Corte ha poi osservato, con specifico riferimento alla figura del Sindaco, che a norma dell'art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 il Sindaco, una volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte programmatiche effettuate; egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente.
Nel caso in esame, secondo la Corte suprema la posizione del Sindaco non era stata compiutamente valutata da parte del giudice del merito. Infatti, considerata l'utilizzazione di un terreno di proprietà comunale per il deposito dei rifiuti e l'esistenza di una «autorizzazione» non sottoscritta dal Sindaco e recante la data del 27.06.2011, corrispondente a quella dell'accertamento, il giudice del merito aveva proceduto attraverso un percorso giustificativo che si presentava tutt'altro che lineare.
Dopo aver dato atto dell'esistenza di un'autorizzazione all'uso del terreno di proprietà pubblica, il giudice del merito aveva riportato testualmente alcuni brani delle dichiarazioni dell'ufficiale di polizia giudiziaria che aveva proceduto al controllo tra le quali figura la seguente «... D. F. era stata contattata ed è venuta lì al comune intorno alle 12,20...e non era a conoscenza di nessun tipo di accordo che ci potesse essere... abbiamo chiesto del responsabile dell'ufficio tecnico, che in quel momento non era presente. Si è avvicinato a noi l'istruttore amministrativo della Polizia Municipale, il signor P..., il quale ci ha esibito una carta intestata, una dichiarazione a nome del sindaco, che esisteva un accordo verbale tra il sindaco e questa ditta per quanto riguarda lo sversamento di detti rifiuti».
Subito dopo, il giudice aveva individuato la conferma di un assenso del Sindaco al conferimento dei rifiuti nelle dichiarazioni del coimputato il quale, dopo aver affermato che i rifiuti erano provvisoriamente collocati sul posto per poi essere trasferiti presso la sede della società per procedere al loro smaltimento, aveva aggiunto «... posso dire che tutti gli organi competenti ci avevano autorizzato all'attività di demolizione, deposito e successivo smaltimento. Tengo a specificare che il luogo ove sono stati momentaneamente depositati i materiali in questione è un'area del Comune di San Pio a quello scopo destinata e a noi B.C. indicata da quella amministrazione comunale».
In base a questi dati, il Tribunale aveva opinato che fosse inverosimile che, in una piccolissima realtà locale quale quella interessata dai fatti per cui era processo, il Sindaco non avesse conoscenza del conferimento di rifiuti in corso da alcuni giorni.
Inoltre, pur dando atto che tanto il tecnico comunale quanto la guardia comunale avevano riferito che l'autorizzazione al deposito all’impresa subappaltatrice era stata data di loro iniziativa, aveva sostenuto che l'aver agito senza coinvolgere il sindaco nella decisione era comunque «poco credibile», sia per la delicatezza della decisione sia per le evidenti responsabilità derivanti dal contratto di appalto.
Aggiungeva il Tribunale che i lavori, regolarmente appaltati, avrebbero dovuto necessariamente prevedere un piano di smaltimento dei rifiuti, cosicché era «impensabile» che i due dipendenti avessero deciso di agire senza coinvolgere i vertici politici dell'amministrazione locale.
Ad avviso del supremo Collegio, si trattava invece di valutazioni ipotetiche che non superavano l'ambito delle mere congetture inidonee a superare il dato concreto rappresentato dalle dichiarazioni del tecnico comunale e dell'istruttore di vigilanza, il cui contenuto, inequivoco, non poteva essere certo inficiato sulla base di un giudizio di mera inverosimiglianza.
Per la Cassazione erano parimenti illogiche le ulteriori considerazioni concernenti il documento privo della sottoscrizione del Sindaco.
Aveva infatti affermato il Tribunale, ricordando come il documento recasse una data coincidente con quella dell'accertamento, che, seppure il tecnico comunale e la guardia municipale avessero agito di loro iniziativa, cercando poi di rimediare predisponendo il documento da far sottoscrivere al Sindaco, era comunque evidente la loro consapevolezza circa la necessità di un coinvolgimento della massima autorità comunale nelle decisioni concernenti la gestione dei rifiuti e, conseguentemente, che essa sussistesse fin dal momento in cui era sorta la necessità di individuare un sito per la collocazione dei rifiuti e che, pertanto, ne avessero reso immediatamente edotto il sindaco il quale avrebbe dato il suo assenso.
Anche in questo caso, secondo la Cassazione il giudizio risultava fondato su personali supposizioni e l'intera motivazione, per ciò che riguardava la posizione del Sindaco, appariva manifestamente carente, in quanto non spiegava, tenuto conto dei principi dianzi richiamati, sulla base di quali elementi concreti, al di là delle mere ipotesi, fosse dimostrato che costui avesse cognizione del conferimento dei rifiuti e delle modalità con le quali veniva attuato e che fosse direttamente intervenuto nei confronti dell'appaltatore.
La Corte suprema ha perciò disposto l'annullamento con rinvio della decisione impugnata per porre rimedio alle lacune motivazionali rilevate (Corte di Cassazione, Sez. III, penale, sentenza 16.03.2015 n. 11029 - Ambiente & sviluppo 8-9/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ESERCIZIO ABUSIVO DI ATTIVITÀ DI TRASPORTO, RECUPERO E SMALTIMENTO.
Rifiuti - Esercizio abusivo di attività di trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti - Gestione di veicoli fuori uso - Concorso di reati - Sussistenza.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 13, D.Lgs. n. 209/2003.
Il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 152/2006 può concorrere materialmente, se riguardante rifiuti consistenti in veicoli fuori uso, con il reato di cui all'art. 13, D.Lgs. n. 209/2003, in quanto mentre la prima contravvenzione attiene ad una azione diversificata di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti pericolosi svolta in assenza di preventiva autorizzazione, la seconda fattispecie è integrata da una attività imprenditoriale di gestione dei veicoli fuori uso non soggetta ad autorizzazione ambientale preventiva, svolta in violazione di una serie di prescrizioni specifiche dettate non solo per la salvaguardia dell'ambiente ma anche per il riutilizzo ottimale dei veicoli.
Nella fattispecie, l'imputato svolgeva abusivamente attività di gestione di veicoli fuori uso e di rifiuti da essi derivati e per questo motivo è stato condannato sia per il reato di cui all’art. 13, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 209/2003, sia per quello di cui all’art. 256 comma 1, lett. a) e b) D.Lgs. n. 152/2006.
Il ricorso presentato dall’imputato è stato giudicato inammissibile perché le censure esposte erano state già esaustivamente esaminate dalla Corte territoriale che aveva fornito risposte specifiche sia in merito alla presunta genericità del capo di imputazione sia in merito alla qualificazione della natura imprenditoriale dell'attività posta in essere.
La Cassazione ha poi osservato, quanto alla pretesa inconfigurabilità del concorso materiale tra le condotte ascritte, che, mentre l'attività di "raccolta, trasporto, recupero e smaltimento dei rifiuti" (quale che sia il genere di appartenenza), contemplata del D.Lgs. n. 152/2006, attiene ad una azione diversificata -secondo il settore di interesse- che può anche essere svolta in forma imprenditoriale (termine che non esige una organizzazione specifica di forze lavoro e mezzi) e necessita di una preventiva autorizzazione, l'attività di gestione di veicoli fuori uso non richiede una autorizzazione preventiva, così come non afferisce necessariamente alla materia dei rifiuti, in quanto i veicoli fuori uso possono essere destinati ad un riutilizzo, parziale o totale, dei vari materiali, ovvero al commercio dell'usato quanto alle parti di ricambio laddove ancora funzionanti.
In particolare, sono gli artt. 1 D.Lgs. n. 209/2003 (afferente al campo di applicazione della normativa di settore) e 2 (afferente agli obiettivi che il legislatore intende perseguire) che aiutano a comprendere la differenza strutturale tra le due normative in esame. Il D.Lgs. n. 209/2003 regolamenta una materia speciale rispetto a quella disciplinata dal D.Lgs. n. 152/2006, in quanto il soggetto gestore, che agisca in forma imprenditoriale, deve attenersi ad una serie di prescrizioni specifiche che, come indicato nell'art. 2, mirano a salvaguardare l'ambiente e nello stesso tempo consentono il riutilizzo ottimale dei veicoli: il rifiuto da essi prodotto costituisce quindi un posterius rispetto alla gestione del veicolo, il che giustifica pienamente la differenza tra le due norme e -per quanto qui rileva- la differenza delle violazioni e il relativo regime sanzionatorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.03.2015 n. 9217 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: REALIZZAZIONE DI DEPOSITO.
Rifiuti - Realizzazione di deposito di rifiuti - Concorso del locatore del terreno.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 40 cod pen.
Risponde del reato di deposito di rifiuti il proprietario che conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi un'attività di smaltimento di rifiuti se non ha verificato che costui sia in possesso dell'autorizzazione per l'attività di gestione dei rifiuti e rispetti le prescrizioni contenute nel titolo abilitativo.
Il legale rappresentante della I. sas di S.F. e c., e D.L.N., in qualità di legale rappresentante della S. srl, venivano condannati per avere depositato in modo incontrollato rifiuti di vario genere (metallo, plastica, carte, cartoni, cascami edili, calcinacci nonché pneumatici in disuso) in larga parte provenienti dalla attività di demolizione di fabbricati, su di un terreno di proprietà della prima società e concesso in affitto alla seconda.
Era infatti risultato che la S., nella cui disponibilità era il terreno in questione, non era autorizzata al trattamento dì rifiuti relativamente all'area, antistante il suo impianto, in cui essi erano stati rinvenuti.
Il giudice del merito aveva perciò ritenuto che fosse integrata la responsabilità sia del legale rappresentante della S. sia di quello della In., avendo quest'ultima ceduto l'area in questione alla prima, senza verificare che questa fosse dotata delle necessarie autorizzazione per lo svolgimento della attività in questione.
La sentenza veniva impugnata dal legale rappresentante della Interaffari che deduceva che non era chiaro il titolo in base al quale era stato chiamato a rispondere del reato contestato posto che il terreno in oggetto era stato acquistato, con atto del marzo 2009, dalla U. Leasing, sicché non vi era in atti alcun elemento che potesse far ritenere che il terreno in questione fosse di proprietà di In.; né la circostanza di averlo ceduto in locazione a S. era un fattore idoneo a far nascere in capo a In. una qualche responsabilità per la condotta della società conduttrice.
Il ricorso è stato respinto.
La Corte -messa da parte la riferibilità alla U. Leasing della formale posizione dominicale in relazione al terreno in questione- ha osservato che il Tribunale correttamente aveva ritenuto sussistere un legame qualificato fra il ricorrente ed il fondo ove era ubicata la discarica abusiva sulla base del dato, comprovante una ampia e sicura disponibilità giuridica e di fatto del terreno in questione, secondo il quale era stata la In. a cedere in affitto alla S. il terreno de quo.
La Corte ha poi riconosciuto che nella giurisprudenza della Sezione era riscontrabile l'esistenza di un contrasto in ordine alla possibilità di riconoscere la responsabilità penale del titolare del terreno nel caso in cui soggetti terzi lo adibiscano a discarica o deposito di rifiuti.
Infatti, ad un primo orientamento secondo il quale non è configurabile in forma omissiva il reato di gestione o realizzazione di discarica abusiva nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato i rifiuti, in quanto nessun obbligo di controllo può ravvisarsi in carico del proprietario medesimo, se ne contrappone uno, di diverso segno, per il quale il legale rappresentante di una ditta, proprietario di un'area su cui terzi depositino in modo incontrollato rifiuti, è penalmente responsabile dell'illecita condotta di questi ultimi in quanto tenuto a vigilare sull'osservanza da parte dei medesimi delle norme in materia ambientale.
Orbene, la Corte pur consapevole della preferibilità del primo orientamento, per essere questo più rispettoso del principio, costituzionalmente tutelato ex art. 27 della Costituzione, della personalità della responsabilità penale ha osservato, nel caso in esame, che il legale rappresentante della In. aveva dato in affitto alla S., per una specifica finalità da questa perseguita, il terreno in questione, e che tale circostanza era idonea a far sorgere in capo al medesimo un puntuale obbligo di sorveglianza sulla condotta dell'affittuario: all’uopo, è stato anche richiamato un proprio precedente specifico in cui si è stabilito che risponde del reato di gestione non autorizzata di rifiuti il proprietario che conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi un'attività di smaltimento di rifiuti, in quanto incombe sul primo, anche al fine di assicurare la funzione sociale della proprietà (presidiata dall'art. 42 della Costituzione), l'obbligo di verificare che il concessionario sia in possesso dell'autorizzazione per l'attività di gestione dei rifiuti e che questi rispetti le prescrizioni contenute nel titolo abilitativo.
Il fatto che il terreno fosse stato concesso dal S. alla S. proprio affinché quest'ultima lo destinasse ad un'attività di deposito e trattamento di rifiuti avrebbe dovuto indurre nel ricorrente una particolare cautela in ordine alla verifica della effettiva titolarità da parte del concessionario delle necessarie autorizzazioni allo svolgimento delle attività in questione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.02.2015 n. 8135 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: SVERSAMENTO DIRETTO DI OLI VEGETALI E GRASSI IN UN CANALE.
Rifiuti - Smaltimento di oli vegetali e grassi mediante il loro diretto sversamento in un canale - Deposito incontrollato dei residui in contenitori non aventi chiusura ermetica e conservati all'aperto - Riversamento del loro contenuto nel canale causa alluvione - Difetto di correlazione accusa/sentenza - Sussiste.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 521 cod. proc. pen.
Nel caso in cui sia originariamente contestata una condotta consistente nell'avere disposto che si effettuasse lo smaltimento di oli vegetali, già utilizzati ad usi alimentari, tramite il loro sversamento in un canale di acqua, non è rispettato il principio di correlazione fra l’imputazione contestata e la sentenza ai sensi dell'art. 521 cod. proc. pen. se la condotta per cui è intervenuta condanna consiste nell'avere immesso i residui in contenitori conservati all'aperto da cui, non essendo stati adeguatamente chiusi ed essendo stati travolti dalla pioggia dovuta ad una alluvione, si era riversato il contenuto nel predetto canale.
Il Tribunale condannava tale B., nella sua qualità di titolare di un ristorante, previa riqualificazione del fatto, originariamente contestato come violazione dell'art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, nella violazione del comma 2 del medesimo articolo, in quanto aveva depositato in modo incontrollato rifiuti, costituiti da residui di oli e grassi utilizzati per la cottura di cibi, immettendoli in contenitori non utilizzati correttamente non essendo stata controllata la chiusura ermetica dopo ogni conferimento in essi di rifiuti.
Nel ricorso per cassazione il B. deduceva l'avvenuta violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. stante il difetto di correlazione fra l'accusa e la sentenza. Il ricorso è stato ritenuto meritevole di accoglimento. La Corte ha opinato che andasse esaminata la questione se, essendo pacifico che nel corso del dibattimento non era stata effettuata nei confronti dell'imputato alcuna modificazione della originaria imputazione, fosse stato rispettato il principio di correlazione fra la imputazione contestata e la sentenza così come espresso dall'art. 521 cod. proc. pen.
La Corte ha ricordato che, sebbene il giudice possa dare al fatto una diversa qualificazione giuridica, senza incorrere nella violazione dell'obbligo della correlazione tra sentenza ed accusa contestata, affinché ciò avvenga legittimamente è comunque necessario che il fatto storico addebitato rimanga identico, in riferimento al triplice elemento della condotta, dell'evento e dell'elemento psicologico dell'autore.
Nel caso in esame, al B. era stata originariamente contestata una condotta consistente nell'avere effettuato e disposto che si effettuasse lo smaltimento di oli vegetali utilizzati ad usi alimentari tramite il loro sversamento in un canale di acqua situato nei pressi del suo esercizio commerciale, mentre la condotta accertata in sede di sentenza di condanna consisteva nell'avere immesso i predetti oli, una volta esaurita la loro funzione, in contenitori conservati all'aperto che, non essendo stati adeguatamente chiusi, ma essendo stati, invece, travolti dalla pioggia dovuta ad una alluvione verificatasi in zona, avevano riversato il loro contenuto nel predetto canale.
Per la Corte era evidente che, nel caso di specie, non solo la condotta accertata era del tutto diversa sotto il profilo materiale da quella contestata, ma anche l'elemento soggettivo, non trascurabile ai fini della identificazione del fatto storico, differiva sensibilmente fra le due ipotesi, posto che in quella contestata l'evento determinatosi (l'avvenuta contaminazione con gli oli esausti delle acque del ricordato canale) era caratterizzato dall'essere voluto dall'agente come conseguenza della propria azione (il capo di imputazione infatti recita: "effettuava o disponeva che si effettuasse attività di smaltimento di oli vegetali (...) mediante versamento degli stessi nel canale d'acqua"), mentre nella sentenza al B. veniva contestata la mera negligenza nel non essersi assicurato che i bidoni utilizzati per lo stoccaggio degli oli usati fossero adeguatamente chiusi cosicché l'eventuale loro caduta, nei fatti causata dall'innalzamento del livello dell'acqua stante l'alluvione, non avrebbe comportato la fuoriuscita del materiale in essi contenuto.
Poiché la modificazione della contestazione non era stata preceduta dai meccanismi di garanzia per l'imputato previsti dagli artt. 516 cod. proc. pen., la sentenza è stata annullata con trasmissione degli atti al Tribunale per nuovo procedimento previa eventuale modificazione della contestazione mossa al prevenuto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.02.2015 n. 8134 - Ambiente & sviluppo 10/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: SOTTOPRODOTTO.
Rifiuti - Sottoprodotto - Diretta riutilizzazione senza ulteriore trattamento - Sussistenza - Fattispecie.
Art. 184-bis, D.Lgs. n. 152/2006.
Il sale residuato dalla salagione delle carni, riutilizzato per evitare la formazione di ghiaccio sulle strade comunali costituisce un sottoprodotto ai sensi dell’art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006, come tale escluso dalla disciplina penale dei rifiuti.
Avverso la sentenza che lo aveva condannato per avere effettuato attività di deposito, smaltimento e commercio di rifiuti, avendo ceduto a terzi, in assenza di autorizzazione, il sale derivante dalla lavorazione delle carni eseguita presso il proprio stabilimento, dopo averlo stoccato sul piazzale antistante il proprio opificio, tale Gentile ricorreva in cassazione deducendo che il giudice di prime cure non aveva considerato che il sale non aveva le caratteristiche del rifiuto, bensì quelle del sottoprodotto.
La Corte ha ritenuto fondato il ricorso.
Alla luce di quanto disposto dall’art. 184-bis, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 (che per sottoprodotto ha stabilito che si deve intendere qualsiasi sostanza od oggetto che origini da un processo di produzione, di cui sia parte integrante, sebbene non ne costituisca la finalità; che sia certamente destinata ad un successivo uso -legittimo e non nocivo per la salute e per l'ambiente- per il quale non necessiti di alcun ulteriore trattamento), la Cassazione ha sostenuto che, in maniera apodittica, il Tribunale di Avezzano aveva escluso che il sale residuato dalla salagione delle carni eseguita presso lo stabilimento del ricorrente potesse essere ritenuto sottoprodotto, sebbene fosse risultato che tale sostanza aveva tutte le caratteristiche per essere ritenuto tale.
Si trattava, infatti, di materiale utilizzato in un processo produttivo, volto ad assicurare la conservazione delle carni e pertanto non costituente lo scopo di quello, che può essere riutilizzato per evitare il formarsi del ghiaccio sulle strade dei Comuni ai quali veniva gratuitamente ceduto dall’imputato, senza alcun ulteriore trattamento e senza alcun apprezzabile nocumento né per la salute né per l'ambiente.
La riconosciuta natura di sottoprodotto della sostanza depositata nel piazzale e successivamente ceduta agli enti locali della zona ha perciò determinato l'annullamento, senza rinvio, della impugnata sentenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2015 n. 7899 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI PERICOLOSI.
Rifiuti - Veicoli fuori uso - Rifiuti pericolosi - Condizioni.
Art. 184, D.Lgs. n. 152/2006.
Affinché un veicolo dismesso possa considerarsi rifiuto pericoloso è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose.
Nel caso che si presenta, l’imputato lamentava l'erronea qualificazione come rifiuto pericoloso del materiale ferroso costituito dalla carcassa rimossa di una Fiat Croma abbandonata da tempo su un fondo agricolo e prelevata dall'imputato proprio perché priva di gasolio o sostanze infiammabili all'interno.
La sentenza impugnata è stata annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello per nuovo esame. Infatti, la Cassazione ha ricordato che un principio consolidato è quello per cui, affinché un veicolo dismesso possa considerarsi rifiuto pericoloso è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose, altrimenti rientra nella categoria 16.01.06 (prevista nell'Allegato D, Parte IV, D.Lgs. n. 152/2006) e non può essere qualificato come pericoloso.
Infatti, l'art. 184, comma 5, prevede che "L'elenco dei rifiuti di cui all'Allegato D alla parte quarta del presente decreto include i rifiuti pericolosi e tiene conto dell'origine e della composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose. Esso è vincolante per quanto concerne la determinazione dei rifiuti da considerare pericolosi. L'inclusione di una sostanza o di un oggetto nell'elenco non significa che esso sia un rifiuto in tutti i casi, ferma restando la definizione di cui all'art. 183".
L’allegato D, alla Parte IV, considera come rifiuti pericolosi sotto la categoria 16.01.04 i veicoli fuori uso, mentre considera come rifiuti non pericolosi i veicoli fuori uso appartenenti a diversi modi di trasporto (categoria 16.01) ed i veicoli fuori uso, non contenenti liquidi né altre componenti pericolose (categoria 16.01.06).
Ciò posto, nella specie, la sentenza impugnata, in luogo di fare riferimento ai criteri posti dalla legge per ricondurre i veicoli fuori uso nell'una piuttosto che nell'altra categoria, si è limitata a ravvisare la natura pericolosa in considerazione della "natura e composizione di tutti i materiali utilizzati per la costruzione di un'autovettura di vecchia concezione e progettualità" in tal modo, dunque, valorizzando un criterio che, oltre ad essere implicitamente disconosciuto dalla legge (posto che le diverse categorie indicate dal legislatore appaiono evidentemente prescindere dall'epoca di fabbricazione del veicolo), finisce per far coincidere tout court la natura pericolosa del rifiuto con la "vecchia" concezione dell'autovettura interessata senza che, peraltro, sia dato comprendere quale sarebbe il discrimine temporale (evidentemente necessario per conferire certezza al criterio utilizzato) da individuare con precisione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2015 n. 3951 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: RACCOLTA E TRASPORTO IN FORMA ITINERANTE.
Rifiuti - Raccolta e trasporto in forma itinerante - Deroga al regime ordinario - Titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114 - Sufficienza - Esclusione Artt. 256, 266, D.Lgs. n. 152/2006.
Con riferimento al fenomeno del “commercio ambulante di rifiuti”, l'ambito di efficacia della deroga di cui all'art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 è delimitato alle sole ipotesi in cui sia effettivamente applicabile la disciplina sul commercio ambulante di cui al D.Lgs. n. 114/1998 e tale applicabilità sia dimostrata dall'interessato ed accertata dal giudice del merito, escludendosi, conseguentemente, che l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi consistenti, per lo più, in rottami ferrosi, possa rientrare tout court nella nozione di commercio ambulante come individuata dal menzionato decreto perché una simile attività non può essere astrattamente riconducibile a quelle descritte dal D.Lgs. n. 114/1998 ed esercitata in concreto con le modalità che lo stesso decreto stabilisce.
Anche questa sentenza affronta il tema dei «commercianti ambulanti» di rottami ferrosi. L’interesse precipuo per la pronuncia nasce dal fatto che la stessa, collegandosi idealmente a Cass. 24.06.2014, PM in proc. Lazzaro, esamina una problematica affacciata dal ricorrente Procuratore della Repubblica in una memoria trasmessa alla Corte suprema.
Premesso che il Pubblico Ministero aveva impugnato il proscioglimento di un soggetto che effettuava abusivamente la raccolta e il trasporto ambulante dei rifiuti, la Corte ha rilevato che il ricorso riguardava identiche questioni già sottoposte all'attenzione della Cassazione nell'ambito di altro procedimento avviato dalla stessa Procura della Repubblica.
Perciò ha richiamato integralmente il contenuto della precedente decisione (quella sopra citata) osservando che il Pubblico Ministero ricorrente, con apposita memoria, aveva criticato la medesima decisione nella parte in cui sembrava ritenere applicabile la deroga di cui al comma 5 dell'art. 266 D.Lgs. n. 152/2006 nei casi in cui il soggetto interessato fosse in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114.
Il Collegio ha replicato testualmente che «la sentenza n. 29992/2014, diversamente da quanto ritenuto dal Pubblico Ministero ricorrente, non si pone affatto su un piano diverso, perché, richiamato quanto già precisato in precedenti pronunce della Sezione sul fenomeno del «commercio ambulante di rifiuti», ha chiaramente delimitato l'ambito di efficacia della deroga di cui all'art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 alle sole ipotesi in cui sia effettivamente applicabile la disciplina sul commercio ambulante di cui al D.Lgs. n. 114/1998 e tale applicabilità sia dimostrata dall'interessato ed accertata in fatto dal giudice del merito, escludendosi, conseguentemente, che l'attività di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi consistenti, per lo più, in rottami ferrosi (quale è quella oggetto dell'imputazione nel presente procedimento) possa rientrare nella nozione di commercio ambulante come individuata dal menzionato D.Lgs. n. 114/1998».
Ulteriore conseguenza di tale interpretazione, secondo la Cassazione, è che l'ambito di operatività della deroga è limitato, come opinato dallo stesso Pubblico Ministero ricorrente, ad ipotesi residuali quali quelle della vendita, sulla base delle disposizioni vigenti, su aree pubbliche, di beni usati ovvero oggetti di antiquariato e da collezionismo non aventi valore storico-artistico.
La Corte ha poi ricordato la definizione di «commercio al dettaglio», contenuta nell'art. 4, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 114/1998, inteso come «l'attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale».
Ed ha aggiunto che la disciplina astrattamente applicabile è quella regolata dal Titolo X, relativo al commercio al dettaglio su aree pubbliche, definite, dall'art. 27, comma 1, lett. b), come «le strade, i canali, le piazze, comprese quelle di proprietà privata gravate da servitù di pubblico passaggio ed ogni altra area di qualunque natura destinata ad uso pubblico» e che l'attività commerciale esercitabile è quella indicata dall'art. 18, comma 1, lett. b) e, cioè, quella che  può essere svolta «su qualsiasi area purché in forma itinerante» e soggetta all'autorizzazione di cui al successivo comma 4, rilasciata, in base alla normativa emanata dalla Regione, dal Comune nel quale il richiedente, persona fisica o giuridica, intende avviare l'attività.
Ha perciò concluso che quanto paventato dal Pubblico Ministero nella memoria e, cioè, che per un’attività quale quella oggetto di imputazione potesse essere richiesta ed ottenuta un'autorizzazione per l'attività svolta in forma itinerante, era «del tutto impensabile, perché giammai una simile attività potrebbe essere astrattamente riconducibile a quelle descritte dal D.Lgs. n. 114/1998 ed esercitata in concreto con le modalità che lo stesso decreto stabilisce» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2015 n. 2872 - Ambiente & sviluppo 10/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUE METEORICHE DI DILAVAMENTO.
Acque - Acque meteoriche di dilavamento - Natura di scarico industriale - Fattispecie.
Artt. 74, 137, D.Lgs. n. 152/2006.
Le acque meteoriche di dilavamento sono costituite dalle acque piovane che, depositandosi su un suolo impermeabilizzato, dilavano le superfici ed attingono indirettamente i corpi recettori. Per acque meteoriche di dilavamento si intendono quindi solo quelle acque che cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche non subiscono contaminazioni di sorta con altre sostanze o materiali inquinanti.
Il Tribunale di Castrovillari condannava tal M. quale responsabile del reato di cui all'art. 137 comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per avere, quale legale rappresentante della M. srl, effettuato scarichi di reflui industriali tali dovendosi qualificare le acque meteoriche contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento che perciò non potevano essere considerate come acque meteoriche di dilavamento. Nel ricorso per cassazione, il prevenuto deduceva l'inosservanza dell'art. 74, lett. h) e lett. f) in relazione all'art. 137 cit. dec. asserendo che le acque meteoriche di dilavamento andavano escluse dalla nozione di scarico anche quando hanno raccolto sostanze inquinanti provenienti da insediamenti produttivi.
Infatti, secondo l’art. 74, lett. h), per acque reflue industriali si intendono le acque reflue "scaricate" (e non più quelle "provenienti") da edifici o impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni diversi dalle acque meteoriche di dilavamento. Inoltre, l'art. 74, lett. ff), nel definire lo scarico, richiede un'immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collegamento senza soluzione di continuità tra il ciclo della produzione del refluo e il corpo ricettore del refluo (acque superficiali, suolo, sottosuolo e rete fognaria); pertanto, dato che nel caso di specie era assente una conduttura che convogliasse le acque meteoriche di dilavamento, non si poteva configurare uno scarico, potendosi al più configurare l'ipotesi di abbandono di rifiuti liquidi.
Il ricorso è stato respinto.
Il tema sottoposto alla Corte investe il concetto di scarichi di reflui industriali ed in particolare l'incidenza delle acque meteoriche che raccolgono sostanze inquinanti provenienti da insediamenti industriali o commerciali (nel caso di specie, trattavasi di una stazione di servizio per rifornimento di carburante).
Come osservato in altre decisioni, nel D.Lgs. n. 152/2006 si fa cenno alle "acque meteoriche di dilavamento" nella sezione 2, parte 3, dedicata alla "Tutela delle acque dall'inquinamento": infatti, nell'art. 74, dedicato alle definizioni, "le acque meteoriche di dilavamento" non sono definite in modo diretto nel loro contenuto, ma citate nella definizione di un'altra tipologia di acque, e cioè dei reflui industriali (lett. h), allo scopo di delimitarne in negativo il significato.
L'art. 74, pertanto, pur non fornendo una diretta definizione delle acque meteoriche di dilavamento, le considera diverse e distinte dalle acque reflue industriali e, quindi, non assimilabili a quest'ultime.
La formulazione dell'art. 74 è quella risultante dalla modifica operata dal D.Lgs. n. 4/2008 il cui art. 2, comma 1, ha escluso il riferimento qualitativo alla tipologia delle due acque.
E difatti il previgente testo dell'art. 74, lett. h), stabiliva che si intendono per "acque reflue industriali: qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento".
La definizione contenuta nell'art. 74, lett. h), D.Lgs. n. 152/2006, prima della modifica apportata dal D.Lgs. n. 4/2008, come la precedente di cui al regime del D.Lgs. n. 152/1999, escludeva dalle acque reflue industriali quelle meteoriche di dilavamento, ma precisava che devono intendersi per tali anche quelle contaminate da sostanze o materiali "non connessi" con quelli impiegati nello stabilimento.
Si riteneva perciò che, quando le acque meteoriche fossero, invece, contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non dovessero più essere considerate come "acque meteoriche di dilavamento", con la conseguenza che dovevano essere considerate reflui industriali.
Come detto, la nuova formulazione dell'art. 74, lett. h), ha escluso ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque ed ha eliminato l'inciso "intendendosi per tali (cioè acque meteoriche di dilavamento, n.d.r.) anche quelle venute in contatto con sostanze...non connesse con le attività esercitate nello stabilimento".
Fatta questa premessa sulla normativa applicabile, la Cassazione ha osservato che la pronuncia invocata dal ricorrente a sostegno della propria tesi difensiva (Cass. 30.10.2013, Rv. 258378) faceva discendere dalla eliminazione di tale inciso l'impossibilità di assimilare sotto un profilo qualitativo i reflui industriali e le acque meteoriche di dilavamento ed in particolare l'impossibilità di ritenere che le acque meteoriche di dilavamento, una volta venute a contatto con materiali o sostanze connesse all'attività esercitata nello stabilimento, potessero essere assimilate ai reflui industriali.
Questa impostazione è stata però sottoposta a revisione nella sentenza in epigrafe in cui si è sostenuto che l'eliminazione dell'inciso, frutto di una precisa scelta del legislatore, sta ad indicare proprio l'intenzione di escludere qualunque assimilazione di acque contaminate con quelle meteoriche di dilavamento: l'eliminazione dell'inciso, insomma, non ha affatto ampliato il concetto di "acque meteoriche di dilavamento", ma, al contrario, lo ha ristretto in un'ottica di maggior rigore, nel senso di operare una secca distinzione tra la predetta categoria di acque e quelle reflue industriali o quelle reflue domestiche.
Oggi, pertanto, le acque meteoriche, comunque venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non possono essere più incluse nella categoria di acque meteoriche di dilavamento, per espressa volontà di legge.
E’ stato dunque riaffermato il principio secondo cui le acque meteoriche di dilavamento sono costituite dalle acque piovane che, depositandosi su un suolo impermeabilizzato, dilavano le superfici ed attingono indirettamente i corpi recettori.
Per acque meteoriche di dilavamento si intendono quindi solo quelle acque che cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche non subiscono contaminazioni di sorta con altre sostanze o materiali inquinanti.
Nel caso di specie, il giudice di merito aveva accertato, sulla scorta delle deposizioni dei verbalizzanti e delle fotografie, l'inquinamento del terreno circostante l'impianto per effetto delle acque meteoriche di dilavamento che si andavano ad amalgamare con gli oli e i residui di carburante presenti sul piazzale, escludendo con certezza che le macchie ritratte nelle fotografie potessero essere state provocate dalla perdita di olio da parte di eventuali auto in sosta presso il distributore (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2015 n. 2832 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACCERTAMENTO DELLA PERICOLOSITÀ.
Rifiuti - Accertamento della pericolosità - Rispetto di specifiche norme tecniche - Necessità - Esclusione.
Art. 260, D.Lgs. n. 152/2006.
L'accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall'art. 8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di un insieme di disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del titolare dell'impianto di produzione dei rifiuti.
Nel caso in esame si era contestato allo Z., quale responsabile del sistema gestione ambientale della P. s.r.l., produttrice di rifiuti pericolosi, e all’A., quale responsabile della gestione dei rifiuti dello stabilimento della P. s.r.l., di aver, con più operazioni continuative e organizzate costituite dalla raccolta mediante mezzi non autorizzate e con documenti di viaggio e formulari falsi, dallo stoccaggio e smaltimento mediante interramento, dalla miscelazione con terre di cava e inerti da demolizione, frantumati e poi impiegati per sottofondi stradali in cantieri, gestito abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti misti pericolosi (CER 170903), provenienti dallo stabilimento della P. s.r.l., stimati in circa 10.625 mc, con alte concentrazioni delle sostanze inquinanti analiticamente indicate nell'imputazione, al fine di conseguire un ingiusto profitto, costituito dalla riduzione dei costi aziendali di smaltimento regolare in discarica.
Avverso la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d'appello di Cagliari per il reato di cui all’art. 260 D.Lgs. n. 152/2006, gli imputati proponevano ricorso per cassazione eccependo che il campionamento dei rifiuti era avvenuto da parte della polizia giudiziaria in violazione della disciplina dettata dal D.M. 05.02.1998 che disponeva l'applicazione delle metodiche di campionamento e analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 in luogo della metodica previgente CNR IRSA 64/1985.
In particolare, era stata fatta una setacciatura del materiale, senza pesatura e conservazione del materiale scartato. Per la difesa non era quindi condivisibile l'affermazione della Corte d'appello secondo cui la norma UNI avrebbe un ambito di applicazione diverso da quello oggetto del presente giudizio, nel quale dovrebbe invece trovare applicazione la norma CNR IRSA.
Quanto alla differenza fra il metodo UNI e il metodo CNR IRSA, la difesa osservava che solo il primo dei due metodi è caratterizzato da un vero e proprio manuale operativo di campionamento dei rifiuti, nel quale si specifica che il campione prelevato deve essere rappresentativo dell'intero; cosicché, prima del prelievo, il materiale deve essere movimentato e suddiviso in ammassi più piccoli, per evitare di raccogliere solo lo strato superficiale. Infine, la difesa richiamava Cass. 27.04.2010, n 16386 nella quale si afferma che è necessario che il giudice motivi circa le ragioni per le quali viene utilizzato il metodo IRSA CNR anziché il metodo UNI 10802.
Per i giudici romani il decreto ministeriale 05.02.1998 (modificato dal D.M. 05.04.2006, n. 186, art. 1) non trovava applicazione diretta nel caso di specie. Esso infatti si riferisce alla "individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, artt. 31 e 33" ed ha, perciò, una portata limitata alle attività, ai procedimenti e ai metodi di recupero di ciascuna delle tipologie di rifiuti individuati dal decreto stesso: rifiuti liquidi, granulari, fastosi e fanghi (art. 1).
L'art. 8 dello stesso D.M., intitolato "Campionamenti e analisi", richiama le norme UNI 10802 per il campionamento di rifiuti, agli specifici fini della loro caratterizzazione chimicofisica (comma 1) e si riferisce a campionamenti e analisi che sono effettuati a cura del titolare dell'impianto ove i rifiuti sono prodotti (comma 4). Si tratta, dunque, di un insieme di disposizioni prive di portata generale, perché dirette allo specifico scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del titolare dell'impianto di produzione di rifiuti, ai fini della loro caratterizzazione chimico-fisica, per le sole tipologie di rifiuti individuate dallo stesso decreto ministeriale.
Tale conclusione trova conferma nella stessa sentenza invocata dalla difesa: infatti, in tale pronuncia si afferma che l'uso del metodo UNI 10802 non è obbligatorio e che la scelta sul metodo da utilizzare per il campionamento è questione di fatto, in mancanza di una normativa generale vincolante sul punto con la conseguenza che è necessario e sufficiente che il giudice motivi circa le ragioni per le quali viene utilizzato il diverso metodo IRSA CNR anziché il metodo UNI 10802.
La motivazione della Corte d'appello è stata dunque ritenuta adeguata: nella specie, i rifiuti oggetto di campionamento erano derivati da demolizioni e non potevano rientrare, neanche per tipologia, nell'ambito di applicazione della norma UNI 10802, la quale, nel richiamare la necessità di ottenere un campione rappresentativo del rifiuto tal quale, si riferisce a rifiuti omogenei, quali sono quelli liquidi, granulari, pastosi, fangosi. E la setacciatura costituisce un passaggio necessario del campionamento, in presenza di macerie, mattoni, terreni assai eterogenei tra loro.
La sentenza impugnata è stata annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello, ma sotto un diverso profilo: infatti, nel secondo motivo di ricorso, gli imputati lamentavano l’illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte d'appello aveva affermato che i rifiuti provenivano tutti dalla P. s.r.l. e avevano sicura destinazione al sito della T. s.r.l..
La Corte territoriale non aveva, infatti, fornito un'adeguata motivazione al rilievo difensivo secondo cui i rifiuti presenti nel sito della T. s.r.l. non erano solo quelli della P., ma anche altri, come risulterebbe dalla documentazione prodotta e relativa al conferimento dei rifiuti in tale sito da parte di imprese diverse. In altri termini, la circostanza che i rifiuti provenissero dalla società P. e avessero come sicura destinazione la cava della T. non era sufficiente a dimostrare che i rifiuti, che erano stati concretamente oggetto di campionamento, fossero proprio quelli provenienti dalla prima perché la Corte d'appello non aveva specificato il luogo nel quale i prelievi erano avvenuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2015 n. 1987 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

