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AGGIORNAMENTO AL 22.02.2017 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Su
pensiline, gazebo e pergolati la guida del Consiglio di
Stato. Permessi edilizi. Su terrazzi e balconi.
Pergolati, gazebo, tettoie,
pensiline e, più di recente, le pergotende, sono opere,
normalmente di limitata consistenza e/o di limitato impatto
sul territorio, di cui non è sempre agevole individuare il
limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel
regime dell'edilizia libera o per i quali è richiesta una
comunicazione all'amministrazione preposta alla tutela del
territorio o addirittura necessitano del rilascio di un
permesso di costruire.
Spesso sono i regolamenti edilizi comunali che dettano le
regole, cui si aggiungono poi, per le aree sottoposte a
vincolo paesaggistico o ad altri vincoli, ulteriori
limitazioni.
A fare un po' di chiarezza sull'argomento ha recentemente
pensato il Consiglio di Stato, Sez. VI, con
la
sentenza
25.01.2017 n. 306.
Vediamo caso per caso le definizioni.
Il pergolato, per sua natura, è una struttura aperta su
almeno tre lati e nella parte superiore. Esso costituisce
una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare
giardini o terrazze e consiste, quindi, in un'impalcatura,
generalmente di sostegno di piante rampicanti, costituita da
due (o più) file di montanti verticali riuniti superiormente
da elementi orizzontali posti ad una altezza tale da
consentire il passaggio delle persone.
Normalmente il
pergolato non necessita di titoli abilitativi edilizi.
Quando il pergolato viene coperto, nella parte superiore
(anche per una sola porzione) con una struttura non
facilmente amovibile (realizzata con qualsiasi materiale), è
assoggettata tuttavia alle regole dettate per la
realizzazione delle tettoie.
Il gazebo, invece, nella sua configurazione tipica, è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta
nella parte superiore e aperta ai lati, realizzata con una
struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno
strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente
rimuovibili. Spesso è utilizzato per l'allestimento di
eventi all'aperto, anche sul suolo pubblico, e in questi
casi è considerata una struttura temporanea. In caso
contrario, se infisso al suolo, dovrebbe essere richiesto
il permesso di costruire
La veranda è stata recentemente definita come un «locale o
spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato,
balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici
vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili,
parzialmente o totalmente apribili» (si veda l’intesa
sottoscritta il 20.10.2016 tra Governo, Regioni e
Comuni sul regolamento edilizio-tipo). La veranda,
realizzabile su balconi, terrazzi, attici o giardini, è
caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che
all'occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a
libro. Per questo la veranda, dal punto di vista edilizio,
determina un aumento della volumetria dell'edificio e una
modifica della sua sagoma e necessita quindi del permesso di
costruire.
Infine, la pergotenda è qualificabile come mero arredo
esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la
destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed
immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua
installazione si va ad inscrivere all'interno della
categoria delle attività di edilizia libera e non necessita
quindi di alcun permesso (Consiglio di Stato, sentenza
1777/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In relazione ad
alcune opere, normalmente di limitata consistenza e di
limitato impatto sul territorio, come pergolati, gazebo,
tettoie, pensiline e, più di recente, le
pergotende, non è
sempre agevole individuare il limite entro il quale esse
possono farsi rientrare nel regime dell’edilizia libera o
invece devono farsi rientrare nei casi di edilizia non
libera per i quali è richiesta una comunicazione
all’amministrazione preposta alla tutela del territorio o il
rilascio di un permesso di costruire.
Spesso sono i regolamenti edilizi comunali che dettano le
regole, anche sulle dimensioni, che possono avere tali opere
per poter essere realizzate liberamente o previa
comunicazione o richiesta di assenso edilizio.
Alle disposizioni comunali si aggiungono poi, per le aree
sottoposte a vincolo paesaggistico o ad altri vincoli, le
limitazioni imposte dai diversi strumenti di tutela.
---------------
Il pergolato costituisce una struttura
realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o
terrazze e consiste, quindi, in un’impalcatura, generalmente
di sostegno di piante rampicanti, costituita da due (o più)
file di montanti verticali riuniti superiormente da elementi
orizzontali posti ad una altezza tale da consentire il
passaggio delle persone.
Il pergolato, per sua natura, è quindi una struttura aperta
su almeno tre lati e nella parte superiore e normalmente non
necessita di titoli abilitativi edilizi.
Quando il pergolato viene coperto, nella parte superiore
(anche per una sola porzione) con una struttura non
facilmente amovibile (realizzata con qualsiasi materiale), è
assoggettata tuttavia alle regole dettate per la
realizzazione delle tettoie.
Il Consiglio di Stato, al riguardo, ha già affermato
che il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato
in una struttura leggera in legno o in altro materiale di
minimo peso, deve essere facilmente amovibile in quanto
privo di fondamenta, e funge da sostegno per piante
rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e
ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
---------------
Il gazebo,
nella sua configurazione tipica, è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta
nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una
struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno
strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente
rimuovibili.
Spesso il gazebo è utilizzato per
l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo
pubblico, e in questi casi è considerata una struttura
temporanea. In altri casi il gazebo è realizzato in modo
permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come
giardini o ampi terrazzi.
Nella fattispecie l’opera realizzata dall’appellante
non può ritenersi assimilabile ad un gazebo per la sua
forma, che non è quella tipica di un gazebo, per i materiali
utilizzati, che non sono tutti leggeri, e perché la
struttura è stata realizzata in aderenza ad un preesistente
immobile in muratura.
---------------
Nell’Intesa sottoscritta
il 20.10.2016, ai sensi dell'articolo 8, comma 6,
della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le
Regioni e i Comuni, concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4, comma 1-sexies del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o
spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato,
balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici
vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili,
parzialmente o totalmente apribili».
La veranda, realizzabile su
balconi, terrazzi, attici o giardini, è
caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che
all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli
o a libro. Per questo la veranda, dal punto di vista
edilizio, determina un aumento della volumetria
dell’edificio e una modifica della sua sagoma e
necessita quindi del permesso di costruire.
---------------
La ricorrente insiste nel
sostenere che le opere sanzionate dal Comune altro non sono che una “pergotenda”, realizzata
con teli amovibili (appoggiati sul preesistente pergolato),
che non ha determinato alcun aumento di volumetria e di
superficie coperta.
In proposito questa Sezione ha, di recente, affermato che
tali strutture, la cui agevole realizzazione è oggi
possibile grazie a nuove tecniche e nuovi materiali, sono
destinate a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle
unità abitative (terrazzi o giardini) e sono installate per
soddisfare quindi esigenze non precarie.
Le “pergotende” non si connotano, pertanto, per la
temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un
elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile
e duraturo.
Ciò premesso, la Sezione, nella stessa citata
decisione, ha ritenuto che le pergotende, tenuto conto della
loro consistenza, delle caratteristiche costruttive e della
loro funzione, non costituiscano un’opera edilizia soggetta
al previo rilascio del titolo abilitativo.
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e
10 del DPR n. 380 del 2001, sono soggetti al rilascio del
permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”,
che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica
del territorio”, mentre una struttura leggera (nella
fattispecie esaminata in alluminio anodizzato)
destinata ad
ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra
tali caratteristiche.
L’opera principale non è, infatti, la struttura in sé, ma la
tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti
atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell’unità abitativa, con la conseguenza che
la struttura (in alluminio anodizzato) si qualifica in
termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non
può considerarsi una “nuova costruzione”, posto che essa è
in materiale plastico e retrattile, onde non presenta
caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa
realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e
permanenza, per il carattere retrattile della tenda, «onde,
in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso
stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo
edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o
superficie».
Inoltre l’elemento di copertura e di chiusura è costituito
da una tenda in materiale plastico, privo di quelle
caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano
connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o
di tamponatura di una costruzione.
Anche in una precedente decisione la Sezione aveva
affermato che la pergotenda è qualificabile come mero arredo
esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la
destinazione d’uso degli spazi esterni ed è facilmente ed
immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua
installazione si va ad inscrivere all’interno della
categoria delle attività di edilizia libera e non necessita
quindi di alcun permesso.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR per la Campania,
Sezione Staccata di Salerno, Sezione I, n. 2543 del
04.12.2015, resa tra le parti, concernente la demolizione di
opere edilizie abusive e il ripristino dello stato dei
luoghi.
...
1.- La signora An.Pa. ha impugnato davanti al TAR
per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, l’ordinanza,
n. 23 del 16.06.2015, con la quale il Responsabile del
Settore Ufficio Tecnico del Comune di Altavilla Silentina,
le ha ingiunto di provvedere, a sua cura e spese, alla
demolizione di una copertura e chiusura perimetrale di un
pergolato con teli plastificati, fissati alla struttura con
il sistema degli occhielli e chiavetta, con un riquadro di
materiale plastico come finestra nella parte centrale, in
quanto realizzate in assenza di titolo abilitativo.
1.1- Il TAR per la Campania, Sezione Staccata di Salerno,
Sezione I, con sentenza n. 2543 del 04.12.2015, resa in
forma semplificata nella camera di consiglio fissata per
l’esame della domanda cautelare, ha respinto il ricorso.
Il TAR ha, infatti, ritenuto che «il materiale
utilizzato, pur agevolmente amovibile siccome consistente in
materiale plastico, non rende l’intervento ex se non
sanzionabile con l’impugnato ordine demolitorio, in quanto,
per come realizzato, riflette esigenze non di carattere
meramente temporaneo», con la conseguenza che le opere
realizzate hanno determinato una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con la perdurante modifica dello
stato dei luoghi.
2- La signora Pa. ha appellato l’indicata sentenza
ritenendola erronea.
In particolare, dopo aver ricordato di aver realizzato la
struttura del pergolato nel 2011 con una scia, la signora
Pa. ha insistito nel sostenere l’amovibilità della tenda
plastificata e quindi l’illegittimità dell’ordinanza demolitoria. La signora Pa. ha anche depositato un
perizia tecnica di parte redatta in relazione alle opere
oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata.
3- Per valutare la legittimità del provvedimento con il
quale il Comune di Altavilla Silentina (che non ha ritenuto
di doversi costituire in giudizio) ha ordinato la
demolizione delle opere realizzate dall’appellante in
assenza di alcun titolo abilitativo occorre qualificare la
natura delle opere realizzate.
Come si evince dal provvedimento impugnato, dalla
documentazione depositata in giudizio e dalla perizia
tecnica di parte, completa di numerose fotografie, la
signora Pa. ha realizzato, in aderenza ad un preesistente
immobile, una struttura con 3 pilastri verticali in
muratura, travi portanti della copertura in legno, copertura
in materiale plastico, fissata con chiodi alle travi di
legno, e pareti esterne in materiale plastico amovibile, con
una porta di accesso.
3.1- Per realizzare tale struttura l’interessata non ha
presentato una dichiarazione o richiesta di assenso al
Comune. Risulta peraltro dagli atti che la signora Pa.,
con SCIA del 15.03.2011, aveva realizzato alcuni lavori
nell’immobile oggetto dei lavori contestati con l’ordinanza
impugnata.
L’appellante sostiene di aver provveduto a seguito della
SCIA, fra l’altro, alla pavimentazione dell’area esterna
dove sono state realizzate le opere di cui ora si discute e
di aver anche realizzato un ampio pergolato esterno su parte
del quale è stata realizzata la contestata struttura.
4.- Ciò premesso, si deve osservare che, in relazione ad
alcune opere, normalmente di limitata consistenza e di
limitato impatto sul territorio, come pergolati, gazebo,
tettoie, pensiline e, più di recente, le
pergotende, non è
sempre agevole individuare il limite entro il quale esse
possono farsi rientrare nel regime dell’edilizia libera o
invece devono farsi rientrare nei casi di edilizia non
libera per i quali è richiesta una comunicazione
all’amministrazione preposta alla tutela del territorio o il
rilascio di un permesso di costruire.
Spesso sono i regolamenti edilizi comunali che dettano le
regole, anche sulle dimensioni, che possono avere tali opere
per poter essere realizzate liberamente o previa
comunicazione o richiesta di assenso edilizio.
Alle disposizioni comunali si aggiungono poi, per le aree
sottoposte a vincolo paesaggistico o ad altri vincoli, le
limitazioni imposte dai diversi strumenti di tutela.
5- Nella fattispecie, vista la documentazione in atti, si
può preliminarmente escludere che le opere realizzate e
ritenute abusive dal Comune possano farsi rientrare tutte
nella nozione di pergolato.
5.1- Il pergolato costituisce infatti, una struttura
realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o
terrazze e consiste, quindi, in un’impalcatura, generalmente
di sostegno di piante rampicanti, costituita da due (o più)
file di montanti verticali riuniti superiormente da elementi
orizzontali posti ad una altezza tale da consentire il
passaggio delle persone.
Il pergolato, per sua natura, è quindi una struttura aperta
su almeno tre lati e nella parte superiore e normalmente non
necessita di titoli abilitativi edilizi.
Quando il pergolato viene coperto, nella parte superiore
(anche per una sola porzione) con una struttura non
facilmente amovibile (realizzata con qualsiasi materiale), è
assoggettata tuttavia alle regole dettate per la
realizzazione delle tettoie.
5.2- Il Consiglio di Stato, al riguardo, ha già affermato
che il pergolato ha una funzione ornamentale, è realizzato
in una struttura leggera in legno o in altro materiale di
minimo peso, deve essere facilmente amovibile in quanto
privo di fondamenta, e funge da sostegno per piante
rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e
ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (Consiglio
di Stato, Sezione IV, n. 5409 del 29.09.2011).
5.3- In conseguenza le opere oggetto del contestato ordine
di demolizione non possono farsi rientrare fra quelli
oggetto della suindicata SCIA del 15.03.2011 che
includevano la sola realizzazione di un pergolato.
6- La struttura realizzata dall’appellante non può farsi
rientrare nemmeno nella nozione di gazebo, pur avendone
alcune caratteristiche.
Il gazebo, infatti,
nella sua configurazione tipica, è una
struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta
nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una
struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno
strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente
rimuovibili. Spesso il gazebo è utilizzato per
l'allestimento di eventi all’aperto, anche sul suolo
pubblico, e in questi casi è considerata una struttura
temporanea. In altri casi il gazebo è realizzato in modo
permanente per la migliore fruibilità di spazi aperti come
giardini o ampi terrazzi.
6.1- Nella fattispecie l’opera realizzata dall’appellante
non può ritenersi assimilabile ad un gazebo per la sua
forma, che non è quella tipica di un gazebo, per i materiali
utilizzati, che non sono tutti leggeri, e perché la
struttura è stata realizzata in aderenza ad un preesistente
immobile in muratura.
7- La struttura contestata dal Comune intimato non può poi
nemmeno considerarsi una veranda.
In proposito si deve ricordare che nell’Intesa sottoscritta
il 20.10.2016 , ai sensi dell'articolo 8, comma 6,
della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le
Regioni e i Comuni, concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4, comma 1-sexies del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o
spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato,
balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici
vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili,
parzialmente o totalmente apribili».
7.1- La veranda, realizzabile su
balconi, terrazzi, attici o giardini, è
caratterizzata quindi da ampie superfici vetrate che
all’occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli
o a libro. Per questo la veranda, dal punto di vista
edilizio, determina un aumento della volumetria
dell’edificio e una modifica della sua sagoma e
necessita quindi del permesso di costruire.
8- La signora An.Pa. nel suo appello ha insistito nel
sostenere che le opere sanzionate dal Comune di Altavilla
Silentina altro non sono che una “pergotenda”, realizzata
con teli amovibili (appoggiati sul preesistente pergolato),
che non ha determinato alcun aumento di volumetria e di
superficie coperta.
9- In proposito questa Sezione ha, di recente, affermato che
tali strutture, la cui agevole realizzazione è oggi
possibile grazie a nuove tecniche e nuovi materiali, sono
destinate a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle
unità abitative (terrazzi o giardini) e sono installate per
soddisfare quindi esigenze non precarie (Consiglio di Stato,
Sezione VI, n. 1619 del 27.04.2016).
Le “pergotende” non si connotano, pertanto, per la
temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un
elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile
e duraturo.
9.1- Ciò premesso, la Sezione, nella stessa citata
decisione, ha ritenuto che le pergotende, tenuto conto della
loro consistenza, delle caratteristiche costruttive e della
loro funzione, non costituiscano un’opera edilizia soggetta
al previo rilascio del titolo abilitativo.
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e
10 del DPR n. 380 del 2001, sono soggetti al rilascio del
permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”,
che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica
del territorio”, mentre una struttura leggera (nella
fattispecie esaminata in alluminio anodizzato)
destinata ad
ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra
tali caratteristiche.
L’opera principale non è, infatti, la struttura in sé, ma la
tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti
atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell’unità abitativa, con la conseguenza che
la struttura (in alluminio anodizzato) si qualifica in
termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non
può considerarsi una “nuova costruzione”, posto che essa è
in materiale plastico e retrattile, onde non presenta
caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa
realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e
permanenza, per il carattere retrattile della tenda, «onde,
in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso
stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo
edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o
superficie».
Inoltre l’elemento di copertura e di chiusura è costituito
da una tenda in materiale plastico, privo di quelle
caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano
connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o
di tamponatura di una costruzione.
9.2- Sulla base di tali considerazioni la Sezione ha quindi
ritenuto che una delle due strutture nella fattispecie
realizzate, destinata unicamente al sostegno (in alluminio)
di un elemento di arredo temporaneo consistente in una tenda
retrattile, non abbisognava del previo rilascio di un
permesso di costruire, risolvendosi «in un mero elemento di
arredo del terrazzo su cui insiste».
Infatti la struttura di alluminio anodizzato (nella
fattispecie esaminata) è stata ritenuta un mero elemento di
sostegno della tenda e quindi non poteva considerarsi un
nuovo organismo edilizio determinante una trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio.
9.3- Mentre nell’altra struttura contestualmente esaminata,
la natura e la consistenza del materiale utilizzato (il
vetro) faceva sì che la struttura di alluminio anodizzato si
configurava non più come mero elemento di supporto di una
tenda, ma piuttosto costituiva la componente portante di un
vero e proprio manufatto, che assumeva la consistenza di una
vera e propria opera edilizia, connotandosi per la presenza
di elementi di chiusura che, realizzati in vetro,
costituivano vere e proprie tamponature laterali con un
carattere di stabilità tale da non poter essere realizzate
in assenza del titolo abilitativo necessario per le nuove
costruzioni.
9.4- Anche in una precedente decisione la Sezione aveva
affermato che la pergotenda è qualificabile come mero arredo
esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la
destinazione d’uso degli spazi esterni ed è facilmente ed
immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua
installazione si va ad inscrivere all’interno della
categoria delle attività di edilizia libera e non necessita
quindi di alcun permesso (Consiglio di Stato, Sezione VI, n.
1777 dell’11.04.2014).
10- Tutto ciò premesso, la Sezione ritiene che l’ordinanza
di demolizione impugnata non possa ritenersi legittima
perché le opere realizzate dall’appellante, peraltro in
un’area che non è sottoposta a vincolo paesaggistico, sono
prive, in gran parte, di quelle caratteristiche di
consistenza e di rilevanza che possano farle connotare come
componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una
costruzione.
10.1- Le opere oggetto dell’ordinanza impugnata, che si sono
già prima sommariamente descritte, si connotano, infatti,
per la presenza di teli e tende in materiale plastico
facilmente amovibili, che aderiscono ad una struttura di
sostegno che è costituita da tre pilastrini verticali in
muratura e da alcune travi di legno collocati sia in
verticale che nella parte superiore.
La struttura portante, sebbene non tutta con materiali
leggeri, può anche farsi rientrare nella categoria dei
pergolati (come sostiene l’appellante). Una delle tende
laterali può essere poi considerata una vera e propria
pergotenda, che può essere aperta o chiusa mediante un
sistema di scorrimento veloce. Sostanzialmente hanno la
stessa caratteristica anche le tende collocate sugli altri
lati che possono essere movimentate manualmente su apposite
guide scorrevoli e possono essere chiuse o aperte mediante
appositi occhielli.
10.2- Restano evidentemente di meno facile amovibilità la
copertura della struttura, che è stata realizzata con teli
di plastica che sono stati fissati alla travi di legno
superiore con chiodi e rondelle, e la piccola porta posta
sul lato A della struttura.
Ma la presenza di tali opere che sono meno facilmente
amovibili e che possono avere una certa rilevanza edilizia,
anche in base alla disciplina eventualmente dettata dal
regolamento edilizio comunale, non giustifica comunque
l’emanazione di una ordinanza di demolizione che ha
riguardato l’intera struttura, con la conseguente possibile
acquisizione, nel caso di mancata ottemperanza, dell’area
interessata.
11- Per gli esposti motivi, l’appello deve essere accolto e,
in riforma della appellata sentenza del TAR per la
Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione I, n. 2543
del 04.12.2015, deve essere disposto l’annullamento
dell’ordinanza di demolizione del Comune di Altavilla
Silentina, n. 23 del 16.06.2015, impugnata in primo
grado.
Sono fatti salvi gli eventuali ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione per quella parte delle opere realizzate
che, anche sulla base della regolamentazione comunale,
possono ritenersi di edilizia non libera (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 25.01.2017 n. 306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
dichiarazione di "non procedibilità" della presentata
DIA emessa oltre il termine dei 30 gg.
Il Collegio non ignora, relativamente al
dibattito sviluppatosi in dottrina e giurisprudenza, le
diverse posizioni distintesi in merito alla natura giuridica
della denuncia di inizio attività.
Tenendo conto dello stato dell’arte all’epoca dei fatti di
causa occorre considerare che secondo una parte della
giurisprudenza, la denuncia di inizio attività non sarebbe
stata configurabile come un provvedimento amministrativo,
neanche implicito; secondo altro indirizzo, la DIA
avrebbe, invece, costituito un titolo edilizio al pari della
concessione o del permesso di costruire, ovvero un “titolo
abilitativo ex lege”, o, qualche tempo dopo, un atto del
privato che “assume valore e consistenza di un atto
abilitativo dell'intervento progettato e della sua
conformità alle norme urbanistiche”.
È evidente che da tali, eterogenee, impostazioni sono
discese altrettanto eterogenee posizioni in ordine alla
perentorietà del termine previsto dall’art. 23.
Sul punto, tuttavia, non si è mai registrata una chiusura
assoluta della giurisprudenza alla tesi favorevole
all’esercizio dei poteri dell’Amministrazione dopo la
scadenza del termine di verifica della DIA, essendosi
osservato che i Comuni avrebbero sempre potuto adottare
eventuali provvedimenti repressivi in relazione a opere in
contrasto con prescrizioni urbanistiche e che, dunque, pur
dopo tale termine sarebbero persistiti i presupposti per
l’emissione di provvedimenti di autotutela, vigilanza e
repressivi.
In sostanza, sembra corretto affermare che la DIA
costituisse, già al tempo dei fatti di causa, una
manifestazione dell’intento di realizzare determinate opere
sul presupposto della sussistenza dei requisiti di legge,
non potendosi, quindi, revocare in dubbio che tale denuncia
non comportasse l’adozione –nell’ambito di un malinteso
“procedimento a istanza di parte”– di un provvedimento
implicito o esplicito.
Rapportando tali enunciati alla fattispecie di causa deve,
pertanto, ritenersi che l’esito della verifica, ancorché
condotta dopo lo spirare del termine dei 30 giorni dalla
presentata DIA, sull’insufficiente rappresentazione delle
opere denunciate dalla ricorrente non potesse che
sostanziare la violazione della disciplina di cui all’art.
23, comma 1, del DPR 380/2001, in cui è previsto che “il
proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare
la segnalazione certificata di inizio attività, almeno
trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori,
presenta allo sportello unico la segnalazione, accompagnata
da una dettagliata relazione a firma di un progettista
abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che
asseveri la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie”.
In sostanza, il progettista ha rappresentato in modo
lacunoso i lavori che quest’ultima aveva in animo di
realizzare, prospettando in modo fuorviante la consistenza
delle opere effettivamente realizzate: il che,
paradossalmente, integra il principio espresso nella
pronuncia alla quale la ricorrente ha fatto richiamo nella
propria memoria, in cui si è statuito che “il decorso del
termine per la formazione del titolo abilitativo non può
avere alcun effetto di legittimazione dell’intervento
soltanto nel caso di dichiarazioni infedeli o recanti una
erronea rappresentazione dei fatti, cioè in presenza di
un’attività potenzialmente decettiva od ingannevole del
dichiarante, non già nei casi di mera incompletezza della
documentazione a corredo dell’istanza”.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento emesso dal
responsabile dell’area tecnica del Comune di Uboldo in data
09.06.2004, con cui è stata disposta "la non
procedibilità della Denuncia di inizio attività (…)
presentata in data 05.02.2004", dell’ordinanza di
sospensione lavori n. 80 del 21.06.2004, nonché
dell’ordinanza di demolizione n. 107 del 17.08.2004: atti
impugnati con il ricorso principale;
...
Ciò premesso, la cognizione va diretta al provvedimento del
09.06.2004, con cui il responsabile dell’area tecnica ha
disposto “la non procedibilità della denuncia di inizio
attività prot. 2152 P.E. 1/04 presentata in data 05.02.2004”,
quest’ultima avente a oggetto la realizzazione di n. 10 box
per il ricovero di cavalli, modifiche interne ed esterne
nonché ampliamento volumetrico della villetta esistente e
recinzione della rete metallica.
Premettendo che dall’esame degli atti emerge che la villetta
è stata sanata mediante il rilascio del permesso in
sanatoria dell’01.02.2016, occorre considerare che “in
data 16.06.2004 veniva eseguito sopralluogo da parte dei
tecnici comunali (…) sull'immobile di Via per Cerro, s.n.c.
ad Uboldo (…), riscontrando l'esecuzione di lavori edilizi
consistenti nel getto in opera di platea di fondazione in
cemento armato con rete elettrosaldata e tondini di acciaio
di dimensioni planimetriche 10,04 mt. per 19,40 mt. con
spessore di circa 30 cm. sul lato ovest del mappale 668 fg.
12”, ricondotta, dal punto di vista strutturale, a una “platea
di fondazione (dimensioni di progetto 11,54 per 17,90 alt)
per la costruzione di 10 box per ricovero cavalli da
realizzarsi con muratura perimetrale in mattoni e
tramezzature interne con pannelli di legno e ferro come
previsto dalla denuncia di inizio attività presentata, ai
sensi dell’art. 22, 3° comma, lett. c), del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 e succ. modif. ed integraz., dalla sig.ra
Ca.Ma. (…) in data 05.02.2004 prot. 2152”.
Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto che il
decorso del termine di 30 giorni in assenza di
un’interdizione da parte dell’Amministrazione avrebbe
condotto al consolidamento dell’efficacia della DIA, e che,
comunque, non rileverebbe l’integrazione documentale
richiesta dal Comune in data 20.02.2004 (invero formulata
per chiarire se fosse programmata, o meno, la realizzazione
di una recinzione: lavori, infine, ammessi da parte
ricorrente), dovendo, nella specie, trovare applicazione la
disciplina di cui al comma 6 dell’art. 23 del DPR 380/2001
nel senso della perentorietà del termine per l’esercizio del
potere repressivo (“il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale, ove entro il termine indicato
al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una o più delle
condizioni stabilite, notifica all'interessato l'ordine
motivato di non effettuare il previsto intervento e, in caso
di falsa attestazione del professionista abilitato, informa
l'autorità giudiziaria e il consiglio dell'ordine di
appartenenza”).
Tale tesi non può essere condivisa.
Il Collegio non ignora, relativamente al dibattito
sviluppatosi in dottrina e giurisprudenza, le diverse
posizioni distintesi in merito alla natura giuridica della
denuncia di inizio attività.
Tenendo conto dello stato dell’arte all’epoca dei fatti di
causa occorre considerare che secondo una parte della
giurisprudenza, la denuncia di inizio attività non sarebbe
stata configurabile come un provvedimento amministrativo,
neanche implicito (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
04.09.2002 n. 4453); secondo altro indirizzo, la DIA
avrebbe, invece, costituito un titolo edilizio al pari della
concessione o del permesso di costruire (cfr. Tar Veneto,
10.09.2003 n. 4722), ovvero un “titolo abilitativo ex
lege” (cfr. Tar Abruzzo, 11.03.2004, n. 267), o, qualche
tempo dopo, un atto del privato che “assume valore e
consistenza di un atto abilitativo dell'intervento
progettato e della sua conformità alle norme urbanistiche”
(cfr. Tar Emilia-Romagna, 07.05.2007 n. 457).
È evidente che da tali, eterogenee, impostazioni sono
discese altrettanto eterogenee posizioni in ordine alla
perentorietà del termine previsto dall’art. 23.
Sul punto, tuttavia, non si è mai registrata una chiusura
assoluta della giurisprudenza alla tesi favorevole
all’esercizio dei poteri dell’Amministrazione dopo la
scadenza del termine di verifica della DIA, essendosi
osservato che i Comuni avrebbero sempre potuto adottare
eventuali provvedimenti repressivi in relazione a opere in
contrasto con prescrizioni urbanistiche (cfr. Tar Lazio,
20.06.2002, n. 5629) e che, dunque, pur dopo tale termine
sarebbero persistiti i presupposti per l’emissione di
provvedimenti di autotutela, vigilanza e repressivi (cfr.
Tar Piemonte, 19.11.2003 n. 1608).
In sostanza, sembra corretto affermare che la DIA
costituisse, già al tempo dei fatti di causa, una
manifestazione dell’intento di realizzare determinate opere
sul presupposto della sussistenza dei requisiti di legge,
non potendosi, quindi, revocare in dubbio che tale denuncia
non comportasse l’adozione –nell’ambito di un malinteso “procedimento
a istanza di parte”– di un provvedimento implicito o
esplicito.
Rapportando tali enunciati alla fattispecie di causa deve,
pertanto, ritenersi che l’esito della verifica, ancorché
condotta dopo lo spirare del termine dei 30 giorni dalla DIA
del 05.02.2004, sull’insufficiente rappresentazione delle
opere denunciate dalla ricorrente non potesse che
sostanziare la violazione della disciplina di cui all’art.
23, comma 1, del DPR 380/2001, in cui è previsto che “il
proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare
la segnalazione certificata di inizio attività, almeno
trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori,
presenta allo sportello unico la segnalazione, accompagnata
da una dettagliata relazione a firma di un progettista
abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che
asseveri la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie”.
In sostanza, il progettista della sig.ra Ca. ha
rappresentato in modo lacunoso i lavori che quest’ultima
aveva in animo di realizzare, prospettando in modo
fuorviante la consistenza delle opere effettivamente
realizzate: il che, paradossalmente, integra il principio
espresso nella pronuncia alla quale la ricorrente ha fatto
richiamo nella memoria del 30.12.2016, in cui si è statuito
che “il decorso del termine per la formazione del titolo
abilitativo non può avere alcun effetto di legittimazione
dell’intervento soltanto nel caso di dichiarazioni infedeli o
recanti una erronea rappresentazione dei fatti, cioè in
presenza di un’attività potenzialmente decettiva od
ingannevole del dichiarante, non già nei casi di mera
incompletezza della documentazione a corredo dell’istanza”
(Tar Liguria, 14.01.2011, n. 47).
Sulla scorta di quanto emerso dai controlli comunali
si può, quindi, affermare che si trattasse di un
intervento di nuova costruzione che sarebbe stato
soggetto a domanda di permesso di costruire
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.02.2017 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili.
Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle
verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di
inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art.
31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n.
104.
---------------
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241 del
1990, in presenza di una d.i.a. illegittima, è consentito
certamente all'Amministrazione di intervenire anche oltre il
termine perentorio di cui all'art. 23, comma 6, d.P.R. n.
380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il
procedimento) cui la legge subordina il potere di
annullamento d'ufficio dei provvedimenti amministrativi e,
quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di
illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a.
ormai perfezionatasi, dell'affidamento ingeneratosi in capo
al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque,
esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del
provvedimento repressivo.
La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce, infatti, un
titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile "quoad effectum" al rilascio del provvedimento
espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione
legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di
autotutela decisoria.
Ne consegue l’illegittimità del provvedimento
repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano
oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del
decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
Nella fattispecie all’esame, dunque, nella quale si erano
prodotti gli effetti abilitativi conseguenti alla
presentazione della DIA da parte del controinteressato, il
Comune legittimamente ha omesso di esercitare il proprio
potere sanzionatorio repressivo, avviando, invece, il
procedimento di autotutela, ritenendo, peraltro, nel
bilanciamento tra i contrapposti interessi del privato alla
conservazione delle lievi modifiche effettuate e della
pubblica collettività all’annullamento dell’atto, che
prevalesse il primo e supportando la propria convinzione,
altresì, con la sopravvenienza delle modifiche alla
normativa urbanistica del comune, alla luce delle quali
l’intervento sarebbe risultato pienamente legittimo.
---------------
... per l'annullamento:
- della dichiarazione di inizio attività n. 13/05 depositata
da Da.Fe. in data 16.02.2005 ed avente ad oggetto “ristrutturazione
e divisione unità immobiliare al piano terreno e recupero
del sottotetto a fini abitativi” di un immobile sito in
Uboldo;
- con motivi aggiunti, del provvedimento dell’01.06.2007 con
il quale il comune di Uboldo ha deciso di non procedere
all’annullamento d’ufficio della DIA succitata.
...
Con il ricorso principale e per i motivi nello stesso
dedotti, gli istanti, proprietari di fabbricati siti in
prossimità di quello del controinteressato nel comune di
Uboldo, hanno impugnato la dichiarazione di inizio attività
indicata in epigrafe, avente ad oggetto la ristrutturazione
e la divisione di un’unità immobiliare al piano terreno e il
recupero del sottotetto a fini abitativi depositata dal
controinteressato medesimo.
Con ricorso per motivi aggiunti hanno, invece,
impugnato, limitatamente alla porzione concernente la
ristrutturazione al piano terreno dell’immobile, il
provvedimento del primo giugno 2007 con il quale il comune
di Uboldo, dopo avere avviato il procedimento teso
all’eventuale esercizio dell’autotutela, ha deciso di non
procedere all’annullamento d’ufficio degli effetti della DIA
succitata.
...
Il Collegio ritiene, in via preliminare, di accogliere
l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale
sollevata dall’Amministrazione intimata e dal
controinteressato.
Ed invero, ai sensi del comma 6-bis dell’art. 19 della legge
n. 241/1990, così come introdotto dal d.l. n. 138/2011: “La
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Ne risulta l’inammissibilità del ricorso proposto in via
principale avverso la DIA presentata dal controinteressato.
Riguardo, invece, al ricorso per motivi aggiunti, instaurato
avverso il provvedimento con il quale il comune di Uboldo ha
ritenuto di non procedere all’annullamento d’ufficio degli
effetti della DIA succitata, gli istanti hanno dedotto,
sostanzialmente: l’illegittimità dell’intervento di
ristrutturazione e divisione dell’unità immobiliare al piano
terreno ai sensi dell’art. 42 delle NTA del PRG vigente,
trattandosi di un edificio ubicato in zona produttiva D1 e
non residenziale, ove sarebbero consentiti solo interventi
di manutenzione ordinaria; l’illegittimo esercizio da parte
del Comune del potere di autotutela, subordinato alla
verifica di un particolare interesse pubblico
all’annullamento, invece che di quello sanzionatorio;
l’illegittimità del provvedimento comunale nella parte in
cui si riferisce alla normativa urbanistica sopravvenuta,
che pacificamente ammette l’intervento di ristrutturazione
in questione.
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato, atteso
che, indipendentemente dal verificarsi o meno di un minimo
aumento del carico urbanistico a seguito dell’effettuazione
dell’intervento di ristrutturazione al piano terreno, il
Comune intimato, nell’esercizio discrezionale del proprio
potere di autotutela, si è determinato nel senso della
prevalenza dell’interesse del privato che aveva presentato
la DIA, in capo al quale si era ingenerato l’affidamento
della legittimità della ristrutturazione dallo stesso
eseguita.
Ed invero, secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, ai sensi dell'art. 19 della
legge n. 241 del 1990, in presenza di una d.i.a.
illegittima, è consentito certamente all'Amministrazione di
intervenire anche oltre il termine perentorio di cui
all'art. 23, comma 6, d.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle
condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge
subordina il potere di annullamento d'ufficio dei
provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre
che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori
assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi,
dell'affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto
del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di
interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
La d.i.a, una volta perfezionatasi, costituisce, infatti, un
titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile "quoad effectum" al rilascio del
provvedimento espresso), che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria. Ne consegue
l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio
avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a.
già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non
previamente rimossa in autotutela (cfr., per tutte, Cons.
Stato, sez. VI, 22.09.2014, n. 4780).
Nella fattispecie all’esame, dunque, nella quale si erano
prodotti gli effetti abilitativi conseguenti alla
presentazione della DIA da parte del controinteressato, il
Comune legittimamente ha omesso di esercitare il proprio
potere sanzionatorio repressivo, avviando, invece, il
procedimento di autotutela, ritenendo, peraltro, nel
bilanciamento tra i contrapposti interessi del privato alla
conservazione delle lievi modifiche effettuate e della
pubblica collettività all’annullamento dell’atto, che
prevalesse il primo e supportando la propria convinzione,
altresì, con la sopravvenienza delle modifiche alla
normativa urbanistica del comune, alla luce delle quali
l’intervento sarebbe risultato pienamente legittimo.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso
principale va dichiarato inammissibile e il ricorso per
motivi aggiunti va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 31.01.2017 n. 240 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La denuncia d’inizio attività
“non è un provvedimento
amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in
ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce
un atto privato volto a comunicare l’intenzione di
intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla
legge”. Affermazione, questa,
che ha poi trovato piena conferma da parte del
legislatore, posto che l’attuale articolo 19, comma
6-ter, primo periodo della legge n. 241 del 1990
stabilisce espressamente che “La
segnalazione certificata di inizio attività, la
denuncia e la dichiarazione di inizio attività non
costituiscono provvedimenti taciti direttamente
impugnabili”.
L’atto non muta tale sua natura neppure dopo il
decorso del termine normativamente previsto per
l’esercizio delle verifiche da parte del Comune.
Conseguentemente, non può sostenersi che, una volta
che il terzo sia venuto a conoscenza del titolo,
ormai consolidatosi per mancato esercizio dei poteri
inibitori, lo stesso terzo disponga di sessanta
giorni di tempo per proporre impugnazione
giurisdizionale. E’ vero infatti che la sussistenza,
in tale ipotesi, di un atto impugnabile era stata
autorevolmente sostenuta, sulla base del quadro
normativo allora vigente, dall’Adunanza Plenaria n.
15 del 2011, che aveva ravvisato un provvedimento
suscettibile di tutela giurisdizionale demolitoria
nel diniego tacito di esercizio del potere
inibitorio. Tuttavia, le conclusioni cui era
pervenuta l’Adunanza Plenaria sono oggi superate
alla luce delle successive novità legislative e, in
particolare, di quanto ora disposto dal richiamato
articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del
1990.
In base a quest’ultima disposizione, “(...)
Gli interessati possono sollecitare l'esercizio
delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in
caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di
cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto
legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Previsione, questa, che come evidenziato dalla
giurisprudenza, anche della Sezione, “vieta
sostanzialmente l’impugnazione diretta della DIA o
della SCIA –non costituenti provvedimenti
amministrativi, neppure impliciti– ma consente la
sola tutela giurisdizionale secondo il citato
meccanismo di cui all’art. 31”.
---------------
In tale quadro si colloca il tema della tutela
del soggetto che alleghi di essere stato leso dalla
denuncia di inizio di attività presentata da altri.
La
Sezione ha, anzitutto, rilevato che
i poteri inibitori spettanti all’amministrazione nei
confronti degli interventi oggetto di una denuncia
di inizio di attività vanno esercitati entro il
termine normativamente prescritto, decorso il quale
il “consolidarsi” della d.i.a. determina –di
regola– l’impossibilità per il Comune di
intervenire, se non nell’esercizio dei poteri di
autotutela.
Si tratta di conclusioni che trovano ormai pieno
riscontro nell’attuale previsione del comma 4
dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, come
sostituito dall'articolo 6, comma 1, lett. a) della
legge 07.08.2015, n. 124, in base al quale,
una volta decorso il termine per l’esercizio
del controllo sulla denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività, “l'amministrazione
competente adotta comunque i provvedimenti previsti
dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni
previste dall'articolo 21-nonies”.
Disposizione, questa, che è bensì inapplicabile
ratione temporis nel presente giudizio, ma che ha
sostanzialmente codificato gli esiti del dibattito
giurisprudenziale sul punto. E ciò anche avuto
riguardo alla natura dei poteri esercitati
dall’amministrazione in quest’ultima ipotesi, che
sono pur sempre di tipo inibitorio, ma
subordinatamente al riscontro dei presupposti per
l’intervento in autotutela.
Ciò posto, la sentenza della Sezione n. 2799/2014 ha affermato che
l’intervento
inibitorio è, tuttavia, da ritenere doveroso, e non
soggetto al ricorrere dei presupposti propri del
potere di autotutela, laddove la carenza dei
presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo,
titolare di una posizione giuridica qualificata e
differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter
del medesimo articolo 19.
E ciò
–come già affermato nella sentenza richiamata–
perché è anzitutto il chiaro tenore
testuale della previsione normativa richiamata a non
fare alcun riferimento al decorso del termine per il
“consolidarsi” della denuncia di inizio di
attività.
D’altra parte “laddove
dovesse ritenersi che il terzo, venuto a conoscenza
della d.i.a. dopo il decorso del termine per il
compimento delle verifiche, non possa chiedere
l’esercizio dei poteri inibitori, ne deriverebbe un
vulnus nei confronti della tutela offerta
dall’ordinamento nei confronti di tale soggetto.”
Questi, infatti, da un lato non disporrebbe di alcun
provvedimento impugnabile (ostandovi il chiaro
tenore del richiamato comma 6-ter dell’articolo 19)
e, dall’altro, potrebbe solo invocare l’intervento
in autotutela, che è però esercitabile solo in
presenza di precisi presupposti, ulteriori rispetto
al mero riscontro dell’illegittimità.
La posizione espressa con la sentenza di questa
Sezione n. 2799/2014 è stata condivisa e
ribadita da numerose successive pronunce di primo
grado.
In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato che
“Una tale interpretazione appare
peraltro obbligata secondo una lettura
costituzionalmente orientata delle norme alla luce
dei principi di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113
della Costituzione, non risultando altrimenti
giustificabile, rispetto all’intento di garantire
una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi,
l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al
diritto di azione del terzo leso dall’attività
intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività costituiscano
provvedimenti taciti direttamente impugnabili,
ammettendo solo che i terzi interessati possano
sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela
della propria sfera giuridica, quando l’intervento
di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad
esso possa riconoscersi la titolarità di un
interesse differenziato e qualificato, il divieto di
prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve
potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti
propri dell’autotutela avviata d’ufficio.”.
---------------
Posto quindi che, secondo la
lettura qui accolta, l’articolo 19, comma 6-ter,
impone all’amministrazione di esercitare pieni
poteri inibitori della denuncia di inizio di
attività, anche dopo il “consolidarsi” del
titolo edilizio, qualora sia a ciò sollecitata da un
terzo titolare di una situazione giuridica
qualificata e differenziata, occorre chiedersi se
tale soggetto possa sollecitare in qualunque momento
l’intervento dell’amministrazione stessa, ovvero
abbia l’onere di farlo entro un lasso di tempo
stabilito.
Anche questa questione è stata affrontata, sia
pure sinteticamente, nella richiamata sentenza n.
2799/2014.
In quella pronuncia, infatti, è stato esplicitamente
evidenziato che il terzo che si assumeva leso dalla
denuncia di inizio di attività presentata dal
confinante si era rivolto all’amministrazione entro
sessanta giorni dal momento in cui, accedendo agli
atti della pratica edilizia, aveva preso piena
conoscenza del contenuto della d.i.a. e delle esatte
caratteristiche dell’intervento progettato.
La pronuncia ha, quindi, implicitamente ritenuto
rilevante la circostanza che l’istanza volta a
provocare l’esercizio del potere inibitorio fosse
intervenuta entro il suddetto termine.
Il rilievo attribuito dalla suddetta pronuncia
al momento della presentazione dell’istanza rivolta
all’amministrazione non è stato condiviso da un
altro orientamento giurisprudenziale recentemente
emerso.
In base a tale diversa ricostruzione, il terzo leso
dalla d.i.a. (o s.c.i.a.) potrebbe infatti
rivolgersi in ogni tempo all’amministrazione, e
ottenere comunque il pieno esercizio dei poteri
inibitori, senza necessità del riscontro dei
presupposti propri dell’autotutela.
Tesi, questa, che viene argomentata sia sulla base
del tenore testuale del comma 3-bis dell’articolo 19
della legge n. 241 del 1990 –il quale non indica
testualmente alcun limite temporale per la diffida
diretta all’amministrazione– sia in considerazione
della circostanza che la possibilità di un
intervento “a tutto campo” e in ogni tempo
sulla d.i.a., in presenza di una sollecitazione
proveniente da un terzo che si assuma pregiudicato
dall’intervento, dovrebbe ritenersi giustificata
dalla natura stessa dell’istituto, che non dà luogo
alla formazione di un provvedimento amministrativo e
si basa sulla responsabilità del privato.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tali
considerazioni possano essere condivise soltanto in
parte, come meglio si illustrerà nel prosieguo.
Deve, anzitutto, confermarsi e
ribadirsi in questa sede l’orientamento già espresso
–anche in relazione al profilo inerente ai termini
per la sollecitazione dei poteri inibitori–
dalla sentenza della Sezione n. 2799 del
2014. E’ infatti da ritenere che le conclusioni
raggiunte, sul punto, dalla pronuncia richiamata
siano necessitate, alla stregua dell’interpretazione
sistematica e –ancora una volta– costituzionalmente
orientata del dato normativo, costituito
dall’articolo 19, comma 3-ter, della legge n. 241
del 1990.
Per ciò che attiene al profilo sistematico,
l’interpretazione della disposizione deve
necessariamente tenere conto della circostanza che
l’intera disciplina della denuncia di inizio di
attività, fino ai più recenti interventi normativi
(in parte successivi alla formazione dei titoli
oggetto del presente giudizio, ma comunque rilevanti
ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema),
risulta chiaramente ispirata dalla finalità di
coniugare l’esigenza di incentrare il fondamento
normativo della d.i.a sull’autoresponsabilità del
privato con quella di assicurare comunque una
sostanziale stabilità del titolo edilizio –analoga a
quella propria del permesso di costruire– dopo il
decorso del tempo stabilito per il suo “consolidarsi”.
In tale quadro normativo, è
certamente necessario
–come sopra detto– assicurare al
terzo la possibilità di ottenere piena tutela,
mediante l’esercizio dei poteri inibitori
dell’amministrazione, anche dopo che sia trascorso
tale termine di tendenziale “stabilizzazione”
del titolo edilizio.
Tuttavia, tale possibilità non può
tradursi nell’eliminazione di qualunque garanzia
attinente al “consolidarsi” della d.i.a., né
eccedere quanto necessario e sufficiente ad
assicurare al terzo leso dalla denuncia di inizio
attività una tutela equivalente a quella
riconosciuta al soggetto leso da un permesso di
costruire.
Per questa ragione, deve ritenersi
che il soggetto titolare di una situazione giuridica
qualificata e differenziata che lamenti un
pregiudizio derivante da una denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività possa ottenere il
pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori,
senza i limiti propri dell’autotutela, soltanto
laddove abbia sollecitato l’intervento
dell’amministrazione entro sessanta giorni dal
momento in cui ha avuto conoscenza della lesione.
Il predetto termine di sessanta
giorni, pur non espressamente previsto dal comma
3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990,
deve infatti ricavarsi in via sistematica, tenendo
conto che la diffida prevista dalla disposizione ora
richiamata costituisce l’unico “canale”
percorribile dall’interessato al fine di adire
eventualmente, in un secondo momento, la tutela
giurisdizionale. In tale prospettiva, l’esigenza di
assicurare sia la pienezza della tutela
(ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione),
che la parità di trattamento
rispetto al soggetto leso da un permesso di
costruire
(in relazione all’articolo 3 della Costituzione)
impone di fare applicazione del
termine ordinariamente previsto per l’impugnazione
dei provvedimenti amministrativi, fissato
dall’articolo 29 del codice del processo
amministrativo.
E’ ben vero che il termine di cui all’articolo 29
ora richiamato ha natura processuale e non
procedimentale; tuttavia, come detto,
la fase procedimentale necessaria stabilita
dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241
del 1990 costituisce un passaggio obbligato per
l’accesso alla tutela giurisdizionale, per cui è
dalla disciplina propria di quest’ultima che può e
deve trarsi il dato necessario all’integrazione in
via interpretativa della lacuna normativa.
Tale opzione ermeneutica risulta essere stata
accolta, del resto, anche dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato, la quale non ha mancato di
rimarcare, in una recente pronuncia, che “il
potere di sollecitazione del terzo non è da
intendersi come esercitabile ad libitum, bensì
rimane assoggettato al rispetto del termine di
decadenza decorrente dalla conoscenza della D.I.A.”.
---------------
Occorre a questo punto domandarsi quid iuris
nel caso in cui il terzo abbia richiesto
l’intervento dell’amministrazione dopo il decorso di
sessanta giorni dal momento in cui ha avuto piena
conoscenza del contenuto lesivo della denuncia di
inizio di attività.
La difesa del controinteressato ritiene che, in
questo caso, l’impugnazione del provvedimento con
cui l’amministrazione ha negato l’esercizio dei
poteri relativi alla d.i.a. sia radicalmente
inammissibile.
Il Collegio non ignora che tale soluzione
risulta essere stata accolta dalla sentenza del
Consiglio di Stato da ultimo richiamata, ma ritiene –su questo
specifico aspetto– di dover addivenire a conclusioni
in parte diverse rispetto al giudice d’appello.
Deve, infatti, tenersi presente il dato
imprescindibile che il comma 6-ter
dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non
prevede alcun termine per la sollecitazione dei
poteri dell’amministrazione e per l’insorgere del
correlativo obbligo, per quest’ultima, di
pronunciarsi sull’istanza.
Per le ragioni già diffusamente illustrate,
laddove l’istanza sia presentata da un terzo
titolare di una situazione giuridica qualificata e
differenziata, entro il termine di sessanta giorni
dalla conoscenza della d.i.a. o s.c.i.a.,
l’amministrazione non potrà esimersi dall’esercitare
pienamente i propri poteri inibitori.
Ciò, però, non toglie che il terzo
ben possa sollecitare l’intervento
dell’amministrazione anche oltre tale termine, al
fine di invocare non già il pieno esercizio dei
poteri inibitori, bensì il riscontro della
sussistenza dei –diversi– presupposti normativamente
previsti per l’intervento in autotutela.
Al riguardo, deve precisarsi
che –anche laddove la sollecitazione debba
intendersi diretta a provocare l’esercizio dei
poteri di autotutela– l’amministrazione è comunque
tenuta ad esprimersi sull’istanza, eventualmente
illustrando le ragioni per le quali ritenga non
sussistenti i presupposti per la rimozione del
titolo edilizio.
E’ vero, infatti, che –secondo i
principi– l’esercizio dell’autotutela è, di regola,
tipicamente discrezionale nell’an, per cui
l’amministrazione non è tenuta, di norma, neppure a
riscontrare l’istanza di autotutela presentata da un
privato . Tuttavia, nel caso della
denuncia o segnalazione certificata di inizio
attività, la sussistenza di un dovere
dell’amministrazione di verificare l’esistenza dei
presupposti per l’esercizio del potere è imposta dal
chiaro tenore testuale del richiamato comma 3-bis
dell’articolo 19, il quale attribuisce espressamente
al terzo che si assuma leso dal titolo edilizio un
incondizionato accesso anche alla tutela
giurisdizionale avverso il silenzio.
D’altro canto, la soluzione prescelta dal
legislatore è coerente con il fondamentale rilievo
che, nel caso di intervento di controllo relativo
alla d.i.a. o s.c.i.a., non si fa questione di
esercizio di poteri di autotutela in senso proprio,
poiché manca un provvedimento amministrativo
rispetto al quale possa esercitarsi un potere di
secondo grado. Piuttosto –come sopra detto–
l’amministrazione, in questo caso, esercita pur
sempre poteri di tipo inibitorio, ma
subordinatamente al riscontro dei presupposti per
l’intervento in autotutela.
---------------
In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui
esposto, il Collegio ritiene che la
previsione del comma 6-ter dell’articolo 19 della
legge n. 241 del 1990 imponga all’amministrazione di
riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza
con cui un terzo, titolare di una situazione
giuridica qualificata e differenziata, abbia
sollecitato l’intervento della stessa
amministrazione in relazione a una denuncia o
segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare, laddove l’istanza
pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui
tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei
profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione
sarà tenuta a esercitare, sussistendone i
presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in
difetto– il terzo subirebbe una diminuzione della
tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un
permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni,
l’amministrazione dovrà comunque a verificare,
dandone conto motivatamente, unicamente la
sussistenza dei presupposti per l’esercizio
dell’autotutela.
Logico corollario di quanto sin qui affermato è che
la circostanza che tale terzo abbia
avuto conoscenza del titolo edilizio da più di
sessanta giorni non comporta conseguenze
processuali, in relazione alla eventuale successiva
azione giurisdizionale contro il silenzio o il
provvedimento negativo emesso dall’amministrazione,
ma ha unicamente conseguenze di tipo procedimentale.
---------------
MASSIMA
8. Al fine di inquadrare correttamente la questione,
si rende necessario chiarire la portata delle
previsioni normative rilevanti nel presente
giudizio.
In tale prospettiva, occorre prendere le mosse
proprio dalla sentenza di questa Sezione n. 2799 del
2014, che ha raggiunto conclusioni che il Collegio
condivide e ritiene di dover ribadire, e che
tuttavia non conducono all’esito sostenuto dal
controinteressato, come si dirà.
8.1 Deve anzitutto ricordarsi che
la denuncia d’inizio attività,
secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da
tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, “non è un provvedimento
amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in
ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce
un atto privato volto a comunicare l’intenzione di
intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla
legge”
(Ad. Plen. n. 15 del 2011). Affermazione, questa,
che ha poi trovato piena conferma da parte del
legislatore, posto che l’attuale articolo 19, comma
6-ter, primo periodo della legge n. 241 del 1990
–introdotto dall'articolo 6, comma 1, lett. c) del
decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148–
stabilisce espressamente che “La
segnalazione certificata di inizio attività, la
denuncia e la dichiarazione di inizio attività non
costituiscono provvedimenti taciti direttamente
impugnabili”.
L’atto non muta tale sua natura neppure dopo il
decorso del termine normativamente previsto per
l’esercizio delle verifiche da parte del Comune.
Conseguentemente, non può sostenersi che, una volta
che il terzo sia venuto a conoscenza del titolo,
ormai consolidatosi per mancato esercizio dei poteri
inibitori, lo stesso terzo disponga di sessanta
giorni di tempo per proporre impugnazione
giurisdizionale. E’ vero infatti che la sussistenza,
in tale ipotesi, di un atto impugnabile era stata
autorevolmente sostenuta, sulla base del quadro
normativo allora vigente, dall’Adunanza Plenaria n.
15 del 2011, che aveva ravvisato un provvedimento
suscettibile di tutela giurisdizionale demolitoria
nel diniego tacito di esercizio del potere
inibitorio. Tuttavia, le conclusioni cui era
pervenuta l’Adunanza Plenaria sono oggi superate
alla luce delle successive novità legislative e, in
particolare, di quanto ora disposto dal richiamato
articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del
1990.
In base a quest’ultima disposizione, “(...)
Gli interessati possono sollecitare l'esercizio
delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in
caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di
cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto
legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Previsione, questa, che come evidenziato dalla
giurisprudenza, anche della Sezione, “vieta
sostanzialmente l’impugnazione diretta della DIA o
della SCIA –non costituenti provvedimenti
amministrativi, neppure impliciti– ma consente la
sola tutela giurisdizionale secondo il citato
meccanismo di cui all’art. 31”
(TAR Lombardia, Sez. II, 14.01.2014, n. 126).
9. In tale quadro si colloca il tema della tutela
del soggetto che alleghi di essere stato leso dalla
denuncia di inizio di attività presentata da altri.
9.1 Con la richiamata sentenza n. 2799 del 2014, la
Sezione ha, anzitutto, rilevato che
i poteri inibitori spettanti all’amministrazione nei
confronti degli interventi oggetto di una denuncia
di inizio di attività vanno esercitati entro il
termine normativamente prescritto, decorso il quale
il “consolidarsi” della d.i.a. determina –di
regola– l’impossibilità per il Comune di
intervenire, se non nell’esercizio dei poteri di
autotutela
(Cons. Stato, Sez. VI, 22.09.2014 n. 4780).
Si tratta di conclusioni che trovano ormai pieno
riscontro nell’attuale previsione del comma 4
dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, come
sostituito dall'articolo 6, comma 1, lett. a) della
legge 07.08.2015, n. 124, in base al quale,
una volta decorso il termine per l’esercizio
del controllo sulla denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività, “l'amministrazione
competente adotta comunque i provvedimenti previsti
dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni
previste dall'articolo 21-nonies”.
Disposizione, questa, che è bensì inapplicabile
ratione temporis nel presente giudizio, ma che
ha sostanzialmente codificato gli esiti del
dibattito giurisprudenziale sul punto. E ciò anche
avuto riguardo alla natura dei poteri esercitati
dall’amministrazione in quest’ultima ipotesi, che
sono pur sempre di tipo inibitorio, ma
subordinatamente al riscontro dei presupposti per
l’intervento in autotutela (in coerenza con quanto
già da tempo autorevolmente chiarito da Cons. Stato,
Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
9.2 Ciò posto, la sentenza della Sezione n. 2799 del
2014 ha affermato che l’intervento
inibitorio è, tuttavia, da ritenere doveroso, e non
soggetto al ricorrere dei presupposti propri del
potere di autotutela, laddove la carenza dei
presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo,
titolare di una posizione giuridica qualificata e
differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter
del medesimo articolo 19.
E ciò
–come già affermato nella sentenza richiamata–
perché è anzitutto il chiaro tenore
testuale della previsione normativa richiamata a non
fare alcun riferimento al decorso del termine per il
“consolidarsi” della denuncia di inizio di
attività.
D’altra parte –come pure si è affermato nella
sentenza n. 2799 del 2014– “laddove
dovesse ritenersi che il terzo, venuto a conoscenza
della d.i.a. dopo il decorso del termine per il
compimento delle verifiche, non possa chiedere
l’esercizio dei poteri inibitori, ne deriverebbe un
vulnus nei confronti della tutela offerta
dall’ordinamento nei confronti di tale soggetto.”
Questi, infatti, da un lato non disporrebbe di alcun
provvedimento impugnabile (ostandovi il chiaro
tenore del richiamato comma 6-ter dell’articolo 19)
e, dall’altro, potrebbe solo invocare l’intervento
in autotutela, che è però esercitabile solo in
presenza di precisi presupposti, ulteriori rispetto
al mero riscontro dell’illegittimità.
9.3 La posizione espressa con la sentenza di questa
Sezione n. 2799 del 2014 è stata condivisa e
ribadita da numerose successive pronunce di primo
grado (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 05.03.2015,
n. 1410; TAR Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114;
TAR Veneto, Sez. II, 12.10.2015, n. 1038 e n. 1039).
In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato che
“Una tale interpretazione appare
peraltro obbligata secondo una lettura
costituzionalmente orientata delle norme alla luce
dei principi di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113
della Costituzione, non risultando altrimenti
giustificabile, rispetto all’intento di garantire
una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi,
l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al
diritto di azione del terzo leso dall’attività
intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività costituiscano
provvedimenti taciti direttamente impugnabili,
ammettendo solo che i terzi interessati possano
sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela
della propria sfera giuridica, quando l’intervento
di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad
esso possa riconoscersi la titolarità di un
interesse differenziato e qualificato, il divieto di
prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve
potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti
propri dell’autotutela avviata d’ufficio.”
(così TAR Veneto, n. 1038 del 2015, cit.).
10. Posto quindi che, secondo la
lettura qui accolta, l’articolo 19, comma 6-ter,
impone all’amministrazione di esercitare pieni
poteri inibitori della denuncia di inizio di
attività, anche dopo il “consolidarsi” del
titolo edilizio, qualora sia a ciò sollecitata da un
terzo titolare di una situazione giuridica
qualificata e differenziata, occorre chiedersi se
tale soggetto possa sollecitare in qualunque momento
l’intervento dell’amministrazione stessa, ovvero
abbia l’onere di farlo entro un lasso di tempo
stabilito.
10.1 Anche questa questione è stata affrontata, sia
pure sinteticamente, nella richiamata sentenza n.
2799 del 2014, come correttamente rilevato, nel
presente giudizio, dalla difesa del
controinteressato.
In quella pronuncia, infatti, è stato esplicitamente
evidenziato che il terzo che si assumeva leso dalla
denuncia di inizio di attività presentata dal
confinante si era rivolto all’amministrazione entro
sessanta giorni dal momento in cui, accedendo agli
atti della pratica edilizia, aveva preso piena
conoscenza del contenuto della d.i.a. e delle esatte
caratteristiche dell’intervento progettato.
La pronuncia ha, quindi, implicitamente ritenuto
rilevante la circostanza che l’istanza volta a
provocare l’esercizio del potere inibitorio fosse
intervenuta entro il suddetto termine.
10.2 Il rilievo attribuito dalla suddetta pronuncia
al momento della presentazione dell’istanza rivolta
all’amministrazione non è stato condiviso da un
altro orientamento giurisprudenziale recentemente
emerso.
In base a tale diversa ricostruzione, il terzo leso
dalla d.i.a. (o s.c.i.a.) potrebbe infatti
rivolgersi in ogni tempo all’amministrazione, e
ottenere comunque il pieno esercizio dei poteri
inibitori, senza necessità del riscontro dei
presupposti propri dell’autotutela (in questo senso:
TAR Piemonte, Sez. II, n. 1114 del 2015, cit.).
Tesi, questa, che viene argomentata sia sulla base
del tenore testuale del comma 3-bis dell’articolo 19
della legge n. 241 del 1990 –il quale non indica
testualmente alcun limite temporale per la diffida
diretta all’amministrazione– sia in considerazione
della circostanza che la possibilità di un
intervento “a tutto campo” e in ogni tempo
sulla d.i.a., in presenza di una sollecitazione
proveniente da un terzo che si assuma pregiudicato
dall’intervento, dovrebbe ritenersi giustificata
dalla natura stessa dell’istituto, che non dà luogo
alla formazione di un provvedimento amministrativo e
si basa sulla responsabilità del privato.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tali
considerazioni possano essere condivise soltanto in
parte, come meglio si illustrerà nel prosieguo.
10.3 Deve, anzitutto, confermarsi e
ribadirsi in questa sede l’orientamento già espresso
–anche in relazione al profilo inerente ai termini
per la sollecitazione dei poteri inibitori–
dalla sentenza della Sezione n. 2799 del
2014. E’ infatti da ritenere che le conclusioni
raggiunte, sul punto, dalla pronuncia richiamata
siano necessitate, alla stregua dell’interpretazione
sistematica e –ancora una volta– costituzionalmente
orientata del dato normativo, costituito
dall’articolo 19, comma 3-ter, della legge n. 241
del 1990.
Per ciò che attiene al profilo sistematico,
l’interpretazione della disposizione deve
necessariamente tenere conto della circostanza che
l’intera disciplina della denuncia di inizio di
attività, fino ai più recenti interventi normativi
(in parte successivi alla formazione dei titoli
oggetto del presente giudizio, ma comunque rilevanti
ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema),
risulta chiaramente ispirata dalla finalità di
coniugare l’esigenza di incentrare il fondamento
normativo della d.i.a sull’autoresponsabilità del
privato con quella di assicurare comunque una
sostanziale stabilità del titolo edilizio –analoga a
quella propria del permesso di costruire– dopo il
decorso del tempo stabilito per il suo “consolidarsi”.
In tale quadro normativo, è
certamente necessario
–come sopra detto– assicurare al
terzo la possibilità di ottenere piena tutela,
mediante l’esercizio dei poteri inibitori
dell’amministrazione, anche dopo che sia trascorso
tale termine di tendenziale “stabilizzazione”
del titolo edilizio.
Tuttavia, tale possibilità non può
tradursi nell’eliminazione di qualunque garanzia
attinente al “consolidarsi” della d.i.a., né
eccedere quanto necessario e sufficiente ad
assicurare al terzo leso dalla denuncia di inizio
attività una tutela equivalente a quella
riconosciuta al soggetto leso da un permesso di
costruire.
Per questa ragione, deve ritenersi
che il soggetto titolare di una situazione giuridica
qualificata e differenziata che lamenti un
pregiudizio derivante da una denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività possa ottenere il
pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori,
senza i limiti propri dell’autotutela, soltanto
laddove abbia sollecitato l’intervento
dell’amministrazione entro sessanta giorni dal
momento in cui ha avuto conoscenza della lesione.
Il predetto termine di sessanta
giorni, pur non espressamente previsto dal comma
3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990,
deve infatti ricavarsi in via sistematica, tenendo
conto che la diffida prevista dalla disposizione ora
richiamata costituisce l’unico “canale”
percorribile dall’interessato al fine di adire
eventualmente, in un secondo momento, la tutela
giurisdizionale. In tale prospettiva, l’esigenza di
assicurare sia la pienezza della tutela
(ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione),
che la parità di trattamento
rispetto al soggetto leso da un permesso di
costruire
(in relazione all’articolo 3 della Costituzione)
impone di fare applicazione del
termine ordinariamente previsto per l’impugnazione
dei provvedimenti amministrativi, fissato
dall’articolo 29 del codice del processo
amministrativo.
E’ ben vero che il termine di cui all’articolo 29
ora richiamato ha natura processuale e non
procedimentale; tuttavia, come detto,
la fase procedimentale necessaria stabilita
dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241
del 1990 costituisce un passaggio obbligato per
l’accesso alla tutela giurisdizionale, per cui è
dalla disciplina propria di quest’ultima che può e
deve trarsi il dato necessario all’integrazione in
via interpretativa della lacuna normativa.
Tale opzione ermeneutica risulta essere stata
accolta, del resto, anche dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato, la quale non ha mancato di
rimarcare, in una recente pronuncia, che “il
potere di sollecitazione del terzo non è da
intendersi come esercitabile ad libitum, bensì
rimane assoggettato al rispetto del termine di
decadenza decorrente dalla conoscenza della D.I.A.”
(così Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015, n. 5161).
11. Occorre a questo punto domandarsi quid iuris
nel caso in cui il terzo abbia richiesto
l’intervento dell’amministrazione dopo il decorso di
sessanta giorni dal momento in cui ha avuto piena
conoscenza del contenuto lesivo della denuncia di
inizio di attività.
La difesa del controinteressato ritiene che, in
questo caso, l’impugnazione del provvedimento con
cui l’amministrazione ha negato l’esercizio dei
poteri relativi alla d.i.a. sia radicalmente
inammissibile.
11.1 Il Collegio non ignora che tale soluzione
risulta essere stata accolta dalla sentenza del
Consiglio di Stato da ultimo richiamata (Cons. Stato
n. 5161 del 2015, cit.), ma ritiene –su questo
specifico aspetto– di dover addivenire a conclusioni
in parte diverse rispetto al giudice d’appello.
Deve, infatti, tenersi presente il dato
imprescindibile (ben evidenziato, come detto, da TAR
Piemonte n. 1114 del 2015, cit., che però perviene a
conclusioni non coincidenti con quelle qui
sostenute) che il comma 6-ter
dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non
prevede alcun termine per la sollecitazione dei
poteri dell’amministrazione e per l’insorgere del
correlativo obbligo, per quest’ultima, di
pronunciarsi sull’istanza.
Per le ragioni già diffusamente illustrate,
laddove l’istanza sia presentata da un terzo
titolare di una situazione giuridica qualificata e
differenziata, entro il termine di sessanta giorni
dalla conoscenza della d.i.a. o s.c.i.a.,
l’amministrazione non potrà esimersi dall’esercitare
pienamente i propri poteri inibitori.
Ciò, però, non toglie che il terzo
ben possa sollecitare l’intervento
dell’amministrazione anche oltre tale termine, al
fine di invocare non già il pieno esercizio dei
poteri inibitori, bensì il riscontro della
sussistenza dei –diversi– presupposti normativamente
previsti per l’intervento in autotutela.
11.2 Al riguardo, deve precisarsi
che –anche laddove la sollecitazione debba
intendersi diretta a provocare l’esercizio dei
poteri di autotutela– l’amministrazione è comunque
tenuta ad esprimersi sull’istanza, eventualmente
illustrando le ragioni per le quali ritenga non
sussistenti i presupposti per la rimozione del
titolo edilizio.
E’ vero, infatti, che –secondo i
principi– l’esercizio dell’autotutela è, di regola,
tipicamente discrezionale nell’an, per cui
l’amministrazione non è tenuta, di norma, neppure a
riscontrare l’istanza di autotutela presentata da un
privato
(v. ex multis Cons. Stato, V, 03.05.2012 n.
2549). Tuttavia, nel caso della
denuncia o segnalazione certificata di inizio
attività, la sussistenza di un dovere
dell’amministrazione di verificare l’esistenza dei
presupposti per l’esercizio del potere è imposta dal
chiaro tenore testuale del richiamato comma 3-bis
dell’articolo 19, il quale attribuisce espressamente
al terzo che si assuma leso dal titolo edilizio un
incondizionato accesso anche alla tutela
giurisdizionale avverso il silenzio.
D’altro canto, la soluzione prescelta dal
legislatore è coerente con il fondamentale rilievo
che, nel caso di intervento di controllo relativo
alla d.i.a. o s.c.i.a., non si fa questione di
esercizio di poteri di autotutela in senso proprio,
poiché manca un provvedimento amministrativo
rispetto al quale possa esercitarsi un potere di
secondo grado. Piuttosto –come sopra detto–
l’amministrazione, in questo caso, esercita pur
sempre poteri di tipo inibitorio, ma
subordinatamente al riscontro dei presupposti per
l’intervento in autotutela.
12. In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui
esposto, il Collegio ritiene che la
previsione del comma 6-ter dell’articolo 19 della
legge n. 241 del 1990 imponga all’amministrazione di
riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza
con cui un terzo, titolare di una situazione
giuridica qualificata e differenziata, abbia
sollecitato l’intervento della stessa
amministrazione in relazione a una denuncia o
segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare, laddove l’istanza
pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui
tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei
profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione
sarà tenuta a esercitare, sussistendone i
presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in
difetto– il terzo subirebbe una diminuzione della
tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un
permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni,
l’amministrazione dovrà comunque a verificare,
dandone conto motivatamente, unicamente la
sussistenza dei presupposti per l’esercizio
dell’autotutela.
Logico corollario di quanto sin qui affermato è che
la circostanza che tale terzo abbia
avuto conoscenza del titolo edilizio da più di
sessanta giorni non comporta conseguenze
processuali, in relazione alla eventuale successiva
azione giurisdizionale contro il silenzio o il
provvedimento negativo emesso dall’amministrazione,
ma ha unicamente conseguenze di tipo procedimentale
(secondo quanto già rilevato dalla Sezione con la
sentenza n. 585 del 05.03.2014).
In entrambe le ipotesi sopra enunciate, il ricorso
giurisdizionale avverso il provvedimento con cui
l’amministrazione abbia negato il proprio intervento
sarà quindi ammissibile –sussistendo, beninteso,
tutte le altre condizioni dell’azione– ma la
risposta dell’amministrazione dovrà essere
verificata tenendo conto del diverso potere
esercitato nelle due ipotesi sopra dette (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.04.2016 n. 735 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'atto
comunale col quale è stato sospeso il termine
previsto dall’art. 26, comma 1, lett. a), della L.R.
n. 16/2008 per l’inizio dei lavori di cui alla
presentata D.I.A. condizionando la ulteriore
efficacia della D.I.A alla produzione di un atto di
consenso di terzi, concreta un vero e proprio
arresto procedimentale, di natura immediatamente
lesiva.
---------------
E' illegittimo l’atto inibitorio adottato oltre il
termine perentorio di venti giorni, alla scadenza
del quale matura l'autorizzazione implicita ad
eseguire i lavori progettati e indicati nella
denuncia di inizio attività, fermo il potere
dell'amministrazione comunale di avviare uno
specifico procedimento di autotutela preordinato
all’annullamento dell’autorizzazione implicita.
---------------
Il decorso del termine per la formazione del titolo
abilitativo non può avere alcun effetto di
legittimazione dell’intervento soltanto nel caso
dichiarazioni infedeli o recanti una erronea
rappresentazione dei fatti, cioè in presenza di
un’attività potenzialmente decettiva od ingannevole
del dichiarante, non già nei casi di mera
incompletezza della documentazione a corredo
dell’istanza, che debbono essere evidenziati
nell’apposito termine perentorio di cui sopra.
---------------
- Rilevato che, con ricorso notificato in data
29.11.2010, la signora Ch.Ga. ha impugnato il
provvedimento 08.10.2010, con il quale il comune di
Levanto ha sospeso il termine previsto dall’art. 26,
comma 1, lett. a), della L.R. n. 16/2008 per
l’inizio dei lavori di cui alla D.I.A. obbligatoria
n. 107/2010, presentata in data 01.06.2010 in vista
della realizzazione di due finestre, a motivo della
mancanza del nulla osta condominiale;
- Rilevato come la sospensione del termine,
condizionando la ulteriore efficacia della D.I.A
alla produzione di un atto di consenso di terzi,
concreti un vero e proprio arresto procedimentale,
di natura immediatamente lesiva;
- Ritenuto che il ricorso è fondato, sotto
l’assorbente profilo della violazione degli artt. 23
e 26 L.R. Liguria n. 16/2008, essendo stato l’atto
inibitorio adottato oltre il termine perentorio di
venti giorni, alla scadenza del quale matura
l'autorizzazione implicita ad eseguire i lavori
progettati e indicati nella denuncia di inizio
attività, fermo il potere dell'amministrazione
comunale di avviare uno specifico procedimento di
autotutela preordinato all’annullamento
dell’autorizzazione implicita (TAR Toscana, III,
16.03.2009, n. 430; TAR Liguria, I, 04.04.2008, n.
460);
- Considerato che il decorso del termine per la
formazione del titolo abilitativo non può avere
alcun effetto di legittimazione dell’intervento
soltanto nel caso dichiarazioni infedeli o recanti
una erronea rappresentazione dei fatti, cioè in
presenza di un’attività potenzialmente decettiva od
ingannevole del dichiarante, non già nei casi di
mera incompletezza della documentazione a corredo
dell’istanza, che debbono essere evidenziati
nell’apposito termine perentorio di cui all’art. 26,
comma 4, della L.R. n. 16/2008
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 14.01.2011 n. 47 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso e del
proprietario del bene.
Per quanto riguarda la possibilità di
ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria
sostitutiva attraverso la rimozione delle opere abusive, si
ritiene che il ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso
(o del proprietario del bene) sia idoneo a determinare la
perdita del potere di esigere il pagamento della sanzione
già applicata.
Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza il prezzo di
una sanatoria, non esiste un interesse pubblico che possa
opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori acquisiti dal
privato in violazione della disciplina urbanistica.
Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di verificare
che:
(a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo tecnicamente possibile
ma anche non facilmente reversibile, e
(b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non comportino
pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita in
conformità (peraltro è possibile che il privato accetti di
modificare anche la parte conforme, se questo appare utile
per eliminare in sicurezza le opere abusive).
Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34, comma
2, del DPR 380/2001.
L’amministrazione subirebbe infatti un danno economico se
accettasse di perdere l’importo della sanzione in cambio di
un’eliminazione solo apparente dell’abuso, e d’altra parte
non è possibile lasciare al privato la valutazione circa
l’assenza di rischi per la sicurezza delle persone e delle
cose.
---------------
Nello specifico, è evidente che il ribassamento del soffitto
fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio in legno
non costituisce né un intervento irreversibile (essendo anzi
facilmente reversibile) né un ostacolo all’utilizzo della
superficie del locale per qualsiasi destinazione, comprese
quelle incompatibili con la disciplina urbanistica. Si
tratta in realtà di una misura che non cancella l’abuso
edilizio, e in particolare non riduce la superficie lorda di
pavimento e il connesso maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre
la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di
terreno sulla copertura.
La rimozione radicale delle opere abusive non è stata
proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata
sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi
che un simile intervento potrebbe creare per la parte
conforme dell’edificio.
Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento di
riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è
possibile qualificare come superfici non utili, e quindi
urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è
appena al di sotto del limite minimo ma comunque
perfettamente idonea a consentire la generalità degli
utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è
possibile conseguire la sanatoria solo formalmente,
ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità
delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica.
L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento
dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001,
con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
---------------
Relativamente
ai parametri utilizzati per calcolare l’importo di cui
all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, la base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva
è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge
392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è
disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come
riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata
accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di
produzione sono poi applicati diversi coefficienti in
incremento o in riduzione.
Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di
tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di
produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai
fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine
pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo
effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art.
16, relativo alla tipologia dell’abitazione.
Nel caso del
ricorrente, questo significherebbe non applicare il
coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale
A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo
della sanzione pecuniaria. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia
condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa
chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione,
sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria.
Così
formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi
di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le
quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla
sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è
più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e
omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi,
il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando
conseguentemente il principio di certezza del diritto.
...
Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di
produzione occorre fare riferimento alla situazione
successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore
economico rilevante è quello che risulta dal completamento
dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può
conservare il valore attuale del bene illegittimamente
realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che
sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non
può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie
edilizie di favore (come la definizione di locale
seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni
legittime.
...
L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il
coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e
manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il
ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla
presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza
che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non
sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la
copertura.
Non sembra tuttavia che questa situazione possa
consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La
finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un
canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in
cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione.
L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece
l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin
dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato
la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di
conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere
riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle
opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in
quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile
ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore
dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso)
di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della
propria obbligazione.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza del responsabile del
Settore Tecnico-Manutentivo prot. n. 9128/2015 del
23.01.2015, con la quale è stato nuovamente ingiunto al
ricorrente il pagamento di una sanzione pari a € 88.520,28
in luogo della demolizione delle opere abusive, ai sensi
dell’art. 34, comma 2, del DPR 06.06.2001 n. 380;
...
1. Il Comune di Carobbio degli Angeli, con ordinanza del
responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo del 23.01.2015,
ha nuovamente ingiunto al ricorrente Si.Fu. il pagamento di
una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione delle
opere abusive, ai sensi dell’art. 34, comma 2, del DPR
06.06.2001 n. 380. L’importo della sanzione è stato
quantificato in € 88.520,28.
2. L’intervento edilizio abusivo interessa un edificio
residenziale situato nella frazione di S. Stefano, e
consiste nella realizzazione di una cantina più ampia di
quanto assentito e nella trasformazione della stessa in
taverna o soggiorno abitabile (e quindi in superficie
utile).
3. Questo intervento è stato ritenuto non sanabile, mentre
per altre opere abusive eseguite nel medesimo edificio è
stato concesso l’accertamento di conformità ex art. 36 del
DPR 380/2001. La domanda di sanatoria era stata presentata
il 25.06.2012, ed era poi stata integrata l’08.01.2013.
4. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore
Tecnico-Manutentivo del 02.03.2013, aveva già quantificato
in € 88.520,28 la sanzione ex art. 34, comma 2, del DPR
380/2001. Tale provvedimento non è stato impugnato.
5. In data 04.05.2013 il ricorrente ha contestato
direttamente presso gli uffici comunali le modalità di
calcolo attraverso una perizia del geom. Ma.An.Br.,
proponendo una stima diversa. I punti di contrasto (riferiti
agli art. 16-19-21-22 della legge 27.07.1978 n. 392)
riguardavano (a) il livello di piano (seminterrato o piano
terra), (b) lo stato di conservazione dell’immobile
(mediocre o normale), e (c) la base di calcolo della
sanzione pecuniaria (disapplicazione del coefficiente
correttivo riferito alla tipologia di costruzione).
Modificando solo i parametri relativi al livello di piano e
allo stato di conservazione, la sanzione sarebbe pari a €
57.226,02. Se poi venisse modificata anche la base di
calcolo, non applicando al costo di produzione la
maggiorazione collegata alla tipologia di costruzione, la
sanzione sarebbe pari a € 40.875,73.
6. Il Comune, con provvedimento del responsabile del Settore
Tecnico-Manutentivo del 20.08.2014, ha respinto l’ipotesi di
calcolo formulata dal ricorrente, confermando la sanzione in
€ 88.520,28. Contro questo provvedimento il ricorrente ha
presentato ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, con atto notificato il 19.12.2014.
7. Nello stesso tempo, il ricorrente, con nota del
19.11.2014, ha reiterato la richiesta di riduzione della
sanzione, e, in alternativa, ha proposto un percorso di
cancellazione dell’abuso edilizio mediante modifica dello
stato dei luoghi (ribassamento del soffitto fino a 2,50
metri, ripristino della destinazione a cantina).
L’eliminazione delle opere abusive avrebbe dovuto comportare
l’inapplicabilità dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, e
la conseguente liberazione del ricorrente dall’obbligazione
pecuniaria.
8. Il Comune, con la citata ordinanza del 23.01.2015, ha
respinto le richieste del ricorrente, confermando l’importo
della sanzione.
9. Contro il suddetto provvedimento il ricorrente ha
presentato impugnazione davanti a questo TAR, con atto
notificato il 26.03.2015 e depositato il 17.04.2015. Le
censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione delle garanzie procedimentali per omesso invio del
preavviso di diniego;
(ii) violazione dell’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, in quanto
il Comune non ha consentito al ricorrente di sottrarsi alla
sanzione pecuniaria rimuovendo le opere abusive;
(iii) violazione degli art. 15-22 della legge 392/1978, in quanto
vi sarebbero degli errori nel calcolo del costo di
produzione delle opere abusive (in proposito, il ricorso
rinvia a una nuova perizia del geom. Ma.An.Br., datata
12.10.2014).
10. Il Comune si è costituito in giudizio, eccependo
l’inammissibilità del ricorso, e chiedendone la reiezione
nel merito.
11. Questo TAR, con
ordinanza 12.05.2015 n. 793, ha accolto la
domanda cautelare in relazione al secondo motivo di ricorso,
invitando il Comune a esaminare la proposta di cancellazione
delle opere abusive finalizzata a ottenere la liberazione
dalla relativa sanzione.
12. In esecuzione dell’ordine del TAR, il Comune ha invitato
il ricorrente a chiarire le modalità scelte per
l’eliminazione dell’abuso edilizio. Il ricorrente ha
presentato un apposito progetto, che prevedeva la riduzione
dell’altezza interna del locale destinato a soggiorno
mediante l’installazione di un solaio in legno con innesti
nella muratura, e contemporaneamente la mimetizzazione della
costruzione all’esterno con la posa di terreno sulla
copertura.
Il responsabile del Settore Tecnico-Manutentivo, con
provvedimento del 05.08.2015, ha ritenuto che la predetta
soluzione non fosse idonea a ripristinare una situazione
urbanisticamente conforme, in quanto lasciava invariata la
maggiore superficie lorda di pavimento (87,05 mq) rispetto a
quella assentita (45,00 mq).
13. Il provvedimento del 05.08.2015 non è stato impugnato.
14. Così riassunta la vicenda contenziosa, sulle questioni
rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le
seguenti considerazioni.
Sulle eccezioni preliminari
15. La sanzione pecuniaria ex art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, sostitutiva della demolizione, è stata definita
nello stesso importo in tre distinti provvedimenti: il primo
(02.03.2013) non impugnato; il secondo (20.08.2014)
impugnato con ricorso straordinario; il terzo (23.01.2015)
impugnato nel presente ricorso.
16. Non vi è stata acquiescenza rispetto al primo
provvedimento, in quanto la richiesta di riesame ha tenuto
aperto il canale di confronto con gli uffici comunali.
L’amministrazione, pertanto, sia con il secondo sia con il
terzo provvedimento, ha adottato decisioni fondate su una
nuova valutazione dei fatti, che hanno ciascuna sostituito
la precedente.
17. Proseguendo su questa linea, si può ritenere che non vi
sia litispendenza rispetto al ricorso straordinario, in
quanto il terzo provvedimento si presenta come la risposta
finale dell’amministrazione alle plurime richieste e
contestazioni del ricorrente. L’interesse a impugnare il
secondo provvedimento sussisteva certamente in origine, ma è
stato poi sostituito dall’interesse a impugnare il terzo
provvedimento, che ha definitivamente impedito al ricorrente
sia di cancellare la sanzione pecuniaria attraverso la
rimozione delle opere abusive sia di ottenere una riduzione
dell’importo dovuto.
18. Non sussisteva invece un autonomo onere di impugnazione
del quarto provvedimento della serie, ossia del nuovo
diniego emesso dal Comune il 05.08.2015 in seguito al
supplemento istruttorio disposto da questo TAR con
l’ordinanza cautelare. Per chiarire questo punto è
necessario esaminare il primo motivo di impugnazione, che
riguarda la violazione delle garanzie procedimentali.
Sulle garanzie procedimentali
19. In generale, l’omissione del preavviso di diniego in una
procedura avviata da tempo e caratterizzata dalla continua
interlocuzione tra il privato e gli uffici comunali non può
essere considerata come un vizio autonomo del provvedimento
finale.
20. Diverso è il problema del mancato esame dell’ultima
proposta avanzata dal ricorrente, ossia della possibilità di
ottenere la liberazione dalla sanzione pecuniaria mediante
la rimozione delle opere abusive. Qui, in effetti,
l’interlocuzione tra il ricorrente e gli uffici comunali si
è arrestata troppo presto, lasciando il dubbio di
un’istruttoria inadeguata.
Questo difetto, tuttavia, non riguarda l’intero
provvedimento (non incide, in particolare, sui criteri di
calcolo della sanzione pecuniaria), e può essere oggetto di
convalida in sede giudiziale tramite il meccanismo della
motivazione ex post di cui all’art. 21-octies comma 2
della legge 07.08.1990 n. 241.
21. L’ordinanza cautelare, attivando immediatamente il
suddetto meccanismo allo scopo di fare economia dei mezzi
processuali, ha rimesso in termini le parti per completare
il confronto anche su questo profilo della vicenda
contenziosa. Tale confronto ha avuto esito negativo per il
ricorrente, nel senso che il Comune ha confermato
motivatamente la propria posizione.
Tuttavia, poiché il nuovo provvedimento appartiene
all’attività processuale, non è necessaria un’autonoma
impugnazione, potendovi essere diretta cognizione da parte
del giudice, nella fase di merito, sugli atti conseguenti
alle pronunce cautelari. La censura riguardante il mancato
esame della proposta di rimozione delle opere abusive si
trasforma quindi da formale a sostanziale, concentrandosi
sulle ragioni che non hanno consentito questo percorso di
sanatoria.
Sulla cancellazione delle opere abusive
22. Per quanto riguarda la possibilità di ottenere la
liberazione dalla sanzione pecuniaria sostitutiva attraverso
la rimozione delle opere abusive, si ritiene che il
ravvedimento operoso dell’autore dell’abuso (o del
proprietario del bene) sia idoneo a determinare la perdita
del potere di esigere il pagamento della sanzione già
applicata. Poiché la sanzione sostitutiva è nella sostanza
il prezzo di una sanatoria, non esiste un interesse pubblico
che possa opporsi alla rinuncia ai diritti edificatori
acquisiti dal privato in violazione della disciplina
urbanistica.
23. Tuttavia, l’amministrazione conserva il potere di
verificare che (a) l’eliminazione dell’abuso sia non solo
tecnicamente possibile ma anche non facilmente reversibile,
e (b) i lavori necessari per l’eliminazione dell’abuso non
comportino pregiudizio per la parte dell’edificio eseguita
in conformità (peraltro è possibile che il privato accetti
di modificare anche la parte conforme, se questo appare
utile per eliminare in sicurezza le opere abusive).
24. Entrambe le regole derivano direttamente dall’art. 34,
comma 2, del DPR 380/2001. L’amministrazione subirebbe
infatti un danno economico se accettasse di perdere
l’importo della sanzione in cambio di un’eliminazione solo
apparente dell’abuso, e d’altra parte non è possibile
lasciare al privato la valutazione circa l’assenza di rischi
per la sicurezza delle persone e delle cose.
25. Nello specifico, è evidente che il ribassamento del
soffitto fino a un’altezza di 2,50 metri mediante un solaio
in legno non costituisce né un intervento irreversibile
(essendo anzi facilmente reversibile) né un ostacolo
all’utilizzo della superficie del locale per qualsiasi
destinazione, comprese quelle incompatibili con la
disciplina urbanistica. Si tratta in realtà di una misura
che non cancella l’abuso edilizio, e in particolare non
riduce la superficie lorda di pavimento e il connesso
maggiore volume.
Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, appare inoltre
la mimetizzazione del volume verso l’esterno con la posa di
terreno sulla copertura.
26. La rimozione radicale delle opere abusive non è stata
proposta dal ricorrente, e non è stata neppure contestata
sul piano tecnico la valutazione del Comune circa i rischi
che un simile intervento potrebbe creare per la parte
conforme dell’edificio.
27. Anche prescindendo dalla reversibilità dell’intervento
di riduzione dell’altezza interna, si sottolinea che non è
possibile qualificare come superfici non utili, e quindi
urbanisticamente irrilevanti, quei locali dove l’altezza è
appena al di sotto del limite minimo ma comunque
perfettamente idonea a consentire la generalità degli
utilizzi residenziali.
A maggior ragione, nel caso di abusi edilizi, non è
possibile conseguire la sanatoria solo formalmente,
ribassando l’altezza, e conservare nella sostanza l’utilità
delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica.
L’unica forma di sanatoria passa per il consolidamento
dell’abuso edilizio ex art. 34, comma 2, del DPR 380/2001,
con il pagamento di una sanzione pecuniaria sostitutiva.
Sulla quantificazione della sanzione pecuniaria
sostitutiva
28. Relativamente ai parametri utilizzati per calcolare
l’importo di cui all’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001, si
ritiene che il Comune abbia operato correttamente.
29. La base di calcolo della sanzione pecuniaria sostitutiva
è rappresentata dal costo di produzione di cui alla legge
392/1978, che per gli immobili ultimati dopo il 31.12.1975 è
disciplinato dall’art. 22 di tale legge, e ha come
riferimento principale il costo dell'edilizia convenzionata
accertato mediante decreto ministeriale. Al costo di
produzione sono poi applicati diversi coefficienti in
incremento o in riduzione.
30. Il comma 3 dell’art. 22 della legge 392/1978 consente di
tenere conto del costo effettivo, se superiore al costo di
produzione, quando vi sia una prova adeguata dello stesso ai
fini fiscali o in base ad altra documentazioni di origine
pubblica. Il successivo comma 4 prevede che al costo
effettivo non sia applicato il coefficiente di cui all’art.
16, relativo alla tipologia dell’abitazione. Nel caso del
ricorrente, questo significherebbe non applicare il
coefficiente 1,4 riferito ai villini (categoria catastale
A/7), con la conseguente riduzione della base di calcolo
della sanzione pecuniaria.
31. La richiesta del ricorrente non appare tuttavia
condivisibile, in quanto l’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, nel rinviare alla legge 392/1978, precisa
chiaramente che il rinvio riguarda il costo di produzione,
sul quale è calcolata la sanzione pecuniaria. Così
formulata, la norma non consente di richiamare anche le basi
di calcolo alternative descritte nella legge 392/1978, le
quali rimangono quindi irrilevanti con riguardo alla
sanzione pecuniaria.
Questa interpretazione appare preferibile non solo perché è
più vicina alla lettera dell’art. 34, comma 2, del DPR
380/2001, ma anche perché assicura maggiore semplicità e
omogeneità alla disciplina repressiva degli abusi edilizi,
il che rende la sanzione meglio prevedibile, tutelando
conseguentemente il principio di certezza del diritto.
32. L’art. 19 della legge 392/1978 individua il coefficiente
0,80 per le abitazioni situate al piano seminterrato. Il
ricorrente sostiene che il locale abusivo sarebbe appunto
seminterrato, tenendo conto della linea originaria del
terreno.
33. Questa impostazione non può essere condivisa.
Nell’applicare i coefficienti correttivi del costo di
produzione occorre fare riferimento alla situazione
successiva all’intervento edilizio, in quanto il valore
economico rilevante è quello che risulta dal completamento
dei lavori.
L’autore (o il proprietario) di un’opera abusiva non può
conservare il valore attuale del bene illegittimamente
realizzato senza corrispondere al Comune una sanzione che
sia direttamente commisurata a tale valore, e comunque non
può ridurre la propria obbligazione avvalendosi di categorie
edilizie di favore (come la definizione di locale
seminterrato) che sono riferibili soltanto alle edificazioni
legittime.
34. Nello specifico, le stesse cartografie prodotte dal
ricorrente in occasione della domanda di sanatoria e la
relativa documentazione fotografica (doc. 5 e 6 del Comune)
chiariscono che il locale abusivo fuoriesce dal terreno su
tre lati, ed è del tutto assimilabile per aspetto e
funzionalità a una costruzione fuori terra.
35. L’art. 21 della legge 392/1978 impone di applicare il
coefficiente 0,80 se lo stato di conservazione e
manutenzione dell'immobile è mediocre. Secondo il
ricorrente, tale condizione sarebbe dimostrata dalla
presenza di muffe e umidità di risalita, dalla circostanza
che l’impianto elettrico e l’impianto termosanitario non
sono a norma, e dalle infiltrazioni che interessano la
copertura.
36. Non sembra tuttavia che questa situazione possa
consentire la riduzione della sanzione pecuniaria. La
finalità della legge 392/1978 è l’individuazione di un
canone adeguato alle condizioni dell’immobile nel momento in
cui viene attivato o rinnovato il rapporto di locazione.
L’art. 34, comma 2, del DPR 380/2001 presuppone invece
l’individuazione del valore di un’opera abusiva rimasta fin
dall’inizio nella disponibilità del soggetto che ha violato
la disciplina urbanistica (o dei suoi aventi causa).
Pertanto, ai fini della sanzione pecuniaria, lo stato di
conservazione e manutenzione dell'immobile deve essere
riferito esclusivamente alla data di realizzazione delle
opere abusive. Il deterioramento sopravvenuto non rileva, in
quanto, non essendo l’inerzia nella manutenzione imputabile
ad altri soggetti, non è possibile consentire all’autore
dell’abuso edilizio (o ai soggetti subentrati allo stesso)
di ridurre unilateralmente per questa via l’entità della
propria obbligazione.
37. Nello specifico, come riferito nel provvedimento del
23.01.2015 oggetto di impugnazione, le autocertificazioni e
le dichiarazioni allegate alla domanda di sanatoria
attestavano la conformità dell’impianto elettrico e
dell’impianto termosanitario, e l’idoneità statica del
locale. Su questa base, si può ritenere che alla data della
domanda di sanatoria, e a maggior ragione alla data di
conclusione dei lavori abusivi, l’immobile si trovasse in
uno stato di conservazione e manutenzione normale.
Conclusioni
38. Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.12.2016 n. 1792 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Assenso dei condomini per sopraelevare l’ultimo piano di un
edificio condominiale.
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Concessione edilizia – Sopraelevazione ultimo piano di un
edificio condominiale – Assenso proprietari dei piani
sottostanti – Non occorre.
Per la sopraelevazione dell'ultimo
piano di un edificio condominiale non è necessario l'assenso
dei proprietari dei piani sottostanti (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Trga Trento che il diritto di sopraelevare (art.
1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario
dell’ultimo piano dell’edificio, o al proprietario esclusivo
del lastrico solare, e non necessita di alcun riconoscimento
da parte degli altri condomini. L'art. 1120 cod. civ. trova
unicamente applicazione alle innovazioni dirette al
miglioramento o all’uso più comodo, ovvero al maggior
rendimento, delle cose comuni, regolando le questioni
relative alle maggioranze necessarie per la loro
approvazione, ma non disciplina affatto il diritto di
sopraelevare.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi piani
sia la trasformazione di locali preesistenti con aumento
delle superfici e delle volumetrie (Cass. n. 2865 del 2008),
spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro diviso a più
proprietari- a ciascuno di essi nei limiti della propria
porzione di piano, con utilizzazione dello spazio aereo
sovrastante la stessa (Cass. n. 4258 del 2006).
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nei commi 2
e 3 dell’art. 1127 cod. civ., assumono carattere assoluto
solo per quanto concerne il profilo statico (nella
fattispecie non in discussione) dell’edificio, residuando la
possibilità di eventuali opposizioni dei condomini per le
diverse ragioni di ordine architettonico o di notevole
diminuzione di aria o di luce ai piani sottostanti (Cass. n.
2708 del 1996), in ordine alle quali, tuttavia, le
controversie ricadono nella giurisdizione del giudice
ordinario, trattandosi di questioni prettamente civilistiche
(Cass., S.U., n. 1552 del 1986;
Cons. St., sez. V, 21.11.2003, n. 7539), senza
compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio
del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile,
nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi (Tar
Catanzaro, sez. I, 19.11.2015, n. 1749) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 06.02.2017 n. 45
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento a firma del
segretario comunale del Comune di Primiero San Martino di
Castrozza prot. n. 5892/P di data 15.06.2016 avente ad
oggetto “variante alla ce n. n. 18/2012 del 13.04.2012
inerente il progetto di rifacimento e risanamento della
copertura della p.m. 4 p.ed. 164 sita in Val di Roda - CC.
Tonadico II - esito cec – sospensione del procedimento”,
nonché del presupposto parere del 09.06.2016 della Commissione
per la pianificazione territoriale e il paesaggio della
Comunità di Primiero, nella parte in cui prescrive la
produzione del c.d. "Allegato A" per il rilascio del
permesso di costruire in variante richiesto dalla
ricorrente;
...
La ricorrente, proprietaria di un’unità immobiliare (p.m. 4
p.ed. 167) sita all’ultimo piano di un edificio
condominiale, impugna –previa richiesta di sospensione- il
provvedimento in epigrafe con cui il Comune di Primiero San
Martino di Castrozza ha sospeso la trattazione della domanda
di variante -ad una precedente concessione edilizia-
inoltrata dall’interessata per la sopraelevazione della
porzione di piano che le appartiene.
Il provvedimento di sospensione è stato adottato
dall’amministrazione comunale sulla scorta del parere della
commissione edilizia con cui l’organo consultivo ha ritenuto
necessario l’acquisizione “della liberatoria dei soggetti
aventi diritto sulle parti oggetto di intervento in quanto
l’intervento proposto si configura nella fattispecie
dell’innovazione, così come definita dall’articolo 1120 del
codice civile in quanto le modifiche richieste sulla parte
comune comportano una trasformazione radicale della
medesima, con esecuzione di opere che eccedono il limite
della conservazione, dell’ordinaria amministrazione e del
godimento della cosa, importandone una modificazione tale
che può incidere sull’interesse di tutti i condomini”.
...
2. Ciò posto, il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato
per le seguenti ragioni.
2.1.
Il diritto di sopraelevare (art. 1127 cod. civ.) spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio, o
al proprietario esclusivo del lastrico solare, e non
necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri
condomini. Peraltro, l’art. 1120 cod. civ. trova unicamente
applicazione alle innovazioni dirette al miglioramento o
all’uso più comodo, ovvero al maggior rendimento, delle cose
comuni, regolando le questioni relative alle maggioranze
necessarie per la loro approvazione, ma non disciplina
affatto il diritto di sopraelevare
(cfr. Cass. n. 15504/2000).
2.2.
Tale diritto, ricomprendente sia l’esecuzione di nuovi
piani sia la trasformazione di locali preesistenti con
aumento delle superfici e delle volumetrie (cfr. Cass. n.
2865/2008), spetta -ove l’ultimo piano appartenga pro
diviso a più proprietari- a ciascuno di essi nei limiti
della propria porzione di piano, con utilizzazione dello
spazio aereo sovrastante la stessa
(cfr. Cass. n. 4258/2006).
2.3.
I limiti al diritto di sopraelevazione, previsti nel
secondo e terzo comma dell’art. 1127 cod. civ., assumono
carattere assoluto solo per quanto concerne il profilo
statico
(nella fattispecie non in discussione)
dell’edificio, residuando la possibilità di eventuali
opposizioni dei condomini per le diverse ragioni di ordine
architettonico o di notevole diminuzione di aria o di luce
ai piani sottostanti
(cfr. Cass. n. n. 2708/1996),
in ordine
alle quali, tuttavia, le controversie ricadono nella
giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di
questioni prettamente civilistiche
(cfr. Cass. SU, n.
1552/1986; Cons. di Stato, n. 7539/2003),
senza
compromissioni nella sede amministrativa, ove il rilascio
del titolo abilitativo edilizio deve ritenersi conseguibile,
nella materia in esame, fatti salvi i diritti dei terzi
(cfr. Tar Calabria Catanzaro n. 1749/2015).
3. Applicando le surriferite coordinate alla fattispecie, il
ricorso si appalesa fondato, anzitutto, per la mancata
considerazione ed applicazione, da parte
dell’amministrazione, della peculiare disciplina regolante
il diritto alla sopraelevazione.
4. Inoltre, dalla disamina dell’estratto progettuale della
variante richiesta (doc. 7 fasc. ricorrente) non emerge una
soluzione realizzativa contrastante con il diritto a
sopraelevare riconosciuto dall’art. 1127 cod. civ., nel
mentre i motivi addotti nel parere della Commissione
edilizia - su cui è basato il provvedimento di sospensione
impugnato - circa una pretesa, e del tutto genericamente
esposta, trasformazione radicale della parte comune, non
sono corredati da alcuna (necessaria) spiegazione, e sono
rimasti viepiù indimostrati nel corso dell’intero giudizio.
5. All’accoglimento del ricorso per le suesposte ragioni
consegue l’annullamento degli atti impugnati. |
URBANISTICA: Ai
sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, nr. 1150, in sede
di approvazione di un piano attuativo di iniziativa privata
al Comune spetta un’ampia discrezionalità valutativa,
sostanzialmente corrispondente a quella che connota più in
generale le scelte pianificatorie dell’Amministrazione
comunale.
Se questo è vero, ne discende che tale discrezionalità
valutativa non può che vertere, oltre che sugli aspetti
tecnici della conformità o meno del piano attuativo agli
strumenti urbanistici di livello superiore, anche
sull’opportunità di dare attuazione, in un certo momento e a
determinate condizioni, alle previsioni dello strumento
urbanistico generale, sussistendo fra quest’ultimo e gli
strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità,
ma non di formale coincidenza.
Sicché è ben possibile, e per nulla irragionevole né
illegittimo, che il diniego di approvazione di una proposta
di piano attuativo sia ancorato, al di là dell’astratta e
formale compatibilità con la strumentazione di livello
superiore, a un giudizio di obsolescenza di quest’ultima e
al contrasto della proposta con le nuove e diverse scelte
destinate a concretarsi in un nuovo strumento generale in
corso di formazione.
---------------
... per la riforma, previa sospensione, della sentenza del
TAR della Campania, Sez. staccata di Salerno, Sez. I, nr.
629/2014, depositata in data 25.03.2014, non notificata, con
la quale è stato respinto il ricorso (nr. 515/2013) contro
il diniego di P.U.A. della Società Nu.Im..
...
7. Col primo motivo, parte appellante censura il punto 5
della sentenza in epigrafe, laddove il primo giudice ha
ritenuto legittima la valutazione di non assentibilità
operata dal Comune; in particolare, parte istante riproduce
la propria impostazione di primo grado secondo cui
l’Amministrazione, esercitando quella che il primo giudice
ha definito una “insopprimibile” discrezionalità
valutativa, avrebbe in realtà imposto sui suoli de quibus
una atipica “misura di salvaguardia” al fine di
impedire immutazioni del territorio nelle more
dell’approvazione del P.U.C. in itinere.
Secondo l’appellante, al contrario, la valutazione
consentita al Comune doveva esaurirsi al riscontro
dell’esistenza di un’edificabilità dell’area ed
all’insussistenza di ragioni totalmente ostative
all’intervento ricavabili dalla pianificazione di livello
superiore (ragioni che, almeno in parte, lo stesso TAR ha
escluso).
La tesi non può però essere condivisa.
Ed invero, questa Sezione ha già avuto modo di affermare
che, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, nr. 1150,
in sede di approvazione di un piano attuativo di iniziativa
privata al Comune spetta un’ampia discrezionalità
valutativa, sostanzialmente corrispondente a quella che
connota più in generale le scelte pianificatorie
dell’Amministrazione comunale (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
20.04.2012, nr. 2361).
Se questo è vero, ne discende che tale discrezionalità
valutativa non può che vertere, oltre che sugli aspetti
tecnici della conformità o meno del piano attuativo agli
strumenti urbanistici di livello superiore, anche
sull’opportunità di dare attuazione, in un certo momento e a
determinate condizioni, alle previsioni dello strumento
urbanistico generale, sussistendo fra quest’ultimo e gli
strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità,
ma non di formale coincidenza.
Da tali piane considerazioni consegue che è ben possibile, e
per nulla irragionevole né illegittimo, che il diniego di
approvazione di una proposta di piano attuativo sia
ancorato, al di là dell’astratta e formale compatibilità con
la strumentazione di livello superiore, a un giudizio di
obsolescenza di quest’ultima e al contrasto della proposta
con le nuove e diverse scelte destinate a concretarsi in un
nuovo strumento generale in corso di formazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.12.2016 n. 5527 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Nei
locali della p.a. si deve poter allattare.
Le pubbliche amministrazioni e i singoli dipendenti pubblici
dovranno assumere azioni positive, comportamenti
collaborativi e comunque non ostacolare le esigenze di
allattamento nei locali della p.a..
Lo prevede la
direttiva
03.02.2017 n. 1/2017
del dipartimento della funzione pubblica diffusa ieri (Direttiva
del Ministro per la semplificazione e la pubblica
amministrazione in materia di comportamenti e atti delle
pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 ostativi
all’allattamento).
L'allattamento, spiega una nota del ministro Marianna Madia,
è un diritto fondamentale dei bambini e le madri devono
essere sostenute nella realizzazione del desiderio di
allattare.
Diritto riconosciuto dalla legislazione comunitaria e
nazionale: la direttiva 2006/141/Ce ad esempio richiama il
principio della promozione e della protezione
dell'allattamento al seno e la necessità di non scoraggiare
la stessa pratica.
I vertici e la dirigenza delle amministrazioni, prevede la
direttiva, si adopereranno per prevenire comportamenti o
atti in contrasto con le finalità viste sopra, anche
nell'ambito di organismi controllati
(articolo ItaliaOggi del 04.02.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Assunzioni e mobilità regioni e enti locali
(Dipartimento Funzione Pubblica,
nota 02.02.2017 n. 7202 di prot.). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale –
scadenza del 02.05.2017. Servizio di ANCE Bergamo per la
compilazione e presentazione del MUD (ANCE
di Bergamo,
circolare 03.02.2017 n. 35). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Aggiornamento del “testo unico” regionale
sull’efficienza energetica degli edifici (ANCE di
Bergamo,
circolare 03.02.2017 n. 32). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Criteri
e requisiti per l'iscrizione all'Albo, con procedura
ordinaria, nelle categorie 1, 4 e 5
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Albo Nazionale Gestori Ambientali,
deliberazione 03.11.2016 n. 5 di prot.). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO:
IL POTERE DI RAPPRESENTANZA NELLE ATTIVITÀ NEGOZIALI
PRIVATISTICHE DEGLI ENTI LOCALI TERRITORIALI (Consiglio
Nazionale del Notariato,
studio
08-09.01.2015 n. 249-2014/C).
---------------
Sommario: 1. Premesse; 2. I presupposti delle
problematiche inerenti l'affidamento del potere
rappresentativo; 3. La natura della rappresentanza degli
enti locali; 4. L'importanza della distinzione tra “potere
politico” e “potere gestionale” ed i suoi limiti; 5. Il
sistema di rappresentanza dell'ente locale nelle risultanze
del T.U.; 6. Il concreto atteggiarsi del potere di
rappresentanza; 7. La deliberazione dell'organo politico; 8.
La determina del dirigente responsabile; 9. Le eccezionali
“deroghe” alla competenza di rappresentanza del ruolo
dirigenziale; 10. La rilevanza del controllo in ordine alla
effettiva legittimazione del rappresentante all'intervento
nell'atto negoziale.
---------------
Lo studio in sintesi (Abstract): Lo studio tenta un
approccio sistematico alle questioni attinenti la competenza
del potere di rappresentanza nella realtà degli enti locali
territoriali, proponendo una prioritaria digressione sulle
ragioni delle problematiche esistenti e sulla natura della
rappresentanza stessa con riferimento all'ambito del diritto
pubblico.
Indi, in considerazione proprio dei limiti di una
applicazione “analogica” delle conclusioni che potrebbero
prospettarsi in campo privatistico, nell'ambito del diritto
amministrativo al quale è strettamente correlata l'attività
della Pubblica Amministrazione, si pone un cenno
sull'importanza della distinzione tra “potere politico” e
“potere amministrativo” al quale ultimo, le norme poste dal
T.U.E.L., riservano in maniera pressoché esclusiva il potere
gestorio e di rappresentanza per l'Ente.
Poste tali premesse di massima, il lavoro si addentra nella
considerazione delle specifiche norme che riservano al ruolo
dirigenziale dell'Ente la competenza per la stipulazione di
atti e contratti anche di diritto privato, con specifici
riferimenti a tre questioni che maggiormente rilevano nella
pratica notarile. In primo luogo l'importanza della
deliberazione dell'organo politico quale documento
giustificativo dell'agire del dirigente in coerenza con gli
indirizzi di programma di governo dell'Ente.
A ciò resta collegato il problema dell'effettiva rilevanza
della “determina” dirigenziale quale documento da
considerarsi sempre necessario, o solo in alcuni casi,
necessario per il perfezionamento della stipula. Infine la
verifica dell'effettivo potere di rappresentanza negoziale
che si conclude essere competente al Sindaco solo in ipotesi
eccezionali e correlate a specifiche previsioni di legge in
cui siano previste deroghe alla competenza di rappresentanza
del ruolo dirigenziale.
Una breve considerazione finale viene poi riservata alla
specifica questione della ammissibilità, o meno, di una
delega di poteri da parte del Dirigente competente “ratione
materiae” per la stipula di un atto, a terzi e
all'eventualità e alla possibilità del ricorso ad una
procura notarile.
In chiusura si è considerato inevitabile un brevissimo cenno
sulle conseguenze generate da una eventuale stipulazione
negoziale privatistica con l'intervento di soggetto che
agisce in rappresentanza dell'Ente senza però averne la
relativa legittimazione. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 22.02.2017, "Indirizzi
per l’applicazione della legge regionale 03.02.2015, n. 2
«Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (legge per
il governo del territorio) - Principi per la pianificazione
delle attrezzature per servizi religiosi»" (circolare
regionale 20.02.2017 n. 3). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO: G.U.
20.02.2017 n. 42 "Disposizioni urgenti in materia di
sicurezza delle città" (D.L.
20.02.2017 n. 14). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 20.02.2017 "Costituzione
della Commissione per la valutazione delle domande
presentate dai candidati alla nomina di esperto nell’ambito
della commissione regionale in materia di opere o di
costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (L.r.
33/2015 - Art. 4, comma 2)" (decreto
D.G. 16.02.2017 n. 1600). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 17.02.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.01.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 06.02.2017 n. 18). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2017, "Approvazione
«Linee guida per la predisposizione della proposta di ambiti
territoriali ecosistemici ai sensi dell’art. 3, comma 3,
della l.r. 28/2016" (deliberazione
G.R. 08.02.2017 n. 6204). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2017, "Legge
regionale 10.11.2015, n. 38 e d.lgs. 03.04.2006, n. 152 –
Approvazione delle modalità realizzative e dei contenuti
delle indagini preventive previste dalla l.r. 38/2015 ai
fini del rilascio dell’autorizzazione allo scarico in falda
di acque sotterranee prelevate per scambio termico tramite
pompa di calore" (deliberazione
G.R. 08.02.2017 n. 6203). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 15.02.2017, "Nuove
determinazioni in materia di promozione dell’agricoltura
didattica ai sensi dell’art. 8-ter della legge regionale
05.12.2008 n. 31" (deliberazione
G.R. 08.02.2017 n. 6198). |
INCARICHI PROGETTUALI:
G.U. 13.02.2017 n. 36 "Regolamento recante definizione
dei requisiti che devono possedere gli operatori economici
per l’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria e
individuazione dei criteri per garantire la presenza di
giovani professionisti, in forma singola o associata, nei
gruppi concorrenti ai bandi relativi a incarichi di
progettazione, concorsi di progettazione e di idee, ai sensi
dell’articolo 24, commi 2 e 5 del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50" (Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti,
decreto 02.12.2016 n. 263). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 10.02.2017, "Aggiornamento
delle «Indicazioni operative per la classificazione e la
declassificazione amministrativa della rete viaria in
Regione Lombardia»" (decreto
D.U.O. 06.02.2017 n. 1139). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 06.02.2017, "Determinazioni
per l’aggiornamento dell’anagrafe regionale del patrimonio
abitativo destinato a servizi abitativi pubblici e sociali,
ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 08.07.2016, n. 16
«Disciplina regionale dei servizi abitativi" (deliberazione
G.R. 30.01.2017 n. 6163). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
D. Garzia,
Legittimità dell’Affidamento Diretto a Società Miste -
Natura ed evoluzione dell’istituto (06.02.2017
- link a www.filodiritto.com). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
D. Centrone,
Incarichi di consulenza,
servizi legali, patrocinio giudiziale: la disciplina per il
loro affidamento da parte della P.A. alla luce del nuovo
codice dei contratti pubblici (03.02.2017 -
tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
Sommario: I. Il conferimento di incarichi a
personale esterno da parte della PA; II. L’estensione delle
procedure per il conferimento di incarichi di collaborazione
alle società pubbliche; III. Il conferimento di incarichi a
professionisti esterni da parte di società pubbliche dopo il
d.lgs. n. 175 del 2016; IV. Il conferimento di incarichi di
consulenza e collaborazione, da parte di enti locali e
società partecipate, alla luce del nuovo codice dei
contratti pubblici; V. La posizione dell’ANAC (deliberazione
n. 1158/2016) VI. Una differente proposta interpretativa. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G. Mantegazza,
INCARICHI DI
CONSULENZA, SERVIZI LEGALI, PATROCINIO GIUDIZIALE: LA
DISCIPLINA PER IL LORO AFFIDAMENTO DA PARTE DELLA P.A. ALLA
LUCE DEL NUOVO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI
(03.02.2017 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Boscolo,
I DECRETI ATTUATIVI DELLA
LEGGE MADIA: LIBERALIZZAZIONI E RIDISEGNO DEL SISTEMA DEI
TITOLI EDILIZI (febbraio 2017 - tratto da
https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa; 2. La segnalazione
certificata dopo la legge Madia e il decreto ‘SCIA 1’; 3. Il
nuovo art. 19-bis; 4. Il decreto SCIA 2: la ‘mappatura’ dei
procedimenti e la conclusione del percorso di riforma della
SCIA; 5. Le rilevanti novità in materia edilizia: una nuova
tassonomia dei titoli edilizi; 6. L’attività edilizia
libera; 7. La CILA: il nuovo modello residuale; 8. Il
ridisegno dello spazio della SCIA; 9. La SCIA alternativa al
permesso di costruire; 10. Il permesso di costruire; 11.
L’agibilità tramite SCIA; 12. Gli ulteriori adeguamenti. |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Mantegazza,
Novità legislative in
materia edilizia e urbanistica: appunti di lettura ragionata
(febbraio 2017 -
tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
SOMMARIO: I - Riforma Madia; II – Regolamento
Edilizio Unico; III – Conferenza di servizi; IV –
Provvedimenti regionali. |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO IMPIEGO: Da
tempo parziale a pieno, pesa l’orario iniziale. I criteri
per quantificare l’incidenza del contratto sul plafond delle
assunzioni.
Pubblico impiego. Il parere fornito dalla sezione regionale
dell’Abruzzo della Corte dei conti sul valore della
trasformazione.
La trasformazione di un contratto da
part-time a tempo pieno intacca il plafond per le assunzioni
previsto per gli enti pubblici sulla base dell’orario
previsto inizialmente dal contratto individuale di lavoro.
È questo il
parere 02.02.2017 n. 12 reso dalla Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo
della Corte dei conti a un
ente locale che ha chiesto lumi su questo argomento.
Il Comune ha esposto il caso di un lavoratore dipendente
assunto a tempo indeterminato e part-time negli anni
precedenti. Successivamente all’instaurazione del rapporto
di lavoro, l’interessato ha chiesto e ottenuto un
ampliamento dell’orario di servizio, senza tuttavia giungere
mai al tempo pieno. Questo perché, negli ultimi anni, il
legislatore ha imposto rigidi vincoli in materia di
assunzione di personale, legando il reclutamento di nuove
unità a una determinata percentuale della spesa sostenuta
per il personale cessato negli anni precedenti.
A ciò deve aggiungersi che, per il personale assunto a tempo
parziale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo
pieno può avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti
previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni
(articolo 3, comma 101, della legge 244/2007), essendo questo
caso paragonato a un nuovo ingresso.
Invece non rientra in tale fattispecie la trasformazione a
tempo pieno di un contratto part-time che, originariamente,
era nato a tempo pieno e che successivamente era stato
trasformato in part-time per scelta del lavoratore. Non è
equiparata a nuova assunzione neppure l’incremento orario
del contratto stipulato originariamente in part-time, purché
non si raggiunga il limite del tempo pieno.
Tale
possibilità, secondo la magistratura contabile è possibile
purché non sia elusiva del divieto. In tal senso si è
espressa la Corte dei Conti per la Sardegna con la
deliberazione 67/2012 dove si precisa che «non è consentita
l’elusione della normativa vincolistica in materia di turn-over quale potrebbe apparire l’incremento orario fino a 35
ore settimanali della prestazione lavorativa di un
dipendente assunto a tempo parziale».
Gli enti locali, in materia di personale, devono rispettare
precisi limiti di spesa, tra cui il contenimento della
stessa entro il valore medio del triennio 2011/2013, nonché
il contenimento delle dinamiche di crescita della
contrattazione integrativa.
Il parere della Corte dei conti prosegue precisando che la
spesa collegata all’incremento orario (fermo restando che il
dipendente permane in regime di part-time) non viene mai
presa in considerazione, se non quando il rapporto di lavoro
viene trasformato a tempo pieno.
Pertanto, al fine di
evitare comportamenti non rispondenti alla finalità
normativa di contenimento della spesa, il plafond assunzionale sarà decurtato dalla differenza oraria tra
l’originaria prestazione lavorativa e quella che deriva dal
nuovo contratto a tempo pieno. Ciò poiché le ore con cui è
stato integrato il contratto part-time nel corso degli anni
non hanno mai potuto intaccare gli spazi a disposizione
dell’ente.
Un esempio può aiutare a capire. Un lavoratore è stato
assunto nel 2000 con part-time al 50 per cento.