AMBIENTE-ECOLOGIA: REFLUI PROVENIENTI DA PISCINA.
Acque - Scarico di reflui provenienti da una piscina - Equiparazione alle acque reflue domestiche - Esclusione.
Art. 74, 137, D.Lgs. n. 152/2006.
Integra il reato previsto dall'art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 l'immissione in pubblica fognatura, senza la prescritta autorizzazione, di acque reflue provenienti da una piscina di un agriturismo, equiparabili a quelle domestiche solo a condizione che provengano da piccole e medie imprese e che rispettino i parametri indicati dall'art. 2, D.P.R. n. 227/2001, essendo altrimenti applicabili gli artt. 74 e 101 D.Lgs. n. 152/2006.
Il titolare di un agriturismo, che convogliava nella condotta delle acque reflue domestiche le acque provenienti da una piscina presente nella propria azienda, dopo essere stato condannato dal Tribunale di Udine - sezione distaccata di Cividale del Friuli per il reato di cui all’art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 si rivolgeva alla Suprema Corte contestando l'assimilazione delle acque di scarico provenienti dalle piscine alle acque reflue industriali, sul rilievo che la L.R. n. 25/1996, prevede che le piscine annesse alle strutture agrituristiche utilizzate esclusivamente dai fruitori di dette strutture sono considerate ad uso privato fino a una superficie di 120 mq. La piscina installata presso l'agriturismo dell'imputato rientrava in detti parametri.
Inoltre, ai sensi dell’art. 101, comma 7, lett. a) ed e), cit. dec. sono assimilate alle acque reflue domestiche quelle provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del terreno o alla silvicoltura e quelle aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale. Il D.P.R. n. 227/2011 avrebbe poi assimilato alle acque reflue domestiche quelle provenienti dalle piscine, con la sola esclusione delle acque di contro lavaggio dei filtri, non preventivamente trattate.
Il ricorso è stato respinto.
Al momento del fatto (14.10.2009), la fattispecie era disciplinata dalla L.R. Friuli Venezia Giulia 15.05.2002, n. 13 (art. 18, comma 25) che richiamava il D.Lgs. n. 152/1999. Questa norma stabiliva che, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue scaricate da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni aventi caratteristiche qualitative e quantitative equivalenti alle acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi, in quanto derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività di tipo domestico, purché separate dagli altri reflui.
L’art. 18, comma 25, L.R. n. 13/2002 è stato poi sostituito dalla L.R. 21.12.2012, n. 26, art. 179, comma 1, lett. a): attualmente è previsto che, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, per quanto non disposto dal successivo comma 26 -che si riferisce a scarichi di attività industriali di produzione di generi alimentari e di acque utilizzate per scopi geotermici- si applicano i criteri di assimilazione alle acque reflue domestiche indicati al D.P.R. n. 227/2011.
Ciò chiarito, la sentenza è passata a verificare se e in che misura la disciplina contenuta nell’appena citato decreto sia più favorevole della disciplina previgente e sia applicabile nel caso di specie.
Per la Corte suprema, il criterio distintivo tra insediamenti civili e produttivi va ricercato in concreto sulla base dell'assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per quantità e qualità dei reflui, a quelli provenienti da insediamenti abitativi.
La definizione di acque reflue domestiche è tale da non ricomprendere le acque reflue non aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche.
In Friuli Venezia Giulia, la normativa regionale di riferimento richiama i criteri di assimilazione di cui al D.P.R. n. 227/2011. L'art. 1 ne individua l'ambito di applicazione richiedendo la sussistenza di due presupposti:
   1) la riconducibilità dello scarico alle categorie di imprese di cui al D.M. attività produttive 18 aprile 2005, art. 2 e, cioè, alle piccole e medie imprese (PMI);
   2) l'attestazione, da parte del titolare dell'impresa, dell'appartenenza alla categoria delle piccole e medie imprese mediante dichiarazione sostitutiva di certificazione ai sensi del D.P.R. n. 445/2000, presentata allo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dello stesso D.P.R. n. 227/2011.
L'art. 2 precisa che, in assenza di disciplina regionale e fermo restando quanto previsto dal D.Lgs. n. 152/2006, trovano applicazione i criteri di assimilazione di cui al precedente comma 1. Tale comma prevede che, fermo restando quanto previsto dall'art. 101 dall'allegato 5 alla parte terza D.Lgs. n. 152/2006, sono assimilate alle acque reflue domestiche:
   a) le acque che prima di ogni trattamento depurativo presentano le caratteristiche qualitative e quantitative di cui alla tabella 1 dell'allegato A;
   b) le acque provenienti da servizi igienici, cucine e mense;
   c) le acque reflue provenienti dalle categorie di attività indicate nella tabella 2 dell'allegato A, con le limitazioni indicate nella stessa.
Per quanto rilevava nel caso in esame, la tabella 2 dell'allegato A al D.P.R. prevede, al n. 19, che sono assimilate alle acque reflue domestiche le acque delle piscine, con l'esclusione delle acque di contro lavaggio dei filtri non preventivamente trattate.
Secondo la Corte, si tratta di un quadro assai articolato da cui emerge che la normativa di cui al D.P.R. n. 227/2011, seppure in astratto più favorevole rispetto al D.Lgs. n. 152/2006, non trova applicazione automatica e, dunque, non muta in via generale le categorie delle acque di scarico.
La sua applicazione è, infatti, limitata alle imprese che abbiano attestato, con dichiarazione sostitutiva presentata allo sportello unico per le attività produttive, l'appartenenza alla categoria delle PMI. Del resto, l'assoluta prevalenza del profilo procedimentale su quello sostanziale emerge anche dall’art. 49, comma 4-quater, aggiunto dalla legge di conversione n. 122/2010, che costituisce il fondamento normativo dell'emanazione del richiamato D.P.R. n. 227/2011.
Tale disposizione autorizza il governo ad adottare regolamenti di delegificazione volti a semplificare e ridurre gli adempimenti amministrativi gravanti sulle piccole e medie imprese, in base a: criteri di proporzionalità; semplificazione dei regimi autorizzatori, con l'eliminazione degli adempimenti amministrativi e delle procedure non necessarie rispetto alla tutela degli interessi pubblici in relazione alla dimensione dell'impresa ovvero all'attività esercitata; ampliamento dell'ambito di utilizzo dell'autocertificazione; informatizzazione degli adempimenti e delle procedure; coordinamento delle attività di controllo al fine di evitare duplicazioni o sovrapposizioni.
Sono invece del tutto assenti, nella disposizione che autorizza la delegificazione, riferimenti agli ambiti di materia nei quali la semplificazione degli adempimenti amministrativi può trovare spazio, quali la tutela dell'ambiente o, più nello specifico, la tutela delle acque dall'inquinamento. E proprio la mancanza di espressi riferimenti alla materia dell'inquinamento delle acque, concretizzandosi nella mancanza dell'autorizzazione a delegificare tale materia, ha reso necessaria, da parte della disciplina regolamentare, la precisazione che i criteri di assimilazione di cui al comma 1 non derogano a quanto previsto dal D.Lgs. n. 152/2006 [art. 101, comma 7, lett. e)] con la conseguenza che l'applicazione di tali criteri di assimilazione deve intendersi soggetta all'ulteriore condizione che gli scarichi abbiano "caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche".
A fronte di siffatto quadro normativo, la Cassazione ha confermato che l'assimilazione alle acque reflue domestiche delle acque reflue generate da attività produttive trova applicazione solo per le PMI, in presenza dei presupposti soggettivi e oggettivi sopra richiamati, e non vale ad innovare in via generale la sistematica degli artt. 74, comma 1, lett. g) e h) e art. 101, comma 7, D.Lgs. n. 152/2006.
Nel caso in esame, secondo la Cassazione, una tale prospettazione mancava del tutto, sia con riferimento all'appartenenza dell'impresa esercitata alla categoria delle PMI, sia con riferimento all'attestazione di tale appartenenza con dichiarazione sostitutiva presentata allo sportello unico per le attività produttive, sia con riferimento alle caratteristiche qualitative delle acque.
Inoltre, le acque di contro lavaggio dei filtri delle piscine non preventivamente trattate -la cui presenza nello scarico era stata ampiamente riscontrata nel caso di specie- sono escluse espressamente anche sul piano oggettivo dall'ambito di applicazione del D.P.R. n. 227/2011, con la conseguenza che il reato contestato avrebbe comunque era ravvisabile anche in presenza della prova della sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 2 dello stesso D.P.R..
La sentenza ha, infine, chiarito che l’invocata applicazione della L.R. Friuli-Venezia Giulia n. 25/1996 (il cui art. 4, comma 5-ter, prevede che le piscine annesse alle strutture agrituristiche utilizzate esclusivamente dai fruitori di dette strutture sono considerate ad uso privato fino a una superficie di 120 mq) è inserita nella disciplina regionale dell'agriturismo ed è semplicemente diretta all'individuazione degli edifici e delle costruzioni destinate all'esercizio di tale attività e perciò non ha nulla a che vedere con la tutela dell'ambiente.
In altri termini, il riferimento all'"uso privato" delle piscine contenuto in quella disciplina non ha in alcun modo l'effetto di rendere assimilabili agli scarichi domestici gli scarichi delle piscine trattandosi di una definizione normativa dettata per altri fini (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2015 n. 1983 - Ambiente & sviluppo 7/2015)

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC). Modifiche al decreto interministeriale 30.01.2015 (INPS, circolare 31.01.2017 n. 17).

INCARICHI PROFESSIONALI: Oggetto: Mandati difensivi delle pubbliche amministrazioni (Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti, lettera-circolare 19.01.2017 n. 1/2017).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCARICHI PROFESSIONALI: G. Bartolozzi, L'affidamento dei servizi legali - Gli orientamenti giurisprudenziali ed i nuovi criteri sanciti dal d.lgs. n. 50/2016 (25.01.2017 - tratto da www.dirittodeiservizipubblici.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 03.02.2017, "Primo aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 31.01.2017 n. 925).

APPALTI: G.U. 31.01.2017 n. 25 "Modifiche al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 18.04.2013 per l’istituzione e l’aggiornamento degli elenchi dei fornitori prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all’art. 1 comma 52, della legge 06.11.2012, n. 190" (D.P.C.M. 24.11.2016).

APPALTI: G.U. 28.01.2017 n. 23 "Adozione dei criteri ambientali minimi per gli arredi per interni, per l’edilizia e per i prodotti tessili" (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare, decreto 11.01.2017).
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Nello specifico, il DM dispone:
Art. 1. - Adozione dei criteri ambientali minimi
   Ai sensi dell’art. 2 del decreto interministeriale 11.04.2008, sono adottati i criteri ambientali minimi di cui agli allegati tecnici del presente decreto, facenti parte integrante del decreto stesso, di prodotti/servizi di seguito indicati per la:
«Fornitura e il servizio di noleggio di arredi per interni » (
allegato 1);
«Affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici» (allegato 2);
«Forniture di prodotti tessili» (allegato 3)

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Casellario Informatico e Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici Contenuto del nuovo Casellario informatico e Modelli di comunicazione (delibera 21.12.2016 n. 1386 - link a www.anticorruzione.it).
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Obblighi informativi di Stazioni appaltanti, S.O.A. ed Operatori economici.
Nuovi modelli di comunicazione ai fini della tenuta del Casellario Informatico e Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici.

Adottati con una delibera dell’Autorità nuovi modelli standardizzati di comunicazione che le Stazioni appaltanti, gli Operatori economici e le Società Organismo di Attestazione dovranno utilizzare per ciascuna tipologia di informazione da rendere all’Autorità.

APPALTI: Modelli di segnalazione all’Autorità per le comunicazioni utili ai fini dell’esercizio del potere sanzionatorio della Autorità, relativamente ad Operatori Economici nei cui confronti sussistono cause di esclusione ex art. 80 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nonché per le notizie, le informazioni dovute dalle stazioni appaltanti ai fini della tenuta del casellario informatico (comunicato del Presidente 21.12.2016 - link a www.anticorruzione.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le procedure di mobilità.
DOMANDA:
Un dipendente, inquadrato in categoria C1, pervenuto per mobilità esterna da altro comune nell’anno 2014 presso l’area di vigilanza, è stato poi spostato a richiesta con mobilità interna in area amministrativa nei settori relativi ai servizi di anagrafe e stato civile, da circa un anno, dei quali è responsabile di procedimento.
Detto dipendente intende chiedere nulla osta preventivo per partecipare a una mobilità esterna indetta da altro comune, sempre in Lombardia, soggetto, come il nostro, al regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, indicando quale possibile sostituto un dipendente di altro comune inquadrato in categoria B4 ritenendo fattibile una mobilità per compensazione.
Ciò premesso, l’attuale normativa, in particolare l’art. 30 del D.Lgs. 165/2001, prevede che si possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti "… appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni …”. Nel nostro caso, non sono ancora trascorsi 5 anni dalla mobilità e non esiste una corrispondenza di qualifica.
Si chiede se tale passaggio sia possibile, come effettuare l’eventuale compensazione e rispettare la contemporaneità e se il dipendente subentrante in base alla categoria posseduta (B) possa essere nominato responsabile di procedimento in settori così delicati quali quelli di anagrafe e stato civile.
RISPOSTA:
In risposta al quesito posto, si evidenzia innanzitutto che l'operazione descritta non rientra pienamente nella così detta mobilità per compensazione o per interscambio. Infatti, tale figura -originariamente prevista dall'art. 6, comma 20, del DPR 268/1987, abrogato dal D.L. 5/2012- comporta che il trasferimento volontario e reciproco di dipendenti tra due o più enti, produca "uno scambio del posto di lavoro" tra i dipendenti stessi.
Occorre, in altre parole, che i lavoratori interessati dall'interscambio, anche se provenienti da diversi comparti di contrattazione collettiva, possiedano lo stesso livello professionale, vale a dire lo stesso inquadramento nelle diverse aree giuridiche-categorie (nell'ambito della categoria, non rileva invece l'eventuale differenza di posizione economica che, peraltro, è finanziata con il fondo risorse decentrate e non determina un incremento di spesa).
In sostanza occorre che l'operazione tra i due enti sia a “somma zero” (e non comporti costi aggiuntivi). Questo spiega perché, ad es., la mobilità per compensazione sia ammessa anche in caso di violazione del patto di stabilità (ora, pareggio di bilancio) e non si computi ai fini del rispetto del tetto massimo alla spesa di personale (FP nota n. 20506 del 27/03/2015 e Corte dei Conti Lombardia 342/2015).
Nel caso prospettato, invece, lo scambio è tra un lavoratore di categoria C ed uno di categoria B.
Ciò premesso, è indubbio che al di là dell'inquadramento giuridico della figura, si potrà comunque procedere allo scambio a titolo di mobilità volontaria. Più precisamente, trattandosi di enti soggetti a limitazioni delle assunzioni, si tratterà di una mobilità finanziariamente neutra che, perciò, potrà avvenire anche in difetto di capacità assunzionale, purché nell'anno precedente sia stato rispettato il pareggio di bilancio (art. 1, comma 47, della legge 311/2004 e comma 475, lett. e, della legge di Bilancio 2017) e il tetto massimo alla spesa di personale posto dal comma 557 della legge Finanziaria 2007.
Infine, in risposta agli ulteriori quesiti posti, si precisa che la contemporaneità dello scambio nella mobilità per compensazione, non deve essere intesa come contestualità, in quanto è sufficiente che il passaggio di entrambi i dipendenti avvenga entro "un periodo di tempo congruo" che non costringa l'ente ad abbattere le spese di personale (per la mobilità in uscita) a causa dello slittamento della mobilità in entrata all’esercizio successivo (Corte dei Conti Veneto n. 65/2013) l'obbligo di permanenza quinquennale nella sede di prima assegnazione previsto dal comma 5-bis dell'art. 35 del D.Lgs 165/2001, introdotto dalla legge finanziaria del 2006, secondo la Funzione Pubblica (parere uppa 2/2006) non si applica ai comuni.
Inoltre, per l'interpretazione prevalente non si tratta di un obbligo di carattere oggettivo ma soggettivo, posto a tutela delle concrete situazioni in cui può trovarsi la P.A. che, pertanto, potrà o meno farlo valere in relazione alle proprie esigenze organizzative. La nomina a responsabile del procedimento di un dipendente inquadrato in categoria B non è di per sé vietata dalle norme.
Tuttavia la questione merita un approfondimento.
L'art. 5, commi 1 e 2, della L. n. 241/1990 dispone che il dirigente di ciascuna unità organizzativa assegna a sé o ad altro dipendente addetto all'unità, la responsabilità della istruttoria ed eventualmente dell'adozione del provvedimento finale. In mancanza, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla singola unità organizzativa competente. L'art 6, comma 1, lett. e), precisa che il responsabile del procedimento adotta il provvedimento finale "ove ne abbia la competenza", mentre, in caso contrario, trasmette gli atti all'organo competente per l'adozione.
La norma, dunque, non prevede alcuna prescrizione con riguardo alla categoria d'inquadramento del dipendente, ma allo stesso tempo -salva la vigenza di normative speciali e di settore come, ad es., in materia anagrafica- sembra limitare la possibilità di attribuire la competenza all'adozione dell'atto finale nel caso in cui il dipendente incaricato non rappresenti la figura apicale dell'ufficio (in considerazione dell'attribuzione di tale competenza al dirigente o alla figura apicale ex artt. 107, comma 2, e 109, comma 2, Tuel).
Nello stesso senso, d'altronde, si ricorda che negli enti privi di dirigenza è possibile conferire anche ad un dipendente di categoria B un incarico di posizione organizzativa, a condizione che gli sia attribuita la "responsabilità degli uffici" (e in mancanza di lavoratori di categoria D - art. 11, comma 3, CCNL 31.03.1999).
In ogni caso, secondo il Consiglio di Stato (parere Sez. I n. 304 del 03.03.2004) l'attribuzione delle funzioni di responsabile del procedimento implica quale contenuto minimo, l'assegnazione della responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente al procedimento, rimanendo "solo eventuale" l'adozione del provvedimento finale (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazioni senza limiti. Per interrogazioni, interpellanze e mozioni. Il presidente non può sindacare l'oggetto delle richieste dei consiglieri.
La minoranza consiliare può presentare richiesta, al presidente del consiglio comunale, di convocare entro 20 giorni il consiglio per discutere interrogazioni, interpellanze, mozioni, o ciò costituisce un uso distorto dell'art. 39 , comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?

Ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, «in un termine non superiore ai venti giorni», quando lo richiedano un quinto dei consiglieri, inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste.
La norma sembra configurare un obbligo del presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell'organo assembleare per la trattazione, da parte del Consiglio, delle questioni richieste, senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni da parte del consiglio stesso.
Tale diritto di iniziativa, «è tutelato in modo specifico dalla legge, che prevede la modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto, misura, questa, severa ed eccezionale, in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine, breve, di 20 giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo» come «diritto» dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124).
Circa la questione relativa alla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, l'orientamento consolidato è nel senso di prevedere che al presidente del consiglio spetti solo la verifica formale della richiesta, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
In particolare, la giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996).
Inoltre, appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale se un dato argomento inserito nell'ordine del giorno debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 04.02.2004, n. 124).
L'art. 43 del Tuel peraltro, demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro 30 giorni.
In tal senso, qualora l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque a tale ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Pertanto, la richiesta di convocazione del consiglio ex art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 finalizzata all'esame degli atti di sindacato ispettivo non configura un utilizzo distorto della citata disposizione, dettata dal legislatore a tutela delle minoranze consiliari (articolo ItaliaOggi del 27.01.2017).

APPALTI SERVIZI: Affidamento in concessione ex latteria possibilità di subentro alla ditta concessionaria.
In materia di contratti pubblici vige il principio generale di incedibilità del contratto e di immodificabilità soggettiva dell'aggiudicatario.
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici, il capitolato speciale ha la funzione precipua di predeterminare, in senso conforme agli interessi dell'amministrazione, il contenuto del contratto da stipulare, onde è volto alla regolazione dell'assetto degli interessi negoziali conseguenti all'affidamento.
Un eventuale subentro al soggetto concessionario non può che avvenire alle condizioni stabilite nel disciplinare speciale, espressamente richiamato, quale parte integrante, dal contratto firmato dal Comune e dal concessionario.

Il Comune riferisce di aver affidato in concessione, con contratto del 2013 e per la durata di 15 anni, la gestione dell'ex latteria sociale
[1] sita nel territorio comunale e di aver ricevuto richiesta da parte della società cooperativa concessionaria -selezionata tramite procedura aperta- di far subentrare nella gestione della struttura altro soggetto abilitato. Il Comune chiede se un tanto sia possibile.
La fattispecie del subentro risulta disciplinata nel capitolato speciale, che -osserva la giurisprudenza
[2]-, ha la funzione precipua di predeterminare, in senso conforme agli interessi dell'amministrazione, il contenuto del contratto da stipulare, onde è volto alla regolazione dell'assetto di interessi negoziali conseguenti all'affidamento.
In particolare, nel capitolato è previsto che 'I diritti derivanti dal presente contratto sono intrasferibili' e che 'È ammesso l'ingresso di nuovi soci, se in aggiunta agli affidatari originari, e purché in possesso dei necessari requisiti di legittimazione a contrarre con le Amministrazioni pubbliche. In ogni caso i soci originari devono mantenere la maggioranza delle quote'
[3].
Ebbene, il capitolato speciale è espressamente richiamato, quale parte integrante, dal contratto di cui è questione, firmato dal Comune e dalla Società concessionaria.
Ne deriva che un eventuale subentro non può che avvenire alle predette condizioni accettate dalla società affidataria, ciò implicando che, ferma la permanenza della gestione in capo agli affidatari originari, a questi potranno aggiungersi nuovi soci, purché i primi mantengano la maggioranza delle quote.
In proposito, si osserva che la disciplina del subentro contenuta nel capitolato speciale appare in linea con il principio generale in materia di contratti pubblici di incedibilità del contratto e di immodificabilità soggettiva dell'aggiudicatario selezionato con procedura ad evidenza pubblica, stabilito dall'art. 118, D.Lgs. n. 163/2006
[4].
Come è noto, infatti, -osserva l'AVCP
[5]- i contratti di diritto pubblico poggiano sul principio generale della personalità, in virtù del fatto che derivano da una procedura concorsuale che mira, da un lato, a premiare l'offerta più vantaggiosa e, dall'altro, a tutelare l'interesse pubblico alla qualificazione tecnica, organizzativa, economica e morale delle imprese concorrenti [6].
Del pari, in giurisprudenza si osserva che le concessioni amministrative, siano esse relative a beni o a servizi pubblici, soggiacciono all'applicazione dei principi di derivazione comunitaria inerenti agli appalti pubblici. E ciò, proprio per il fatto che, dal punto di vista della tutela della concorrenza, esse hanno la stessa incidenza sul mercato degli appalti, visto che il concessionario di beni o servizi pubblici ricava un'utilità sfruttando economicamente beni pubblici che non sono disponibili in quantità illimitata
[7].
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[1] In particolare, la gestione della struttura comprende: apertura di un punto ristoro/caffetteria - vendita di prodotti agricoli; gestione della mostra permanente dei funghi e attività didattiche; gestione della sala convegni/mostre.
[2] Consiglio di Stato, sez. VI, 17.07.1998, n. 1101; conforme, Consiglio di Stato, sez. V, 20.08.2006, n. 5035.
[3] V. Art. 39 del Capitolato speciale.
[4] Il caso in esame ricade nell'ambito temporale di applicazione del previgente D.Lgs. n. 163/2006 abrogato dall'art. 217, c. 1, lett. e), D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, entrato in vigore il 19.04.2016 (art. 220), stante la previsione di cui all'art. 216 del D.Lgs. n. 50/2016, che ha stabilito che le disposizioni del decreto medesimo si applicano alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla sua entrata in vigore.
Ai sensi del comma 1 dell'art. 118, D.Lgs. n. 163/2006, 'i soggetti affidatari dei contratti di cui al presente codice sono tenuti ad eseguire in proprio le opere o i lavori, servizi e forniture compresi nel contratto'; e la violazione di tale divieto comporta la nullità del contratto.
[5] Ora ANAC (art. 19, D.L. 24.06.2014, n. 90).
[6] AVCP deliberazione n. 19 dell'Adunanza del 19.05.2013. Nello stesso senso, v. le deliberazioni dell'Autorità n. 31 del 26.10.2011, n. 46/13 adottata nell'adunanza 26.02.2014 e n. 20 del 09.05.2013. L'AVCP trae il principio generale dell'incedibilità dei contrati pubblici dall'art. 118, D.Lgs. n. 163/2006, che sancisce il divieto di cessione del contratto d'appalto, a pena di nullità.
[7] TAR Marche Ancona, sez. 1, 05.04.2013, n. 285. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 25/01/2005, n. 168, secondo cui l'applicazione dei principi di evidenza alla concessione di beni (in quel caso area demaniale marittima) trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con detta concessione si fornisce un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione
(25.01.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Possibilità di presentare querela per diffamazione a tutela dell'immagine dell'ente.
La giurisprudenza, se pur non preclude la possibilità che persone giuridiche possano assumere la qualità di soggetti passivi dei delitti contro l'onore, pone, tuttavia, dei limiti di natura sostanziale, nel senso che 'l'offesa deve essere così oggettivamente diffusiva da incidere anche sull'ente', specificamente sulla considerazione di cui l'ente gode nella collettività. La portata diffusiva dell'offesa va valutata sulla base di rigorosi parametri indicati dalla giurisprudenza e di tutti gli altri elementi che la fattispecie concreta offre.
Per quanto concerne l'affidamento dell'incarico ad un legale per la proposizione della querela per diffamazione a tutela dell'ente, si segnala che, come rilevato dalla Corte dei conti, la presentazione della querela è atto di parte per il quale non è necessario il patrocinio e l'assistenza di un legale.

Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di presentare querela
[1] per il reato di diffamazione verso chi ha diffuso in pubblici locali e presso famiglie un volantino in cui si attribuisce al Sindaco il fatto di essersi aumentato l'indennità, laddove l'indennità dallo stesso percepita dal 2009 ad oggi è quella prevista dalla legge [2].
L'Ente ritiene che il volantino riporti dati diffamatori ed oggettivamente non veritieri e che sia idoneo a danneggiare l'immagine e la credibilità dell'amministrazione complessiva e chiede se la Giunta possa deliberare l'affidamento dell'incarico ad un legale per presentare una 'denuncia querela' per diffamazione contro i suoi autori.
In via preliminare, si ricorda che l'attività di questo Servizio consiste nel fornire un supporto generale sulle questioni giuridiche poste dagli enti ed esula da qualunque tipo di controllo in ordine ai singoli atti delle amministrazioni locali, e dunque da qualsiasi ingerenza sulla valutazione dei fatti che li riguardano. Per cui, prendendo atto di quanto affermato dall'Ente in ordine alla corrispondenza a legge dell'indennità del Sindaco e dell'apprezzamento sul contenuto del volantino, che l'Ente assume diffamatorio e idoneo a danneggiare l'immagine dell'amministrazione, a prescindere da qualsiasi valutazione al riguardo si affronta la questione se vi siano ostacoli, di carattere giuridico contabile, alla deliberazione della Giunta di incaricare un legale per la presentazione di querela, da parte dell'Amministrazione comunale, in relazione al comportamento degli autori del volantino.
Ai sensi dell'art. 595 c.p., compie reato di diffamazione chiunque offenda l'altrui reputazione mediante comunicazione a più persone (comma 1).
Riguardo alla possibilità per le persone giuridiche di proporre querela contro il reato di diffamazione, nel caso in cui accanto all'aggressione della persona fisica specificamente individuata si raffiguri anche quella dell'ente cui quella persona appartiene, si riportano le riflessioni della giurisprudenza, secondo cui la capacità di essere soggetti passivi del reato di diffamazione non può essere esclusa nei confronti delle entità giuridiche, associazioni, enti di fatto privi di personalità giuridica, quali partiti, fondazioni, comunità religiose, corpi amministrativi o giudiziari
[3].
Infatti, l'individuazione del destinatario dell'offesa in una determinata persona fisica, specificamente aggredita nell'onore e nella reputazione con riferimento alle funzioni svolte in un ente collettivo, non preclude la configurabilità del reato per una concorrente aggressione all'onore sociale dell'ente al quale quella persona appartiene
[4].
Tuttavia, occorre che l'offesa assuma un evidente carattere diffusivo, nel senso di incidere direttamente sulla considerazione di cui l'ente gode nella collettività
[5].
La giurisprudenza ha indicato elementi da cui poter trarre il carattere diffusivo dell'offesa, tale da incidere anche sull'ente cui appartiene la persona fisica espressamente destinataria delle affermazioni del soggetto agente. E così, la Cassazione penale ha elencato la natura e la portata dell'aggressione, le circostanze narrate, le espressioni usate, i riferimenti ed i collegamenti operati dal soggetto attivo all'attività svolta e alle finalità perseguite dal soggetto passivo, la forma impersonale delle accuse, l'uso del plurale, il contesto complessivo del contenuto diffamatorio, e comunque tutti gli elementi che la fattispecie offre
[6].
La giurisprudenza, dunque, pur non precludendo la possibilità che persone giuridiche possano assumere la qualità di soggetti passivi dei delitti contro l'onore, pone, tuttavia, dei limiti di natura sostanziale, nel senso che 'l'offesa deve essere così oggettivamente diffusiva da incidere anche sull'ente'
[7], in relazione ai rigorosi parametri sopra riportati.
Al fine dell'autonoma valutazione dell'Ente, in ordine alla propria legittimazione a proporre querela, appare pertanto fondamentale la ponderazione dell'effettivo coinvolgimento diretto dell'Amministrazione comunale (e non soltanto del Sindaco) nella portata -che l'Ente afferma diffamatoria- delle espressioni utilizzate nel volantino.
A ciò si aggiunga la valutazione in ordine all'esimente del diritto di critica, ai sensi dell'art. 51 c.p., secondo cui l'esercizio di un diritto esclude la punibilità.
Con specifico riferimento alla critica espressa in un contesto di opposizione politica (come nel caso di specie), a mezzo stampa
[8], la giurisprudenza ha affermato che la critica costituisce attività speculativa e congetturale, attraverso la lettura o rivisitazione di fatti veri, per cui la stessa non può pretendersi del tutto asettica, quasi fedele riproposizione di quegli accadimenti, perché se così fosse sarebbe cronaca e non già giudizio di valore. La critica non può essere del tutto avulsa da ogni riferimento alla realtà sostanziale, deve pur sempre riferirsi ad un determinato evento, tra gli altri socio-politico, ma, per sua stessa natura, consiste nella rappresentazione, per l'appunto critica, di quello stesso fatto e dunque nella sua elaborazione [9].
Infine, sotto il profilo degli ostacoli di natura contabile che si potrebbero frapporre all'affidamento, con delibera di giunta, dell'incarico ad un legale per la proposizione della querela, si osserva che la presentazione della querela, da intendersi quale diritto riconosciuto ad ogni persona offesa da un reato, per cui non debba procedersi d'ufficio, è atto di parte per il quale non è necessario il patrocinio e l'assistenza di un legale
[10].
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[1] Il reato di diffamazione lamentato dall'Ente è punibile a querela della persona offesa. La querela può essere presentata dalla persona offesa dal reato entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato (art. 124 c.p.).
[2] In proposito, per rigore espositivo, si richiama l'art. 41, c. 2, L.R. n. 18/2015, ai sensi del quale la misura delle indennità base di funzione e di presenza degli amministratori locali è determinata con deliberazione della Giunta regionale su proposta dell'Assessore competente, sentita la Commissione consiliare competente. In materia, vige tuttora la DGR 24.06.2011, n. 1193 -emanata nella vigenza dell'art. 3, comma 13, L.R. n. 13/2002, abrogato e trasfuso nell'art. 41, comma 2, L.R. n. 18/2015, cit.-, che ha determinato le indennità di funzione del sindaco ed ha altresì previsto le misure percentuali di aumento, alle condizioni ivi previste. In particolare, si veda il punto 15 della DGR n. 1193/2011, nella parte in cui prevede l'aumento del 35% dell'indennità di funzione per gli amministratori, ad eccezione dei lavoratori dipendenti non collocati in aspettativa.
[3] Cass. pen., sez. V, 26.10.2001, n. 1188; Cass. pen., sez. V, 16.06.2011, n. 37383. Conformi sulla possibilità anche per le persone giuridiche di assumere la veste di soggetti passivi del delitto di diffamazione: Cass. pen., sez. V, 07.10.1998, n. 12744; Trib. Milano, sez. I, 23.03.2015, n. 3747. Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n. 4982.
[4] Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n. 4982.
[5] Cass. pen., sez. V, 26.10.2001, n. 1188; Cass. pen., sez. V, 16.06.2011, n. 37383.
[6] Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n. 4982; Cass. pen., sez. V, 26.10.2001, n. 1188; Cass. pen., sez. V, 16.06.2011, n. 37383.
[7] Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n. 4982.
[8] Fattispecie integrata, tra l'altro, dalla distribuzione di volantini, cfr. Cass. pen., sez. II, 25.03.2011, n. 26133.
[9] Cass. pen., sez. V, 16.11.2004, n. 6416. Nello stesso senso, Cass. pen., 26.09.2014, n. 48712, secondo cui, nell'esercizio del diritto di critica politica, il rispetto della verità del fatto assume rilievo limitato, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica. Il limite immanente all'esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituto dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico e che comunque non si trascenda in gratuiti attacchi personali (limite della continenza). Ove il giudice pervenga, attraverso l'esame globale del contesto espositivo, a qualificare quest'ultimo come prevalentemente valutativo, i limiti dell'esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione.
[10] Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Regione Lombardia, 12.07.2011, n. 452
(19.01.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOStatali, sui premi parola ai contratti nazionali. Pubblico impiego. La riforma in arrivo permette di superare i parametri rigidi di legge sulla produttività.
Dopo il tentativo, vano, di impedire la distribuzione indiscriminata dei premi di produttività ai dipendenti pubblici imbrigliandone le regole della legge, con la nuova riforma in arrivo per attuare la delega Madia la parola torna ai contratti.
Il passaggio, nelle intenzioni del governo, non dovrebbe tradursi in un “liberi tutti”, ma l’obbligo di differenziare i premi a seconda del merito, individuale e dell’ufficio, sarebbe tradotto in principi più flessibili per andare incontro alle differenze che si incontrano fra ente ed ente, evitando che troppa rigidità si traduca in un nulla di fatto.
Uno dei pilastri del nuovo decreto legislativo, anticipato sul Sole 24 Ore di ieri e atteso in consiglio dei ministri nelle prossime settimane, è proprio la riforma dei premi di produttività, considerata sia dal governo sia dai sindacati un presupposto indispensabile per far partire i nuovi contratti. Oggi le regole sono scritte nella legge Brunetta del 2009, che fissa due obblighi: alla produttività deve andare la «quota prevalente» (cioè oltre il 50%, secondo la lettura più ovvia) dei fondi che finanziano il trattamento accessorio, vale a dire tutta la parte di busta paga che si aggiunge allo stipendio base («tabellare»).
Qui arriva il primo problema, perché in molti comparti, dalla sanità agli enti locali, questo significherebbe alleggerire i capitoli dei fondi decentrati che finanziano altre indennità, dai turni alle indennità di «rischio» e di «disagio» che premiano chi lavora in strada come la polizia municipale. Oltre a questo, la riforma Brunetta impone di dividere i dipendenti di ogni amministrazione statale in tre fasce di merito, e in «almeno tre fasce» nel caso di regioni ed enti locali, azzerando del tutto i premi per chi si trova nell’ultima, quella che raccoglie i dipendenti con le pagelle meno brillanti.
Tutto questo impianto, che avrebbe dovuto debuttare al «primo rinnovo contrattuale» post-riforma, è stato subito messo in un angolo dal congelamento della contrattazione, ma ora torna di attualità. E, se applicato, finirebbe per trasformare il riavvio delle trattative in una cattiva notizia per molti, perché gli aumenti promessi (e in buona parte ancora da finanziare) non basterebbero a compensare l’azzeramento della produttività e la riduzione delle altre indennità.
Per aggirare l’ostacolo, le bozze del decreto sul pubblico impiego fissano un principio generale, che permette ai contratti nazionali di derogare tutte le norme sul pubblico impiego con l’eccezione di quelle scritte nel Testo unico (Dlgs 165/2001) in via di riforma. E i principi della legge Brunetta, dalla «quota prevalente» alle tre fasce, nel testo unico non ci sono.
Da evitare, però, c’è appunto anche il via libera ufficiale alle famigerate distribuzioni “a pioggia”, abituali in molte amministrazioni dove anche la produttività, come le altre voci accessorie, è stata spesso utilizzata per rafforzare un po’ le buste paga congelate dal 2010. Gli strumenti nelle mani del governo per provare a garantire la differenziazione sono due: il principio potrebbe essere ribadito nel testo finale del nuovo decreto, magari senza andare troppo nel dettaglio per non incappare negli stessi problemi della riforma del 2009, e poi articolato negli atti di indirizzo che la Funzione pubblica deve inviare all’Aran per far partire i lavori sui nuovi contratti.
Anche su questo tema il progetto punta ad avvicinare i meccanismi del lavoro pubblico a quelli del settore privato, dove i premi di risultato, incentivati con un'aliquota fiscale piatta del 10%, sono stati di fatto reintrodotti con la legge di Stabilità 2016: il loro riconoscimento è però legato a incrementi misurabili di alcuni “indicatori”, come, oltre alla produttività, la reddittività, la qualità, l'efficienza e l’innovazione. Se queste somme vengono contrattate in azienda, diventano welfare, completamente esentasse (altro aspetto che la riforma punta in prospettiva a portare anche nella Pa). Negli uffici pubblici il merito dovrebbe essere misurato secondo la riforma in base a un doppio sistema di obiettivi: quelli «nazionali», che definiscono le «priorità strategiche» della Pa nel suo complesso, e quelli specifici di ogni ente, da dettagliare nel piano delle performance.
Tra le priorità generali tornerà anche la lotta all’assenteismo (sono 9,2 i giorni di assenza medi all’anno secondo la Ragioneria generale, ma il dato nasconde situazioni parecchio differenziate): per contrastare quello strategico, la riforma dovrebbe tagliare i premi in particolare a chi diserta troppo l’ufficio di lunedì o venerdì, quindi a ridosso del fine settimana, anche se distinguere fra le assenze motivate e quelle strategiche non sembra facile
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.01.2017).

PUBBLICO IMPIEGOPa, estesi i licenziamenti «veloci». In arrivo il decreto sul pubblico impiego - Uscita in 30 giorni per chi è colto in flagranza.
La procedura «sprint» che porta alla sospensione in 48 ore e all’uscita in 30 giorni di chi viene visto timbrare l’entrata senza poi andare in ufficio si estende a tutti i comportamenti punibili con il licenziamento e colti in flagrante: comportamenti che a loro volta si estendono, e oltre ad assenze ingiustificate, falsi documentali e condotte aggressive comprendono anche le violazioni gravi e reiterate dei codici di comportamento, la ripetuta valutazione negativa e, per i dirigenti, il mancato esercizio con dolo o colpa grave, dell’azione disciplinare. Per i procedimenti disciplinari ordinari, invece, i termini scendono da 120 a 90 giorni.

Sono queste le novità principali portate dalla bozza del nuovo decreto sul pubblico impiego, il provvedimento chiamato ad attuare la riforma Madia sulle regole per gli statali e a preparare il terreno per far ripartire le trattative sui contratti.
Per centrare questo obiettivo la riforma riscrive anche il rapporto fra legge e contratti, fissando il principio che questi ultimi potranno derogare le leggi che riguardano il lavoro pubblico, con l’eccezione del Testo unico: per questa via, si possono accantonare le regole scritte dalla legge Brunetta, che impone di dedicare alla produttività la «quota prevalente» dei fondi per i trattamenti accessori e di dividere i dipendenti in tre fasce di merito.
Queste regole, che sono state subito congelate insieme ai rinnovi contrattuali, rappresentano uno degli ostacoli più importanti sul riavvio delle trattative, perché imporrebbero di azzerare i «premi» a un quarto del personale della Pa centrale, e prosciugherebbero voci che oggi finanziano altre indennità come i turni, il «disagio» e così via. Le tre fasce e la «quota prevalente», però, sono scritte nella legge Brunetta e non nel Testo unico, per cui potranno essere derogate.
Il nuovo testo, atteso in uno dei prossimi consigli dei ministri prima della ricerca dell’intesa (imposta dalla Consulta) con Regioni ed enti locali e dei pareri parlamentari, dovrebbe intervenire anche sull’articolo 18. Il vecchio Statuto dei lavoratori, come ribadito in più di un’occasione dalla ministra per la Pa e la semplificazione Marianna Madia, rimane in vigore nel pubblico impiego, ma qualche novità si affaccia all’orizzonte.
I “vizi formali” non determineranno più la decadenza dell’azione disciplinare (purché non venga leso il diritto di difesa del lavoratore); se ci sono “prove schiaccianti” nel giudizio penale (per esempio, che portano, in sede di ordinanza non definitiva, alla custodia cautelare in carcere) la Pubblica amministrazione non sarà più costretta ad attendere la definizione della controversia per proseguire il giudizio disciplinare nei confronti dell’impiegato infedele (e quindi, potrà subito mandarlo via dall’ufficio); e se il giudice annulla il licenziamento (o qualsiasi altra sanzione disciplinare) per violazione del principio di proporzionalità (hai sì commesso il fatto illecito, ma la sanzione che ti è stata irrogata è eccessiva) l’amministrazione avrà 60 giorni di tempo (dal passaggio in giudicato della pronuncia) per riattivare correttamente il procedimento disciplinare nei confronti dell’interessato (oggi, quando arriva la sentenza, se non converte la sanzione direttamente il giudice, scatta automatico il reintegro in servizio del dipendente).
Sull’applicazione delle tutele in caso di licenziamenti illegittimi, insomma, si sta arrivando a un compromesso: in caso di annullamento dell’atto di recesso datoriale resterebbe in piedi, a vantaggio dei lavoratori, la tutela reale piena accordata dall’articolo 18 dello Statuto, pre-riforma Fornero (in pratica, reintegrazione nel posto di lavoro per qualsiasi tipologia di licenziamento).
Si aprirebbe invece, rivisitando il modello delineato dall’articolo 21-octies della legge 241 del 1990, sui vizi formali (o procedurali) sancendone, nei fatti, l’irrilevanza ai fini della legittimità dell’azione disciplinare e della sanzione espulsiva irrogata, se non è stato violato il diritto di difesa del lavoratore e nel rispetto dei termini previsti. «Una novità non di poco conto -evidenzia Sandro Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’Università di Bologna- in quanto tende ad azzerare la tradizionale equiparazione tra vizio sostanziale e vizio formale ai fini della sanzionabilità dell’atto di recesso illegittimo, naturalmente allorquando sono invece giudizialmente accertati la sussistenza dell’illecito e il rispetto dei diritti di difesa».
«Certo, con riguardo alle tutele, la distanza con i lavoratori del settore privato resta ampia a favore di quelli pubblici e quindi difficilmente spiegabile anche sul costituzionale. Si poteva forse fare di più per avvicinare le discipline, ma i termini della delega con riguardo all’articolo 18 Stat. Lav. erano troppo limitati per un intervento di maggiore impatto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.01.2017).

APPALTIAppalti, massima trasparenza Avvisi e bandi vanno ancora pubblicati sui quotidiani. Lo prevede il decreto del Mit. In attesa della piattaforma Anac, resta la pubblicazione in G.U.
Confermato l'obbligo di pubblicare avvisi e bandi di gara sui quotidiani con modalità differenziate a seconda dell'oggetto e dell'importo.

È quanto, in estrema sintesi, prevede il dm Infrastrutture 02.12.2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 20 del 25.01.2017 (si veda ItaliaOggi di ieri).
Il provvedimento dà attuazione all'articolo 73, comma 4, del nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016).Tale disposizione ha rimesso a un decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con l'Anac, la definizione degli indirizzi e delle modalità di pubblicazione, «anche con l'utilizzo della stampa quotidiana maggiormente diffusa nell'area interessata». Nelle more, l'art. 9, comma 4, del decreto mille proroghe (dl 244/2016) aveva prorogato la disciplina precedente (art. 66, comma 7, del dlgs 163/2006), disponendone il superamento proprio a decorrere dall'entrata in vigore del «decreto di cui all'articolo 73, comma 4».
Per gli avvisi e i bandi di importo superiore alla soglia di cui all'art. 35, comma 1, lettera a), del codice (ossia 5,2 milioni di euro per i lavori, 209.000 euro per servizi e forniture), è richiesta la pubblicazione per estratto su almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i contratti.
Per i lavori o concessioni di importo inferiore alla predetta soglia (5,2 milioni di euro), ma superiore a 500.000 euro, basta pubblicare il bando o l'avviso, sempre per estratto, su almeno uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno uno a maggiore diffusione locale
Per gli altri affidamenti (lavori di importo inferiore a 500.000 euro, servizi e forniture di importo inferiore a 209.000 euro), sarà un successivo decreto a disciplinare le modalità di pubblicazione; nel frattempo, continuerà ad applicarsi la disciplina attuale, che non impone la pubblicità sui quotidiani.
La pubblicazione sui giornali dovrà avvenire dopo 12 giorni dalla trasmissione alla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, ovvero dopo cinque giorni da detta trasmissione in caso di riduzione dei termini di cui agli articoli da 60 a 63 del codice, e, per gli appalti di lavori di importo compreso fra 500.000 e 5,2 milioni di euro, entro cinque giorni dalla pubblicazione avente valore legale.
Il decreto prevede la pubblicità obbligatoria sui quotidiani anche degli avvisi di post-informazione relativi agli appalti aggiudicati, sempre con le medesime modalità differenziate previste per bandi e avvisi: per i lavori, sopra soglia comunitaria, occorre la pubblicazione per estratto su almeno due quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due quotidiani a diffusione locale dopo dodici giorni, o cinque giorni in caso di urgenza, dalla trasmissione alla Guce; per i lavori sotto soglia di importo maggiore o uguale a 500.000 euro, bastano un quotidiano a diffusione nazionale e uno a diffusione locale. Gli avvisi di post-informazione relativi a lavori sotto soglia comunitaria di importo inferiore a 500.000 euro possono essere pubblicati solo sull'albo pretorio del comune dove si eseguono i lavori entro 30 giorni dal decreto di aggiudicazione.
Il provvedimento ha anche cura di precisare che, ai fini della pubblicazione su quotidiani locali, per area interessatasi intende il territorio della provincia cui afferisce l'oggetto dell'appalto e nell'ambito del quale si esplicano le competenze dell'amministrazione aggiudicatrice.
Confermata, infine, la norma che impone all'aggiudicatario il rimborso delle spese per la pubblicazione obbligatoria degli avvisi e dei bandi di gara entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione. Con una nota diffusa ieri, intanto, il ministero delle infrastrutture ha specificato che la piattaforma telematica Anac destinata alla pubblicazione sarà disciplinata con apposito atto dell'Anac pubblicato in Gazzetta Ufficiale e che fino alla piena operatività di tale piattaforma si continui con la pubblicazione di avvisi e bandi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, serie speciale relativa ai contratti pubblici, e sulla stampa quotidiana.
Circa gli effetti giuridici della pubblicazione dei bandi e degli avvisi, aggiunge il ministero, è stabilito che, fino alla piena operatività della piattaforma Anac, continuino a decorrere dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale o, per gli appalti di lavori di importo inferiore a 500.000 euro, dalla data di pubblicazione nell'albo pretorio del comune dove si eseguono i lavori (articolo ItaliaOggi del 27.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIRiforma, subappalti da rivedere. Estendere fino a 5,2 mln la soglia per il massimo ribasso. Richieste di modifica del nuovo codice dei contratti da parte dei cosiddetti settori speciali.
Snellire le procedure, aumentare la soglia per affidare con il massimo ribasso, limitare il vincolo del 30% sul subappalto.

Sono queste alcune delle richieste di modifica al nuovo codice dei contratti pubblici che arrivano dal mondo dei cosiddetti «settori speciali» e in particolare dal settore ferroviario (Rfi) ascoltato il 24 gennaio, insieme ad Invitalia, dalle commissioni riunite ambiente e lavori pubblici di camera e senato sulle prossime modifiche del decreto 50/2017.
Si tratta della definizione del primo decreto correttivo del nuovo codice per cui ad oggi vale il termine del 19 aprile, visto che non risulta all'ordine del giorno alcuna richiesta di proroga. Anzi, sia dal ministero delle infrastrutture, sia in questi ultimi giorni anche dall'Ance, si ribadisce la linea di andare rapidamente verso una celere approvazione delle proposte di modifica del Codice, anche nell'attuale situazione che vede completato soltanto parzialmente l'articolato iter di attuazione della riforma, che conta su più di 50 provvedimenti di cui poco più di una decina sono in vigore.
In sede parlamentare continuano però le audizioni e martedì scorso è stato Maurizio Gentile, a.d. e d.g. di Rete ferroviaria italiana (Rfi) a dare i voti al decreto 50, indicando i punti da correggere.
Preliminarmente Rfi ha espresso un giudizio complessivamente positivo sul nuovo codice dei contratti pubblici e ha fornito dati che sintetizzano l'effetto del nuovo codice degli appalti dal punto di vista dell'applicazione da parte del gruppo ferroviario: nel 2015 era stato concluso l'affidamento per più di 2 miliardi di euro, mentre nel 2016 le attività negoziali di Rfi sono state superiori ai 4 miliardi, grazie alle nuove risorse delle leggi di Stabilità.
A fronte di questo aumento, Rfi ha segnalato un elemento negativo determinato dall'allungamento dei tempi delle attività negoziali legato alla mancanza di esperienza nell'applicazione delle nuove procedure così come disciplinate nel nuovo quadro normativo, che comunque il gruppo ferroviario ha iniziato ad applicare anche in assenza del completamento della cosiddetta «soft law».
Fra i fattori negativi Gentile ha posto l'accento anche sulla gestione più complessa del subappalto e sulla disciplina del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa prevista dal nuovo Codice: in questo caso (l'offerta economicamente più vantaggiosa, ndr) la proposta è quella di portare da un milione fino alla soglia comunitaria (5,2 milioni di euro, ndr) il limite entro il quale si possa aggiudicare le gare con il massimo ribasso in presenza del progetto esecutivo, perché così si ridurrebbero i tempi di aggiudicazione. Sulla disciplina del subappalto, più complessa rispetto al passato, si è detto d'accordo sulla limitazione del 30% (applicazione del limite soltanto alla «categoria prevalente»).
Richiesto anche un intervento sull'articolo 29 («Principi in materia di trasparenza») del nuovo codice degli appalti che prevede maggiori adempimenti amministrativi e pubblicitari, con «un forte appesantimento della pubblicazione degli atti».
Il subappalto è stato oggetto di attenzione anche nell'audizione dell'ad di Invitalia: Domenico Arcuri ha posto dei dubbi interpretativi sull'obbligo di indicare la terna dei subappaltatori. In generale, comunque, anche da Invitalia è giunto un giudizio positivo sia sull'importanza del criterio dell'offerta economica più vantaggiosa che sugli effetti positivi del metodo antiturbativa e sull'obiettivo di ridurre il numero delle stazioni appaltanti.
Perplessità sono state espresse in ordine al sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, in particolare sul livello di soccombenza nel contenzioso quale criterio per la valutazione che andrebbe precisato meglio (articolo ItaliaOggi del 27.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATABonifica amianto, 5 mln per gli edifici pubblici. Fondo per finanziare la progettazione. Richieste entro marzo.
Dal 30 gennaio al 30 marzo gli enti pubblici potranno fare richiesta di finanziamento per la progettazione di interventi di bonifica dall'amianto in edifici di loro proprietà; 5,5 milioni i fondi a disposizione e più di 6 ogni anno per il 2017 e il 2018; necessaria una relazione tecnica asseverata da un professionista.

Lo prevede il bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24.01.2017 con il quale viene avviata la procedura pubblica, destinata agli enti pubblici per il finanziamento della progettazione preliminare e definitiva di interventi di bonifica di edifici pubblici contaminati da amianto, in conformità a quanto disposto dal decreto del ministero dell'ambiente del 21.09.2016 (si veda l'anticipazione pubblicata su ItaliaOggi di giovedì 26.01.2016).
Si tratta del fondo di 5,536 milioni (6,018 milioni sono previsti per ciascun anno nel 2017 e nel 2018) che servirà a coprire i costi di progettazione fino a un massimo, per ogni intervento, di 15 mila euro, anche a copertura dei corrispettivi da porre a base di gara.
Gli interventi finanziabili saranno soltanto quelli concernenti edifici e strutture di proprietà degli enti pubblici e destinate allo svolgimento delle attività dell'ente o di attività di interesse pubblico. Il bando precisa che per progettazione preliminare e definitiva si intendono i livelli di progettazione inferiori al progetto esecutivo e comunque finalizzati e necessari alla redazione dello stesso.
Gli interventi finanziabili saranno quelli relativi ai lavori di rimozione dell'amianto e dei manufatti in cemento-amianto da edifici e strutture pubbliche, compreso lo smaltimento, anche previo trattamento in apposte strutture, da effettuarsi nel rispetto della normativa ambientale, edilizia e di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Alla richiesta di finanziamento dovrà essere allegata una relazione tecnica asseverata da professionista abilitato, trasmessa attraverso l'applicativo presente sul portale e adottata in conformità al modello di cui all'allegato A al bando stesso. In particolare, nella relazione devono essere specificati: la destinazione d'uso dei beni o dei siti sede dell'intervento, la localizzazione e la destinazione d'uso dei manufatti contenenti amianto, la tipologia, la quantità e lo stato di conservazione dei materiali; le modalità di intervento di bonifica proposto; la stima dei lavori da eseguire con dettaglio dei costi di progettazione soggetti a finanziamento; il cronoprogramma orientativo delle attività, incluse le fasi progettuali.
Ogni ente potrà presentare una sola richiesta di finanziamento per la progettazione di un singolo intervento, ma l'intervento potrà riguardare anche più edifici o unità locali, sempre nel rispetto del limite complessivo di 15 mila euro. Le domande dovranno essere presentate dal 30 gennaio al 30.03.2017 tramite l'applicativo presente nel portale del ministero dell'ambiente all'indirizzo www.amiantopa.minambiente.ancitel.it.
Priorità verrà data agli interventi relativi a edifici entro un raggio non superiore a 100 metri dalle scuole, parchi, ospedali e impianti sportivi (40 punti) ma 10 punti saranno previsti anche per interventi per i quali vi sia un progetto cantierabile in 12 mesi, o ad interventi in siti in cui sia stata già segnalata la presenza di amianto o collocati all'interno di un sito di interesse nazionale o inseriti nella mappatura dell'amianto in base al dm 101 del 2003 (articolo ItaliaOggi del 27.01.2017).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’art. 17, comma 3, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 esonera dal pagamento del contributo “…gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” qualora, ovviamente, questi ultimi abbiano già e conservino natura residenziale.
Nel caso di specie, la semplice iscrizione catastale nella categoria A/4 non vale a dimostrare che l’edificio avesse uso corrispondente e residenziale, poiché le risultanze catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza, valenza meramente sussidiaria.
Ne consegue che, ove anche si voglia e possa prescindere dalla qualificazione urbanistico-edilizia contenuta nella relazione illustrativa del P.R.G.C., che indica l’edificio come avente “destinazione rurale”, l’appellante doveva suffragare con altri elementi probatori l’asserita destinazione residenziale, non potendo assumere alcun rilievo il rilascio di concessione edilizia per altra porzione di fabbricato, riveniente dal frazionamento di unico originario compendio, che ben avrebbe potuto avere destinazione residenziale già a esso impressa o conseguente ai relativi lavori.

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... per la riforma della sentenza 18.01.2006 n. 101 in forma semplificata del TAR per il Piemonte, Sez. 1^, notificata il 03.02.2006, resa tra le parti, con cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso in primo grado n.r. 1642/2005, proposto per l’annullamento della nota n. 17703 di prot. del 03.11.2005 recante intimazione del pagamento della somma di € 10.512,37 a titolo di contributo di costruzione relativo alla d.i.a. per ristrutturazione e ampliamento di fabbricato
...
1.) Pi.Al.Me., quale proprietario di fabbricato ubicato in Cambiano con accesso dalla via ... n. 6 (iscritto in catasto fabbricati a fg. 10, particella n. 592, sub 4), cat. a/4) composto da piano terreno e primo piano, ha presentato in data 18.04.2005 denuncia d’inizio di attività per la realizzazione di lavori di ristrutturazione e ampliamento.
Con nota del 06.09.2005 il responsabile dello sportello unico comunale per l’edilizia chiedeva la rettifica del calcolo relativo all’aumento di superficie utile, e indicava il contributo di costruzione dovuto in complessivi € 10.512,37 (di cui € 5.220.54 per quota parte di oneri di urbanizzazione primaria, € 3.957,84 per quota parte di oneri di urbanizzazione secondaria ed € 1.333,99 per quota parte del costo di costruzione).
Con nota protocollata in data 05.10.2005 l’interessato, nell’inviare la richiesta rettifica, significava che non riteneva dovuto il contributo di costruzione ai sensi dell’art. 17, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 perché l’ampliamento era inferiore al 20% di edificio unifamiliare.
Con nota n. 17703 di prot. del 03.11.2005 il responsabile dello sportello unico comunale per l’edilizia intimava il pagamento della suddetta somma rilevando che l’intervento rientrava nella categoria della ristrutturazione edilizia di tipo B con aumento di superficie utile superiore al 20% della cubatura totale dell’edificio, e che il fabbricato era situato all’interno del centro storico e classificato come cellula edilizia ordinaria n. 299, sulla quale insisteva fabbricato rurale –secondo la relazione illustrativa del piano regolatore generale comunale- per il quale non era stata versata alcuna somma per il cambio di destinazione all’uso residenziale.
...
4.) Il Collegio rileva che la sentenza gravata è affatto erronea quanto alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso in primo grado.
E’ infatti palese che la controversia ha ad oggetto un giudizio di accertamento negativo in ordine all’obbligazione pecuniaria relativa al pagamento del contributo di costruzione, in ambito di giurisdizione esclusiva, rispetto alla quale gli atti di liquidazione sono privi di contenuto ed effetti provvedimentali (secondo orientamento pacifico: cfr. tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2016, n. 2394 e 19.03.2015, n. 1504; sulla natura paritetica di tali atti vedi anche Sez. V, 13.10.2010, n. 7466).
Il rilievo che precede implica, correlativamente, anche la reiezione dell’eccezione di difetto di giurisdizione, come spiegata dal Comune appellato nella memoria depositata il 07.12.2016.
5.) Nondimeno il ricorso proposto in primo grado è infondato e deve essere rigettato, all’esito dell’esame delle riproposte censure.
L’art. 17, comma 3, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 esonera dal pagamento del contributo “…gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari” qualora, ovviamente, questi ultimi abbiano già e conservino natura residenziale.
Nel caso di specie la semplice iscrizione catastale nella categoria A/4 non vale a dimostrare che l’edificio avesse uso corrispondente e residenziale, poiché le risultanze catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza, valenza meramente sussidiaria (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 05.06.2015, n. 27595 e 05.01.2015, n. 5, nonché Sez. IV, 18.04.2014, n. 1994 e 21.10.2013, n. 5109; nel senso che non siano decisive nemmeno quanto alla effettiva consistenza dell’immobile vedi Sez. IV, 06.08.2014, n. 4208).
Ne consegue che, ove anche si voglia e possa prescindere dalla qualificazione urbanistico-edilizia contenuta nella relazione illustrativa del P.R.G.C., che indica l’edificio di via ... n. 6 come avente “destinazione rurale”, l’appellante doveva suffragare con altri elementi probatori l’asserita destinazione residenziale, non potendo assumere alcun rilievo il rilascio di concessione edilizia per altra porzione di fabbricato, riveniente dal frazionamento di unico originario compendio, che ben avrebbe potuto avere destinazione residenziale già a esso impressa o conseguente ai relativi lavori.
6.) In conclusione, in riforma della sentenza gravata deve rigettarsi il ricorso proposto in primo grado, avendo il il Collegio esaminato e toccato tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663), laddove gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.02.2017 n. 425 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle Linee guida Anac sugli affidamenti in house: "Linee guida per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house previsto dall’art. 192 del d.lgs. 50/2016".
Il Consiglio di Stato ha reso parere favorevole con osservazioni sulle Linee guida “vincolanti” dell’Anac “per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house”, previsto dall’art. 192 del Codice dei contratti pubblici.
Il parere -rilevato che lo scopo della norma è garantire pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici- fornisce una ricostruzione in cui la funzione di controllo dell’Anac sia pienamente compatibile con il divieto di introdurre “livelli di regolazione superiori a quelli minimi” richiesti dalle direttive europee (cd. “goldplating”).
Da un lato, il Consiglio di Stato ha affermato che la pubblicità prevista dalla legge non è “costitutiva” ma “dichiarativa”: in presenza dei requisiti di legge, la domanda di iscrizione all’elenco consente di per sé “di procedere all’affidamento senza gara, senza bisogno dell’intermediazione di un’attività provvedimentale preventiva” (ovvero, non occorre un esplicito atto dell’Anac di iscrizione all’elenco).
Dall’altro, lo stesso Consiglio ha affermato che “la domanda innesca una fase di controllo dell’Anac” che, in caso di esito negativo, si traduce in un provvedimento che impedisce futuri affidamenti in house. Questo provvedimento è impugnabile davanti al giudice amministrativo, poiché “ha carattere autoritativo ed effetto lesivo”.
Gli affidamenti in house già in essere restano efficaci, ma l’Anac potrà agire attraverso la cd. “raccomandazione vincolante”, invitando l’amministrazione a rimuovere il provvedimento illegittimo.
Quanto ai requisiti sostanziali necessari per procedere all’affidamento in house, il Consiglio di Stato (con particolare riferimento al requisito del cd. “controllo analogo”) rileva che i parametri fissati dall’Anac “sono esemplificativi e non fissano una griglia esaustiva”, poiché altrimenti ciò costituirebbe una integrazione o una modifica delle “regole elastiche fissate dalla legge” (Consiglio di Stato, comm. spec., parere 01.02.2017 n. 282 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Danno da demansionamento e danno da mobbing.
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Mobbing – Danno da mobbing – Differenza dal danno da demansionamento - Individuazione.
Mobbing – Presupposti – Sistematicità degli episodi – Necessità.
Processo amministrativo – Prove – File audio – Sono tali.
Il danno da demansionamento e il danno da mobbing costituiscono due disitnte situazioni giuridiche: il mobbing, diversamente dal demansionamento, è caratterizzato dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto, fermo restando che il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing (1).
La condotta illecita di mobbing non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (2).
I file audio (id est, le registrazione) possono costituire elementi probatori oggetto di prudente apprezzamento dal parte del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ. (3).
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   (1) Ha chiarito il Tar che i fatti portati a fondamento sia del danno da demansionamento che del danno da mobbing, devono essere provati in giudizio secondo il principio dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 cod. civ. e valido anche per le controversie portate dinnanzi alla giurisdizione amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Ha aggiunto il Tribunale che per ritenere provato un danno da dequalificazione professionale attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici ex art. 2729 cod. civ., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo invece procedere il giudice di merito, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (di recente, in tal senso, Cass. civ., s.l., 18.08.2016, n. 17163).
Analogamente è a dirsi per la prova degli elementi costitutivi del mobbing, tenendo presente che, nel rapporto d’impiego pubblico, esso si sostanzia in una condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) “complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica; pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati in particolare: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie” (Cons. St., sez. IV, 27.10.2016, n. 4509).
Distinguendo, sul piano probatorio, le fattispecie di danno, il Tar ha affermato che:
   a) quanto al “danno da demansionamento”, sebbene l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte abbia natura contrattuale, tuttavia il contenuto del preteso demansionamento va comunque esposto nei suoi elementi essenziali dal lavoratore che non può, quindi, limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri officiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di una condotta illecita; ciò, peraltro, sul presupposto che l'illecito di demansionamento non è ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni datoriali bensì soltanto nell'effettiva perdita delle mansioni svolte (Tar Lazio, sez. I, 07.02.2015, n. 2280).
   b) quanto al “danno da mobbing”, il lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Cons. St., sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
   c) quanto poi al “danno–conseguenza”, ossia allo specifico pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale sofferto dal lavoratore, esso deve essere parimenti allegato e provato dal danneggiato, in quanto non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nelle suindicate categorie: non è sufficiente, in altre parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non solo di allegare gli elementi costitutivi del demansionamento o del mobbing, ma anche di fornire la prova, ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Tar Lazio, sez. I-ter, 26.06.2015, n. 8705 del 2015).
   (2) Cons. St., sez. VI, 06.05.2008, n. 2015; Tar Piemonte, sez. I, 10.07.2015, n. 1168.
   (3) Cass. civ., s.l., 08.05.2007, n. 10430, che h tra l’altro ricordato che “il disconoscimento, che fa perdere alle riproduzioni meccaniche la loro qualità di prova e va distinto dal mancato riconoscimento -diretto o indiretto- che non esclude il libero apprezzamento da parte del giudice delle riproduzioni legittimamente acquisite, deve essere chiaro e circostanziato ed esplicito con allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta”.
L’ammissione, quale mezzo di prova, del file audio è prevista dall’art. 2729 cod. civ., secondo cui “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (
TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 01.02.2017 n. 84 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. Il ricorso non è fondato.
Nella sostanza il ricorrente fa valere, con il presente giudizio, i danni che gli sarebbero derivati sia dall’illegittimo “demansionamento” (vale a dire, dall’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle della sua qualifica di appartenenza) sia dal complessivo comportamento di mobbing posto in essere nei suoi confronti.
3.1. E’ nota in proposito la differenza tra le due situazioni:
il mobbing, diversamente dall’altra figura, è caratterizzato dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto, fermo restando che il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing (cfr., Consiglio di Stato, Sez. III, 12.01.2015 n. 28 del 2015; TRGA Trentino Alto Adige, Bolzano, 23.09.2015, n. 279 del 2015; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 02.03.2015, n. 342).
In ogni caso,
i fatti portati a fondamento sia del danno da demansionamento, quanto del danno da mobbing, devono ricevere idonea dimostrazione in giudizio secondo il principio dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 c.c. e valido anche per le controversie portate dinnanzi alla giurisdizione amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
3.2. La giurisprudenza, in proposito, ha precisato che,
ai fini di ritenere provato un danno da dequalificazione professionale attraverso il meccanismo delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altri simili indici, dovendo invece procedere il giudice di merito, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (di recente, in tal senso, Cass., Sez. lav., 18.08.2016, n. 17163).
Analogamente è a dirsi per la prova degli elementi costitutivi del mobbing, tenendo presente che, nel rapporto d’impiego pubblico, esso si sostanzia in una condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) “complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica; pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati in particolare:
   a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
   b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
   c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie
(in tal senso, di recente, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2016, n. 4509).
3.3. E così, per un verso,
quanto al danno da demansionamento, la giurisprudenza ha evidenziato che, sul piano probatorio, sebbene l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte abbia natura contrattuale, tuttavia il contenuto del preteso demansionamento va comunque esposto nei suoi elementi essenziali dal lavoratore che non può, quindi, limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice amministrativo, anche con i suoi poteri officiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di una condotta illecita; ciò, peraltro, sul presupposto che l'illecito di demansionamento non è ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni datoriali bensì soltanto nell'effettiva perdita delle mansioni svolte (in tal senso, da ultimo, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 07.02.2015, n. 2280).
Per altro verso, ed analogamente,
quanto al danno da mobbing è stato ribadito che il lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione (Cons. Stato, Sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
3.4.
Con riguardo, poi, al danno-conseguenza, ossia allo specifico pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale sofferto dal lavoratore, esso deve essere parimenti allegato e provato dal danneggiato, in quanto non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nelle suindicate categorie: non è sufficiente, in altre parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non solo di allegare gli elementi costitutivi del demansionamento o del mobbing, ma anche di fornire la prova, ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (da ultimo, in tal senso, TAR Lazio, Roma, Sez. I-ter, 26.06.2015, n. 8705 del 2015; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 12.03.2015, n. 725).
4. Nel caso di specie, il ricorrente è complessivamente venuto meno ai descritti oneri probatori.
...
4.2.2. Come è noto,
la condotta illecita di mobbing “non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008 n. 2015; TAR Piemonte, Sez. I, 08.10.2008, n. 2438)” (TAR Piemonte, Sez. I, 10.07.2015, n. 1168).
...
7. Alla luce delle su indicate circostanze, il Collegio ritiene che il ricorrente non abbia adempiuto (né si sia offerto di adempiere articolando prova testimoniale su circostanze in tal senso rilevanti) agli oneri probatori su di esso gravanti in materia.
Come è noto, “in relazione all’imputazione soggettiva dell’onere della prova, la giurisprudenza afferma la natura contrattuale della relativa azione risarcitoria, dal momento che quest’ultima rinviene il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Pertanto, alla luce dei principi affermati dall’art. 1218 c.c.,
grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sé riferibile.
In ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 11.08.2009 n. 4581; TAR Lazio, Roma, III, 14.12.2006 n. 14604);
   - in altri termini,
il mobbing, proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere correlato in via esclusiva, ma neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 07.04.2008 n. 2877);
   - in particolare,
nell'esaminare i casi di preteso mobbing, il giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall'altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc. (TAR Umbria, Sez. I, 24.09.2010 n. 469);
   - in altre parole,
non si deve sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale;
   - tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante
” (TAR Piemonte, Sez. I, 10.07.2015, n. 1168).