Successivamente nel 2009 ha ottenuto l’aumento delle ore
all’80 per cento. Nel 2017 chiede la trasformazione a tempo
pieno. In questo caso la spesa che graverà sul plafond
assunzionale sarà data dalla differenza tra il costo a tempo
pieno e quello del part-time 50 al per cento
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.02.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti in rapporto
ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
---------------
Il Sindaco del Comune di Taranto, con nota prot. n. 1454 del
23.12.2016, registrata al protocollo della Sezione n.
5270 del 27.12.2016, ha formulato una richiesta di
parere in merito “alla possibilità o meno di riconoscere
l’incentivo di cui all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 anche
alle manutenzioni ordinarie e/o straordinarie in ordine a
fasi diverse dalla progettazione e dal coordinamento della
sicurezza, comunque previste dal citato articolo”.
...
L’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 ha completamente modificato
il precedente sistema degli incentivi ai dipendenti tecnici
interni delle Pubbliche amministrazioni determinando il
passaggio dall’istituto del “fondo per la progettazione e
l’innovazione” (art. 93, co. 7-bis, del D.Lgs. n. 163/2006)
all’istituto degli “incentivi per funzioni tecniche”. In
sostanza, con la nuova normativa, risulta abrogata la
precedente disciplina sugli incentivi per la progettazione
(a sua volta più volte modificata nel corso degli anni) e
introdotta una nuova fattispecie di incentivi “per funzioni
tecniche” volti a premiare attività, prima non incentivate,
tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la corretta
realizzazione dell’opera.
Sia il previgente istituto del “fondo per la progettazione e
l’innovazione” (art. 93, co. 7-bis, del D.Lgs. n. 163/2006) che
il nuovo istituto degli “incentivi per funzioni tecniche”
(art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016) costituiscono eccezioni al
generale principio della onnicomprensività del trattamento
economico. Tale aspetto risulta fondamentale per la esatta
determinazione del perimetro di applicazione della
disciplina indicata non essendo disponibile spazio per
interpretazioni analogiche. Gli incentivi per funzioni
tecniche potranno quindi essere riconosciuti solo per le
attività espressamente previste dalla legge.
In particolare, la norma menzionata (comma 2) stabilisce che
“le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento …
per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti”.
Come espresso a chiare lettere dall’art. 1, lettera rr, della
legge delega n. 11/2016, con la nuova normativa, il
legislatore ha quindi voluto dare spazio alla fase di
programmazione ed esecuzione dell’appalto, “escludendo
l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
L’incentivo in parola non può, pertanto, essere applicato
nel caso di progettazione interna (ANAC
determinazione 14.09.2016 n. 973).
La nuova disposizione, così come accaduto in passato per la
disciplina sugli incentivi per la progettazione (prima e
dopo le modifiche apportate dall’art. 13-bis, co. 1, del D.L.
n.90/2014 convertito in legge n.114/2014), ha sollevato vari
dubbi interpretativi ed è alla base di diverse pronunce
delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti
in sede consultiva.
Alla luce degli orientamenti ermeneutici espressi,
la nuova
disciplina riconosce gli incentivi anche in relazione ad
appalti per forniture e servizi, a prescindere da ogni
collegamento con l’esecuzione di lavori, sempre che siano
rispettate le condizioni richieste dall’art. 113 del D.Lgs.
n. 50/2016 (Sez.
controllo Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333; Sez. controllo Emilia
Romagna
parere 07.12.2016 n. 118).
Il compenso
incentivante non spetta per la progettazione e il
coordinamento della sicurezza
(Sez. controllo Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Gli incentivi riguardano in via esclusiva e
tassativa le attività indicate al menzionato comma 2
(Sez. controllo Puglia
parere 13.12.2016 n. 204).
L’adozione del regolamento
“continua ad essere una condizione essenziale ai fini del
legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo”
(Sez. controllo Veneto
parere 07.09.2016 n. 353).
In vigenza dell’art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006 (anche dopo le
modifiche apportate dal D.L. n. 90/2014), la Corte dei conti
ha affrontato più volte la delicata questione del rapporto
tra incentivi per la progettazione e l’innovazione e
attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
La
Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, in
considerazione della “espressione inequivoca” utilizzata in
passato dal legislatore (art. 93, co. 7-ter, del D.Lgs.
n. 163/2006), aveva escluso l’applicabilità dell’incentivo
per la progettazione e l’innovazione in relazione a
qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra
manutenzione ordinaria e straordinaria (Sez. Autonomie
deliberazione 23.03.2016 n. 10).
Tale orientamento è stato confermato successivamente dopo
l’entrata in vigore della nuova disciplina ma in relazione
alla precedente (Sez. controllo Sardegna
parere 18.10.2016 n. 122).
La questione della possibilità di corrispondere i nuovi
incentivi per funzioni tecniche nelle ipotesi di
manutenzione ordinaria e/o straordinaria è stata
recentemente affrontata da altra Sezione di questa Corte. In
tale occasione è stato espresso l’orientamento secondo il
quale anche se le attività di manutenzione non sono
espressamente escluse dalla nuova disposizione, per il
carattere tassativo delle attività incentivabili tra le
quali non è espressamente ricompresa l’attività di
manutenzione e considerato che l’allegato I del D.Lgs.
n. 50/2016 (al quale fa riferimento l’art. 3, lettera ll, n. 1,
relativo alle definizioni) non indica le attività di
manutenzione tra gli appalti pubblici di lavori, il predetto
emolumento non può essere corrisposto per remunerare le
predette attività
(Sez. controllo Emilia Romagna
parere 07.12.2016 n. 118).
Questa Sezione ritiene tassativo l’elenco delle attività
incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può
che confermare l’orientamento secondo il quale gli incentivi
per funzioni tecniche riguardano, in via esclusiva, le
attività indicate al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs.
n. 50/2016 (Sez.
controllo Puglia
parere 13.12.2016 n. 204). Il
suddetto emolumento, in virtù del principio di
onnicomprensività del trattamento economico, può essere
corrisposto solo in presenza di una espressa previsione
legislativa.
In definitiva, alla luce di quanto riportato, con specifico
riferimento al quesito posto dal Comune di Taranto,
gli
incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti in rapporto
ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 24.01.2017 n. 5). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulle
assunzioni dei dirigenti locali la confusione regna sovrana.
Sulle assunzioni dei dirigenti negli enti locali, la
confusione regna sovrana.
E ad aumentare lo stato di incertezza contribuisce la Corte
dei conti, Sez. regionale di controllo per il Veneto, col
parere 11.01.2017 n. 12.
La sezione regionale, in estrema sintesi, considera ancora
vigente il congelamento delle assunzioni dei dirigenti,
imposto dall'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015.
Tale disposizione stabilisce che «nelle more dell'adozione
dei decreti legislativi attuativi degli articoli 8, 11 e 17»
della riforma Madia (legge 124/2015), «sono resi
indisponibili i posti dirigenziali di prima e seconda fascia
delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma
2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e
successive modificazioni, come rideterminati in applicazione
dell'articolo 2 del decreto-legge 06.07.2012, n. 95,
convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n.
135, e successive modificazioni, vacanti alla data del 15.10.2015, tenendo comunque conto del numero dei
dirigenti in servizio senza incarico o con incarico di
studio e del personale dirigenziale in posizione di comando,
distacco, fuori ruolo o aspettativa».
La sezione Veneto fa proprio il ragionamento già proposto
dalla sezione regionale di controllo della Puglia col parere
73/2016, secondo il quale il comma 219 «mira a precostituire
sotto il profilo dell'efficienza organizzativa, le
condizioni migliori per la piena attuazione della riforma
della dirigenza tracciata dalla legge 124/2015 e per il
completo assorbimento del personale soprannumerario degli
enti di area vasta», per cui la sottrazione dei dirigenti
degli enti locali in particolare al congelamento delle
assunzioni «in assenza di espressa previsione di legge,
sarebbe irragionevole alla luce delle finalità che il
legislatore intende perseguire».
Le conclusioni cui perviene la magistratura contabile, però,
appaiono erronee. I pareri delle sezioni Puglia e Vento non
tengono conto di due fattori decisivi per considerare
totalmente decaduta la preclusione alle assunzioni posta dal
comma 219.
Il primo è la decadenza della delega contenuta
nell'articolo 11 della legge 124/2015, finalizzato alla
riforma della dirigenza, a seguito della sentenza della
Consulta 251/2016. Una volta che la delega risulti non più
esplicabile, la condizione posta dall'articolo 219 alle
assunzioni dei dirigenti diviene impossibile e, quindi,
inoperante. Il secondo fattore è il riassorbimento del
personale delle province, che la Funzione pubblica ha da
quasi un mese annunciato essersi definitivamente concluso.
Non vi sono, quindi, ragioni né giuridiche, né di fatto, per
considerare ancora vigente il congelamento delle assunzioni
dei dirigenti, che, come appunto ammette la magistratura
contabile, erano finalizzate ad agevolare una riforma della
dirigenza che dal 30.11.2016 non è più possibile.
C'è da osservare che se le indicazioni della Corte dei conti
sono certamente superabili sul piano della legittimità,
l'assenza di un intervento normativo per regolare la
disciplina delle assunzioni pone, comunque, problemi per il
turnover dei dirigenti. Infatti, resta in vigore il comma
228 della legge 208/2015, che limita la capacità
assunzionale degli enti locali al 25% del costo delle
cessazioni avvenute l'anno precedente (tetto che sale al 75%
per i comuni «virtuosi» fino a 10 mila abitanti), ma solo
per il personale non avente qualifica dirigenziale.
Il che significa che le amministrazioni possono assumere
dirigenti, ma gli spazi assunzionali non sono finanziati
dalle cessazioni dei dirigenti (almeno per il 2016), ma solo
dal personale che non ha qualifica dirigenziale. Insomma,
nell'attuale fase il tetto finanziario alle assunzioni
finisce per essere maggiore rispetto alle percentuali
indicate dal comma 228 della legge 208/2015.
Senza una modifica urgente al comma 228, anche se si dovesse
seguire l'interpretazione non condivisibile della Corte dei
conti ed attendere l'esercizio anche della delega
legislativa per la riforma del pubblico impiego contenuta
nell'articolo 17 della legge Madia, in ogni caso da quella
data resterebbero limiti finanziari molto forti al turnover
delle qualifiche dirigenziali
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Sui
conti l’incognita dei compensi ai tecnici. Codice appalti.
La riforma che ha abolito i premi per la progettazione va
coordinata con i vincoli alla spesa.
I compensi per le funzioni tecniche
previsti nel nuovo codice degli appalti sfuggono ancora al
tetto previsto per il fondo del salario accessorio dei
dipendenti degli enti locali? La domanda serpeggia tra gli
amministratori e i responsabili dei servizi personale,
destando non poche preoccupazioni.
Per capire la questione bisogna risalire alla storia. Come
si ricorderà, prima l’articolo 9, comma 2-bis, del Dl
78/2010 e poi il comma 236 della legge 208/2015 hanno
imposto un tetto al fondo per le risorse decentrate, il
quale, nell’anno di competenza, non può superare
originariamente l’importo del 2010 (Dl 78/2010) e oggi
quello del 2015 (legge 208/2015).
A questo vincolo, in sede interpretativa, sono state
individuate alcune eccezioni, fra le quali gli abrogati
compensi per la progettazione. Per questi emolumenti erano
intervenute le sezioni riunite della Corte dei Conti, con la
deliberazione 51/2011, che si erano pronunciate affermando
che gli incentivi in questione erano esclusi dal vincolo in
quanto destinati a remunerare prestazioni professionali
specialistiche rese da personale dipendente, in assenza del
quale dovrebbero essere acquisite all’esterno ma con costi
aggiuntivi per i bilanci dell’ente.
Ora la musica è cambiata. I compensi per funzioni tecniche
disciplinati dall’articolo 113 del nuovo Codice degli
appalti vanno a remunerare una serie di compiti elencati
nella stessa norma, ma fra di essi non sono più ricomprese
le funzioni di progettazione: viene premiata una più attenta
gestione della programmazione e dell’esecuzione dei
contratti pubblici di appalto.
Quindi, stante la motivazione allora adottata dai giudici
contabili, è pacificamente ammesso che questi incentivi
siano ancora esclusi dal tetto del fondo? Il dubbio è più
che fondato, tanto più che la Corte dei conti per l’Emilia
Romagna, con il
parere 07.12.2016 n. 118,
ha ritenuto di dover rimettere la questione alla sezione
delle Autonomie affinché adotti una deliberazione di
orientamento.
Come si diceva, questa decisione è attesa con una certa
ansia da parte delle amministrazioni. È evidente che, se la
pronuncia confermasse l’esclusione dal tetto, nulla cambia.
Ma se i magistrati contabili dovessero decidere affermando
l’inclusione nel limite al salario accessorio anche dei
compensi per le funzioni tecniche, gli enti potrebbero
trovarsi in forte difficoltà nella gestione della partita.
Innanzitutto dovrebbero confrontare due quantità diverse:
l’importo del fondo del 2015, con gli incentivi esclusi, e
quello del 2017 (e forse anche il 2016, a conti già chiusi)
con gli incentivi compresi. E anche volendo omogeneizzare il
parametro nei diversi anni, è innegabile che nel 2015 gli
investimenti, e quindi le progettazioni, erano
sostanzialmente bloccate a causa del patto di stabilità,
mentre una ripresa è stata registrata nel 2016 e nel 2017.
In altre parole, per rispettare il vincolo del fondo, i
compensi per le funzioni tecniche saranno pagati dagli altri
dipendenti che si vedranno erosa la produttività (articolo Il Sole 24 Ore del 06.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni, esterni out.
Possono farne parte solo i consiglieri comunali.
Vietato prevedere la presenza di membri
estranei all'assemblea.
In materia di composizione delle commissioni comunali, ex
art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, è
legittimo il regolamento del consiglio di un comune nella
parte in cui prevede che la composizione delle commissioni
consiliari permanenti sia integrata con la presenza di
membri esterni al consiglio nominati dalla giunta comunale?
Ai sensi del citato art. 38, comma 6, lo statuto può
prevedere la costituzione di commissioni consiliari,
istituite dal consiglio «nel proprio seno». Una volta
istituite, le suddette commissioni sono disciplinate dal
regolamento comunale con l'unico limite, posto dal
legislatore, riguardante il rispetto del criterio
proporzionale. Ciò significa che le forze politiche presenti
in consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate
anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia
riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Lo statuto del comune ha stabilito che il consiglio
costituisce, nel proprio seno, le commissioni consiliari
permanenti mentre, ai sensi del regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale, è previsto che la
composizione delle stesse commissioni consiliari possa
essere integrata dalla presenza di membri non consiglieri
nominati dalla giunta. Tale previsione sarebbe espressione
dell'intento della amministrazione di dare attuazione ai
principi della partecipazione popolare di cui all'art. 8 del
Tuel
Al riguardo, la formulazione della norma regolamentare non
appare coerente con la disciplina dettata dal legislatore, e
ribadita dallo statuto dell'ente, circa la indefettibilità
dello status di consigliere comunale in capo ai componenti
delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del
decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi della norma statale citata, infatti, «il
consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio
seno con criterio proporzionale» e quindi preclusiva
della possibilità che soggetti estranei al consiglio possano
farne parte a titolo di veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche dalla dottrina,
che sostiene che la composizione delle commissioni deve
rispecchiare con criterio proporzionale le forze politiche
presenti in consiglio, «con esclusione di componenti non
facenti parte del consiglio stesso». L'ente in parola
dovrà valutare l'opportunità di pervenire ad una modifica
della normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 17.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito alla necessità di
accertamento di compatibilità paesaggistica quale
presupposto per il permesso di costruire in sanatoria di cui
all'art. 36 d.P.R. 380/2001 per interventi realizzati prima
del vincolo paesaggistico (Regione Lazio,
nota 16.02.2017 n. 81219 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito al termine di
efficacia delle autorizzazioni paesaggistiche (Regione
Lazio,
nota 16.02.2017 n. 81172 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Il permesso a costruire.
DOMANDA:
Trattasi della realizzazione di un tratto di nuova rete
idrica distributrice di acqua potabile (dove prima non
c’era, il cui passaggio ha interessato aree private soggette
anche a vincoli paesaggistici) e realizzazione di un nuovo
tratto di rete idrica in affiancamento alla rete idrica
esistente per una futura sostituzione (su suolo pubblico),
il tutto a servizio di una determinata zona del paese.
Sia la progettazione che l’affidamento dei lavori sono
avvenute da parte dell’autorità d’ambito competente
(consiglio di bacino a.t.o.). Non è stata richiesta
autorizzazione al comune e non è stato preventivamente
comunicato l’inizio dei lavori di tali opere al comune.
Si chiede se tali opere, essendo opere di urbanizzazione e
quindi ricadendo nell'ambito delle disposizioni del DPR
380/2001, art. 3, lettera e.2, “opere di urbanizzazione
realizzate da soggetti diversi dal comune”, che le
qualifica interventi di nuova costruzione debbano essere
soggette al rilascio del permesso di costruire, oppure se si
possano considerare opere rientranti nel dettato dell’art.
158-bis del D.Lgs. 152/2006 e quindi non soggette ad
autorizzazione comunale.
RISPOSTA:
Per una corretta valutazione della problematica posta si
ritiene opportuno preliminarmente ricordare che in base
all'art. 148, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006 “l'Autorità
d'ambito è una struttura dotata di personalità giuridica
costituita in ciascun ambito territoriale ottimale
delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti
locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è
trasferito l'esercizio delle competenze ad essi spettanti in
materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la
programmazione delle infrastrutture idriche di cui
all'articolo 143, comma 1”.
Il successivo comma 2 dispone quindi che “le regioni e le
province autonome possono disciplinare le forme ed i modi
della cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel
medesimo ambito ottimale, prevedendo che gli stessi
costituiscano le Autorità d'ambito di cui al comma 1, cui è
demandata l'organizzazione, l'affidamento e il controllo
della gestione del servizio idrico integrato”.
Ciò premesso si è dell’avviso che la risoluzione della
problematica posta non possa prescindere da una attenta
valutazione della disciplina organizzativa dell’ATO ed in
particolare verificando se in tale ambito le funzioni
urbanistiche relative alle occorrenti autorizzazioni
edilizie siano state mantenute o meno in capo ai singoli
comuni interessati, pur in presenza di un soggetto diverso
che possiede una autonoma personalità giuridica, come
previsto al citato comma 1.
E’ chiaro infatti che se l’opera può considerarsi da questo
punto di vista di competenza del Comune stesso, non
occorrerà il rilascio del permesso a costruire mentre a
diverse conclusioni deve pervenirsi ove si debba ritenere
che si tratti di intervento ascrivibile, come sembrerebbe
dalle notizie riferite, all’ATO e quindi ad un ente pubblico
diverso dal Comune.
In quest’ultimo caso troverebbe luogo infatti la
disposizione di cui all’art. 3, lett. e.2, del DPR n.
380/2001, citata nel quesito, che considera "interventi
di nuova costruzione", “gli interventi di
urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti
diversi dal Comune”, come tali assoggettabili a permesso
a costruire.
In ogni caso vale la pena di precisare che la necessità o
meno del rilascio di tale titolo abilitativo prescinde dal
rilievo che l’art. 158-bis del cit. decreto prevede che
all'approvazione dei progetti definitivi nei modi ivi
indicati possa conseguire la “variante agli strumenti di
pianificazione urbanistica e territoriale”, poiché la
conformità urbanistica dell’intervento rispetto alla
pianificazione deve comunque sussistere come presupposto
essenziale di legittimità dell’intervento, sia che occorra o
non occorre il rilascio del successivo titolo edilizio
richiesto (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO:
Gli immobili comunali.
DOMANDA:
Il Comune ha affidato nel 2009 alla propria partecipata
(affidamento in house) l’attività di manutenzione e
valorizzazione degli immobili comunali – quasi tutti
destinati a pubblici servizi e fini istituzionali. Gli
immobili sono stati affidati in concessione alla Società
affinché la stessa avesse titolo giuridico per realizzare
gli investimenti, contabilizzarli nel proprio stato
patrimoniale ed ammortizzarli per tutta la durata della
concessione.
Il Comune, in quanto proprietario -e su parere della Corte
dei Conti- ha mantenuto tali immobili nel proprio inventario
e stato patrimoniale al valore in corso prima della
concessione e proseguendo nell’ammortamento annuale.
Allo scadere della concessione il Comune dovrebbe aggiornare
il proprio stato patrimoniale per il maggior valore
determinato dalle migliorie/nuovi investimenti realizzati
dalla società anche se non è chiaro con quale criterio
valorizzerà tali interventi.
Il contratto di servizio prevede un corrispettivo annuo per
la gestione ordinaria ed un corrispettivo annuo per la
manutenzione straordinaria da riconoscere alla società per
una durata di 20 anni.
Il corrispettivo per la manutenzione straordinaria ha lo
scopo di remunerare le manutenzioni straordinarie effettuate
annualmente ma anche gli oneri diretti e indiretti che la
società sostiene a fronte degli investimenti (nuove opere)
realizzate nei primi 5 anni di attività.
Fino al 31.12.2015 il Comune registrava tale spesa (il
canone per le manutenzioni straordinarie) al titolo II ma
come costo nel conto economico. In questo modo si evitava
una doppia registrazione di incrementi di valore sugli
stessi beni (da parte della società e da parte del Comune).
Chiediamo il vostro parere rispetto alla corretta
contabilizzazione della fattispecie tenuto conto dei nuovi
principi contabili.
RISPOSTA:
Si ritiene che le procedure seguite fino al 2015 siano
corrette; inoltre, si ritiene che, tenuto anche conto di
quanto precisato dall'allegato 4/3 al D.lgs. 118/2011, ai
paragrafi 4.16 (pagina 7), 4.18 (pagina 8) e 6.12 (pagina
16), l’ente, per il 2016 e anni successivi, debba continuare
con il metodo seguito negli anni passati.
Per quanto riguarda i criteri di valorizzazione degli
investimenti che sono stati realizzati dalla Società, si
ritiene che si debbano applicare i principi illustrati
nell'agosto 2014 dall’Organismo Italiano di Contabilità OIC
16 a proposito delle “immobilizzazioni materiali”; in
particolare si ritiene che si debba fare riferimento a
quanto stabilito per i “costi di acquisto” (si veda i
punti da 26 a 28) e per i costi di “ampliamenti,
ammodernamenti, miglioramenti e rinnovamento” (si veda i
punti 41-43) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La proroga delle graduatorie.
DOMANDA:
Questo Comune, nell'anno 2009, approvava graduatoria di
concorso a tempo indeterminato. Si chiede se la stessa sia
ancora in corso di validità e sino a quando.
RISPOSTA:
La graduatoria è ancora valida in forza di una serie di
proroghe intervenute negli anni. Da ultimo, l'articolo 1,
comma 368, della legge 232/2016 (Stabilità 2017) ha
prorogato fino al 31.12.2017 le graduatorie dei concorsi a
tempo indeterminato, in vigore nel 2013 (D.L. 101/2013).
Per completezza si evidenzia che anche le graduatorie
approvate successivamente sono state prorogate alla stessa
data dall'art. 1, comma 1, del D.L. 244/2016 (cd.
milleproroghe) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ L'accesso non ha limiti.
Niente limiti per visionare il protocollo.
L'uso dei sistemi informatici potrà alleggerire
il compito degli uffici.
Possono essere considerate legittime le numerose istanze di
accesso al protocollo del comune, ripetute nel tempo da un
consigliere di minoranza?
L'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 stabilisce che
«l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità'
e la trasparenza».
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece,
consente ai consiglieri comunali di accedere a «tutte le
notizie e le informazioni» in possesso dell'ente, utili
all'espletamento del proprio mandato.
Nel caso di specie, il sindaco ha sospeso ogni richiesta di
accesso al protocollo ritenendole «formalizzate in modo
abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate
a strategie ostruzionistiche comportanti aggravi
dell'attività amministrativa dell'ente».
In merito, va considerato che al consigliere comunale, in
relazione proprio al munus rivestito, deve essere
riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello
esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le
competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della
necessaria valutazione della correttezza ed efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.: Cds n.
4525 del 05/09/2014, Cds Sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons.
stato, V sez. 21/02/1994 n. 119, Cons. stato, V Sez.
26/09/2000 n. 5109, Cons. stato, V Sez. 02/04/2001 n. 1893).
Superando le precedenti decisioni contrarie, fatta salva la
necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa
dell'ente con richieste emulative, la giurisprudenza (cfr.
Tar Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004, Tar Lombardia,
Brescia, n. 362/2005, Tar Campania, Salerno, n. 26/2005), è
infatti, oggi orientata nel ritenere illegittimo il diniego
opposto dall'amministrazione di prendere visione del
protocollo generale e di quello riservato del sindaco,
comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in
uscita.
Peraltro, i giudici del Tar Sardegna, con la segnalata
sentenza n. 29/2007, hanno affermato, tra l'altro, che è
consentito prendere visione del protocollo generale senza
alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di
materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali
sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia,
Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile
imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo
l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché
trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre
solo in conseguenza dell'accesso.
Premesso che la specifica materia potrà trovare apposita
disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente, la previa
visione dei vari protocolli (dei quali il protocollo
informatico rappresenta una innovazione tecnologica già
consolidata, prevista, tra l'altro, dall'art. 17, del
decreto legislativo n. 82/2005 e successive modificazioni -
codice dell'amministrazione digitale) sia necessaria per
potere individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà
ad esercitare l'accesso vero e proprio.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
esprimendosi sull'esercizio del diritto in parola (cfr.
parere 29.11.2009), sulla base del principio di economicità
che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui
soggetti che chiedono prestazioni amministrative ha
riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere
accesso diretto al sistema informatico interno, anche
contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di
servizio proprio al fine di evitare che le continue
richieste di accesso si trasformino in un aggravio
dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale»
(articolo ItaliaOggi del 10.02.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il diritto d'accesso è
2.0. Documenti anche su supporto informatico.
Il consigliere può chiedere la password per
visionare gli atti.
Un consigliere comunale può esercitare il proprio diritto di
accesso agli atti dell'ente richiedendo che l'ostensione
della documentazione amministrativa venga effettuata su
supporto digitale, o eventualmente indicando il link a cui
accedere nella sezione amministrazione trasparente per
visionare tale documentazione, in luogo del rilascio delle
copie cartacee?
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 stabilisce che
il «diritto di accesso» dei consiglieri comunali deve
avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile
per gli uffici comunali (attraverso modalità che
ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente) e
non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche
ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la
sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al
diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi,
proprio al fine di evitare che le continue richieste di
accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria
attività amministrativa dell'ente locale, ha riconosciuto la
possibilità per il consigliere comunale di avere accesso
diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del
comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr.
parere del 29/11/2009).
In tal senso anche il Tribunale amministrativo regionale
della Sardegna, con la sentenza n. 29/2007, ha ritenuto che
«la notevole mole della documentazione da consegnare può,
nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del
rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora
si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa,
appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti
informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta
elettronica, in luogo delle copie cartacee» (vedi Consiglio
di stato n. 6742/2007 del 28/12/2007).
Tale modalità è, del resto, conforme alla vigente normativa
in materia di digitalizzazione della pubblica
amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005)
che, all'art. 2, prevede che anche «le autonomie locali
assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la
trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed
agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione»
(articolo ItaliaOggi del 03.02.2017). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Indicazioni operative per un corretto perfezionamento
del CIG (delibera
11.01.2017 n. 1 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Stazioni
appaltanti e gare, nuovi modelli dell'Anac.
Adeguamento alla riforma per segnalare le cause
di esclusione.
False dichiarazioni in sede di gara da segnalare all'Anac
con nuovi modelli messi a punto dall'Autorità.
È quanto si chiede alle stazioni appaltanti a valle del
comunicato
del Presidente 21.12.2016 dell'Authority (Modelli
di segnalazione all’Autorità per le comunicazioni utili ai
fini dell’esercizio del potere sanzionatorio della Autorità,
relativamente ad Operatori Economici nei cui confronti
sussistono cause di esclusione ex art. 80 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50, nonché per le notizie, le informazioni
dovute dalle stazioni appaltanti ai fini della tenuta del
casellario informatico), reso noto in
questi giorni e che modifica i modelli di segnalazione da
utilizzare anche ai fini dell'esercizio del successivo
potere sanzionatorio.
Si tratta dei modelli che concernono
l'esistenza delle cause di esclusione degli operatori
economici partecipanti a gare di appalto o concessione ma
nei cui confronti sussistono cause di esclusione ai sensi di
quanto disposto dall'articolo 80 del dlgs 18.04.2016, n.
50.
I modelli servono anche per le notizie e le informazioni
dovute dalle stazioni appaltanti ai fini della tenuta del
casellario informatico dell'Anac. In passato l'Autorità
aveva messo a disposizione a fine 2013 (18 dicembre) tre
modelli (da oggi abrogati) per le comunicazioni delle cause
di esclusione o per l'applicazione di sanzioni del soppresso
art. 48 del dlgs 163/2006 che prevedeva il sorteggio
obbligatorio del 10% dei concorrenti rispetto ai quali
controllare la veridicità delle dichiarazioni (assieme ai
primi due classificati).
Con l'entrata in vigore del nuovo codice si è quindi reso
necessario procedere all'adeguamento anche perché la nuova
norma di riferimento ha modificato i contenuti dell'ex
articolo 38 del codice De Lise. I modelli sono sempre
funzionali all'esercizio del potere sanzionatorio dal
momento che l'art. 213, comma 13, secondo periodo del
decreto 50/2016 ha confermato all'Autorità il potere di
irrogare sanzioni nei confronti degli operatori economici
che forniscono alle stazioni appaltanti o agli enti
aggiudicatori o agli organismi di attestazione, dati o
documenti non veritieri circa il possesso dei requisiti di
qualificazione.
I nuovi modelli adeguano i precedenti al contenuto
dell'articolo 80, ma ancora fanno riferimento alle norme
regolamentari del dpr 2017/2010. Nel comunicato si chiarisce
che comunque, ancorché l'articolo 48 del codice del 2006 sia
stato abrogato «resta comunque obbligatorio il controllo
delle dichiarazioni rese dall'aggiudicatario (art. 32, comma
7, dlgs n. 50/2016) anche sui requisiti di ordine speciale,
ed indipendentemente dal controllo previsto dall'art. 71,
comma 1, del dpr n. 445/2000, che ricade nella
discrezionalità della stazione appaltante».
L'Anac avverte che, in caso di esito negativo del controllo,
le conseguenze (falsa dichiarazione) sono previste nel nuovo
articolo 80 comma 12 del dlgs 50/2016. In tal caso, la
stazione appaltante deve effettuare la segnalazione
all'Autorità che, se ritiene che siano state rese con dolo o
colpa grave, dispone l'iscrizione di apposita annotazione
interdittiva nel casellario informatico ai fini
dell'esclusione dalle procedure di gara e dagli affidamenti
di subappalto fino a due anni.
La falsa dichiarazione
comporta, peraltro, anche l'applicazione di una sanzione di
carattere pecuniario, come previsto dall'articolo 213, comma
13, del decreto 50, da un minimo di 500 a un massimo di 50
mila euro. Le segnalazioni andranno inviate all'Anac alla
casella di posta certificata (o per fax) utilizzando tre
modelli (A, B e C) relativi ai requisiti di ordine generale,
a quelli specifici e a quelli per la qualificazione Soa
(articolo ItaliaOggi del 03.02.2017). |
PATRIMONIO:
Oggetto: Federazione Italiana Sport del Ghiaccio (FISG) –
Comitato Regionale Piemonte - affidamento della gestione
degli impianti sportivi a seguito dell’entrata in vigore del
d.lgs. 50/2016 - richiesta di parere.
AG 50/2016/AP
Art. 164 e 140 d.lgs. 50/2016
La gestione di impianti sportivi con
rilevanza economica, qualificabile quale “concessione di
servizi” ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. vv) del
Codice, deve essere affidata nel rispetto delle previsioni
di cui all’art. 164 e seguenti del Codice stesso, con
applicazione delle parti I e II del Codice stesso (per
quanto compatibili).
La gestione degli impianti sportivi privi di rilevanza
economica, sottratta alla disciplina delle concessioni di
servizi (art. 164, comma 3), deve essere ricondotta nella
categoria degli “appalti di servizi”, da aggiudicare secondo
le specifiche previsioni dettate dal Codice per gli appalti
di servizi sociali di cui al Titolo VI, sez. IV.
---------------
Ritenuto in diritto
Al fine di rendere il richiesto parere, si osserva
preliminarmente che con riferimento all’assetto normativo
recato dal d.lgs. 163/2006, l’Autorità ha espresso avviso in
ordine all’affidamento della gestione degli impianti
sportivi nel
Parere sulla Normativa 02.12.2015 - rif. AG 87/2015/AP
.
In tale parere è stato chiarito, in primo luogo,
con
riferimento alla natura del bene “impianto sportivo”,
che esso rientra nella previsione dell’ultimo capoverso
dell’art. 826 c.c., ossia in quella relativa ai beni di
proprietà dei comuni destinati ad un pubblico servizio e
perciò assoggettati al regime dei beni patrimoniali
indisponibili i quali, ex art. 828 c.c. non possono essere
sottratti alla loro destinazione.
Su tali beni insiste, dunque, un vincolo funzionale,
coerente con la loro vocazione naturale ad essere impiegati
in favore della collettività, per attività di interesse
generale e non vi è dubbio che la conduzione degli impianti
sportivi sottenda a tale tipologia di attività (Consiglio di
Stato n. 2385/2013). La gestione di tali impianti può essere
effettuata dall’amministrazione competente oltre che in
forma diretta anche in forma indiretta, mediante affidamento
a terzi, individuati in esito ad una procedura selettiva.
A tal riguardo l’Autorità ha osservato che l’affidamento a
terzi della gestione di un impianto sportivo comunale deve
essere inquadrato nella concessione di pubblico servizio,
pertanto l’ente locale che intenda affidare a terzi tale
gestione è tenuto, ai sensi dell’articolo 30, comma 3, del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, ad indire una procedura selettiva
tra i soggetti qualificati in relazione al suo oggetto.
L’Autorità ha altresì affermato che
l’articolo 90 della legge 27.12.2002, n. 2891
pur mostrando il favor del legislatore per l’affidamento
degli impianti sportivi ai soggetti operanti nel settore
dello sport, non consente un affidamento diretto degli
stessi ma, in conformità alle norme ed ai principi derivanti
dal Trattato,
occorre procedere ad un confronto
concorrenziale tra i soggetti indicati nella stessa
disposizione normativa. Detto confronto concorrenziale,
secondo le considerazioni svolte, deve essere effettuato nel
rispetto delle disposizioni di cui all’art. 30 del d.lgs.
163/2006.
Passando ad analizzare i quesiti formulati dalla FISG, in
ordine alla disciplina dei contratti pubblici oggi dettata
dal d.lgs. 50/2016, si rappresenta quanto segue.
In via preliminare si osserva che
quanto alla natura del
bene “impianto sportivo”, la giurisprudenza più
recente (Consiglio di Stato sez. V 26/07/2016 n. 3380)
conferma il consolidato orientamento
(richiamato anche dall’Autorità nel parere sulla normativa
sopra citato)
a tenore del quale gli impianti sportivi di
proprietà comunale appartengono al patrimonio indisponibile
dell’ente, ai sensi dell’art. 826, ultimo comma, c.c.,
essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della
collettività allo svolgimento delle attività sportive.
La gestione di tali impianti può essere effettuata
dall’amministrazione competente in forma diretta oppure
indiretta, mediante affidamento a terzi individuati con
procedura selettiva.
A tal riguardo, in ordine alle modalità di affidamento di
tale gestione, alla luce delle intervenute disposizioni del
d.lgs. 50/2016, occorre distinguere tra impianti con
rilevanza economica ed impianti privi di rilevanza
economica. Laddove
gli impianti sportivi con rilevanza
economica sono quelli la cui gestione è remunerativa e
quindi in grado di produrre reddito, mentre gli impianti
sportivi privi di rilevanza economica sono quelli la cui
gestione non ha tali caratteristiche e va quindi assistita
dall’ente.
Più in particolare «ai fini della definizione della
rilevanza economica del servizio sportivo è necessario
distinguere tra servizi che si ritiene debbano essere resi
alla collettività anche al di fuori di una logica di
profitto d’impresa, cioè quelli che il mercato privato non è
in grado o non è interessato a fornire, da quelli che, pur
essendo di pubblica utilità, rientrino in una situazione di
mercato appetibile per gli imprenditori in quanto la loro
gestione consente una remunerazione dei fattori di
produzione e del capitale e permette all’impresa di trarre
dalla gestione la fonte della remunerazione, con esclusione
di interventi pubblici» (TAR Lazio, 22.03.2011 n. 2538).
Come evidenziato dalla Federazione istante, nel settore
sportivo sussistono diverse tipologie di impianti, distinte
per bacino d’utenza, per grandezza, per attività alle quali
sono deputati; pertanto, la redditività di un impianto
sportivo deve essere valutata caso per caso, con riferimento
ad elementi quali i costi e le modalità di gestione, le
tariffe per l’utenza, le attività praticate.
In ragione di ciò la gestione dei predetti impianti può
essere ascritta alla categoria delle concessioni di servizi
se ricorrono gli elementi a tal fine indicati dal
legislatore.
Si osserva al riguardo che il d.lgs. 50/2016 definisce la
concessione di servizi all’art. 3, comma 1, lett. vv), come «un
contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù
del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più
operatori economici la fornitura e la gestione di servizi
diversi dall'esecuzione di lavori di cui alla lettera ll)
riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto
di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto
accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al
concessionario del rischio operativo legato alla gestione
dei servizi».
Il rischio operativo, come precisato alla successiva lett. zz) è «il rischio legato alla gestione dei lavori o dei
servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di
entrambi, trasferito al concessionario. Si considera che il
concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui,
in condizioni operative normali, non sia garantito il
recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti
per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della
concessione. La parte del rischio trasferita al
concessionario deve comportare una reale esposizione alle
fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale
perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente
nominale o trascurabile».
Il Codice dedica alle concessioni (di lavori e) di servizi
la Parte III, prevedendo per le stesse una specifica
disciplina, così introducendo un regime differente rispetto
alle previsioni del d.lgs. 163/2006 che escludeva, all’art.
30, l’applicabilità del Codice per le concessioni di servizi
e prevedeva la scelta del concessionario nel rispetto dei
principi desumibili dal Trattato e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici.
Il d.lgs. 50/2016 prevede, ora, all’articolo 164, comma 2,
che alle procedure di aggiudicazione di contratti di
concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano,
per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella
parte I e nella parte II, relativamente ai principi
generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di
affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei
bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai
motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle
modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai
requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai
termini di ricezione delle domande di partecipazione alla
concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione. Il
successivo comma 3 specifica inoltre che «I servizi non
economici di interesse generale non rientrano nell’ambito di
applicazione della presente Parte».
Dunque,
ove la gestione di impianti sportivi possa essere
qualificata in termini di “concessione di servizi”
secondo le indicazioni fornite dall’art. 3 del Codice, la
stessa dovrà essere aggiudicata nel rispetto delle parti I e
II del Codice stesso (per quanto compatibili).
Nel caso in cui gli impianti siano privi di rilevanza
economica (nel senso in precedenza indicato), come chiarito
dal comma 3 dell’art. 164, l’affidamento non può avvenire in
applicazione delle disposizioni dettate per le concessioni
dalla Parte III del Codice.
Conseguentemente occorre chiarire se in tali casi debba
trovare applicazione la disciplina in tema di appalti di
servizi o se, invece, debba essere esclusa l’applicazione
del Codice, come ipotizzato dall’istante sulla base del
tenore letterale del citato art. 164, comma 3.
A tal fine occorre sottolineare che, secondo il “vocabolario
comune per gli appalti pubblici (CPV)” (Reg. (CE) n.
2195/2002, come mod. dal Reg. (CE) n. 213/2008), il codice
CPV “92610000-0” è riferito ai “Servizi di gestione di
impianti sportivi”. Detto CPV è attualmente ricompreso
nell’Allegato IX (Servizi di cui agli articoli 140, 143 e
144) del d.lgs. 50/2016, nella categoria “servizi
amministrativi, sociali, in materia di istruzione,
assistenza sanitaria e cultura”.
Si tratta, pertanto, di un appalto di servizi poiché oggetto
dell’affidamento è la gestione dell’impianto sportivo, quale
servizio reso per conto dell’amministrazione ed in assenza
di rischio operativo (secondo le definizioni contenute
nell’art. 3 del Codice).
Discende da quanto sopra, che
la gestione degli impianti
sportivi privi di rilevanza economica, sottratta alla
disciplina delle concessioni di servizi, deve essere
ricondotta nella categoria degli “appalti di servizi”,
da aggiudicare secondo le specifiche previsioni dettate dal
Codice per gli appalti di servizi sociali di cui al Titolo
VI, sez. IV.
Resta ferma, inoltre, la disciplina di cui all’art. 36 per
gli affidamenti di importo inferiore alle soglie di cui
all’art. 35.
Si ritiene pertanto, che a seguito dell’entrata in vigore
del nuovo Codice, che ha dettato una specifica disciplina
per le concessioni di servizi e che ha incluso la “gestione
degli impianti sportivi” nell’Allegato IX del Codice,
quale appalto di servizi, debba ritenersi superata e non più
applicabile la previsione di cui all’art. 90, comma 25,
della l. 289/2002, sopra richiamato, dettata in un
differente contesto normativo.
Infine, per quanto riguarda la distinzione tra affidamento
della gestione degli impianti sportivi fissi e degli
impianti sportivi mobili, evidenziata dall’istante,
confermando per i primi le considerazioni svolte in
precedenza, con riferimento agli impianti mobili (definiti
come spazi pubblici concessi dall’ente per lo svolgimento di
manifestazioni o eventi sportivi), sembra opportuno
sottolineare, in linea generale, che i servizi sportivi (CPV
92600000-7), i servizi connessi allo sport (CPV 92620000-3),
i servizi di promozione di manifestazioni sportive (CPV
92621000-0) e i servizi di organizzazione di manifestazioni
sportive (CPV 92622000-7), sono inclusi, come i servizi di “gestione
degli impianti sportivi” nell’Allegato IX del d.lgs.
50/2016, pertanto gli stessi, quali appalti di servizi,
devono essere affidati nel rispetto delle disposizioni del
Codice sopra richiamate.
Nel caso in cui l’ente debba concedere esclusivamente l’uso
di spazi pubblici per consentire lo svolgimento di eventi,
tale fattispecie non rientra nell’ambito di applicazione del
Codice, ma costituisce una concessione amministrativa di
beni pubblici, da affidare comunque con procedura ad
evidenza pubblica, nel rispetto dei principi comunitari di
trasparenza, di concorrenza, di parità di trattamento e di
non discriminazione (Corte dei conti, parere n. 4/2008,
Cons. Stato, sez. VI, 30.09.2010, n. 7239; Cons. Stato, sez.
VI, 25.01.2005, n. 168).
...
1
Ai sensi dell’art. 90 (Disposizioni per l'attività sportiva
dilettantistica), comma 25, della l. 289/2002 «Ai fini
del conseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 29
della presente legge, nei casi in cui l'ente pubblico
territoriale non intenda gestire direttamente gli impianti
sportivi, la gestione è affidata in via preferenziale a
società e associazioni sportive dilettantistiche, enti di
promozione sportiva, discipline sportive associate e
Federazioni sportive nazionali, sulla base di convenzioni
che ne stabiliscono i criteri d'uso e previa determinazione
di criteri generali e obiettivi per l'individuazione dei
soggetti affidatari. Le regioni disciplinano, con propria
legge, le modalità di affidamento» (Parere
sulla Normativa 14.12.2016 n. 1300 - rif. AG 50/2016/AP
- link a
www.anticorruzione.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento
sotto controllo. In discarica i rifiuti a basso rischio per
ambiente e salute. Dall'Ispra i
criteri per valutare quando è necessario effettuare il
pretrattamento.
Smaltimento dei rifiuti in discarica possibile solo nel
rispetto dei nuovi parametri tecnici dettati dall'Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale.
Il collocamento in deposito definitivo senza un preventivo
trattamento è, infatti, ora possibile esclusivamente per
quei rifiuti che, in base ai criteri delineati dall'Ispra in
attuazione della disciplina nazionale di riferimento (il
dlgs 36/2003), non presentano rischi per ambiente e salute
umana.
La disciplina generale.
Le nuove regole tecniche dell'Istituto devono essere
contestualizzate nell'ambito della più generale disciplina
nazionale sulle discariche di rifiuti dettata dal dlgs
36/2003. Dopo l'individuazione delle tipologie di rifiuti
che non possono essere collocate in discarica (articolo 6),
il decreto impone (con il successivo articolo 7) il
preventivo trattamento di quelli ammissibili, e ciò al fine
di prevenire o ridurre il più possibile le ripercussioni
negative per ambiente e salute.
In deroga all'obbligo di
trattamento possono, ex medesimo articolo 7 del dlgs
36/2003, essere tuttavia collocati in discarica: i rifiuti
inerti tecnicamente non processabili; i rifiuti il cui
trattamento non contribuirebbe alle suddette finalità e non
risulta indispensabile per assicurare il «rispetto dei
limiti fissati dalla normativa vigente». I criteri per
valutare quando detto pretrattamento non è necessario ai
descritti scopi sono, ancora in base allo stesso articolo 7
del dlgs 36/2003 (e come da ultimo novellato dalla legge
221/2015, c.d. «Green Economy»), individuati dall'Ispra.
Completa il quadro normativo di riferimento il Dm Ambiente 27.09.2010 (anch'esso riformulato nel 2015), regolamento
che in attuazione dlgs 36/2003 sancisce i requisiti che i
rifiuti devono soddisfare (a valle di tutta la filiera)
prima di essere effettivamente ammessi in discarica.
Le regole tecniche Ispra.
È in tale contesto che arrivano dall'Ispra i «Criteri
tecnici per stabilire quando il trattamento non è necessario
ai fini dello smaltimento dei rifiuti in discarica ai sensi
dell'articolo 48 della legge 28.12.2015, n. 221».
Il
documento
30.07.2016 n. 145/2016 e pubblicato
dall'Ispra sul sito istituzionale www.isprambiente.gov.it/it
reca le istruzioni che gli operatori devono utilizzare per
valutare se le citate finalità di tutela (ambientale e
umana) individuate dal citato dlgs 36/2003 siano garantite a
prescindere da un eventuale trattamento che non
migliorerebbe le caratteristiche dei rifiuti sotto il
profilo di cinque parametri, ossia: riduzione del volume;
riduzione della pericolosità; facilitazione del trasporto;
agevolazione del recupero; smaltimento in condizioni di
sicurezza.
In relazione ai rifiuti speciali la valutazione
della necessità o meno del pretrattamento andrà effettuata
sulla base di alcune caratteristiche dei residui, ossia:
stato liquido della materia; biodegradabilità; presenza di
matrice organica; presenza di amianto; altre specifiche
peculiarità.
Così, rispettivamente, necessiteranno in linea
generale di un preventivo trattamento al fine dell'avvio in
discarica: rifiuti allo stato liquido o con sostanza secca
inferiore al 25% (come, ad esempio, i fanghi da operazioni
lavaggio e pulizia); residui biodegradabili o putrescibili
(tra cui i residui vegetali non compostati) sottoponibili a
processo di riduzione; rifiuti a matrice organica non
rapidamente biodegradabile (come i residui tessili) con
parametro di carbonio «Toc» maggiore o uguale al 5%; rifiuti
anche solo a base di amianto (come alcuni imballaggi
metallici); residui con sostanze pericolose immobilizzabili
e quelli che possono interagire negativamente con altri in
assenza di trattamento.
In relazione ai rifiuti urbani,
punto nodale sarà il tipo di raccolta di provenienza: se
derivanti da indifferenziata, il pretrattamento interesserà
sostanzialmente i rifiuti biodegradabili o putrescibili; se
derivanti da raccolta differenziata, la valutazione sul
pretrattamento investirà solo ciò che dei rifiuti resterà
all'esito delle obbligatorie attività di recupero: gli
scarti che usciranno da tali operazioni dovranno così essere
pretrattati prima di essere collocati in discarica se
presenteranno quelle caratteristiche più sopra menzionate in
relazione ai rifiuti speciali.
Il sistema sanzionatorio.
Al collocamento dei rifiuti in discarica in violazione delle
regole ex articolo 7 del dlgs 36/2003 sul pretrattamento
(come ora integrate dalle nuove disposizioni Ispra) si
applicano le sanzioni penali previste dall'articolo 16 dello
stesso decreto legislativo.
Tali sanzioni, si segnala per
onor di completezza, continuano però dal dlgs 36/2003 a
essere testualmente individuate mediante un rinvio a quelle
in materia previste dal dlgs 22/1997; ma essendo lo storico
«Decreto Ronchi» stato abrogato e sostituito dal dlgs
152/2006 è alle relative sanzioni da quest'ultimo (in
continuità normativa) previste che occorrerà far
riferimento, e rintracciandole in particolare nell'articolo
256, comma 3, dello stesso Codice ambientale, laddove si
prevedono l'arresto fino a tre anni e l'ammenda fino a 52
mila euro.
Le novità Ue in arrivo.
Una stretta sull'avvio dei rifiuti in discarica è previsto
dallo schema di provvedimento destinato a modificare la
direttiva 1999/31/Ce (del quale il dlgs 36/2003 costituisce
attuazione), schema allo studio delle competenti istituzioni
Ue e rientrante nell'ambito del più consistente pacchetto di
provvedimenti sulla c.d. «Economia circolare» (in relazione
al quale la Commissione Ue ha presentato un report che
attesta l'avanzamento dell'iter legislativo proprio lo
scorso 26.01.2017).
In base al testo della nuova
direttiva discariche in itinere (nella versione all'esame
dell'Ue già dal dicembre 2015), in particolare: non saranno
più ammissibili in discarica tutti i «rifiuti raccolti
separatamente» (novero di cui il citato «pacchetto «Economia
circolare» prevede il parallelo allargamento con la modifica
della direttiva 2008/98/Ce); entro il 2030 dovrà dagli Stati
membri essere ridotto al 10% il volume dei rifiuti urbani in
discarica rispetto all'ammontare di quelli analoghi prodotti
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti,
penali a chi ritarda. Deroghe all'affidamento lavori su
progetti esecutivi. Lo prevede il correttivo del Codice.
Sarà proposto in consultazione agli stakeholder.
Eliminato il soccorso istruttorio oneroso; deroghe
all'obbligo di affidare i lavori sulla base di progetti
esecutivi; limite del 30% sul subappalto valido soltanto per
la categoria prevalente; obbligatorio stimare i
corrispettivi professionali con il «decreto parametri»;
qualificazione delle imprese di costruzioni su 10 anni;
reintrodotte le penali per ritardi nell'esecuzione, finanza
di progetto con contributi pubblici fino al 49%.
Sono queste alcune delle novità contenute nello
schema di
decreto legislativo messo a punto dal ministero delle
infrastrutture, che raccoglie le diverse proposte emerse sia
a seguito delle audizioni parlamentari, sia nei pareri del
Consiglio di Stato sui diversi provvedimenti attuativi del
decreto 50/2016, sia ancora quelle emerse da segnalazioni e
rilievi dell'Autorità nazionale anticorruzione, nonché dalla
consultazione pubblica dei Rup (responsabili unici dei
procedimenti) di gennaio gestita dalla cabina di regia
presso la presidenza del consiglio dei ministri.
Le
modifiche (si veda ItaliaOggi di ieri), di cui il ministro
delle infrastrutture Graziano Delrio certamente parlerà in
audizione parlamentare mercoledì prossimo, non sono
certamente di poco rilievo né numericamente (84), né per
contenuto, anche se va precisato che si tratta ancora di un
testo in alcun modo definitivo che sarà posto in
consultazione agli stakeholder. Lo scopo sarebbe quello di
arrivare entro una settimana, dieci giorni, alla formale
presentazione del testo in Consiglio dei ministri (ieri il
testo non era all'ordine del giorno).
Una prima rilevante
novità riguarda la disciplina dell'appalto integrato (il
contratto di progettazione esecutiva e costruzione), che
potrà essere utilizzato per i progetti preliminari e
definitivi approvati al 19.04.2016; in questi casi non
sarà necessario sviluppare la progettazione a livello
esecutivo prima si potrà avviare la gara chiedendo
all'impresa di svolgere la progettazione definitiva e/o
esecutiva e i lavori.
L'appalto integrato viene poi ammesso
in tutti i casi in cui sia «nettamente prevalente la
componente tecnologica o innovativa» (in realtà la norma era
già presente nell'articolo 28 sui contratti misti) e, in
termini generali, nei casi di somma urgenza previsti dal
codice, prevedendo nel bando l'obbligo di inizio dei lavori
entro trenta giorni dall'affidamento. Sul subappalto (che la
stazione appaltante potrà vietare) si torna indietro alla
previgente disciplina del decreto 163: il limite del 30%
varrà soltanto sulla categoria prevalente (per i lavori) .
Non è più prevista l'esclusione per mancanza di requisiti
del subappaltatore, che quindi potrà essere semplicemente
sostituito. Per i requisiti di ammissione alla gara si
specifica che in caso di consorzi e raggruppamenti
temporanei si possa indicare le percentuali di possesso in
capo ai consorziati o ai raggruppati, con la precisazione
che la mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed
eseguire le prestazioni in misura maggioritaria. Eliminato
il soccorso istruttorio a pagamento in ragione della causa
pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia per contrasto
con i principi di concorrenza previsti dal Trattato europeo.
Per rilanciare gli interventi in finanza di progetto, si
prevede che il contributo pubblico possa arrivare fino al
49% del valore dell'intervento (a fronte del 30% di oggi).
Diventa obbligatorio per le stazioni appaltanti stimare i
corrispettivi di incarichi di ingegneria e architettura con
il decreto 17.06.2016 (c.d. «decreto parametri») e sarà
vietato remunerare il progettista con meri rimborsi spese o
con contratti di sponsorizzazione. Viene innalzato da cinque
a dieci anni il periodo di riferimento per la qualificazione
delle imprese di costruzioni.
Introdotto l'obbligo di affidamento diretto degli sviluppi
progettuali al vincitore del concorso di progettazione. Il
rating di impresa sarà un elemento volontario e non
obbligatorio, che non si sovrapporrà con il rating di
legalità gestito dall'Antitrust. Ripristinata la disciplina
(in passato nel dpr 207/2010) sulle penali da applicare in
caso di ritardo nell'esecuzione della prestazione da parte
dell'appaltatore; saranno stabilite nel contratto,
commisurate ai giorni di ritardo e calcolate in percentuale
dell'importo contrattuale.
Si chiarisce anche che i
capitolati e il computo estimativo metrico fanno parte
integrante del contratto e che l'anticipazione del prezzo è
commisurata al valore del contratto e non all'importo a base
di gara.
Nelle procedure negoziate si dà alla stazione appaltante la
facoltà di estendere la verifica anche agli altri
partecipanti
(articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Software
per il Mud.
Disponibile il software Unioncamere per la compilazione del
Mud 2017 da inviare online (in
www.mud.ecocerved.it). Per le
dichiarazioni trasmesse dai soggetti che utilizzano software
diversi, invece, il prodotto sarà disponibile dal 23.02.2017.
È quanto si legge nella nota tecnica 09.02.207 di Unioncamere in merito ai tracciati record per la
compilazione telematica del modello unico di dichiarazione
ambientale.
Il modello di dichiarazione annuale da inviare in camera di
commercio è per chiunque effettui a titolo professionale
attività di raccolta e trasporto di rifiuti, per i
commercianti e gli intermediari di rifiuti senza detenzione,
per le imprese e gli enti che effettuano operazioni di
recupero e smaltimento, per i consorzi istituiti per il
recupero e il riciclaggio di particolari tipologie di
rifiuti, nonché per le imprese e gli enti produttori di
rifiuti pericolosi
(articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Costruzioni,
norme tecniche al vaglio Ue.
Verso l'approvazione definitiva delle nuove norme tecniche
delle costruzioni. Entro il prossimo 8 maggio, le norme
tecniche delle costruzioni dovranno ricevere il via libera
della commissione Ue alla quale spetta la verifica
dell'impatto delle nuove disposizioni sul mercato dei
materiali da costruzione e la conseguente compatibilità con
le norme europee sulla concorrenza.
Il 6 febbraio scorso infatti il ministero dello Sviluppo
economico, per conto del ministero delle Infrastrutture e
dei trasporti, ha inviato alla commissione Ue il
decreto di
aggiornamento contenente le «nuove norme tecniche per le
costruzioni».
Non è stata richiesta la procedura di
emergenza per l'analisi del documento. L'adozione del
decreto si è reso necessario per prevedere l'aggiornamento
del decreto ministeriale del 14.01.2008 al fine di
garantire i livelli di sicurezza armonizzate per gli
edifici.
Contenuto decreto.
La bozza di decreto è formata da 3 articoli con allegato il
testo relativo alla revisione delle norme tecniche per le
costruzioni. Il primo dei tre articoli del progetto
notificato approva il testo aggiornato delle norme tecniche
per le costruzioni. I nuovi standard sostituiscono quelli
approvati dal decreto ministeriale del 14.01.2008.
L'articolo 2 stabilisce la durata del periodo transitorio,
dopo l'entrata in vigore delle norme tecniche rivisti,
durante i quali le norme tecniche esistenti possono
continuare ad applicare al pubblico in corso o pubblica
utilità funziona, pubblici già assegnati di lavori, opere
già premiate con i disegni finali e disegni di lavoro e
specifiche, così come opere private le cui opere strutturali
sono in corso o per i quali i disegni di lavoro e le
specifiche sono già state presentate agli uffici competenti.
L'articolo 3 stabilisce che le norme tecniche approvate dal
decreto entra in vigore 30 giorni dopo la pubblicazione
nella gazzetta ufficiale.
L'allegato contiene 12 capitoli
riguardanti il soggetto, la sicurezza e i servizi da
fornire, le azioni su edifici civile e industriali, i ponti,
la progettazione geotecnica, i design per azioni sismiche,
gli edifici esistenti, lo Static test, la preparazione di
piani strutturali di costruzione e calcoli, i materiali e
prodotti per uso strutturale e riferimenti tecnici.
Valutazione sicurezza.
La valutazione della sicurezza di una struttura esistente è
un procedimento quantitativo, volto a determinare l'entità
delle azioni che la struttura è in grado di sostenere con il
livello di sicurezza minimo richiesto dalla presente
normativa. L'incremento del livello di sicurezza si
persegue, essenzialmente, operando sulla concezione
strutturale globale con interventi, anche locali.
La valutazione della sicurezza, argomentata con apposita
relazione, deve permettere di stabilire se l'uso della
costruzione possa continuare senza interventi, l'uso debba
essere modificato (declassamento, cambio di destinazione e/o
imposizione di limitazioni e/o cautele nell'uso); o sia
necessario aumentare la sicurezza strutturale, mediante
interventi
(articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Opere
pubbliche con costi standard e penali per i ritardi.
Appalti. Decreto correttivo in Cdm.
Costi standard per i cantieri e
penali per le imprese che non mantengono gli impegni sui
tempi di esecuzione.
C’è un nuovo sforzo di trovare misure adeguate al
contenimento dei costi delle opere pubbliche nel decreto
correttivo della riforma appalti, varata poco meno di dieci
mesi fa, che oggi il ministro delle Infrastrutture Graziano
Delrio porterà in Consiglio dei Ministri per una prima
informativa al Governo. Un passaggio preliminare
all’apertura di una (rapida) fase di consultazione del
mercato sulle misure contenute nel provvedimento.
Tra le misure della bozza messa a punto dai tecnici di Porta
Pia (molte anticipate già ieri da questo giornale), c'è
anche l’obiettivo di arrivare finalmente a definire un
benchmark dei costi delle opere pubbliche. Un traguardo
previsto anche dal Codice del 2006 su cui aveva mosso i
primi passi -senza successo- la vecchia Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici. Ora ci si dovrà impegnare
l’Anac. La misura serve ad attuare una previsione della
legge che ha delegato il governo a riformare il sistema
degli appalti.
L’obiettivo non è limitato ai lavori.
All’Anticorruzione si chiede anche di elaborare prezzi di
riferimento di beni e servizi «alle condizioni di maggiore
efficienza, tra quelli di maggiore impatto in termini di
costo a carico della pubblica amministrazione». Compito
tutt’altro che facile, anche considerando le difficoltà
organizzative (fondi e personale) con cui è ancora costretta
a fare i conti l’Authority di via Minghetti.
In attesa degli standard nazionali sui prezzi, le imprese
dovranno comunque fare attenzione a non sforare sui tempi.
Il correttivo imporrà l’obbligo di prevedere penali in tutti
i contratti, proporzionate sia al tempo aggiuntivo
necessario per concludere l’attività che al valore
dell’appalto. Stabilita anche la "forbice" entro la quale
dovrà muoversi la sanzione. La penale giornaliera dovrà
essere compresa tra lo 0,3 e l’uno per mille dell’importo
netto contrattuale, entro un limite massimo del 10 per
cento.
Tutte queste misure, dopo il primo passaggio a Palazzo
Chigi, saranno aperte ai suggerimenti degli operatori. Poi
serviranno anche i pareri di Consiglio di Stato, Commissioni
parlamentari e Conferenza unificata. Ma la fase di "ascolto"
non inizia oggi. In molti si sono già fatti avanti con
proposte di cui si è già tenuto conto per mettere a punto la
bozza del provvedimento che si estende su 84 articoli. Oltre
che dagli operatori di mercato e dal mondo delle
amministrazioni, idee e proposte sono arrivate anche dai "think
tank" che si occupano delle strategie pubbliche.
Un dossier
molto corposo sulla riforma degli appalti è stato, ad
esempio, messo a punto dall’osservatorio sui contratti
pubblici promosso da Italiadecide, con Aequa, ResPublica e
ApertaContrada. Tra i suggerimenti anche quello di non
focalizzare l’attenzione solo sui lavori, facendo più spazio
a tutta la fase di programmazione e gestione degli acquisti
pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti post calamità veloci. L'aggiudicatario
può autocertificare di avere i requisiti.
Il correttivo del codice (in dirittura al
consiglio dei ministri) prevede norme ad hoc.
Appalti veloci in caso di calamità Nei casi di attuale ed
estrema urgenza connessa a emergenze di protezione civile,
se c'è l'esigenza impellente di assicurare la tempestiva
esecuzione del contratto, gli affidatari delle opere
dichiarano, mediante autocertificazione, il possesso dei
requisiti di partecipazione previsti per l'affidamento di
contratti di uguale importo mediante procedura aperta,
ristretta o mediante procedura competitiva con negoziazione.
I relativi controlli sulle autocertificazioni presentate
sono comunque effettuati dalle amministrazioni
aggiudicatrici entro 60 giorni dalla stipula del contratto.
Lo prevede la
bozza di decreto correttivo del codice degli
appalti che potrebbe andare già oggi all'esame del consiglio
dei ministri. In fase di verifica, si legge nel
provvedimento, la p.a. deve dare conto della sussistenza dei
relativi presupposti. In assenza, non è possibile procedere
al pagamento.
Qualora venga accertato l'affidamento ad un operatore privo
dei requisiti, le amministrazioni aggiudicatrici recedono
dal contratto, fatto salvo il pagamento delle opere già
eseguite e il rimborso delle spese già sostenute per
l'esecuzione della parte rimanente, nei limiti delle utilità
conseguite, e procedono alle segnalazioni alle autorità.
Numerose le norme di semplificazione contenute nel decreto.
Come quella secondo cui nel caso di lavori pari o inferiori
a 500 mila euro il certificato di collaudo è sostituito da
quello di regolare esecuzione, mentre per i lavori sopra 500
mila euro e pari o inferiore a un milione di euro, è facoltà
della stazione appaltante di sostituire il certificato di
collaudo con quello di regolare esecuzione. Per accelerare
lo svolgimento dei lavori, i contratti di appalto prevedono
penali per il ritardo nell'esecuzione delle prestazioni
contrattuali da parte dell'appaltatore.
Le penali per il ritardato adempimento, sono calcolate in
misura giornaliera compresa tra lo 0,3 per mille e l'1 per
mille dell'ammontare netto contrattuale, e comunque
complessivamente non superiore al 10%, da determinare in
relazione all'entità delle conseguenze legate all'eventuale
ritardo
(articolo ItaliaOggi del 10.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Corruzione,
un unico database. La p.a. potrà usarlo per le misure di
prevenzione e contrasto. Proposta Anac per mettere in rete
gli indicatori di rischio nei settori interessati dai fondi
di coesione.
Definire indicatori oggettivi del rischio corruttivo nella
pubblica amministrazione desunti da statistiche giudiziarie,
della magistratura contabile e inerenti la responsabilità
disciplinare; mettere in linea le banche dati in possesso
delle informazioni inerenti gli indicatori per applicarli
agli interventi finanziati con i fondi di coesione.
È quanto ha proposto l'Anac nel report finale messo a punto
con il dipartimento per le politiche di coesione della
presidenza del consiglio a valle di una approfondita analisi
istruttoria propedeutica all'individuazione di indicatori di
rischio corruzione e di misure di prevenzione e contrasto
nelle amministrazioni pubbliche coinvolte nella politica di
coesione.
Il presupposto da cui è partito il lavoro è che
l'elaborazione di indicatori affidabili può rappresentare
uno strumento particolarmente utile nelle fasi di
progettazione e valutazione di interventi e progetti
formulati nell'ambito delle politiche di coesione, cosi da
misurarne l'efficacia relativa anche in relazione al rischio
di distorsioni derivanti da «abusi di potere delegato a fini
privati» legati ad attività di corruzione.
Il lavoro contiene indicazioni di particolare interesse
anche perché è, nella sostanza, centrato sulle procedure di
affidamento di contratti pubblici, ancorché limitatamente a
quelli finanziati con i fondi di derivazione europea.
Lo studio propone una metodologia per la costruzione di
indicatori oggettivi e soggettivi di rischio di corruzione e
di contrasto alla corruzione, oggi non disponibili in Italia
con sistematicità di produzione e adeguato livello di
disaggregazione territoriale e ne ipotizza la realizzazione
nell'ambito del Pon governance e capacità istituzionale
2014-2020.
L'obiettivo del lavoro è stato quello di riferirsi a
indicatori oggettivi di rischio di corruzione da costruirsi
per ognuno dei settori compresi negli obiettivi tematici
delle politiche di coesione, analogamente a quanto già fatto
dall'Anac in materia di contratti; questi indicatori possono
essere poi utilizzati anche dalle pubbliche amministrazioni
nella scelta delle misure di prevenzione da adottare.
La
scelta è stata quella di fare riferimento a misure ricavate
dalle statistiche giudiziarie e dalla giurisprudenza
contabile, quali ad esempio: misure di repressione penale o
di contrasto in materia di responsabilità amministrativa e
contabile deducibili dalla giurisprudenza della Corte dei
conti; misure di contrasto in materia di responsabilità
disciplinare; misure di contrasto di carattere preventivo.
Il sistema, per funzionare efficacemente deve potere
disporre, però, di dati di base dettagliati e affidabili.
Per questo aspetto lo studio individua come elementi
essenziali le banche dati Anac già esistenti e
immediatamente disponibili, fra cui la banca dati interna
dell'Anac (Bdncp, banca dati nazionale dei contratti
pubblici); poi si fa riferimento alle banche dati costituite
presso le singole stazioni appaltanti, e gestite dai singoli
responsabili di prevenzione alla corruzione (Rpc).
Utili all'analisi e all'applicazione degli indicatori sono
le banche dati esterne all'Anac, facilmente acquisibili ma
di non facile integrazione (Banca d'Italia, Corte dei conti,
ministero dell'interno, ministero della giustizia,
presidenza del consiglio dei ministri, ma anche enti
pubblici non economici, agenzie, regioni, comuni, aziende
sanitarie locali, aziende ospedaliere, università, camere di
commercio industria artigianato e agricoltura e unioni
regionali).
Infine, il report si sofferma sulla possibilità di
implementare indagini campionarie ad hoc per
integrare un ideale database completo con informazioni non
altrimenti reperibili attraverso le fonti tradizionali
(articolo ItaliaOggi del 10.02.2017). |
APPALTI: White
list antimafia, niente appalti a chi non è iscritto. Lavori.
Un decreto chiarisce l'obbligo.
Si rafforza il ruolo delle white
list, per garantire l’assegnazione degli appalti a imprese
al riparo dalle infiltrazioni mafiose. D’ora in avanti, chi
vorrà ottenere contratti e subappalti nei settori
considerati a maggiore rischio di inquinamento da parte
della criminalità dovrà risultare iscritto negli elenchi
delle prefetture. L’iscrizione alle white list diventa così
vincolante, spazzando via i dubbi sull’obbligo, a causa di
una ambigua formulazione inserita nel regolamento del 2013
che ha istituito gli albi delle imprese "pulite".
Il chiarimento è
arrivato con un nuovo decreto (Dpcm 24.11.2016, pubblicato
in Gazzetta il 31 gennaio) che modifica in più punti il
vecchio regolamento estendendo il raggio di azione delle
white list. L’iscrizione all’elenco potrà sostituire la
documentazione antimafia (comunicazione e informativa) per
appalti di qualunque importo e anche di natura diversa dal
settore specifico per il quale l’impresa ha richiesto
l’iscrizione.
La novità riguarda in particolare le decine di migliaia di
imprese che operano nei nove settori che la legge
Anticorruzione (legge 190/2012) individua come a maggior
rischio infiltrazione. Si tratta delle attività legate a
trasporti (materiali in discarica e smaltimento rifiuti),
movimento terra, ciclo del cemento e del bitume
(confezionamento, fornitura e trasporto), fornitura di
ferro, noleggi, autotrasporti per conto terzi, guardiania
dei cantieri.
Il provvedimento chiarisce definitivamente
che, senza iscrizione, chi lavora in questi settori non può
ottenere appalti pubblici o subaffidamenti. Il decreto prova
anche a stabilire un raccordo tra le white list e la banca
dati unica antimafia inaugurata a gennaio 2016. Anche se i
due strumenti di verifica rischiano di accavallarsi. Può
capitare infatti che un’impresa abbia fatto domanda di
iscrizione alle white list ma non risulti ancora tracciata
dalla banca dati. In questo caso scattano le procedure
ordinarie previste dal codice antimafia, cioè i controlli
sull'impresa, da concludere entro un massimo di 30 giorni
(45 nei casi più complessi).
Al termine dei 30 giorni, o nei
casi più urgenti, la stazione appaltante potrà concludere il
contratto salvo revocarlo (fatte salve le opere già
eseguite) nel caso di stop del prefetto al termine dei
controlli. Se tutto, invece, andrà liscio l'impresa si vedrà
iscritta sia nelle white list che nella banca unica
antimafia.
Sancito con certezza l’obbligo è del tutto probabile che le
finora piuttosto sonnecchianti white list diventino lo
strumento principale per la conquista della certificazione
antimafia da parte delle imprese. Il nullaosta non sarà
infatti limitato a uno specifico settore, ma potrà essere
esibito per qualsiasi tipo o dimensione del contratto, senza
limiti di importo.
Una volta iscritti in white list,
insomma, almeno per un anno le imprese dovrebbero lasciarsi
alle spalle il pensiero degli adempimenti antimafia
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Difesa
in giudizio, escluso l'obbligo di previa gara.
L'obbligo di previa gara per l'attribuzione dell'incarico di
difesa in giudizio, così come per l'attribuzione
dell'incarico di consulenza o di assistenza specialistica
sul singolo affare, non è affatto imposto dall'ordinamento.
La prestazione dell'avvocato potrà, invece, essere richiesta
dalle pubbliche amministrazioni, al pari di ogni altro
soggetto, in ragione dell'imprescindibile natura fiduciaria
che caratterizza il rapporto tra l'avvocato ed il cliente
rappresentato e difeso.
Questo è quanto ha precisato l'Unione nazionale avvocati
amministrativisti con la
lettera-circolare 19.01.2017 n. 1/2017.
Il chiarimento offerto con questo documento si era reso
indispensabile a seguito dell'entrata in vigore del dlgs
50/2016 (nuovo codice dei contratti pubblici).
Più
precisamente, si era diffusa l'illogica tesi secondo la
quale anche per l'affidamento degli incarichi legali di
natura giudiziale dovevano essere applicati i principi
generali relativi all'affidamento di contratti pubblici,
essendo gli stessi espressamente ricompresi nell'art. 17, c.
1, lett. d), del decreto. Il tutto in forza del tenore
letterale della previsione di cui all'art. 4 del codice.
Ebbene, con la circolare si rammenta come ogni
interpretazione debba essere condotta muovendo proprio
dall'analisi della fonte comunitaria recepita e quindi, nel
caso concreto, dalla direttiva 2014/24/Ue dove rileva il
considerando n. 25, il quale espressamente chiarisce la
scelta di escludere «dall'ambito di applicazione della
presente direttiva», oltre ai servizi prestati dai notai o
quelli connessi all'esercizio di pubblici poteri, quelli che
«comportano la rappresentanza dei clienti in procedimenti
giudiziari».
«Non potrà quindi ricavarsi dalla fonte di
recepimento nazionale ciò che la fonte comunitaria esplicita
all'opposto». Anche l'allegato IX dell'attuale codice dei
contratti, nel prevedere i servizi legali nella misura in
cui non siano esclusi a norma dell'art. 17, c. 1, lett. d),
non fa altro che richiamare l'esatto contenuto della
direttiva 24.
Alla luce di queste considerazioni è stata
così ritenuta irragionevole la lettura sopra richiamata
degli art. 17 e 4 dell'attuale codice e le p.a. potranno
conferire l'incarico nel modo più adeguato al perseguimento
del loro interesse, dovendo assolvere al solo onere di
esplicitare sempre le ragioni che motivano la scelta del
professionista
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Più
licenziamenti disciplinari. Quattro nuove cause. Rischia chi
non segnala infrazioni. PUBBLICO IMPIEGO/ Lo prevede la
bozza di decreto attuativo della riforma Madia.
Quattro nuovi casi di licenziamento disciplinare nel
pubblico impiego. Il rapporto di lavoro dovrà essere risolto
per violazione del codice di comportamento (dpr 62/2013 e
codici di ciascuna singola amministrazione); mancato
esercizio, doloso o gravemente colposo, dell'azione
disciplinare, o mancata segnalazione dell'infrazione, o
archiviazione sulla base di valutazioni manifestamente
irragionevoli (per i dirigenti, queste infrazioni potranno
costituire anche responsabilità dirigenziale); scarso
rendimento reiterato, qualora nel corso dei due anni
precedenti al dipendente sia stata irrogata una sanzione
allo stesso titolo, di tenore più lieve; reiterata
valutazione negativa ai fini del risultato del dipendente
nell'arco dell'ultimo triennio.
Lo si legge nella bozza di decreto legislativo attuativo
della riforma Madia che contiene nuove regole sul
procedimento disciplinare e anti assenteismo (e poco altro
di fondamentale).
Lo schema di decreto, previsto
dall'articolo 17 della legge 124/2015, modifica in poche
parti l'impianto del testo unico sul lavoro pubblico, il dlgs 165/2001. Le modifiche davvero significative non
toccano i temi della riorganizzazione delle attività e
dell'efficienza, ma soprattutto la «lotta ai fannulloni».
Qualche rilievo assume la modifica delle relazioni sindacali
e la conferma della reintegra ai dipendenti pubblici
licenziati illegittimamente. Piatto forte, iter disciplinare
e sanzioni.
Competenza.
Il testo riordina le competenze oggi ripartite,
negli enti con dirigenza, tra dirigenti degli uffici,
chiamati ad intervenire per le sanzioni fino alla
sospensione dal lavoro con privazione della retribuzione per
10 giorni, e ufficio per i procedimenti disciplinari, che
interviene per le sanzioni superiori, fino al licenziamento.
La riforma limita la competenza dei dirigenti alla sola
sanzione del rimprovero verbale.
Unificazione del procedimento.
I procedimenti non connessi a
infrazioni che possano comportare il licenziamento colte in
flagranza (come per i «furbetti del cartellino») avranno un
unico iter. I responsabili delle strutture dovranno
segnalare il fatto che possa costituire infrazione
disciplinare entro 10 giorni all'ufficio per i procedimenti,
autonomamente individuato da ciascuna amministrazione.
L'ufficio deve avviare l'azione disciplinare non oltre i
successivi 30 giorni, con la contestazione scritta al
dipendente, che viene contestualmente convocato per
un'audizione a sua difesa con preavviso di non meno di 20
giorni (rinviabile solo una volta).
Adozione dei provvedimenti.
Il procedimento ordinario deve
concludersi entro 90 giorni dall'avvio con due alternative.
La prima è un provvedimento di archiviazione. La seconda è,
invece, l'irrogazione della sanzione. Ad irrogare la
sanzione è l'ufficio dei procedimenti disciplinari: il che
eliminerà i dubbi ancor oggi sussistenti sull'autorità
competente a disporre il licenziamento.
Restano fermi,
invece, i termini molto più brevi previsti per il
procedimento disciplinare da attivare nei confronti dei
dipendenti che attestino falsamente la presenza in servizio:
48 ore per sospenderli dal servizio e 30 giorni complessivi
per irrogare il licenziamento disciplinare.
Irrilevanza dei termini.
La riforma del procedimento
disciplinare mira alla sostanza, più che alla forma. Per un
verso, quindi, si introduce un divieto generalizzato ad
introdurre (con regolamento, contratti o qualsiasi altro
atto) termini e adempimenti ulteriori e diversi da quelli
fissati per legge.
In ogni caso, termini e adempimenti
ulteriori e diversi da quelli normativi sono nulli. Per
altro verso, allo scopo di assicurare efficacia alle
sanzioni, si stabilisce che la violazione dei termini
procedimentali non comporta la decadenza dall'azione né
l'invalidità della sanzione irrogata, a condizione, però,
che non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto
alla difesa. Può incorrere, comunque, in responsabilità chi
abbia dato causa alla violazione dei termini procedurali.
Nuovo procedimento in caso di annullamento.
Le
amministrazioni dovranno riaprire i termini dei procedimenti
disciplinari ex novo, qualora il giudice ordinario abbia
annullato la sanzione irrogata per violazione del principio
di proporzionalità, in quanto detta sanzione si riveli
eccessiva rispetto all'infrazione accertata. Entro 60 giorni
dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento
gli uffici competenti dovranno rinnovare la contestazione
degli addebiti e ripartire con l'iter.
Riattivazione procedimento sospeso.
Il procedimento disciplinare, come noto, può proseguire
anche in pendenza di processo penale. Tuttavia, l'ufficio
per i procedimenti disciplinari potrebbe sospenderlo nei
casi di particolare complessità. La riforma introduce la
possibilità di riattivare il procedimento disciplinare
qualora l'ente entri in possesso di elementi utili per
chiudere il procedimento, anche sulla base di provvedimenti
giurisdizionali non definitivi
(articolo ItaliaOggi dell'08.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nuove
dotazioni per l’iscrizione all’Albo. Rifiuti urbani e
speciali. Dal 1° febbraio cambiano i criteri per la
procedura ordinaria, le domande già presentate seguono le
vecchie norme.
Nuove dotazioni
minime di personale e mezzi per la raccolta e trasporto di
rifiuti urbani e di speciali non pericolosi e pericolosi.
È in vigore dal 1°
febbraio la
deliberazione 03.11.2016
n. 5 del Comitato nazionale dell’Albo gestori, che ha
introdotto nuovi criteri e requisiti per l’iscrizione ad
alcune categorie con procedura ordinaria, abrogando le
delibere 3/2003, 3/2012 e 6/2012.
Per raccolta e trasporto di rifiuti urbani (categoria 1),
rifiuti speciali non pericolosi (4) e rifiuti speciali
pericolosi (5) sono stati stabiliti i criteri specifici, le
modalità e i termini per la dimostrazione dell’idoneità
tecnica e della capacità finanziaria. Inoltre, ai fini
dell’iscrizione nella categoria 1, il Comitato ha
individuato sottocategorie basate sulla quantità annua di
rifiuti gestita.
La dotazione minima dei veicoli tiene conto di una serie di
elementi, quali: le diverse potenzialità e tipologie dei
veicoli , la loro idoneità per le diverse attività, i
differenti contesti in cui operano le imprese e l’esigenza
di non ostacolare l’accesso all’attività nelle classi più
basse.
La dotazione di veicoli e di personale individuata dalla
delibera è quella minima; resta salvo l’obbligo di disporre
della più ampia dotazione che, in sede operativa, risulti
effettivamente necessaria per lo svolgimento dei servizi.
Per individuare in concreto la dotazione, fanno testo gli
allegati:
-
A e B riguardano l’iscrizione nella categoria 1 per raccolta
e trasporto di rifiuti urbani, rispettivamente, con
procedura ordinaria e semplificata (articolo 16, comma 1,
lettera a, del Dm 120/2014);
-
C si riferisce alla dotazione per iscriversi nella categoria
1 per lo spazzamento meccanizzato;
-
D riguarda ancora la categoria 1 ma, per i servizi indicati
in sette sottocategorie (si veda la scheda a destra) per i
quali si deve disporre solo delle dotazioni minime
individuate in tali sottocategorie;
-
E è riferito alla dotazione per le categorie del trasporto
rifiuti speciali non pericolosi (4) e pericolosi (5).
Il requisito di capacità finanziaria è soddisfatto con 9.000
euro per il primo autoveicolo e 5.000 per ogni ulteriore
mezzo, dimostrati da documenti che comprovino le
potenzialità economiche e finanziarie (volume di affari,
capacità contributiva ai fini Iva, patrimonio, bilanci,
affidamenti bancari) o con attestazione di affidamento
bancario da imprese autorizzate all’esercizio del credito.
Le imprese che hanno dimostrato il requisito ai fini
dell’iscrizione all’Albo nazionale delle persone fisiche e
giuridiche che esercitano l’autotrasporto conto terzi
comprovano la capacità finanziaria con l’iscrizione a tale
Albo.
Le iscrizioni nelle categorie 1, 4 e 5 effettuate alla data
del 01.02.2017 restano valide ed efficaci fino alla
loro scadenza. Restano valide le domande d’iscrizione
presentate fino a tale data, da istruire e deliberare con le
vecchie regole (articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017). |
VARI:
Origine latte Ingredienti esonerati. Circolare
mise.
L'obbligo di indicazione in etichetta dell'origine del latte e del latte
usato come ingrediente nei prodotti lattiero caseari ricade in capo
all'impresa che rappresenta il soggetto responsabile delle informazioni.
Questa riporterà pertanto le informazioni di cui dispone direttamente e
quelle di cui è entrato in possesso in quanto rilasciate dai soggetti tenuti
a fornirle. L'obbligo di indicazione di origine del latte non investe,
invece, gli altri operatori del settore alimentare che hanno fornito gli
ingredienti contenenti latte utilizzati nella lavorazione del prodotto
lattiero caseario preimballato; in quanto tale obbligo non cade sui prodotti
non destinati al consumatore finale.
È con la
circolare 02.02.2017 che il
Ministero dello sviluppo
economico detta le disposizioni applicative al decreto o interministeriale 09.12.2016 (Gazzetta Ufficiale del 19/01/2017 n. 15) concernente
l'indicazione dell'origine in etichetta della materia prima per il latte e i
prodotti lattiero-caseari, in attuazione del regolamento (Ue) n. 1169/2011
che entrerà in vigore il 19.04.2017.
Il latte o i suoi derivati da tale
data dovranno avere obbligatoriamente indicata l'origine della materia prima
in etichetta in maniera chiara, visibile e facilmente leggibile. Le diciture
utilizzate saranno le seguenti: «Paese di mungitura: nome del paese nel
quale è stato munto il latte» e «paese di condizionamento o trasformazione:
nome del paese in cui il prodotto è stato condizionato o trasformato il
latte».
Qualora il latte o il latte utilizzato come ingrediente nei prodotti lattiero-caseari, sia stato munto, confezionato e trasformato, nello stesso
paese, l'indicazione di origine può essere assolta con l'utilizzo di una
sola dicitura: per esempio «origine del latte: Italia».
Se le fasi di
confezionamento e trasformazione avvengono nel territorio di più paesi,
diversi dall'Italia, possono essere utilizzate, a seconda della provenienza,
le seguenti diciture: latte di paesi Ue (se la mungitura avviene in uno o
più paesi europei) e latte condizionato o trasformato in paesi Ue (se queste
fasi avvengono in uno o più paesi europei). Sono esclusi solo i prodotti Dop
e Igp che hanno già disciplinari relativi anche all'origine e il latte
fresco già tracciato (articolo ItaliaOggi del 07.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: La
mobilità elettrica entra nei regolamenti edilizi.
La mobilità elettrica entra nei regolamenti edilizi. I
comuni entro il 31.12.2017 dovranno adeguare i regolamenti
edilizi, prevedendo alcuni obblighi per mobilità ecologica.
Per ottenere il titolo abilitativo edilizio, gli immobili
dovranno includere la predisposizione all'allaccio per la
possibile installazione di infrastrutture elettriche per la
ricarica dei veicoli.
Questo è quanto emerge dalla lettura dell'articolo 15 del
dlgs 16/12/2016 n. 257 (pubblicato su Gazzetta Ufficiale del
13.01.2017 n. 10) sulla realizzazione di una infrastruttura
per i combustibili alternativi.
Due le tipologie di edifici interessati dalla riforma:
quelli di nuova costruzione non residenziali, con superficie
utile superiore a 500 metri quadrati e quelli residenziali
di nuova costruzione con almeno dieci unità abitative. In
entrambi le situazioni, le nuove regole si applicano anche
per i relativi interventi di ristrutturazione edilizia di
primo livello, parliamo delle c.d. ristrutturazioni «importanti»
che interessano oltre il 50% della superficie disperdente
lorda esterna e l'eventuale rifacimento dell'impianto
termico.
Per ottenere il titolo abilitativo edilizio, questi immobili
dovranno includere «la predisposizione all'allaccio per
la possibile installazione di infrastrutture elettriche per
la ricarica dei veicoli idonee a permettere la connessione
di una vettura da ciascuno spazio a parcheggio coperto o
scoperto e da ciascun box per auto, siano essi pertinenziali
o no, in conformità alle disposizioni edilizie di dettaglio
fissate nel regolamento stesso e, relativamente ai soli
edifici residenziali di nuova costruzione con almeno 10
unità abitative, per un numero di spazi a parcheggio e box
auto non inferiore al 20% di quelli totali».
Con decreto del ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, di concerto con il Ministero dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare, sono individuate le
dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni, nonché gli
elaborati tecnici da presentare a corredo della segnalazione
certificata di inizio attività
(articolo ItaliaOggi del 04.02.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Codice
dei contratti terremotato. Innalzata la soglia per gli
affidamenti diretti della p.a.. Tra
le deroghe del decreto legge sisma approvato ieri dal cdm
c'è il ritorno all'appalto integrato.
In arrivo le deroghe al codice dei contratti pubblici su
utilizzo del prezzo più basso e su appalto integrato per la
ricostruzione post terremoto che si aggiungeranno a quelle
già previste per il G7 di Taormina dal decreto 243/2016.
È quanto prevede il decreto-legge sul terremoto approvato
ieri dal consiglio dei ministri, che contiene, oltre alla
deroga sull'innalzamento della soglia di un milione di euro
entro la quale le amministrazioni possono procedere
all'affidamento con il criterio del massimo ribasso, anche
la possibilità di utilizzo del contratto di progettazione
esecutiva e costruzione (il cosiddetto appalto integrato).
La deroga dovrebbe essere applicata alla sola realizzazione
delle 24 scuole individuate nell'ordinanza del commissario
governativo Vasco Errani del 14 gennaio scorso, che dovranno
essere pronte per la ripresa dell'anno scolastico. I tempi
sono serratissimi e quindi nel decreto legge è prevista
anche la scelta dell'appaltatore attraverso procedura
negoziata con invito di cinque operatori economici.
Si tratta di una deroga necessitata che tocca comunque uno
dei punti centrali della riforma del codice degli appalti
pubblici e, in particolare, l'obbligo di appaltare lavori
sulla base del progetto esecutivo (ad eccezione di quelli
nei cosiddetti settori speciali), una novità che da un lato
ha determinato il rilancio del mercato dei servizi di
ingegneria e architettura e, dall'altro, ha inevitabilmente
rallentato la domanda pubblica per appalti di lavori. Una
novità che le stazioni appaltanti hanno in diverse occasioni
trovato modo di aggirare utilizzando impropriamente
strumenti come l'affidamento a contraente generale per
affidare lavori di piccolo importo e di nulla complessità.
La partita delle deroghe sugli appalti preoccupa però non
poco il Parlamento, già alle prese con l'esame del decreto
legge n. 243/2016 dove sono contenute già numerose eccezioni
al decreto 50/2016 per l'organizzazione del G7. Non a caso
nella seduta di martedì scorso, in commissione lavori
pubblici del senato, è stato immediatamente richiamata
l'attenzione sulla necessità che il provvedimento di urgenza
del governo sia oggetto di esame da parte delle commissioni
di merito in sede referente e non consultiva.
Sul G7, peraltro, anche il presidente dell'Anac, Raffaele
Cantone, nell'audizione svolta presso la commissione
bilancio della camera, ha messo in guardia i parlamentari
sulla portata e l'ampiezza delle deroghe previste nel
decreto legge di fine dicembre concernente il Sud e in
particolare l'organizzazione del G7 di Taormina previsto a
maggio. Si tratta di una vera e propria procedura speciale
per gli affidamenti degli appalti che consente il ricorso
alla procedura negoziata senza bando anche se nel codice e
nelle direttive si stabilisce che l'estrema urgenza deve
derivare da «eventi imprevedibili dall'amministrazione
aggiudicatrice».
Difficile ritenere che l'organizzazione del
G7, di cui l'ex premier Renzi già dava notizia subito dopo
l'estate, possa rientrare negli eventi imprevedibili, anche
se, come ha anche notato il presidente Anac, bisogna essere
realistici visto che per le infrastrutture nulla è stato
ancora fatto. Al momento risultano infatti avviate da Consip
le gare per quattro accordi quadro che dovrebbero a breve
essere aggiudicati, ma che riguardano i servizi.
Nel decreto-legge si prevede quindi una procedura che, ha
detto Cantone, è «senza limiti di importo, con la richiesta
di solo 5 preventivi senza alcuna indicazione di come
dovranno essere richiesti». Una deroga molto significativa
che va oltre i paletti del codice dei contratti che ammette
deroghe alle procedure ordinarie soltanto per eventi
calamitosi. Su questo punto il presidente
dell'Anticorruzione ha avuto modo di notare che «nemmeno per
il terremoto è stata fatta una deroga simile»
(articolo ItaliaOggi del 03.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Progettazione,
tre i nuovi livelli Ma vanno a regime dopo 6 mesi.
Entrata in vigore graduale per i nuovi livelli di
progettazione; il nuovo decreto in materia del ministero
delle infrastrutture attualmente in fase di approvazione
sarà applicabile, infatti, dopo sei mesi dalla pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale.
È quanto prevede l'ultima versione del testo, che adesso
dovrà essere esaminato dalla Conferenza unificata e da Itaca
(l'istituto per l'innovazione e trasparenza degli appalti e
la compatibilità ambientale), attuativo dell'articolo 216.
Il decreto ministeriale, formulato sulla base di una
proposta del Consiglio superiore dei lavori pubblici,
prevede fra le sue novità la sostituzione del progetto
preliminare (il primo step progettuale) con il progetto di
fattibilità che assume un ruolo chiave nell'ambito del
processo di progettazione; inoltre il decreto prevede la
possibilità di articolare in due fasi il progetto di
fattibilità, con la prima fase che si conclude con la
redazione del «documento di fattibilità delle alternative
progettuali».
Proprio in ragione di questa novità che rende
il primo livello ancora più «ricco» di contenuti rispetto a
quanto previsto dal precedente codice e dalle norme di
dettaglio contenute nel dpr 207/2010, nel nuovo testo si
prevede una disciplina graduale di applicazione delle nuove
regole che dovrebbe aiutare le stazioni appaltanti a gestire
al meglio la transizione dal vecchio al nuovo sistema.
In
particolare l'articolo 37 del provvedimento stabilisce che
«le disposizioni di cui al presente decreto entrano in
vigore 180 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale» e che «alle progettazioni affidate prima
dell'entrata in vigore delle disposizioni contenute nel
presente decreto si applicano le disposizioni vigenti al
momento del loro affidamento».
È difficile fare una stima
dei tempi su quando realmente i progettisti applicheranno le
nuove disposizioni anche perché il testo è ancora
potenzialmente soggetto a ulteriori modifiche che potrebbero
giungere dalla Conferenza unificata o da Itaca e che
dovrebbero essere prima recepite dal ministero e poi inviate
alla Gazzetta Ufficiale. Difficile pensare che prima di
settembre o forse ottobre sia tutto in vigore.
Nel
frattempo, anche in ragione della disciplina transitoria
contenuta nel decreto 50, stazioni appaltanti,
professionisti e società continueranno ad applicare le norme
del regolamento del Codice De Lise che verranno abrogate, in
base all'articolo 38 dello schema di decreto ministeriale;
quest'ultima norma, peraltro prevede anche che fino
all'adozione delle tabelle sul costo del lavoro di cui
all'articolo 23, comma 16, del nuovo codice continuano ad
applicarsi le disposizioni di cui ai decreti ministeriali
già emanati in materia
(articolo ItaliaOggi del 02.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Responsabilità
sostenibile per gli appalti.
Con
l'accoglimento del quesito da parte della Corte
costituzionale e con il voto al referendum potrebbe cambiare
ancora una volta la disciplina sulla responsabilità solidale
tra committente e appaltatore. Il quesito accolto, infatti,
chiede l'abrogazione della norma (introdotta dalla legge
92/2012) che fissa una sorta di cronologia processuale per
recuperare il credito in caso di accertata responsabilità
solidale.
In particolare, il committente, nella prima difesa e in ogni
caso una volta accerta la responsabilità di tutti gli
obbligati, può chiedere che l'azione esecutiva nei suoi
riguardi sia solo successiva all'infruttuosa escussione del
patrimonio degli appaltatori e dei subappaltatori.
La norma non sottrae, dunque, il committente dalla
responsabilità solidale, ma si limita a fissare la sequenza
temporale dell'azione processuale per il recupero del
credito da parte dei creditori (lavoratori e Enti).
L'eventuale esito positivo della consultazione referendaria,
darebbe luogo all'abrogazione della norma e,
conseguentemente, il lavoratore e gli enti potrebbero agire
per recuperare il proprio credito indistintamente su tutta
la filiera dell'appalto. In genere, però, queste azioni di
recupero sono rivolte nei riguardi del committente anche in
ragione della sua maggiore solvibilità rispetto
all'appaltatore o al subappaltatore.
Questo scenario, però, porrebbe di nuovo sul tavolo tutti i
problemi che erano alla base dell'intervento normativo
contenuto nella legge 92.
Da un lato, nessuno discute un provvedimento che si ponga
l'obiettivo di tutelare il lavoratore e gli enti
previdenziali nell'ambito degli appalti. Non è in
discussione anche un ruolo di responsabilità del committente
nel caso in cui decida di affidare in appalto un’opera o un
servizio poiché egli ha il dovere di accertare
preventivamente la correttezza del suo appaltatore (culpa in eligendo).
Il vero nodo da sciogliere è l'attuale sproporzione tra la
responsabilità incondizionata attribuita al committente e i
suoi limitati strumenti per accertare la correttezza
dell'appaltatore. Infatti, il committente non ha potere
ispettivo e accertativo nei riguardi degli appaltatori e dei
subappaltatori.
L'impresa virtuosa che intende controllare la filiera, oggi
organizza un sistema di controllo con forti limiti normativi
e di informazione: generalmente sottoscrive un contratto di
appalto con clausole di tutela; richiede l'elenco dei
lavoratori impiegati nell'appalto e ogni sua variazione;
verifica il Durc; chiede il rilascio delle dichiarazioni
sottoscritte con i lavoratori per scongiurare che non ci
siano pendenze retributive.
Nonostante tutti gli sforzi però l'impresa potrebbe essere
chiamata a rispondere comunque in regime di responsabilità
solidale. Il committente, infatti, rimane responsabile anche
qualora, pur in vigenza di un Durc positivo, in un momento
successivo sia accertata in sede ispettiva una qualunque
irregolarità previdenziale o assicurativa (ad esempio
indennità di trasferte disconosciute).
Un altro caso si ha quando il committente è responsabile
qualora i lavoratori dichiarino dopo la conclusione
dell'appalto di aver svolgo straordinari o periodi di lavoro
non dichiarato negli atti amministrativi. Peraltro, in
questi casi, una eventuale eccessiva ingerenza nell'ambito
dell'amministrazione del personale dell'appaltatore
rischierebbe di attivare un elemento sintomatico di un
appalto non genuino.
Si pone, dunque, un problema di certezza del diritto poiché
la norma attribuisce una responsabilità solidale al
committente a prescindere dalla circostanza che egli sia
messo in grado o meno di effettuare controlli efficaci
sull'oggetto di cui è chiamato a rispondere.
Una strada potrebbe essere quella di agire sulla culpa in
vigilando: la norma deve individuare in modo certo la
documentazione periodica che dovrà essere richiesta e
controllata dal committente. Solo in caso di mancato
riscontro della documentazione indicata sarebbe legittima la
responsabilità del committente. Al contrario, qualora tutta
la documentazione fosse stata controllata da parte del
committente e dovesse residuare un ambito di rischio, lo
Stato dovrebbe svolgere il suo ruolo di garante di ultima
istanza (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Amianto,
aiuti ma non per tutto. La bonifica agevolata taglia fuori
progettazioni e materiali. I chiarimenti del ministero
dell'ambiente per i lavori sugli edifici pubblici
contaminati.
Non sono ammissibili al finanziamento della bonifica di
edifici pubblici contaminati da amianto la progettazione di
interventi di ripristino, la realizzazione di manufatti
sostitutivi e la loro messa in opera, le spese di acquisto
di beni, mezzi e materiali sostitutivi e loro messa in
opera, gli incarichi di progettazione preliminare e
definitiva già conferiti al momento dell'ammissione al
finanziamento e la progettazione di interventi realizzati
prima della pubblicazione del bando o prima dell'ammissione
al finanziamento.
Questi alcuni dei
chiarimenti forniti dal ministero dell'ambiente
in merito all'accesso ai finanziamenti per gli interventi di
bonifica di beni contaminati degli edifici pubblici.
La dotazione finanziaria per l'anno 2016 è pari a 5,536
milioni di euro e di 6,018 milioni di euro per ciascuno
degli anni 2017 e 2018. Non sono finanziabili nel caso di
interventi di rimozione di coperture in cemento amianto, gli
eventuali costi relativi alla posa in opera del materiale
sostitutivo.
Presentazione domande.
Le istanze di accesso possono essere presentate dal 30
gennaio al 30.03.2017 collegandosi al sito
www.amiantopa.minambiente.ancitel.it. La domanda di
ammissione al finanziamento potrà essere riferita a
interventi relativi a singoli edifici, all'interno della
stessa struttura, nonché più unità locali all'interno dello
stesso edificio, purché rientranti nei requisiti di
ammissibilità.
Ciascun intervento riferito al singolo edificio o alla
singola unità locale sarà autonomamente valutato ai fini
dell'ammissione in graduatoria e, pertanto, la relativa
richiesta di finanziamento dovrà essere inserita
separatamente all'interno dell'applicativo. Ciascun ente può
presentare una sola domanda di partecipazione in ragione
d'anno. La domanda può essere riferita anche ad interventi
in uno o più edifici o unità locali.
Quali sono i costi ammissibili al
finanziamento.
Sono ammissibili al fondo per la progettazione preliminare e
definitiva degli interventi di bonifica di beni contaminati
da amianto gli interventi di rimozione dell'amianto e dei
manufatti in cemento-amianto da edifici e strutture
pubbliche e successivo smaltimento, anche previo
trattamento, in impianti autorizzati, effettuati nel
rispetto della normativa ambientale, edilizia e di sicurezza
nei luoghi di lavoro.
Sono finanziabili i costi di
progettazione preliminare e definitiva degli interventi fino
al limite massimo di 15 mila euro a domanda per singola
pubblica amministrazione, anche se riferita a interventi
relativi a più edifici o unità locali. Il finanziamento può
coprire integralmente o parzialmente i costi di
progettazione preliminare e definitiva degli interventi.
I
costi di progettazione preliminare e definitiva sono
determinati in conformità al decreto ministeriale 17.06.2016
recante «Approvazione delle tabelle dei corrispettivi
commisurati al livello qualitativo delle prestazione di
progettazione adottato ai sensi dell'articolo 24, comma 8,
del decreto legislativo n. 50 del 2016». Per progettazione
preliminare e definitiva si intendono i livelli di
progettazione inferiori al progetto esecutivo e comunque
finalizzati e necessari alla redazione dello stesso
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2017). |
GIURISPRUDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI: E'
illegittima la progettazione di opere di urbanizzazione
primaria, di un piano attuativo, da parte di un architetto.
La progettazione delle opere viarie non
connesse ai singoli fabbricati sono di pertinenza esclusiva
degli ingegneri ai sensi dell’art. 51 (che devolve a tali
professionisti la progettazione e la conduzione dei lavori
relativi alle “vie ed ai mezzi di trasporto del deflusso e
di comunicazione”) e dell’art. 52 (che attribuisce ai detti
ingegneri le “costruzioni di ogni specie”) del R.D. n.
2537/1925, norme ancora in vigore che costituiscono il punto
di riferimento normativo per stabilire il discrimine tra le
competenze degli architetti e quelle degli ingegneri.
Deve al riguardo farsi applicazione del principio
giurisprudenziale secondo cui tali disposizioni vanno
interpretate nel senso che appartiene alla esclusiva
competenza degli ingegneri non solo progettazione delle
opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali
destinati alle costruzioni e la progettazione delle
costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle
opere igienico-sanitarie e delle opere di urbanizzazione
primaria, per tali dovendosi intendere le opere afferenti la
viabilità, gli acquedotti, i depuratori, le condotte
fognarie e gli impianti di illuminazione, salvo solo il caso
che tali opere non siano di pertinenza di singoli edifici
civili.
---------------
Nel 2014 il Comune di Puglianello indiceva una gara
d’appalto integrato per il “completamento delle opere di
urbanizzazione del 2° Comparto del Piano degli Insediamenti
Produttivi”, da aggiudicarsi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa e con importo
base di euro 2.716.239,93.
Le lavorazioni di cui si componevano l’intervento
risultavano così specificate: categoria prevalente OG3 –
classifica III; categorie scorporabili e subappaltabili OG6
– classifica III e OG1 – classifica III (il Comune di
Puglianello rettificava con un successivo comunicato le
classifiche riportate nel bando, erroneamente indicate come
II).
Alla procedura concorsuale partecipavano solo n. 2 imprese,
ovvero la G.Co. s.r.l. che si collocava al primo posto nella
graduatoria conclusiva e la seconda graduata La. s.r.l..
Quest’ultima ha proposto il ricorso in esame avverso
l’aggiudicazione in favore della prima classificata
deducendo violazione di legge ed eccesso di potere sotto
distinti profili.
...
Viceversa, colgono nel segno le residue censure che
attengono, rispettivamente, alla illegittima indicazione
(attuata dalla ricorrente in esecuzione della disciplina di
gara, gravata in parte qua) di un architetto per la
progettazione esecutiva e alla carenza del requisito della
regolarità contributiva.
Valgano le seguenti considerazioni.
Il Collegio condivide l’assunto di parte ricorrente, secondo
cui la progettazione delle opere viarie non connesse ai
singoli fabbricati sono di pertinenza esclusiva degli
ingegneri ai sensi dell’art. 51 (che devolve a tali
professionisti la progettazione e la conduzione dei lavori
relativi alle “vie ed ai mezzi di trasporto del deflusso
e di comunicazione”) e dell’art. 52 (che attribuisce ai
detti ingegneri le “costruzioni di ogni specie”) del
R.D. n. 2537/1925, norme ancora in vigore che costituiscono
il punto di riferimento normativo per stabilire il
discrimine tra le competenze degli architetti e quelle degli
ingegneri.
Deve al riguardo farsi applicazione del principio
giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sez. IV, n.
2938/2000, Sez. VI, n. 1150/2013; TAR Sicilia, Palermo, n.
2274/2002; TAR Calabria, Catanzaro n. 354/2008; TAR Veneto,
n. 1153/2011; TAR Puglia, Lecce, n. 1270/2013; TAR Lazio,
Latina, n. 608/2013), secondo cui tali disposizioni vanno
interpretate nel senso che appartiene alla esclusiva
competenza degli ingegneri non solo progettazione delle
opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali
destinati alle costruzioni e la progettazione delle
costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle
opere igienico-sanitarie e delle opere di urbanizzazione
primaria, per tali dovendosi intendere le opere afferenti la
viabilità, gli acquedotti, i depuratori, le condotte
fognarie e gli impianti di illuminazione, salvo solo il caso
che tali opere non siano di pertinenza di singoli edifici
civili.
Nel caso specifico, le attività progettuali non riguardano
opere a servizio di singoli fabbricati ma opere di
urbanizzazione di un comparto del Piano di Insediamenti
produttivi del Comune di Puglianello, come tale devoluto
alla competenza degli ingegneri.
Ne consegue la illegittimità in parte qua della
disciplina di gara e, di conseguenza, del provvedimento di
ammissione alla gara della società aggiudicataria
(TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 1023
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - COMPETENZE PROGETTUALI:
Avvalimento dell’attestazione SOA di una impresa ausiliaria
e competenze degli ingegneri nella progettazione.
---------------
●
Contatti della Pubblica amministrazione – Avvalimento -
Attestazione SOA di una impresa ausiliaria – Art. 49, d.lgs.
n. 163 del 2006 – Possibilità.
●
Contatti della
Pubblica amministrazione – Avvalimento - Attestazione SOA di
una impresa ausiliaria – Contenuto del contratto –
Individuazione.
●
Contatti della
Pubblica amministrazione – Progettazione – Ingegneri –
Competenza – Individuazione.
●
Contatti della
Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione -
Durc – Regolarità - Regolarizzazione postuma – Dopo art. 31,
comma 8, d.l. n. 69 del 2013 – Esclusione – Regolarizzazione
– Limiti.
●
A seguito dell’abrogazione, per contrasto con la
normativa comunitaria di cui alla direttiva 2004/18/CE, del
comma 7 dell’art. 49, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (secondo cui
“il bando può prevedere che l’avvalimento possa integrare un
preesistente requisito tecnico o economico già posseduto
dalla impresa avvalente”) ad opera del d.lgs. 11.09.2008, n.
152, deve ammettersi la generale operatività dell’istituto
di cui al citato art. 49 che, pertanto, consente ad un
operatore economico privo di qualificazione di avvalersi
anche in toto dell’attestazione SOA di una impresa
ausiliaria (1).
●
In sede di gara pubblica, ai fini del contenuto
del contratto di avvalimento, se l’operatore economico privo
di qualificazione si avvale dell’attestazione SOA di una
impresa ausiliaria, le esigenze di puntuale specificazione
dei requisiti economico–finanziari oggetto di avvalimento
sono assicurate dall’indicazione della SOA oggetto di
avvalimento senza che occorra all’uopo indicare i specifici
requisiti sottesi al rilascio dell’attestazione.
●
Appartiene all’esclusiva competenza degli
ingegneri non solo la progettazione delle opere necessarie
all’estrazione e lavorazione di materiali destinati alle
costruzioni e la progettazione delle costruzioni
industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico
- sanitarie e di urbanizzazione primaria, per tali dovendosi
intendere le opere afferenti la viabilità, gli acquedotti, i
depuratori, le condotte fognarie e gli impianti di
illuminazione, salvo solo il caso che tali opere non siano
di pertinenza di singoli edifici civili.
●
Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31,
comma 8, d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito con modificazioni
dalla l. 09.08.2013, n. 98, non sono consentite
regolarizzazioni postume della posizione previdenziale,
dovendo l’impresa essere in regola con l’assolvimento degli
obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla
presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un
eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva
(2).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che l’istituto dell’avvalimento
-istituto di derivazione comunitaria- disciplinato
dall’ordinamento italiano dall’art. 49, d.lgs. 12.04.2006,
n. 163 ratione temporis vigente (e dall’art. 89 del
nuovo Codice dei contatti, approvato con d.lgs. 18.04.2016,
n. 50), ha portata generale.
Esso è finalizzato a consentire alle imprese singole,
consorziate o riunite, che intendono partecipare ad una gara
di poter soddisfare i requisiti di carattere economico,
finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione
della certificazione SOA, avvalendosi dei requisiti di un
altro soggetto o dell’attestazione SOA di altra impresa.
Ne consegue, che in ogni caso, ed a prescindere da espressa
disposizione del bando, alle imprese che intendono
concorrere ad una gara di appalto, è consentito di
soddisfare i requisiti di cui sono carenti con l’ausilio
dell’avvalimento. La sola condizione è quella di permettere
all’amministrazione di verificare che il candidato offerente
disponga delle capacità richieste per l’esecuzione
dell’appalto.
(2) Sul punto il Tar ha richiamato i principi espressi da Cons.
St., A.P., 29.02.2016, nn. 5 e 6, secondo cui l’istituto
dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di Durc
negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, d.m.
24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art.
31, comma 8, d.l. 21.06.2013, n. 69 può operare solo nei
rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con
riferimento al Durc chiesto dall’impresa e non anche al Durc
richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della
veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art.
38, comma 1, lett. i), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 ai fini
della partecipazione alla gara d’appalto (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 1023
- commento tratto da link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Applicabilità del rito superaccelerato all’esclusione per
carenza dell’offerta e applicazione del soccorso istruttorio
in caso di mancata allegazione del cronoprogramma.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito
superaccelerato ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a. –
Esclusione dalla gara per carenza di elementi essenziali
dell’offerta – Non si applica.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Mancanza
del cronoprogramma – Esclusione.
●
Il rito “superaccelerato” previsto dai commi
2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a., aggiunto dall’art. 204,
d.lgs. 18.04.2006, n. 50, non si applica nel caso di
esclusione dalla gara fondata su presupposti diversi da
quelli soggettivi e, quindi, a seguito di estromissione
disposta per carenza di elementi essenziali dell’offerta
tecnica prescritti dalla lex specialis di gara (1).
●
L’omessa allegazione, all’offerta tecnica, del
crono programma non è emendabile con il ricorso al c.d.
soccorso istruttorio ex art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
(2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che all’impugnazione dell’esclusione
dalla gara per carenza di elementi essenziali dell’offerta
tecnica si applica il rito “ordinario” previsto in
materia di appalti pubblici dagli artt. 55, 119 e 120 c.p.a..
Non può infatti ipotizzarsi un’estensione in via analogica
delle nuove disposizioni processuali al di fuori delle
ipotesi espressamente previste, ostandovi la natura
eccezionale del rito.
(2) Il Tar Napoli ha ricordato che il cronoprogramma assurge ad
elemento essenziale dell'offerta rappresentando impegno
negoziale sul rispetto della tempistica delle singole fasi
lavorative e certificando la serietà della complessiva
offerta contrattuale, almeno in relazione ai tempi di
esecuzione: pertanto, ove il cronoprogramma sia stato
previsto non solo formalmente ma, soprattutto,
sostanzialmente quale elemento imprescindibile per la
valutazione della serietà dell'offerta dalla sua mancata
allegazione può legittimamente farsi discendere la sanzione
dell'esclusione dell’impresa concorrente inadempiente.
Ha aggiunto il Tar che la prescrizione non aggrava
inutilmente il procedimento, rispondendo alla tutela
dell'interesse sostanziale della stazione appaltante di far
emergere, già in sede di gara, l'impegno contrattuale delle
imprese concorrenti al rispetto dei tempi inerenti alle
singole fasi lavorative (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 1020
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Decadenza
del consigliere per assenze alle sedute del Consiglio
comunale.
---------------
Enti locali – Comuni – Consiglio comunale – Decadenza del
consigliere per assenze – Presupposti – Individuazione.
Le assenze per mancato intervento
dei consiglieri alle sedute del Consiglio comunale non
devono essere giustificate di volta in volta in via
preventiva, potendo le giustificazioni essere fornite, anche
dopo la notificazione all’interessato della proposta di
decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di apprezzamento
del Consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà
ed alla rilevanza delle circostanze addotte a
giustificazione delle assenze (1).
---------------
(1) A
supporto delle conclusioni cui è pervenuta, la Sezione ha
richiamato Cons. St., sez. V, 09.10.2007, n. 5277, secondo
cui le circostanze da cui consegue la decadenza vanno
interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la
limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus
publicum.
Ha aggiunto il giudice di appello del 2007 che gli aspetti
garantistici della procedura devono essere valutati con la
massima attenzione anche per evitare un uso distorto
dell’istituto come strumento di discriminazione nei
confronti delle minoranze.
Ne consegue che la mancanza o l’inconferenza delle
giustificazione devono essere obiettivamente gravi per
assenza o estrema genericità e tali da impedire qualsiasi
accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei
motivi; le assenze danno luogo a revoca quando mostrano con
ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per
motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con
l’incarico pubblico elettivo.
La Sezione ha ancora chiarito che la protesta politica,
dichiarata a posteriori, non è idonea a costituire valida
giustificazione delle assenze dalle sedute consiliari, in
quanto, affinché l’assenza dalle sedute possa assumere la
connotazione di protesta politica occorre che il
comportamento ed il significato di protesta che il
consigliere comunale intende annettervi siano in qualche
modo esternati al Consiglio o resi pubblici in concomitanza
alla estrema manifestazione di dissenso, di cui la
diserzione delle sedute costituisce espressione.
Ha quindi concluso, richiamando
Cons. St., sez. V, 29.11.2004, n. 7761, che
legittima la decadenza dalla carica di consigliere comunale
per assenza ingiustificata, qualora la giustificazione
addotta dall' interessato è talmente relegata alla sfera
mentale soggettiva di colui che la adduce (come nel caso
della protesta politica non altrimenti e non prima
esternata), da impedire qualsiasi accertamento sulla
fondatezza, serietà e rilevanza del motivo
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 20.02.2017 n. 743
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La fondatezza del ricorso in esame va valutata alla luce
dei principi che questa stessa Sezione ha già da tempo avuto
modo di ben chiarire, dai quali non v’è motivo per
discostarsi e che qui si richiamano testualmente:
- “le assenze per mancato intervento dei
consiglieri dalle sedute del consiglio comunale non (devono)
essere giustificate preventivamente di volta in volta;
- le giustificazioni possono essere fornite successivamente,
anche dopo la notificazione all’interessato della proposta
di decadenza, ferma restando l’ampia facoltà di
apprezzamento del consiglio comunale in ordine alla
fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle circostanze
addotte a giustificazione delle assenze;
- le circostanze da cui consegue la decadenza vanno
interpretate restrittivamente e con estremo rigore, data la
limitazione che essa comporta all’esercizio di un munus
publicum;
- gli aspetti garantistici della procedura devono essere
valutati con la massima attenzione anche per evitare un uso
distorto dell’istituto come strumento di discriminazione nei
confronti delle minoranze;
- le assenze danno luogo a revoca quando mostrano con
ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per
motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con
l’incarico pubblico elettivo;
- la mancanza o l’inconferenza delle giustificazione devono
essere obiettivamente gravi per assenza o estrema genericità
e tali da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza,
serietà e rilevanza dei motivi”
(V Sezione, sentenza 09.10.2007, n. 5277).
“La protesta politica, dichiarata a
posteriori, non è idonea a costituire valida giustificazione
delle assenze dalle sedute consiliari, in quanto, affinché
l’assenza dalle sedute possa assumere la connotazione di
protesta politica occorre che il comportamento ed il
significato di protesta che il consigliere comunale intende
annettervi siano in qualche modo esternati al Consiglio o
resi pubblici in concomitanza alla estrema manifestazione di
dissenso, di cui la diserzione delle sedute costituisce
espressione”;
“spetta al Consigliere nei confronti del
quale è instaurato il procedimento di decadenza di fornire
ragionevoli giustificazioni dell’assenza”;
“è legittima la decadenza dalla carica
di consigliere comunale per assenza ingiustificata, qualora
la giustificazione addotta dall' interessato è talmente
relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la
adduce (come nel caso della protesta politica non altrimenti
e non prima esternata), da impedire qualsiasi accertamento
sulla fondatezza, serietà e rilevanza del motivo”
(V Sezione - sentenza 29.11.2004, n. 7761).
Con riferimento a tale ultimo criterio e alla sua
applicazione alla terza assenza del ricorrente, occorre
notare che tale assenza sarebbe stata volta –a detta del
ricorrente- a far mancare il numero legale: obiettivo di
indubbio contenuto e rilievo politico, di corrente uso nelle
assemblee parlamentari e non, e, per sua natura, non
preannunciabile pubblicamente, pena la sua stessa
vanificazione.
Occorre pertanto specificare il suddetto criterio con la
precisazione che, qualora l’assenza sia motivata da un
obiettivo politico (far venire meno il numero legale) che
presuppone il segreto e quindi la sorpresa, in tal caso
affinché il motivo dell’assenza possa essere considerato
giustificato, è necessario –anche al fine di evitare facili
aggiramenti della norma- che l’assente adduca,
successivamente, un elemento di prova precostituito in
ordine alla motivazione politica della sua assenza,
altrimenti da considerare non giustificata.
Sotto questo profilo, peraltro, gli scarsi elementi addotti
dal ricorrente non appaiono sufficienti a così qualificare
la terza assenza.
L’attenzione deve quindi spostarsi sulle prime due.
Non va trascurato che la precedente condotta del ricorrente,
secondo quanto da lui dichiarato e non contestato da
controparte, non dimostra affatto atteggiamento di “disinteresse
per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con
l’incarico pubblico elettivo”, ma al contrario assidua
ed attiva partecipazione ai lavori consiliari.
Occorre dunque attenersi ai richiamati criteri di
restrittività ed estremo rigore nell’esaminare le cause di
decadenza, criteri doverosi laddove sia in gioco una carica
pubblica elettiva (sì che la decadenza si tradurrebbe in una
alterazione della rappresentanza quale emersa del voto
popolare) e tanto più considerato che la legge rimette la
decisione sulla decadenza dalla carica di consigliere
comunale al Consiglio comunale stesso, in seno al quale non
può escludersi l’influenza di valutazioni ultronee rispetto
alla pura e semplice applicazione della legge e dello
statuto.
Alla luce dei suddetti criteri di restrittività e rigore –e
pur deplorando che il ricorrente non abbia ritenuto, almeno
nei due primi casi, di preannunciare assenze e motivazioni-
deve concludersi che, quantomeno relativamente alla seconda
assenza, gli elementi addotti dal ricorrente a sua
giustificazione non possono essere qualificati né
inconferenti né gravemente carenti, e i motivi addotti -sia
pure successivamente- appaiono sufficientemente fondati,
seri e rilevanti, tenuto conto del rilievo dell’attività
professionale per la vita del ricorrente.
Il ricorso merita pertanto accoglimento. |
APPALTI:
Impugnazione immediata del verbale di esclusione e obbligo
del concorrente di dichiarare tutte le condanne penali
subite.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Atti
immediata,mente impugnabili – verbale di gara – Art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. – non è tale.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per
omessa dichiarazione condanna penale – Va esclusa –
Valutazione della gravità della condanna – E’ rimessa alla
sola stazione appaltante.