APPALTI: Soccorso istruttorio per incompletezza dell’offerta di gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – File contenente il modello di dichiarazione di offerta economica illeggibile – Inapplicabilità del soccorso istruttorio.
L’istituto del c.d. soccorso istruttorio non è applicabile nel caso in cui il concorrente ad una gara pubblica, in relazione alla quale la lex specialis aveva previsto l’invio telematico delle offerte, abbia trasmesso il file contenente il modello di dichiarazione di offerta economica illeggibile (1).
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   (1) Il Tar Napoli -chiamato a verificare la legittimità dell’esclusione da una gara bandita per l’affidamento della progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori per la messa in sicurezza delle Regiones I, II e III dell’area archeologica di Pompei- ha preliminarmente richiamato la giurisprudenza ormai pressoché consolidata del giudice amministrativo (Cons. St., sez. V 10.01.2017, n. 39; id. 07.11.2016, n. 4645), secondo cui nelle gare pubbliche la radicalità del vizio dell'offerta non consente l'esercizio del soccorso istruttorio che va contemperato con il principio della parità tra i concorrenti, anche alla luce dell'altrettanto generale principio dell'autoresponsabilità dei concorrenti, per il quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione.
Con l'istituto del soccorso istruttorio, infatti, la stazione appaltante supera una mera incompletezza della documentazione attestante i requisiti soggettivi del concorrente, al fine di evitare esclusioni fondate su mere carenze formali e non può farsi ricorso ad una richiesta di chiarimenti sull'offerta, laddove, invece questa sia totalmente carente degli elementi essenziali (Cons. St., sez. IV, 12.09.2016, n. 3847).
Ciò premesso, il Tar ha chiarito che nel caso, sottoposto al suo esame, di documento di offerta illeggibile (nella specie, era illeggibile il file contenente il modello di dichiarazione di offerta economica e le eventuali firme digitali presenti nello stesso non potevano essere verificate, con la conseguenza che il file è stato considerato privo di firma digitale) comunque incompleto di elementi essenziali, la regula iuris è quella contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (applicabile al caso di specie ratione temporis), secondo cui “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
In doverosa applicazione di tale norma non c’è dubbio alcuno che sull’organo di gara incombesse l’obbligo espresso di estromettere dalla gara il concorrente, essendosi in presenza di un’ipotesi di “incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali”, non essendo le firme digitali leggibili.
Ha ancora aggiunto il Tar che il cit. art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, in coerenza con esigenze di certezza e celerità dell’azione amministrativa, soprattutto in settori come quello delle gare pubbliche, non riconosce significatività alcuna a comportamenti del concorrente che possano essere incolpevoli o altrimenti imputabili alla stazione appaltante -magari rilevanti ad altri fini- restando l’accertamento della legittima partecipazione alla gara di un concorrente circoscritto all’oggettiva verifica della sussistenza dei necessari requisiti formali e sostanziali richiesti dalla normativa e dalla lex specialis, nonché della loro corretta allegazione e rappresentazione (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 30.01.2017 n. 641 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Beni culturali, appalti flessibili. Affidamenti anche sulla base del solo progetto definitivo. Dal Consiglio di stato il parere favorevole al regolamento ministeriale attuativo del Codice.
Più flessibilità negli appalti sui beni culturali. Ferma restando la regola secondo cui l'affidamento dei lavori avviene sulla base del progetto esecutivo, qualora sia necessario integrare la progettazione in corso d'opera, l'appalto potrà essere affidato sulla base del solo progetto definitivo.
Tutto questo per soddisfare le peculiari esigenze di flessibilità che caratterizzano il settore dei beni culturali «dove è spesso difficile predeterminare sin dall'inizio nel dettaglio le modalità esecutive dei lavori oggetto dell'appalto». È una delle principali novità del regolamento del Mibact in materia di appalti sui beni culturali che ha ricevuto il parere favorevole della sezione normativa del Consiglio di stato.

Nel parere 30.01.2017 n. 263, pubblicato ieri, sul decreto ministeriale attuativo degli articoli 146 e seguenti del nuovo codice appalti (dlgs n. 50/2016) i giudici di palazzo Spada hanno quindi aperto a una maggiore flessibilità nelle procedure, anche se, hanno osservato, per prevenire il possibile contenzioso in materia, occorrerà «validare definitivamente la scelta con previsioni ad hoc in sede di decreti correttivi al codice».
Nel parere il Consiglio di stato sottolinea anche l'opportunità di una disciplina specifica e ancora più snella per i lavori per somme molto più basse di 150.000 euro. In particolare, i giudici amministrativi suggeriscono di inserire nell'art. 12 del regolamento un comma ad hoc che preveda una disposizione particolare per i lavori di importo non superiore a 40.000 euro. In tali casi, si dovrebbe consentire che il certificato di buon esito dei lavori possa essere rilasciato alle imprese restauratrici, oltre che dalla soprintendenza, anche dall'amministrazione aggiudicatrice.
Altra novità contenuta nel testo riguarda l'ampliamento dei lavori relativi a beni culturali che rientrano nell'ambito di applicazione del decreto. Il decreto, innovando rispetto alla previgente disciplina regolamentare, introduce tra questi anche il «monitoraggio». La ragione è chiara ed è coerente con il nuovo codice che valorizza l'azione di monitoraggio «in quanto l'obiettivo primario resta impedire, quanto più a lungo possibile, la necessità di dover ricorrere nel tempo a ulteriori interventi di restauro di beni culturali», come spiega la relazione di accompagnamento (articolo ItaliaOggi del 31.01.2017).

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul Regolamento governativo sugli appalti dei beni.
Il Consiglio di Stato ha reso parere favorevole sul Regolamento governativo in merito alla disciplina di dettaglio degli appalti dei lavori concernenti beni culturali, in attuazione degli artt. 146 ss., d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Il Regolamento realizza un passo avanti verso l’obiettivo di un testo organico ed unitario per gli appalti dei beni culturali, che dev’essere ulteriormente perseguito –si legge nel parere– attraverso l’attuazione, se non contestuale, almeno coordinata, anche di altre parti del Codice relative ai beni culturali.
Nel parere favorevole allo schema di decreto, il Consiglio di Stato ha sottolineato anche l’opportunità di una disciplina ad hoc e ancora più snella per i lavori sotto i 40.000 euro. In tali casi, si dovrebbe consentire che il certificato di buon esito dei lavori possa essere rilasciato, oltre che dalla soprintendenza, anche dall'amministrazione aggiudicatrice.
Nel parere del Consiglio di Stato, inoltre, si esprime parere favorevole su una delle principali novità previste dallo schema di Regolamento, e cioè sulla “possibilità di omettere, in situazioni particolari, il progetto esecutivo e di affidare i lavori sulla base del progetto definitivo”, e si sottolinea che “per prevenire il contenzioso occorre validare definitivamente la scelta con previsioni ad hoc un sede di decreti correttivi al codice appalti” (Consiglio di Stato, Comm. spec., parere 30.01.2017 n. 263 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl danno da ritardo è configurabile in presenza di un “danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Non può sfuggire all’interprete, in proposito, la volontà del legislatore di ancorare la fattispecie risarcitoria del danno da ritardo non solo all’immancabile requisito della “ingiustizia” del danno ma anche alla “inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Ciò significa che il ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo si arricchisce, sul versante dell’elemento soggettivo, di un contegno frutto di deliberata volontà della P.a. di disattendere la tempistica procedimentale, o di negligente verifica circa il rispetto dei tempi del procedimento.

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Quanto, infine, al quinto motivo di ricorso, e cioè al lamentato ritardo con il quale la Regione avrebbe formulato il parere di compatibilità così da provocare un danno patrimoniale e morale alla società ricorrente, il Collegio non può che condividere la prospettazione difensiva della Regione Puglia.
Dalla lettura degli atti di causa si desume che, nella fattispecie posta al vaglio del G.A. non possono ravvisarsi gli estremi della speciale fattispecie risarcitoria di danno da ritardo, contemplata dall’art. 2-bis, comma 1-bis della legge 241/1990.
Il danno da ritardo è, infatti, configurabile in presenza di un “danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Non può sfuggire all’interprete, in proposito, la volontà del legislatore di ancorare la fattispecie risarcitoria del danno da ritardo non solo all’immancabile requisito della “ingiustizia” del danno ma anche alla “inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Ciò significa che il ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo si arricchisce, sul versante dell’elemento soggettivo, di un contegno frutto di deliberata volontà della P.a. di disattendere la tempistica procedimentale, o di negligente verifica circa il rispetto dei tempi del procedimento.
Deve, sul punto, rimarcarsi che il procedimento amministrativo in discorso è stato connotato da evidente complessità e da frequenti sopravvenienze normative, specie di carattere regolamentare, le quali hanno delineato uno scenario complesso, non solo per quanto riguarda il tema specifico del fabbisogno regionale da soddisfare, ma anche in ordine agli stessi criteri di priorità da rispettare nella disamina delle istanze provenienti da un non esiguo numero di società interessate.
In un contesto del genere, pare al Collegio si possa francamente dubitare della possibilità di configurare un ritardo colpevole nella gestione del procedimento da parte del competente servizio Regionale, atteso che le sopra evidenziate vicissitudini normo-regolamentari hanno contribuito a rendere più difficoltoso l’iter procedimentale medesimo (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 28.01.2017 n. 165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl contratto fissa le mansioni equivalenti. Pubblico impiego. Un dipendente comunale può essere trasferito ad altro ufficio indipendentemente dalla professionalità acquisita.
Le mansioni di comandante della polizia municipale di un Comune con meno di 5.000 abitanti corrispondono alla responsabilità dell’ufficio statistica che appartenga allo stesso settore di “vigilanza” di quel Comune.
Lo sottolinea la Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con sentenza 27.01.2017 n. 2140.
Nel caso specifico si discuteva del mantenimento di compiti equivalenti a quelli in precedenza svolti: pur essendo l’ufficio statistica inserito all’interno dell’area della vigilanza, i nuovi compiti apparivano, rispetto al vertice dei vigili, non equivalenti, limitati, ripetitivi, senza coordinamento di personale sottoposto né utilizzo del bagaglio professionale acquisito.
Ciò tuttavia non basta, secondo la Cassazione, per rivendicare la precedente carica. Occorre stabilire se la nuova posizione organizzativa sia riconducibile, per contenuto professionale e livello di responsabilità, ai profili propri della categoria di inquadramento.
Infatti il datore di lavoro pubblico, pur operando con gli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, sull’organizzazione del lavoro ha vincoli strutturali che impongono di conformarsi al pubblico interesse e mantenere una compatibilità finanziaria generale. Vi è quindi (articolo 52 del Dlgs 165/2001) il diritto del dipendente a essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto o equivalenti, ma l’equivalenza è ancorata a una valutazione demandata ai contratti collettivi e non è sindacabile da parte del giudice.
Di conseguenza c’è equivalenza tra mansioni se vi è una previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il dipendente possa avere acquisito. Quindi, prevalgono le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della pubblica amministrazione, e cioè l’equivalenza formale, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dei contratti collettivi, senza tener conto del cosiddetto bagaglio professionale del lavoratore e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura “equivalente” della mansione.
Se quindi vi è identica area professionale prevista dal contratto collettivo, è insindacabile la collocazione in una determinata categoria di diversi profili professionali, perché tale operazione è di competenza delle parti sociali.
Altrettanto insindacabile è la verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle del profilo attribuito, se entrambe tali mansioni siano riconducibili alla medesima declaratoria.
Solo nel caso in cui la destinazione ad altri mansioni comporti un sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, si può parlare di comportamento contrario alla legge, ma la sottrazione delle funzioni da svolgere dev’essere pressoché integrale
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.01.2017).
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MASSIMA
1. Con unico motivo il Comune censura la sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all'art. 2103 c.c., richiamato dall'art. 52 d.lgs. n. 165/2001, degli artt. 2727 c.c., 2729 c.c. e 115 c.p.c..
Deduce -in sintesi- che, ai fini dell'equivalenza della mansioni per l'accertamento dell'osservanza dell'art. 52 d.lgs. n. 165/01, nonché dell'art. 3 CCNL di comparto e nel rispetto dell'art. 2103 c.c., i nuovi compiti non potevano considerarsi non equivalenti a quelli in precedenza svolti dal Bi..
La Corte di appello aveva trascurato di considerare che le funzioni proprie dell'Ufficio statistica risultavano inserite, nel nuovo assetto organizzativo dell'ente, tra quelle proprie della vigilanza e che quindi il Bianchini era stato preposto ad un ufficio appartenente alla stessa area di cui faceva parte il servizio della polizia municipale. Nel quadro della fungibilità delle prestazioni ricomprese nello stesso alveo, nulla impedisce che i compiti dell'uno o dell'altro ufficio possano essere svolti dalle medesime professionalità applicate al settore.
I giudici di merito avevano ignorato che, trattandosi di una P.A., l'avvicendamento poteva essere motivato da ragioni di natura organizzativa e strutturale e che l'equivalenza delle mansioni non poteva rispondere ai medesimi criteri applicati all'impresa privata. Il mutamento di mansioni non aveva comportato alcuna deminutio della retribuzione globalmente goduta dal Bianchini, che difatti non aveva rivendicato differenze retributive, ma il diritto a permanere nella posizione di comandante della Polizia municipale.
2. Il ricorso è fondato.
3. Va premesso che
la riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell'autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l'organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale.
In questa ottica il d.lgs. n. 165 del 2001 ha disciplinato interamente la materia delle mansioni all'art. 52, e, al comma 1, ha sancito il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 62, comma 1). La lettera del citato art. 52, comma 1, specifica un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice.
Ne segue che,
condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A..
3.1. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/2008,
è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzzato, non si applica l'art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame) che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell'equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/2011; Cass. n. 18283/2010; Cass. sez. un. n. 8740/2008; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016).
Dunque,
non è ravvisabile alcun demansionamento qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni.
Restano, dunque, insindacabili tanto l'operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l'operazione di verifica dell'equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria.

3.2.
Condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (cfr. Cass. n. 11835 del 2009).
3.3. Invero, l'equivalenza in senso formale è anche ribadita dalla norma contrattuale, dal momento che l'art. 3, comma 2 del CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali, che viene in applicazione nella specie, prevede che "Ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l'equivalenti, sono esigibili, l'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro".
3.4. Incidentalmente, va osservato che resta comunque salva l'ipotesi che la destinazione ad altre mansioni abbia comportato il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa.
Trattasi di questione che, tuttavia, giova rimarcare, esula dall'ambito delle problematiche sull'equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, Cass. n. 687 del 2014).
4. La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione di tali principi di diritto, errando nel ritenere, sulla base di una verifica in senso sostanziale della equivalenza, che il bagaglio professionale acquisito dal dipendente radicasse il suo diritto a permanere nelle medesime funzioni.
Ha così omesso di valutare se, nel nuovo assetto organizzativo adottato dal Comune a seguito della delibera di giunta n. 101 del 2004, la fungibilità fosse giustificata dalla sussumibilità delle nuove mansioni in quelle riconducibili ai profili propri della categoria D, di inquadramento del Bi..

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Presupposti per l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia in sanatoria.
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Concessione edilizia in sanatoria – Annullamento d’ufficio – Termine dell’esercizio del potere di autotutela – Ante l. n. 124 del 2015 – Rilevanza – Fattispecie - Annullamento dopo tredici anni dal rilascio della sanatoria – Omessa congrua motivazione - Illegittimità.
Anche prima dell’entrata in vigore della novella introdotta dalla l. 07.08.2015, n. 124 –che ha fissato il termine massimo di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici– era illegittimo l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia in sanatoria disposto dopo circa tredici anni dal rilascio della sanatoria, senza congruamente motivare le ragioni che hanno resi indispensabile tale provvedimento, non essendo sufficiente il mero richiamo al necessario ripristino della legalità violata (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che il potere di annullamento d’ufficio è regolato dall’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, che ha individuato, quale condizione per l’esercizio di tale potere, l’illegittimità dell’atto oggetto della decisione di autotutela nonché la ragionevolezza del termine entro cui può essere adottato l’atto di secondo grado, la sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione e la considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento viziato.
La norma dunque individua, per la valida esplicazione del potere di agire in autotutela, un presupposto rigido (l’illegittimità dell’atto da annullare) e altre condizioni flessibili e duttili riferite a concetti indeterminati e, come tali, affidate all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione.
Queste ultime devono intendersi, in particolare, stabilite a garanzia delle esigenze di tutela dell’affidamento, dei destinatari di atti ampliativi, in ordine alla stabilità dei titoli ed alla certezza degli effetti giuridici da essi prodotti e, appunto per mezzo dell’affidamento, a garanzia della valutazione discrezionale dell’amministrazione nella ricerca del giusto equilibrio tra le esigenze di ripristino della legalità (nelle quali si risolve la rimozione di un atto illegittimo) e quelle di conservazione dell’assetto regolativo recato dal provvedimento viziato.
Ha ancora ricordato la Sezione che le esigenze di ripristino della legalità e di conservazione dell’assetto regolativo recato dal provvedimento viziato hanno ricevuto recentemente un ulteriore rafforzamento, per mezzo dell’introduzione, con la l. 07.08.2015, n. 124, della fissazione del termine massimo di diciotto mesi (con una opportuna precisazione quantitativa della nozione elastica della formula lessicale “termine ragionevole”), per l’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici e, quindi, mediante una riconfigurazione del potere di autotutela secondo canoni di legalità più stringenti e maggiormente garantisti per le posizioni private originate da atti ampliativi.
Fatta questa premessa il giudice di appello ha ritenuto che l’impugnato annullamento d’ufficio abbia violato i principi posti dal Legislatore per l’esercizio del potere di autotutela.
Per quanto definiti in maniera elastica, infatti, i criteri della ragionevolezza del termine e della considerazione di un interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo, implicano apprezzamenti discrezionali che, a loro volta, restano presidiati dal parametro della proporzionalità, al quale devono comunque obbedire per rimanere ascritti entro i confini del legittimo esercizio della funzione di autotutela, e, quindi, sindacabili in ossequio al relativo criterio di giudizio.
Ad avviso del Consiglio di Stato i principi introdotti dalla l. n. 124 del 2015, anche se ratione temporis non applicabili al caso sottoposto al suo esame, possono essere utilizzati come “prezioso (e ineludibile) indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione”.
Con la precisazione esatta del termine massimo di consumazione del potere di autotutela decisoria, il legislatore ha, infatti, inteso accordare una tutela più pregnante all’interesse dei destinatari di atti ampliativi alla stabilità e alla certezza delle situazioni giuridiche da essi prodotte, costruendo un regime che garantisca la loro intangibilità una volta decorso inutilmente il periodo di operatività del potere di annullamento d’ufficio dei relativi titoli “ampliativi” (che diventano, così, non più rimuovibili dall’amministrazione, anche quando illegittimamente adottati).
Ora, per quanto l’anzidetta, cogente regola non possa applicarsi a provvedimenti di autotutela perfezionatisi prima dell’entrata in vigore dell’intervento normativo che l’ha introdotta, non può trascurarsi la valenza della presupposta scelta legislativa, in occasione dell’esegesi e dell’applicazione della norma, nella sua formulazione previgente (Cons. St., sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
La decifrazione della nozione indeterminata di termine ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta interpretazione (ed applicazione) da parte dell’amministrazione, dev’essere, quindi, compiuta con particolare rigore quando il potere di autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od economiche, con la conseguenza che, pur non potendo ritenersi consumato, nella fattispecie esaminata, il potere di annullamento d’ufficio decorso il termine massimo stabilito dal legislatore del 2015, deve giudicarsi, comunque, irragionevole un termine notevolmente superiore (nel caso in esame, di oltre sette volte) a quest’ultimo.
Ha aggiunto il giudice di appello che l’esercizio di tale potere di secondo grado dopo un lasso di tempo molto lungo dal rilascio del titolo avrebbe imposto, a fronte della consistenza dell’affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della sua efficacia imponeva, una motivazione particolarmente convincente, per giustificare la misura di autotutela, circa l’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto (come espressamente prescritto dall’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990), in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio del titolo edilizio illegittimo.
Non solo, ma la consistenza di tale onere motivazione deve intendersi aggravata dall’efficacia istantanea dell’atto, e, cioè, della sua idoneità a produrre effetti autorizzatori destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo, assumendo, in tale fattispecie, nel giudizio comparativo degli interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore pregnanza quello pubblico all’elisione di effetti già prodotti in via definitiva e non suscettibili di aggravamento (Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 816) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.01.2017 n. 341 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOCopiare il compito è plagio. Esami di abilitazione. Il reato «assorbe» il falso ideologico.
Truccare gli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio di una professione rientra nel reato di plagio letterario.
Lo specifica la V Sez. penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 26.01.2017 n. 3871.
L’esame truccato è quello per avvocati a Bari: ad alcuni candidati erano stati distribuiti elaborati scritti da esperti di materie giuridiche e ciò aveva consentito di superare la prova ad almeno un partecipante. Sotto accusa erano finiti i componenti della commissione d’esame e una dipendente dell’Università, finita agli arresti domiciliari. Tale misura era stata revocata dal gip e il pm ha presentato ricorso, argomentando che sussistessero due reati .
Infatti, il gip aveva riconosciuto solo la violazione degli articoli 1 e 2 della legge 475/1925 (plagio letterario). Il pm, invece, riteneva ci fosse anche il falso ideologico (articolo 479 del Codice penale). In sostanza, il pm, invece, aveva distinto tra la genuinità degli elaborati presentati alla commissione (plagio) e la veridicità delle attestazioni dei componenti della commissione (falso ideologico) in base alle quali era stata conferita l’abilitazione a chi aveva presentato come proprio il testo redatto dagli esperti.
La Cassazione respinge il ricorso del pm, richiamando il «solido orientamento» espresso anche dalle Sezioni unite (sentenza 46982/2007), «secondo il quale l’oggetto della tutela dei reati contro la fede pubblica è l’interesse pubblico alla genuinità materiale ed alla veridicità ideologica di determinati atti». Per questo, la legge 475/1925 comprende sia la presentazione di un elaborato falso sia il conseguimento dell’abilitazione e si pone come norma speciale rispetto al falso ideologico, nel senso previsto dall’articolo 15 del Codice penale
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.01.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla disciplina in tema di demansionamento applicabile nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato e sull’applicazione della sufficiente equiparazione formale tra le mansioni.
In materia di mansioni nel pubblico impiego contrattualizzato non si applica l’art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dall’art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001, che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita.
Pertanto, nell’ambito delle mansioni nel pubblico impiego contrattualizzato, non vi è alcuna violazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, “qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni”.
Quindi, in presenza di una espressa previsione della contrattazione collettiva di riferimento non è compito del giudice esprimere apprezzamenti o, addirittura, sindacare la natura equivalente delle mansioni, in quanto tale funzione dovrebbe essere specificamente ascrivibile alle parti sociali.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 638/2010, ha confermato il rigetto della domanda proposta da Ca.Ad. nei confronti del Comune di Salzano, avente ad oggetto il risarcimento dei danni che il ricorrente, dipendente pubblico con inquadramento in posizione D3, assumeva essergli derivati dal mutamento organizzativo disposto dal Comune nel 2002 in forza del quale era stato spostato dal settore Manutenzione e Ambiente, di cui era responsabile, al settore Protezione civile, Sicurezza del territorio e Tutela del patrimonio, sempre in funzione di preposto.
2. La Corte distrettuale, premesso che nel 2002 il Comune di Salzano aveva proceduto ad una riorganizzazione interna delle aree, creando un autonomo settore alla cui direzione aveva posto il geom. Ca., ha osservato che non vi era stata né riduzione dello stipendio né variazione del carattere apicale della posizione ricoperta dal funzionario, mentre nessun rilievo potevano avere le circostanze addotte dall'appellante a sostegno del prospettato demansionamento, ossia la riduzione del budget di spesa (in precedenza di cospicua entità) e il ridotto organico dell'ufficio (da 5-6 operai ad un solo addetto, ma con attribuzione del coordinamento di un gruppo di 25 volontari per la protezione civile).
Ha aggiunto che doveva piuttosto evidenziarsi l'importanza del neo-istituto Settore della Protezione civile, Sicurezza del territorio e Tutela del patrimonio, creato per la gestione degli interventi in caso di calamità naturali e in situazioni di pronto intervento, incidenti sulla salute e l'incolumità pubblica, "a maggior ragione poi in un territorio come quello veneto, assai soggetto ad esondazione dei corsi d'acqua e a fenomeni alluvionali, anche gravi".
3. Per la cassazione di tale sentenza il Ca. ha proposto ricorso affidato ad un motivo.
Resiste il Comune di Salzano con controricorso.
4. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con unico motivo si denuncia violazione dell'art. 2103 c.c. e vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) per avere la Corte di appello omesso di individuare il contenuto delle mansioni svolte dal ricorrente in qualità di responsabile dell'Ufficio Manutenzione e Assetto del territorio e di porle a confronto con quelle successivamente attribuite, implicanti la gestione di un limitato portafoglio di spesa, la comprovata riduzione di orario e di impegno lavorativo, il coordinamento di una sola impiegata. Ove il raffronto richiesto dall'art. 2103 c.c. fosse stato effettuato, il demansionamento sarebbe emerso con certezza.
2. Il ricorso è palesemente infondato.
3.
La riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell'autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l'organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale.
In questa ottica
il d.lgs. n. 165 del 2001 ha disciplinato interamente la materia delle mansioni all'art. 52, e, al comma 1, ha sancito il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 62, comma 1). La lettera del citato art. 52, comma 1, specifica un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice.
Ne segue che,
condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.
3.2. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/2008, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che,
in materia di pubblico impiego contrattualizzzato, non si applica l'art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame), che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell'equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/2011; Cass. n. 18283/2010; Cass. sez. un. n. 8740/2008; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016).
Dunque,
non è ravvisabile alcuna violazione dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni. Restano, dunque, insindacabili tanto l'operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l'operazione di verifica dell'equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria.
3.3.
Condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (cfr. Cass. n. 11835 del 2009).
3.4.
Tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l'equivalenti, sono esigibili e l'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro.
3.5. Resta comunque salva l'ipotesi che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa. Trattasi di questione che, tuttavia -giova rimarcare- esula dall'ambito delle problematiche sull'equivalenza delle mansioni, configurandosi nella diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonché Cass. n. 687 del 2014).
4. Alla stregua della sentenza impugnata, risulta positivamente accertato che la direzione dell'unità denominata Settore 07 Protezione civile, Sicurezza del territorio e Tutela del Patrimonio del Comune di Salzano corrispondesse ad una posizione organizzativa di categoria D.
Pertanto, escluso il diritto del dipendente pubblico a permanere in un determinata posizione alla stregua di una verifica in senso sostanziale della equivalenza, la preposizione a tale unità organizzativa non costituisce violazione dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 26.01.2017 n. 2011).