● Ai sensi
dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è inammissibile il ricorso
proposto avverso il verbale della seduta nella quale è stata
disposta la sospensione dell’ammissione della ricorrente,
trattandosi di atto endoprocedimentale (1).
●
Deve essere esclusa dalla gara, ai sensi dell’art. 80,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il concorrente che ha omesso di
dichiarare l'esistenza di una recente sentenza penale,
emessa nei suoi confronti, di condanna per truffa continuata
ai danni dello Stato, dovendo la valutazione
dell'affidabilità e dell'integrità delle partecipanti – e
dunque della gravità di una eventuale condanna subita –
essere effettuata dalla sola stazione appaltante e non dalle
stesse concorrenti (2).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a.
prevede l’immediata impugnabilità –senza quindi attendere la
conclusione della procedura– dei “provvedimenti” di
ammissione e di esclusione mentre dichiara inammissibile
l’impugnazione degli altri atti endo-procedimentali privi di
immediata lesività.
(2) Ha chiarito il Tar che in relazione alla cause di esclusione
dalla gara ex art. 80, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, vige la
regola secondo la quale la gravità dell'evento è ponderata
dalla stazione appaltante, sicché l'operatore economico è
tenuto a dichiarare situazioni ed eventi potenzialmente
rilevanti ai fini del possesso dei requisiti di ordine
generale di partecipazione alle procedure concorsuali ed a
rimettersi alla valutazione della stazione, non essendo
configurabile in capo all'impresa partecipante ad una gara
alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da
dichiarare e sussistendo, al contrario, l'obbligo della
onnicomprensività della dichiarazione in modo da permettere
alla Stazione appaltante di espletare con piena cognizione
di causa le valutazioni di sua competenza.
L'aver taciuto le circostanze in questione ha dunque
impedito, da un lato, una valutazione completa (falsando la
percezione delle condizioni reali della ricorrente)
sull'affidabilità e l'integrità morale del candidato e,
d'altro lato, è stata sintomatica di una condotta non
trasparente e collaborativa della concorrente.
A supporto della conclusione cui è pervenuto il Tar ha
richiamato la sentenza della
Sez. V del Consiglio di Stato 18.01.2016, n. 122,
secondo cui “Deve, infatti, essere rilevato che le
stazioni appaltanti dispongono di una sfera di
discrezionalità nel valutare quanto eventuali precedenti
professionali negativi incidano sull’affidabilità di chi
aspira a essere affidataria di suoi contratti. E’ agevole
affermare, di conseguenza, che tale discrezionalità può
essere esercitata solo se l’Amministrazione dispone di tutti
gli elementi che consentono di formare compiutamente una
volontà. Deve poi essere ulteriormente rilevato come tale
valutazione sia di stretta spettanza della stazione
appaltante, per cui non è ammissibile che la relativa
valutazione sia eseguita, a monte, dalla concorrente la
quale autonomamente giudichi irrilevanti i propri precedenti
negativi, omettendo di segnalarli con la prescritta
dichiarazione. La concorrente che adotti tale comportamento
viola palesemente, ad avviso del Collegio, il principio di
leale collaborazione con l’Amministrazione” (TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 16.02.2017 n. 171
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Caratteri della finanza di progetto.
---------------
●
Processo amministrativo – Giudicato – Ricorso per
l’ottemperanza – Giudice competente – Art. 113, comma 1,
c.p.a. – Individuazione.
●
Processo
amministrativo – Rito appalti – Atto impugnabile – Determina
a contrarre - Non è immediatamente impugnabile.
●
Processo
amministrativo – Rito appalti – Determina a contrarre –
Annullamento giurisdizionale – Effetti.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Finanza di progetto – Artt. 3,
180 e 183, d.lgs. n. 50 del 2016 - Differenza con l’appalto
tradizionale – Individuazione.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Gara - Modulo contrattuale -
Scelta di modulo diverso a seguito di annullamento
giurisdizionale di gara - Per vizio non del modulo che era
stato prescelto - Possibilità.
●
Ai sensi dell’art. 113, comma 1, c.p.a. il criterio al quale
occorre fare riferimento per stabilire quale sia il giudice
competente a definire il giudizio di ottemperanza va
ricercato nel dispositivo della sentenza di secondo grado
nel senso che, ove esso si limiti a rigettare l’appello, il
giudizio di ottemperanza deve essere proposto al giudice di
primo grado; ove invece contenga statuizioni che evidenzino
un diverso percorso motivazionale e, conseguentemente, uno
scostamento dal dispositivo della decisione gravata, allora
la competenza è del giudice d’appello (1).
●
La determina a contrarre è un atto endoprocedimentale, di
regola inidoneo a costituire in capo ai terzi posizioni di
interesse qualificato, perché la sua funzione attiene
essenzialmente alla corretta assunzione di impegni di spesa
da parte dell’Amministrazione.
●
La revoca della determinazione a contrarre travolge gli atti
della procedura di gara.
●
A differenza dell’appalto tradizionale, la finanza di
progetto ex artt. 3, 180 e 183, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è
basata essenzialmente sull’equilibrio economico-finanziario
del piano economico-finanziario (PEF) per l’intera durata
della concessione e su una allocazione dei rischi in capo al
concessionario.
●
A seguito dell'annullamento giurisdizionale della determina
a contrarre, l'amministrazione può legittimamente scegliere
un diverso modulo contrattuale, a seguito delle mutate
condizioni (anche) economiche-finanziarie e a seguito della
rivalutazione di tutti gli aspetti dell'operazione, alla
luce della mutata situazione di fatto (2).
---------------
(1)
Cons. St., sez. V, 24.07.2013, n. 3958.
Il Tar ha aggiunto, richiamando i principi espressi dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 15.01.2013, n. 2,
che al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di
tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della
riedizione del potere, conseguente ad un giudicato
amministrativo, le relative doglianze devono essere dedotte
innanzi al giudice dell’ottemperanza, sia perché questi è il
giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in
quanto è il giudice competente per l’esame della forma di
più grave patologia dell’atto, qual è la nullità; pertanto,
in presenza di una tale opzione processuale, il giudice
dell’ottemperanza è chiamato in primo luogo a qualificare le
domande prospettate, distinguendo quelle attinenti
propriamente all’ottemperanza da quelle che, invece, hanno a
che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa,
traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai
poteri decisori; in particolare, nel caso in cui il giudice
dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato
dall’Amministrazione configuri una violazione o elusione del
giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale
dichiarazione non potrà che seguire l’improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda;
invece, in caso di rigetto della domanda di nullità il
giudice disporrà la conversione dell’azione per la
riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per
la cognizione.
(2) Nel caso in esame l'amministrazione provinciale, dopo
l'annullamento giurisdizionale di una precedente procedura
concorsuale relativa all'affidamento di lavori per la
realizzazione di un ospedale (annullamento che comunque non
aveva riguardato la forma concorsuale ma era stato disposto
per vizio della commissione), ha deciso, per ragioni di
economicità, di rinnovare la gara mediante appalto
tradizionale anziché attraverso il project financing
prima deliberato.
Il Tribunale ha giudicato legittima la scelta e ha escluso
qualsiasi forma di risarcimento e/o indennizzo. Ha ritenuto,
in particolare condivisibili, tra l’altro, le argomentazioni
secondo cui “il modello della finanza di progetto ha
carattere recessivo in quanto: a) presenta non solo costi
molto elevati, ma anche una forte rigidità, perché vincola
l’Amministrazione per un lungo periodo; b) nel caso delle
c.d. “opere fredde” (come, per l’appunto, gli ospedali), il
rischio trasferito agli operatori privati risulta spesso
insufficiente per configurare vere e proprie operazioni di
partenariato pubblico privato e ciò comporta il rischio che
le Amministrazioni debbano riclassificare operazioni della
specie, ponendole a carico dei propri bilanci (a differenza
di quanto accade con le operazioni di partenariato)”.
Il Trga Trento ha quindi ricordato l’ampiezza della
discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione nel
valutare la convenienza dei diversi sistemi di realizzazione
di un’opera pubblica e, in particolare, nel valutare quale
sia la migliore allocazione dei rischi connessi al
finanziamento, alla progettazione, alla realizzazione e alla
gestione dell’opera. Anche alla luce di tale principio, e
dunque nei limiti del proprio sindacato, ha quindi concluso
nel senso della legittimità della motivazione incentrata
sulla maggiore convenienza del ricorso ad un appalto
complesso in luogo del project financing (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento, sentenza
16.02.2017 n. 53
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Trasmissione telematica delle domande di concorso.
---------------
●
Pubblica amministrazione – Procedimento ad istanza di parte
– Istanza del privato - sottoscritta e presentata unitamente
a copia fotostatica non autenticata di un documento di
identità del sottoscrittore – Mancata allegazione fotocopia
carta di identità – Conseguenza.
●
Processo
amministrativo – Controinteressati – Impugnazione
dell’esclusione da una procedura concorsuale – Non sono
configurabili controinteressati.
●
Concorso –
Domanda di partecipazione – Trasmissione telematica -
Rigidità di una piattaforma telematica – Illegittimità.
●
Pubblica
istruzione – Concorso a cattedre – Esclusione – Per fatto
non imputabile determinante l'esclusione nonostante
l'ordinaria diligenza – Illegittimità.
●
Le istanze da produrre agli organi della Pubblica
amministrazione ex art. 38, comma 3, d.P.R. 28.12.2000, n.
445 sono sottoscritte dall’interessato in presenza del
dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate
unitamente a copia fotostatica non autenticata di un
documento di identità del sottoscrittore; la mancata
allegazione all’istanza della copia di un documento di
identità del sottoscrittore rende l’atto inidoneo a spiegare
gli effetti previsti dalla corrispondente fattispecie
normativa, in quanto nullo per difetto di una forma
essenziale stabilita dalla legge (1).
●
Nel giudizio proposto avverso il provvedimento di esclusione
da una procedura concorsuale, prima della formazione della
graduatoria non sono configurabili controinteressati in
senso tecnico, sia perché non sussiste un interesse protetto
e attuale in capo agli altri concorrenti che potrebbe essere
leso dall’eventuale accoglimento del ricorso stesso, sia
perché l’interesse degli altri partecipanti non emerge
direttamente dal provvedimento impugnato (2).
●
La rigidità di una piattaforma telematica predisposta in
termini tassativi dall’amministrazione per la presentazione
delle domande di partecipazione ad un concorso si pone in
contrasto con i principi di ragionevolezza, proporzionalità
e favor partecipationis che improntano l’azione
amministrativa nella particolare materia concorsuale, anche
se gestita con modalità telematica (3).
●
E’ illegittima l’esclusione dalla partecipazione al concorso
per l’assunzione a tempo indeterminato del personale docente
della scuola secondaria di primo e secondo grado degli
insegnanti non ancora in possesso dell’abilitazione ove il
mancato tempestivo conseguimento dell’abilitazione non sia
imputabile all’insegnante interessato.
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che l’allegazione di un valido documento
di identità, lungi dal costituire un vuoto formalismo,
costituisce piuttosto un fondamentale onere del
sottoscrittore, configurandosi come l’elemento della
fattispecie normativa teleologicamente diretto a comprovare
non tanto le generalità del dichiarante, ma ancor prima
l’imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva della
dichiarazione ad una determinata persona fisica, da ciò
ulteriormente conseguendo che l’omessa allegazione del
documento di identità non integra una mera irregolarità
suscettibile di correzione per errore materiale.
Il Tar ha altresì escluso che nel caso sottoposto al suo
esame potesse giovare all’interessato la circostanza che il
bando prevedesse solo la possibilità di presentare la
domanda on-line e non contenesse apposite istruzioni per la
presentazione della stessa su formato cartaceo, atteso da un
lato che il predetto obbligo di allegazione deriva
direttamente dall’art. 38, comma 3, d.P.R. n. 445 del 2000
e, dall’altro, che nulla impediva all’interessato di
allegare alla domanda cartacea la copia del proprio
documento di identità.
(2)
Cons. St., sez. IV, 07.07.2008, n. 3382, il quale
ha peraltro ricordato che se però al momento della
proposizione del ricorso sono già noti al soggetto escluso i
beneficiari della procedura, per essere intervenuto il
provvedimento conclusivo di aggiudicazione della gara o
della approvazione della graduatoria di un concorso, occorre
notificarlo ad almeno un controinteressato, a pena di
inammissibilità del ricorso.
(3)
Tar Toscana, sez. I, 27.06.2016, n. 1073, che ha
ricordato come nella configurazione, organizzazione e
gestione dei propri sistemi informatici le amministrazioni,
ancor prima che ai principi e criteri specifici dettati dal
Codice dell’amministrazione digitale debbono osservare e
perseguire quelli più generali fissati per tutta l’azione
amministrativa dalla l. 07.08.1990, n. 241, ed in
particolare:
a) criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di
pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste
dalla legge stessa e dalle altre disposizioni che
disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi
dell'ordinamento comunitario;
b) criterio di non aggravare il procedimento se non per
straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento
dell'istruttoria;
c) obbligo di chiara, convincente e congrua motivazione;
d) celerità, espressività e significatività dell’azione
amministrativa;
e) strumentalità dell’informatica ad accrescere l’efficienza
degli apparati pubblici e ad agevolare il cittadino
nell’accesso alle pubbliche funzioni ed ai pubblici servizi,
nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei
propri obblighi, doveri ed oneri;
Dunque, sono sistemi informatici -comportanti la
responsabilità di chi li ha pensati, configurati,
commissionati, accettati e collaudati- che si risolvano in
un aggravamento per il cittadino costringendolo, ad esempio,
a redigere di nuovo un intero modello informatico -spesso
lungo, complesso e di difficile comprensione intellettuale o
visibilità materiale- per un banale errore, dimenticanza o
svista; nell’ermeticità e non espressività delle
determinazioni assunte dal sistema stesso;
nell’espropriazione totale e definitiva delle competenze
assegnate ai singoli funzionari e dirigenti impedendo
l’esercizio di poteri sostitutivi e correttivi e generando,
oltretutto, atteggiamenti e convinzioni di irresponsabilità
personale; nel creare, all’opposto, la necessità di continui
interventi correttivi o sostitutivi di malfunzionamenti o
arresti del sistema (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 16.02.2017 n. 52
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Piano regolatore generale.
Violazione della legge urbanistica.
In materia urbanistica, a seguito della
adozione dei piani urbanistici, ovvero dal momento in cui
l'organo amministrativo competente delibera formalmente il
piano e lo pubblicizza, onde consentire la presentazione
delle osservazione da parte dei soggetti interessati,
entrano in vigore le misure di salvaguardia, con lo scopo di
impedire che antecedentemente alla approvazione del piano
vengano eseguiti interventi che compromettano gli assetti
territoriali previsti dal piano stesso, così che integrano
la violazione dell'art. 20 della legge 28.02.1985 n. 47, ora
art. 44 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 gli interventi posti in
essere dopo la adozione ed antecedentemente alla
approvazione del piano ed eseguiti in contrasto con le
misure di salvaguardia.
---------------
Tuttavia, il provvedimento impugnato è diffusamente
motivato, e non presenta profili di mancanza di motivazione
o di erronea interpretazione o applicazione delle norme.
Invero, sulla base dell'adozione, da parte dell'Autorità di
Bacino, della riclassificazione dell'area a rischio R4
(rischio molto elevato), e, dunque, dell'operatività delle
misure di salvaguardia, vincolanti per il Comune e per i
privati, ha ritenuto integrato il fumus del reato di
cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001, vigendo un
vincolo di inedificabilità nell'area in oggetto, ricadente
in parte in "area a rischio R4" e in parte in "area
di rispetto".
Al riguardo, va ribadito che, in materia urbanistica, a
seguito della adozione dei piani urbanistici, ovvero dal
momento in cui l'organo amministrativo competente delibera
formalmente il piano e lo pubblicizza, onde consentire la
presentazione delle osservazione da parte dei soggetti
interessati, entrano in vigore le misure di salvaguardia,
con lo scopo di impedire che antecedentemente alla
approvazione del piano vengano eseguiti interventi che
compromettano gli assetti territoriali previsti dal piano
stesso, così che integrano la violazione dell'art. 20 della
legge 28.02.1985 n. 47, ora art. 44 del D.P.R. 06.06.2001 n.
380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia) gli interventi posti in
essere dopo la adozione ed antecedentemente alla
approvazione del piano ed eseguiti in contrasto con le
misure di salvaguardia (Sez. 3, n. 37493 del 10/06/2003,
Soluri, Rv. 226316) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.02.2017 n. 6891). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Piante
organiche in base all'efficienza.
In tema di pubblico impiego contrattualizzato,
l'organizzazione, la consistenza e la variazione delle
dotazioni organiche sono determinate in funzione
dell'efficienza dell'amministrazione, della
razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e della
migliore utilizzazione delle risorse umane, in conformità ai
principi espressi dagli artt. 1, comma 1, e 6 del dlgs n.
165 del 2001, restando alla discrezionalità della p. a. la
determinazione e revisione della pianta organica (in
conformità a quanto espresso dalla Cassazione con sentenza
n. 18191 del 2016).
È questo l'indirizzo espresso dai giudici del Palazzaccio,
con la
sentenza 13.02.2017 n. 3738.
La Corte di Cassazione -Sez. lavoro- spiega, inoltre, che, in tema di eccedenze di
personale, per come regolate dall'art. 33 del dlgs 165/2001
(prima delle modifiche apportate dal dlgs 150/2009), ove la
dichiarazione di esubero interessi un numero di lavoratori
inferiore a 10 unità, la fattispecie è disciplinata dai
commi 7 e 8 dell'art. 33 suddetto; disciplina che contempla
la procedura di consultazione sindacale, limitatamente al
collocamento in disponibilità, l'iscrizione in elenchi ex
art. 34, la sospensione delle obbligazioni inerenti al
rapporto di lavoro, la percezione del trattamento
indennitario e la risoluzione del rapporto allo scadere del
termine biennale di permanenza in disponibilità.
La p.a. è
inoltre tenuta a dimostrare l'impossibilità di una
ricollocazione alternativa del dipendente all'interno della
stessa amministrazione, nonché a dimostrare l'adempimento
dell'obbligo di comunicazione ex art. 34 del dlgs 165/2001, ai
fini della iscrizione del personale in disponibilità negli
elenchi finalizzati al recupero delle eccedenze di
personale, anche presso altre pubbliche amministrazioni
(articolo ItaliaOggi del 14.02.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Recesso
per efficienza anche negli enti pubblici. Necessario seguire
una serie di regole di carattere procedurale.
Cassazione. Per i giudici di legittimità criteri di scelta
uguali al «privato».
Il datore di lavoro pubblico può
ridurre l’organico in funzione delle proprie esigenze di
efficienza organizzativa e della necessità di abbassare il
costo del lavoro; se decide di procedere, deve rispettare
alcuni obblighi procedurali, deve dimostrare di aver
adempiuto l’obbligo di repêchage e, al momento del recesso,
è tenuto ad applicare i criteri di scelta previsti dalla
normativa valida anche per il settore privato.
Così la Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la
sentenza 13.02.2017 n. 3738, a
conclusione della vicenda avviata da un dipendente pubblico
collocato in disponibilità da una Camera di commercio presso
cui lavorava, sulla base della procedura prevista dal Testo
unico del pubblico impiego per gestire gli esuberi di
personale.
Il dipendente ha impugnato sia la determina commissariale
con cui è stato coinvolto nella procedura espulsiva, sia il
piano triennale allegato a tale provvedimento. La Corte
d’appello di Napoli, riformando in parte la sentenza di
primo grado, ha respinto l’impugnazione del dipendente,
ritenendo che la procedura seguita per il collocamento in
disponibilità sia stata correttamente esperita dalla Camera
di commercio.
Secondo la Corte territoriale il datore di
lavoro ha fornito un’adeguata giustificazione
dell’impossibilità di reimpiego del dipendente all’interno
della stessa amministrazione di appartenenza. Inoltre, la
Corte ha rilevato il corretto adempimento, da parte della
Camera di commercio, dell’obbligo di iscrizione del
dipendente in esubero presso gli appositi elenchi previsti
dalla legge allo scopo di tentare il riassorbimento delle
eccedenze di personale presso altre amministrazioni.
La sentenza della Corte di cassazione conferma le
conclusioni della Corte territoriale, affermando alcuni
importanti principi di diritto. In primo luogo, viene
chiarito che nel pubblico impiego l’organizzazione e la
consistenza dell’organico devono essere determinate in
funzione dell’efficienza dell’organizzazione, della
razionalizzazione del costo del lavoro e del migliore
utilizzo delle risorse umane.
Inoltre, la Corte precisa che se le eccedenze di personale
pubblico sono inferiori alle 10 unità, si applicano
parzialmente le norme contenute nell’articolo 33 del Dlgs
165/2001 (nel testo vigente prima delle modifiche apportate
nel 2009) che disciplinano le procedure di consultazione
sindacale.
In tale ipotesi, prosegue la sentenza, se la contrattazione
collettiva non dispone diversamente, la scelta dei
lavoratori da licenziare deve seguire i criteri fissati in
via generale e per tutti i licenziamenti collettivi dalla
legge 223/1991. Pertanto, il datore di lavoro pubblico dovrà
selezionare il personale da licenziare contemperando le
proprie esigenze tecniche, organizzative e produttive con i
carichi di famiglia e l’anzianità aziendale.
Infine, la Corte precisa che il datore di lavoro pubblico è
tenuto a dimostrare l’impossibilità di ricollocare il
dipendente in una posizione alternativa all’interno della
stessa amministrazione, applicando eventuali norme
collettive che regolano il cambio di mansioni, e a
dimostrare di aver incluso il dipendente collocato in
disponibilità negli appositi elenchi previsti dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017).
---------------
MASSIMA
5. Il ricorso è infondato.
6. Il tema centrale della controversia attiene
all'interpretazione della disciplina di cui all'articolo
33 (eccedenze di personale e mobilità collettiva) del D.Lgs.
n. 165/2001, nel testo vigente ratione
temporis (art. 35 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come sostituito
prima dall'art. 14 del D.Lgs. n. 470
del 1993 e dall'art. 16 del D.Lgs. n. 546 del 1993 e poi
dall'art. 20 del D.Lgs. n. 80 del 1998 e
successivamente modificato dall'art. 12 del D.Lgs. n. 387 del
1998), anteriormente alle modifiche
apportate dal D.Lgs. n. 150/2009.
All'epoca dei fatti la norma
disponeva nel senso che segue:
"1. Le pubbliche amministrazioni che rilevino eccedenze di
personale sono tenute ad informare
preventivamente Le organizzazioni sindacali di cui al comma
3 e ad osservare le procedure previste dal presente
articolo. Si applicano, salvo quanto previsto dal presente
articolo, le
disposizioni di cui alla legge 23.07.1991, n. 223, ed in
particolare l'articolo 4, comma 11 e
l'articolo 5, commi 1 e 2, e successive modificazioni ed
integrazioni.
2. Il presente articolo trova applicazione quando
l'eccedenza rilevata riguardi almeno dieci
dipendenti. Il numero di dieci unità si intende raggiunto
anche in caso di dichiarazioni di
eccedenza distinte nell'arco di un anno. In caso di
eccedenze per un numero inferiore a 10
unità agli interessati si applicano le disposizioni previste
dai commi 7 e 8.
3. La comunicazione preventiva di cui all'articolo 4, comma
2, della legge 23.07.1991,
n.223, viene fatta alle rappresentanze unitarie del
personale e alle organizzazioni sindacali
firmatarie del contratto collettivo nazionale del comparto o
area. La comunicazione deve
contenere l'indicazione dei motivi che determinano la
situazione di eccedenza; dei motivi
tecnici e organizzativi per i quali si ritiene di non poter
adottare misure idonee a riassorbire le
eccedenze all'interno della medesima amministrazione; del
numero, della collocazione, delle
qualifiche del personale eccedente, nonché del personale
abitualmente impiegato, delle
eventuali proposte per risolvere la situazione di eccedenza
e dei relativi tempi di attuazione,
delle eventuali misure programmate per fronteggiare le
conseguenze sul piano sociale
dell'attuazione delle proposte medesime.
4. Entro dieci giorni dal ricevimento della comunicazione di
cui al comma 1, a richiesta delle
organizzazioni sindacali di cui al comma 3, si procede
all'esame delle cause che hanno
contribuito a determinare l'eccedenza del personale e delle
possibilità di diversa utilizzazione
del personale eccedente, o di una sua parte. L'esame è
diretto a verificare le possibilità di
pervenire ad un accordo sulla ricollocazione totale o
parziale del personale eccedente, o
nell'ambito della stessa amministrazione, anche mediante il
ricorso a forme flessibili di
gestione del tempo di lavoro o a contratti di solidarietà,
ovvero presso altre amministrazioni
comprese nell'ambito della Provincia e in quello diverso
determinato ai sensi del comma 6. Le
organizzazioni sindacali che partecipano all'esame hanno
diritto di ricevere, in relazione a
quanto comunicato dall'amministrazione, le informazioni
necessarie ad un utile confronto.
5. La procedura si conclude decorsi quarantacinque giorni
dalla data del ricevimento della
comunicazione di cui al comma 3, o con l'accordo o con
apposito verbale nel quale sono
riportate le diverse posizioni delle parti. In caso di
disaccordo, le organizzazioni sindacali
possono richiedere che il confronto prosegua, per le
amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, e gli enti pubblici nazionali, presso
il Dipartimento della funzione
pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, con
l'assistenza dell'Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni -
ARAN, e per le altre
amministrazioni, ai sensi degli articoli 3 e 4 del decreto
legislativo 23.12.1997, n. 469, e successive
modificazioni ed integrazioni. La procedura si conclude in
ogni caso entro sessanta
giorni dalla comunicazione di cui al comma 1.
6. 1 contratti collettivi nazionali possono stabilire
criteri generali e procedure per consentire,
tenuto conto delle caratteristiche del comparto, la gestione
delle eccedenze di personale
attraverso il passaggio diretto ad altre amministrazioni
nell'ambito della provincia o in quello
diverso che, in relazione alla distribuzione territoriale
delle amministrazioni o alla situazione del
mercato del lavoro, sia stabilito dai contratti collettivi
nazionali. Si applicano le disposizioni
dell'articolo 30.
7. Conclusa la procedura di cui ai commi 3, 4 e 5,
l'amministrazione colloca in disponibilità il
personale che non sia possibile impiegare diversamente
nell'ambito della medesima
amministrazione e che non possa essere ricollocato presso
altre amministrazioni, ovvero che
non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione
che, secondo gli accordi intervenuti
ai sensi dei commi precedenti, ne avrebbe consentito la
ricollocazione.
8. Dalla data di collocamento in disponibilità restano
sospese tutte le obbligazioni inerenti al
rapporto di lavoro e il lavoratore ha diritto ad
un'indennità pari all'80 per cento dello stipendio
e dell'indennità integrativa speciale, con esclusione di
qualsiasi altro emolumento retributivo
comunque denominato, per la durata massima di ventiquattro
mesi. I periodi di godimento
dell'indennità sono riconosciuti ai fini della
determinazione dei requisiti di accesso alla pensione
e della misura della stessa. E' riconosciuto altresì il
diritto all'assegno per il nucleo familiare di
cui all'articolo 2 del decreto-legge 13.03.1988, n. 69,
convertito, con modificazioni, dalla
legge 13.05.1988, n. 153, e successive modificazioni ed
integrazioni."
7. Va premesso che, in tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'organizzazione, la
consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono
determinate in funzione
dell'efficienza dell'amministrazione, della
razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e della
migliore utilizzazione delle risorse umane, in conformità ai
principi espressi dagli artt. 1,
comma 1, e 6 del D.Lgs. n. 165 del 2001, restando rimessa
alla discrezionalità della P.A. la
determinazione e revisione della pianta organica (cfr., da
ultimo, Cass. n. 18191/2016).
La
disciplina di cui all'articolo 33 in esame conferma che ogni
amministrazione valuta
discrezionalmente in modo unilaterale l'entità e la
tipologia degli esuberi. Il presupposto
causale della mobilità collettiva, rappresentato da
situazioni di eccedenza, non ulteriormente
qualificate, rimanda a quelle valutate dalla pubblica
amministrazione come attinenti alla sfera
degli interessi pubblici.
7.1. Il legislatore ha però inteso fare richiamo alla legge
n. 223 del 1991, estendendola al
rapporto di pubblico impiego in funzione integrativa della
disciplina speciale dettata dall'articolo
33 e comunque nei limiti della compatibilità di disposizioni
ed istituti del rapporto lavoro privato al settore pubblico.
Significativamente, nel lavoro pubblico, all'esito della
procedura
regolata dall'articolo 33 e successivi, non si può far luogo
al licenziamento dei lavoratori
eccedenti, poiché costoro hanno diritto alla conservazione
del rapporto, seppure sospeso, per
un periodo massimo di due anni, durante il quale il
lavoratore è collocato in disponibilità.
7.2. In tal senso questa Corte già si è espressa con le
sentenze n. 11671 e n. 12241 del 2006,
dove è stato osservato che il collocamento in disponibilità
non dà luogo, in relazione al
rapporto di pubblico impiego, alla risoluzione del rapporto
di lavoro, come avviene invece
nell'area dei rapporti di lavoro privato, configurandosi nel
suddetto settore una mera
sospensione nel tempo del rapporto (con sostanziali tratti
di analogia sul punto con il diverso
istituto, proprio del settore privato, della cassa
integrazione guadagni), destinata a protrarsi
per il periodo massimo di 24 mesi, previsto per un possibile
diverso impiego presso la stessa
amministrazione ovvero per una diversa ricollocazione presso
altre amministrazioni o sino al
momento in cui il dipendente non abbia preso servizio presso
la diversa amministrazione che,
secondo gli accordi intervenuti, ne avrebbe consentito la
ricollocazione.
Come emerge dalla
lettera della legge, dalla data di collocamento in
disponibilità "si sospendono" tutte le
obbligazioni concernenti il rapporto di lavoro (mancano
infatti la prestazione lavorativa e la
corrispondente retribuzione) per avere il lavoratore diritto
soltanto ad una indennità pari
all'80% dello stipendio ed alla indennità integrativa
speciale per un massimo di due anni, ed
escludendosi anche la corresponsione di qualunque altro
elemento retributivo (e quindi di
qualsiasi trattamento indennitario accessorio), comunque
denominato.
8. Venendo all'interpretazione dell'art. 33 D.Lgs. n.
165/2001, deve ritenersi che la procedura ivi
prevista trovi applicazione solo "quando l'eccedenza
riguardi almeno 10 dipendenti". Il limite
numerico si intende raggiunto anche in caso di dichiarazioni
di eccedenza distinte nell'arco di
un anno (a ritroso dall'ultima), con il fine di evitare
eventuali elusioni dei vincoli legali
perseguite attraverso il frazionamento nel tempo delle
eccedenze. Tuttavia, seppure di regola
l'eccedenza di personale viene ad emersione nell'ambito
dell'attività programmatoria triennale
di cui all'art. 6 D.Lgs. n. 165/2001, non può escludersi che
eccedenze possano verificarsi
successivamente e in seguito ad eventi sopravvenuti ed
imprevisti.
8.1. La questione esula comunque dai temi introdotti nel
presente giudizio, atteso che non
emerge dalla sentenza impugnata, né è prospettato in sede di
ricorso che la valutazione di
eccedenza limitata alle due unità interessate dal
provvedimento di messa in disponibilità fosse
stata operata dalla P.A. con finalità elusive della
previsione che indica, quale presupposto
quantitativo-temporale, il superamento di dieci unità
nell'arco di un anno.
9. Quanto all'interpretazione letterale e logico-sistematica
delle previsioni di cui all'art. 33,
deve osservarsi che il comma 2 testualmente prevede che, in
caso di eccedenze per un numero inferiore a dieci unità,
"agli interessati si applicano le disposizioni previste dai
commi 7 e 8".
Sebbene il comma 7, a sua volta, menzioni la conclusione
della procedura di cui ai commi 3, 4,
e 5, l'unico significato possibile (logicamente) del rinvio
operato dal comma 2 porta ad
espungere l'incipit suddetto, in quanto riferibile alla
(sola) ipotesi in cui trova applicazione
l'intera procedura speciale dettata dall'art. 33. Difatti,
ove si dovesse accogliere
l'interpretazione offerta dall'attuale ricorrente, non
avrebbe alcuno spazio applicativo la
distinzione operata dal secondo comma, la quale resterebbe
priva di qualsiasi senso.
9.1. Pertanto, in caso dell'eccedenza riguardante un numero
di dipendenti inferiore a dieci
unità, la tutela desumibile dai commi 7 e 8 dell'articolo 33
comporta l'assimilazione alla
fattispecie regolata dai commi precedenti (soltanto) quanto
a collocamento in disponibilità,
iscrizione negli elenchi ex art. 34, sospensione delle
obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro,
percezione del trattamento indennitario, risoluzione del
rapporto allo scadere del termine
biennale di permanenza in disponibilità.
10. La circostanza che il legislatore abbia previsto il
coinvolgimento delle parti sindacali solo in
caso di eccedenze qualificate dal superamento di un
determinato limite numerico non
comporta, tuttavia, l'assenza di vincoli a carico della P.A.
ove la dichiarazione di disponibilità
interessi un numero inferiore a dieci unità. Laddove non
trovi applicazione la disciplina speciale
("salvo quanto previsto dal presente articolo"), operano "le
disposizioni di cui alla legge 23.07.1991, n. 223, ed in particolare l'articolo 4, comma
11 e l'articolo 5, commi 1 e 2, e
successive modificazioni ed integrazioni".
L'art. 4, comma
11, della legge n. 223/1991 contempla
l'eventualità che con accordo sindacale il riassorbimento
totale o parziale dei lavoratori ritenuti
eccedenti possa avvenire anche in deroga al secondo comma
dell'art. 2103 del codice civile,
mediante l'assegnazione a mansioni diverse ed eventualmente
inferiori. L'art. 5, commi 1 e 2,
contempla i criteri di scelta dei lavoratori e prevede -tra
l'altro- che l'individuazione dei
lavoratori da collocare in mobilità debba avvenire, in
relazione alle esigenze tecnico-produttive
ed organizzative, nel rispetto dei criteri previsti da
contratti collettivi, ovvero, in mancanza,
"nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a)
carichi di famiglia; b) anzianità; c)
esigenze tecnico-produttive ed organizzative".
10.1. Come correttamente rilevato dalla Corte di appello
della sentenza impugnata, permane
l'obbligo dell'Amministrazione di adoperarsi affinché sia
esplorata ogni possibilità di diverso
impiego o di ricollocazione alternativa del dipendente,
ossia l'obbligo di repechage dei
lavoratori reputati in esubero. Del pari trovano
applicazione, in via analogica, i criteri di scelta
individuati alla stregua dell'art. 5 L. n. 223/1991, purché si
faccia questioni in giudizio della
selezione dei dipendenti.
10.2. Nel presente giudizio, quanto all'obbligo di
repechage, la Corte di appello, alla stregua
della documentazione esaminata e ritenuta rilevante ai fini
del decidere (segnatamente, il
piano triennale ed il piano annuale del personale allegato
alla determinazione commissariale n.
36 del 14.06.2005) e tenuto conto delle risultanze della
prova testimoniale, ha ritenuto
che la C.C.I.A.A. di Benevento avesse fornito un'adeguata
giustificazione dell'impossibilità di
reimpiego del Ca. nella stessa amministrazione.
10.3. La Corte territoriale ha pure osservato, con
riferimento alla ricollocazione presso altre
Amministrazioni, che la Camera di Commercio aveva provveduto
alla comunicazione ex art. 34
d.lgs. n. 165/2001, adempimento prescritto ai fini della
iscrizione del personale in disponibilità
negli appositi elenchi, finalizzati al recupero delle
eccedenze di personale.
10.4. La sentenza non menziona di accordi collettivi o di
previsioni contrattuali di
dequalificazione; la relativa questione, introdotta in sede
di ricorso per cassazione, deve quindi
ritenersi nuova e come tale inammissibile.
10.5. Nel presente giudizio non è stato introdotto neppure
il tema dell'inosservanza dei criteri
di scelta individuati dell'art. 5 L. n. 223/1991.
I vizi della
procedura prospettati in giudizio non
hanno riguardato tale profilo. A margine, va osservato che
l'applicabilità di tali criteri, all'ipotesi
di esuberi inferiori a dieci unità, è stata incidentalmente
affermata da questa Corte con le
sentenze del 2006 sopra citate, secondo cui, nel caso in cui
al termine del periodo di
sospensione debba farsi luogo al riassorbimento degli
esuberi e vi sia insufficienza dei posti
disponibili rispetto al numero dei lavoratori collocati in
disponibilità, "in materia devono
operare, seppure all'inverso, gli stessi criteri legali (o
contrattuali) già utilizzati per il
collocamento in disponibilità".
La P.A. è dunque tenuta ad
osservare i criteri legali o
contrattuali che regolano la scelta del personale da
collocare in disponibilità.
11. Infine, è inammissibile la censura secondo cui la
determina n. 36/2005 sarebbe viziata,
perché la fase di rilevazione delle eccedenze di personale,
riservata alla verifica periodica ex
articolo 6 D.Lgs. n. 165/2001, avrebbe dovuto precedere
temporalmente l'adozione dei
provvedimenti di messa in disponibilità. La sentenza
impugnata dà atto di una contestualità tra
rideterminazione della pianta organica e collocamento in
disponibilità dei due lavoratori di
posizione economica B1, tra cui il Ca..
Tenuto conto
che nel caso di specie non trova
applicazione la procedura di consultazione sindacale di cui
ai commi 3, 4, e 5, la congruità del
provvedimento rispetto agli obblighi gravanti
sull'Amministrazione avrebbe richiesto la
possibilità di esaminare il contenuto di tali atti, ritenuti
contestuali o comunque coevi, ma il
ricorso per cassazione risulta carente in relazione agli
oneri di specificità, indicazione e
allegazione di cui all'art. 366 c.p.c.. La mancata
trascrizione di tali atti, almeno nelle loro parti
salienti, nonché la mancata produzione in allegato al
ricorso e la mancata indicazione della sede processuale in
cui essi sarebbero rinvenibili, preclude l'esame funditus
della questione.
Difatti, non può escludersi che la messa in disponibilità
adottata in unico contesto o comunque
coeva alla rideterminazione della pianta organica risponda
alle prescrizioni di legge, ove la P.A.
abbia dato conto, in tale atto, dell'assolvimento di tutti
gli obblighi sopra descritti.
11.1. Secondo costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, Cass. n. 26174 del 2014,
n. 2966 del 2014, n. 15628 del 2009; cfr. pure Cass. Sez.
Un. n. 28547 del 2008; Cass. n.
22302 del 2008, n. 4220 del 2012, n. 8569 del 2013 n. 14784
del 2015 e, tra le più recenti,
Cass. n. 6556 del 14.03.2013, n. 16900 del 2015), vi è un
duplice onere a carico del
ricorrente, quello di produrre il documento e quello di
indicarne il contenuto. Il primo onere va
adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase
processuale e in quale fascicolo di
parte si trovi il documento in questione; il secondo deve
essere adempiuto trascrivendo o
riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La
violazione anche di uno soltanto di tali
oneri rende il ricorso inammissibile.
12. In conclusione, vanno affermati i seguenti principi di
diritto:
- In tema di pubblico impiego
contrattualizzato, l'organizzazione, la consistenza e la
variazione delle dotazioni organiche sono determinate in
funzione dell'efficienza dell'amministrazione, della
razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e della
migliore utilizzazione delle risorse umane, in conformità ai
principi espressi dagli artt. 1, comma 1, e 6 del D.Lgs. n.
165 del 2001, restando alla discrezionalità della P.A. la
determinazione e revisione della pianta organica
(conf. a Cass. n. 18191 del 2016).
- In tema di eccedenze di personale
regolate dall'art. 33 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (nel testo
vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n.
150/2009), ove la dichiarazione di esubero interessi un
numero di lavoratori inferiore a dieci unità, la fattispecie
è disciplinata dai commi 7 e 8 dell'art. 33 cit., restando
assimilata alla fattispecie regolata dai commi 3,4, e 5, che
contempla la procedura di consultazione sindacale,
limitatamente agli esiti, che riguardano il collocamento in
disponibilità, l'iscrizione negli elenchi ex art. 34, la
sospensione delle obbligazioni inerenti al rapporto di
lavoro, la percezione del trattamento indennitario e la
risoluzione del rapporto allo scadere del termine biennale
di permanenza in disponibilità.
- Nella predetta ipotesi, in cui la
dichiarazione di esubero interessi un numero di lavoratori
inferiore a dieci unità, in mancanza di una diversa
regolamentazione introdotta dalla contrattazione collettiva,
operano i criteri di selezione di cui all'art. 5, commi 1 e
2, L. n. 223/1991.
La P.A. è altresì tenuta a dimostrare l'impossibilità di una
ricollocazione alternativa del dipendente all'interno della
stessa amministrazione (c.d. repechage), anche alla
stregua di eventuali previsioni contrattuali in deroga al
secondo comma dell'art. 2103 c.c., nonché a dimostrare
l'adempimento dell'obbligo di comunicazione ex articolo 34
d.lgs. n. 165/2001 ai fini della iscrizione del personale in
disponibilità negli appositi elenchi, finalizzati al
recupero delle eccedenze di personale anche presso altre
pubbliche amministrazioni. |
LAVORI PUBBLICI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti
sulla programmazione triennale dei lavori pubblici e sul
programma biennale per servizi e forniture ex art. 21, comma
8, d.lgs. n. 50 del 2016.
La Commissione speciale del Consiglio di Stato ha reso
parere favorevole con osservazioni allo schema di
regolamento recante procedure e schemi tipo per la redazione
e la pubblicazione del programma triennale dei lavori
pubblici, del programma biennale per l’acquisizione di
forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e
aggiornamenti annuali.
In un contesto come quello attuale, attento al corretto
utilizzo delle risorse pubbliche disponibili, il parere ha
spiegato che la programmazione non è solo un momento di
chiarezza fondamentale per la determinazione del quadro
delle esigenze, la valutazione delle strategie di
approvvigionamento, l’ottimizzazione delle risorse ed il
controllo delle fasi gestionali, ma costituisce concreta
attuazione dei principi di buon andamento, economicità ed
efficienza dell’azione amministrativa.
Per gli appalti di lavori, il Consiglio di Stato ha
evidenziato l’importanza della programmazione con
particolare riguardo alla disciplina delle “opere
incompiute” che, nel passato, sono state causa di un
poco efficiente uso delle risorse pubbliche, oltre ad
impedire di soddisfare le necessità della collettività cui
sono destinate tali opere.
Il parere ha chiesto al Governo di introdurre, nel testo
definitivo del decreto, misure adeguate per verificare,
successivamente all’entrata in vigore del regolamento, il
conseguimento degli obiettivi della programmazione. Difatti
–è stato affermato– si tratta di “una funzione cruciale
dalla quale dipende il successo dell’intero intervento di
riforma”, e, in particolare, la “effettiva e drastica
riduzione delle opere incompiute”.
Tra le altre osservazioni, è stata chiesta una maggiore
chiarezza nella definizione stessa delle “opere
incompiute”, al fine di superare le incertezze che
caratterizzano la disciplina vigente, ed è stato
raccomandato un migliore coordinamento fra la programmazione
triennale e la predisposizione dell’elenco delle stesse
opere incompiute.
In relazione agli appalti di servizi e di forniture, il
Consiglio di Stato ha posto in evidenza l’importanza di
rendere obbligatoria la programmazione anche in questo
campo. Per altro verso, il parere ha sottolineato la
necessità di coordinare la fase della programmazione con le
procedure di evidenza pubblica necessarie per la
stipulazione del contratto.
La Commissione speciale ha, infine, suggerito al Governo di
riconoscere adeguato rilievo, in sede di fissazione delle
priorità dell’attività programmatoria, agli interventi di
ricostruzione post-terremoto (Consiglio
di Stato, comm. spec.,
parere 13.02.2017 n. 351
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Clausola sociale degli appalti di lavori e di servizi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola
sociale – Applicazione – Art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Criterio – Salvaguardia della concorrenza e della libertà di
impresa.
In sede di gara pubblica, la
“clausola sociale”, prevista dall’art. 50, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, deve conformarsi ai principi nazionali e
comunitari in materia di libertà di iniziativa
imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, da
un lato lesiva della concorrenza perché scoraggia la
partecipazione alla gara e limita ultroneamente la platea
dei partecipanti, e, dall’altro, atta a ledere la libertà
d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 Cost..
Conseguentemente, l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori
alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto
di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere
armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di
impresa prescelta dall'imprenditore subentrante (1).
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(1)
Data la premessa il Tar Toscana ha concluso -richiamando in
termini i principi espressi dal Cons. St., sez. III,
30.03.2016, n. 1255- la clausola non comporta alcun obbligo
per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di
assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e
generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente
impresa o società affidataria.
Applicando i su esposti principi il Tar Toscana ha
dichiarato illegittima la clausola sociale inserita nella
lex specialis di gara perché tale da imporre in termini
rigidi la conservazione del personale di cui al precedente
appalto, dovendo invece essa essere formulata in termini di
previsione della priorità del personale uscente nella
riassunzione presso il nuovo gestore, in conformità alle
esigenze occupazionali risultanti per la gestione del
servizio, in modo da armonizzare l’obbligo di assunzione con
l’organizzazione d’impresa prescelta dal gestore
subentrante.
Ha aggiunto che tale conclusione non cambia anche tenendo
conto della direttiva 24/2014/UE. Il secondo Considerando
della direttiva citata si limita a prevedere un utilizzo
delle procedure di gara “per sostenere il conseguimento
di obiettivi condivisi a valenza sociale”, l’art. 18,
comma 2, della medesima direttiva prevede l’obbligo degli
Stati membri di garantire nell’esecuzione degli appalti il
rispetto degli obblighi sociale e del lavoro e l’art. 70
stabilisce che nell’esecuzione dell’appalto possono trovare
spazio considerazioni sociali o relative all’occupazione; si
tratta di previsioni di sicura importanza e tali da trovare
esplicazione anche nella “clausola sociale” qui
esaminata, tuttavia senza che le stessi arrivino a
giustificare o imporre una clausola sociale di tenore forte,
che impone l’obbligo rigido di riassunzione.
Del resto, sempre ad avviso del Tar, l’art. 50, d.lgs. n. 50
del 2016, che disciplina specificamente la “clausola
sociale” in applicazione della disciplina europea e che
ha un contenuto più specifico dell’art. 69, d.lgs.
12.04.2006, n. 163, contiene sì la specifica previsione del
“possibile” inserimento nei bandi di gara della
suddetta clausola, affermando che essa mira a “promuovere
la stabilità occupazionale del personale impiegato”, ma “nel
rispetto dei principi dell’Unione Europea”.
Si tratta di disciplina normativa che non innova, ed anzi
sussume nel testo di legge i risultati cui era giunta la
giurisprudenza, giacché la “stabilità occupazionale”,
che è sicuramente un obiettivo normativo importante e un
valore ordinamentale, deve essere “promossa” e non
rigidamente imposta e comunque deve essere armonizzata con i
principi europei della libera concorrenza e della libertà
d’impresa, così da escludere un rigido obbligo di garanzia
necessaria della stabilità, pur in presenza di variato
ambito oggettivo del servizio a gara (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 13.02.2017 n. 231 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene che la censura in esame sia fondata.
Lo stato della interpretazione giurisprudenziale, peraltro
pacificamente ricostruito dalle parti in causa, può essere
sintetizzato, richiamando la sentenza della Terza Sezione
del Consiglio di Stato n. 1255 del 2016, nel modo che segue:
a)
la “clausola sociale” deve conformarsi
ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di
iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando,
altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la
partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea
dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa,
riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione;
b) conseguentemente, l'obbligo di riassorbimento
dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente,
nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso
appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con
l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore
subentrante;
c) la clausola non comporta invece alcun obbligo
per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di
assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e
generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente
impresa o società affidataria
(cfr. Cons. Stato, III, n. 1896/2013).
Alla luce di tale interpretazione la
clausola di cui alla presente controversia, congiuntamente
letta dalle parti come tale da imporre in termini rigidi la
conservazione del personale di cui al precedente appalto,
risulta illegittima, dovendo invece essa essere formulata in
termini di previsione della priorità del personale uscente
nella riassunzione presso il nuovo gestore, in conformità
alle esigenze occupazionali risultanti per la gestione del
servizio, in modo da armonizzare l’obbligo di assunzione con
l’organizzazione d’impresa prescelta dal gestore subentrante
(in termini la sentenza della Sezione n. 1426 del 2016
nonché la sentenza della Prima Sezione di questo TAR n. 261
del 2016).
Un tale esito interpretativo non cambia anche tenendo conto
della normativa più recente, applicabile alla presente
fattispecie, come sostenuto da parte ricorrente.
Il primo riferimento deve essere alla direttiva 24/2014/UE
invocata da parte resistente; seppur in essa sia sicuramente
riscontrabile una specifica attenzione alle esigenze
sociale, cui anche le commesse pubbliche possono essere
funzionali, non pare tuttavia che se ne possano ricavare
indirizzi specifici nel senso sostenuto dalle resistenti
stesse; il secondo <considerando> della direttiva
citata si limita a prevedere un utilizzo delle procedure di
gara “per sostenere il conseguimento di obiettivi
condivisi a valenza sociale”, l’art. 18, comma 2, della
medesima direttiva prevede l’obbligo degli Stati membri di
garantire nell’esecuzione degli appalti il rispetto degli
obblighi sociale e del lavoro e l’art. 70 stabilisce che
nell’esecuzione dell’appalto possono trovare spazio
considerazioni sociali o relative all’occupazione;
si tratta di previsioni di sicura importanza e tali
da trovare esplicazione anche nella “clausola sociale”
qui esaminata, tuttavia senza che le stessi arrivino a
giustificare o imporre una clausola sociale di tenore forte
(che impone l’obbligo rigido di riassunzione) come ritenuto
dalle resistenti.
D’altra parte l’art. 50 del d.lgs. n. 50
del 2016, che disciplina specificamente la “clausola
sociale” in applicazione della disciplina europea e che
ha un contenuto più specifico dell’art. 69 del d.lgs. n. 163
del 2006, contiene sì la specifica previsione del “possibile”
inserimento nei bandi di gara della suddetta clausola,
affermando che essa mira a “promuovere la stabilità
occupazionale del personale impiegato”, ma “nel
rispetto dei principi dell’Unione Europea”.
Ad avviso del Collegio si tratta di
disciplina normativa che non innova, ed anzi sussume nel
testo di legge i risultati cui era giunta la giurisprudenza,
giacché la “stabilità occupazionale”, che è
sicuramente un obiettivo normativo importante e un valore
ordinamentale, deve essere “promossa” e non
rigidamente imposta e comunque deve essere armonizzata con i
principi europei della libera concorrenza e della libertà
d’impresa, così da escludere un rigido obbligo di garanzia
necessaria della stabilità, pur in presenza di variato
ambito oggettivo del servizio a gara.
5.5 – Si impone al Collegio un ulteriore profilo
motivazionale, a conferma delle conclusioni raggiunte, in
risposta ai rilievi svolti da entrambe le parti resistenti
nelle memorie finali, con richiamo da parte di entrambe alla
recente pronuncia del Consiglio di Stato, sez. 5^, n. 2433
del 2016, ritenuta dalle stesse di tenore tale da confermare
gli assunti difensivi delle resistenti medesime.
Ad avviso delle resistenti tale sentenza si sarebbe
pronunciata a favore della legittimità di una clausola che
preveda il riassorbimento di tutto il personale uscente,
anche in ipotesi in cui tale personale non sia necessario
per l’appalto in considerazione, potendo il personale in
eccesso essere utilizzato in altre commesse facenti capo
allo stesso operatore economico.
In realtà nella citata sentenza il giudice d’appello non
sembra affrontare il tema della legittimità della “clausola
sociale” che imponga l’integrale riassorbimento di tutto
il personale impiegato dall’operatore economico uscente,
giacché non risulta che la clausola sociale sia stata fatta
oggetto di impugnazione in quel giudizio, ma si occupa del
giudizio di anomalia dell’offerta dell’aggiudicatario di una
procedura di concessione; l’appellante sostiene che
l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere
giudicata anomala “perché non recante l’utilizzo di tutti
e 13 gli addetti al servizio da essa impiegati nella
precedente gestione”, riutilizzo integrale imposto, tra
l’altro, dalla “clausola sociale” presente nel
disciplinare di gara; il Consiglio di Stato, risolvendo tale
questione, afferma invece che l’aggiudicataria ha prestato
alla clausola sociale “piena osservanza, assumendo
l’impegno di assumere alle proprie dipendenze tutto il
personale impiegato dall’odierna appellante nella precedente
gestione”, non costituendo violazione della suddetta
clausola “il fatto che la cointrointeressata non ne abbia
confermato l’integrale destinazione al medesimo servizio, ma
ad altri svolti in aree limitrofe, per dichiarate ragioni di
economia della gestione”; appare dunque chiaro che la
evocata sentenza non affronta il tema della legittimità
della “clausola sociale” presa in esame, che non
costituisce oggetto del pronunciamento del giudice
d’appello, ma si occupa invece delle modalità di sua
esecuzione, ritenendo che l’adempimento a quanto imposto
dalla clausola sociale (reimpiego di lavoratori della
pregressa gestione) possa avvenire anche in servizi diversi
da quello originario.
Non ritiene quindi il Collegio che la citata sentenza del
giudice d’appello sia idonea a modificare le conclusioni
raggiunte.
5.6 – Concludendo dunque sul profilo di censura in esame,
esso deve essere accolto, con annullamento degli atti
impugnati, limitatamente al disposto di cui all’art. 9.6.
del Capitolato nella parte in cui prevede il necessario
mantenimento dei livelli occupazionali di cui all’allegato
C1 e all’art. 14 dello schema di convenzione ove richiama il
suddetto art. 9.6 cit., con riformulazione da parte della
stazione appaltante del contenuto della “clausola sociale”,
ai fini della esecuzione del contratto, in conformità ai
principi giurisprudenziali richiamati nella motivazione
della presente sentenza. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Segni di riconoscimento negli elaborati scritti di un
concorso pubblico.
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Concorso – Prove – Prove scritte – Segno di
riconoscimento – Presupposti – Individuazione.
In sede di pubblico concorso, perché
possa configurarsi l’elemento del cd. “segno di
riconoscimento” nell’elaborato scritto sono necessari due
presupposti, e cioè l'idoneità del segno di riconoscimento a
raggiungere lo scopo e il suo utilizzo intenzionale (nella
specie è stato escluso che possa costituire segno di
riconoscimento l’indicazione di una specifica città nel
testo della prova) (1).
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(1)
Il Tar Toscana ha affermato che il principio di anonimato
(espressione del valore dell’imparzialità e buon andamento)
va applicato “con intelligenza, proporzionalità e
correlazione” con l’altro fondamentale principio di
massima partecipazione possibile per innalzare la
possibilità statistica di scegliere i migliori, a sua volta
correlato con due valori anch’essi di rango costituzionale:
quello del lavoro e quello del buon andamento. Dunque, non
ogni “segno” astrattamente idoneo al riconoscimento
può assurgere a causa escludente.
Il segno di riconoscimento è tale se concorrono due
condizioni: l'idoneità a raggiungere lo scopo e l’utilizzo
intenzionale del segno.
Quanto al primo elemento, il segno è idoneo a fungere da
elemento di identificazione solo quando la particolarità
riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e
incontestabilmente” anomalo, rispetto alle ordinarie
modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione
dello stesso in forma scritta, a nulla rilevando che in
concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano
stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente
l'autore dell'elaborato.
Quanto all’elemento psicologico della fattispecie, si è
escluso che possa operare un automatismo tra astratta
possibilità di riconoscimento e violazione della regola
dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare,
anche qui in modo oggettivo ed inequivoco, l'intenzionalità
del concorrente di rendersi riconoscibile (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 13.02.2017 n. 230 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
4 – Il Collegio ritiene di mantenere le decisioni e
l’impianto motivazionale della propria ordinanza cautelare
sopra riportato in fatto, meritevole di conferma anche alla
più approfondita riflessione della fase di merito e non
essendo emersi in corso di causa elementi idonei ad un
ripensamento.
In particolare, non vale a ribaltare il giudizio di
fondatezza del ricorso la Relazione depositata il 14.10.2016
a firma del presidente della Commissione giudicatrice, la
quale conferma la presenza di “evidenti” segni
identificativi attraverso l’indicazione, nell’ambito del
quesito n. 1, della città dove è ubicato il Liceo
Scientifico ove ha prestato servizio il candidato (Livorno).
Siffatta indicazione assumerebbe, secondo la presidente di
commissione, "carattere oggettivamente ed
incontestabilmente anomalo”, tale da rendere l’elaborato
astrattamente riconoscibile, a nulla rilevando la concreta
identificabilità dell’autore da parte di uno o più membri
della Commissione. Inoltre per “segno identificativo”
non deve intendersi soltanto l’apposizione di segni grafici
anomali, ma anche l’uso di parole o frasi che possano
condurre ad identificare il candidato.
5 – La tesi difensiva dell’amministrazione non regge sotto
alcun profilo.
Anzitutto, si tratta di motivazione postuma inidonea –per
costante giurisprudenza– a colmare tardivamente un
evidentissimo difetto di motivazione già ampiamente
stigmatizzato con la riportata ordinanza cautelare, con
riguardo ad una formula assolutamente criptica quale “segni
evidenti di riconoscimento”, senza alcun’altra
indicazione di contenuto e di collocazione.
In secondo luogo la Relazione mostra da sé e ulteriormente
che non vi poteva essere alcuna “evidenza”, tanto che
il Collegio, ad una pur attenta lettura del complesso
elaborato, non era riuscito a scorgere alcun segno, grafico
o letterale, idoneo a consentire la riferibilità dello
scritto ad un soggetto determinato.
5.2 – Anche ad accettare per ipotesi l’integrazione
motivazionale tentata con la ricordata Relazione, in ogni
caso
manca nella specie ogni elemento che
possa far ritenere violato il pur fondamentale principio
dell’anonimato con
riferimento al quesito numero 1.
Quest’ultimo consisteva nel “collocare” la
trattazione di un argomento matematico nell’ambito di una
programmazione disciplinare curricolare di un istituto
secondario di secondo grado. La risposta del candidato
inizia così: “CONTESTO: Classe V superiore – Liceo
Scientifico di Livorno”.
5.3 – La predetta indicazione non appare violativa del
ricordato principio di anonimato, non assumendo essa i
caratteri rilevatori di un intento di farsi riconoscere e di
evidente anomalia rispetto alle consuete modalità di
redazione di una risposta ad una data traccia.
Quest’ultima, infatti imponeva ai partecipanti di “collocare”
la trattazione dell’argomento nel contesto “di un
istituto”, in tal modo inducendo la legittima opinione
nei candidati stessi di non solo potere, ma anzi di dovere
riferire l’esposizione teorica ad una concreta realtà ed
esperienza didattica collocata all’interno di uno specifico
Istituto di istruzione. Quest’ultimo, quindi, per come era
formulato il quesito, poteva essere individuato sia come
tipologia generica, sia come concreta realtà operativa
scolastica.
La seconda opzione non era esclusa, dunque, dalle
possibilità esplicative del candidato, il quale
legittimamente (in mancanza di specifiche avvertenze ed
ammonimenti) poteva sentirsi legittimato ad indicare un
certo istituto scolastico nel quale “collocare” e
calare la propria proposta didattica. Mancando ulteriori
elementi di specificazione di quella realtà locale da parte
della commissione sul piano rivelatosi (ad es., l’esistenza
di un solo professore di quella materia nell’intero plesso),
una tale indicazione non si mostra rivelatrice di nulla.