APPALTI: Principio della concorrenza nelle gare.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Concorrenza - Massima partecipazione e previsioni per le piccole e medie imprese – Artt. 51 e 83, d.lgs. n. 80 del 2016.
La matrice volta a stimolare la concorrenza, sia attraverso la massima partecipazione possibile alle gare pubbliche sia garantendo una più elevata possibilità che le imprese di piccole e medie dimensioni possano risultare aggiudicatarie, caratterizza tutta la normativa europea in materia di appalti pubblici e, di conseguenza, il nuovo Codice degli appalti pubblici e delle concessioni.
Lo attestano, tra gli altri, le disposizioni dell’art. 51, secondo cui “nel caso di suddivisione in lotti, il relativo valore deve essere adeguato in modo da garantire l’effettiva possibilità di partecipazione da parte delle micro imprese, piccole e medie imprese”, e dell’art. 83, comma 2, che prevede che i requisiti di idoneità professionale e le capacità economica e finanziaria e tecniche–professionali sono attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, “tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione” (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar che un ulteriore impulso all’apertura dei mercati attraverso la partecipazione alle gare e la possibile aggiudicazione delle stesse da parte del più alto numero di imprese possibile –le quali in tal modo, in un circolo “virtuoso”, potrebbero acquisire le qualificazioni ed i requisiti necessari alla partecipazione ad un numero sempre maggiore di gare- è dato dal c.d. vincolo di aggiudicazione, vale a dire dalla facoltà della stazione appaltante di limitare il numero massimo di lotti che possono essere aggiudicati ad un solo offerente.
Il vincolo di aggiudicazione costituisce uno strumento proconcorrenziale che, nell’impedire ad uno stesso soggetto di essere aggiudicatario di una pluralità di lotti, aumenta le possibilità di successo delle piccole e medie imprese pur in presenza di aziende meglio posizionate sul mercato.
Nel considerando n. 124 alla direttiva 2014/24/UE, è espresso che le nuove disposizioni europee “dovrebbero contribuire al miglioramento del livello di successo, ossia la percentuale delle PMI rispetto al valore complessivo degli appalti aggiudicati”. L’art. 46 della menzionato direttiva europea prevede a tal fine che “le amministrazioni aggiudicatrici possono, anche ove esista la possibilità di presentare offerte per alcuni o per tutti i lotti, limitare il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente …”, analoga previsione è contenuta nell’art. 51, comma 3,d.lgs. n. 50 del 2016.
In definitiva, la matrice volta a stimolare la concorrenza, sia attraverso la massima partecipazione possibile alle gare sia anche garantendo una più elevata possibilità che le imprese di piccole e medie dimensioni possano risultare aggiudicatarie, caratterizza tutta la normativa europea in materia di appalti pubblici e, di conseguenza, il nuovo Codice nazionale degli appalti pubblici e delle concessioni.
In quest’ottica, un’impresa sfornita da sola dei requisiti di partecipazione, potrebbe concorrere in Raggruppamento Temporaneo di Imprese o ricorrendo all’avvalimento.
Tuttavia, occorre considerare che la costituzione di un Raggruppamento Temporaneo di Imprese o il ricorso all’avvalimento sono il frutto di scelte discrezionali di tutte le imprese coinvolte, per le quali non è sufficiente la volontà della piccola o media impresa che intende partecipare alla gara, essendo necessaria anche una coincidente volontà delle altre imprese nella costituzione dell’eventuale raggruppamento e dell’impresa o delle imprese ausiliarie nell’avvalimento.
Ne consegue che l’astratta possibilità di costituire un RTI o di ricorrere all’avvalimento non esclude che una preclusione alla possibile partecipazione individuale dell’impresa si concreti in un vulnus al principio del favor partecipationis e, quindi, in una lesione sia alla sfera giuridica dell’impresa che non può partecipare individualmente sia alle finalità pubblicistiche a base della normativa in materia (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 26.01.2017 n. 1345 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. Il ricorso è fondato e va di conseguenza accolto secondo quanto di seguito indicato.
Un contratto di appalto stipulato da una amministrazione pubblica si distingue da un analogo contratto stipulato tra soggetti privati sia per la rilevanza giuridica assunta dai motivi che spingono la parte pubblica a contrarre sia e soprattutto per le modalità di scelta del contraente (cfr. in tema TAR Lazio, II, 30.08.2016, n. 9441).
La libertà di scelta del contraente costituisce uno dei fondamentali pilastri dell’autonomia privata, per cui il contraente privato, di norma, può scegliere discrezionalmente con chi contrarre; la pubblica amministrazione, invece, è tenuta a scegliere il proprio contraente in esito ad una apposita procedura (rectius: procedimento) ad evidenza pubblica.
Il corpus normativo di disciplina dell’evidenza pubblica era originariamente costituito dalla legge di contabilità di Stato, R.D. 18.11.1923, n. 2440, e dal suo regolamento di attuazione, R.D. 23.05.1924, n. 827, ed era finalizzato alla individuazione del “giusto” contraente dell’amministrazione, vale a dire del contraente in grado di offrire le migliori prestazioni e garanzie alle condizioni più vantaggiose, per cui la ratio della normativa sull’evidenza pubblica era volta esclusivamente al controllo della spesa pubblica per il miglior utilizzo del denaro della collettività (cd. concezione contabilistica).
A tale esigenza di tutela degli interessi pubblici si è aggiunta, sotto la spinta dei principi e delle direttive comunitarie, l’esigenza di tutela della libertà di concorrenza e di non discriminazione tra le imprese.
Di talché,
la concorrenzialità nell’aggiudicazione, che ha il suo elemento cardine nel principio di massima partecipazione alla gara delle imprese in possesso dei requisiti richiesti, in origine funzionale al solo interesse finanziario dell’amministrazione, nel senso che la procedura competitiva tra imprese era (ed è) ritenuta la modalità più efficace per garantire la migliore spendita del denaro pubblico, è diventata un’espressione dell’ondata neoliberista degli ultimi decenni dello scorso secolo, che ha portato le autorità comunitarie a prendere in considerazione -ai fini della tutela della concorrenza, che dovrebbe garantire l’efficiente allocazione delle risorse sul mercato- l’impatto concorrenziale prodotto dalle amministrazioni pubbliche in qualità di committenti o di concedenti, per cui ogni singola gara diviene uno specifico e temporaneo micromercato nel quale le imprese di settore possono confrontarsi.
La compresenza della duplice esigenza volta alla tutela della concorrenza tra le imprese ed al buon uso del denaro della collettività è stata chiaramente delineata dalla giurisprudenza europea la quale, nel dichiarare che uno degli obiettivi della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici è costituito dall’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile e che è nell’interesse del diritto comunitario che venga garantita la più ampia partecipazione possibile di offerenti ad una gara d’appalto, ha aggiunto che siffatta apertura alla concorrenza è prevista non soltanto con riguardo all’interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, ma anche nell’interesse stesso dell’amministrazione aggiudicatrice che disporrà così di un’ampia scelta circa l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica interessata.
In tale ottica,
la direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio reca tra i propri principi il facilitare la partecipazione delle piccole e medie imprese (PMI) agli appalti pubblici.
Più specificamente, il considerando n. 78 della direttiva prevede quanto segue: “E’ opportuno che gli appalti pubblici siano adeguati alle necessità delle PMI. Le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero essere incoraggiate ad avvalersi del Codice europeo di buone pratiche, di cui al documento di lavoro dei servizi della Commissione del 25.06.2008, dal titolo «Codice europeo di buone pratiche per facilitare l’accesso delle PMI agli appalti pubblici», che fornisce orientamenti sul modo in cui dette amministrazioni possono applicare la normativa sugli appalti pubblici in modo tale da agevolare la partecipazione delle PMI. A tal fine e per rafforzare la concorrenza, le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero in particolare essere incoraggiate a suddividere in lotti i grandi appalti. Tale suddivisione potrebbe essere effettuata su base quantitativa, facendo in modo che l’entità dei singoli appalti corrisponda meglio alla capacità delle PMI, o su base qualitativa, in conformità alle varie categorie e specializzazioni presenti, per adattare meglio il contenuto dei singoli appalti ai settori specializzati delle PMI o in conformità alle diverse fasi successive del progetto”.
Il considerando n. 124, poi, nel premettere che, “dato il potenziale delle PMI per la creazione di posti di lavoro, la crescite e l’innovazione, è importante incoraggiare la loro partecipazione agli appalti pubblici, sia tramite disposizioni appropriate nella presente direttiva che tramite iniziative a livello nazionale”, ha posto in rilievo che “le nuove disposizioni della presente direttiva dovrebbero contribuire al miglioramento del livello di successo, ossia la percentuale delle PMI rispetto al valore complessivo degli appalti pubblici”, precisando che “non è appropriato imporre percentuali obbligatorie di successo, ma occorre tenere sotto stretto controllo le iniziative nazionali volte a rafforzare la partecipazione delle PMI, data la sua importanza”.
Con il nuovo codice degli appalti pubblici e delle concessioni (d.lgs. n. 50 del 2016), che ha attuato, tra le altre, la direttiva 2004/24/UE, risulta evidente che la funzione proconcorrenziale delle regole di evidenza pubblica ha assunto ancora maggiore rilievo ed è divenuta il baricentro del sistema.
L’art. 2 del d.lgs. n. 50 del 2016 sancisce che le disposizioni ivi contenute sono adottate nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, sicché è consequenziale ritenere che i provvedimenti adottati in applicazione del codice degli appalti ove non realizzino detta finalità violano le regole stesse ed i principi di libera concorrenza.
Le due “anime” della normativa sostanziale dell’evidenza pubblica, in linea di massima, possono e devono essere perseguite contemporaneamente, atteso che la massima partecipazione alla gara è funzionale alla realizzazione di entrambe le finalità.
Il principio del favor partecipationis, pertanto, è stato scolpito a chiare lettere anche nella disciplina legislativa.

L’art. 30, comma 1, del nuovo codice, analogamente a quanto già espresso dall’art. 2 del d.lgs. 163/2006, oltre ad indicare che l’affidamento e l’esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni ai sensi del codice garantisce la qualità delle prestazioni e deve svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza (principi ispirati alla tutela della pubblica amministrazione per il controllo ed il miglior utilizzo delle finanze pubbliche), ha specificato che le stazioni appaltanti rispettano altresì i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità nonché di pubblicità (principi ispirati alla tutela delle imprese concorrenti e del corretto funzionamento del mercato).
Il successivo settimo comma dello stesso art. 30 dispone che “i criteri di partecipazione alle gare devono essere tali da non escludere le microimprese, le piccole e medie imprese”.
L’art. 51 del nuovo codice stabilisce non solo che, nel rispetto della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici, “al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali … in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture”, ma anche che “nel caso di suddivisione in lotti, il relativo valore deve essere adeguato in modo da garantire l’effettiva possibilità di partecipazione da parte delle micro imprese, piccole e medie imprese”.
L’art. 83, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, infine, prevede che i requisiti di idoneità professionale e le capacità economica e finanziaria e tecniche–professionali sono attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, “tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”.
Un ulteriore impulso all’apertura dei mercati attraverso la partecipazione alle gare e la possibile aggiudicazione delle stesse da parte del più alto numero di imprese possibile –le quali in tal modo, in un circolo “virtuoso”, potrebbero acquisire le qualificazioni ed i requisiti necessari alla partecipazione ad un numero sempre maggiore di gare- è dato dal c.d. vincolo di aggiudicazione, vale a dire dalla facoltà della stazione appaltante di limitare il numero massimo di lotti che possono essere aggiudicati ad un solo offerente.
Il vincolo di aggiudicazione, come correttamente affermato nel ricorso, costituisce uno strumento proconcorrenziale che, nell’impedire ad uno stesso soggetto di essere aggiudicatario di una pluralità di lotti, aumenta le possibilità di successo delle piccole e medie imprese pur in presenza di aziende meglio posizionate sul mercato.

Nel richiamato considerando n. 124 alla direttiva 2014/24/UE, è espresso che le nuove disposizioni europee “dovrebbero contribuire al miglioramento del livello di successo, ossia la percentuale delle PMI rispetto al valore complessivo degli appalti aggiudicati”.
L’art. 46 della menzionato direttiva europea prevede a tal fine che “le amministrazioni aggiudicatrici possono, anche ove esista la possibilità di presentare offerte per alcuni o per tutti i lotti, limitare il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente …”, analoga previsione è contenuta nell’art. 51, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016.
In definitiva,
la matrice volta a stimolare la concorrenza, sia attraverso la massima partecipazione possibile alle gare sia anche garantendo una più elevata possibilità che le imprese di piccole e medie dimensioni possano risultare aggiudicatarie, caratterizza tutta la normativa europea in materia di appalti pubblici e, di conseguenza, il nuovo codice nazionale degli appalti pubblici e delle concessioni.

APPALTI SERVIZIAcquisti centrali anche per le concessioni. Affidamenti. Il Tar Veneto boccia la condotta di un Comune non capoluogo su una procedura in autonomia.
I Comuni non capoluogo non possono eludere l’obbligo di ricorso alle centrali di committenza e devono utilizzarle non solo per gli appalti, ma anche per l’affidamento delle concessioni.

Il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 26.01.2017 n. 85 affronta la portata applicativa delle disposizioni del codice dei contratti pubblici che disciplinano i modelli aggregativi per le amministrazioni comunali che non sono capoluogo di provincia.
Il caso esaminato riguardava un ente che ha indetto e gestito una procedura di gara per l’aggiudicazione di una concessione di servizi, pur essendo obbligato a fare ricorso a uno dei modelli previsti dal comma 4 dell’articolo 37 del decreto legislativo 50/2016 e pur avendo costituito con altri comuni una centrale unica di committenza, mediante una convenzione per la gestione associata.
Proprio l’accordo tra le amministrazioni prevedeva una dettagliata specificazione delle attività di competenza della centrale e dei vari enti aderenti, riportando a questi ultimi una serie di attività rilevanti, tra cui l’assunzione della determinazione di aggiudicazione definitiva e la stipulazione del contratto, oltre a quelle attinenti alla fase esecutiva dello stesso.
Il Comune non poteva pertanto gestire autonomamente la procedura di gara, essendosi a maggior ragione vincolato all’utilizzo della centrale unica di committenza come modello aggregativo, che veniva pertanto a risultare l’unico soggetto legittimato a sviluppare la procedura selettiva.
Tra i vari atti riconducibili necessariamente alla competenza della centrale unica di competenza risultava anche la nomina della commissione giudicatrice per la valutazione delle offerte tecniche e delle offerte economiche, effettuata invece dal Comune, con conseguente produzione di un atto illegittimo, inficiante i successivi atti di gara.
La sentenza evidenzia anche come l’obbligo di ricorso ai modelli aggregativi previsto dall’articolo 37 del nuovo codice dei contratti pubblici si applichi ai Comuni non capoluogo non solo per gli appalti, ma anche per le procedure che hanno ad oggetto l’affidamento di concessioni. Secondo il Tar Veneto, peraltro, una diversa interpretazione avrebbe conseguenze pericolose, in quanto consentirebbe ai singoli Comuni di sottrarsi al vincolo normativo strutturando il servizio come concessione anziché come appalto, arrivando a gestire procedure per le quali non avrebbero adeguate capacità.
La forzatura del Comune ha quindi determinato l’illegittimità della procedura di gara, con il conseguente annullamento degli atti posti in essere dall’amministrazione.
L’intervento dei giudici amministrativi rafforza le previsioni contenute nell’articolo 37 del codice dei contratti pubblici, valorizzando tuttavia il ruolo delle centrali di committenza costituite dai Comuni non capoluogo come strumenti efficaci per conseguire razionalizzazione della spesa e ottimizzazione delle procedure di affidamento.
L’inclusione delle concessioni (di lavori e di servizi) tra gli oggetti gestibili dalle centrali di committenza locali (peraltro desumibile anche dalle linee-guida Anac n. 4/2016 sugli affidamenti sottosoglia) conferma l’importanza del ruolo che le stesse possono assumere in processi di elevata complessità, come quelli riferibili a molte tipologie di servizi pubblici locali non riconducibili alla competenza degli enti d’ambito
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.01.2017).

APPALTI: Nelle procedure amministrative l’allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prevista dall’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445/2000, è adempimento inderogabile atto a conferire, in virtù della sua introduzione come forma di semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all’autocertificazione; si tratta quindi di un elemento integrante della fattispecie normativa, rivolto a stabilire, data l’unità della fotocopia sostitutiva del documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il documento ed a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, la soggettiva imputabilità della dichiarazione al soggetto che la presta.
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Per quanto riguarda, poi, la mancanza della sottoscrizione, si ricorda che è la combinazione della sottoscrizione autografa e della copia del documento di identità (quale modalità di autenticazione della sottoscrizione) a rendere incontestabile sino a querela di falso la paternità dell’atto, garantendo la certezza di cui si ha bisogno per la genuinità della dichiarazione, presidiata dall’art. 76 del d.P.R. n. 445 cit. con sanzioni penali (v. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 02.07.2007, n. 6422, secondo cui, pertanto, la presentazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà non può essere validamente sostituita dalla produzione di una dichiarazione in fotocopia, priva della sottoscrizione autografa).
Né l’assenza della sottoscrizione e della fotocopia del documento di identità della dichiarante possono essere in alcun modo sostituite dalla dichiarazione resa dal procuratore di gara della C.Food, o dalla sottoscrizione ad opera dello stesso procuratore, in ogni pagina, del curriculum vitae della predetta dietista e della dichiarazione sostitutiva che quest’ultima ha reso senza apporvi la sua –indispensabile, come detto– sottoscrizione.
Da un lato, infatti, la firma del procuratore della società in ogni pagina dell’offerta tecnica non assolve al fine di attestare la veridicità del contenuto degli stessi, riferibili ad un soggetto terzo, ma piuttosto serve a garantire la provenienza dell’offerta dal concorrente: la sottoscrizione dell’offerta ex art. 74 del d.lgs. n. 163/2006, infatti, si configura come lo strumento tramite il quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a renderne nota la paternità ed a vincolare l’autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta.
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L’assunto della ricorrente non può essere condiviso, atteso che –come rilevato dalla Commissione di gara nel verbale del 29.07.2016 (cfr. all. 2 al ricorso)– la C.Food si è limitata ad allegare all’offerta due documenti (il curriculum vitae della dr.ssa Ma. ed una dichiarazione sostitutiva di costei relativa al suo percorso scolastico), ambedue privi di firma e senza unirvi alcun documento di identità della dichiarante (cfr. all.ti 17 e 18 al ricorso).
Correttamente, pertanto, la Commissione di gara ha ritenuto che mancassero gli elementi essenziali (sottoscrizione della dichiarazione e fotocopia del documento di identità del dichiarante) per poter attribuire validità alla predetta dichiarazione sostitutiva (cfr. gli artt. 47, comma 1, e 38, comma 3, del d.P.R. n. 445/2000).
Sul punto si richiama la giurisprudenza consolidata, secondo cui nelle procedure amministrative l’allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prevista dall’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445/2000, è adempimento inderogabile atto a conferire, in virtù della sua introduzione come forma di semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all’autocertificazione; si tratta quindi di un elemento integrante della fattispecie normativa, rivolto a stabilire, data l’unità della fotocopia sostitutiva del documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il documento ed a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, la soggettiva imputabilità della dichiarazione al soggetto che la presta (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 26.03.2012, n. 1739; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 15.07.2014, n. 347; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 19.10.2012, n. 1008).
Per quanto riguarda, poi, la mancanza della sottoscrizione, si ricorda che è la combinazione della sottoscrizione autografa e della copia del documento di identità (quale modalità di autenticazione della sottoscrizione) a rendere incontestabile sino a querela di falso la paternità dell’atto, garantendo la certezza di cui si ha bisogno per la genuinità della dichiarazione, presidiata dall’art. 76 del d.P.R. n. 445 cit. con sanzioni penali (v. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 02.07.2007, n. 6422, secondo cui, pertanto, la presentazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà non può essere validamente sostituita dalla produzione di una dichiarazione in fotocopia, priva della sottoscrizione autografa).
Né l’assenza della sottoscrizione e della fotocopia del documento di identità della dichiarante dr.ssa Ma. possono essere in alcun modo sostituite dalla dichiarazione resa dal procuratore di gara della C.Food, o dalla sottoscrizione ad opera dello stesso procuratore, in ogni pagina, del curriculum vitae della predetta dietista e della dichiarazione sostitutiva che quest’ultima ha reso senza apporvi la sua –indispensabile, come detto– sottoscrizione.
Da un lato, infatti, la firma del procuratore della società in ogni pagina dell’offerta tecnica, inclusi i documenti di cui si discute, non assolve al fine di attestare la veridicità del contenuto degli stessi, riferibili ad un soggetto terzo, la già citata dr.ssa Ve.Ma., ma piuttosto –come giustamente osserva la Ge.– serve a garantire la provenienza dell’offerta dal concorrente: la sottoscrizione dell’offerta ex art. 74 del d.lgs. n. 163/2006, infatti, si configura come lo strumento tramite il quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a renderne nota la paternità ed a vincolare l’autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 09.11.2016, n. 11092).
Nel caso di specie, peraltro, non si tratta nemmeno della firma, ma soltanto del timbro e della sigla apposte dal citato procuratore ai sensi dell’art. 11 del disciplinare di gara e non certo dell’art. 46 del d.P.R. n. 445/2000: quest’ultima disposizione, peraltro, prevede che la dichiarazione sostitutiva di certificazione, comprovante taluni stati, qualità personali e fatti, venga sottoscritta dall’interessato, e non certo da un terzo.
È ovvio, del resto, come eccepiscono il Comune di Cerea e la Centrale Unica di Committenza, che il procuratore della società nulla potesse legittimamente dichiarare in ordine al titolo di studio conseguito da un diverso soggetto
(TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 26.01.2017 n. 85 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'annullamento dell’ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa per utilizzazione immobile in assenza di certificazione agibilità.
La fattispecie ha ad oggetto l’impugnativa di una sanzione amministrativa con cui è stato ingiunto al ricorrente il pagamento di una somma di danaro in relazione a violazioni di carattere edilizio.
Essa rientra a pieno titolo, tra le ipotesi in cui, pur avendo gli atti amministrativi impugnati un collegamento con la materia edilizia, la relativa giurisdizione è devoluta al Giudice Ordinario, in quanto la sanzione amministrativa impugnata interferisce direttamente su un diritto soggettivo perfetto del ricorrente, che è in definitiva il diritto a non vedersi depauperare il patrimonio in forza di provvedimenti amministrativi non sorretti da una effettiva causale.
Occorre rilevare, in proposito, che nella emissione della ingiunzione di pagamento non vi è esercizio di discrezionalità, costituendo essa un atto dovuto, conseguente all’accertamento dell’illecito amministrativo, potendosi al più ravvisare l’esercizio di discrezionalità nella quantificazione della sanzione non determinata dalla legge in misura fissa. Tuttavia, anche l’impugnazione di una ordinanza–ingiunzione si traduce sempre nella contestazione di non dover pagare, in tutto o in parte, una somma di danaro, e per tale ragione finisce sempre per incidere su un diritto soggettivo perfetto.
A ciò si aggiunga che “Le norme sancite dagli artt. 22, co. 1, e 22-bis, l. n. 689 del 1981 (quest’ultima disposizione ora abrogata e sostituita dall’art. 6, d.lgs. n. 150 del 2011, inapplicabile ratione temporis ai sensi dell’art. 36 del medesimo decreto), affidano al giudice ordinario la cognizione sulle controversie aventi ad oggetto sanzioni amministrative e, nel ripartire la competenza tra giudice di pace e tribunale per le opposizioni alle inflitte sanzioni, confermano l’attribuzione dell’intera «materia» delle sanzioni amministrative alla giurisdizione <<piena>> del giudice ordinario (potendo annullare o riformare l’atto sanzionatorio), salvo diversa e specifica previsione di legge e, in particolare, quanto previsto dall’art. 133 c.p.a. che non include, nel suo tassativo catalogo, le controversie come quella oggetto del presente giudizio; in quest’ottica è sufficiente rilevare, per completezza, che l’art. 296 d.lgs. n. 152 del 2006 cit. –Controlli e sanzioni– nel richiamare espressamente la l. n. 689 del 1981, si colloca nell’alveo della su esposta impostazione sistematica”.
Deve, pertanto, essere dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo in favore del Giudice ordinario presso il quale la controversia potrà essere riproposta nel termine di legge (art. 11 c.p.a.), fatte salve le eventuali decadenze e preclusioni intervenute.

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... per l'annullamento dell’ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa per utilizzazione immobile in assenza di certificazione agibilità.
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1. - Con ricorso notificato il 19.10.2010 e depositato il 27.10.2010 il sig. Vi.An., premettendo di essere proprietario di un immobile sito in Bari, alla via ... 25, identificato al catasto al fg. 31, p.lla 188, subalterno 10, impugnava l’ordinanza-ingiunzione in epigrafe indicata, a mezzo della quale gli è stato contestato l’utilizzo del suddetto cespite privo del certificato di agibilità.
Riferiva il ricorrente che nel gravato provvedimento è menzionata una precedente ordinanza di apertura del procedimento sanzionatorio n. 219711, a seguito di verbale di accertamento della Polizia Municipale del 19.08.2009, che non gli sarebbe stata notificata.
Affermava, inoltre, la sua estraneità alla vicenda per mancanza di disponibilità dell’immobile in questione, locato ed oggetto di procedimento di sfratto per finita locazione.
...
4. – Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
5. - La fattispecie portata all’esame del Collegio, infatti, ha ad oggetto l’impugnativa di una sanzione amministrativa con cui è stato ingiunto al ricorrente il pagamento di una somma di danaro in relazione a violazioni di carattere edilizio.
Essa rientra a pieno titolo, tra le ipotesi in cui, pur avendo gli atti amministrativi impugnati un collegamento con la materia edilizia, la relativa giurisdizione è devoluta al Giudice Ordinario, in quanto la sanzione amministrativa impugnata interferisce direttamente su un diritto soggettivo perfetto del ricorrente, che è in definitiva il diritto a non vedersi depauperare il patrimonio in forza di provvedimenti amministrativi non sorretti da una effettiva causale.
5.1. - Occorre rilevare, in proposito, che nella emissione della ingiunzione di pagamento non vi è esercizio di discrezionalità, costituendo essa un atto dovuto, conseguente all’accertamento dell’illecito amministrativo, potendosi al più ravvisare l’esercizio di discrezionalità nella quantificazione della sanzione non determinata dalla legge in misura fissa. Tuttavia, anche l’impugnazione di una ordinanza–ingiunzione si traduce sempre nella contestazione di non dover pagare, in tutto o in parte, una somma di danaro, e per tale ragione finisce sempre per incidere su un diritto soggettivo perfetto (Cfr. in tal senso TAR Puglia Bari, Sez. III, sent. n. 2019 del 03.09.2008).
5.2. - A ciò si aggiunga quanto sostenuto dalla giurisprudenza condivisa dal Collegio, secondo cui “Le norme sancite dagli artt. 22, co. 1, e 22-bis, l. n. 689 del 1981 (quest’ultima disposizione ora abrogata e sostituita dall’art. 6, d.lgs. n. 150 del 2011, inapplicabile ratione temporis ai sensi dell’art. 36 del medesimo decreto), affidano al giudice ordinario la cognizione sulle controversie aventi ad oggetto sanzioni amministrative e, nel ripartire la competenza tra giudice di pace e tribunale per le opposizioni alle inflitte sanzioni, confermano l’attribuzione dell’intera «materia» delle sanzioni amministrative alla giurisdizione <<piena>> del giudice ordinario (potendo annullare o riformare l’atto sanzionatorio), salvo diversa e specifica previsione di legge e, in particolare, quanto previsto dall’art. 133 c.p.a. che non include, nel suo tassativo catalogo, le controversie come quella oggetto del presente giudizio; in quest’ottica è sufficiente rilevare, per completezza, che l’art. 296 d.lgs. n. 152 del 2006 cit. –Controlli e sanzioni– nel richiamare espressamente la l. n. 689 del 1981, si colloca nell’alveo della su esposta impostazione sistematica” (Cons. Stato, Sez. V, sent. 3787 del 27.06.2012).
6. - Deve, pertanto, essere dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo in favore del Giudice ordinario presso il quale la controversia potrà essere riproposta nel termine di legge (art. 11 c.p.a.), fatte salve le eventuali decadenze e preclusioni intervenute (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 25.01.2017 n. 45 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Annullamento d'ufficio o revoca dell'atto amministrativo.
Rispetto ai provvedimenti adottati anteriormente all'attuale versione dell'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990, il termine massimo dei diciotto mesi per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione e salva, comunque, l'operatività del "termine ragionevole" già previsto dall'originaria versione dell'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990.
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... per la riforma della sentenza 10.08.2016 n. 687 del TAR SARDEGNA-CAGLIARI: SEZ. I, resa tra le parti, concernente mancata liquidazione contributo di scopo per azioni di promozione territoriale in concomitanza con organizzazione incontro di pugilato internazionale.
...
- Considerato, infatti, che la definizione del giudizio dipende da un’unica questione di diritto, relativa all’applicabilità ratione temporis dell’art. 21-nonies legge 07.08.1990, n. 241, che prevede (nella versione risultante dalla modifiche apportate dall’art. 6, comma 1, lett. d), legge 07.08.2015, n. 124) il termine massimo di diciotto mesi per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio diretto a rimuovere provvedimenti di autorizzazione o, come nella specie, attributivi di vantaggi economici;
- Ritenuto che il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa;
- Ritenuto, infatti, che l’eventuale applicazione retroattiva, nel senso ritenuto dal Tar, finirebbe per sottoporre l’esercizio del potere di annullamento ad un termine inferiore rispetto ai diciotto mesi voluti dalla legge, dovendosi inevitabilmente detrarre, in quanto già consumato, il periodo di tempo intercorrente tra l’adozione del provvedimento e la data di entrata in vigore della legge;
- Ritenuto che tale interpretazione porterebbe, per assurdo, all’irragionevole conseguenza che per i provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso;
- Ritenuto, pertanto, che, rispetto ai provvedimenti adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione e salva, comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990;
- Ritenuto che l’applicazione dei suesposti principi conduce, nel caso di specie, all’accoglimento dell’appello proposto dalla Regione, alla luce, in particolare, delle seguenti ulteriori considerazioni:
  
il provvedimento di autotutela impugnato (che, sebbene impropriamente qualificato dall’Amministrazione in termini di atto dichiarativo della nullità, è un annullamento d’ufficio) è stato adottato il 22.12.2015 (quando ancora, quindi, dalla data di entrata in vigore della legge 07.08.2015, n. 124, erano decorsi poco più di quattro mesi);
  
il termine complessivamente decorso rispetto alla data del provvedimento annullato (adottato in data 08.07.2013) non può ritenersi irragionevole, specie se si considera che un primo provvedimento di annullamento d’ufficio era stato già adottato dall’Amministrazione nel novembre del 2014;
  
il provvedimento del novembre 2004, sebbene poi annullato dal Tar per difetto di motivazione e vizi procedimentali, assume, tuttavia, una valenza sostanzialmente interruttiva del termine, perché già vale ad escludere il consolidarsi di un affidamento incolpevole sulla stabilità degli effetti del provvedimento;
- Ritenuto, pertanto, che l’appello debba essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, debba essere rigettato il ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.01.2017 n. 250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn gara anche se il costo della sicurezza è zero. L'offerta non può essere esclusa.
È illegittima l'esclusione per l'offerta tecnica che indica costi per la sicurezza aziendale interna pari a zero; va sempre verificata nella sostanza la congruità della quantificazione.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.01.2017 n. 223 relativa a un appalto di servizi in cui la ditta aggiudicataria aveva presentato una offerta tecnica in cui aveva dichiarato di non sostenere costi interni per la sicurezza aziendale.
I giudici hanno escluso che l'indicazione di oneri interni per la sicurezza di importo pari a zero possa determinare l'esclusione del concorrente per motivi di ordine formale, ed in particolare per violazione del citato art. 87, comma 4, dlgs n.163 del 2006 e, nel caso di specie, del bando di gara.
Per il collegio giudicante in questi casi occorre andare a verificare il dato sostanziale e non è ammesso fermarsi al puro riscontro formale. Pertanto se viene riportato un importo negativo, cioè che nessuna spesa il concorrente sosterebbe per questa voce, «ogni questione di verifica del rispetto dei doveri concernenti la salute e sicurezza sul lavoro si sposta dal versante dichiarativo a quello sostanziale, concernente la congruità di una simile quantificazione». Era stata l'adunanza plenaria del Consiglio di stato (27.07.2016, n. 19) a precisarlo ancorché nel caso di specie lo scorporo di questa voce fosse espressamente richiesto dalla lex specialis.
Anche in quel caso il Consiglio di stato aveva dato rilievo agli aspetti di ordine sostanziale relativamente ai costi minimi di sicurezza aziendale per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del cosiddetto nuovo Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), come appunto quella oggetto del giudizio (mentre successivamente lo stesso Consiglio di stato ha negato la possibilità di escludere per mancata specificazione nell'offerta degli oneri per la sicurezza aziendali).
Inoltre, ricorda la sentenza, l'assenza di costi per la sicurezza aziendale per un servizio di ordine intellettuale quale quello qui in contestazione non appare incongruo, così come ha ritenuto, nel marzo scorso la stessa quinta sezione con la sentenza 16.03.2016, n. 1051 (articolo ItaliaOggi del 27.01.2017).
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MASSIMA
6. Con il secondo motivo d’appello la A.T.O.S. Servizi ripropone la censura diretta a sostenere che quest’ultimo avrebbe dovuto essere escluso dalla gara, con riferimento a tutti e tre i lotti, per avere esposto nella propria offerta economica oneri per la sicurezza interni pari a 0.
Secondo l’appellante il raggruppamento temporaneo aggiudicatario avrebbe così violato il bando di gara, laddove esso impone ai concorrenti di indicare a pena espressa di esclusione «la stima degli oneri per la sicurezza cd. “interna” o “specifica aziendale”» (pag. 10; analogamente è disposto nell’allegato 1, sopra citato, relativo ai «Parametri e criteri di valutazione delle offerte»), ed inoltre l’art. 87, comma 4, dell’allora vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n. 163).
Nel criticare la statuizione di rigetto del motivo del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, la A.T.O.S. Servizi soggiunge che l’indicazione pari a 0 equivale a mancata specificazione di questa voce di costo e che la natura intellettuale del servizio non esclude di per sé che l’impresa sostenga oneri a questo titolo, come peraltro evincibile dal fatto che le altre concorrenti hanno invece dichiarato per ciascun lotto cui hanno partecipato i loro costi interni per la sicurezza aziendale, né che questi ultimi possano essere compresi nelle spese generali di gestione o comunque sarebbero coperti dall’INAIL (in particolare gli infortuni sul lavoro).
7. Anche questo motivo è infondato.
Deve innanzitutto escludersi che l’indicazione di oneri interni per la sicurezza pari a 0 comporti l’esclusione della concorrente per motivi di ordine formale, ed in particolare per violazione del citato art. 87, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006 e, nel caso di specie, del conforme bando di gara.
Infatti,
allorché un importo a questo titolo sia indicato, e sebbene questa indicazione sia di ordine negativo, nel senso che nessuna spesa la concorrente sosterebbe per questa voce, ogni questione di verifica del rispetto dei doveri concernenti la salute e sicurezza sul lavoro si sposta dal versante dichiarativo a quello sostanziale, concernente la congruità di una simile quantificazione.
Sovvengono a questo riguardo i principi espressi in materia dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato nella sentenza del 27.07.2016, n. 19 –ancorché nel caso di specie lo scorporo di questa voce fosse espressamente richiesto dalla lex specialis ed in particolare l’enfasi posta dall’organo di nomofilachia agli aspetti di ordine sostanziale relativamente ai costi minimi di sicurezza aziendale per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del c.d. nuovo Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), come appunto quella oggetto del presente giudizio (in conformità ai principi espressi dall’Adunanza plenaria, la successiva giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha negato valenza escludente alla mancata specificazione nell’offerta degli oneri per la sicurezza aziendali: III, 09.01.2017, n. 30; V, 28.12.2016, n. 5475, 23.12.2016, n. 5444, 22.12.2016, n. 5423, 15.12.2016, n. 5283, 17.11.2016, n. 4755, 07.11.2016, n. 4646, 11.10.2016, n. 4182).
Del resto, anche la stessa A.T.O.S. Servizi finisce per porsi in questa prospettiva, laddove a conclusione del motivo in esame afferma che l’indicazione pari a 0 denoterebbe l’«assoluta non affidabilità dell’offerta», oltre che la contrarietà della stessa a norme inderogabili a tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
8. Sennonché, con riguardo a quest’ultimo profilo, la censura dell’appellante pretende di demandare al giudice amministrativo, nella sede di legittimità, apprezzamenti riservati alle valutazioni di ordine tecnico-discrezionale della stazione appaltante, unica preposta alla verifica di anomalia e che nel caso di specie la stessa ha ritenuto di non esperire.
A ciò occorre soggiungere che
l’assenza di costi per la sicurezza aziendale per un servizio di ordine intellettuale quale quello qui in contestazione non appare incongruo, e così è stato ritenuto da questa Sezione in una recente pronuncia (sentenza 16.03.2016, n. 1051).
Alle contestazioni dell’odierna appellante incentrate sull’impossibilità di estendere analogicamente i principi espressi nel precedente ora richiamato al caso di specie, dal momento che in quello (servizio di brokeraggio assicurativo) l’attività era destinata a svolgersi in via esclusiva presso la sede dell’appaltatore, mentre quello oggetto del presente giudizio «viene svolto per la sua interezza nei locali delle scuole e dunque non all’interno dei locali della ditta affidataria», deve rilevarsi, da un lato, che anche la prestazione di attività di lavoro presso la propria sede è per l’imprenditore astratta fonte di oneri per la sicurezza delle proprie maestranze, e dall’altro lato che, come deduce sul punto la controinteressata Ci., presso gli istituti scolastici deve ritenersi in vigore la copertura assicurativa dell’INAIL per tutti gli infortuni ivi occorsi.