6 – D’altra parte, il principio di
anonimato (espressione del valore dell’imparzialità e buon
andamento) va applicato con intelligenza, proporzionalità e
correlazione con l’altro fondamentale principio di massima
partecipazione possibile, a sua volta correlato con due
valori anch’essi di rango costituzionale: quello del lavoro
e quello del buon andamento, sotto l’altro profilo
dell’ampliamento della platea dei partecipanti per innalzare
la possibilità statistica di scegliere i migliori: sicché
non ogni “segno” astrattamente idoneo al
riconoscimento può assurgere a causa escludente.
7 - La giurisprudenza, infatti, ha
delineato i confini entro i quali opera la regola
dell'anonimato, individuando nell'idoneità del segno di
riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due
elementi costitutivi della fattispecie legale.
8 - Quanto all'idoneità del segno, essa
consiste, sì, nell'astratta idoneità del segno a fungere da
elemento di identificazione, ma solo quando la particolarità
riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e
incontestabilmente” anomalo, rispetto alle ordinarie
modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione
dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando
che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa
siano stati o meno in condizione di riconoscere
effettivamente l'autore dell'elaborato
(Cons. St., Sez. V, 11.01.2013, n. 102; nello stesso senso
Cons. St., Sez. V, 20.10.2008, n. 5114; Cons. St., Sez. IV,
20.09.2006, n. 5511).
Questa prima condizione (oggettività, incontestabilità,
irrilevanza di conoscenze personali) non sussiste nella
specie: l’indicazione del Liceo scientifico di Livorno non
assume i riportati connotati, sia in relazione al contenuto
della traccia del quesito, sia in mancanza di prove circa la
assoluta evidenza identificativa di quanto indicato (per un
caso analogo cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202).
9 - Quanto all’elemento psicologico della
fattispecie, si è escluso che possa operare un automatismo
tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione
della regola dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti
a provare, anche qui in modo oggettivo ed inequivoco,
l'intenzionalità del concorrente di rendersi riconoscibile
(cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202; idem,
01.04.2011, n. 2025).
Nella fattispecie, appare evidente come difetti anche questo
ulteriore requisito, trattandosi, come più volte detto, di
indicazione perfettamente plausibile e giustificabile alla
luce della traccia del quesito.
10 – Peraltro e per concludere, la prova più evidente della
mancanza di una valenza identificativa della collocazione
logistica della risposta sta nel fatto che il Collegio, pur
ad un’attenta lettura dell’elaborato fatta in preparazione e
discussione dell’udienza camerale, non era riuscito a capire
quale fosse il “segno evidente” di riconoscimento.
11 - Il ricorso va conclusivamente accolto, con conseguente
definitivo annullamento degli atti impugnati e relativa
condanna alle spese di giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
rilevarsi, in aderenza ad una diffusa giurisprudenza, che la
sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi,
anche di infissi, serrande, rientra nel concetto di finiture
di edifici, come tale configurabile in termini di
manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 3, lett. a),
t.u. 06.06.2001 n. 380 e, cioè, di attività libera e non
soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6,
lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano
impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la
sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con
materiali diversi.
---------------
Il ricorso è parzialmente fondato e, pertanto, va accolto
nei limiti di seguito indicati.
Segnatamente va accolta la domanda spiegata avverso la
statuizione di cui al punto 2 della richiamata ordinanza,
con la quale –a fronte della sostituzione degli infissi
esterni e muovendo dalla qualificazione del suddetto
intervento come di manutenzione straordinaria– è stato
ingiunto il pagamento della somma di € 1.000,00.
Sul punto, deve rilevarsi, in aderenza ad una diffusa
giurisprudenza, che la sostituzione o il rinnovamento di
serramenti e, quindi, anche di infissi, serrande, rientra
nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile
in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 3,
lett. a), t.u. 06.06.2001 n. 380 e, cioè, di attività libera
e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi
dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che
vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che
la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con
materiali diversi (cfr. TAR Torino, (Piemonte), sez. I,
12/04/2010, n. 1761; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 09/05/2005,
n. 3438; sez. II-bis 1322/2017 del 25.01.2017).
Nel caso di specie tale soluzione viepiù s’impone in ragione
del fatto che non risultano adeguatamente comprovati
(rispetto al preesistente assetto dei luoghi, quale
risultante da una necessaria valutazione di insieme) i
dedotti profili di significativa novità sì da giustificare –a cagione dell’impatto ingenerato- la sussunzione delle
opere de quibus nella diversa categoria della
manutenzione straordinaria.
Nei limiti suddetti il ricorso va, pertanto, accolto
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 10.02.2017 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste l'ineluttabilità della sanzione
repressiva comminata dal Comune, anche a cagione
dell’assenza di specifici e rilevanti profili di
contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto
che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché
alcuna alternativa sul piano decisionale si pone
all’Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro,
appaiono le previsioni di cui all’art. 21-octies della legge
241/1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato”.
---------------
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza
del prescritto titolo abilitativo –e cioè, in questo caso,
il permesso di costruire- l'ordine di demolizione
costituisce atto dovuto mentre la possibilità di non
procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia
di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi.
In considerazione delle divisate emerge processuali si
rivela immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale
in cui impinge il provvedimento impugnato, manifestamente
idoneo ad evidenziare la consistenza degli abusi in
contestazione. Nel modello legale di riferimento non vi è,
infatti, spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua
rimozione.
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il
principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di
opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale
dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia:
l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria ripristinatoria qui
avversata.
---------------
Per il resto (id est rispetto all’ordine di
demolizione) il ricorso va respinto.
Prive di pregio si rivelano, anzitutto, le doglianze con cui
la parte ricorrente lamenta la violazione delle garanzie di
partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta
all’Autorità procedente dall’art. 7 della legge 241/1990
ovvero, nei procedimenti ad istanza di parte, anche
dall’art. 10-bis della medesima legge.
L’infondatezza delle censure in esame discende, invero, come
già ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (cfr., tra
le tante, sentenze TAR Campania, Napoli, n. 1847 del
30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d’appello
(cfr. Cons. Stato, sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277),
dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal
Comune di Napoli, anche a cagione dell’assenza –come di
seguito meglio evidenziato- di specifici e rilevanti profili
di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di
diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo,
sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva
all’Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro,
appaiono le previsioni di cui all’art. 21-octies della legge
241/1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato”.
...
Appare, dunque, pienamente giustificata l’applicazione della
sanzione demolitoria.
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza
del prescritto titolo abilitativo –e cioè, in questo caso,
il permesso di costruire- l'ordine di demolizione
costituisce atto dovuto mentre la possibilità di non
procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia
di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato
dei luoghi (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 15.07.2010,
n. 16807; sez. VII n. 1624 del 28.03.2008).
In considerazione delle divisate emerge processuali si
rivela immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale
in cui impinge il provvedimento impugnato, manifestamente
idoneo ad evidenziare la consistenza degli abusi in
contestazione. Nel modello legale di riferimento non vi è,
infatti, spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua
rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n.
17240).
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il
principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di
opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale
dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002,
n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540):
l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria ripristinatoria qui
avversata
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 10.02.2017 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ritiene il Collegio che l’inserimento di un
balcone, corredato della relativa tettoia, e le ulteriori
modifiche introdotte nella muratura esterna (con apertura di
un vano balcone in luogo di preesistente finestra e di
realizzazione di una nicchia) in ragione dell’incremento di
superficie (ancorché accessoria) che la realizzazione del
balcone comporta e, comunque, per effetto della complessiva
modifica dei prospetti non possono che qualificarsi come
intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi
degli artt. 3, c. 1, lett. d) e 10, c. 1, lett. c) del T.U.
06.06.2001, n. 380 e non come opere di mera manutenzione.
---------------
Alcun pregio hanno, poi, le ulteriori censure con cui parte
ricorrente, mediante argomentazioni generiche, lamenta
l’inadeguatezza dell’istruttoria condotta dal Comune
intimato e l’insufficienza del corredo motivazionale
dell’atto impugnato.
Sul punto, è sufficiente osservare che alcun dubbio residua
sulla completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal
Comune attraverso i propri organi, di cui vi è indiretta
conferma nella stessa mancanza di una contestazione, in
fatto, sulla natura degli abusi accertati.
Risulta, invero, acquisito agli atti di causa –siccome
nemmeno fatto oggetto di contestazione– la realizzazione in
assenza dei prescritti titoli abilitativi di un “1)
balcone ad angolo di m. 1,10 x 20,00 con tettoia in lamiere
coibentate di copertura sorretta da struttura in ferro;
modifica di un vano finestra in vano di accesso al balcone e
di un altro vano finestra in nicchia di mt. 1,10x2,20
d’altezza x 0,50 di profondità chiusa da persiana…”.
Anche sul piano della qualificazione giuridica dell’illecito
ritiene il Collegio che l’inserimento di un balcone,
corredato della relativa tettoia, e le ulteriori modifiche
introdotte nella muratura esterna (con apertura di un vano
balcone in luogo di preesistente finestra e di realizzazione
di una nicchia) in ragione dell’incremento di superficie
(ancorché accessoria) che la realizzazione del balcone
comporta e, comunque, per effetto della complessiva modifica
dei prospetti non possono che qualificarsi come intervento
di ristrutturazione edilizia ai sensi degli artt. 3, c. 1,
lett. d) e 10, c. 1, lett. c) del T.U. 06.06.2001, n. 380 e
non come opere di mera manutenzione (Consiglio di Stato,
sez. VI, 04/10/2011 n. 5431; TAR Napoli, (Campania), sez.
VII, 07/06/2012, n. 2717)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 10.02.2017 n. 827 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
APPALTI:
L’accesso ai documenti è la regola.
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Accesso ai documenti – Diritto – E’ la regola – Diniego – E'
l'eccezione.
L’accesso ai documenti è la regola ed il
rifiuto è l’eccezione, da dimostrare sempre e comunque con
chiara, esauriente e convincente motivazione; corollario di
tale regole è che il silenzio serbato su istanze di accesso
è ipotesi ancora più eccezionale, da circoscrivere in ambiti
limitatissimi di domande palesemente pretestuose, incerte,
vaghe e emulative (1).
---------------
(1)
Nel caso all’esame del Tar, dopo la proposizione del ricorso
e prima del passaggio in decisione della causa
l’Amministrazione ha rilasciato i documenti richiesti,
determinando, sul piano processuale, la cessazione della
materia del contendere. Il Tar ha, nonostante ciò, esaminato
nel merito la causa, su richiesta di parte ricorrente, ai
fini della rifusione delle spese.
Ha ricordato il Tar che in linea di principio
l’Amministrazione detentrice dei documenti amministrativi,
purché direttamente riferibili alla tutela, anche di
carattere conoscitivo, preventivo e valutativo da parte del
richiedente, di un interesse personale e concreto, non può
limitare il diritto di accesso se non per motivate esigenze
di riservatezza.
Si tratta di regola ispirata a valori fondanti di qualsiasi
vera democrazia in cui la burocrazia è al servizio del
cittadino e non di se stessa, secondo una logica perversa di
autoreferenzialità in base alla quale il cittadine è suddito
e non referente dell’azione amministrativa.
La violazione del principio di correttezza e lealtà, nonché
la sussistenza degli elementi costitutivi della colpa, di
negligenza, imprudenza e imperizia non è certo affievolita
dall’accoglimento tardivo della richiesta in corso di causa,
il quale anzi evidenzia ancor di più l’intollerabile
superficialità dell’azione amministrativa e del suo autore,
il quale ha costretto senza ragione alcuna un cittadino a
sopportare i costi di un processo per potersi vedere
riconosciute le proprie ragioni.
Data la premessa, il Tar ha accolto la domanda del
ricorrente di condanna alle spese (liquidate in cinquemila
euro), misura giudicata coerente anche con il grado della
colpa della parte virtualmente soccombente.
Per le stesse esposte ragioni il Tar ha inviato copia della
sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei
Conti in conseguenza del ben prevedibile (art. 26 c.p.a.) ed
agevolmente evitabile danno erariale per condanna alle spese
che il comportamento dell’amministrazione ha recato alla
finanza pubblica (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 10.02.2017 n. 200 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento:
- del diniego tacito del Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca – Ufficio Regionale per la
Toscana di accesso agli atti afferenti alla prova scritta e
pratica del Concorso Docenti 2016, relativa alla Classe B20,
bandito con DDG M.I.U.R. n. 106 del 23.02.2016, avanzata
dal ricorrente per poter verificare la “valutazione ottenuta
e dell'effettiva corrispondenza del testo e degli elaborati
sottoposti a valutazione con quanto effettivamente prodotto
in sede di svolgimento delle prove scritte”;
- accertamento del diritto del ricorrente di prendere
visione ed estrarre copia integrale della documentazione
suddetta;
- condanna del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e
della Ricerca, in persona del Ministro pro tempore, nonché
del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della
Ricerca – Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana
all'ostensione dei documenti richiesti.
...
1 - Il ricorrente ha partecipata al concorso per
l’assunzione di docenti meglio specificato in epigrafe per
la classe B20, Laboratorio di Servizi enogastronomici,
settore cucina, ma, avendo appreso dal sito web
dell’amministrazione di non avere superato gli scritti, ha
fatto richiesta d’accesso agli atti ai sensi della L.
241/1990, con riferimento ai propri elaborati scritti ed ai
presupposti criteri di valutazione.
2 - A fronte del silenzio serbato dall’amministrazione egli
impugna il provvedimento implicito di rigetto dell’istanza
d’accesso deducendo i seguenti motivi.
Violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza
dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.). Violazione
artt. 22 e 24, comma 7, L. n. 241/1990.
L’art. 22, comma 2, della L. n. 241/1990 stabilisce che il
diritto di accesso ai documenti amministrativi, attese le
sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell’attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e
la trasparenza (cfr. TAR Torino, Sez. I, 23.05.2014,
n. 932).
Ne discende che l’esercizio del suddetto diritto può essere
compresso esclusivamente nelle ipotesi indicate dal
legislatore, secondo quanto previsto dalle disposizioni di
cui all’art. 24 della L.P.A. (L. 241/1990).
Nulla di tutto ciò, nel caso di specie, in quanto:
- non si è trattato di alcuna informazione attinente a
“documenti amministrativi contenenti informazioni di
carattere psico-attitudinale relativi a terzi” (lett. d, comma
1), bensì della richiesta dei propri elaborati e delle
schede/griglie di valutazione, attinenti alla propria
posizione;
- non si è trattato di una richiesta suscettibile di mero
differimento, ai sensi dell’art. 3.2 del D.M. 60/1996
(secondo cui l’accesso relativo a “elaborati ed alle schede
di valutazione” è consentito in relazione alla conclusione
delle varie fasi del procedimento… Fino a quando il
procedimento non sia concluso, l’accesso è limitato ai soli
atti che riguardino direttamente il richiedente, con
esclusione degli atti relativi ad altri concorrenti”) in
quanto la richiesta riguardava i soli atti del ricorrente, e
non anche degli altri candidati – per la quale sarà, se del
caso, formulata apposita richiesta.
Peraltro, il diniego tacito formatosi con il decorso di
trenta giorni dalla proposizione dell’istanza deve ritenersi
illegittimo per violazione dell’art. 24, comma 7, della
L. 241/1990 ai sensi del quale “deve comunque essere
garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici”.
3 - L’amministrazione si è difesa con memoria depositata
solo in formato cartaceo.
4 – Nella camera di consiglio del giorno 08.02.2017 il
difensore di parte ricorrente ha dichiarato di avere avuto
finalmente copia degli atti richiesti, con conseguente
intervenuta cessazione della materia del contendere,
insistendo tuttavia per la condanna dell’amministrazione
alle spese, essendosi l’inerzia protrattasi anche dopo la
proposizione del ricorso. La difesa erariale si è opposta
alla richiesta di condanna alle spese.
5 – Il Collegio non può che prendere atto della
dichiarazione di parte ricorrente, accogliendone l’istanza
di condanna alle spese in virtù del principio di soccombenza
virtuale.
6 -
Il consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa è nel senso in virtù dell’art. 24, comma 7,
della L. n. 241/1990, va garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici,
senza che da parte dell’Amministrazione possa legittimamente
sindacarsi la fondatezza ovvero la pertinenza delle azioni
che l’interessato intenda intraprendere; sicché, sotto tale
profilo, è sufficiente che l’istante fornisca elementi
idonei a dimostrare in maniera chiara e concreta la
sussistenza di un tale astratto interesse che ricolleghi
comunque la domanda d’accesso ai documenti richiesti;
inoltre, una volta che l’istante abbia dimostrato il proprio
interesse, è illegittimo il divieto di estrarre copia e la
limitazione dell’accesso alla sola visione degli atti, che
spesso non è sufficiente a consentire la tutela in sede
giurisdizionale dei propri interessi
(cfr., fra le
tantissime, Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.08.2014,
n. 4286; TAR Torino, Sez. II, 29.08.2014, n. 1458).
7 - Ai sensi del citato art. 24, quindi,
l’accesso va in
ogni caso garantito qualora sia strumentale e funzionale a
qualunque forma di tutela, sia giudiziale che
stragiudiziale, anche prima e indipendentemente
dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale. Pertanto,
l’interesse all’accesso va valutato in astratto, senza che
possa essere operato, con riferimento al caso specifico,
alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza, plausibilità
o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati
potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti
acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione alla
pretesa sostanziale sottostante
(tra le tante e per
tutte: TAR Catania sez. VI,. 12.05.2016, n. 1285).
8 - In linea di principio, dunque,
l’amministrazione
detentrice dei documenti amministrativi, purché direttamente
riferibili alla tutela –anche di carattere conoscitivo,
preventivo e valutativo da parte del richiedente, di un
interesse personale e concreto- non può limitare il diritto
di accesso se non per motivate esigenze di riservatezza
(Tar
Lazio, Roma, Sez. III, 05.11.2009 n.10838).
9 –
Si tratta di acquisizioni consolidate ed ormai note (o
almeno dovrebbero esserlo secondo criteri di perizia ed
intelligenza) dopo quasi un ventennio di esperienze e
affermazioni giurisprudenziali, che qui è inutile ripetere e
dalle quali emerge un principio di fondo che dovrebbe
guidare tutti i funzionari e dirigenti pubblici, la cui osservanza eviterebbe una mole cospicua di inutile
contenzioso, come quello presente. Tale principio può
sintetizzarsi in ciò: l’accesso è la regola ed il rifiuto è
l’eccezione, da dimostrare sempre e comunque con chiara,
esauriente e convincente motivazione. Corollario di tale
regole è che il silenzio serbato su istanze d’accesso è
ipotesi ancor più eccezionale, da circoscrivere in ambiti
limitatissimi di domande palesemente pretestuose, incerte,
vaghe, emulative.
10 –
Si tratta di regole semplici e fondamentali, ispirate,
secondo l’ormai noto insegnamento dei giudici
amministrativi, a valori fondanti di qualsiasi vera
democrazia in cui la burocrazia è al servizio del cittadino
e non di se stessa, secondo una logica perversa di
autoreferenzialità in base alla quale il cittadine è suddito
e non referente dell’azione amministrativa.
11 -
Nella specie la citata regola è stata inspiegabilmente
e slealmente violata dall’amministrazione scolastica con un
silenzio tanto più inspiegabile a fronte dell’oggetto della
richiesta, riguardante esclusivamente gli elaborati del solo
richiedente e non quelli di altri: vicenda per la quale le
stesse norme interne dell’amministrazione prevedevano
l’immediata accessibilità.
Infatti, in base alla circolare dello stesso Ministero del
18.05.2016, singolarmente richiamata dal medesimo USR Toscana
nella comunicazione/Avviso del 04.08.2016 (doc. 8
deposito ricorrente), l’accesso relativo agli “elaborati ed
alle schede di valutazione” è consentito in relazione alla
conclusione delle varie fasi del procedimento… Fino a quando
il procedimento non sia concluso, l’accesso è limitato ai
soli atti che riguardino direttamente il richiedente, con
esclusione degli atti relativi ad altri concorrenti.
La violazione del principio di correttezza e lealtà, nonché
la sussistenza degli elementi, costitutivi della colpa, di
negligenza, imprudenza e imperizia non è certo affievolita
dall’accoglimento tardivo della richiesta in corso di causa,
il quale anzi evidenzia ancor di più l’intollerabile
superficialità dell’azione amministrativa e del suo autore,
il quale ha costretto senza ragione alcuna un cittadino a
sopportare i costi di un processo per potersi vedere
riconosciute le proprie ragioni, che un qualsiasi
funzionario appena dotato di intelligenza ed umanità avrebbe
subito compreso e soddisfatto.
12 – E’ per quanto detto che la richiesta di domanda alla
condanna alle spese formulata dalla difesa del ricorrente va
accolta nella misura coerente
anche con il grado della colpa
della parte soccombente virtualmente e per le stesse esposte
ragioni il Collegio invia copia della presente sentenza alla
Procura Regionale Toscana della Corte dei Conti in
conseguenza del ben prevedibile (art. 26 c.p.a.) ed
agevolmente evitabile danno erariale per condanna alle spese
che il comportamento dell’amministrazione scolastica ha
recato alla finanza pubblica.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse.
Condanna le amministrazioni resistenti, in solido, al
pagamento di spese ed onorari del presente giudizio, che
liquida in complessivi euro cinquemila, oltre accessori di
legge.
Manda alla Segreteria perché invii copia della presente
sentenza alla Procura Regionale Toscana della Corte dei
Conti. |
ATTI
AMMINISTRATIVI- TRIBUTI: Notifica
sottoscritta digitalmente. Ctp Savona boccia la
comunicazione fatta con il pdf.
Invalide le notifiche di atti di cartelle e intimazioni di
pagamento a mezzo Pec, se non sottoscritte digitalmente o
accompagnate da attestazione di conformità all'originale.
Questo in estrema sintesi il principio espresso dalla Ctp
Savona con la recentissima
sentenza
10.02.2017 n. 100/1/2017 (pres. e rel. Giovanni
Claudio Zerilli), che ha annullato un'intimazione di
pagamento notificata a mezzo Posta elettronica certificata
(Pec).
La questione affrontata dai giudici liguri è di estrema
attualità, poiché è noto che l'Agente della riscossione e,
talvolta, anche gli stessi Enti pubblici, notificano i
propri atti proprio mediante Pec: i risparmi in termini di
costi e soprattutto la possibilità di avere un riscontro
pressoché immediato e incontestabile dell'avvenuta consegna
del messaggio rendono tale modalità quella, ovviamente,
preferibile.
Nel caso specifico la parte ricorrente aveva impugnato (tra
gli altri) un'intimazione di pagamento che aveva ricevuto a
mezzo Pec. Tuttavia, tale allegato, non solo era privo di
sottoscrizione elettronica, ma non era neppure qualificabile
quale documento informatico ai sensi degli artt. 20 ss.,
dlgs 82/2005 e, inoltre, era anche privo dell'attestazione
di conformità all'eventuale originale analogico (cartaceo),
che permettesse di considerarlo del tutto equivalente a
detto originale secondo il disposto dall'art. 22, dlgs
82/2005.
Alla luce di tali presupposti di fatto e valutata la
consulenza tecnica che correttamente ha accompagnato il
ricorso introduttivo, la Ctp Savona ha accolto la domanda di
annullamento del contribuente, osservando che la notifica di
documento con siffatte caratteristiche non può essere
accettata, mancando quei requisiti minimi previsti dal
Legislatore a tutela della genuina paternità del documento e
della univocità e immodificabilità dello stesso. Tali
lacune, infatti, hanno privato il documento notificato di
certezza anche in merito al suo contenuto: a mezzo Pec,
pertanto, possono essere notificati esclusivamente documenti
informatici veri e propri, sottoscritti digitalmente o
accompagnati da dichiarazione di conformità all'originale,
se si tratta di copie informatiche di documenti analogici.
L'arresto ligure rappresenta un importantissimo passo avanti
verso il rispetto del principio di legalità da parte degli
Uffici finanziari: infatti, se l'ordinamento, in materia
tributaria, riconosce all'Amministrazione e allo stesso
Agente della riscossione l'enorme potere di espropriare il
contribuente delle sue ricchezze senza l'intervento di un
giudice terzo e imparziale, è assolutamente imprescindibile
che tale potere venga esercitato nel rispetto della legge
anche in ordine alle modalità. Proprio la correttezza
procedurale dell'agire pubblico è, infatti, la prima
legittimazione della pretesa fiscale ed il primo baluardo
dei diritti del contribuente.
Si apre, quindi, un nuovo fronte relativamente a tutti
quegli atti notificati senza il rispetto dei requisiti
voluti dalla Ctp Savona: ciò, in quanto, se è corretta -come pare- tale pronuncia, non si può parlare di mera
nullità bensì di vera e propria inesistenza giuridica,
ovvero di un atto che non esiste per l'ordinamento e che,
quindi, non può svolgere alcun tipo di effetto.
La
conseguenza evidente a tutti è che un atto giuridicamente
inesistente è sempre impugnabile e a esso non può conseguire
alcuna esecuzione. Ove, invece, ciò accada, sorge il diritto
dell'esecutato al giusto risarcimento dei danni che dovesse
patire
(articolo ItaliaOggi del 14.02.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Annullabile
l’intimazione in Pdf. Necessaria la presenza di quanto può
garantire la genuinità del file.
Ctp Savona. In due sentenze affrontato il tema della
validità delle comunicazioni ufficiali in modalità digitale.
È nulla l’intimazione di pagamento,
seppure inviata via Pec al contribuente, in quanto il
formato Pdf non dà alcuna garanzia di genuinità del
documento.
Con una doppia sentenza (sentenza
10.02.2017 n. 100/1/2017 e sentenza 10.02.2017 n. 101/1/2017) la Ctp di Savona apre un nuovo
fronte sulla firma digitale dei documenti e, pertanto, sulla
validità procedimentale degli stessi.
Il caso deciso la scorsa settimana riguarda due vicende
collegate a un medesimo contribuente, una Srl del posto. La
società aveva ricevuto nove cartelle di pagamento -che
spaziavano da Iva a Ires, Irpef, Irap, bollo e altro-
relative alle annualità 2006, 2010 e 2011, oltre a due
avvisi di intimazione per Irpef e Irap.
Il versante dell’impugnazione relativo alle cartelle è stato
respinto dalla Ctp poiché, nonostante il ricorrente
sostenesse fossero state notificate via Pec -sollevando già
lì il tema centrale contestato dal difensore Gi.Le.- Equitalia ha dimostrato l’avvenuto recapito anche tramite
servizio postale, come previsto dal Dpr 602/1973 (articolo
26).
Le censure della difesa hanno colto nel segno, invece, circa
i due avvisi di intimazione di pagamento. Secondo una
perizia tecnica di parte -le cui conclusioni la Commissione
ha comunque ritenuto dirimenti- l’esame dei documenti
inviati in via telematica dall’agente di riscossione portava
a concludere che «gli stessi sono del tutto carenti di
quelle procedure atte a garantire la genuina paternità,
nonché mancanti della firma informatica e/o digitale».
Pertanto, sempre stando alle conclusioni della perizia di
parte, tali documenti «non rispondono ai criteri di
univocità e di immodificabilità, per cui non garantiscono il
valore di certezza e di corrispondenza». Oltretutto, segnala
ancora la versione della difesa del contribuente,
l’attestazione di conformità è «del tutto assente»
nonostante la legge la richieda «indefettibilmente».
A giudizio della Commissione, che ha sposato le conclusioni
della consulenza di parte, «l’argomento relativo alla firma
digitale e dei requisiti informatici è stato da ultimo ben
dettagliato nella deliberazione 45 del 21.05.2009 da
parte del Centro nazionale informatica nella pubblica
amministrazione nonché dal Decreto del presidente del
consiglio del 22.02.2013».
In sostanza -e fuori dalla stringatissima motivazione della Ctr- pare corretto dedurre che il documento allegato in pdf
(l'intimazione) non è da considerare giuridicamente un
documento informatico, ma piuttosto una copia informatica
che come tale è priva di qualsiasi valore probatorio. Equitalia a processo aveva invece incentrato la difesa sulla
circostanza della legittimità della Pec in sé.
La Ctr,
almeno in questo grado di giudizio, ha però censurato il
(mancato) contenuto delle comunicazione, che non rispetta
gli standard di “sicurezza” previsti dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Ricorre
il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone
sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di
presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e
senza la preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a
nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture ovvero la natura precaria
dell'intervento.
---------------
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in
relazione alla configurabilità dei reati di cui ai capi 2 e
3 dell'imputazione.
Argomenta che l'imputato doveva essere assolto da tali reati
perché le opere realizzate non incidevano sulla struttura
portante realizzata in cemento armato ma riguardavano solo
una delle pareti esterne del fabbricato; inoltre, per la
realizzazione di una finestra non era richiesto il previo
rilascio del permesso di costruire.
...
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema
Corte, ricorre il reato antisismico nel caso di opere
realizzate nelle zone sismiche senza adempimento
dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti
allo sportello unico (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) e
senza la preventiva autorizzazione scritta del competente
ufficio tecnico della regione (art. 94 d.P.R. citato), a
nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento
(Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Rv. 251284; Sez. 3, n.
48950 del 04/11/2015, Rv. 266033)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.02.2017 n. 6039). |
EDILIZIA PRIVATA: L'apertura
di "pareti finestrate" sulla
facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del
permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art.
44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un
intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti
non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore",
e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia
di inizio attività.
---------------
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in
relazione alla configurabilità dei reati di cui ai capi 2 e
3 dell'imputazione.
Argomenta che l'imputato doveva essere assolto da tali reati
perché le opere realizzate non incidevano sulla struttura
portante realizzata in cemento armato ma riguardavano solo
una delle pareti esterne del fabbricato; inoltre, per la
realizzazione di una finestra non era richiesto il previo
rilascio del permesso di costruire.
...
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
...
Inoltre, contrariamento all'assunto difensivo, è stato
ritenuto che l'apertura di "pareti finestrate" sulla
facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del
permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art.
44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si tratta di un
intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti
non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore",
e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia
di inizio attività (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Rv.
259905)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.02.2017 n. 6039). |
APPALTI: Aziende
mafiose subito chiuse. Il Cds: il codice antimafia è
immediatamente applicabile. La sentenza del Consiglio di
stato non tollera vuoti di tutela nella regolazione del
mercato.
La regolazione del mercato non sopporta vuoti di tutela.
Il Consiglio di Stato - Sez. III (sentenza
09.02.2017 n. 565, si veda ItaliaOggi
dell'11/02/2017) ha lanciato il suo j'accuse contro l'impresa
criminale ed ha letto il codice antimafia (dlgs 159/2011)
nella sua immediata applicabilità. Anche se manca il decreto
attuativo, anche se l'impresa da controllare non lavora con
un ente pubblico (appalto o concessione), anche se il valore
dell'impresa è sotto soglia, anche se si aspetta una
sentenza della Corte costituzionale sull'eventuale eccesso
di delega del codice antimafia, nonostante tutto questo la
legge ha dato all'autorità pubblica gli strumenti per
espellere dal circuito economico le imprese contigue alle
mafie.
Più poteri ai prefetti, dunque, per valutare rischi di
infiltrazioni mafiose. La sentenza spiega che anche le
attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze o a
Scia soggiacciono alle informative antimafia. Inoltre con
l'istituzione della Banca dati nazionale unica della
documentazione antimafia (art. 2, legge 13.08.2010, n.
136) si realizza una vera e propria mappatura delle imprese,
comprensiva anche delle informative interdittive,
espressamente riferite «a tutti i rapporti». Ciò comporta in
pratica che, anche quando si tratta di attività soggette ad
autorizzazione, in cui al prefetto si chiede di emettere
solo una comunicazione antimafia, egli può comunque eseguire
gli accertamenti tipici dell'informativa, invece di
limitarsi a riscontrare semplicemente l'assenza di misure
definitive di prevenzione o di condanne.
La decodifica della pronuncia può articolarsi su vari
livelli. Un primo livello è quello strettamente
tecnico-giuridico e si risolve in una questione strettamente
interpretativa: si deve appurare se i controlli antimafia
riguardano solo i casi in cui un'impresa stipula un
contratto con una p.a. (ad esempio, un appalto o una
concessione) o anche i casi in cui l'impresa deve chiedere
un'autorizzazione per poter lavorare.
La risposta del Consiglio di stato è affermativa: l'ambito
delle autorizzazioni non è escluso dalle verifiche
antimafia. La legge non solo non lo esclude, ma anzi lo
prevede, se solo non ci si nasconde dietro un dito. Il
codice antimafia parla di rapporti con la pubblica
amministrazione e c'è un rapporto (che obbliga alle
verifiche preventive antimafia) anche quando un'impresa
chiede un'autorizzazione. E anche quando un'attività è
assoggettata a procedure semplificate, come la Scia
(segnalazione certificata di inizio attività).
La semplificazione amministrativa significa meno pastoie per
le imprese sane e non maglie larghe per le imprese
criminali.
Un secondo livello riguarda i rapporti tra economia e
autorità. L'estensione del potere regolatorio a tutti gli
ambiti economici significa una mano pesante dello stato nel
flusso in entrata sul mercato. Il pericolo è che la
regolazione del mercato sia una propaggine dello stato che
sanziona. E la regolazione del mercato, perché sia efficace
richiede un uso sapiente del potere di inibire l'attività:
l'appello del Consiglio di stato alle prefetture non è un
atto di fede ma l'avviso che il sindacato del giudice può
colpire eccessive disinvolture e arbitri.
Un terzo livello riguarda l'apporto tecnologico dei sistemi
informativi. Se la questione si è posta in una certa maniera
e se la decisione è stata quella del via libera al controllo
antimafia anche sulle autorizzazioni, se tutto ciò è
avvenuto è anche perché c'è un data base unico, cui si può
attingere per trovare le necessarie notizie, intrecciare
informazioni e abbinare nomi e fatti. Questo pone il
problema degli standard da seguire per la formazione e la
manutenzione delle base di dati.
Un quarto livello riguarda i rapporti tra legislatore e
governo, chiamato ad approvare i provvedimenti attuativi.
Nel caso specifico una tesi dell'impresa (cui è stata negata
l'autorizzazione necessaria per il suo business) è stata la
mancanza del decreto attuativo, che dovrebbe individuare i
casi di autorizzazione sottoposti ai controlli antimafia;
lapidaria la risposta di Palazzo Spada: non è nemmeno
inimmaginabile che l'inerzia del governo porti acqua agli
interessi malavitosi, che possono, nelle more, far girare
denaro sporco e alimentare circuiti economici viziosi.
Né si può invocare la libertà di impresa: il principio
costituzionale non copre chi fa affari in contiguità con o
per le associazioni a delinquere
(articolo ItaliaOggi del 14.02.2017). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Informativa
antimafia ampia. Vi soggiacciono le autorizzazioni, le
licenze e la Scia. Sentenza del
Consiglio di stato aumenta i poteri dei prefetti contro il
rischio infiltrazioni.
Più poteri ai prefetti per valutare eventuali rischi di
infiltrazioni mafiose. La III Sez. del Consiglio di
Stato, accogliendo l'appello della provincia di La Spezia su
una sentenza del Tar Emilia Romagna, ha affermato che anche
le attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze
o a Scia soggiacciono alle informative antimafia.
Palazzo Spada ha infatti ritenuto con la
sentenza
09.02.2017 n. 565
che la «tradizionale distinzione tra le comunicazioni
antimafia, applicabili agli atti autorizzativi ed
abilitativi, e le informative antimafia, applicabili a
contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni pubbliche, non
si ponga più in un rapporto di necessaria alternatività,
come nella legislazione anteriore al nuovo codice delle
leggi antimafia».
La comunicazione antimafia è costituita da un'attestazione
relativa all'assenza di misure di prevenzione penale o
condanne per alcuni gravi delitti: è necessaria per il
rilascio di autorizzazioni, licenze o Scia ed è
autocertificabile dall'imprenditore.
L'informativa antimafia è costituita invece da una
valutazione del prefetto sul rischio di infiltrazione
mafiosa, fondata non solo sulle condanne ma anche su altri
elementi (rapporti di polizia, cointeressenze economiche,
frequentazioni). L'informativa costituisce, quindi, uno
strumento di prevenzione molto più avanzato. Essa era
necessaria, secondo la precedente normativa, solo quando
l'impresa doveva stipulare contratti con l'amministrazione,
ricevere sovvenzioni, o sfruttare economicamente beni
pubblici.
La distinzione tra i due strumenti, ha osservato
il Consiglio di stato nella sentenza, «ha fatto sì che le
associazioni di stampo mafioso potessero, comunque, gestire
tramite imprese infiltrate, inquinate o condizionate da
essa, lucrose attività economiche, in vasti settori
dell'economia privata, senza che l'ordinamento potesse
efficacemente intervenire per contrastare tale
infiltrazione, anche quando, paradossalmente, a dette
imprese fosse stata comunque interdetta la stipulazione dei
contratti pubblici per effetto di una informativa
antimafia».
Gli effetti di questa distinzione sono venuti
meno, secondo i giudici amministrativi, con l'istituzione
della Banca dati nazionale unica della documentazione
antimafia (prevista dalla legge 136/2010, ossia il Piano
straordinario antimafia). In essa c'è una vera e propria
mappatura delle imprese, comprensiva anche delle informative interdittive, espressamente riferite «a tutti i rapporti».
Nella pratica, dunque, anche quando si tratta di attività
soggette ad autorizzazione, in cui al basta una
comunicazione antimafia, il prefetto può comunque eseguire
gli accertamenti tipici dell'informativa invece di limitarsi
a riscontrare semplicemente l'assenza di misure definitive
di prevenzione o di condanne. Ciò estende la possibilità per
lo Stato di non riconoscere, come operatori economici, i
soggetti a rischio di legami mafiosi: non più soltanto
quando essi debbano stipulare contratti con una pubblica
amministrazione, ma anche quando essi svolgano attività che
devono essere autorizzate dall'amministrazione.
«L'ordinamento», ha sancito il Consiglio di stato, «non
riconosce dignità e statuto di imprenditore economico a
soggetti condizionati, infiltrati, controllati da
organizzazioni mafiose, poiché l'interesse pubblico generale
è nel senso di preservare la legalità nel tessuto
dell'economia reale, proteggendola dall'inquinamento
pervasivo criminale»: il timore che «estendendo
l'applicazione delle informative antimafia alle attività
economiche soggette al regime autorizzatorio, si schiuda la
via all'arbitrio dell'autorità prefettizia nella valutazione
della permeabilità mafiosa e quindi anche nell'accesso alle
attività economiche (solo) private -si legge nella sentenza-
è del tutto infondato poiché la valutazione prefettizia deve
sempre fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti che
consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo
di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo,
oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale,
apprezzamento dei fatti»
(articolo ItaliaOggi dell'11.02.2017). |
APPALTI:
L'art. 38, comma 1, lett. b) e c), D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato dalla
legge 12.07.2011, n. 106, di conversione del D.L.
70/2011, laddove circoscrive l'obbligo di verifica della
sussistenza dei requisiti di moralità professionale, al
socio unico “persona fisica”, non offre alcuna ambiguità
interpretativa; pertanto, il socio unico "persona giuridica"
non può che ritenersi escluso dal novero dei soggetti tenuti
a rendere le dichiarazioni in parola pur dovendosi dare atto
che una previsione di tal fatta può consentire elusioni
tramite la creazione di società prive di uno scopo reale o
società-schermo.
La giurisprudenza è pressoché unitariamente attestata su
tale interpretazione, che il Collegio ritiene
doverosamente condivisibile in ossequio al principio per cui in claris non fit interpretatio.
D’altra parte la pronuncia del TAR lombardo, invocata dalla
ricorrente, è rimasta un caso isolato atteso che lo stesso
Tribunale, stessa sezione e stesso collegio, pochi giorni
prima, si era espresso nel senso che l'obbligo dichiarativo
posto dall'art. 38, D.Lgs. 163/2006, a carico del socio di
maggioranza di società con meno di quattro soci deve
ritenersi circoscritto ai soli soci persone fisiche e non
anche al socio di maggioranza persona giuridica.
In ogni caso il Collegio rileva che, stante il principio di
tassatività delle cause di esclusione, giammai
l’amministrazione avrebbe potuto, senza incorrere (in quel
caso si) in violazione di legge, escludere una concorrente
sulla base di una interpretazione normativa che sarebbe
risultata quanto mai discutibile, data la richiamata
inequivocabilità della norma in commento.
Invero, da una parte l’amministrazione non avrebbe avuto
alcun appiglio normativo, atteso che la lex specialis non ha
previsto alcuna deroga al disposto di legge, in ipotesi
ampliandone lo spettro applicativo, dall’altra, anche
qualora avesse inteso aderire all’interpretazione
prospettata ed auspicata dalla ricorrente, avrebbe dovuto
necessariamente attivare il c.d. soccorso istruttorio a
pagamento di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.Lgs. 163/2006.
----------------
3. Il ricorso non può essere accolto.
3.1. Nella memoria conclusiva la ricorrente si è soffermata
lungamente (da pag. 5 a pag. 21) sulle ragioni per le quali,
a suo dire, l’amministrazione avrebbe dovuto escludere la
controinteressata per la mancata presentazione delle
dichiarazioni ex art. 38 D.Lgs. 163/2006 da parte del socio
unico persona giuridica; ha poi riproposto quasi
pedissequamente le argomentazioni sviluppate nel secondo
motivo di ricorso. Ha, invece, sostanzialmente abbandonato
le ulteriori censure minoritarie, risultate peraltro
smentite in punto di fatto.
Quanto al primo motivo, in particolare, la ricorrente assume
come dato di partenza il fatto che il capitale sociale di
Se.Gr. S.r.l. è interamente in capo ad un unico
soggetto, Se.Se. S.r.l., il cui capitale sociale,
a sua volta, è ripartito, in quote uguali del 50%, ai
Sigg.ri Ma.Fi. e Om.Me. (doc. 20 del
fascicolo della ricorrente).
Tali soggetti sarebbero qualificabili "socio di maggioranza
in caso di società con meno di 4 soci" per i quali la legge
impone il possesso dei requisiti generali di cui all'art. 38 D.Lgs. 163/2006 e la relativa dichiarazione.
Ciò posto, preso atto che i suddetti soggetti, che
rappresentano il socio unico, e l'amministratore unico, Sig.
Ce., della società titolare dell'intero capitale sociale
della aggiudicataria, non hanno presentato le dichiarazioni
di cui all'art. 38, comma 1, lett. b), c), m-ter), del
richiamato codice dei contratti, la ricorrente sostiene che
l’amministrazione avrebbe dovuto escludere Se.Gr.
S.r.l. in ossequio all'art. 38, comma 1, lett. b), c) e m-ter), che estende l'operatività delle cause di esclusione
e quindi i relativi obblighi di attestazione, anche al socio
unico persona fisica o al socio di maggioranza in caso di
società con meno di 4 soci, nel caso il concorrente sia una
società di capitali.
La questione, secondo la ricorrente, si incentra sul
significato da attribuire alla locuzione "persona fisica",
con cui la norma definisce il socio unico del soggetto che
partecipa alla gara, significato che non potrebbe essere
quello fatto palese dalla lettura testuale della norma in
discorso, come ritenuto dal Collegio in sede di delibazione
sommaria, bensì dovrebbe essere inteso in modo più elastico
ed estensivo sì da far ricadere tale obbligo anche sul socio
unico “persona giuridica”.
Secondo la ricorrente l’interpretazione letterale della
norma in commento, pur seguita dalla giurisprudenza
prevalente, si porrebbe in contrasto con la stessa ratio ad
essa sottesa, nel senso che consentirebbe l’elusione di
principi comunitari e costituzionali.
Di conseguenza la ricorrente propugna una diversa
interpretazione, fatta propria dal TAR Lombardia, Milano,
Sez. IV, con la sentenza 29.06.2015, n. 1507, e conclude
che, seguendo tale diversa interpretazione, la controinteressata dovrebbe essere esclusa dalla gara.
3.2. La tesi della ricorrente non può essere condivisa.
Innanzitutto deve rilevarsi che l'art. 38, comma 1, lett. b)
e c), D.Lgs. n. 163 del 2006, nel testo modificato dalla
legge 12.07.2011, n. 106, di conversione del D.L.
70/2011, laddove circoscrive l'obbligo di verifica della
sussistenza dei requisiti di moralità professionale, al
socio unico “persona fisica”, non offre alcuna ambiguità
interpretativa; pertanto, il socio unico "persona giuridica"
non può che ritenersi escluso dal novero dei soggetti tenuti
a rendere le dichiarazioni in parola pur dovendosi dare atto
che una previsione di tal fatta può consentire elusioni
tramite la creazione di società prive di uno scopo reale o
società-schermo (Cons. Stato, Sez. V, 21.04.2016, n.
1593).
La giurisprudenza è pressoché unitariamente attestata su
tale interpretazione (v. TAR Friuli-Venezia Giulia, 13.07.2016, n. 345; TAR Sicilia, Palermo, sez. I,
05.11.2015, n. 2849), che il Collegio ritiene
doverosamente condivisibile in ossequio al principio per cui
in claris non fit interpretatio.
D’altra parte la pronuncia del TAR lombardo, invocata dalla
ricorrente, è rimasta un caso isolato atteso che lo stesso
Tribunale, stessa sezione e stesso collegio, pochi giorni
prima, si era espresso nel senso che l'obbligo dichiarativo
posto dall'art. 38, D.Lgs. 163/2006, a carico del socio di
maggioranza di società con meno di quattro soci deve
ritenersi circoscritto ai soli soci persone fisiche e non
anche al socio di maggioranza persona giuridica (TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 01.06.2015, n. 1287).
In ogni caso il Collegio rileva che, stante il principio di
tassatività delle cause di esclusione, giammai
l’amministrazione avrebbe potuto, senza incorrere (in quel
caso si) in violazione di legge, escludere una concorrente
sulla base di una interpretazione normativa che sarebbe
risultata quanto mai discutibile, data la richiamata
inequivocabilità della norma in commento.
Invero, da una parte l’amministrazione non avrebbe avuto
alcun appiglio normativo, atteso che la lex specialis non ha
previsto alcuna deroga al disposto di legge, in ipotesi
ampliandone lo spettro applicativo, dall’altra, anche
qualora avesse inteso aderire all’interpretazione
prospettata ed auspicata dalla ricorrente, avrebbe dovuto
necessariamente attivare il c.d. soccorso istruttorio a
pagamento di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.Lgs.
163/2006
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 08.02.2017 n. 2131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La tesi secondo cui
l’affidabilità complessiva dell’offerta non andrebbe
riguardata con riferimento al permanere dell’utile di
impresa ma valutando aspetti singolarmente considerati,
quali il costo del lavoro in rapporto alle ore lavorate
ovvero agli scatti di anzianità e alle turnazioni, non può
essere condivisa.
Segnatamente, nel richiamare l’ormai granitico principio per
cui la sostenibilità dell’offerta va valutata nel suo
complesso e non parcellizzandola nelle singole componenti,
il Collegio rileva che è proprio la sussistenza di un utile
di impresa, anche esiguo, a rendere, in definitiva, congrua
l’offerta.
E’ necessario, infatti, che all'esito dell'analisi delle
voci di costo il margine rimanga comunque positivo atteso
che neanche l'esiguità dell'utile (comunque positivo) può
essere ex se assunta quale ragione dirimente per affermare
il carattere incongruo dell'offerta, laddove non si
alleghino circostanze puntuali atte a dimostrare che il
ridotto margine di utile costituisca comunque, e in base a
specifici elementi, un indice univoco del carattere
inattendibile dell'offerta.
---------------
Il giudizio di anomalia
dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità
tecnica di esclusiva pertinenza dell'amministrazione ed
esula dalla competenza del giudice amministrativo, che può
sindacare le valutazioni della P.A. solo in caso di
macroscopiche illegittimità, quali gravi errori di
valutazione, ovvero valutazioni abnormi o inficiate da
errori di fatto; in tal caso, il giudice di legittimità
esercita il proprio sindacato, ferma restando
l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello
dell'amministrazione e di procedere ad una autonoma verifica
della congruità dell'offerta e delle singole voci, che
costituirebbe un'inammissibile invasione della sfera della P.A..
La valutazione, inoltre, deve essere globale e sintetica e
non concentrata esclusivamente e in modo parcellizzato sulle
singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo
dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità
dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci
che lo compongono.
----------------
3.3. Con il secondo motivo la ricorrente sostiene
l’incongruità dell'offerta della controinteressata,
soprattutto con riferimento al costo del lavoro indicato,
che rappresenterebbe la voce prevalente nell'economia
complessiva del servizio posto in gara.
In particolare la ricorrente si sofferma in prima battuta
sul numero di ore annue (14.010), delle 44.460 previste dal
bando, che Se. ha dichiarato di voler far eseguire a
personale di nuova assunzione, quindi beneficiando di costi
orari ridotti e di sgravi fiscali e contributivi, e conclude
che si tratterebbe di stima errata per difetto non essendo
possibile destinare soltanto 30.450 ore annue al personale
da riassorbire, ai sensi dell'art. 10 del disciplinare di
gara.
Per sostenere la sua tesi la ricorrente si affida ad una
serie di calcoli basati sul coefficiente dettato dalla
contrattazione collettiva, per concludere che, per i 19
addetti al servizio che dovrà assumere, la aggiudicataria
non potrà beneficiare di alcuno sgravio fiscale
contributivo, né li potrà inquadrare ad un livello inferiore
a quello che già posseggono in base al trattamento normativo
ed economico goduto con l'impresa uscente.
Da tale calcolo risulterebbe che le ore da far eseguire
necessariamente al personale riassorbito ammontano a 32.205
annue (1695 x 19) e non alle 30.450 annue dichiarate da
Se., con la conseguenza che le ore potenzialmente
attribuibili al personale di nuova assunzione, dunque
avvalendosi di sgravi fiscali e contributivi, ammontano a
12.255 e non a 14.010, come rappresentato dalla
controinteressata.
Un secondo profilo di insostenibilità dell’offerta
riguarderebbe il costo orario indicato, con riferimento alla
turnazione e alla gestione degli scatti di anzianità.
Anche in questo caso la ricorrente si affida ad una serie di
calcoli dai quali alla fine desume che risulterebbe un
totale di ore da attribuire al personale riassorbito pari a
34.856, dato superiore a quello di 30.450 dichiarato da
Se., per cui l'incidenza del costo orario dichiarata a
giustificazione della propria offerta sarebbe fuorviante.
Dalle argomentazioni fin qui sintetizzate la ricorrente
ricava l’incongruità dell’offerta della controinteressata
che, nella memoria conclusiva, sostiene risiedere non
nell’abbattimento dell’utile ma nel mancato rispetto dei
trattamenti minimi salariali.
3.4. Il motivo, così come prospettato, è infondato.
La tesi della ricorrente secondo cui, in sostanza,
l’affidabilità complessiva dell’offerta non andrebbe
riguardata con riferimento al permanere dell’utile di
impresa ma valutando aspetti singolarmente considerati,
quali il costo del lavoro in rapporto alle ore lavorate
ovvero agli scatti di anzianità e alle turnazioni, non può
essere condivisa.
Segnatamente, nel richiamare l’ormai granitico principio per
cui la sostenibilità dell’offerta va valutata nel suo
complesso e non parcellizzandola nelle singole componenti,
il Collegio rileva che è proprio la sussistenza di un utile
di impresa, anche esiguo, a rendere, in definitiva, congrua
l’offerta.
E’ necessario, infatti, che all'esito dell'analisi delle
voci di costo il margine rimanga comunque positivo atteso
che neanche l'esiguità dell'utile (comunque positivo) può
essere ex se assunta quale ragione dirimente per affermare
il carattere incongruo dell'offerta, laddove non si
alleghino circostanze puntuali atte a dimostrare che il
ridotto margine di utile costituisca comunque, e in base a
specifici elementi, un indice univoco del carattere
inattendibile dell'offerta (Cons. Stato, sez. V, 31.10.2016, n. 4562; id. 20.07.2016, n. 3271).
Nel caso di specie la ricorrente si sofferma ad analizzare
solo singole voci dell’offerta della controinteressata, in
rapporto alle giustificazioni addotte, ma non offre elementi
utili a dimostrare che l’utile della stessa ne risulti
azzerato o talmente esiguo da rendere inverosimile
l’offerta, né tanto meno allega macroscopiche illegittimità
commesse dall’amministrazione in termini di gravi errori di
valutazione o di oggettivi errori di fatto.
Il Collegio deve ricordare che il giudizio di anomalia
dell'offerta costituisce espressione di discrezionalità
tecnica di esclusiva pertinenza dell'amministrazione ed
esula dalla competenza del giudice amministrativo, che può
sindacare le valutazioni della P.A. solo in caso di
macroscopiche illegittimità, quali gravi errori di
valutazione, ovvero valutazioni abnormi o inficiate da
errori di fatto; in tal caso, il giudice di legittimità
esercita il proprio sindacato, ferma restando
l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello
dell'amministrazione e di procedere ad una autonoma verifica
della congruità dell'offerta e delle singole voci, che
costituirebbe un'inammissibile invasione della sfera della
P.A..
La valutazione, inoltre, deve essere globale e sintetica e
non concentrata esclusivamente e in modo parcellizzato sulle
singole voci di prezzo, dal momento che l'obiettivo
dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità
dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci
che lo compongono (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.11.2016, n. 4755; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
06.10.2016, n. 4619; Cons. Stato, sez. V, 13.09.2016, n.
3855).
Conclusivamente, per quanto precede, il ricorso deve essere
respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 08.02.2017 n. 2131 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Permanenza dell’interesse alla decisione del ricorso avverso
l’ammissione di altro concorrente anche dopo che il
ricorrente si è aggiudicato la gara.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione
concorrente in gara – Impugnazione immediata – Art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. – Necessità - Operatore economico
collocatosi in graduatoria in posizione potiore rispetto al
ricorrente stesso – Irrilevanza ex se.
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione
concorrente in gara – Impugnazione immediata – Art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. – Ricorrente risultato poi
aggiudicatario – Permane l’interesse.
Ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è
ammissibile il ricorso proposto nei confronti dell’operatore
economico collocatosi in graduatoria in posizione potiore
rispetto al ricorrente stesso, ritenendo sussistente un suo
interesse simile, simmetrico e simultaneo, a contestare
l’ammissione dell’altro concorrente, per non incorrere nella
successiva preclusione prevista dalla stessa norma (1).
Permane l’interesse al ricorso proposto, ai sensi dell’art.
120, comma 2-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, dal concorrente ad una gara pubblica
avverso l’ammissione alla procedura di altro concorrente
anche nel caso in cui il ricorrente stesso si sia nelle more
aggiudicato la gara (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il legislatore del nuovo Codice dei
contratti, derogando al principio dettato dall’art. 100
c.p.c., secondo cui “per proporre una domanda o per
contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”,
ed innovando rispetto alla granitica giurisprudenza
amministrativa in merito, ha onerato tutti i partecipanti ad
una gara dell’impugnazione immediata delle ammissioni in una
fase antecedente al sorgere della lesione concreta e attuale
data dall’aggiudicazione, in ragione dell’impossibilità a
far valere poi i profili inerenti all’illegittimità di tali
determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale,
proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata
impugnata l’aggiudicazione; ciò, nella precipua ottica di
cristallizzare e rendere intangibile la fase di gara
relativa agli operatori economici ammessi a partecipare,
ovvero, in altri termini, “a definire la platea dei soggetti
ammessi alla gara” (parere
Consiglio di Stato, comm. spec., 01.04.2016, n. 855),
in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla
conseguente aggiudicazione, evitando così un possibile
annullamento dell’affidamento per un vizio a monte della
procedura.
(2) Ha chiarito il Tar che deve ritenersi ormai superata, per
effetto del nuovo “super accelerato” rito appalti,
l’orientamento tradizionale secondo cui se in corso di causa
dovesse intervenire un fatto esterno incidente
sull’interesse a ricorrere facendo venir meno l’utilità del
ricorso anticipato (come l’aggiudicazione allo stesso
ricorrente), l’azione diventerebbe improcedibile per
sopravvenuto difetto di interesse, perché ormai incapace di
portare un distinto vantaggio al ricorrente, meglio
soddisfatto con il bene finale.
Ad avviso del Tar Lazio tale conclusione deve essere rivista
alla luce dell’eccezionalità del nuovo rito, che ha definito
un modello complessivo di contenzioso appalti a duplice
sequenza, in cui il nuovo sottosistema accelerato viene
disgiunto da quello successivo delle impugnazioni per altri
vizi della procedura di gara (es. vizi del bando, della
composizione della commissione, della documentazione
prodotta ma verificata dopo l’aggiudicazione, dell’offerta
stessa), ovvero per vizi relativi all’esito oggettivo della
stessa.
Ed invero, se l’omessa impugnazione dell’ammissione degli
altri concorrenti fa consumare il potere di dedurre le
relative censure in sede di impugnazione
dell’aggiudicazione, parimenti tali censure non potranno
essere mosse dall’aggiudicatario che volesse paralizzare,
con lo strumento del ricorso incidentale, quello principale
proposto avverso l’affidamento dell’appalto, allorquando non
abbia tempestivamente esercitato detto potere ai sensi
dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a..
Dichiarare, allora, il ricorso inammissibile, recte
improcedibile, in ragione del raggiungimento del bene ultimo
dell’aggiudicazione da parte del ricorrente, e quindi del
mancato ottenimento di ulteriori benefici dall’esclusione
dei controinteressati, non utilmente collocati –secondo la
regola classica– comporterebbe da ultimo una situazione
alquanto singolare, ove non del tutto violativa del diritto
di difesa, per cui il ricorrente aggiudicatario si vedrebbe
precluso l’esame delle proprie doglianze nei confronti degli
altri concorrenti, i quali, invece, ben potrebbero ottenere
l’accoglimento delle proprie ragioni contro l’ammissione del
ricorrente, ed in via derivata, l’aggiudicazione ottenuta.
In altri termini, in ragione della separazione delle due
fasi processuali, cui corrispondono anche riti diversi, la
successiva aggiudicazione non può ritenersi tale da incidere
sull’interesse a ricorrere ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a.
non essendo venuta meno l’utilità (o la ratio) del
ricorso anticipato (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 08.02.2017 n. 2118
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Potere di sospensione del procedimento – Effetti
immotivati o sine die – Divieto – Cause di interruzione o
sospensione del termine - Tipicità – Artt. 7, c. 2 e
21-quater l. n. 241/1990.
Il potere di sospensione del procedimento che deve
riconoscersi in capo all’Amministrazione, non consente la
determinazione di effetti sospensivi immotivati o sine
die. Dal tenore degli artt. 7, c. 2 e 21-quater della l.
n. 241/1990, infatti, si rileva che, pur circondata dai
necessari presupposti delle "gravi ragioni"
necessarie per la sua emanazione e del "tempo
strettamente necessario" entro il quale può essere
disposta, la sospensione di precedenti provvedimenti riveste
un carattere pur sempre eccezionale atteso che un potere
generalizzato di sospensione dell'efficacia degli atti
amministrativi compete -in presenza di diversi presupposti-
unicamente al giudice amministrativo in sede di tutela
cautelare.
In definitiva, le cause di interruzione o sospensione del
termine assegnato all'Amministrazione per provvedere
sull'istanza del privato finalizzate all'adozione di un
determinato provvedimento, sono tipiche e di stretta
interpretazione e non lasciano spazio a sospensioni “sine
die” motivate da qualsivoglia esigenza estranea al
paradigma normativo che regola l'attività amministrativa (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 08.02.2017 n. 91
- link a www.ambientediritto.it). |
PATRIMONIO: Manutenzione di strade e responsabilità.
E' in colpa la pubblica amministrazione
la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza
delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie
pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli
utenti della strada, né provveda ad inibirne l'uso
generalizzato.
Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa
manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è
di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità
dell'amministrazione comunale, se per la destinazione
dell'area o perle sue condizioni oggettive,
l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione.