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla distinzione tra regolamenti cd. volizioni preliminari e regolamenti cd. volizioni-azioni.
I regolamenti cd. volizioni preliminari sono caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e programmatiche che non si traducono in una immediata incisione della sfera giuridica del destinatario.
Diversamente, i regolamenti c.d. volizioni-azioni contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla immediata applicazione, come tali capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario.

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... per l’annullamento:
- della deliberazione del Consiglio Comunale di Udine n. 74/2013 dd. 04.11.2013, di approvazione del regolamento per la telefonia mobile ai sensi e per gli effetti della L.R. F.V.G. n. 2/2011;
- del conseguente “Regolamento comunale per la telefonia mobile” e relativi allegati approvato con l'anzidetta deliberazione consiliare, comprensivo degli allegati ed in particolare della c.d. “mappa delle localizzazioni”;
...
E’ nota e pacifica in giurisprudenza la distinzione «tra regolamenti cd. volizioni preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e programmatiche che non si traducono in una immediata incisione della sfera giuridica del destinatario e i regolamenti c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla immediata applicazione, come tali capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario» (così, TAR Toscana, Sez. I, sentenza n. 1194/2015) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 19.01.2017 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Giurisdizione del giudice amministrativo per le azioni di retrocessione e risarcimento danni proposte dai proprietari nel caso di occupazione protratta dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
Le Sezioni unite della Corte di cassazione affermano, ex art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., la giurisdizione del giudice amministrativo per le azioni di retrocessione e risarcimento danni proposte dai proprietari nel caso di occupazione protratta dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Domanda di retrocessione e di risarcimento danni – Occupazione protratta dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità – Giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso di domanda di retrocessione e di risarcimento danni proposta in presenza di una occupazione protrattasi dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, venendo in rilievo un comportamento dell’amministrazione -che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione– comunque connesso, ancorché in via mediata, all’esercizio del potere ablatorio. (1)
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   (1) La pronuncia è stata resa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in sede di regolamento di giurisdizione proposto d’ufficio dal Tar Milano con ordinanza 02.11.2015, n. 2303, nell’ambito di una controversia in cui gli ex proprietari di un terreno (dapprima espropriato per la realizzazione di un’opera pubblica e successivamente venduto previa sdemanializzazione ad una società per la costruzione di un centro commerciale), hanno chiesto di accertare l’avvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità per ottenere la retrocessione del bene o comunque la condanna delle Amministrazioni e delle società acquirenti convenute, al pagamento dell’equivalente monetario del terreno pari alla differenza tra il suo valore venale e il minore importo dell’indennità di espropriazione a suo tempo ricevuta, ovvero, in subordine, l’indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c., per l’ingiustificato arricchimento conseguito dalle Amministrazioni e dalle società convenute.
Le Sezioni unite concludono nel senso della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulla scorta delle seguenti motivazioni:
   a) è fuorviante la prospettiva tradizionale del carattere parziale o totale della retrocessione e della connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte dell'amministrazione;
   b) la materia, infatti, trova attualmente una specifica disciplina nel codice del processo amministrativo approvato con d.lgs. 02.07.2010, n. 104 che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto (...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa";
   c) in via generale una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi l'elemento decisivo —per l'affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo— del concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti il comportamento dell'amministrazione, che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, quindi, neppure la mancata restituzione(cfr. Cass. civ., S.U., ordinanze nn. 10879 e 12179 del 2015, in Foro it., 2015, I, 3570, con nota A. CAPONE);
   d) una situazione del tutto analoga si verifica nel caso di mancata retrocessione del bene, acquisito mediante decreto di esproprio, nonostante la sopravvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità; anche in questo caso è dato registrare, infatti, il concreto esercizio di un potere ablatorio, culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la quale omette la retrocessione del bene nonostante la sopravvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità.
Per completezza si segnala:
   e) in materia di riparto della giurisdizione su controversie aventi ad oggetto comportamenti materiali della P.A., Cass. civ., S.U., 16.12.2016, n. 25978, ;
   f) in materia di riparto della giurisdizione su controversie aventi ad oggetto occupazioni sine titulo, e domande di restituzione e risarcimento del danno, Cass. civ., S.U., 18.11.2016, n. 23462;
   g) in materia il riparto di giurisdizione su controversie aventi ad oggetto il riacquisto coattivo di immobili da parte di un Consorzio industriale, Cons. St., sez. V, 08.06.2015, n. 2811 (Corte di Cassazione, Sez. unite civili, ordinanza 18.01.2017 n. 1092 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI pergolati sanzionati, in considerazione delle caratteristiche strutturali, dimensionali e funzionali degli stessi (pavimentazione degli stessi, consistenza delle dimensioni -trattandosi di strutture aventi una superficie di circa 178 mq. e di circa 180 mq.- e destinazione -uno a parcheggio e l’altro ad attività), devono essere qualificati in termini di nuova costruzione in quanto opere destinate ad una permanenza e ad una utilizzazione prolungata nel tempo e idonee a determinare una trasformazione permanente del territorio.
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Né soccorre, al fine di addivenire a diverse conclusioni, l’asserita pertinenzialità di tali opere rispetto ad un immobile che, allo stato, non risulta legittimato da alcun titolo edilizio.
Invero, la nozione edilizia di pertinenzialità assume connotati significativamente diversi da quelli civilistici, rilevando in essa non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato ed esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
Tali caratterizzazioni non ricorrono nel caso che ne occupa, venendo in rilievo opere che presentano, come sopra evidenziato, una propria autonomia sotto il profilo strutturale e funzionale e che hanno un autonomo valore di mercato.

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Le censure dedotte avverso il provvedimento impugnato si palesano infondate.
Il Collegio evidenzia, infatti, che sotto il profilo qualificatorio, i pergolati sanzionati, in considerazione delle caratteristiche strutturali, dimensionali e funzionali degli stessi (pavimentazione degli stessi, in relazione alla quale non rilevano né i materiali impiegati né le tecniche di installazione, nonché consistenza delle dimensioni, trattandosi di strutture aventi una superficie di circa 178 mq. e di circa 180 mq., e destinazione uno a parcheggio e l’altro ad attività delle quali non emerge né è stata dimostrata la temporaneità), debbano essere qualificati in termini di nuova costruzione in quanto opere destinate ad una permanenza e ad una utilizzazione prolungata nel tempo e idonee a determinare una trasformazione permanente del territorio (Cons. St. , sez. IV, 02.10.2008, n. 4793; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 12.03.2010, n. 1438; TAR Puglia, Bari, sez. III, 06.02.2009, n. 222 ).
Né soccorre, al fine di addivenire a diverse conclusioni, l’asserita pertinenzialità di tali opere rispetto ad un immobile che, allo stato, non risulta legittimato da alcun titolo edilizio; dal provvedimento impugnato emerge, infatti, che l’immobile abusivo è stato oggetto di una domanda di condono che alla data di proposizione del presente giudizio non era stata ancora esitata dall’ente ed in relazione agli sviluppi di tale procedimento nulla è stato rappresentato dalla difesa del ricorrente.
Il Collegio sottolinea, a tale riguardo, che la nozione edilizia di pertinenzialità assume connotati significativamente diversi da quelli civilistici, rilevando in essa non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato ed esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (TAR Puglia Lecce, sez. I, 17.11.2010, n. 2662).
Tali caratterizzazioni non ricorrono nel caso che ne occupa, venendo in rilievo opere che presentano, come sopra evidenziato, una propria autonomia sotto il profilo strutturale e funzionale e che hanno un autonomo valore di mercato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 18.01.2017 n. 398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulle conseguenze della mancata indicazione degli oneri della sicurezza aziendale in sede di offerta da parte del concorrente, per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del nuovo c.d. codice degli appalti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50).
Per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del nuovo c.d. codice degli appalti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.01.2017 n. 194 - link a www.diritodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La misura dell'interdittiva antimafia può essere emessa dall'amministrazione in una logica di anticipazione della soglia di difesa dell'ordine pubblico economico.
L'informativa antimafia c.d. tipica risponde alla peculiare esigenza di mantenere un atteggiamento intransigente contro i rischi di infiltrazione mafiosa, idonei a condizionare le scelte dell'impresa oggetto di controllo; in altre parole, l'intento del legislatore nel disciplinare la materia de qua è stato quello di accostare alle misure di prevenzione antimafia un altro significativo strumento di contrasto della criminalità organizzata, consistente nell'esclusione dell'imprenditore, che sia sospettato di legami o condizionamenti derivanti da infiltrazioni mafiose, dal mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un soggetto pubblico e l'utilizzo di risorse della collettività.
Del resto, proprio la formulazione generica del concetto di tentativo di infiltrazione mafiosa, rilevante ai fini del diritto, comporta l'attribuzione al Prefetto di un ampio margine di accertamento e di apprezzamento, nell'esercizio di poteri sicuramente discrezionali, diretti alla dimostrazione, in via indiziaria, della sussistenza di una situazione di rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata.
Insomma, la misura dell'interdittiva antimafia può essere emessa dall'Amministrazione in una logica di anticipazione della soglia di difesa dell'ordine pubblico economico e non postula, come tale, l'accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell'impresa con associazioni di tipo mafioso, potendo, perciò, basarsi anche sul solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell'attività imprenditoriale (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 12.01.2017 n. 58 - link a www.diritodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso frenato ai database della pubblica amministrazione. Sentenza della corte di giustizia europea: informazioni solo in base a interrogazioni predefinite.
La trasparenza dei data base della p.a. dipende da come sono stati scritti i programmi informatici.
A disposizione di cittadini e imprese ci sono solo i dati che sono il risultato delle SQL (Structured Query Language, il Sistema delle domande nelle ricerche in internet).

A queste conclusioni è giunta la Corte di giustizia dell'Unione europea, con la sentenza 11.01.2017 causa C-491/15 P della I Sez..
Per legge, infatti, con il diritto di accesso cittadini e imprese non possono chiedere alla p.a. di elaborare un nuovo documento, ma solo i documenti già detenuti.
Però per distinguere se un documento sia nuovo nelle banche dati elettroniche, bisogna distinguere se l'informazione sia accessibile attraverso le modalità di ricerca (query strutturate) già programmate o se, invece, bisogna programmare un nuovo sistema di ricerca.
Nel primo caso l'accesso alla informazione contenuta nel data base della p.a. (pubblica amministrazione) è a disposizione del cittadino/impresa; nel secondo caso l'informazione non è disponibile.
La distinzione tra un documento esistente e un documento nuovo va operata sulla base di un criterio adeguato alle specificità tecniche delle banche dati elettroniche.
Le informazioni contenute nelle banche dati elettroniche possono essere raggruppate, collegate e presentate in diversi modi grazie ai linguaggi di programmazione.
Tuttavia, la programmazione e la gestione informatica di banche dati elettroniche non rientrano tra le operazioni effettuate dagli utenti finali nell'ambito dell'uso corrente. Infatti, questi ultimi accedono alle informazioni contenute in una banca dati utilizzando strumenti di ricerca preprogrammati.
DOCUMENTO ESISTENTE
Secondo la sentenza devono essere qualificate come documento esistente tutte le informazioni che possono essere estratte da una banca dati elettronica nell'ambito del suo uso corrente mediante strumenti di ricerca preprogrammati.
DOCUMENTO NUOVO
È possibile che le istituzioni costituiscano un documento a partire dalle informazioni contenute in una banca dati utilizzando gli strumenti di ricerca esistenti.
Tuttavia ogni informazione la cui estrazione da una banca dati necessiti un intervento sostanziale dev'essere considerata un nuovo documento e non un documento esistente.
Quindi dev'essere qualificata come nuovo documento ogni informazione per ottenere la quale sia necessaria una modifica dell'organizzazione di una banca dati elettronica o degli strumenti di ricerca attualmente disponibili per l'estrazione delle informazioni.
Se la banca dati elettronica consente l'estrazione delle informazioni mediante l'uso delle interrogazioni SQL ma se la richiesta di accesso alla combinazione di dati oggetto della sua domanda presuppone un lavoro di programmazione informatica, cioè l'elaborazione di nuove interrogazioni SQL, allora abbiamo un nuovo documento.
Le operazioni necessarie per la programmazioni di nuove interrogazioni SQL non potrebbero essere assimilate ad una ricerca normale o di routine nella banca dati interessata, effettuata mediante strumenti di ricerca messi a disposizione per la banca dati e che, pertanto, l'accesso alle informazioni sollecitate avrebbe richiesto la creazione di un nuovo documento.
PERICOLO
Le istituzioni potrebbero occultare taluni documenti elettronici con la predeterminazione dei criteri di ricerca SQL. Ma la Corte di giustizia risponde che la possibilità astratta che un documento sia soppresso o distrutto riguarda allo stesso modo sia i documenti cartacei sia quelli generati mediante estrazione da una banca dati.
RIFLESSI ITALIANI
In Italia il decreto legislativo sulla trasparenza (33/2013) disciplina l'accesso alle banche dati della p.a. e ha regolamentato l'accesso civico generalizzato. Sul punto l'Anac, autorità anticorruzione, ha diffuso le linee guida approvate con la determinazione 28.12.2016 n. 1309 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 7 del 10.01.2017).
L'Anac ha precisato che l'amministrazione non è tenuta a rielaborare informazioni in suo possesso, per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato: deve consentire l'accesso ai documenti, ai dati ed alle informazioni così come sono già detenuti, organizzati, gestiti e fruiti. Mentre resta escluso che l'amministrazione sia tenuta a formare o raccogliere o altrimenti procurarsi informazioni che non siano già in suo possesso. Pertanto, l'amministrazione non ha l'obbligo di rielaborare i dati ai fini dell'accesso generalizzato, ma solo a consentire l'accesso ai documenti nei quali siano contenute le informazioni già detenute e gestite dall'amministrazione stessa.
Anche per l'Italia, dunque, la trasparenza dipende da come vengono strutturate le interrogazioni preprogrammate. Anche se questo provoca un'altra questione e cioè fare in modo che la programmazione delle query avvenga in maniera trasparente e controllabile. La trasparenza amministrativa non può essere svilita o stoppata dalla programmazione informatica (articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2017).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPaletti ai locali della movida. Addio tavolini del bar se il comune non avvisa i residenti. Una ricognizione delle pronunce più recenti sull'occupazione di suolo pubblico.
Il comune non può dare il via libera al bar che vuole mettere i tavolini sul terreno demaniale se l'avvio del procedimento di autorizzazione non risulta comunicato al condominio vicino, che è in causa con il gestore dell'esercizio per i fastidi creati dai clienti ai residenti.
Ciò perché l'amministrazione locale sa che l'ente di gestione è controinteressato in quanto ha già tentato di bloccare l'occupazione del suolo pubblico e la stessa attività commerciale: la decisione del dirigente dell'ufficio, infatti, viola il principio della partecipazione al procedimento amministrativo stabilito dalla legge 241/1990.

È quanto emerge dalla sentenza 09.01.2017 n. 228, pubblicata dalla Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Niente da fare per il locale pubblico che aveva ottenuto oltre venti metri quadrati nel centro storico di Roma dove installare sedie, ombrelloni e arredi per l'aperitivo dei suoi clienti. Dopo la revoca della prima concessione, un secondo permesso per l'occupazione del suolo pubblico (Osp) era stato rilasciato a un soggetto diverso per subentro. Ma viene accolto il ricorso per motivi aggiunti del condominio perché l'ente di gestione avrebbe potuto subire danni da una nuova autorizzazione Osp, eppure non era stato avvisato dal comune dell'avvio dell'iter.
L'amministrazione, in verità, aveva già ricevuto esposti contro i rumori e i fumi del bar da parte del condominio, che protestava contro l'occupazione abusiva dello slargo davanti all'edificio da parte dell'esercizio pubblico. L'ente di gestione, fra l'altro, aveva dichiarato guerra all'happy hour, essendo in causa contro la società che gestisce il locale perché il regolamento condominiale vietava attività di somministrazione all'interno del fabbricato. Non resta che pagare le spese di giudizio.
È sempre più guerra nelle zone della movida fra residenti e gestori dei locali. Ecco alcuni precedenti: no al dehors per il bar se prima di rivolgersi al comune il titolare non ha fatto i conti con il condominio. Stop all'autorizzazione unica concessa all'esercizio pubblico dallo sportello attività produttive dell'ente locale: la struttura a padiglione, infatti, deve essere considerata aderente alla facciata dello stabile e dunque non può essere installata in loco senza il nulla osta di tutti coloro che risultano proprietari del muro perimetrale ex articolo 1117 Cc.
È quanto emerge dalla sentenza 04.03.2016 n. 379, pubblicata dalla II Sez. del TAR Toscana.
Accolto il ricorso di uno dei condomini. Il progetto del dehors per il bar prevede che la struttura sia posta a un solo centimetro di distanza alla facciata dello stabile.
Ed è proprio il regolamento comunale a imporre il nulla osta dei proprietari o dell'amministratore dell'edificio quando si verifica il «contatto-aderenza» con la superficie esterna di un fabbricato: sbaglia l'amministrazione quando interpreta le norme ritenendo necessaria l'autorizzazione preventiva da parte del condominio soltanto nell'ipotesi in cui i tiranti della struttura a padiglione devono essere agganciati alla parete. E il condomino non ha mai dato il suo consenso all'opera.
Ancora. Niente dehors per il pub, anche se il gestore assicura che è «smontabile». Il punto è che il locale si trova in una zona soggetta al piano territoriale paesaggistico, che non ammette incremento di volumi anche quando non è frutto di nuova costruzione, come nel caso del gazebo che pure ha tende laterali in plastica trasparenti. Risulta allora legittimo il «no» opposto dal comune al permesso di costruire dopo il parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici. E non conta che l'amministrazione abbia invece dato via libera in zona a un analogo progetto di un concorrente.
È quanto emerge dalla sentenza 29.06.2016 n. 3286, pubblicata dalla VI Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il piano territoriale che tutela il paesaggio non fa differenza fra i volumi edilizi e quelli tecnici, ma vieta ogni aumento delle cubature: l'agognato dehors non può comunque essere definito una struttura precaria da un punto di vista edilizio laddove invece deve essere destinato in modo stabile alle esigenze commerciali del pub, vale a dire assicurare nuovi tavoli al locale.
Inutile lamentare il vizio di eccesso di potere: conta il Ptp (Piano territoriale paesaggistico) che tutela quello «specifico paesaggio» e gli atti che sono espressione di discrezionalità non risultano censurabili per violazione del canone di imparzialità (articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2017).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno con autorizzazione gratuita e in deroga alla vigente disciplina urbanistica, concerne i soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l'art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel novellare l'art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc di costruzione.
Trattandosi nel caso di specie di un permesso per la realizzazione di un nuovo edificio unifamiliare il beneficio previsto dalla norma sopra richiamata risulta, pertanto, inapplicabile.
Né è possibile sostenere che i manufatti in questione costituirebbero opere di urbanizzazione atteso che non si tratta di posti auto destinati alla fruizione collettiva ma di parcheggi pertinenziali alla unità abitativa principale che non possono, quindi, considerarsi come infrastrutture di pubblica utilità.

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I ricorrenti contestano la determinazione del contributo relativo al rilascio in loro favore del permesso di costruire n. 2 del 2016 da parte del comune di Siena sotto più profili.
Gli stessi in primo luogo ritengono che i parcheggi pertinenziali coperti realizzati ai sensi dell’art. 40 del R.U. non potrebbero essere assoggettati a contributo in quanto rientranti nell’ambito della esenzione prevista dall’art. 9 della L. 122/1989 e, comunque, perché costituenti opere di urbanizzazione.
La pretesa esenzione dal contributo non ha, tuttavia, fondamento giuridico.
In base alla prevalente giurisprudenza, alla quale il Collegio ritiene di dover aderire, l'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno con autorizzazione gratuita e in deroga alla vigente disciplina urbanistica, concerne i soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l'art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel novellare l'art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942 n. 1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc di costruzione (Consiglio di Stato sez. VI 09.02.2015 n. 637).
Trattandosi nel caso di specie di un permesso per la realizzazione di un nuovo edificio unifamiliare il beneficio previsto dalla norma sopra richiamata risulta, pertanto, inapplicabile.
Né è possibile sostenere che i manufatti in questione costituirebbero opere di urbanizzazione atteso che non si tratta di posti auto destinati alla fruizione collettiva ma di parcheggi pertinenziali alla unità abitativa principale che non possono, quindi, considerarsi come infrastrutture di pubblica utilità (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 09.01.2017 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'omessa acquisizione del parere della commissione edilizia, ai fini della decisione di una domanda di sanatoria, non costituisce necessariamente vizio procedimentale invalidante, posto che -ai sensi dell'art. 4, comma 2, del DPR 380/2001- “nel caso in cui il Comune intenda istituire la Commissione edilizia, il regolamento indica gli interventi sottoposti al preventivo parere di tale organo consultivo”.
Il parere della commissione edilizia nell'ambito dei procedimenti di rilascio di titoli edilizi è quindi requisito meramente eventuale, in quanto subordinato alle previsioni del regolamento comunale.
Va d’altra parte rilevato che i ricorrenti non hanno dimostrato che l’intervento in questione rientra nell’ambito dei casi per i quali il regolamento richiede il necessario parere della Commissione edilizia.
Ancora, il procedimento di accertamento di conformità ex art. 36 del richiamato testo unico non prevede l'acquisizione del parere della Commissione edilizia quando l’istruttoria non richieda valutazioni di ordine tecnico, ma solo –come nella specie- di natura giuridica.

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1.1 Riguardo la composizione della commissione edilizia, il vizio dedotto è irrilevante. Innanzitutto, non è dedotta l’obbligatorietà del parere ai sensi del regolamento comunale.
Infatti, l'omessa acquisizione del parere della commissione edilizia, ai fini della decisione di una domanda di sanatoria, non costituisce necessariamente vizio procedimentale invalidante, posto che -ai sensi dell'art. 4, comma 2, del richiamato testo unico- “nel caso in cui il Comune intenda istituire la Commissione edilizia, il regolamento indica gli interventi sottoposti al preventivo parere di tale organo consultivo”.
Il parere della commissione edilizia nell'ambito dei procedimenti di rilascio di titoli edilizi è quindi requisito meramente eventuale, in quanto subordinato alle previsioni del regolamento comunale. Va d’altra parte rilevato che i ricorrenti non hanno dimostrato che l’intervento in questione rientra nell’ambito dei casi per i quali il regolamento richiede il necessario parere della Commissione edilizia (Tar Sardegna 20.05.2015, n. 805).
Ancora, il procedimento di accertamento di conformità ex art. 36 del richiamato testo unico non prevede l'acquisizione del parere della Commissione edilizia quando l’istruttoria non richieda valutazioni di ordine tecnico, ma solo –come nella specie- di natura giuridica (sul punto, Tar Campania-Napoli 06.09.2012, n. 3775) (TAR Marche, sentenza 07.01.2017 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione.
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Fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell'aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, il che comporta che quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica.
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Interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire e, ancora una volta, soprattutto senza autorizzazione paesaggistica, allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.

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2 Passando alle altre censure, si premette che non è contestato che il manufatto si trovi, come menzionato nel provvedimento ablatorio, in zona sottoposta a tutela paesaggistica ambientale, imposta con DM 16.05.1968.
2.1 Questa circostanza comporta l’irrilevanza delle deduzioni di parte ricorrente relative al carattere pertinenziale dell’opera e all’applicabilità della sanzione ex art. 37 DPR 380 del 2001.
2.2 Ciò in forza dei costanti e condivisi principi giurisprudenziali per cui:
- le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione;
- fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell'aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, il che comporta che quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica;
- interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime del permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire e, ancora una volta, soprattutto senza autorizzazione paesaggistica, allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite (si veda Tar Campania Napoli 20.02.2014, n. 1122 e la copiosa giurisprudenza ivi citata).
2.3 Nel caso in esame l’opera abusiva, della superficie di 24 mq. e realizzata in legno, su piattaforma in calcestruzzo e con copertura in coppo-tegola laterizio costituisce, in tutta evidenza, un‘alterazione dell’edificio
(TAR Marche, sentenza 07.01.2017 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di parcheggi nelle aree pertinenziali esterne al fabbricato -ai sensi dell’art. 9 L. 122/1989- deve essere realizzata nel sottosuolo (la costruzione di una tettoia non costituisce, ovviamente, un parcheggio “interno” del fabbricato medesimo).
Peraltro, la legge n. 122 del 1989 consente la realizzazione di parcheggi pertinenziali in deroga agli strumenti urbanistici, ma non ai vincoli paesaggistici ed ambientali, che costituiscono, comunque, un limite da rispettare.

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2.4 Sono infondate anche le censure relative alla violazione dell’art. 9 della richiamata legge n. 122 del 1989 (cosiddetta legge Tognoli) e della legge n. 13 del 1989 sulle barriere architettoniche.
Difatti, la realizzazione di parcheggi nelle aree pertinenziali esterne al fabbricato -ai sensi dell’art. 9 invocato- deve essere realizzata nel sottosuolo (la costruzione di una tettoia non costituisce, ovviamente, un parcheggio “interno” del fabbricato medesimo).
Peraltro, la legge n. 122 del 1989 consente la realizzazione di parcheggi pertinenziali in deroga agli strumenti urbanistici, ma non ai vincoli paesaggistici ed ambientali, che costituiscono, comunque, un limite da rispettare (Tar Toscana 11.06.2010, n. 1818).
2.5 Nel caso in esame, vista l’incontestata presenza di un vincolo paesaggistico, la realizzazione dell’opera, anche ammettendo l’applicabilità della norma invocata, doveva comunque essere assoggettata all'istruttoria propria del procedimento di rilascio del permesso di costruire in zone vincolate e non poteva essere eseguita sic et simpliciter mediante una mera autorizzazione (si veda Tar Campania Napoli 20.03.2014 n. 1598).
2.6 Non può altresì essere invocato il collegamento con la legge n. 13 del 1989 (tanto meno in connessione con la già citata legge n. 122 del 1989, inapplicabile nel caso di specie) dato che la costruzione di una struttura (eventualmente) destinata, tra l’altro, ad ospitare -OMISSIS- non costituisce opera di abbattimento delle barriere architettoniche
(TAR Marche, sentenza 07.01.2017 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon spetta al Ministero dei beni culturali la comparazione tra la protezione del vincolo e l’interesse pubblico dell’opera, ma solo la valutazione circa la sua compatibilità con i valori protetti.
Difatti, come osservato condivisibilmente in giurisprudenza, alla funzione di tutela del paesaggio (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: il parere del Ministero dei beni culturali è atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove, similmente al parere dell’art. 146 d.lgs. 242 del 2004, l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico, valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.

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2.2 Riguardo l’affermata contraddittorietà del parere, in tutta evidenza il parere della Soprintendenza reso in sede in approvazione dello strumento urbanistico (delibera del Consiglio comunale di Fano. n. 34 del 19.02.2009) è di natura differente (non fosse altro per i diversi organi ministeriali coinvolti) rispetto all’approfondimento proprio della Valutazione di impatto ambientale.
Non è altresì rilevante, evidentemente, l’eventuale presenza di valutazioni diverse rispetto a quelle del Ministero dell’ambiente e della Commissione tecnica, in presenza di un concorde giudizio negativo di compatibilità.
2.3 Appare altresì priva di pregio la tesi per cui il Ministero dei beni culturali non avrebbe potuto valutare la presenza del vincolo adottato con decreto del Presidente della Regione ai sensi dell'art. 2 della legge 29.06.1939 n. 1497 (Decreto del Presidente della Regione Marche 668/1981), trattandosi in ogni caso di vincolo paesaggistico sottoposto alla valutazione di detto Ministero in sede di VIA, che non viene, ovviamente, posto nel nulla, dagli atti relativi al parere favorevole al progetto reso dalla Regione Marche in sede di Intesa stato-regioni.
2.4 Infine, l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si afferma che l’intervento sarebbe compatibile con i valori paesaggistici tutelati, costituisce sostanzialmente un’inammissibile sostituzione di un nuovo giudizio discrezionale a quello effettuato dall’ente competente in materia. Del resto, non spetta al Ministero dei beni culturali la comparazione tra la protezione del vincolo e l’interesse pubblico dell’opera, ma solo la valutazione circa la sua compatibilità con i valori protetti (si veda, in particolare Cons. Stato Sez. VI. 16.07.2015 n. 3652).
2.5 Difatti, come osservato condivisibilmente in giurisprudenza, alla funzione di tutela del paesaggio (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione: il parere del Ministero dei beni culturali è atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove, similmente al parere dell’art. 146 d.lgs. 242 del 2004, l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico, valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto (Cons. Stato, VI 3652/2015, cit.).
2.6 Vale a dire che, nel caso in esame, la valutazione negativa sull’interesse pubblico dell’opera, sia pure presente nel parere impugnato e non di competenza del Ministero dei beni culturali, è un semplice corollario del separato giudizio di non compatibilità con i beni protetti. Perciò è al limite superflua, ma non certo tale da rendere illegittimo il parere (il caso potrebbe essere diverso qualora tali interessi fossero valutati e ritenuti, al contrario prevalenti rispetto all’impatto negativo sul paesaggio, si veda Cons. Stato 3652/2015, cit.).
2.7 Il Ministero dei beni culturali non esorbitando dalle sue competenze ha quindi espresso un giudizio di non compatibilità dell’intervento con i vincoli paesaggistici esistenti (oltre al citato decreto 668/1981, il DM 25.10.1965, relativo alla zona a nord del torrente Arzilla fino al fosso Setore).
Il parere si esprime, infatti, sui valori paesaggistici, in particolare osservando come l’area occupata dall'eventuale casello, laddove caratterizzata da un intervento con estese superfici asfaltate e volumi aggiunti (barriere di passaggio, locali di servizio) e segnaletiche d’uso risulterebbe certamente apprezzabile e, proprio per quanto sopra detto, recepita quale assolutamente impropria rispetto al contesto. Il progetto interferirebbe, inoltre, con complessi di rilevanza storica e architettonica tutelati (TAR Marche, sentenza 05.01.2017 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl giudice dell'accesso, come pure il soggetto pubblico richiesto, non può andare oltre una valutazione circa il collegamento dell'atto -obiettivo o secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione soggettiva da tutelare e circa l'esistenza di una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive dell'interessato.
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Nel processo amministrativo la "vicinitas", intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, costituisce criterio di per sé sufficiente a rappresentare l'interesse al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente.
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Ai sensi dell'art. 22, l. 07.08.1990, n. 241 soggetti legittimati all'accesso ai documenti amministrativi sono tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso.
Inoltre l'interesse all'accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l'interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo valutarsi la legittimazione all'accesso alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante.
Sicché, la posizione giuridica del proprietario di area limitrofa è già sufficientemente idonea a consolidare il suo interesse “diretto, concreto e attuale” all’accesso.
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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 42180 del 09/06/2016, successivamente notificato, a firma congiunta del Responsabile del procedimento e del Responsabile APO Servizio Urbanistica del comune di Battipaglia recante accoglimento dell’istanza di accesso agli atti del fascicolo relativo alla concessione edilizia n. 22809 del 02.04.1975, formulata dal sig. avv. Fe.Be., e contestuale rigetto dei motivi di opposizione all’accesso formulata dai ricorrenti;
...
Il ricorso è infondato.
Giova premettere che, con il provvedimento impugnato, il Comune di Battipaglia ha accolto l’istanza ostensiva, avanzata dall’avv. Fe.Be., intesa ad esaminare il fascicolo amministrativo relativo allo stato concessorio dei fabbricati di proprietà dei ricorrenti, ubicati sulle p.lle 132 e 133 del foglio 5, evidenziando, come emerge dal corpo della istanza medesima versata agli atti del giudizio, di essere proprietario di un terreno di 2.440 mq. (censito in catasto al Foglio 5, Particella 1399, ricadente integralmente in zona territoriale omogenea C2) e di essere intervenuto ad opponendum nel ricorso RG n. 1045/2013, proposto innanzi a questo Tribunale, dai medesimi ricorrenti Fr.Sc. ed Ad.Pe., in qualità di un terreno distinto in catasto al Foglio 5, particelle nn. 133 e 132, per l’esecuzione ope judicis delle sentenze n. 1017/2012 e n. 2227/2013 del medesimo Tribunale.
Dal tenore dell’istanza, così come evidenziato in seno al quadro motivazionale del provvedimento impugnato, emerge che il Be. ha radicato la propria legittimazione ad exhibendum sulla base sia della vicinitas, avuto riguardo all’ubicazione della sua proprietà rispetto a quella dei ricorrenti, sia della proposizione di intervento ad opponendum nel citato giudizio, così da avere necessità di “apprestare una migliore difesa possibile in occasione della Udienza Pubblica del 19/12/2016” (cfr. istanza d’accesso, pag. 1).
Tanto è sufficiente, a parere del Collegio per radicare la base di legittimazione al conseguimento della sospirata ostensione da parte del Be., come rappresentato dall’Ufficio in seno all’atto impugnato, ove si dice che <<L’avv. Be. è proprietario del terreno censito al foglio 5 particella 1399, che ricade nella medesima zona territoriale omogenea “C2-Cupa Filette” in cui è ricompresa la proprietà dei controinteressati, che dista circa 90 ml da essa; 2. La richiesta è sufficientemente motivata, riportando il riferimento all’interesse diretto, concreto ed attuale alla conoscenza dell’atto, per la cura e la tutela di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante che determina la richiesta dell’istante (cfr. art. 7 del Regolamento Comunale; 3. Il diritto ad accedere agli atti richiesti non può essere compromesso dalla circostanza che il richiedente abbia in corso una richiesta di intervenire ad opponendum al ricorso (NRG n. 1045/2013) proposto dinanzi al TAR Salerno dai signori Francesco Schiavo ed Ada Pesce contro il Comune…>>.
Non convincono i rilievi sollevati dalla parte in ordine alla pretesa inammissibilità dell’intervento ad opponendum, così come argomentato nel connesso giudizio anche sulla base dell’esigenza di patrocinare interessi di terzi (“proprietari delle aree ricadenti nella medesima zona omogenea”) non specificati e comunque non formalmente costituitisi con il rilascio di mandato difensivo all’avv. Be., in quanto, come affermato di recente dal Massimo Consesso di GA, “il giudice dell'accesso, come pure il soggetto pubblico richiesto, non può andare oltre una valutazione circa il collegamento dell'atto -obiettivo o secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione soggettiva da tutelare e circa l'esistenza di una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive dell'interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55; Id., sez. IV, 29.01.2014, n. 461; Id., sez. V, 23.03.2015, n. 1545; Id., sez. IV, 09.02.2016, n. 527)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 22/06/2016, n. 2760).
L’Amministrazione ha comunque dato conto della vicinanza dei due fondi (pari a circa 90 ml) e ciò è sufficiente a consolidare la legittimazione dell’accedente, in quanto “Nel processo amministrativo la "vicinitas", intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, costituisce criterio di per sé sufficiente a rappresentare l'interesse al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente” (cfr. TAR Potenza Basilicata, sez. I, 28.11.2016, n. 1071; TAR Torino Piemonte, sez. II, 15.11.2016, n. 1407, ove si afferma che è “sufficiente la vicinitas quale elemento che distingue la posizione giuridica di un soggetto da quella della generalità dei consociati”).
Le considerazioni formulate in ricorso circa il concorso da parte del Be. al depauperamento degli standard urbanistici mediante il recente conseguimento di sanatoria edilizia risultano inconferenti, in quanto, poiché impingono anch’esse nel merito della controversia, incardinata presso questo Tribunale e nella quale l’accedente ha proposto intervento ad opponendum, non hanno alcuna incidenza sulla legittimazione all’accesso.
Va ribadito che, in base a consolidato orientamento pretorio assurgente al rango di jus receptum, “Ai sensi dell'art. 22, l. 07.08.1990, n. 241 soggetti legittimati all'accesso ai documenti amministrativi sono tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso; inoltre l'interesse all'accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l'interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo valutarsi la legittimazione all'accesso alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante” (cfr. TAR Torino Piemonte, sez. I, 05.10.2016, n. 1209).
In conclusione la posizione giuridica del Be., quale proprietario di area limitrofa, è già sufficientemente idonea, per le ragioni anzidette, a consolidare il suo interesse “diretto, concreto e attuale” all’accesso.
Non è più assistito, infine, dal necessario profilo di interesse quanto ulteriormente dedotto con riferimento alla parte dell’istanza rivolta all’ostensione delle “Eventuali concessioni edilizie rilasciate alla confinante Parrocchia…”, avendo l’avv. Fe.Be., con memoria dell’08.11.2016, fatto rinuncia all’accesso anche di tali atti. Tale profilo di pronuncia va quindi dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso è complessivamente da respingere siccome infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.01.2017 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl muretto di contenimento in questione è realizzato su base muraria e presenta dimensioni certo non trascurabili ovvero lunghezza di 100 mt. e altezza variabile da 0,55 a 1,30 mt. laddove i ricorrenti non abbiano provato, come è pacifico loro onere, né il periodo di realizzazione né la sussistenza degli eventuali titoli abilitativi che legittimerebbero ab origine l’esistenza dei manufatti.
Ciò ha indubbio rilievo, dal momento che le opere oggetto dell’impugnata ordinanza ripristinatoria hanno sicuro impatto urbanistico-edilizio in considerazione delle relative dimensioni e delle caratteristiche costruttive.
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La pur sostenuta -anche dalla giurisprudenza dell’adito Tribunale- natura libera delle recinzioni con rete metallica e paletti di legno o ferro a delimitazione della proprietà immobiliare non riguarda le recinzioni erette su base muraria per le quali è invece richiesto il permesso a costruire.
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... per l'annullamento, previa sospensiva, dell’ordinanza di demolizione e remissione in pristino n. 11069 del 11/04/2008, prot. n. 14936, a firma del Dirigente dell’ufficio pianificazione territoriale ed edilizia del Comune di Gubbio notificata ai ricorrenti in data 05/05/2008, della delibera consiliare del Comune di Gubbio n. 39 del 17/03/2008 pubblicata in data 29/04/2008 nel B.U.R. (Avvisi e Concorsi) della Regione dell’Umbria, mediante la quale il Comune di Gubbio ha approvato il Nuovo Piano Regolatore Generale - parte operativa e in particolare, tra gli altri, l’art. 241;
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1. - I ricorrenti, proprietari di immobile sito in Gubbio e identificato al NCEU al foglio 187, mappale 34, hanno impugnato l’ordinanza del Dirigente dell’Ufficio pianificazione territoriale ed edilizia del Comune di Gubbio con cui si intima loro la demolizione e remissione in pristino di opere prive di titolo abilitativo poste all’esterno del fabbricato, consistenti in un muretto di contenimento in pietra e rifacimento della pavimentazione esterna di circa 200 metri quadri.
Impugnano altresì l’art. 241 del P.R.G. parte operativa del Comune di Gubbio nella parte in cui limita la realizzazione di muretti di contenimento della proprietà privata.
...
2. - E’ materia del contendere la legittimità dell’ordinanza n. 11069 del 11.04.2008 con cui il Dirigente dell’ufficio pianificazione territoriale ed edilizia del Comune di Gubbio ha ordinato ai ricorrenti, in qualità di proprietari, la demolizione e remissione in pristino di un muretto di contenimento in pietra e di una pavimentazione esterna di circa 200 metri quadrati.
3. - Il ricorso è infondato e va respinto
4. - Va premesso in punto di fatto che il muretto di contenimento in questione è realizzato su base muraria e presenta dimensioni certo non trascurabili ovvero lunghezza di 100 mt. e altezza variabile da 0,55 a 1,30 mt.
5. - Giova anzitutto evidenziare come i ricorrenti non abbiano provato come è pacifico loro onere (ex plurimis TAR Umbria, sez. I, 02.08.2013, n. 411) né il periodo di realizzazione né la sussistenza degli eventuali titoli abilitativi che legittimerebbero ab origine l’esistenza dei manufatti.
Ciò ha indubbio rilievo, dal momento che le opere oggetto dell’impugnata ordinanza ripristinatoria hanno sicuro impatto urbanistico-edilizio in considerazione delle relative dimensioni e delle caratteristiche costruttive.
6. - Infatti la pur sostenuta -anche dalla giurisprudenza dell’adito Tribunale- natura libera delle recinzioni con rete metallica e paletti di legno o ferro a delimitazione della proprietà immobiliare (ex multis TAR Umbria, sez. I, 07.08.2013, n. 434) non riguarda le recinzioni erette su base muraria per le quali è invece richiesto il permesso a costruire (TAR Umbria, sez. I, 18.08.2016, n. 571; id. 09.03.2015, n. 100; Consiglio di Stato, sez. V, 09.04.2013, n. 1922; TAR Campania, Salerno, sez. I, 22.04.2015, n. 887; TAR Piemonte, sez. II, 18.01.2013, n. 58) (TAR Umbria, sentenza 02.01.2017 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto all’intervento di rifacimento della pavimentazione esterna, soltanto a seguito dell’entrata in vigore (30.06.2003) del testo unico edilizia approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380 il legislatore ha sussunto tale intervento tra quelli liberi (art. 6) mentre in precedenza risultava soggetto a denuncia di inizio attività.
Sicché, le opere in questione risalenti per ammissione degli stessi ricorrenti a diversi anni addietro, non risultano mai essere state assentite, come dovevano, con i prescritti titoli abilitativi, ragion per cui anche gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza risentono inevitabilmente di tal carattere abusivo.
Diversamente opinando, come pretenderebbe parte ricorrente, un opera ab origine abusiva, solo per il fatto stesso della sua esistenza, legittimerebbe i successivi interventi di manutenzione e/o ristrutturazione a prescindere dai titoli abilitativi richiesti dall’ordinamento.

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7. - Quanto all’intervento di rifacimento della pavimentazione esterna, soltanto a seguito dell’entrata in vigore (30.06.2003) del testo unico edilizia approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380 il legislatore ha sussunto tale intervento tra quelli liberi (art. 6) mentre in precedenza risultava soggetto a denuncia di inizio attività (TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 01.12.2004, n. 2177).
Tanto premesso, le opere in questione risalenti per ammissione degli stessi ricorrenti a diversi anni addietro, non risultano mai essere state assentite, come dovevano, con i prescritti titoli abilitativi, ragion per cui anche gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza risentono inevitabilmente di tal carattere abusivo.
Diversamente opinando, come pretenderebbe parte ricorrente, un opera ab origine abusiva, solo per il fatto stesso della sua esistenza, legittimerebbe i successivi interventi di manutenzione e/o ristrutturazione a prescindere dai titoli abilitativi richiesti dall’ordinamento.
8. - Ne consegue anzitutto l’infondatezza del III motivo (TAR Umbria, sentenza 02.01.2017 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, fatta salva l’ipotesi di contestazioni o incertezza sullo stato dei luoghi.
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9. - Parimenti prive di pregio sono i rimanenti motivi.
10. - Quanto al II motivo basta osservare come, diversamente da quanto asserito dai ricorrenti, l’Amministrazione intimata abbia dato prova dell’effettuazione delle richieste comunicazioni a fine partecipativo.
Ad ogni caso ha rilievo assorbente come per giurisprudenza oramai pacifica in caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive non occorre la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7, L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 12.10.2016, n. 4204; id. sez. V, 09.09.2013, n. 4470) se si eccettua l’ipotesi -non ricorrente nella fattispecie- di contestazioni o incertezza sullo stato dei luoghi (TAR Umbria, sentenza 02.01.2017 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Pertanto l'omesso esercizio da parte dell'amministrazione del potere inibitorio, entro il termine perentorio, dà luogo ad un provvedimento tacito di diniego di adozione del provvedimento inibitorio; in altri termini il titolo si consolida pur non privando l’amministrazione del potere di intervenire, anche successivamente.
Invero, per giurisprudenza costante, l’inutile spirare del termine accordato dalla legge per l'inibizione dei lavori o dell'intervento edilizio preannunciati con una DIA non priva l’amministrazione del potere di controllo urbanistico-edilizio e dell'eventuale potere sanzionatorio in ordine ad interventi realizzati in violazione della pertinente normativa.

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In presenza di una DIA illegittima, l'Amministrazione può intervenire anche oltre il termine di cui all'art. 23, comma 6, D.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni cui la legge subordina il potere di annullamento d'ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della DIA ormai perfezionatasi, dell'affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
Infatti, il termine per l'esercizio del potere inibitorio doveroso, nel caso di DIA, è perentorio, ma anche dopo il suo decorso la P.A. conserva un potere residuale di autotutela; peraltro, tale potere residuale, con il quale l'Amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, deve essere esercitato nel rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, sulla base di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio.
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9.2. L’art. 23 D.P.R. 380/2001, nel testo applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, disponeva al comma 1: “Il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”.
Il successivo comma 6 disponeva: “6. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di appartenenza. È comunque salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia”.
Secondo l’inquadramento fornito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge. Pertanto l'omesso esercizio da parte dell'amministrazione del potere inibitorio, entro il termine perentorio, dà luogo ad un provvedimento tacito di diniego di adozione del provvedimento inibitorio (Cons. Stato, ad. plen., 29.07.2011, n. 15); in altri termini il titolo si consolida pur non privando l’amministrazione del potere di intervenire, anche successivamente.
Invero, per giurisprudenza costante, l’inutile spirare del termine accordato dalla legge per l'inibizione dei lavori o dell'intervento edilizio preannunciati con una DIA non priva l’amministrazione del potere di controllo urbanistico-edilizio e dell'eventuale potere sanzionatorio in ordine ad interventi realizzati in violazione della pertinente normativa (TAR Campania, Napoli, sez. III, 06.02.2015, n. 937).
Tale essendo la natura giuridica della Dichiarazione di inizio attività, se ne deve inferire che, nel caso di specie, il provvedimento che il Comune ha qualificato di rigetto, delle n. 7 DIA di cui si è dato conto in precedenza, deve essere viceversa correttamente qualificato come annullamento in autotutela.
Infatti, in presenza di una DIA illegittima, l'Amministrazione può intervenire anche oltre il termine di cui all'art. 23, comma 6, D.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni cui la legge subordina il potere di annullamento d'ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della DIA ormai perfezionatasi, dell'affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
Infatti, il termine per l'esercizio del potere inibitorio doveroso, nel caso di DIA, è perentorio, ma anche dopo il suo decorso la P.A. conserva un potere residuale di autotutela; peraltro, tale potere residuale, con il quale l'Amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, deve essere esercitato nel rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, sulla base di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio (TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 09.01.2015, n. 241)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 30.12.2016 n. 12891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’art. 7, comma 1, L. 241/1990 prevede che, “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi…..”.
La giurisprudenza ha più volte affermato che la preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio di carattere generale dell’azione amministrativa, diretto a garantire l’instaurazione di un contraddittorio procedimentale tra le parti interessate in relazione a tutti gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della decisione finale, per la salvaguardia del buon andamento e della trasparenza dell’Amministrazione, anche in un’ottica deflattiva del contenzioso, tanto che il contenuto sostanziale del provvedimento finale deve inscriversi nello schema delineato nella comunicazione di avvio del procedimento.
L’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento e di instaurare un contraddittorio effettivo con i soggetti direttamente interessati assume maggior spessore in casi in cui, come quello in esame, l’Amministrazione esercita il potere di autotutela annullando quello che la giurisprudenza ha definito il diniego di esercizio nei termini di legge del potere inibitorio, ossia un’inerzia con cui, di fatto, l’amministrazione ha consentito il consolidarsi di una posizione soggettiva favorevole per l’interessato.
Detto obbligo, dunque, trova la sua ragion d’essere primaria nell’indiscussa idoneità dei provvedimenti cc.dd. di “secondo grado” ad incidere su posizioni giuridiche ormai acquisite e, quindi, sull’affidamento ingenerato negli interessati dagli atti di “primo grado”.

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9.3.1. In primo luogo deve essere rilevato che, la mancata comunicazione di avvio del procedimento ai ricorrenti, proprietari da anni degli immobili su cui l’emanando provvedimento di annullamento delle DIA avrebbe inciso, non può essere considerata un’omissione soltanto formale.
Risulta che il provvedimento impugnato è stato comunicato unicamente ai seguenti soggetti: l'avv. Ol.Ma., procuratrice dei Sig.ri Gi. e Lu.Pa., originari proprietari degli immobili nel 2005 e presentatori delle DIA di cui ai prot. N. 42940 del 28.06.2005 e n. 76846 del 01.12.2005; dott. Gi.Sa., Presidente della società D. S.r.l. che, acquistato nel 2006 il complesso residenziale dai Sig.ri Pa., ha presentato le ulteriori DIA prot. n. 21372 del 28.03.2006, n. 21373 del 28.03.2006, n. 42323 del 27.06.2006, n. 42758 del 19.06.2007 e n. 42763 del 19.06.2007; arch. Ma.Si., in qualità di progettista e direttore dei lavori.
L’art. 7, comma 1, L. 241/1990 prevede che, “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi…..”.
La giurisprudenza ha più volte affermato che la preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio di carattere generale dell’azione amministrativa, diretto a garantire l’instaurazione di un contraddittorio procedimentale tra le parti interessate in relazione a tutti gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della decisione finale, per la salvaguardia del buon andamento e della trasparenza dell’Amministrazione, anche in un’ottica deflattiva del contenzioso, tanto che il contenuto sostanziale del provvedimento finale deve inscriversi nello schema delineato nella comunicazione di avvio del procedimento (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. I, 06.07.2016, n. 1596; id., Napoli, Sez. IV, 09.06.2016, n. 2927).
L’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento e di instaurare un contraddittorio effettivo con i soggetti direttamente interessati assume maggior spessore in casi in cui, come quello in esame, l’Amministrazione esercita il potere di autotutela annullando quello che la giurisprudenza ha definito il diniego di esercizio nei termini di legge del potere inibitorio, ossia un’inerzia con cui, di fatto, l’amministrazione ha consentito il consolidarsi di una posizione soggettiva favorevole per l’interessato.
Detto obbligo, dunque, trova la sua ragion d’essere primaria nell’indiscussa idoneità dei provvedimenti cc.dd. di “secondo grado” ad incidere su posizioni giuridiche ormai acquisite e, quindi, sull’affidamento ingenerato negli interessati dagli atti di “primo grado” (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 08.11.2016, n. 11054; id. Latina, Sez. I, 31.08.2016, n. 536; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 08.06.2016, n. 1141).
L’obiezione per cui, data la radicale non conformità urbanistica ed edilizia dell’intero complesso immobiliare, il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, secondo i dettami dell’art. 21-octies L. 241/1990, nel caso di specie non può trovare ingresso, sia per un profilo squisitamente giuridico, ossia la natura, testé evidenziata, di provvedimento di secondo grado dell’annullamento impugnato, sia per ragioni fattuali atteso che, proprio l’enormità e complessità della situazione su cui il provvedimento avrebbe inciso (il futuro di 55 famiglie), avrebbe postulato di per sé sola la necessità dell’instaurazione del contraddittorio
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 30.12.2016 n. 12891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'art. 21-nonies L. 241/1990 prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
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9.3.2. Parimenti fondate sono le ulteriori censure formulate dai ricorrenti, segnatamente laddove, nel sottolineare il lungo tempo trascorso (oltre 7 anni) dalla presentazione delle DIA al loro annullamento, denunciano da una parte la grave lesione dell’affidamento ingenerato negli acquirenti in buona fede degli immobili, circa la regolarità edilizia e urbanistica di quanto acquistato e, dall’altra, la totale assenza di considerazione degli interessi in gioco e, dunque, la radicale assenza di bilanciamento fra le ragioni degli incolpevoli proprietari e l’interesse pubblico a ristabilire la legalità dopo così tanto tempo, interesse neanche enunciato.
Infatti l’impugnato provvedimento si connota per una inusuale laconicità, limitandosi esclusivamente ad enunciare l’avvenuto riscontro di irregolarità procedurali.
Ribadito che, nel caso di specie, quello adottato è un provvedimento di annullamento in autotutela e non già di “rigetto”, va rammentato che l'art. 21-nonies L. 241/1990 prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l'esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) sia la valutazione motivata della posizione dei soggetti finali, destinatari del titolo edilizio, ossia dell’affidamento in essi ingenerato.
Nel caso in esame tale affidamento è, peraltro, particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall'adozione delle DIA annullate, risultando trascorsi ben sette anni dal consolidamento della prima di esse e cinque dalla dichiarazione di fine lavori (per una fattispecie analoga, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762).
In definitiva, nella complessa vicenda all’esame del Collegio, non è revocabile in dubbio che l’intero complesso edilizio di via ... sia abusivo, sebbene per ragioni e in misura diverse per ciascun fabbricato
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 30.12.2016 n. 12891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANulla osta a che il privato proponente un piano attuativo, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, assuma in sede di convenzione urbanistica obblighi, di fare e/o di dare, ulteriori ed eccedenti rispetto a quelli discendenti dalla legge.
La convenzione urbanistica, infatti, rientra nel novero degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, e vede combinarsi insieme poteri pubblicistici (dell’Amministrazione), con quelli privatistici (di entrambi i contraenti) di autoregolare il proprio assetto di interessi, con l’assunzione di reciproci obblighi e correlati diritti di credito.
E, dunque, nell’equilibrio del sinallagma contrattuale cristallizzato nella convenzione urbanistica l’obbligo di rendere prestazioni eccedenti il minimo legale ben può risultare giustificato dai benefici che la convenzione consente comunque al privato di conseguire.

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8.4.2. In secondo luogo, come questo Tribunale ha già affermato (sentenza n. 541/2016), nulla osta a che il privato proponente un piano attuativo, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, assuma in sede di convenzione urbanistica obblighi, di fare e/o di dare, ulteriori ed eccedenti rispetto a quelli discendenti dalla legge.
La convenzione urbanistica, infatti, rientra nel novero degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, e vede combinarsi insieme poteri pubblicistici (dell’Amministrazione), con quelli privatistici (di entrambi i contraenti) di autoregolare il proprio assetto di interessi, con l’assunzione di reciproci obblighi e correlati diritti di credito (cfr., TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, sentenza n. 1099/2014).
E, dunque, nell’equilibrio del sinallagma contrattuale cristallizzato nella convenzione urbanistica l’obbligo di rendere prestazioni eccedenti il minimo legale ben può risultare giustificato dai benefici che la convenzione consente comunque al privato di conseguire (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 5603/2013) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 30.12.2016 n. 589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAViene in giurisprudenza generalmente riconosciuto che il Comune è tenuto a rispondere espressamente alla domanda con la quale i proprietari di immobili terreni limitrofi a quello interessato da un supposto abuso edilizio chiedano l’adozione di provvedimenti repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad assumere gli stessi.
Allo stesso modo si riconosce che qualunque soggetto che si trovi in una stabile relazione con il territorio sottoposto ad un intervento urbanistico-edilizio è titolare di un interesse qualificato ad ottenere una pronuncia espressa da parte dell'amministrazione sull'istanza di adozione di misure repressive dell'abuso edilizio.
Una situazione di "stabile collegamento" con la zona interessata dall'attività edilizia, che legittima un soggetto ad agire, può derivare dalla proprietà o dal possesso di un immobile ovvero dalla residenza o domicilio in detta zona o da altro titolo di frequentazione di quest'ultima.
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... per l'annullamento del silenzio-rifiuto a provvedere del Comune di Gricignano D'Aversa formatosi sull'atto di invito e diffida del 28.07.2016.
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FATTO
Le parti ricorrenti espongono di essere residenti in Gricignano d'Aversa, in via ... 12, in un lotto limitrofo ad un immobile di proprietà del sig. Bo.Ma..
Con concessione edilizia n. 50 del 16.07.2002, il Comune di Gricignano d'Aversa ha assentito la realizzazione in via Mania di quattro villette unifamiliari da realizzare in due corpi di fabbrica distinti, costituiti da due villette a schiera ciascuno e posizionati a distanza di 10 metri l'uno dall'altro.
I sigg.ri Be.Lu. e Bo.Ma. edificavano congiuntamente il rustico delle unità immobiliari di cui al titolo autorizzativo e poi procedevano alla divisione della unità abitative, attribuendo l'unità immobiliare prospiciente via Mameli, civico 14, al sig. Bo.Ma. e le altre unità ai figli del sig. Be.Lu., tra cui la ricorrente Be.Ca..
I coniugi Be.Ca. e Sa.Fi. completavano la realizzazione della propria unità immobiliare conformemente al titolo abilitativo.
Questi ultimi sostengono che, al contrario, il sig. Bo.Ma., proprietario dell'immobile limitrofo, procedeva al completamento della propria unità immobiliare in totale difformità dalla concessione edilizia n. 50/2002, trasformando il fabbricato di sua proprietà in tre mini appartamenti, uno per ogni piano, a uso abitativo. Realizzava, inoltre, un ampliamento del manufatto di oltre il 100% del volume assentito, peraltro su un'area che il P.R.G. del Comune di Gricignano d'Aversa prevede tassativamente essere "Fascia di Rispetto Stradale". Costruiva, infine, all'interno del portico, un mini appartamento di altezza m 2,50, ovverosia inferiore al limite consentito dalle normative tecniche di attuazione del P.R.G.
Be.Lu. e Fi.Sa. segnalavano la situazione di supposta abusività al Comune di Gricignano, in data 16.01.2013.
Con ulteriore atto di segnalazione e denuncia, prot. 1343 del 25.02.2013, gli stessi esortavano ulteriormente l'amministrazione a provvedere in relazione agli abusi segnalati.
Lu.Be., padre della ricorrente, in data 07.03.2013, presentava querela nei confronti del sig. Bo.Ma., per abusivismo edilizio, in riferimento ai lavori dallo stesso realizzati presso l'immobile di sua proprietà.
In data 14.06.2014, Lu.Be. e il ricorrente Sa.Fi. inoltravano formale atto di invito e diffida al Comune di Gricignano d'Aversa di provvedere in ordine agli abusi segnalati.
Con ricorso iscritto al RG. n. 5792/14, le parti ricorrenti adivano questo TAR per ottenere l'annullamento del silenzio-rifiuto serbato sull'atto di invito e diffida e la condanna dell'ente a provvedere.
Con sentenza n. 1387/15 veniva accolto il ricorso e dichiarata l'illegittimità del silenzio-rifiuto serbato dal Comune di Gricignano d'Aversa, con riferimento all'istanza dei ricorrenti di voler accertare gli abusi edilizi realizzati e di adottare i conseguenti eventuali provvedimenti repressivi nell'esercizio della funzione di vigilanza, di cui all'art. 27 DPR 380/2001.
Veniva quindi disposto l'obbligo del Comune intimato di provvedere entro trenta giorni e nominato, per il caso di persistente inadempienza, il commissario ad acta nella persona del Prefetto di Caserta con facoltà di delega. Spirati infruttuosamente i termini assegnati, si insediava il commissario ad acta nella persona della dott.ssa St.Mu..
Successivamente all'insediamento del commissario ad acta, il Comune rilasciava al Bo.Ma. il condono edilizio, ex lege n. 326/03, n. 710 del 27.05.2015, per gli abusi edilizi in questione.
I ricorrenti impugnavano il condono edilizio dinanzi a questo TAR, con ricorso iscritto al RG. n. 4586/15, tutt'ora pendente.
Con successiva determinazione n. CE2003/87FAB, prot. n. 2405 del 07.03.2016, il Comune, riscontrando l'effettiva insanabilità degli abusi in quanto ricadenti su fascia di rispetto stradale e, come tali, insuscettibili di sanatoria, annullava il provvedimento di condono n. 710/2015, determinando la reviviscenza -in tutta la sua dimensione- degli abusi più e più volte segnalati dai ricorrenti.
Il Commissario ad acta, con nota del 27.04.2016, chiedeva chiarimenti sulle modalità di esecuzione dell'incarico e l’adito TAR, con ordinanza n. 3507 dell'08.07.2016, considerava ultimata l'attività del Commissario ad acta, stante il venir meno del silenzio del Comune con l’annullamento del titolo edilizio in sanatoria n. 710/2015.
Le parti ricorrenti invitavano, quindi, in data 28.07.2016, nuovamente il Comune di Gricignano d'Aversa ad intervenire sugli abusi edilizi segnalati, senza tuttavia ottenere riscontro, nonostante lo spirare dei termini procedimentali per provvedere.
Le medesime parti ricorrenti agiscono in questa sede affinché venga acclarata l’illegittimità del silenzio inadempimento a provvedere e venga ordinato all’Amministrazione intimata di provvedere, nominando, sin da ora, ex art. 117, comma 3, c.p.a., un commissario ad acta, affinché provveda in via sostitutiva in caso di inosservanza del termine assegnato. Con condanna alle spese ex art. 96 c.p.c. e 26 c.p.a.
Il Comune di Gricignano e il controinteressato non si sono costituiti in giudizio.
DIRITTO
Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
Viene in giurisprudenza generalmente riconosciuto che il Comune è tenuto a rispondere espressamente alla domanda con la quale i proprietari di immobili terreni limitrofi a quello interessato da un supposto abuso edilizio chiedano l’adozione di provvedimenti repressivi (Cons. Stato, 09.11.2015, n. 5087) e, ove sussistano le condizioni, anche ad assumere gli stessi (TAR Lazio Latina, 24.10.2003, n. 876; Consiglio Stato, sez. V, 26.11.1994, n. 1381).
Allo stesso modo si riconosce che qualunque soggetto che si trovi in una stabile relazione con il territorio sottoposto ad un intervento urbanistico-edilizio è titolare di un interesse qualificato ad ottenere una pronuncia espressa da parte dell'amministrazione sull'istanza di adozione di misure repressive dell'abuso edilizio (TAR Toscana, sez. III, 19.06.1991, n. 303).
Una situazione di "stabile collegamento" con la zona interessata dall'attività edilizia, che legittima un soggetto ad agire, può derivare dalla proprietà o dal possesso di un immobile ovvero dalla residenza o domicilio in detta zona o da altro titolo di frequentazione di quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. IV, 07.02.2002, n. 727).
Nel caso di specie risulta che le parti ricorrenti sono proprietarie di un immobile sito nelle vicinanze di quello dove si è stata lamentata l’asserita situazione di irregolarità edilizia.
L’istanza del ricorrente era volta a stimolare i poteri di vigilanza e repressivi della pubblica amministrazione in materia edilizia ed, in particolare, alla verifica dell’abusività del manufatto per essere stato costruito in difformità del titolo abilitativo edilizio e per la sua parziale insistenza sulla fascia di rispetto stradale.
Essendo stato annullato in via d’ufficio il condono edilizio, il Comune aveva l’obbligo di procedere nei confronti dell’istanza del privato, pronunciandosi espressamente in merito e, qualora ne ricorressero i presupposti, di provvedere alla repressione dell’abuso.
Conseguentemente parte ricorrente ben poteva contestare l’inerzia dell’amministrazione ed adire il giudice amministrativo, ex art. 117 c.p.a., sussistendo gli estremi del silenzio inadempimento.
Il ricorso va, quindi, accolto nei termini suindicati con declaratoria dell’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi espressamente sull’istanza formulata da parte ricorrente e, se del caso, di assumere i necessari provvedimenti repressivi, entro 30 (trenta) giorni dalla comunicazione o, se precedente, dalla notificazione della presente decisione, portandoli a esecuzione.
Decorso tale termine, in caso di perdurante inerzia, provvederà all’adozione dei provvedimenti indicati, entro l’ulteriore termine di giorni 30 (trenta), il Commissario ad acta all’uopo nominato sin d’ora nella persona del Prefetto di Caserta, con facoltà di subdelega a un funzionario del suo ufficio.
Le spese per l’espletamento dell’eventuale funzione commissariale saranno poste a carico del Comune e si liquidano, sin d’ora, nella misura di Euro 1.000,00.
Non può, invece, essere accolta la domanda di responsabilità aggravata ex 96 c.p.c. e 26 c.p.a., in quanto quest’ultima presuppone una colpa grave o, comunque, un’imprudenza che non è stato dimostrato ricorra nel caso in questione.
La presente sentenza viene trasmessa, al passaggio in giudicato, in via telematica, ai sensi dell’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del 1990, alla Corte dei Conti, Procura regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la regione Campania Napoli.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Ottava), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara illegittimo il silenzio tenuto dal Comune di Gricignano di Aversa sull’istanza dei ricorrenti e ordina allo stesso di provvedere adottando, al ricorrere dei presupposti, i necessari provvedimenti repressivi e ripristinatori, entro 30 (trenta) giorni dalla comunicazione o, se precedente, dalla notifica della presente decisione.
Nomina, per il caso di perdurante inerzia decorso tale termine, quale Commissario ad acta il Prefetto di Caserta, con facoltà di subdelega. Le spese dell’eventuale funzione commissariale saranno poste a carico del Comune e si liquidano nella misura di Euro 1.000,00.
Condanna il Comune di Gricignano di Aversa alla rifusione delle spese di lite in favore della ricorrente, liquidate in complessivi euro 1.500,00, oltre IVA e CPA, se dovuti, e alla refusione del contributo unificato qualora dovuto e versato.
Dispone la trasmissione della presente pronuncia, al suo passaggio in giudicato, alla Corte dei conti – Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione Campania–Napoli, ai sensi dell’art. 2 L. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 29.12.2016 n. 6006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAPer costante orientamento giurisprudenziale, alla DIA non si applica il preavviso di cui al citato art. 10-bis.
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Coglie nel segno la censura secondo cui il Comune avrebbe esercitato i propri poteri inibitori oltre il termine di 30 giorni di cui all’art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001; l’intervento del Comune, quindi, stante il carattere perentorio del termine in questione, sarebbe avvenuto in un momento ormai successivo al perfezionamento della fattispecie legittimante riconducibile alla DIA.
Al riguardo, occorre soffermarsi sul tenore testuale del citato art. 23, comma 6, ai sensi del quale “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all’interessato l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l’autorità giudiziaria e il consiglio dell’ordine di appartenenza. È comunque salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia”.
La norma, quindi, dispone che il dirigente (o il responsabile del competente ufficio comunale) notifichi all’interessato (senza che sia stabilito all’uopo un termine preciso) l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento qualora, entro il termine di cui al comma 1 (i.e.: 30 giorni dalla presentazione della DIA), sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite.
In altri termini, dalla formulazione letterale della disposizione può desumersi che l’Amministrazione, entro il termine de quo, è tenuta ad adottare il provvedimento inibitorio (pur non essendo tenuta anche a notificarlo nello stesso termine).
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Al riguardo, occorre precisare che per data di adozione dell’atto deve intendersi, per esigenze di trasparenza e certezza, quella di registrazione dell’atto al protocollo dell’Ente, e non quella della semplice sottoscrizione dell’atto da parte del dirigente o responsabile dell’ufficio.
La sottoscrizione di un documento amministrativo e la sua registrazione al protocollo, infatti, sono due momenti dell’iter di adozione del documento che assolvono a finalità diverse.
La sottoscrizione riguarda la validità dell’atto amministrativo e consente di imputare lo stesso, e i suoi effetti, all’ente cui è riconducibile il funzionario sottoscrittore.
La registrazione di protocollo, invece, è disciplinata ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa) e dalle regole tecniche sul protocollo informatico e certifica l’ingresso o l’uscita del documento dall’Amministrazione.
Nel caso specifico dei documenti in uscita la registrazione di protocollo avviene sul documento già formato e già sottoscritto secondo le modalità previste dal particolare procedimento, fissando il momento a partire dal quale l’atto può “uscire” dalla sfera dell’Amministrazione.
È ben possibile, quindi, che la data di sottoscrizione non coincida con quella di protocollo dell’atto. D’altra parte, l’esecuzione corretta dell’operazione di registrazione di protocollo, così come definita nel d.P.R. n. 445/2000 e nelle regole tecniche sul protocollo informatico, richiede che la firma o la sottoscrizione del documento sia sempre apposta prima della registrazione stessa.
Il protocollo costituisce uno strumento di trasparenza dell’attività amministrativa, che consente di assegnare a un documento due dati fondamentali per la sua efficacia come fonte di prova, affidabile e opponibile ai terzi: la data certa e la provenienza certa.
In quest’ottica, in caso di discrasia tra la data della sottoscrizione dell’atto e quella di segnatura di protocollo dello stesso, è quest’ultima ad essere opponibile ai terzi.
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Ai sensi delle previsioni contenute nell’art. 23 del d.P.R. n. 380/2001, è illegittimo l’operato dell’Amministrazione comunale che, in presenza di una denuncia di inizio attività per la realizzazione di un intervento edilizio (oggi SCIA), adotta provvedimenti di diffida a non proseguire le opere, di sospensione dei lavori o di demolizione dopo che sia decorso il termine di trenta giorni previsto per il consolidamento del titolo, senza fare previo ricorso agli strumenti dell’autotutela.
Invero, non può essere revocato in dubbio che qualsivoglia intervento il Comune intenda esercitare sull’assetto di interessi risultante da una DIA (oggi SCIA) già perfetta ed efficace, la relativa attività deve necessariamente esplicarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il riesame di un’autorizzazione implicita che ha già determinato la piena espansione del cd. ius aedificandi.
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Nella fattispecie, deve ritenersi conclusivamente che, al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, si fosse consolidata la legittimazione del privato ad eseguire l’intervento edilizio conseguente alla sua denuncia d’inizio attività e all’inerzia dell’Amministrazione la quale, ritenendo di doversi tardivamente opporre all’intervento, non poteva limitarsi a diffidare la ricorrente a non proseguire le opere intraprese, dovendo previamente provvedere, in via di autotutela, alla rimozione del provvedimento implicito (il cui esercizio deve peraltro essere coordinato con il principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell’attività amministrativa).
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1. La ricorrente, premesso di avere presentato al Comune di Milano denuncia d’inizio attività per eseguire opere di ristrutturazione edilizia e di recupero abitativo di un sottotetto, ha impugnato gli atti con i quali il Comune ha comunicato il parere negativo della commissione edilizia e diffidato l’interessata “dall’iniziare o dal proseguire le opere eventualmente intraprese nel fabbricato in questione”.
...
2. Il ricorso è fondato; di seguito le motivazioni della sentenza, rese nella forma redazionale semplificata di cui all’art. 74 c.p.a.
2.1. Con il primo motivo la ricorrente deduce che il Comune ha omesso di comunicare i motivi ostativi all’accoglimento della richiesta, così violando l’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990.
Sul punto, il Collegio rileva che, per costante orientamento giurisprudenziale, alla DIA non si applica il preavviso di cui al citato art. 10-bis (TAR Veneto, n. 3418/2005; C.d.S., sez IV, n. 4828/2007; v. inoltre, con riguardo alla SCIA, TAR Veneto, n. 875/2014).
La censura, pertanto, va respinta.
2.2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce che il Comune avrebbe esercitato i propri poteri inibitori oltre il termine di 30 giorni di cui all’art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001; l’intervento del Comune, quindi, stante il carattere perentorio del termine in questione, sarebbe avvenuto in un momento ormai successivo al perfezionamento della fattispecie legittimante riconducibile alla DIA.
La censura coglie nel segno.
2.2.1. Al riguardo, occorre soffermarsi sul tenore testuale del citato art. 23, comma 6, ai sensi del quale “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica all’interessato l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del professionista abilitato, informa l’autorità giudiziaria e il consiglio dell’ordine di appartenenza. È comunque salva la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività, con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa urbanistica ed edilizia”.
La norma, quindi, dispone che il dirigente (o il responsabile del competente ufficio comunale) notifichi all’interessato (senza che sia stabilito all’uopo un termine preciso) l’ordine motivato di non effettuare il previsto intervento qualora, entro il termine di cui al comma 1 (i.e.: 30 giorni dalla presentazione della DIA), sia riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni stabilite. In altri termini, dalla formulazione letterale della disposizione può desumersi che l’Amministrazione, entro il termine de quo, è tenuta ad adottare il provvedimento inibitorio (pur non essendo tenuta anche a notificarlo nello stesso termine).
2.2.2. Al riguardo, occorre precisare che per data di adozione dell’atto deve intendersi, per esigenze di trasparenza e certezza, quella di registrazione dell’atto al protocollo dell’Ente, e non quella della semplice sottoscrizione dell’atto da parte del dirigente o responsabile dell’ufficio.
La sottoscrizione di un documento amministrativo e la sua registrazione al protocollo, infatti, sono due momenti dell’iter di adozione del documento che assolvono a finalità diverse.
La sottoscrizione riguarda la validità dell’atto amministrativo e consente di imputare lo stesso, e i suoi effetti, all’ente cui è riconducibile il funzionario sottoscrittore.
La registrazione di protocollo, invece, è disciplinata ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa) e dalle regole tecniche sul protocollo informatico e certifica l’ingresso o l’uscita del documento dall’Amministrazione.
Nel caso specifico dei documenti in uscita la registrazione di protocollo avviene sul documento già formato e già sottoscritto secondo le modalità previste dal particolare procedimento, fissando il momento a partire dal quale l’atto può “uscire” dalla sfera dell’Amministrazione.
È ben possibile, quindi, che la data di sottoscrizione non coincida con quella di protocollo dell’atto. D’altra parte, l’esecuzione corretta dell’operazione di registrazione di protocollo, così come definita nel d.P.R. n. 445/2000 e nelle regole tecniche sul protocollo informatico, richiede che la firma o la sottoscrizione del documento sia sempre apposta prima della registrazione stessa.
Il protocollo costituisce uno strumento di trasparenza dell’attività amministrativa, che consente di assegnare a un documento due dati fondamentali per la sua efficacia come fonte di prova, affidabile e opponibile ai terzi: la data certa e la provenienza certa.
In quest’ottica, in caso di discrasia tra la data della sottoscrizione dell’atto e quella di segnatura di protocollo dello stesso, è quest’ultima ad essere opponibile ai terzi.
2.2.3. Ciò posto, alla luce degli atti di causa emerge che:
- l’interessata ha presentato la DIA presso gli uffici del Consiglio di Zona n. 2 del Comune di Milano in data 08.02.2005;
- il Comune, con nota datata 01.03.2005, protocollata il 04.03.2005 e ricevuta dalla ricorrente in data 11.03.2005, ha comunicato alla stessa l’incompletezza della documentazione prodotta con la DIA, disponendone l’integrazione, così interrompendo il termine di cui all’art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001;
- la ricorrente ha adempiuto alla richiesta di integrazione il 31.03.2005 e da tale data ha iniziato a decorrere nuovamente il termine di 30 giorni previsto dal citato art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001;
- il Comune, con la nota datata 19.04.2005, protocollata il 16.05.2005 e notificata in data 24.05.2005, ha comunicato all’interessata il parere negativo della commissione edilizia e la diffida dall’iniziare o proseguire le opere.
2.2.4. Orbene, la semplice esposizione dei fatti consente di concludere che il provvedimento impugnato risulta adottato oltre il termine di 30 giorni di cui al combinato disposto dei commi 1 e 6 dell’art. 23 del d.P.R. n. 380/2001.
Tale termine, infatti, come visto, a seguito dell’integrazione documentale da parte della ricorrente ha iniziato nuovamente a decorrere il 31.03.2005, mentre il Comune ha protocollato la nota in questione solamente in data 16.05.2005 (peraltro a distanza di quasi un mese dalla data apposta sull’atto, che, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, coincide con la data della sottoscrizione); ne consegue che il Comune, nella fattispecie, ha esercitato i propri poteri tardivamente.
2.2.5. Ciò premesso, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo cui, ai sensi delle previsioni contenute nell’art. 23 del d.P.R. n. 380/2001, è illegittimo l’operato dell’Amministrazione comunale che, in presenza di una denuncia di inizio attività per la realizzazione di un intervento edilizio (oggi SCIA), adotta provvedimenti di diffida a non proseguire le opere, di sospensione dei lavori o di demolizione dopo che sia decorso il termine di trenta giorni previsto per il consolidamento del titolo, senza fare previo ricorso agli strumenti dell’autotutela (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 7730/2009; Id., n. 2558/2010; TAR Campania, Sez. II, 25.06.2005, n. 8707/2005; Id., n. 2093/2008; Id., Sez. VIII, n. 5200/2009; T.A.R Piemonte, Sez. I, n. 3382/2006; TAR Liguria, Sez. I, n. 2583/2010; TAR Calabria–Catanzaro, Sez. I, n. 283/2014).
Invero, non può essere revocato in dubbio che qualsivoglia intervento il Comune intenda esercitare sull’assetto di interessi risultante da una DIA (oggi SCIA) già perfetta ed efficace, la relativa attività deve necessariamente esplicarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il riesame di un’autorizzazione implicita che ha già determinato la piena espansione del cd. ius aedificandi (TAR Campania-Napoli, n. 3205/2012).
Per tali ragioni, deve ritenersi conclusivamente che, al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, si fosse consolidata la legittimazione del privato ad eseguire l’intervento edilizio conseguente alla sua denuncia d’inizio attività e all’inerzia dell’Amministrazione la quale, ritenendo di doversi tardivamente opporre all’intervento, non poteva limitarsi a diffidare la ricorrente a non proseguire le opere intraprese, dovendo previamente provvedere, in via di autotutela, alla rimozione del provvedimento implicito (il cui esercizio deve peraltro essere coordinato con il principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato nei confronti dell’attività amministrativa: cfr. C.d.S., n. 5811/2008).
2.3. Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbito l’ultimo motivo, il ricorso è fondato e va accolto, con il conseguente annullamento del provvedimento gravato (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.12.2016 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATAL'art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 stabilisce che “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale”.
L’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, dispone che “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.
Orbene, le richiamate previsioni attribuiscono al Sindaco il potere di adottare i provvedimenti necessari a fronteggiare particolari emergenze, che devono essere individuabili in maniera chiara nei loro tratti distintivi; tali provvedimenti, infatti, si caratterizzano per il fatto di prevedere misure che, seppure eccezionalmente atipiche ed extra ordinem, devono pur sempre essere “calibrate” in relazione alle dimensioni, alla portata e alla gravità dell’emergenza stessa e, per tale ragione, sono destinate a esaurire i propri effetti con il cessare della situazione di pericolo che ne ha reso necessaria l’adozione.
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Nella fattispecie, è illegittima l'ordinanza sindacale con la quale è stato disposta la chiusura dell’attività, compresa la somministrazione di alimenti e bevande, annullandone contestualmente la relativa SCIA, laddove nel provvedimento in questione il sindaco:
- non ha individuato né descritto in motivazione una particolare situazione di emergenza, riconducibile alle previsioni di cui ai citati artt. 50 e 54;
- non ha adottato, conseguentemente, misure specificamente volte a fronteggiare quel determinato tipo di emergenze.
Al contrario, il Sindaco, sul presupposto che “i locali utilizzati dall’attività di […] non hanno le caratteristiche per essere considerati agibili”, ha disposto la chiusura –da intendersi come definitiva– dell’attività e l’annullamento della relativa SCIA, risalente peraltro al 2010.
In questo modo, tuttavia, il Sindaco, lungi dall’esercitare i poteri di cui agli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000, ha esorbitato dalle proprie competenze, esercitando funzioni che sono invece attribuite ai dirigenti comunali ai sensi dell’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, a tenore del quale “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108”.
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Anche la competenza in ordine ai provvedimenti (di tipo ordinario, e non caratterizzati da alcuna urgenza) di cui all’art. 222 del r.d. n. 1265/1934 è da ricondursi al personale dirigente, come risulta indirettamente confermato dal testo dell’art. 24, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, il quale, sostituendo gli artt. 220 e 221 del r.d. n. 1265/1934, prevede che “il certificato di agibilità viene rilasciato dal dirigente o dal responsabile del competente Ufficio comunale” (dal che deve ritenersi che anche un’eventuale dichiarazione di inagibilità non possa che essere adottata da tali organi).
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2.1. Va dapprima esaminato il ricorso principale, volto a censurare l’ordinanza n. 19/2015, con la quale il Sindaco di Torre d’Isola ha disposto nei confronti della ricorrente la chiusura dell’attività di -OMISSIS-, compresa la somministrazione di alimenti e bevande, annullandone contestualmente la relativa SCIA.
Al riguardo, osserva il Collegio che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa comunale, tale ordinanza non può essere ricondotta alla categoria di provvedimenti che il Sindaco può adottare ai sensi degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico enti locali); ciò può desumersi dal confronto tra il contenuto delle disposizioni citate e le decisioni adottate concretamente dal Sindaco nella vicenda in esame.
L’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 stabilisce che “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale”.
L’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, dispone che “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.
Orbene, le richiamate previsioni attribuiscono al Sindaco il potere di adottare i provvedimenti necessari a fronteggiare particolari emergenze, che devono essere individuabili in maniera chiara nei loro tratti distintivi; tali provvedimenti, infatti, si caratterizzano per il fatto di prevedere misure che, seppure eccezionalmente atipiche ed extra ordinem, devono pur sempre essere “calibrate” in relazione alle dimensioni, alla portata e alla gravità dell’emergenza stessa e, per tale ragione, sono destinate a esaurire i propri effetti con il cessare della situazione di pericolo che ne ha reso necessaria l’adozione.
Nella fattispecie, invece, il Sindaco, con il provvedimento in questione:
- non ha individuato né descritto in motivazione una particolare situazione di emergenza, riconducibile alle previsioni di cui ai citati artt. 50 e 54;
- non ha adottato, conseguentemente, misure specificamente volte a fronteggiare quel determinato tipo di emergenze.
Al contrario, il Sindaco, sul presupposto che “i locali utilizzati dall’attività di -OMISSIS- […] non hanno le caratteristiche per essere considerati agibili”, ha disposto la chiusura –da intendersi come definitiva– dell’attività e l’annullamento della relativa SCIA, risalente peraltro al 2010; in questo modo, tuttavia, il Sindaco, lungi dall’esercitare i poteri di cui agli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000, ha esorbitato dalle proprie competenze, esercitando funzioni che sono invece attribuite ai dirigenti comunali ai sensi dell’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, a tenore del quale “Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108”.
L’ordinanza impugnata, in altri termini, è viziata sotto il profilo del difetto di competenza, e per questa ragione va annullata, con assorbimento di ogni altra censura, secondo il costante orientamento della giurisprudenza.
Pertanto, il ricorso principale è fondato e va accolto.
2.2. Con i motivi aggiunti la ricorrente ha impugnato l’ordinanza con la quale il Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale ha revocato il certificato di agibilità rilasciato per i locali del -OMISSIS-, ordinando contestualmente la chiusura immediata dell’attività di -OMISSIS- –compresa la somministrazione di alimenti e bevande– e annullando la SCIA relativa all’inizio dell’attività in questione per mancanza dei presupposti di agibilità e salubrità dei locali.
2.3. Va esaminato, in primo luogo, il motivo con il quale la ricorrente deduce l’incompetenza del responsabile dell’U.T.C. ad adottare la dichiarazione di inagibilità.
Secondo la ricorrente il provvedimento in questione avrebbe dovuto essere adottato dal Sindaco, e non dal responsabile dell’U.T.C., ai sensi dell’art. 222 del r.d. n. 1265/1934 -richiamato dall’art. 26 del d.P.R. n. 380/2001– a tenore del quale “il podestà, sentito l’ufficiale sanitario o su richiesta del medico provinciale, può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero”.
Sul punto, il Collegio fa proprio l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale anche la competenza in ordine ai provvedimenti (di tipo ordinario, e non caratterizzati da alcuna urgenza) di cui all’art. 222 del r.d. n. 1265/1934 è da ricondursi al personale dirigente, come risulta indirettamente confermato dal testo dell’art. 24, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, il quale, sostituendo gli artt. 220 e 221 del r.d. n. 1265/1934, prevede che “il certificato di agibilità viene rilasciato dal dirigente o dal responsabile del competente Ufficio comunale” (dal che deve ritenersi che anche un’eventuale dichiarazione di inagibilità non possa che essere adottata da tali organi; cfr. TAR Campania-Salerno, Sez. II, n. 1513/2005).
La censura, pertanto, è infondata e va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.12.2016 n. 2486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La DIA/SCIA, una volta decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace, che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990.
Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto dalla legge per verificare la sussistenza dei relativi presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela adottato senza le garanzie e i presupposti richiesti dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.