---------------
4.3. La memoria depositata dal Comune di San Giovanni
Rotondo deduce altresì, quanto al merito dell'impugnazione,
che:
- il giudice di merito non ha mai accertato se la strada ove
avvenne il fatto fosse di uso pubblico o meno;
- il relativo accertamento costituisce oggetto di un apprezzamento
di fatto;
- conseguentemente, esso non è censurabile in sede di legittimità.
Tali deduzioni sono in tesi corrette, ma non pertinenti
rispetto al presente giudizio: esse, pertanto, non
consentono di rigettare il ricorso.
La Corte d'appello di Bari, infatti, ha rigettato la domanda
sul presupposto che la vittima patì lesioni cadendo su una
strada di proprietà privata.
I ricorrenti hanno impugnato tale statuizione, deducendo che
il Comune ha il dovere di vigilare e manutenere anche le are
private aperte al pubblico transito di veicoli e pedoni.
Tale deduzione è sostanzialmente corretta, per le ragioni
già indicate dalla relazione preliminare, e sopra
trascritte.
Ne consegue che oggetto del terzo motivo di ricorso non è
una quaestio facti (la proprietà privata o pubblica
di un'area), ma una quaestio iuris (stabilire se
l'obbligo di custodia gravante sull'amministrazione locale
si estenda alle aree aperte al pubblico transito ma di
proprietà privata).
4.4. Il ricorso
deve quindi essere accolto limitatamente al terzo motivo.
Il giudice di rinvio, nel riesaminare la domanda, si atterrà
al seguente principio di diritto: "E' in
colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla
manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di
proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da
esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada, né
provveda ad inibirne l'uso generalizzato. Ne consegue che,
nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una
strada, la natura privata di questa non è di per sé
sufficiente ad escludere la responsabilità
dell'amministrazione comunale, se per la destinazione
dell'area o perle sue condizioni oggettive,
l'amministrazione era tenuta alla sua manutenzione"
(Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 07.02.2017 n. 3216). |
APPALTI:
Ricorso cumulativo nel rito appalti.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorso
cumulativo – Avverso le singole aggiudicazioni di più lotti
– Inammissibilità – Limiti.
Ai sensi dell’art. 120, comma
11-bis, c.p.a., aggiunto dall’art. 204, d.lgs. 18.04.2016,
n. 50, è inammissibile il motivo di ricorso, proposto
avverso l’aggiudicazione di più lotti, volto a contestare la
validità e la congruenza delle offerte economiche presentate
dalle concorrenti in relazione ai singoli lotti oggetto di
aggiudicazione, essendo nel rito appalti tale ricorso
cumulativo tollerato soltanto nell'ipotesi in cui vi sia
articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare
segmenti procedurali comuni (1).
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(1)
Ha chiarito il Trga Bolzano che il comma 11-bis dell’art.
120 c.p.a. ha recepito l’indirizzo giurisprudenziale
consolidatosi già prima dell'entrata in vigore del nuovo
codice degli appalti, alla stregua del quale in via
eccezionale, è ammesso il gravame di più atti, con un solo
ricorso, solo quando tra di essi sia ravvisabile una
connessione procedimentale o funzionale (da accertarsi in
modo rigoroso onde evitare la confusione di controversie con
conseguente aggravio dei tempi del processo, ovvero l'abuso
dello strumento processuale per eludere le disposizioni
fiscali in materia di contributo unificato), tale da
giustificare la proposizione di un ricorso cumulativo (Cons.
St., Ad. plenaria, 27.04.2015, n. 5; id.,
sez. V, 13.06.2016, n. 2543; id.
26.08.2014, n. 4277;
Tar Milano, sez. I, 12.01.2017, n. 69).
Nel contenzioso appalti, dunque, il ricorso cumulativo che
investa più aggiudicazioni (relative a più lotti, assegnati
a diverse imprese concorrenti) è tollerato dall'ordinamento,
come eccezione alla regola dei ricorsi separati e distinti,
soltanto nell'ipotesi in cui vi sia articolazione, nel
gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali
comuni (ad esempio il bando, il disciplinare di gara, la
composizione della commissione giudicatrice, la
determinazione di criteri di valutazione delle offerte
tecniche ecc.) alle differenti e successive fasi di scelta
delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a
caducare le pertinenti aggiudicazioni. In questa situazione,
infatti, si verifica una identità di causa petendi e
una articolazione del petitum che, tuttavia, risulta
giustificata dalla riferibilità delle diverse domande di
annullamento alle medesime ragioni fondanti la pretesa
demolitoria, che, a sua, volta ne legittima la trattazione
congiunta.
Data la premessa il Tribunale, di tutti i motivi rivolti
avverso le singole aggiudicazioni dei diversi lotti, ha
giudicato ammissibile il solo motivo con il quale è stata
denunciata errata applicazione di una disposizione del
disciplinare di gara che si assume aver determinato la “retrocessione”
della ricorrente in posizione non utile ai fini
dell’aggiudicazione di due lotti assegnati alle imprese
controinteressate (TRGA
Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 07.02.2017 n. 46
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
edilizi, «grazia» dal Comune. L’esecuzione della condanna
neutralizzata anche da un piano futuro.
Cassazione. Stop dei giudici alla demolizione del manufatto
gestita in sede penale come pena accessoria.
Nuovi spiragli per chi ha commesso modesti abusi
edilizi, subendo una condanna penale e rimanendo esposto
alla demolizione attuata dallo stesso magistrato penale.
È la conseguenza della
sentenza
06.02.2017 n. 5454, depositata dalla III Sez. penale
della Corte di Cassazione. Si può infatti chiedere una
sospensione in attesa di modifica del piano urbanistico.
L’autore di un abuso era stato condannato con emissione,
quale sanzione amministrativa accessoria, dell’ordine di
demolizione. L’esecuzione penale (art. 31, co. 9, Dpr
380/2001) avviene sotto la vigilanza della magistratura, che
utilizza ausiliari tecnici e seleziona imprese. Procedura
insidiosa perché tra l’altro non è soggetta a prescrizione
(Cass. pen. 20.01.2016 n. 9949) e non esige la collaborazione
del Comune.
Dopo la condanna il giudice penale aveva
nominato un perito, che aveva individuato le modalità
esecutive; ma nel frattempo, l’autore dell’abuso aveva
chiesto la sospensione dell’esecuzione penale, sostenendo
che appariva probabile l’approvazione di una sua richiesta
di rilascio di permesso a costruire, a sua volta connessa a
una pianificazione in corso di approvazione. Il giudice
dell’esecuzione penale non aveva sospeso la riduzione in
pristino, sicché era imminente l’affidamento dei lavori per
l’eliminazione dell’abuso.
Eppure, osservava l’interessato,
si trattava di sanatoria di “opere minori”, quali il
ripristino di originarie tramezzature e la tamponatura di 3
finestre, per le quali era ragionevolmente prevedibile un
esito favorevole del procedimento amministrativo di
sanatoria.
Si è giunti in Cassazione, impugnando il diniego
di sospensione dell’esecuzione, con esito favorevole al
condannato, in quanto la Cassazione ricorda che in caso di
condanna per manufatti edilizi privi di concessione,
l’ordine giudiziale di demolizione delle opere deve essere
sempre mantenuto, salvo che non risulti che la demolizione
sia già avvenuta, che l’abuso sia stato sanato sotto il
profilo urbanistico o che il consiglio comunale abbia
deliberato che le opere devono essere conservate in funzione
di interessi pubblici prevalenti sugli interessi urbanistici
(art. 36, co. 5, del Dpr n. 380/2001).
Ma, sottolinea la
Cassazione, basta anche ipotizzare una futura adozione di
una delibera comunale incompatibile con la prescritta
demolizione delle opere per ottenere una sospensione
dell’intervento del giudice penale. La novità della
pronuncia consiste nell’ammettere la sospensione non solo se
già esistano provvedimenti amministrativi incompatibili con
essa, ma anche se vi è il mero avvio di una procedura
destinata poi ad evolversi in adozione.
Anche prima della
revoca dell’esecuzione, può essere una semplice sospensione
della sua esecutività, cioè un provvedimento temporaneo che
può essere disposto già quando, appunto, sia concretamente
prevedibile l’emissione, entro breve tempo, di atti
amministrativi incompatibili con il provvedimento demolitorio
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Pescara Fi.An. De Ce. fu
condannato per reati in materia edilizia, con emissione,
quale sanzione amministrativa accessoria, dell'ordine di
demolizione dei manufatti abusivi.
2. Con successiva istanza, formulata in executivis,
lo stesso De Ce. chiese la sospensione dell'ordine di
demolizione; istanza respinta con ordinanza in data
26/01/2016 dal Tribunale di Pescara, in qualità di giudice
dell'esecuzione.
Dopo avere premesso che il perito, nominato nel procedimento
di esecuzione, aveva rassegnato le sue conclusioni
relativamente "alle modalità esecutive anche con
riferimento al ripristino dei luoghi ed alla necessità di un
piano esecutivo e di sicurezza", il tribunale abruzzese
affermò che le questioni relative alla "eseguibilità
della pronuncia" dovevano, allo stato, considerarsi "risolte".
Quindi, il giudice dell'esecuzione rilevò che l'istante si
era limitato a prospettare, a supporto della richiesta di
sospensione, la probabile approvazione di una recente
richiesta di rilascio di permesso a costruire, da valutare
anche alla luce di pianificazione in corso di approvazione.
Pertanto, rilevando l'insussistenza di alcuno dei casi per i
quali il procedimento esecutivo avrebbe potuto essere
sospeso, non essendo emersa alcuna situazione di
incompatibilità dell'esecuzione dell'ordine di demolizione
con atti nel frattempo adottati dalla pubblica
amministrazione, il tribunale, "approvati i progetti
redatti dall'arch. D'An.", dichiarò la chiusura
dell'incidente di esecuzione, mandando al Pubblico ministero
per quanto di competenza.
3. Avverso l'ordinanza in esame, De Ce. propone ricorso per
cassazione, a mezzo dei difensori fiduciari, deducendo due
distinti motivi di impugnazione.
Con il primo vengono dedotti, ai sensi dell'art. 606, comma
1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., i vizi di mancanza di
motivazione e di vizio di violazione di legge per avere la
decisione omesso di vagliare alcune acquisizioni
procedimentali.
Dopo aver ricordato l'obbligo di motivazione incombente
sull'ordinanza emessa in executivis, il ricorrente
denuncia la mancata disamina di una serie di deduzioni,
prospettate in esordio dell'udienza del 18/12/2015, in
relazione alla possibile sanatoria delle cd. "opere
minori", previste come necessarie al ripristino delle
originarie tramezzature al piano terra ed al primo piano e
della tamponatura di n. 3 finestre al primo piano.
Opere che secondo la difesa avrebbero dovuto essere escluse
dall'intervento di demolizione in quanto sanabili in via
ordinaria a norma dell'art. 36 del DPR n. 380/2001, come
indicato dalla sentenza n. 121/2013 del TAR Abruzzo, Sezione
di Pescara, essendo già stata inoltrata la richiesta di un
permesso di costruire a sanatoria, avendo lo stesso Comune
di Pescara attestato la sanabilità delle opere in questione
ed essendo stata rilasciata l'autorizzazione paesaggistica
da parte della Sovrintendenza BB.AA. della Regione Abruzzo
in vista della sanatoria delle stesse. E peraltro, sulla
base del progetto esecutivo depositato dal perito, che si
era espresso a favore della effettiva sanabilità delle "opere
minori", era stata sollecitata la ripresa dell'iter
procedimentale delle richieste in questione.
Non rispondendo sulle questioni poste, il giudice
dell'esecuzione avrebbe omesso di pronunciarsi su un profilo
potenzialmente decisivo, dovendo farsi luogo alla
sospensione del'esecuzione quando sia ragionevolmente
prevedibile il prossimo esaurimento del procedimento
amministrativo conseguente alla istanza di sanatoria.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce di avere chiesto
la sospensione dell'ordine di demolizione e del procedimento
di esecuzione alla luce del disposto dell'art. 5, comma 25,
del Piano demaniale marittimo, adottato dalla Regione
Abruzzo con delibera consiliare n. 20/4 del 24.02.2015, in
attuazione dell'art. 2 della legge della Regione Abruzzo
17.12.1997, n. 141 ("Norme per l'attuazione delle
funzioni amministrative in materia di demanio marittimo con
finalità turistiche e ricreative").
In base al piano regionale, l'immobile per cui è processo
sarebbe realizzabile, sul piano urbanistico, nel rispetto
delle prescrizioni date dalla competente Soprintendenza BBCC,
sicché la società del ricorrente avrebbe presentato istanza
di permesso a costruire in data 17/12/2015, chiedendo al
giudice dell'esecuzione di sospendere il giudizio ove avesse
valutato potenzialmente accoglibile, se del caso previa
richiesta al perito nominato, la domanda di permesso a
costruire già proposta. E tuttavia, il giudice
dell'esecuzione, ancora una volta, non avrebbe in alcun modo
trattato la questione posta dal ricorrente, sicché
l'ordinanza sarebbe affetta, anche sotto tale profilo, da
grave vizio della motivazione.
4. Con requisitoria scritta depositata il 17/06/2016, il
Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso
chiedendo l'annullamento della ordinanza impugnata con
rinvio al Tribunale di Pescara, in funzione di giudice
dell'esecuzione, per un nuovo giudizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
2. Il giudice della esecuzione, dopo avere esaminato la
relazione prodotta dal perito, arch. D'An., concernente le
modalità esecutive della disposta demolizione, del
ripristino dello stato dei luoghi e della previsione di un
piano esecutivo di sicurezza, ha escluso che sussistesse
alcuno dei casi per i quali il procedimento esecutivo debba
essere sospeso, dichiarando "chiuso l'incidente di
esecuzione" e "mandando al P.M. per quanto di
competenza".
Rileva, nondimeno, il Collegio che
in caso di condanna per la realizzazione di manufatti
edilizi in assenza di concessione, l'ordine giudiziale di
demolizione delle opere deve essere sempre mantenuto, salvo
che non risulti che la demolizione sia già avvenuta, che
l'abuso sia stato sanato sotto il profilo urbanistico o che
il consiglio comunale territorialmente competente abbia
deliberato che le opere devono essere conservate in funzione
di interessi pubblici prevalenti sugli interessi urbanistici
ai sensi dell'art. 36, comma 5, del DPR n. 380/2001.
Orbene, l'ordinanza gravata, emessa all'esito di un'istruttoria nel corso
della quale è emersa la presentazione di una richiesta di
rilascio di permesso di costruire e di una pianificazione in
corso di approvazione, "ha dichiarato chiuso l'incidente",
con ciò respingendo la richiesta di sospensione dell'ordine
di demolizione, senza in alcun modo motivare sulla questione
essenziale prima evidenziata; ovvero se alla stregua della
documentazione amministrativa acquisita potesse ipotizzarsi
la futura adozione di una delibera comunale incompatibile
con la prescritta demolizione delle opere.
In questo modo, la motivazione dell'ordinanza ha totalmente
omesso di esplicitare per quale motivo dovesse escludersi
non già l'esistenza di provvedimenti amministrativi
incompatibili con la esecuzione della demolizione, allo
stato da escludersi, quanto piuttosto l'avvio di una
procedura, verosimilmente destinata ad evolversi nel senso
dell'adozione dei citati provvedimenti, soprattutto
considerando che oggetto dell'istanza era non già
l'eventuale revoca dell'ordine di demolizione, quanto
piuttosto una semplice sospensione della sua esecutività,
che può essere disposta quando, appunto, sia concretamente
prevedibile l'emissione, entro breve tempo, di atti
amministrativi incompatibili con il provvedimento
demolitorio. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Legno,
lo scarto di lavorazione va considerato rifiuto. Ambiente.
Il sottoprodotto va «provato».
Lo scarto di lavorazione
rappresentato dalla segatura e dai trucioli di legno è
rifiuto a meno che il loro produttore non dimostri che i
requisiti richiesti dalla legislazione ambientale per la
venuta a esistenza dei sottoprodotti siano soddisfatti.
In difetto, la sua cessione a terzi per lo smaltimento deve
necessariamente avvenire con le dovute autorizzazioni.
È questo il
principio di diritto espresso dalla III Sez. penale della
Corte di Cassazione che, con
sentenza
06.02.2017 n. 5442, ha giudicato fondato il ricorso
del Procuratore della Repubblica di Asti con annullamento,
per “violazione di legge”, della decisione assunta del
Tribunale locale.
Infatti, il Tribunale astigiano aveva negato
“apoditticamente” la qualifica di rifiuto alla segatura e ai
truciolati di legno che erano stati affidati ad una ditta
non autorizzata a gestire i rifiuti. Il Tribunale aveva
fondato l'assoluzione dell'imputato sul fatto che i
materiali lignei fossero costantemente ceduti ad altra
società “dietro fatturato pagamento di denaro”, anziché
riferirsi alla loro natura o alla loro destinazione “in
ragione delle intenzioni del detentore” (che, nel caso di
specie, coincideva con il produttore).
La Corte di cassazione, invece, ha condiviso l'approccio del
Pm ricorrente, sicché lo scarto assume qualifica di rifiuto
per il concretarsi di elementi positivi (l'oggetto di cui il
detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo di
disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza
dei requisiti richiesti dall’articolo 184-bis, Dlgs 152/2006
per la venuta a esistenza dei sottoprodotti). Al fine di
conseguire la trasfigurazione di un rifiuto in un
sottoprodotto, infatti, non basta certo “un mero accordo con
terzi ostensibile all'autorità (oppure creato proprio a tal
fine)”.
La Corte di Cassazione sottolinea, infatti, che l'esistenza
del rifiuto prescinde dal carattere oneroso o gratuito del
disfarsi Non è la gratuità della cessione che trasforma il
rifiuto in qualcosa che rifiuto non è. Nel momento in cui un
rifiuto diventa tale, il conferimento deve essere effettuato
da soggetti debitamente autorizzati alla relativa gestione.
La Corte riafferma che non ci si deve porre “nella sola
ottica del cessionario del prodotto e della valenza
economica” che costui attribuisce alla cosa “sì da essere
disposto a pagare per ottenerla”. Quel che occorre, invece,
è “verificare a monte” il rapporto tra il prodotto e il suo
produttore e, soprattutto, la sua necessità o volontà di
disfarsi del bene.
Diversamente, si creerebbero pericolose aree di impunità
dove numerose condotte, oggettivamente integranti una
fattispecie di reato, verrebbero ad essere dissimulate da
accordi “dolosamente preordinati” a privare il bene di una
qualifica che è stata acquisita a monte e che è
“insuscettibile di essere cancellata”.
Non è la prima volta
che la Corte di cassazione ascrive agli scarti delle
lavorazioni in legno, rappresentati da segatura e
truciolati, la qualifica di rifiuto. Infatti, ha affrontato
la questione più volte con numerose e risalenti sentenze,
tra le quali la stessa Corte cita: 51422/2014; 37208/2013;
48809/2012; 18743/2011 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017).
---------------
MASSIMO
3. Il ricorso è fondato.
Come noto, ai sensi dell'art. 183, comma 1,
lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, rifiuto è qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia
l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi; esattamente quel
che accade con gli scarti di produzione, come nel caso di
specie, salva la possibilità della diversa qualificazione in
sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d.lgs. n. 152 del
2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge,
invero neppure ipotizzati nella sentenza impugnata (a: la
sostanza o l'oggetto è originato da un processo di
produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui
scopo primario non è la produzione di tale sostanza od
oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà
utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo
processo di produzione o di utilizzazione, da parte del
produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può essere
utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento
diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore
utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa,
per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi
sull'ambiente o la salute umana).
Con particolare riferimento, poi, alla
segatura ed ai truciolati, scarti delle lavorazioni in legno
operate dalla "I. s.r.l.", la
giurisprudenza di questa Corte ne ha costantemente affermato
la natura di rifiuto
(ex plurimis, Sez. 3, n. 51422 del 06/11/2014, D'Itri;
Sez. 3, n. 37208 del 09/04/2013, Cartolano; Sez. 3, n. 48809
del 28/11/2012, Solimeno; Sez. 3, n. 18743 del 19/10/2011,
Rosati, tutte non massimate), salvi i casi in cui il citato
onere probatorio in senso contrario -all'evidenza incombente
sull'interessato- risulti soddisfatto.
Orbene, con riguardo al caso in esame, si osserva che
il Tribunale di Asti è in effetti incorso nella
denunciata violazione di legge, negando apoditticamente ai
materiali in esame la qualifica di rifiuto non già con
riguardo alla loro natura od alla loro destinazione in
ragione delle intenzioni del detentore (in questo caso,
coincidente con il produttore), ma facendo leva soltanto sul
fatto che fossero costantemente cedute ad altra società
dietro fatturato pagamento di danaro.
Il che, però, come
affermato dal Procuratore ricorrente, non
risulta sufficiente per escludere la natura medesima di
rifiuto, che, una volta acquisita in forza di elementi
positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia
l'intenzione o l'obbligo di disfarsi, quale residuo di
produzione) e negativi (assenza dei requisiti di
sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis sopra citato),
invero ravvisabili nel caso di specie, non vien certo
perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile
all'autorità (oppure creato proprio a tal fine), in questo
caso sub specie di cessione a titolo oneroso, come se il
negozio giuridico riguardasse l'oggetto stesso della
produzione e non -come in effetti- proprio un rifiuto.
Ciò, peraltro, a prescindere dal "valore" economico o
commerciale di questo, specie nell'ottica di chi in tal modo
ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura
privatistica; d'altronde, come affermato dal Procuratore
ricorrente e già sostenuto da questa Corte (Sez. 3, n. 15447
del 20/1/2015, Napolitano, non massimata), nell'indagine in
esame -volta all'accertamento dell'effettiva natura di
rifiuto- si deve evitare di porsi nella sola ottica del
cessionario del prodotto, e della valenza economica che allo
stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per
ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare "a monte"
il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e,
soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del
bene.
Opinare in termini diversi,
al pari del primo Giudice, comporterebbe
dunque la facile creazione di pericolose aree di impunità,
nelle quali numerose condotte oggettivamente integranti una
fattispecie di reato ben potrebbero esser dissimulate da
accordi -dolosamente preordinati- volti a privare il bene di
una particolare qualità, ex se rilevante sotto il
profilo penale, invero già "a monte" acquisita ed
insuscettibile di esser cancellata.
La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con
rinvio, affinché il Tribunale di Asti verifichi
compiutamente la natura del materiale di cui trattasi, con
ogni penale implicazione, a prescindere dagli accordi che,
con riguardo allo stesso, l'imputato abbia in effetti
raggiunto con terzi soggetti. |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità
«soft» per dirigenti all’edilizia. Non c’è l’obbligo
giuridico di impedire l’illecito ma è esigibile solo una
vigilanza a posteriori sulle irregolarità.
Responsabilità diluite per i
dirigenti dell’edilizia comunale che abbiano colposamente
rilasciato un permesso di costruire illegittimo: non vi è
infatti l’obbligo giuridico di impedire l’abuso edilizio.
A questa conclusione
giunge la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza
06.02.2017 n. 5439), applicando l’articolo 40, c. 2,
del codice penale, secondo cui chi non impedisce un evento è
ritenuto responsabile dell’evento stesso se aveva l’obbligo
di impedire ciò che è accaduto.
Il dirigente dell’area tecnica di un Comune che aveva
rilasciato un permesso di costruire illegittimo non è stato
perciò ritenuto responsabile della violazione edilizia
perché non aveva appunto l’obbligo di impedirla. Un conto è
la vigilanza sull’attività edilizia (art. 27 Dpr 380/2001),
cioè l’attività successiva al rilascio del titolo edilizio,
altro è l’attività di istruttoria e verifica, che avviene
prima del rilascio del permesso e termina con il permesso
medesimo.
La distinzione è stata applicata più volte: ad
esempio, si è esclusa la responsabilità penale del capo
dell’ufficio urbanistica in caso di «condotta commissiva»
(per aver emanato provvedimenti istruttori o definitivi:
Cass. 9281/2011), mentre scatta la responsabilità penale se,
dopo una denuncia, non sono emessi provvedimenti interdittivi e cautelari (sospensione lavori, Cass.
36571/2011).
Secondo la magistratura c’è quindi responsabilità
solo con specifica omissione, cioè il mancato compimento
dell’azione che ci si attendeva da parte di un soggetto
obbligato giuridicamente. Non c’è invece responsabilità
nell’ipotesi in cui l’agente ha adottato una condotta
«commissiva» anche se ha contribuito, con tale condotta,
alla produzione dell’evento.
In materia edilizia l’art. 27
del Dpr n. 380 pone a carico del responsabile del competente
ufficio comunale un obbligo di vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia per assicurarne la rispondenza alle
norme di legge e di regolamento, imponendogli di intervenire
se viene accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite
senza titolo o in difformità, attraverso la emanazione di
provvedimenti interdittivi e cautelari. Il tecnico è quindi
titolare di una posizione “di garanzia”, che gli impone di
attivarsi per impedire l’evento dannoso.
Tuttavia, se è
mancata una specifica denuncia (che avrebbe dovuto generare
una sospensione lavori), ma vi è una condotta commissiva (il
rilascio del permesso edilizio illegittimo), il tecnico
comunale non risponde penalmente.
La distinzione tra momento
del rilascio del permesso di costruire e quello del
controllo successivo (con responsabilità del dirigente solo
se manca il secondo), opera ovviamente nel caso in cui il
dirigente stesso non ha contribuito (con dolo o colpa grave)
a realizzare l’evento. In sintesi, se c’è un esposto su un
permesso di costruire illegittimo, c’è responsabilità del
dirigente che ometta di intervenire (articolo Il Sole 24 Ore del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è fondato.
2. Assorbente appare l'accoglimento del primo motivo di
ricorso, concernente la qualifica di soggetto attivo
dell'odierno ricorrente.
Invero, nonostante un risalente orientamento interpretativo
affermasse che, in materia edilizia, risponde del reato di
cui all'art. 20 della legge 28.02.1985 n. 47, ora sostituito
dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il dirigente
dell'area tecnica comunale che abbia rilasciato una
concessione edilizia (ora permesso di costruire)
illegittima, atteso che questi, in quanto incaricato in
ragione del proprio ufficio del rilascio di quello specifico
atto, è titolare in via diretta ed immediata della relativa
posizione di garanzia che trova il proprio fondamento
normativo nell'art. 40 cod. pen. (Sez. 3, n. 19566 del
25/03/2004, D'Ascanio ed altri, Rv. 228888), la
giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata nel
ritenere che non è configurabile, nel caso di rilascio di un
permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex
art. 40 cpv. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma
primo, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in capo al
dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune
in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque
dell'obbligo di impedire l'evento [Sez. 3, n. 9281 del
26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785, che, in motivazione, ha
precisato che la titolarità della posizione di garanzia,
discendente dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, ne
determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma
secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei
provvedimenti interdittivi e cautelari, ma non in caso di
condotta commissiva; in senso analogo Sez. 3, n. 36571
del 21/06/2011, Garetto, Rv. 251242, secondo cui "Non
è configurabile a carico del Sindaco alcuna responsabilità
penale per non aver impedito lo svolgimento di attività
abusive incidenti sull'assetto urbanistico e paesaggistico
del territorio comunale, non sussistendo in capo al medesimo
un generale dovere di vigilanza sulle attività in questione
(in motivazione la Corte ha precisato che l'esclusione della
"culpa in vigilando" del Sindaco discende dall'art. 107,
comma terzo, lett. g) del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, che
attribuisce tale vigilanza al dirigente di settore)"].
Invero, per potere ritenere configurabile la
responsabilità ex art. 40 cpv. cod. pen., deve venire in
rilievo una omissione (vale a dire, come è stato ritenuto
dalla dottrina, "il mancato compimento dell'azione che si
attendeva" da parte di un soggetto che era obbligato
giuridicamente a compiere una determinata azione, che, se
compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento),
dovendo, invece, ritenersi al di fuori della previsione
normativa l'ipotesi in cui l'agente abbia posto in essere
una condotta commissiva, contribuendo con essa alla
produzione dell'evento.
Tanto premesso, in materia edilizia non c'è dubbio che
l'art. 27 d.P.R. n. 380 del 2001 ponga a carico del
dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale
un obbligo di vigilanza sull'attività urbanistico- dilizia
nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle
norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei
titoli abilitativi, imponendogli di intervenire ogni
qualvolta venga accertato l'inizio o l'esecuzione di opere
eseguite senza titolo o in difformità della normativa
urbanistica, attraverso la emanazione di provvedimenti
interdittivi e cautelari (cfr. anche art. 31 d.P.R. n. 380
del 2001). Egli è quindi certamente titolare di una
posizione di garanzia, che gli impone di attivarsi per
impedire l'evento dannoso.
Tuttavia, al ricorrente, al di là del richiamo (improprio)
all'art. 40 c.p., non si contesta di non essersi attivato,
pur avendone l'obbligo, omettendo, ad esempio, in presenza
di una specifica denuncia, i necessari provvedimenti
cautelari ed interdittivi. Si contesta, invece, di
aver posto in essere una condotta commissiva, mediante il
rilascio di un permesso di costruire illegittimo, e di aver
quindi consentito l'esecuzione di lavori in una zona
vincolata, in quanto rientrante in fascia di rispetto. Si è
quindi al di fuori della previsione dell'art. 40 cpv. cod.
pen..
Giova chiarire che è indubbio che nel reato "proprio"
di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 -i cui autori sono
individuati, dall'art. 29 d.P.R. cit., nel committente,
nel costruttore e nel direttore dei lavori)-
possa concorrere l'extraneus.
Invero il precetto penale è diretto non a chiunque, ma
soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia,
rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto;
tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti
diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art.
29, compreso il sindaco che con la concessione edilizia
illegittima abbia posto in essere la condizione operativa
della violazione di quegli obblighi (cfr., ex multis,
Sez. 3 n. 996 del 15/10/1988).
È necessario, però, che vengano accertate le condizioni,
sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere
configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare
che l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione
dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole
(sotto il profilo del dolo o della colpa).
Nella sentenza impugnata, invece, non viene individuata "alcuna
forma di concorso o cooperazione", essendosi la Corte
territoriale limitata ad evidenziare la illegittimità del
permesso di costruire ed a far derivare da tale
illegittimità la responsabilità del tecnico comunale ai
sensi dell'art. 40 cpv. cod. pen..
La funzione di dirigente dell'area tecnica comunale che
ha rilasciato un permesso di costruire illegittimo, dunque,
non implica, in assenza di elementi di fatto indizianti un
concorso consapevole, o quantomeno colposo, nella condotta,
una responsabilità omissiva nella realizzazione di opere
illegittime, in quanto il dirigente non è previsto tra i
soggetti attivi del reato proprio indicati dall'art. 29
d.P.R. 380/2001, e, ai sensi dell'art. 27 d.P.R. cit.,
riveste una posizione di garanzia limitata alla vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale
ed alla demolizione delle opere abusive, non già di
carattere generale. |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza costante va riconosciuto l'obbligo dell'ente
locale di concludere il procedimento repressivo
sanzionatorio avviato con l’adozione dell’ordinanza di
demolizione e spetta, nel contempo, al proprietario
confinante la legittimazione a sollecitare l'adozione di
provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive
realizzate nella vicinanza della sua proprietà.
Ed infatti, in capo al comune, nella specie sussiste il
potere, oltre che di vigilanza edilizia sul territorio,
anche in ordine all’adozione dei provvedimenti repressivo
sanzionatori conseguenti all’espletamento di tale controllo
territoriale in particolare quando, come è avvenuto nel caso
in esame, già sia stato adottato un intervento comunale
espresso dichiarativo in ordine alla abusività o meno di
opere edilizie (l’ordinanza di demolizione), tenuto conto
che il proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui
sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei
poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi
da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse
legittimo all'esercizio dei detti poteri e può pretendere,
se non vengano adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
la conseguenza che il silenzio serbato sull'istanza e sulla
successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto,
sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato
adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente.
---------------
... per la declaratoria dell’illegittimità del comportamento
omissivo e del silenzio-inadempimento posto in essere dal
Comune di Montecompatri con riguardo al mancato
completamento della procedura repressivo sanzionatoria
edilizia relative alle opere descritte nell’ordinanza
comunale di demolizione n. 26 del 2002;
e per la conseguente declaratoria dell’obbligo da parte del
Comune di provvedere al completamento della suindicata
procedura.
...
Premesso che i ricorrenti sono comproprietari di un immobile sito nel
Comune di Montecompatri e confinante con l’immobile di
proprietà del Signor Ag.Pe. (deceduto nel 2009)
e della Signora Ig.Me. e quindi, ora, di proprietà di
quest’ultima e dei figli Al.Pe. e Ma.Pe. e che detti ricorrenti hanno a suo tempo
contestato al Comune di Montecompatri la realizzazione di
opere abusive inerenti al balcone dell’appartamento dei
vicini eseguite nel 2002;
Preso atto che in data 29.08.2002, con ordinanza n. 26,
il Comune di Montecompatri ingiungeva ai coniugi
Pe.-Me. la demolizione delle opere realizzate,
senza titolo abilitativo, di ampliamento del preesistente
balcone;
Considerato che gli odierni ricorrenti, in data 05.08.2006, inviavano istanza al Comune di Montecompatri per
conoscere lo stato del procedimento repressivo sanzionatorio
avviato con l’ordinanza di demolizione n. 26 del 2002 e che,
non ottenendo risposta, proponevano ricorso giurisdizionale
dinanzi a questo Tribunale, ai sensi dell’allora vigente
art. 21-bis della l. 06.12.1971, n. 1034, che veniva
accolto, ordinandosi al Comune di Montecompatri di emettere
un provvedimento espresso in ordine alla istanza presentata
dai ricorrenti, con sentenza n. 5802/2008 confermata anche
in sede di appello dal Consiglio di Stato;
Specificato che la sentenza del TAR Lazio n. 5802/2008
precisava come il completamento della procedura repressivo
sanzionatoria di cui alla ordinanza n. 26 del 2006 era,
all’epoca, precluso dalla contemporanea pendenza di un
giudizio di impugnazione nei confronti della predetta
ordinanza di demolizione il quale, successivamente, è stato
dichiarato perento con decisione del TAR Lazio n. 1979 del
2015;
Dato atto che gli odierni ricorrenti propongono nuovamente
domanda giudiziale di silenzio inadempimento a fronte della
mancata risposta alla istanza del 06.05.2015 con la quale
essi chiedevano nuovamente al Comune di Montecompatri di
concludere il procedimento repressivo sanzionatorio
edilizio, avendo quest’ultimo solo risposto con una nota,
del 03.06.2015, con la quale gli uffici riferivano che si
sarebbero attivati quanto prima “per le procedure previste
per legge al fine dell’emissione dei successivi atti
conseguenti”;
Rilevato che, costituendosi in giudizio, sia il Comune di
Montecompatri che i controinteressati hanno eccepito la
inammissibilità del ricorso perché identico a quello già
definito con la sentenza del TAR Lazio n. 5802/2008,
violando così il principio del ne bis in idem, nonché la irricevibilità dello stesso perché l’odierno ricorso è stato
notificato oltre il termine annuale previsto dall’art. 31
c.p.a. da farsi decorrere “dalla data di pubblicazione del
decreto di perenzione del giudizio avente ad oggetto
l’ordinanza di demolizione (27.02.2015), da intendersi come
momento in cui è venuto meno ogni elemento ostativo” (così,
testualmente, a pag. 2 della memoria di replica depositata
dal Comune intimato), oltre alla infondatezza del ricorso
nel merito, stante l’intervenuta risposta alla nuova
richiesta del 06.05.2015 con la nota del 03.06.2015;
Ritenuto che:
- il ricorso non è inammissibile per violazione del
principio del ne bis in idem, in quanto, come è ben chiarito
nella sentenza del TAR Lazio n. 5802/2008, a fronte del
silenzio dell’amministrazione sull’istanza presentata dagli
odierni ricorrenti e volta a conoscere l’esito del
procedimento repressivo sanzionatorio avviato con
l’ordinanza di demolizione n. 26 del 2006, sostanzialmente
l’amministrazione era condizionata, nel completare detto
percorso procedimentale, dalla pendenza di un giudizio
avente ad oggetto la legittimità o meno di dell’ordinanza di
demolizione.
Il presente ricorso, quindi, ha ad oggetto una
nuova inerzia dell’amministrazione comunale, relativa al
periodo successivo rispetto alla conclusione del percorso
giurisdizionale di scrutinio della ridetta ordinanza
(segnato dal decreto di perenzione del TAR Lazio n. 1979 del
2015) e collegato alla acquisita intangibilità giuridica
della stessa, anche con riferimento alla sua efficacia;
- il ricorso non è irricevibile in quanto, per come sopra si
è già accennato, la circostanza nuova, costituita dal
decreto di perenzione del TAR Lazio n. 1979 del 2015,
relativo al giudizio avverso l’ordinanza di demolizione n.
26 del 2006, cristallizzando la validità di tale ultimo
provvedimento e riespandendo elasticamente ogni sua
efficacia, ha rinnovato l’obbligo in capo al Comune di
Montecompatri di concludere il procedimento repressivo
sanzionatorio edilizio in questione, indipendentemente da
sollecitazioni da parte di terzi.
In siffatto contesto,
l’istanza presentata dagli odierni ricorrenti in data 06.05.2015 al Comune per sollecitare la conclusione del
(rinnovato) procedimento ha prodotto l’effetto di imporre
all’ente locale di esprimersi nuovamente sull’esito della
procedura che ha l’obbligo di completare, circostanza che la
nota interlocutoria non ha, per l’oggettivo contenuto non
decisionale che reca, fatto venire meno.
Ne deriva che il
termine annuale per proporre l’azione ai sensi dell’art. 31 c.p.a. è decorso a far data dallo scadere di trenta giorni
(ai sensi dell’art. 2, comma 2, l. 241/1990) dal 06.05.2015, sicché la notifica del ricorso qui in esame avvenuta
in data 13.05.2016 è tempestiva;
- il ricorso è fondato in quanto per giurisprudenza costante
va riconosciuto l'obbligo dell'ente locale di concludere il
procedimento repressivo sanzionatorio avviato con l’adozione
dell’ordinanza di demolizione e spetta, nel contempo, al
proprietario confinante la legittimazione a sollecitare
l'adozione di provvedimenti sanzionatori relativi ad opere
abusive realizzate nella vicinanza della sua proprietà
(cfr., da ultimo, TAR Campania, Napoli, Sez. II, 03.05.2016 n. 2174).
Ed infatti, in capo al Comune di Montecompatri, nella specie sussiste il potere, oltre che di
vigilanza edilizia sul territorio, anche in ordine
all’adozione dei provvedimenti repressivo sanzionatori
conseguenti all’espletamento di tale controllo territoriale
in particolare quando, come è avvenuto nel caso in esame,
già sia stato adottato un intervento comunale espresso
dichiarativo in ordine alla abusività o meno di opere
edilizie (l’ordinanza di demolizione), tenuto conto che il
proprietario di un'area o di un fabbricato, nella cui sfera
giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei
poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi
da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse
legittimo all'esercizio dei detti poteri e può pretendere,
se non vengano adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
la conseguenza che il silenzio serbato sull'istanza e sulla
successiva diffida integra gli estremi del silenzio-rifiuto,
sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato
adempimento dell'obbligo di provvedere espressamente (cfr.,
per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 17.01.2014 n. 233);
Ritenuto quindi di poter accogliere il ricorso dichiarando
l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione
comunale sull’istanza diffida presentata dai ricorrenti in
data 06.05.2015, con condanna del Comune di Montecompatri,
e per esso dell’ufficio competente per materia, di fornire
esplicito e motivato riscontro circa l'istanza-diffida di
cui sopra, nel termine perentorio di giorni trenta,
decorrente dalla comunicazione in via amministrativa,
ovvero, se anteriore, dalla notificazione, a cura di parte,
della presente sentenza;
Valutato il Tribunale di riservarsi, a fronte dell'eventuale
inottemperanza, da parte del ridetto Comune, ai dettami
della presente decisione, di nominare, su istanza di parte,
un commissario ad acta, che a tanto provveda in vece
dell'Amministrazione inadempiente;
Stimato che, per effetto del principio della soccombenza,
dall'accoglimento del ricorso consegue la condanna del
Comune resistente al pagamento, in favore della parte
ricorrente, di spese e compensi di giudizio, liquidati come
in dispositivo, oltre che alla rifusione, in favore della
medesima parte, del contributo unificato se versato, potendo
restare compensate le spese di giudizio con riferimento ai
controinteressati, atteso che dell’inadempimento è
responsabile il solo Comune di Montecompatri;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sez.
II-quater) definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto,
ordina al Comune di Montecompatri -e per esso all’ufficio
competente per materia- di fornire esplicito e motivato
riscontro alla diffida, presentata in data 06.05.2015,
nel termine perentorio di giorni trenta, decorrente dalla
comunicazione in via amministrativa, ovvero, se anteriore,
dalla notificazione, a cura di parte, della presente
sentenza.
Condanna il Comune di Montecompatri, in persona del Sindaco
pro tempore, al pagamento, in favore dei ricorrenti, Signori
Vi.Mo. e Pa.Me., delle spese di giudizio
che liquida complessivamente in € 1.000,00 (euro mille/00),
oltre accessori come per legge e al rimborso, in favore
degli stessi ricorrenti, del contributo unificato, se
versato.
Spese compensate con riferimento ai controinteressati (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.02.2017 n. 2029 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Nel
giudizio sull’accesso, il giudice amministrativo deve
limitarsi a rilevare la sussistenza di un’esigenza di tutela
che non sia manifestamente pretestuosa o priva di
qualsivoglia nesso con il contenuto dei documenti richiesti.
In particolare, ai fini dell’esercizio del diritto di
accesso in materia edilizia, è sufficiente il requisito
della vicinitas, che sussiste in capo al confinante ma anche
al frontista e a coloro che si trovano in una situazione di
stabile collegamento con la zona in cui si trova l’edificio.
---------------
Nella specie è evidente che la documentazione richiesta è
funzionale alla tutela (in sede stragiudiziale o nelle varie
sedi giurisdizionali) dei diritti e degli interessi
legittimi di ricorrenti, in presenza dell’allegazione di una
situazione di possibile illegittimità dell’attività edilizia
in questione.
D’altra parte non si rilevano chiari indici di emulatività o
pretestuosità della richiesta; indici che peraltro sono
difficilmente apprezzabili nella presente sede, nella quale
si controverte del riconoscimento, meramente strumentale e
conoscitivo, del solo diritto di accesso agli atti,
impregiudicate restando -ovviamente- le questioni di merito
sottostanti.
---------------
Quanto ai profili attinenti la riservatezza dei dati
attinenti alla situazione dei controinteressati, va rilevato
che essi non attengono a dati cd. sensibili, bensì a profili
edilizi, e che comunque sono recessivi -ai sensi dell’art.
24, comma 7, della L. n. 241/1990- rispetto all’esigenza di
garantire la tutela degli interessi giuridici dei
ricorrenti.
---------------
... per l'annullamento del diniego tacito del Comune di
Artena di accesso ai documenti amministrativi richiesti con
istanza depositata il 28.04.2016.
...
Considerato in fatto e in diritto:
1. I ricorrenti, agendo nella qualità di proprietari di
immobili che prospettano sul terreno di proprietà della Soc.
La. s.r.l., sul quale è in corso di realizzazione un
intervento urbanistico-edilizio, impugnano il diniego tacito
del Comune di Artena sulla domanda di accesso presentata il
28.04.2016, avente ad oggetto i seguenti atti:
- permessi di costruire assentiti alla soc. LA., con
eventuali varianti, nonché provvedimenti, se esistenti, di
proroga della relativa scadenza;
- atto pubblico di cessione delle aree destinate al Comune
con gli estremi della sua trascrizione nei RR.II.;
- atto di fidejussione/garanzia prodotta dalla soc. LA. con
il relativo rinnovo alla scadenza del 10.06.2014.
2. Con il presente ricorso, ritualmente notificato e
depositato, gli istanti -rilevato il silenzio serbato dal
Comune intimato sull’istanza- chiedono l’accertamento del
diritto di accesso a tutti i documenti richiesti,
finalizzato alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e
interessi, con specifico riguardo alla questione della
legittimità delle opere in corso di esecuzione sul terreno
confinante.
3. Il ricorso è stato chiamato per la discussione alla
Camera di Consiglio del 17.01.2017, e quindi trattenuto in
decisione.
4. Sussistono nella specie la legittimazione e l’interesse
dei ricorrenti a chiedere e a ottenere l’accesso alla
documentazione in questione, considerata la natura della
situazione azionata in giudizio.
E’ noto che, nel giudizio sull’accesso, il giudice
amministrativo deve limitarsi a rilevare la sussistenza di
un’esigenza di tutela che non sia manifestamente pretestuosa
o priva di qualsivoglia nesso con il contenuto dei documenti
richiesti.
In particolare, ai fini dell’esercizio del diritto di
accesso in materia edilizia, è sufficiente il requisito
della vicinitas, che sussiste in capo al confinante
ma anche al frontista e a coloro che si trovano in una
situazione di stabile collegamento con la zona in cui si
trova l’edificio (TAR Lazio, sez. II-quater, 15.04.2015, n.
5613).
Nella specie è evidente che la documentazione richiesta è
funzionale alla tutela (in sede stragiudiziale o nelle varie
sedi giurisdizionali) dei diritti e degli interessi
legittimi di ricorrenti, in presenza dell’allegazione di una
situazione di possibile illegittimità dell’attività edilizia
in questione.
D’altra parte non si rilevano chiari indici di emulatività o
pretestuosità della richiesta; indici che peraltro sono
difficilmente apprezzabili nella presente sede, nella quale
si controverte del riconoscimento, meramente strumentale e
conoscitivo, del solo diritto di accesso agli atti,
impregiudicate restando -ovviamente- le questioni di merito
sottostanti.
Quanto ai profili attinenti la riservatezza dei dati
attinenti alla situazione dei controinteressati, va rilevato
che essi non attengono a dati cd. sensibili, bensì a profili
edilizi, e che comunque sono recessivi -ai sensi dell’art.
24, comma 7, della L. n. 241/1990- rispetto all’esigenza di
garantire la tutela degli interessi giuridici dei
ricorrenti.
5. Il ricorso deve conclusivamente essere accolto.
Va quindi ordinato al Comune di Artena di consentire ai
ricorrenti, entro trenta giorni dalla comunicazione della
presente decisione in via amministrativa o dalla
notificazione della stessa a cura della ricorrente medesima,
l’accesso a tutti documenti richiesti con l’istanza,
mediante estrazione delle relative copie.
6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in
dispositivo
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.02.2017 n. 2025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Compensi,
no servizi indeterminati. Tar sui legali.
La procedura di gara per l'affidamento del servizio
giuridico-legale di un comune, sebbene risulti esclusa
dall'ambito di applicazione del codice dei contratti
pubblici, deve comunque rispettare le regole delle procedure
selettive pubbliche della massima partecipazione e della
leale concorrenza.
Lo ha precisato il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III con la
sentenza 06.02.2017 n. 334.
Nel caso in esame l'Ordine degli avvocati di Palermo aveva
impugnato gli atti della procedura di affidamento del
servizio giuridico-legale per il Comune di Monreale,
lamentando la violazione delle norme a tutela dell'autonomia
degli avvocati, nonché degli articoli del codice
deontologico.
Più precisamente tale bando, nella definizione di ciò che
era compreso nel servizio, prevedeva l'obbligo del
professionista di portare a termine, oltre la scadenza del
contratto, tutte le cause instaurate «sino all'esecutività
delle sentenze», senza previsione di ulteriore compenso. Lo
svolgimento del servizio legale, quindi, era destinato a
rimanere senza una definizione temporale e gratuito per un
tempo indeterminato.
Il Tar accoglie il ricorso. Per quanto concerne i compensi
previsti, se è vero che è venuto meno il sistema tariffario
con il c.d. decreto Bersani, deve altresì darsi atto
dell'orientamento espresso dal Consiglio di Stato secondo il
quale un prezzo inferiore alla tariffa minima non
risulterebbe decoroso per la professione.
Inoltre, osserva il Collegio, nella specie si verte nella
particolare ipotesi della indeterminatezza dei servizi
richiesti: tale previsione da un lato può generare
un'accentuazione dell'esiguità del compenso, dall'altro
«incide gravemente sulla stessa correttezza
dell'attivazione, da parte del Comune, di una procedura di
tipo comparativo che dovrebbe consentire, a tutti gli aventi
diritto, di partecipare alla selezione in condizioni di
parità e uguaglianza».
Alla luce di queste considerazioni si è, pertanto, ravvisata
la violazione delle regole delle procedure selettive
pubbliche della massima partecipazione e della leale
concorrenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017).
---------------
MASSIMA
I – Osserva il Collegio, in via preliminare, che il
ricorso introduce censure in ordine alla correttezza della
legge di gara ed ai successivi atti della procedura, sicché
esula dal presente giudizio ogni profilo attinente ai
rapporti tra professionista e l’ordine di appartenenza -differentemente da come evidenziato da parte resistente-
dovendo essere delimitato l’ambito della cognizione di
questo giudice e la sua giurisdizione (cfr. Tar Campania-Salerno, Sez. II, 16.07.2014, n. 1383), con
riferimento al petitum.
II – In primo luogo appare necessario procedere ad una
sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
La gara, su cui si verte, è stata indetta in esecuzione
della determinazione dirigenziale n. 63 del 30.03.2016,
ai sensi dell’All. B al cod. dei contratti pubblici, di cui
al d.lgs. n. 163 del 2006, con bando del 15.04.2016, in
data dunque antecedente all’entrata in vigore della nuova
disciplina di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Il nuovo
Codice ha chiarito, all’art. 17, l’esclusione della propria
applicazione, sotto il profilo oggettivo, degli appalti e
delle concessioni di servizi concernenti i servizi legali,
pur essendo precisata la necessità del rispetto –tra gli
altri- dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità e pubblicità.
Nella vigenza del previgente Codice dei contratti (di cui al
d.lgs. 12.04.2006, n. 163) i servizi legali rientravano
nell’All. II B tra gli appalti di servizi parzialmente
esclusi.
La giurisprudenza amministrativa affermava, a riguardo, che
anche sotto la soglia comunitaria la scelta del contraente
avrebbe dovuto seguire le regole comunitarie della
trasparenza, non discriminazione e pubblicità della
procedura
(TAR Calabria n. 330/2007 e n. 15430/2006; Cons.
di Stato n. 3206/2002),
differenziandosi tra incarico
occasionalmente svolto dal professionista e servizio legale esternalizzato
(Autorità di Vigilanza, determinazione n.
4/2011; Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2730 dell’11.05.2012).
III – Orbene, tale quadro normativo rileva ai fini della
presente decisione, poiché le censure di parte istante non
risultano tese solo ad sottolineare la violazione delle
specifiche norme poste a tutela dell’autonomia e del decoro
della professione forense in quanto tali, ma anche sono
dirette –sotto una ulteriore prospettazione– ad
evidenziare come l’eccessiva riduzione del compenso
(ipotizzata in riferimento alla possibile ‘espansione’ dei
servizi che potranno essere richiesti al professionista) e
la connessa mancanza di determinazione dell’oggetto
dell’incarico, proprio in quanto incidenti sull’autonomia ed
il decoro del professionista, sono stati elementi idonei a
comprimere notevolmente la partecipazione alla procedura
selettiva, alterandone in radice lo svolgimento in
violazione delle regole della concorrenza e di buona
amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione
(motivo II).
In tale ottica, dunque, le censure svolte da parte
ricorrente di cui al motivi II-IV possono essere esaminate
congiuntamente per ragioni di sinteticità, perché –come
detto- con esse gli istanti deducono l’illegittimità della
procedura e prima ancora del bando, in quanto
l’indeterminatezza del contenuto delle prestazioni richieste
e la conseguente irrisorietà del compenso sarebbe in grado
di compromettere, con il decoro dell’ordine e dei
professionisti, il meccanismo della competizione.
IV – Osserva il Collegio, anche a seguito dell’ulteriore
approfondimento proprio della presente fase di giudizio,
come sollecitato dal CGA, con la richiamata ordinanza resa
in sede di appello, che, nel senso dedotto da parte
ricorrente, depone particolarmente il secondo punto
dell’art. 5, co. 1, del disciplinare.
Con esso, a fronte della definizione di ciò che è compreso
nel servizio (art. 2, co. 2, del disciplinare), si prevede
l’obbligo del professionista di portare a termine, oltre la
scadenza del contratto, tutte le cause instaurate “sino
all’esecutività delle sentenze”, senza previsione di
ulteriore compenso. Ne discende che lo svolgimento del
servizio legale –dopo il decorso del biennio- è destinato
a rimanere senza una definizione temporale e sostanzialmente
gratuito per un tempo indeterminato.
Rileva, altresì, che l’art. 2 del disciplinare prevede
nell’ambito dell’incarico anche il supporto giuridico–legale ai vari Uffici e l’emissione di pareri ai singoli
dirigenti.
Siffatte disposizioni del disciplinare/schema di contratto
allegato al bando assumono una connotazione specificamente
rilevante, nell’esame congiunto con l’art. 9 del bando, che
a fronte di una iniziale previsione della possibilità del
professionista di svolgere il servizio presso il proprio
studio, dispone che il medesimo dovrà garantire la propria
presenza presso gli uffici comunali “ogni volta che
l’amministrazione comunale o ritenga necessario”.
Ne discende palesemente contraddetta l’affermazione
difensiva dell’Amministrazione in ordine alla libertà del
professionista di svolgere la propria attività presso il suo
studio. Ma valgono le ulteriori considerazioni che seguono.
Per un verso,
è senza dubbio vero quanto affermato dalla
difesa comunale in ordine al venir meno del sistema
tariffario con il c.d. decreto Bersani
(d.l. 04.07.2006,
n. 223, convertito in L. 04.08.2006, n. 248),
che ha
eliminato i minimi tariffari inderogabili spingendo in
direzione della determinazione consensuale e omnicomprensiva
del prezzo della prestazione, ed altresì, deve darsi, atto
dell’orientamento espresso dal Consiglio di Stato con
sentenza 22.01.2015, n. 238 con la quale si è
menzionata criticamente la circostanza, accertata dall’AGCM
(nell’ambito del procedimento all’esame)
che la prospettiva ordinistica è tesa a ritenere che un prezzo inferiore alla
tariffa minima non risulterebbe decoroso per la professione,
comportando di fatto una reintroduzione dei minimi
tariffari, eludendo così l’abolizione degli stessi disposta
dal legislatore
(art. 2 decreto legge 04.07.2006, n. 223,
convertito in legge 04.08.2006, n. 248; art. 9 del
decreto legge 24.01.2012, n. 1, convertito in legge 24.03.2012, n. 27).
Tuttavia, proprio nella richiamata pronunzia il Consiglio di
Stato ha evidenziato i principi posti dalla Corte di
giustizia nella sentenza 18.07.2013, C-136/12, tra i
quali quello secondo cui la nozione eurounitaria di impresa
include anche l’esercente di una professione intellettuale,
rimettendo alla valutazione del giudice nazionale l’esame di
comportamenti anticoncorrenziali (nel caso che veniva
all’esame si verteva nella diversa ed opposta fattispecie in
cui un ordine professionale aveva ancorato il decoro ad un
livello tariffario).
Nella predetta pronunzia, peraltro, si è affermato anche che
il principio secondo cui “in ogni caso la misura del
compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al
decoro della professione” è già insito nell’ordinamento ed è
previsto nell’art. 2233, cod. civ., che espressamente si
occupa del contratto d’opera intellettuale, precisando che
tale norma, contenuta nel codice civile, si indirizza,
infatti, al singolo professionista, disciplinando i suoi
rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto
contrattuale, senza attribuire alcun potere di vigilanza
agli Ordini in merito alle scelte contrattuali dei propri
iscritti.
Tuttavia, nella specie si verte nella particolare ipotesi in
cui l’indeterminatezza dei servizi richiesti al
professionista, come emerge dalla lettura combinata del
bando e del disciplinare (come sopra evidenziato), per un
verso è suscettibile di generare un’accentuazione
dell’esiguità del compenso, per altro incide gravemente
sulla stessa correttezza della attivazione, da parte del
Comune, di una procedura di tipo comparativo idonea a
consentire, a tutti gli aventi diritto, di partecipare, in
condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la
scelta del miglior contraente.
Deve condividersi, pertanto, la censura contenuta nel
secondo motivo di ricorso, con cui la parte ricorrente
deduce (unitamente e in modo connesso e conseguente, non
solo la violazione dei principi in tema di equo compenso)
anche la violazione delle regole delle procedure selettive
pubbliche, della massima partecipazione della leale
concorrenza, di cui –per ciò che rileva sotto il profilo
dell’interesse– l’Ordine ed il suo Presidente in proprio
assumono la lesione ai fini del più ampio concorrere di
professionisti alla procedura medesima, nell’interesse della
collettività unitariamente considerata coincidente con i
principi di buona amministrazione e di garanzia della
trasparenza e della par condicio, come elencati tra i
principi comunque applicabili anche in ipotesi di procedure
selettive nei settori esclusi dall’ambito di applicazione
del codice dei contratti pubblici.
VI – Tali considerazioni sono sufficienti a comportare
l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento
degli atti gravati con il ricorso introduttivo e con i
motivi aggiunti, con conseguente condanna l’Amministrazione
al pagamento delle spese di lite, che sono liquidate come in
dispositivo. |
APPALTI:
Modifiche soggettive del Raggruppamento temporaneo per
fallimento di una delle imprese che lo compongono.
---------------
● Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento
temporaneo di imprese – Modifiche soggettive – Quote di
partecipazione al raggruppamento – Possibilità – Condizione.
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento
temporaneo di imprese – Fallimento di una delle imprese
componenti il raggruppamento – Conseguenza.
●
In sede di gara pubblica le modifiche soggettive di una
Associazione temporanea di imprese, anche in termini di
quote di partecipazione al raggruppamento, sono ammissibili
dopo la prequalificazione e in sede di presentazione
dell’offerta, purché non siano strumentali a garantire una
qualificazione che non esisteva in capo al raggruppamento
sin dall’origine (1).
●
In sede di gara pubblica il fallimento di una delle imprese
componenti un raggruppamento temporaneo di imprese prima
dell’aggiudicazione definitiva non determina l’esclusione di
tale raggruppamento, essendo possibile per detta
Associazione continuare a prendere parte alla gara e
ottenere l’aggiudicazione dopo aver tempestivamente espulso
l’impresa fallita, senza incidere sui requisiti soggettivi
in capo al raggruppamento (2).
---------------
(1) A supporto di tale conclusione il Tar ha richiamato
quanto affermato da
C.g.a. nella sentenza 22.10.2015,
n. 642 nella quale si è ritenuto che “pur essendo possibili
modifiche soggettive tra la fase di prequalificazione e
quella della gara non potesse assumere rilievo sanante
l’acquisizione avvenuta per la prima volta solo in sede di
offerta dei requisiti prescritti e palesemente mancanti ab
origine, atteso che la mandataria mancava di qualificazione
per i lavori in categoria prevalente, suddivisi tra le sole
mandanti”.
Nel caso sottoposto all’esame del Tar Brescia le altre due
partecipanti al raggruppamento avrebbero potuto assumere in
proprio la lavorazione, forti della loro qualificazione
nella categoria principale, prevedendone il subappalto a
soggetto qualificato e, quindi, al riparto delle lavorazioni
tra i partecipanti può essere riconosciuto un rilievo del
tutto relativo, non preclusivo della sua modificazione nella
successiva fase di presentazione dell’offerta.