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Per analoghe considerazioni l’ordinanza impugnata è illegittima anche nella parte in cui dispone la chiusura definitiva dell’attività di -OMISSIS- e l’annullamento della relativa SCIA.
Con riferimento all’annullamento della SCIA, inoltre, occorre rilevare che il Comune non ha tenuto conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dell’attività assentita per effetto della SCIA ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del lungo lasso di tempo (risalendo la SCIA al 2010).
La DIA/SCIA, una volta decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace, che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990. Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto dalla legge per verificare la sussistenza dei relativi presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela adottato senza le garanzie e i presupposti richiesti dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio (cfr., in questi termini, C.d.S., Sez. VI, n. 4780/2014; TAR Lazio–Roma, n. 192/2015; TAR Veneto, Sez. III, n. 958/2015).
2.4.4. In ragione delle suesposte considerazioni, il ricorso e i motivi aggiunti sono fondati e vanno accolti, con il conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati.
Resta fermo che, laddove il Comune dovesse ritenere sussistente una situazione di pericolo per l’igiene, la sanità o l’incolumità pubbliche, l’organo competente potrà adottare le misure ritenute più opportune in relazione al caso concreto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.12.2016 n. 2486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione delle istanze con le quali i ricorrenti, a vario titolo, tentano di regolarizzare parte delle opere descritte nell’ordinanza di demolizione oggetto dell’odierno ricorso hanno valore confessorio e, quindi, è acclarata la loro realizzazione in difformità dal titolo edilizio precedentemente conseguito.
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Le richieste di sanatoria presentate ai sensi degli artt. 36 e 37, d.P.R. n. 380 del 2001, successivamente alla data di adozione dei provvedimenti repressivi, non possono incidere sull'efficacia e sulla legittimità dell'impugnato provvedimento demolitorio.
L'istanza di accertamento di conformità, quand'anche fosse presentata e fosse ancora pendente, non avrebbe comunque avuto alcuna influenza sul piano della legittimità dell'ordine di demolizione, potendo, al più, essere condizionata, entro i limiti temporali di legge, la possibilità di portarla ad esecuzione.
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7) Osserva il Collegio che i ricorrenti in data 10.12.2009 -quindi dopo l’adozione dell’ordinanza impugnata datata 08.09.2009, e non prima come affermato- hanno presentato istanza di rilascio di titolo edilizio per recupero ai fini abitativi di sottotetto ai sensi della L.R. n. 13/2009.
Successivamente, con nota del 21.06.2010, hanno chiesto al Comune che la suddetta istanza venisse esaminata “per le opere già realizzate in difformità dalla DIA n. 230/2007 presentata in data 20.03.2007, come accertamento di conformità ai sensi del combinato disposto dell’art. 36 del DPR 380/2001”.
Infine, in data 12.11.2013, hanno presentato una DIA ad oggetto l’adeguamento del sottotetto alla normativa vigente ai sensi della L.R. n. 13/2009 e la ristrutturazione dei magazzini esterni.
8) Tanto premesso, è evidente che le succitate istanze con le quali i ricorrenti, a vario titolo, tentano di regolarizzare parte delle opere descritte nell’ordinanza di demolizione oggetto dell’odierno ricorso hanno valore confessorio e, quindi, è acclarata la loro realizzazione in difformità della DIA del 20.03.2007 (cfr. sul punto ex multis TAR Lazio Latina 30.06.2016 n. 462).
9) Con riguardo agli effetti prodotti da tali istanze sull’efficacia dell’ordinanza di demolizione, va ricordato che la giurisprudenza più recente, condivisa dal Collegio, è orientata nel senso che “le richieste di sanatoria presentate ai sensi degli artt. 36 e 37, d.P.R. n. 380 del 2001, successivamente alla data di adozione dei provvedimenti repressivi, non possono incidere sull'efficacia e sulla legittimità dell'impugnato provvedimento demolitorio. L'istanza di accertamento di conformità, quand'anche fosse presentata e fosse ancora pendente, non avrebbe comunque avuto alcuna influenza sul piano della legittimità dell'ordine di demolizione, potendo, al più, essere condizionata, entro i limiti temporali di legge, la possibilità di portarla ad esecuzione” (ex multis TAR Campania Napoli sez. VI 05.05.2016 n. 2241).
10) Inoltre, va evidenziato che le opere realizzate nel loro insieme (siccome descritte anche nella relazione del C.T.U. nominato dal Tribunale Civile di Latina nell’ambito del giudizio instaurato a istanza della controinteressata sig.ra Ba.; cfr. doc. allegato all’atto di costituzione) hanno comportato un aumento della superficie e della volumetria dell’immobile oltre a una modifica della sagoma e, pertanto, dovevano necessariamente essere autorizzate col rilascio di permesso di costruire (TAR Lazio-Latina, sentenza 28.12.2016 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione contenuta nell'art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che l'applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da un'istanza presentata a tal fine dall'interessato e non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme.
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11) Infine, va respinto anche il secondo motivo di ricorso posto che “il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell'art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che l'applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da un'istanza presentata a tal fine dall'interessato e non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme" (TAR Campania Napoli sez. II 15.01.2015 n. 233) (TAR Lazio-Latina, sentenza 28.12.2016 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa richiamato il consolidato orientamento della Sezione in materia di condono ex lege n. 326/2003 secondo cui:
- ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, il condono delle opere realizzate su aree vincolate è ammissibile solo in caso di costruzione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli ovvero qualora i manufatti successivamente edificati, benché non assentiti o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;
- quest’ultima condizione, che costituisce una novità rispetto alle precedenti leggi sul condono edilizio, ha dato vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all’istituto dell’accertamento di conformità, previsto dall’art. 36 T.U. 06.06.2001 n. 380.
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Premesso che secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale il vincolo paesaggistico rilevante ai sensi della legge n. 326/2003 ed in grado di porsi come ostativo al rilascio del condono è anche il vincolo di inedificabilità relativa, il Collegio rileva che è necessario acquisire il parere della Soprintendenza e della Commissione edilizia circa la compatibilità paesaggistica delle opere da sanare solo ed esclusivamente nei casi in cui l’esito del procedimento dipenda da una verifica di ordine tecnico.
Tale circostanza è da escludere nel caso di specie in considerazione del carattere vincolato dell’atto impugnato, fondato unicamente sulla constatazione dell’insanabilità dell’abuso realizzato in zona vincolata e non conforme agli strumenti urbanistici vigenti.
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8.1. Con il provvedimento impugnato il Comune di Sant’Agnello ha rigettato l’istanza di condono prot. n. 429, presentata dal ricorrente il 10.12.2004, ai sensi della legge n. 326/2003, avente ad oggetto l’ampliamento di 46,64 mq. di un’unità abitativa, sita in via ... n. 62 (catastalmente identificata al foglio 2, particella 199) in quanto: “le opere realizzate non possono essere suscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), della legge 24.11.2003, n. 326, trattandosi di opere: 1) eseguite su aree soggette a vincolo paesaggistico di cui al Decreto legislativo n. 42 del 22.01.2004, ex lege n. 1497/1939; 2) non conformi alle disposizioni del vigente Piano Regolatore Generale, in quanto ricadenti in zona B “edificate sature”, in cui, ai sensi dell’art. 41 delle Norme di Attuazione, non sono consentite nuove edificazioni nei modi e destinazioni così come realizzate”.
8.2. Dall’esame della documentazione prodotta dalla controinteressata Do.Ap. si evince, inoltre, che l’intervento a cui si riferisce il diniego di condono impugnato costituisce l’ampliamento di un immobile già oggetto di altra istanza di condono prot. n. 3227/1995, presentata ai sensi della legge n. 724/1994, rigettata con provvedimento prot. n. 12892 del 16.11.2000 cui è seguita l’ordinanza di demolizione n. 176 del 05.12.2000.
8.3. Tali circostanze risultano, peraltro, affermate anche nella sentenza n. 1650 del 15.03.2016 di questa Sezione con la quale, in accoglimento del ricorso proposto dalla controinteressata Do.Ap., è stata dichiarata “l’illegittimità del silenzio fatto maturare sulle istanze di condono edilizio presentate dai Ma. sub prot. n. 20926 e n. 20927 del 10.12.2004” ed è stato ordinato al Comune di Sant’Agnello di provvedere sulle stesse in modo espresso.
8.4. Tanto premesso il Collegio non può che richiamare il consolidato orientamento della Sezione in materia di condono ex lege n. 326/2003.
Ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, il condono delle opere realizzate su aree vincolate è ammissibile solo in caso di costruzione delle opere abusive prima dell'imposizione dei vincoli ovvero qualora i manufatti successivamente edificati, benché non assentiti o difformi dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (cfr. TAR Campania, VII, 19.12.2014, n. 6858; TAR Campania, Napoli, VII, 03.11.2010 n. 22299; TAR Campania, Napoli, VII, 15.02.2010 n. 940).
Quest’ultima condizione, che costituisce una novità rispetto alle precedenti leggi sul condono edilizio, ha dato vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all’istituto dell’accertamento di conformità, previsto dall’art. 36 T.U. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR Campania, Napoli, VII, 20.03.2009 n. 1556; TAR Campania, Salerno, 14.01.2011 n. 26).
Nella motivazione del diniego impugnato è stato puntualmente evidenziato che la domanda di condono non può essere accolta in quanto le opere abusivamente realizzate si pongono in contrasto sia con la normativa vincolistica che con la vigente strumentazione urbanistica, giacché esse ricadono in “zona B – edificata satura” del vigente P.R.G..
Peraltro, in ipotesi di vincolo paesaggistico, anche di tipo relativo, l’opera abusiva è suscettibile di sanatoria solo qualora si tratti di abuso minore, rientrante nella tipologie nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del cit. D.L. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) senza quindi aumento di superficie) – laddove, nel caso di specie, viene in rilievo un manufatto costruito in ampliamento ed adiacenza ad altro fabbricato (anch’esso abusivo) e, quindi, un’opera di nuova costruzione, neanche conforme alla normativa urbanistica.
8.5. La situazione descritta è, dunque, tale determinare di per sé il rigetto dell’istanza di condono, senza la necessità di ulteriori motivazioni.
8.6. Premesso che secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale il vincolo paesaggistico rilevante ai sensi della legge n. 326/2003 ed in grado di porsi come ostativo al rilascio del condono è anche il vincolo di inedificabilità relativa, il Collegio rileva inoltre che è necessario acquisire il parere della Soprintendenza e della Commissione edilizia circa la compatibilità paesaggistica delle opere da sanare solo ed esclusivamente nei casi in cui l’esito del procedimento dipenda da una verifica di ordine tecnico.
Tale circostanza è da escludere nel caso di specie in considerazione del carattere vincolato dell’atto impugnato, fondato unicamente sulla constatazione dell’insanabilità dell’abuso realizzato in zona vincolata e non conforme agli strumenti urbanistici vigenti.
8.7. Deve, infine, essere evidenziato come la prima censura sia destituita di fondamento anche nella parte in cui lamenta l’illegittimità del diniego per difetto di istruttoria in relazione all’epoca di apposizione del vincolo rispetto a quella di realizzazione delle opere abusive.
Dalle risultanze istruttorie e dal provvedimento gravato si evince, infatti, che il vincolo è stato imposto antecedentemente alla realizzazione delle opere il cui nucleo originale risale al 1994 (come desumibile dalla prima domanda di condono).
Quindi le opere sono successive sia alla L.R. n. 35/1987 sul P.U.T., sia al D.M. 02.02.1962, richiamato dalla controinteressata Ap. nella propria memoria e non contestato da parte ricorrente
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.12.2016 n. 5986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La conformità urbanistica non va valutata, al contrario di quanto sembrerebbe adombrare parte ricorrente, avendo riguardo alla normativa urbanistica sussistente al momento della realizzazione delle opere –dovendo aversi riguardo a tale momento solo in riferimento al distinto profilo dell’introduzione del vincolo paesaggistico– ma alla normativa urbanistica vigente ratione temporis al momento della presentazione dell’istanza.
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9.1. Secondo la giurisprudenza di questa Sezione, infatti, la conformità urbanistica non va valutata, al contrario di quanto sembrerebbe adombrare parte ricorrente, avendo riguardo alla normativa urbanistica sussistente al momento della realizzazione delle opere –dovendo aversi riguardo a tale momento solo in riferimento al distinto profilo dell’introduzione del vincolo paesaggistico– ma alla normativa urbanistica vigente ratione temporis al momento della presentazione dell’istanza- sempreché si tratti di normativa adeguata al vincolo paesaggistico, stante la misura di salvaguardia di cui all’art. 5 del P.U.T. (cfr. TAR Campania, VII, 17.03.2016, n. 1454) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.12.2016 n. 5986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Laddove le opere abusive insistano su zona paesaggisticamente vincolata la prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato deve considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost., assurgente a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali.

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12. Il Collegio evidenzia che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (cfr. Cons. Stato, V, 09.09.2013, n. 4470; Cons. Stato, VI, 05.08.2013, n. 4086).
Laddove, come nella specie, le opere abusive insistano su zona paesaggisticamente vincolata la prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato deve considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost., assurgente a principio fondamentale, con conseguente primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.12.2016 n. 5986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 D.lgs. n. 259 del 2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
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L’omesso pagamento dei diritti di segreteria non può costituire una valida causa di rigetto dell’istanza.
Invero, in seguito all'entrata in vigore dell'art. 93, comma 2, del D.lgs. 01.08.2003 n. 259 (ai sensi del quale, oltre alla tassa, al canone e al contributo una tantum ivi elencati, “nessun altro onere finanziario o reale può essere imposto, in base all'art. 4 della legge 31.07.1997, n. 249, in conseguenza dell'esecuzione delle opere di cui al presente decreto”), il rilascio dell'autorizzazione e la gestione dell'impianto non possono essere subordinati al pagamento di importi ulteriori rispetto a quelli previsti per legge.
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2.2. Deve poi evidenziarsi la non legittimità della previsione dell’art. 48 del R.U.E.C., a cui il Comune di Brusciano dà invece applicazione, laddove richiede il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell’impianto de quo.
In base al consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di distanziarsi, la realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 D.lgs. n. 259 del 2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001 (ex multis da ultimo Tar Campania–Napoli sez. VII n. 1729/2016, Cons. Stato n. 1269/2014).
2.3 Infine l’omesso pagamento dei diritti di segreteria, contestato dal Comune nel provvedimento impugnato, non può costituire una valida causa di rigetto dell’istanza; in seguito all'entrata in vigore dell'art. 93, comma 2, del D.lgs. 01.08.2003 n. 259 (ai sensi del quale, oltre alla tassa, al canone e al contributo una tantum ivi elencati, “nessun altro onere finanziario o reale può essere imposto, in base all'art. 4 della legge 31.07.1997, n. 249, in conseguenza dell'esecuzione delle opere di cui al presente decreto”), il rilascio dell'autorizzazione e la gestione dell'impianto non possono essere subordinati al pagamento di importi ulteriori rispetto a quelli previsti per legge.
3. In conclusione, poggiando su ragioni illegittime, il provvedimento prot. n. 12478 dell’08.07.2015 deve essere annullato. Le disposizioni regolamentari applicate sono illegittime nei termini indicati.
Il ricorso viene quindi accolto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Settima) pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento prot. n. 12478 dell’08.07.2015.
Sono dichiarati illegittimi, nei termini e limiti indicati in parte motiva, e per l’effetto annullati l’art. 48 del Regolamento urbanistico edilizio del Comune di Brusciano (approvato con delibera C.C. n. 48 del 28.11.2011) e l’art. 7 del Regolamento comunale per le stazioni radio base del Comune di Brusciano (approvato con delibera C.C. n. 45 del 20.11.2002) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 27.12.2016 n. 5975 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 15, comma 2, t.u. 06.06.2001 n. 380 la pronuncia di decadenza del permesso di costruire è espressione di un potere strettamente vincolato; ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ovvero della sopravvenienza di un nuovo piano regolatore; ha quindi decorrenza "ex tunc".
Inoltre, il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un "factum principis" ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore".
Né a conclusioni diverse conduce, poi, la previsione del 4 comma, del medesimo articolo 15, posto che “l’adozione dei provvedimenti di decadenza per mancata ultimazione dei lavori relativi a licenza edilizia che li ponga in contrasto con lo strumento urbanistico sopravvenuto costituisce attività dovuta per il sindaco".
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... per l'annullamento del provvedimento 02.12.2015, prot. n. 6695/2015 avente ad oggetto “diniego alla richiesta di proroga della concessione edilizia n. 341/01".
...
Con ricorso notificato il 03.02.2016, tempestivamente depositato, i deducenti hanno impugnato l’atto 02.12.2015, n. 6695 con cui il Responsabile del servizio Edilizia Privata del comune di Minturno ha respinto la richiesta proroga concessione edilizia n. 341/01, dai medesimi presentata in data 26.03.2015, sul rilievo che: …“il titolo abilitativo rilasciato nel 2001, riguardante la realizzazione di una pertinenza agricola,…i cui termini di validità sono ampliamenti scaduti”; ed ancora: …”l’istanza non può essere accolta in quanto l’intervento edilizio non è più conforme alla normativa sopravvenuta prevista dalla L.r. 38/1999, entrata in vigore nel 2003”.
...
Il ricorso è infondato.
In ordine alla denunciata violazione delle garanzie procedimentali (art. 10-bis della L. 241/1990) va rilevato che –anche a prescindere dal rilievo che l’articolo 10-bis della legge n. 241 è disposizione che ha lo scopo di assicurare la partecipazione al procedimento del privato e il contraddittorio di quest’ultimo con l’amministrazione- nella fattispecie il contraddittorio inequivocabilmente vi è stato come dimostra la documentazione allegata al ricorso; sicché essi hanno avuto la possibilità di interloquire al riguardo (e di fatto hanno interloquito) con l’amministrazione.
In ordine ai profili motivazionali, va invece osservato che l’atto del comune –benché formulato in modo poco felice– reca una motivazione che risulta giuridicamente corretta.
La proroga rilasciata il 16.09.2008, prot. 17986 era stata invero subordinata ai pareri ambientali, da prodursi entro il termine di trentasei mesi dal rilascio della stessa, con l’espressa avvertenza che, decorso tale termine, “il permesso doveva intendersi decaduto di dritto”; ciò di per sé giustifica il diniego di proroga.
Rafforza detta conclusione la previsione dell’articolo 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380. La disposizione del secondo comma stabilisce, in particolare, che la proroga del permesso di costruire “può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori”; il comma 2-bis, invocato dalla difesa dei ricorrenti per supportare l’illegittimità del diniego impugnato, non sembra, del pari, conferente.
Stabilisce, in realtà, detta disposizione che “la proroga dei termini per l'inizio e l'ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate”.
Come si vede nessuna delle suesposte previsioni normative reca riferimenti ai ritardi imputabili all’interessato, tanto più che nella vista proroga accordata nel 2008 era stato espressamente ribadito che la decorrenza del prescritto termine avrebbe comportato la decadenza di diritto del permesso di costruire.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “ai sensi dell'art. 15, comma 2, t.u. 06.06.2001 n. 380 la pronuncia di decadenza del permesso di costruire è espressione di un potere strettamente vincolato; ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ovvero della sopravvenienza di un nuovo piano regolatore; ha quindi decorrenza "ex tunc"; inoltre, il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un "factum principis" ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore" (Tar Veneto, sez. II, n. 2346 del 2005).
Né a conclusioni diverse conduce, poi, la previsione del 4 comma, del medesimo articolo 15, anch’essa espressamente invocata dalla parte ricorrente, posto che “l’adozione dei provvedimenti di decadenza per mancata ultimazione dei lavori relativi a licenza edilizia che li ponga in contrasto con lo strumento urbanistico sopravvenuto costituisce attività dovuta per il sindaco”… (Tar Veneto, sez. II, n. 2346 del 2005).
In conclusione il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Latina, sentenza 12.12.2016 n. 794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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