Ha ancora chiarito il Tar che la conformità all’ordinamento
di tale principio trova riscontro anche nella sentenza del
Cons. St., sez. V, 08.09.2010, n. 6490, in cui si è
affermato che in sede di prequalificazione non sussiste la
necessità di conoscere come sarà ripartita l’esecuzione dei
lavori tra i partecipanti al raggruppamento, in quanto
l’Amministrazione non esamina, in tale fase, il progetto
offerto, ma si limita soltanto a verificare se il soggetto
che chiede l’ammissione ha i relativi requisiti.
(2) Ha ricordato il Tar che la possibilità di un tale
mutamento “interno” è stata ritenuta legittima dal
Consiglio
di Stato (sez. VI, 13.05.2009, n. 2964), nella quale si
chiarisce che “il divieto di modificazione soggettiva non ha
l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal
raggruppamento in costanza di procedura di gara. Il rigore
di detta disposizione va, infatti, temperato in ragione
dello scopo che persegue, che è quello di consentire alla
stazione appaltante, in primo luogo, di verificare il
possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano
alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni
soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di
impedire le suddette verifiche preliminari. Tale essendo,
dunque, la funzione di detta disposizione è evidente come le
uniche modifiche soggettive elusive del dettato legislativo
siano quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione
delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono
al recesso di una delle imprese del raggruppamento; in tal
caso, infatti, le esigenze succitate non risultano affatto
frustrate poiché l'amministrazione, al momento del mutamento
soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di
capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che
restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non
possono verificarsi”.
Ha aggiunto il Tar che tale interpretazione non penalizza la
stazione appaltante, non creando incertezze, né le imprese
“le cui dinamiche non di rado impongono modificazioni
soggettive di consorzi e raggruppamenti, per ragioni che
prescindono dalla singola gara, e che non possono
precluderne la partecipazione se nessun nocumento ne deriva
per la stazione appaltante”.
Sul punto v. anche
Cons. St., sez. VI, 16.02.2010, n.
842; id.,
sez. V, 10.09.2010, n. 6546; id.,
sez. IV,
06.07.2010, n. 4332 (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 06.02.2017 n. 167
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Buoni
pasto super. Sì al cumulo. Più concorrenza. Ok dal Consiglio
di stato allo schema di decreto.
Buoni pasto fruibili in forma cumulativa nel lavoro pubblico
e maggiore tutela nella concorrenza per gli affidamenti dei
relativi appalti di servizi.
Il Consiglio di Stato ha espresso favorevole
parere 03.02.2017 n. 287
allo schema di decreto dello Sviluppo economico sui servizi
sostitutivi di mensa tramite erogazione dei buoni pasto,
previsto dall'art. 144 del dlgs 50/2016, norma che consente
di semplificare ed uniformare gli affidamenti dei servizi,
l'erogazione dei buoni pasto e di garantire agli esercizi
commerciali pagamenti puntuali e tutela dal rischio di
ribassi eccessivi e ulteriori imposti dalle società che si
aggiudicano i servizi.
Servizio sostitutivo.
Lo schema di decreto
(Schema di decreto del Ministero dello sviluppo
economico, di concerto con il Ministero delle infrastrutture
e dei trasporti, concernente il "Regolamento recante
disposizioni in materia di servizi sostitutivi di mensa, in
attuazione dell'articolo 144, comma 5, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50")
individua con precisione l'oggetto del servizio emissione di
buoni pasto, che consiste nell'attività finalizzata a
rendere di dipendenti pubblici, per il tramite di esercizi
convenzionati, il servizio sostitutivo di mensa aziendale.
In particolare i servizi sostitutivi di mensa sono le
somministrazioni di alimenti e bevande e le cessioni di
prodotti alimentari pronti per il consumo effettuate dagli
esercizi aderenti ed il buono pasto è il documento di
legittimazione, anche in forma elettronica al dipendente, ai
sensi dell'articolo 2002 del codice civile, il diritto a
ottenere il servizio sostitutivo di mensa per un importo
pari al valore del buono medesimo, in modo che l'esercizio
convenzionato provi l'avvenuta prestazione nei confronti
delle società di emissione.
Cumulabilità.
Possibilità ai dipendenti pubblici di fruire dei buoni pasto
in modo cumulativo, entro un tetto massimo di dieci buoni
pasto. Il Consiglio di stato apprezza questa scelta, sulla
base di un approccio realistico e tecnico. Sul piano
fattuale, infatti, Palazzo Spada osserva che il divieto di
cumulo dei buoni pasto previsto dalla disciplina previgente
era sostanzialmente inapplicato. Meglio, quindi, consentire
l'uso cumulativo, limitato comunque a non oltre il numero
complessivo di dieci buoni pasto, sebbene per i giudici di
Palazzo Spada potrebbe essere opportuno ridurre di poco il
limite dei dieci buoni previsto.
In ogni caso, la cumulabilità è da considerare opportuna «sia
in considerazione della circostanza che, nella maggioranza
dei casi, l'importo del buono fissato non consente, stante
il valore facciale, di poter usufruire di un pasto completo,
sia ritenendo maggiormente rispondente a criteri di
ragionevolezza ed equità consentire all'utente di scegliere,
ove lo ritenga, di utilizzare più buoni pasto ai fini della
prestazione alla quale ha diritto».
No all'indicazione nominativa del fruitore.
Il parere apprezza anche la scelta del Ministero di non
accogliere la richiesta della grande distribuzione di
prescrivere l'indicazione nominativa del titolare su tutti i
buoni pasto, per quanto essa è indirettamente prevista per i
buoni pasto elettronici.
Secondo Palazzo Spada andava evitato di introdurre elementi
di complicazione pratica rispetto all'attuale assetto:
infatti l'indicazione nominativa non è sempre presente sui
buoni pasto cartacei già in uso e alcuni datori di lavoro
hanno evidenziato la necessità di non chiedere l'indicazione
dei nominativi dei dipendenti sui buoni anche per evitare
potenziali problemi relativamente alla tutela dei dati
personali.
Tutela della concorrenza.
Il regolamento ministeriale impone il divieto alle società
emettitrici dei buoni, aggiudicatarie del servizio
sostitutivo di mensa, di richiedere agli esercizi
convenzionati uno sconto incondizionato più elevato di
quello dichiarato in sede di offerta ai fini
dell'aggiudicazione o in sede di conclusione del contratto
con il cliente.
Questo, all'evidente scopo di evitare agli esercizi
condizionati condizioni economiche gravose o, comunque, non
convenienti, che finiscono per alterare la concorrenza e per
rendere la distribuzione territoriale del servizio
incompleta ed inefficiente. Il regolamento precisa che lo
sconto incondizionato remunera tutte le attività necessarie
e sufficienti al corretto processo di acquisizione,
erogazione e fatturazione del buono pasto.
Puntualità nei pagamenti.
Il regolamento impone che il termine di pagamento deve
essere indicato negli accordi tra società emettitrice ed
esercizio convenzionato. Introdotta una disposizione che
richiama l'applicabilità anche a tali termini di pagamento
delle disposizioni del dlgs 231/2002, come modificato dal
dlgs 192/2012
(articolo ItaliaOggi del 04.02.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo
schema di Regolamento sui servizi sostitutivi di mensa (c.d.
buoni pasto).
Il Consiglio di Stato ha reso parere favorevole con
osservazioni sullo schema di decreto del Ministero dello
sviluppo economico, di concerto con il Ministero delle
infrastrutture dei trasporti, sui servizi sostitutivi di
mensa tramite erogazione dei buoni pasto, ai sensi dell’art.
144 del nuovo Codice dei contratti pubblici.
Il parere ha condiviso la ratio generale
dell’intervento, ispirata all’aumento della concorrenza e
delle possibilità di fruizione del servizio da parte
dell’utenza. Apprezzamento è stato espresso per il metodo di
consultazione delle categorie di operatori interessati.
Il parere si è soffermato, tra l’altro, sul superamento del
divieto assoluto di cumulabilità dei buoni pasto,
attualmente previsto e sostanzialmente inapplicato. Il nuovo
decreto (Schema di decreto del Ministero dello sviluppo
economico, di concerto con il Ministero delle infrastrutture
e dei trasporti, concernente il "Regolamento recante
disposizioni in materia di servizi sostitutivi di mensa, in
attuazione dell'articolo 144, comma 5, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50") consente di cumulare
l’utilizzo dei buoni entro il limite di 10. Il Consiglio di
Stato condivide il principio, che è frutto di un accordo con
le parti sociali e recepisce una esigenza diffusa, dovuta ai
costi effettivi del pasto rispetto al valore dei buoni.
Suggerisce però una “pur lieve riduzione” del limite
dei 10, al fine di evitare “effetti non propriamente
neutri sulle diverse categorie di esercizi” e rischi
legati al possibile “snaturamento delle caratteristiche
del buono pasto”, che resta un titolo “rappresentativo
del servizio sostitutivo di mensa” e non può essere
utilizzato come “una sorta di buono spesa universale e
surrogato del danaro contante”.
Il parere ha condiviso la scelta di non introdurre, per i
titoli “non elettronici”, l’obbligo di indicazione
sul buono del nominativo del titolare. È una scelta che
segue una “apprezzabile ottica di semplificazione” e
che non pregiudica le finalità di accertamento, assicurate
comunque dall’obbligo di firma del titolare al momento
dell’utilizzo.
La Commissione speciale ha reso parere favorevole anche alle
misure contro il ritardo nei pagamenti agli esercizi
convenzionati, salvi alcuni miglioramenti del testo, per
renderle ancora più efficaci.
E’ stato inoltre affronta il fenomeno dell’aumento
indiscriminato dei “servizi aggiuntivi” richiesti
dalle società emettitrici di buoni pasto agli esercenti, che
comporta una traslazione sulla rete degli esercizi
convenzionati degli elevati ribassi presentati dalle stesse
società emittenti in sede di offerta economica. Per
contenere tale criticità, il parere suggerisce una
riformulazione che, in linea con quanto già osservato anche
dall’ANAC, limiti i “servizi aggiuntivi” ammessi solo
a quelli “che consistono in prestazioni ulteriori
rispetto all’oggetto principale della gara e abbiano
un’oggettiva e diretta connessione intrinseca con l’oggetto
della gara”.
Da ultimo, il Consiglio di Stato ha suggerito un adeguato
monitoraggio sull’efficacia del nuovo regime e ha ricordato
che l’adozione del decreto è particolarmente urgente, poiché
colma una lacuna normativa generatasi sin dall’aprile 2016,
con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti.
Per evitare situazioni di stallo delle procedure di gara,
attesa la dimensione economica del fenomeno, la Commissione
speciale ha suggerito al Ministero -“se sussistono i
presupposti, anche di fattibilità tecnica”- di “contenere
maggiormente” il termine di entrata in vigore delle
nuove norme (che lo schema fissa in 60 giorni) (Consiglio
di Stato, comm. spec.,
parere 03.02.2017 n. 287 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: I
dati del fisco? Senza segreti. Il fatto che serva elaborarli
non deve frenare l'accesso. Il Tar
Puglia è intervenuto sulla richiesta di una donna in odore
di separazione.
L'Agenzia delle entrate non può negare i dati sui rapporti
finanziari richiesti da un contribuente sul rilievo che le
informazioni non sono disponibili così come volute ma
richiedono invece un'elaborazione, dunque nuovo lavoro per
gli uffici dell'amministrazione finanziaria. Il fisco dunque
deve tirare fuori le carte che servono alla moglie per
esercitare un diritto nei confronti del marito nell'ambito
della controversia giudiziaria.
Entro 30 giorni la donna
vicina alla separazione ha diritto di sapere dalle Entrate
quanto guadagna l'uomo. E la presenza di figli minori
prevale sul diritto alla riservatezza del padre perché pende
la causa all'esito della quale sarà determinato l'assegno di
mantenimento. Attenzione, però: la signora non può ottenere
copia degli atti ma ha soltanto titolo a vederli.
È quanto emerge dalla
sentenza
03.02.2017 n. 94,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Interesse concreto.
Accolto il ricorso della donna dopo il no delle Entrate,
secondo cui le «comunicazioni» sui rapporti finanziari
dell'ex non costituirebbero documenti per i quali si può
chiedere l'accesso all'amministrazione in base alla legge
sulla trasparenza. In realtà è l'articolo 7 del decreto
sull'anagrafe tributaria a disciplinare in modo compiuto la
forma, i contenuti e le modalità di trasmissione delle
«comunicazioni» alle quali si riferisce l'Agenzia.
E il dpr
605/1973 regola anche conservazione, tenuta, destinazione e
possibili impieghi dei dati contenuti nei database. Insomma:
l'amministrazione non può sostenere che si tratta di atti
interni privi di ogni rilevanza giuridica né che si tratti
di mere informazioni rispetto alle quali non si può chiedere
agli uffici un'attività di elaborazione o di ricerca.
Assetto familiare.
Nel nostro caso, d'altronde, la signora dimostra che la
causa di separazione dal marito risulta in corso e dunque ha
diritto ad accedere alla documentazione fiscale, reddituale
e patrimoniale dell'altro coniuge per tutelare il proprio
interesse giuridico. Ed è quindi un'esigenza di tutela è
attuale e concreta, non semplicemente ipotizzata.
La moglie sostiene che il marito non collabora al ménage e
sta accumulando risparmi con i soldi che sottrae alla
famiglia. Risultato? La tutela degli interessi economici e
della serenità dell'assetto familiare consente allora la
compressione delle esigenze del marito rispetto ai dati
sensibili contenuti nelle richieste avanzate dalla moglie.
In definitiva si configurano l'eccesso di potere e la
violazione della normativa sulla trasparenza denunciate nel
ricorso della donna. All'Agenzia delle entrate non resta che
pagare le spese processuali e il contributo unificato
aggiuntivo
(articolo ItaliaOggi del 07.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere abusive su aree dichiarati di notevole
interesse pubblico - Illegittimità costituzionale 181, c.
1-bis, del D.Lgs. n. 42/2004 - Effetti - Artt. 142, 146 e
ss., 181, c. 1-bis, D.Lgs. n. 42/2004 - Artt. 44, lett. e),
72 e 95 D.P.R. n. 380/2001 e 734 cod. pen..
L'illegittimità costituzionale dell'art. 181, comma 1-bis,
lettera a), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), nella
parte in cui, anche quando non risultino superati i limiti
quantitativi previsti dalla successiva lettera b), punisce
con la sanzione della reclusione da uno a quattro anni,
anziché con le pene più lievi previste dal precedente comma
1- che rinvia all'art. 44, comma 1, lettera e), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A)-
colui che, senza la prescritta autorizzazione o in
difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su
immobili o aree che, per le loro caratteristiche
paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse
pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca
antecedente alla realizzazione dei lavori.
Pertanto, a seguito dell'intervento del Giudice delle leggi,
ai fini dell'integrazione dell'ipotesi delittuosa di cui
all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, non è più
sufficiente che la condotta ricada su immobili od aree che,
per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati
dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori o su immobili od aree tutelati per
legge ai sensi dell'articolo 142, essendo anche necessario
che le opere realizzate siano di notevole impatto
volumetrico e che superino, dunque, limiti quantitativi
previsti dalla lettera b) dell'art. 181, comma 1-bis (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.02.2017 n. 4912
- link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Termine per impugnare l’ammissione alla gara dei
concorrenti.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione alla
gara di concorrente poi risultato aggiudicatario – Omessa
tempestiva impugnazione ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. –
Impugnazione dell’aggiudicazione – Motivi rivolti avverso
l’ammissione – Irricevibilità del ricorso.
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione alla
gara e esclusione – Impugnazione immediata ex art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. – Pubblicazione atti sul profilo del
committente ex art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Termine di due giorni dall’adozione del provvedimento –
Natura ordinatoria.
E’ irricevibile il ricorso proposto
avverso l’aggiudicazione di una gara pubblica nel quale si
sollevano censure avverso l’ammissione alla procedura
dell’aggiudicataria, censure che invece avrebbero dovuto
essere tempestivamente proposte nel termine di trenta giorni
dalla comunicazione del relativo provvedimento ai sensi del
comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., aggiunto dall’art. 204,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (1).
Ha natura ordinatoria il termine di due giorni, previsto
dall’art. 29, comma 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, per la
pubblicazione sul profilo del committente del provvedimento
che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e
le ammissioni all'esito delle valutazioni dei requisiti
soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali,
termine finalizzato a garantire la piena conoscenza di tali
determine e la loro immediata impugnazione ai sensi
dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. (2).
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(1)
Ha ricordato il Tar che l'art. 120, comma 2-bis, c.p.a.
prevede l’impugnativa immediata dei provvedimenti che
determinano le esclusioni dalla procedura di affidamento e
le ammissioni ad essa. Per queste ipotesi il comma 6 bis
dell'art. 120 c.p.a. delinea un rito "superspeciale",
che va celebrato in camera di consiglio entro 60 giorni
dalla notifica del ricorso, rendendolo applicabile
esclusivamente ai casi di censura dei provvedimenti di
ammissione ed esclusione dalla gara in ragione del possesso
(o mancato) dei requisiti di ordine generale e di
qualificazione per essa previsti e non per l’impugnazione
del successivo provvedimento di aggiudicazione della gara (Tar
Napoli, Sez. VIII, 19.01.2017, n. 434).
La previsione di un rito “superaccelerato” per
l’impugnativa dei provvedimenti di esclusione ed ammissione
è evidentemente volta, nella sua ratio legis, a
consentire la pronta definizione del giudizio prima che si
giunga al provvedimento di aggiudicazione; ovverosia, in
sostanza, a definire la platea dei soggetti ammessi alla
gara in un momento antecedente all’esame delle offerte e
alla conseguente aggiudicazione. Al tempo stesso il comma
2-bis dell’art. 120 c.p.a. pone evidentemente un onere di
immediata impugnativa dei provvedimenti in esame, a pena di
decadenza, non consentendo di far valere successivamente i
vizi inerenti agli atti non impugnati.
In sostanza, una volta che la parte interessata non ha
impugnato l’ammissione o l’esclusione non potrà più far
valere i profili inerenti all’illegittimità di tali
determinazioni con l’impugnativa dei successivi atti della
procedura di gara, quale, come nel caso di specie, il
provvedimento di aggiudicazione.
Ha aggiunto il Tar che stante la ratio acceleratoria
sottesa all’art. 120 c.p.a. -finalizzata alla sollecita
definizione del processo in una materia rilevante come
quella degli appalti, in piena conformità con il principio
di ragionevolezza dei tempi del processo e, in ultima
istanza, del principio di pienezza ed effettività della
tutela giurisdizionale, che trova eco nell’art. 24 e 113
Cost., oltre che nell’art. 1 c.p.a.– non può porsi una
questione di costituzionalità e di compatibilità comunitaria
della disciplina che prevede l’onere di immediata
impugnativa, entro trenta giorni, dell’atto di ammissione
alla gara in relazione alla piena conoscibilità del
provvedimento, stante la comunicazione dell’avvenuta
ammissione, riportante gli estremi della stessa.
Al limite si potrebbe porre una questione di coordinamento
con la normativa che disciplina l’accesso agli atti,
comunque superabile in base all’istituto della proposizione
dei motivi aggiunti per i profili di illegittimità
conosciuti successivamente per effetto dell’integrale
conoscenza gli atti.
(2) Ha aggiunto il Tar che costituisce mera irregolarità la mancata
indicazione dell’ufficio, o il collegamento informatico ad
accesso riservato, dove sono disponibili i relativi atti (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.02.2017 n. 696 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nullità della previsione del bando di esclusione dalla gara
per l’affidamento di un appalto servizio per omesso
sopraluogo.
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●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla
gara – Appalto servizi – Omesso sopralluogo – Previsto a
pena di esclusione – Art. 83, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Illegittimità.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla
gara – Dichiarazione del legale rappresentante di assenza di
pregiudizi penali di terzi – Omissione – Soccorso
istruttorio – Applicabilità.
●
Il concorrente ad una gara pubblica per
l’affidamento di un appalto di servizi di refezione
scolastica non può essere escluso per non avere effettuato
il sopralluogo, anche se tale sopralluogo è stato previsto a
pena di esclusione dalla lex specialis di gara con clausola
che è quindi nulla ai sensi del art. 83, comma 8, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 non essendo riconducibile alle cause
tassative di esclusione
●
Nelle gare d'appalto l'obbligo di dichiarare l'assenza dei
"pregiudizi penali" è da considerarsi assolto dal legale
rappresentante dell'impresa anche riguardo ai terzi,
compresi i soggetti cessati dalla carica, specie quando la
legge di gara non richieda la dichiarazione individuale di
detti soggetti; l’omessa dichiarazione costituisce
irregolarità rispetto alla quale opera il c.d. soccorso
istruttorio, non essendo in presenza di un vizio tale da non
consentire l'individuazione del contenuto o del soggetto
responsabile della documentazione ai sensi del citato comma
9 dell’art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
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(1)
Ha chiarito il Tar che l’art. 83, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
codifica i principi, di elaborazione giurisprudenziale, di
divieto di aggravio del procedimento di evidenza pubblica,
di massima partecipazione alle gare di appalto e di
interpretazione in quest’ottica delle clausole ambigue della
lex specialis. Dal tenore della citata disposizione
si evince che il Legislatore ha inteso con essa evitare
esclusioni per violazioni meramente formali, costituendo
“cause di esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali
da espresse previsioni di legge.
La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato (A.P.
25.02.2014, n. 9) –già in relazione all’art. 46, comma
1-bis, del previgente Codice– certamente meno restrittivo in
punto di cause di esclusione rispetto al richiamato art. 83
del nuovo Codice, ha interpretato in maniera
sostanzialistica il principio di tassatività delle stesse,
ritenendo sussistente una causa di esclusione implicita in
ogni norma imperativa che preveda un espresso obbligo o un
divieto a carico della candidata alla selezione per il
conferimento di un appalto pubblico.
Allo stesso modo, con parere del 30.09.2014, n. 50, l’ANAC
ha precisato, proprio in riferimento a un caso praticamente
identico a quello posto all’esame del Tribunale, che mentre
nell’ambito di una procedura per l’affidamento di lavori
pubblici, la previsione della legge di gara che subordina la
partecipazione al sopralluogo sulle aree e gli immobili
interessati non viola il principio di tassatività delle
cause di esclusione dalle gare di appalto, di cui all’art.
46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in quanto
puntualmente giustificata da una previsione contenuta
nell’art. 106, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, altrettanto non
può dirsi per gli appalti di servizi dove, in assenza di una
specifica prescrizione, la legittimità di un’analoga
previsione a pena di esclusione inserita nella lex
specialis deve essere valutata in concreto e la sanzione
dell’esclusione collegata a un simile adempimento può essere
considerata legittima solo quando vi siano ragioni oggettive
(ostese o immediatamente percepibili) che possano far
presumere l’assoluta inidoneità dell’offerta, se formulata
in assenza della preventiva visione dei luoghi di esecuzione
dell’appalto.
Né il quadro normativo è mutato di seguito all’entrata in
vigore del nuovo Codice degli appalti, posto che, intanto,
il comma 8 del richiamato art 83, come premesso, indica
ipotesi ancora più circoscritte rispetto a quelle richiamate
dall’art. 46, comma 1-bis, del vecchio testo e, inoltre,
allo stato, anche l’art. 106 del Regolamento del Codice (che
concerne comunque la diversa ipotesi di appalti di opere
pubbliche) è stato abrogato, così come stabilito dall’art.
217, comma 1, lett. u), n. 2), d.lgs. n. 50 del 2016, che ha
operato un’abrogazione in parte immediata e in parte
differita del detto Regolamento.
(2)
Tar Catanzaro, sez. I, 21.07.2016, n. 1575 (TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 02.02.2017 n. 234
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
IX. - Ciò premesso in punto di fatto, il Collegio
osserva che, con riferimento alle cause di esclusione e al
cd. soccorso istruttorio, l’art. 83 del D.lgs. n. 50/2016
così prevede: “8. Le stazioni appaltanti indicano le
condizioni di partecipazione richieste, che possono essere
espresse come livelli minimi di capacità, congiuntamente
agli idonei mezzi di prova, nel bando di gara o nell'invito
a confermare interesse ed effettuano la verifica formale e
sostanziale delle capacità realizzative, delle competenze
tecniche e professionali, ivi comprese le risorse umane,
organiche all'impresa, nonché delle attività effettivamente
eseguite. I bandi e le lettere di invito non possono
contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione
rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre
disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono
comunque nulle.
9. Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda
possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso
istruttorio di cui al presente comma. In particolare, la
mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e del documento di gara unico
europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle
afferenti all'offerta tecnica ed economica, obbliga il
concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore
della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno
per mille e non superiore all'uno per cento del valore della
gara e comunque non superiore a 5.000 euro. In tal caso, la
stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non
superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o
regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il
contenuto e i soggetti che le devono rendere, da presentare
contestualmente al documento comprovante l'avvenuto
pagamento della sanzione, a pena di esclusione. La sanzione
è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione. Nei
casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o
incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione
appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la
procedura di cui al periodo precedente, ma non applica
alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di
regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara.
Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le
carenze della documentazione che non consentono
l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile
della stessa”.
Com’è noto,
la disposizione codifica i principi, di
elaborazione giurisprudenziale, di divieto di aggravio del
procedimento di evidenza pubblica, di massima partecipazione
alle gare di appalto e di interpretazione in quest’ottica
delle clausole ambigue della lex specialis.
Dal tenore della citata disposizione si evince che
il
Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per
violazioni meramente formali, costituendo “cause di
esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da
espresse previsioni di legge.
La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato –già in
relazione all’art. 46, comma 1-bis, del previgente Codice–
certamente meno restrittivo in punto di cause di esclusione
rispetto al richiamato art. 83 del nuovo Codice, ha
interpretato in maniera sostanzialistica il principio di
tassatività delle stesse, ritenendo sussistente una causa di
esclusione implicita in ogni norma imperativa che preveda un
espresso obbligo o un divieto a carico della candidata alla
selezione per il conferimento di un appalto pubblico
(si
veda in particolare quanto statuito in proposito
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 25.02.2014 n. 9).
Allo stesso modo, con parere del 30/09/2014 n. 50, l’ANAC ha
precisato, proprio in riferimento a un caso praticamente
identico a quello posto all’esame del Collegio, che
mentre
nell’ambito di una procedura per l’affidamento di lavori
pubblici, la previsione della legge di gara che subordina la
partecipazione al sopralluogo sulle aree e gli immobili
interessati non viola il principio di tassatività delle
cause di esclusione dalle gare di appalto, di cui all’art.
46, comma 1-bis d.lgs. n. 163/2006, in quanto puntualmente
giustificata da una previsione contenuta nell’art. 106 del d.P.R. n. 207/2010, altrettanto non può dirsi per gli
appalti di servizi dove, in assenza di una specifica
prescrizione, la legittimità di un’analoga previsione a pena
di esclusione inserita nella lex specialis deve essere
valutata in concreto e la sanzione dell’esclusione collegata
a un simile adempimento può essere considerata legittima
solo quando vi siano ragioni oggettive (ostese o
immediatamente percepibili) che possano far presumere
l’assoluta inidoneità dell’offerta, se formulata in assenza
della preventiva visione dei luoghi di esecuzione
dell’appalto.
Né il quadro normativo è mutato di seguito all’entrata in
vigore del nuovo codice degli appalti, posto che, intanto,
il richiamato comma 8 dell’art. 83, come premesso, indica
ipotesi ancora più circoscritte rispetto a quelle richiamate
dall’art. 46, comma 1-bis, del vecchio testo e, inoltre,
allo stato, anche l’art. 106 del Regolamento del Codice
(che, è bene ribadire, concerne la diversa ipotesi di
appalti di opere pubbliche) è stato abrogato, così come
stabilito dall’articolo 217, comma 1, lettera u), numero 2),
del del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, che, come è noto, ha
operato un’abrogazione in parte immediata e in parte
differita del detto Regolamento.
Né è possibile accedere alla soluzione proposta dalla
Ti.Ec. 2000, secondo la quale la ratio
giustificatrice della riserva del sopralluogo e, quindi, la
legittimità dell’esclusione della ricorrente, potrebbero
rinvenirsi nell’art. 79 del nuovo Codice, posto che la
norma, al comma 2, stabilisce semplicemente che “quando le
offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una
visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei
documenti di gara e relativi allegati, i termini per la
ricezione delle offerte, comunque superiori ai termini
minimi stabiliti negli articoli 60, 61, 62, 64 e 65, sono
stabiliti in modo che gli operatori economici interessati
possano prendere conoscenza di tutte le informazioni
necessarie per presentare le offerte”.
Dal testo della norma emerge, intanto, ancora una volta, che
non sussiste un obbligo indifferenziato di sopralluogo e, di
più, che tale obbligo determina, semmai, un prolungamento
del termine dell’offerta e non già l’esclusione delle
partecipanti.
Richiamando il condivisibile assunto dell’ANAC nel parere
sopra indicato, una previsione siffatta, in quanto
relazionata a una tipologia di appalto il cui servizio ha
natura estremamente semplice (certamente diversa dalle
esigenze logistiche rinvenibili in tema di opere pubbliche,
circostanza, questa, che giustifica la diversa disciplina
sopra richiamata con il previgente Regolamento), amplia
eccessivamente, e in senso formalistico, le cause di
esclusione dalla procedura, senza alcuna necessità in
relazione alle esigenze organizzative della stazione
appaltante.
Facendo applicazione dei suesposti principi al caso di
specie, il Collegio rileva che:
1)
la prescrizione del bando nella parte in cui dispone che
l'attestazione di avvenuto sopralluogo è richiesta a pena di
esclusione
(art. 4 della lettera di invito),
deve
considerarsi nulla ai sensi del citato art. 83, comma 8, non
essendo riconducibile alle cause tassative di esclusione ivi
previste, non rinvenendosi alcuna norma imperativa che
imponga in termini di divieto o di obbligo un siffatto
adempimento e non ravvisandosi ragioni oggettive e
immediatamente percepibili, che possano far presumere
l’assoluta inidoneità dell’offerta, nella previsione secondo
cui, per quanto attiene ai Consorzi partecipanti, per uno o
più consorziati a pena di esclusione saranno tenuti a
partecipare al sopralluogo sia il legale rappresentante del
Consorzio sia i legali rappresentanti di ciascuno dei
soggetti consorziati per i quali lo stesso Consorzio
concorre.
2) Non va obliterata la considerazione secondo la quale,
comunque, un delegato, legittimamente, posto che nessun
obbligo di attestazione documentale in sede di delega poteva
ritenersi necessaria, ha effettuato un più che sufficiente
sopralluogo, al fine di redigere una non complessa offerta.
3) E’ altresì fondato anche il primo motivo di ricorso,
risultando condivisibile la giurisprudenza richiamata da
parte ricorrente secondo cui
nelle gare d'appalto l'obbligo
di dichiarare l'assenza dei "pregiudizi penali" è da
considerarsi assolto dal legale rappresentante dell'impresa
anche riguardo ai terzi, compresi i soggetti cessati dalla
carica, specie quando la legge di gara non richieda la
dichiarazione individuale di detti soggetti
(v. da ultimo
TAR Calabria-Catanzaro Sez. I, Sent., 21/07/2016, n.
1575 che richiama Tar Lazio-Roma, sez. III-quater, n.
6682/2012 e Cons. St., n. 1894 del 2013);
in ogni caso
trattasi di irregolarità per cui poteva operare il soccorso
istruttorio non essendo in presenza di un vizio tale da non
consentire l'individuazione del contenuto o del soggetto
responsabile della documentazione ai sensi del citato comma
9 dell’art. 83 del D.lgs. n. 50/2016.
X. - Per le considerazioni che precedono il ricorso, come
integrato dai motivi aggiunti, va accolto e
conseguentemente, previa declaratoria di nullità dell’art. 4
della lex specialis (nella parte in cui prevede a pena di
esclusione l’effettuazione del sopralluogo dei locali
adibiti a centro cottura e dei locali dove dovranno essere
consegnati e somministrati i pasti), va dichiarata
l’illegittimità della esclusione del Consorzio ricorrente. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sul disposto
differimento all'esercizio del diritto di accesso agli atti
della Polizia Locale quali "atti di polizia giudiziaria".
Il segreto istruttorio, opponibile alla
parte, viene in considerazione con riferimento agli atti
compiuti dall'autorità amministrativa nell'esercizio di
funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall'ordinamento, non anche quando l'Amministrazione operi
nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni
amministrative, e si limiti a presentare una denuncia
all'autorità giudiziaria.
Nella prima eventualità, la giurisprudenza amministrativa ha
ravvisato ragioni di segretezza tali da escludere
l’ostensione degli atti o giustificarne il differimento.
In particolare, il massimo organo di giustizia
amministrativa ha chiarito che:
a) ai sensi dell'art. 24, c. 1, lett. a), L. n. 241 del 1990 come
sostituito dall'art. 16 L. n. 205/2000, sono esclusi dal
diritto di accesso i documenti amministrativi coperti da
segreto o da divieto di divulgazione espressamente previsti
dalla legge.
In particolare, i documenti dell'amministrazione che
costituiscono atti di polizia giudiziaria sono soggetti
esclusivamente alla disciplina stabilita dall'art. 329
c.p.p. in base alla quale "sono coperti da segreto fino a
quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e comunque
non oltre la chiusura delle indagini preliminari"; tali atti
inoltre sono soggetti alla disciplina sul divieto di
pubblicazione stabilita dall'art. 114 e ss c.p.p.;
b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la giurisprudenza
amministrativa sostiene che con riferimento ai documenti per
i quali il diritto di richiedere copie, estratti, o
certificati sia riconosciuto da singole disposizioni del
codice di procedura penale nelle diverse fasi del
procedimento penale, l'accesso vada esercitato secondo le
modalità previste dal medesimo codice;
c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti dal
pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o comunque su
loro iniziativa; di conseguenza la giurisprudenza
amministrativa ritiene che tali atti, anche se redatti da
una pubblica amministrazione, siano sottratti al diritto di
accesso regolato dalla L. n. 241/1990.
Il Consiglio di Stato ha chiarito, altresì, che l'accesso
agli atti amministrativi non può riguardare atti su cui
operi il segreto istruttorio penale, perché formatisi in
occasione di attività di indagine compiute dalla Polizia
municipale quale organo di Polizia giudiziaria, su delega
del p.m., atti per i quali, in assenza di autorizzazione di
quest'ultimo, è esclusa "in radice" l'ostensibilità.
Si tratta di valutare l’atto di cui si chiede ostensione
atteso che, come anticipato, il segreto istruttorio penale
viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti
dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall'ordinamento.
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Il Collegio ritiene che nel caso di
specie l’ostensione del verbale di sopralluogo
legittimamente sia stata differita alla conclusione del
procedimento in quanto atto di natura ispettiva, connesso
direttamente ed immediatamente all’esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuite all’organo che
lo detiene, inerenti accertamenti rilevanti ex art. 399
c.p.c., pertanto plausibilmente sottratto alla visione ai
sensi dell’art. 329 c.p.p. fino alla conclusione del
procedimento medesimo.
---------------
... per l'annullamento della determinazione dirigenziale n.
633/2016 del corpo di polizia locale Roma Capitale XII
Gruppo Monteverde - con il quale si è disposto un
differimento all'esercizio del diritto di accesso agli atti
della ricorrente.
...
Il 09/09/2016, la signora Ca., socia della PE.FR. srl al
50%, in rappresentanza di quest’ultima, ha chiesto di
estrarre copia della relazione del Comandi di Polizia locale
prot. CQ 62024.
Con D.D. n. 633/2016, l’Amministrazione ha opposto il
differimento dell’accesso agli atti per la seguente
motivazione: “in disparte al momento ogni valutazione
circa la situazione legittimante all’accesso e circa diritti
procedurali, per quanto consta a questo Comando è stata
avviata un’attività istruttoria di natura ispettiva, di
verifica o di controllo e che la conoscenza degli atti, al
momento, può gravemente ostacolare il buon andamento
dell’azione amministrativa … pertanto in disparte al momento
ogni valutazione circa gli interessi sottesi e circa la
natura della questione, al fine di consentire regolare
svolgimento dell’azione amministrativa e nelle more della
definizione del procedimento avviato con provvedimento che
eroga sanzioni amministrative ovvero con l’archiviazione,
non può essere consentito l’accesso agli atti …”.
La società ricorrente, premessa la legittimazione della
signora Ca. ad instare l’amministrazione per l’accesso agli
atti, censura il “differimento” per difetto di
motivazione.
...
Nel merito, il ricorso è infondato.
Il segreto istruttorio, opponibile alla parte, viene in
considerazione con riferimento agli atti compiuti
dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall'ordinamento, non anche quando l'Amministrazione operi
nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni
amministrative, e si limiti a presentare una denuncia
all'autorità giudiziaria.
Nella prima eventualità, la giurisprudenza amministrativa ha
ravvisato ragioni di segretezza tali da escludere
l’ostensione degli atti o giustificarne il differimento (TAR
Lazio, 2^ Sez., n. 11188/2015; Consiglio di Stato, sez. IV,
28/10/2016, n. 4537).
In particolare, il massimo organo di giustizia
amministrativa ha chiarito che:
a) ai sensi dell'art. 24, c. 1, lett. a), L. n. 241 del 1990 come
sostituito dall'art. 16 L. n. 205/2000, sono esclusi dal
diritto di accesso i documenti amministrativi coperti da
segreto o da divieto di divulgazione espressamente previsti
dalla legge. In particolare, i documenti
dell'amministrazione che costituiscono atti di polizia
giudiziaria sono soggetti esclusivamente alla disciplina
stabilita dall'art. 329 c.p.p. in base alla quale "sono
coperti da segreto fino a quando l'imputato non ne possa
avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle
indagini preliminari" (cons. St. n. 1923/2003); tali
atti inoltre sono soggetti alla disciplina sul divieto di
pubblicazione stabilita dall'art. 114 e ss c.p.p.;
b) fermo restando quanto previsto dal c.p.p., la giurisprudenza
amministrativa sostiene che con riferimento ai documenti per
i quali il diritto di richiedere copie, estratti, o
certificati sia riconosciuto da singole disposizioni del
codice di procedura penale nelle diverse fasi del
procedimento penale, l'accesso vada esercitato secondo le
modalità previste dal medesimo codice (così, Cons. Stato
Sez. VI n. 2780 del 2011; sez. VI, n. 6117 del 2008);
c) l’art. 329 c.p.p. concerne gli atti di indagine compiuti dal
pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o comunque su
loro iniziativa; di conseguenza la giurisprudenza
amministrativa ritiene che tali atti, anche se redatti da
una pubblica amministrazione, siano sottratti al diritto di
accesso regolato dalla L. n. 241/1990 (Cons. St., n.
6117/2008 e n. 1923/2003).
Il Consiglio di Stato, sez. V, 12/05/2015, n. 2357 ha
chiarito, altresì, che l'accesso agli atti amministrativi
non può riguardare atti su cui operi il segreto istruttorio
penale, perché formatisi in occasione di attività di
indagine compiute dalla Polizia municipale quale organo di
Polizia giudiziaria, su delega del p.m., atti per i quali,
in assenza di autorizzazione di quest'ultimo, è esclusa "in
radice" l'ostensibilità.
Si tratta di valutare l’atto di cui si chiede ostensione
atteso che, come anticipato, il segreto istruttorio penale
viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti
dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di
polizia giudiziaria specificamente attribuitele
dall'ordinamento.
Ebbene, dalla versata documentazione si evince che la
Polizia di Roma Capitale, a seguito di sopralluogo
effettuato il 13/07/2016 (verbale di cui si chiede
ostensione), “ha dato corso ad accertamenti di natura
ispettiva che sono tuttora in corso”.
All’ispezione hanno fatto seguito le note con le quali la
Polizia locale ha interpellato gli Uffici capitolini e la
ASL per ulteriori accertamenti.
Con nota prot. 23727 del 15.09.2017, il Dipartimento
Patrimonio Sviluppo e Valorizzazione di Roma Capitale ha
riscontrato le richieste di notizie.
Con successiva nota datata 12.08.2016, Roma Capitale ha
avviato il procedimento di decadenza dell’autorizzazione di
somministrazione.
I documenti sono stati depositati da Roma Capitale.
Il Collegio ritiene che nel caso di specie l’ostensione del
verbale di sopralluogo legittimamente sia stata differita
alla conclusione del procedimento in quanto atto di natura
ispettiva, connesso direttamente ed immediatamente
all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria
specificamente attribuite all’organo che lo detiene,
inerenti accertamenti rilevanti ex art. 399 c.p.c., pertanto
plausibilmente sottratto alla visione ai sensi dell’art. 329
c.p.p. fino alla conclusione del procedimento medesimo.
Per le considerazioni che precedono, il ricorso, in
conclusione, è infondato e va, pertanto, respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 01.02.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Soccorso istruttorio in relazione ai requisiti di
partecipazione alla gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio - Modifica elemento afferente ad un requisito di
partecipazione alla gara – Art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50
del 2016 – Esclusione.
Il disposto dell’art. 83, comma 9,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non consente la modifica di un
elemento afferente ad un requisito di partecipazione alla
gara non posseduto dal concorrente entro il termine di
scadenza dell’offerta (1).
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(1)
Ha ricordato il Tar che il comma 9 dell’art. 83 del nuovo
Codice dei contratti dispone che “le carenze di qualsiasi
elemento formale della domanda possono essere sanate
attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al
presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza
e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del
documento di gara unico europeo di cui all'art. 85, con
esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed
economica”.
Nel caso all’esame del Tar il concorrente alla gara, indetta
per l’affidamento del servizio di igiene urbana, a seguito
della richiesta di integrazione della documentazione
inerente all’impianto di trattamento dei rifiuti indicato
nella domanda di partecipazione, ha prodotto le
autorizzazioni di due nuovi impianti
Ad avviso del Tribunale l’indicazione di due nuove
piattaforme per il conferimento dei rifiuti, mai dichiarate
né menzionate nella domanda di partecipazione è idonea a
incidere sugli elementi attinenti proprio all’offerta, con
conseguente vanificazione del canone generale della parità
di trattamento e dell'essenza stessa della procedura
selettiva, il cui fondamento volontaristico, finalizzato
alla conclusione del contratto posto a gara, rende le
offerte immodificabili una volta presentate nei termini
previsti dalla lex specialis (Cons.
St., sez. V, 02.08.2016, n. 3481) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 01.02.2017 n. 685 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Deve escludersi una competenza degli
agrotecnici in materia
di sia progettazione di opere di miglioramento fondiario,
sia –a maggior ragione– di pianificazione territoriale,
soprattutto in materia forestale.
All’agrotecnico sono riservate le competenze
in materia tecnico-economica aziendale, anche in relazione
alla progettazione di opere di trasformazione fondiaria (ad
es. fattibilità economica), ma non anche quelle di
progettazione vera e propria.
La stessa formulazione della lett. c) accredita questa
interpretazione, se si vuol dare senso compiuto a un periodo
sconnesso sul piano grammaticale.
“L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente: … c)
l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed
alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e
direzione di piani aziendali ed interaziendali, anche ai
fini della concessione dei mutui fondiari nonché le opere di
trasformazione e miglioramento fondiario”.
È chiaro, infatti, che la frase finale “opere di
trasformazione e miglioramento fondiario” non è retta
dall’incipit generale “L’iscrizione all’albo degli
Agrotecnici consente”, perché in tal modo non avrebbe alcun
senso logico: la proposizione “L’iscrizione all’albo degli
Agrotecnici consente … le opere di trasformazione e
miglioramento fondiario” non individua l’attività
dell’agrotecnico avente ad oggetto le opere in questione.
Dunque, la frase “opere di trasformazione e miglioramento
fondiario” è retta dall’incipit particolare “l’assistenza
tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole
e medie aziende, compresa la progettazione e direzione di
piani aziendali ed interaziendali”.
In conclusione, tale norma vale ad precisare la competenza
di assistenza tecnico-economica aziendale, in relazione alla
progettazione e direzione di piani aziendali e delle opere
di trasformazione e miglioramento fondiario.
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1.4 Con il quarto e quinto motivo si deduce violazione e
falsa applicazione dell’art. 11, comma 1, lett. c), della
legge 06.06.1986, n. 251, come modificato dall’art. 26,
comma 2-bis, del decreto legge 31.12.2007, n. 248,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28.02.2008,
n. 31; violazione e falsa applicazione dell’art. 1-bis,
comma 16, del D.L. 24.06.2014, n. 91, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116; eccesso
di potere per difetto di motivazione e di istruttoria.
Deve escludersi una competenza degli agrotecnici in materia
di sia progettazione di opere di miglioramento fondiario,
sia –a maggior ragione– di pianificazione territoriale,
soprattutto in materia forestale.
L’Amministrazione ha erroneamente interpretato la normativa
di riferimento, ritenendo un ampliamento delle competenze
degli agrotecnici, che non è previsto né dalla novella del
2008, né dalla norma c.d. interpretativa del 2014.
1.5 In subordine si solleva questione di legittimità
costituzionale dell’art. 26, comma 2-bis, del d.l. n. 248
del 2007, convertito nella legge n. 31 del 2008, che
modifica l’art. 11, comma 1, lett. c), l. 251 del 1986,
nonché dell’art. 1-bis, comma 16, del d.l. 24.06.2014,
n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116, nell’ipotesi in cui si riconoscesse a tali
disposizioni l’effetto di estendere le competenze degli
agrotecnici, rispettivamente, alla progettazione di opere di
trasformazione e miglioramento fondiario, nonché alla
pianificazione territoriale, anche in materia forestale.
2. L’appello è fondato con riguardo all’assorbente motivo di
cui al precedente punto 1.4.
2.1 Occorre preliminarmente definire le competenze degli
agrotecnici.
L’art. 11 della legge 06.06.1986, n. 251, istitutiva
dell’albo professionale degli agrotecnici, individua le
competenze degli agrotecnici, prevedendo che “L’iscrizione
all’albo degli Agrotecnici consente: a) la direzione e
l’amministrazione di cooperative di produzione,
commercializzazione e vendita di prodotti agricoli; b) la
direzione, l’amministrazione e la gestione di aziende
agrarie e zootecniche e di aziende di lavorazione,
trasformazione e commercializzazione di prodotti agrari e
zootecnici, limitatamente alle piccole e medie aziende, ivi
comprese le funzioni contabili, quelle di assistenza e di
rappresentanza tributaria e quelle relative
all’amministrazione del personale dipendente delle medesime
aziende; c) l’assistenza tecnico-economica agli organismi
cooperativi ed alle piccole e medie aziende, compresa la
progettazione e direzione dei piani aziendali ed
interaziendali, anche ai fini della concessione dei mutui
fondiari, nonché le opere di trasformazione e miglioramento
fondiario; d) l’assistenza alla stipulazione dei contratti
agrari; e) la formulazione e l’analisi dei costi di
produzione e di consulenza ed i controlli analitici per i
settori lattiero-caseario, enologico ed oleario; f) la
rilevazione dei dati statistici; g) l’assistenza tecnica per
i programmi e gli interventi fitosanitari e di lotta
integrata; h) la curatela di aziende agrarie e zootecniche;
i) la direzione e manutenzione di parchi e la progettazione,
direzione e manutenzione di giardini, anche localizzati, gli
uni e gli altri, in aree urbane; 1) le attività connesse
agli accertamenti e alla liquidazione degli usi civici; m)
l’assistenza tecnica ai produttori singoli e associati;
[...]”.
È di plastica evidenza che dette competenze siano
circoscritte alla gestione economico-aziendale e
amministrativa delle aziende agricole o zootecniche.
Non altera questo quadro la lett. c), frutto di modifica
ad opera dell’art. 26, comma 7-ter, del decreto legge 31.12.2007, n. 248, convertito con modificazioni dalla
legge 28.02.2008, n. 31, giacché il riferimento alle
“opere di trasformazione e miglioramento fondiario” non può
che essere inteso in coerenza con tutte le altre previsioni,
dunque inerente allo sviluppo tecnico-economico aziendale.
L’interpretazione giurisprudenziale conferma tale
inquadramento.
L’identificazione delle competenze professionali non può che
essere operata in relazione al curriculum di studi, e in tal
senso la Corte costituzionale, con sentenza n. 441 del 2000
aveva affermato che: «Come la Corte ha avuto più volte
occasione di affermare, compete al legislatore,
nell’esercizio della sua discrezionalità, individuare
competenze ed attribuzioni di ciascuna categoria
professionale, essenzialmente sulla scorta del principio di
professionalità specifica, il quale richiede, per
l’esercizio delle attività intellettuali rivolte al
pubblico, un adeguato livello di preparazione e di
conoscenza delle materie inerenti alle attività stesse
(vedi, tra le molte, sentenze n. 5 del 1999, n. 456 del 1993
e n. 29 del 1990).
Nel caso qui all’esame, va considerato
che la preparazione dell’agrotecnico, secondo il bagaglio
formativo che si desume dal previsto curriculum scolastico
(decreto del Ministro della pubblica istruzione 15.04.1994, recante i programmi e gli orari di insegnamento per i
corsi post-qualifica degli istituti professionali di Stato),
e che si evince, altresì, dal programma di base per l’esame
di Stato di abilitazione professionale (art. 18 del decreto
del Ministro della pubblica istruzione del 06.03.1997, n.
176, avente ad oggetto il regolamento recante norme per lo
svolgimento di detti esami di Stato), è rivolta,
prevalentemente, agli aspetti economici e gestionali
dell’azienda agraria, laddove le cognizioni in materia di
catasto appaiono circoscritte ad un livello descrittivo, sì
da risultare soltanto un complemento della formazione
primaria ed essenziale».
Con sentenza 10.04.2014, n. 1738, la Sezione ha ribadito
che, anche dopo la novella legislativa del 2008, le
competenze professionali degli agrotecnici sono rivolte
prevalentemente agli aspetti economici e gestionali
dell’azienda agraria e, inoltre, che non comprendono
interventi di sistemazione forestale, rimboschimento o
difesa del suolo.
In definitiva, all’agrotecnico sono riservate le competenze
in materia tecnico-economica aziendale, anche in relazione
alla progettazione di opere di trasformazione fondiaria (ad
es. fattibilità economica), ma non anche quelle di
progettazione vera e propria.
La stessa formulazione della lett. c) accredita questa
interpretazione, se si vuol dare senso compiuto a un periodo
sconnesso sul piano grammaticale.
“L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente: … c)
l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed
alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e
direzione di piani aziendali ed interaziendali, anche ai
fini della concessione dei mutui fondiari nonché le opere di
trasformazione e miglioramento fondiario”.
È chiaro, infatti, che la frase finale “opere di
trasformazione e miglioramento fondiario” non è retta
dall’incipit generale “L’iscrizione all’albo degli
Agrotecnici consente”, perché in tal modo non avrebbe alcun
senso logico: la proposizione “L’iscrizione all’albo degli
Agrotecnici consente … le opere di trasformazione e
miglioramento fondiario” non individua l’attività
dell’agrotecnico avente ad oggetto le opere in questione.
Dunque, la frase “opere di trasformazione e miglioramento
fondiario” è retta dall’incipit particolare “l’assistenza
tecnico-economica agli organismi cooperativi ed alle piccole
e medie aziende, compresa la progettazione e direzione di
piani aziendali ed interaziendali”.
In conclusione, tale norma vale ad precisare la competenza
di assistenza tecnico-economica aziendale, in relazione alla
progettazione e direzione di piani aziendali e delle opere
di trasformazione e miglioramento fondiario.
Occorre, tuttavia, considerare la disposizione di cui
all’art. 1-bis, comma 16, del D.L. 24.06.2014, n. 91,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014,
n. 116, secondo cui “l’art. 11, comma 1, lettera c) della
legge 06.06.1986, n. 251, come modificato dall’art. 26,
comma 2-bis, del decreto legge 31.12.2007, n. 248,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28.02.2008,
n. 31, si interpreta nel senso che sono anche di competenza
degli iscritti all’albo degli agrotecnici le attività di
progettazione e direzione delle opere di trasformazione e
miglioramento fondiario sia agrario che forestale”.
Il testo, infatti, sembrerebbe accreditare
un’interpretazione difforme da quella sinora patrocinata,
anzi allargando la competenza degli agronomi alla materia
della pianificazione forestale.
Proprio tale aspetto, però, deve indurre a riflessione,
poiché una norma interpretativa non può ampliare il
significato della disposizione interpretata.
L’intervento del legislatore non può, allora, che essere
inteso nel senso di chiarire che le competenze
economico-gestionali dell’agrotecnico riguardano la
progettazione, ivi compresa la materia forestale.
Infatti, nella formulazione della citata lett. c) manca
proprio l’elemento linguistico di collegamento tra “la
progettazione e direzione di piani aziendali ed
interaziendali” e “le opere di trasformazione e
miglioramento fondiario”.
In definitiva, se tale disposizione avesse previsto che
“L’iscrizione all’albo degli Agrotecnici consente: … c)
l’assistenza tecnico-economica agli organismi cooperativi ed
alle piccole e medie aziende, compresa la progettazione e
direzione di piani aziendali ed interaziendali, anche ai
fini della concessione dei mutui fondiari, nonché delle
opere di trasformazione e miglioramento fondiario”, allora
la norma interpretativa sarebbe stata superflua nel
riferirsi alla progettazione qualora non avesse voluto
sganciarla dall’assistenza tecnico-economica.
Invece, alla luce della cattiva redazione di codesta lett.
c), la norma interpretativa ha puntualizzato che
l’assistenza tecnico-economica alle aziende concerne pure
l’attività di progettazione, con l’ulteriore specificazione
della materia forestale.
A sostegno di tale lettura militano due argomenti
sistematici, complementari.
L’art. 2 della legge 07.01.1976, n. 3 (Ordinamento della
professione di dottore agronomo e dottore forestale) assegna
ai dottori agronomi e dottori forestali: “c) lo studio,
la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la
liquidazione, la misura, la stima, la contabilità e il
collaudo di opere inerenti ai rimboschimenti, alle
utilizzazioni forestali, alle piste da sci ed attrezzature
connesse, alla conservazione della natura, alla tutela del
paesaggio ed all’assestamento forestale; q) gli studi di
assetto territoriale ed i piani zonali, urbanistici e
paesaggistici; la programmazione, per quanto attiene alle
componenti agricolo-forestali ed ai rapporti città-campagna;
i piani di sviluppo di settore e la redazione nei piani
regolatori di specifici studi per la classificazione del
territorio rurale, agricolo e forestale; r) lo studio, la
progettazione, la direzione, la sorveglianza, la misura, la
stima, la contabilità ed il collaudo di lavori inerenti alla
pianificazione territoriale ed ai piani ecologici per la
tutela dell’ambiente; la valutazione di impatto ambiente ed
il successivo monitoraggio per quanto attiene agli effetti
sulla flora e la fauna; i piani paesaggistici e ambientali
per lo sviluppo degli ambiti naturali, urbani ed
extraurbani; i piani ecologici e i rilevamenti del
patrimonio agricolo e forestale”.
È una disposizione cristallina nel definire le competenze di
tale categoria con riguardo alla materia della
pianificazione territoriale e forestale in particolare. Gli
appellati obiettano che non vi è ragione di ritenere tale
competenza esclusiva, non essendovi attribuzione di riserva.
Tuttavia, è regola di carattere generale che, atteso la
forte specializzazione delle professioni, rivelata dalla
proliferazione di autonome categorie professionali e dei
relativi albi, con le conseguenti protezioni normative, le
competenze di ciascun ramo, almeno per i settori che li
connotano maggiormente, siano esclusive e non concorrenti.
Poca logica avrebbe distinguere gli agronomi e i forestali
dagli agrotecnici se si creasse un settore promiscuo di
competenze in una materia come la progettazione e la
pianificazione forestale.
Secondo argomento è che all’albo degli agrotecnici possono
accedere, diversamente da quanto accade per quello degli
agronomi, anche non laureati, che siano in possesso del
diploma di istruzione secondaria superiore (di istituto
professionale o tecnico) ad indirizzo agrario. Il che fa
venir meno le considerazioni degli appellati in ordine alla
sostanziale equivalenza ai fini in discussione del percorso
di studio dell’agronomo e dell’agrotecnico, ciò potendo
valer al più solo per gli agrotecnici laureati.
3.2 A questo punto si tratta di stabilire se l’incarico di
redazione del piano di gestione e assestamento forestale
affidato dall’Azienda Calabria Verde al dott. Ma.
comprendesse attività non rientranti nelle competenze degli
agrotecnici, come sopra definite. Che è poi l’oggetto
dell’istruttoria disposta dalla Sezione, con particolare
riferimento alle attività di cui all’art. 7, lettere f) ed
i) della legge regionale Calabria n. 45/2012.
Calabria Verde ha depositato una prima relazione, affermando
che l’incarico comprende le attività indicate nel predetto
art. 7, ritenendo però che esse rientrino nella competenza
dell’agronomo proprio in forza dell’art. 1-bis, comma 16,
legge 116/2014, e una seconda relazione nella quale descrive
il contenuto di dette attività.
La Regione Calabria non ha risposto direttamente al quesito,
ma ha sottinteso pure una risposta affermativa, ritenendo
l’incarico –proprio per questa afferenza ai profili di
progettazione forestale– riservato alla competenza degli
agronomi e per questo attivando una segnalazione di danno
erariale.
In sostanza le parti richieste concordano sul contenuto
delle attività commissionate.
In particolare, il piano comprende oltre alla gestione,
anche la preliminare attività di sistemazione e di assetto
idrogeologico e forestale.
Ciò vale per le analisi pedoclimatiche e vegetazionali (art.
7, comma 2, lettera d) l.r. n. 45/2012), per la descrizione
dei tipi forestali, dei comparti colturali e delle unità
colturali (lettera e) e, soprattutto, per le valutazioni e
la progettazione delle opere idrogeologiche (lettere f) ed
i).
L’inerenza alla pianificazione forestale è confermata dalle
Linee guida della Regione Calabria, le quali richiamano le
Prescrizioni di massima e di polizia forestale (PMPF)
approvate con D.G.R. n. 450 del 27.06.2008,
successivamente sostituite dalle PMPF approvate con D.G.R.
n. 218 del 20.05.2011.
Tali ultime PMPF, in vigore, hanno ad oggetto, non soltanto
la gestione ottimale dei boschi, ma prima ancora la tutela
attiva degli ecosistemi e dell’assetto paesaggistico e
idrogeologico del territorio, oltre che la salvaguardia
dello stato di conservazione delle specie e degli Habitat
della rete natura 2000 (art. 1, punto 1 PMPF n. 218/2011).
La pianificazione forestale si attua “attraverso
l’elaborazione e l’applicazione dei piani di assestamento o
di gestione di proprietà pubbliche e private, singole,
associate e collettive” (art. 1, punto 2).
Secondo il punto 3 del medesimo articolo 1, “le presenti PMPF costituiscono strumento per la: a) tutela dell’assetto
idrogeologico (L. 183/1989; RD 3267/1923; RD 1126/1926); b)
salvaguardia e la valorizzazione delle zone montale (L.
97/1994); c) tutela e la valorizzazione dei beni ambientali
e paesaggistici (L. 394/1991; D.lgs. 42/2004; D.lgs.
152/2006); tutela della biodiversità e degli habitat
naturali della rete Natura 2000 (D.P.R. 357/1997; D.P.R.
120/2003; L. 157/1992)”.
Inoltre, i piani di assestamento o di gestione una volta
approvati sono parificati alle PMPF (art. 2, punto 5).
Alla luce di quanto evidenziato sub 3.1, l’incarico in esame
ha dunque un oggetto in parte esorbitante dalle competenze
dell’agrotecnico.
3.3 L’appello è accolto, anche nei confronti della Regione
Calabria, la cui richiesta di estromissione dal giudizio non
può essere accolta, perché ente che ha adottato gli atti di
avvio della procedura impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 01.02.2017 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Appalti
di servizi in house, ok del Cds alle linee Anac.
Affidamenti di appalti di servizi alle società in house al
via. Il Consiglio di stato ha dato il via libera, sia pure
con richieste di modifica, alle Linee Guida dell'Anac per
l'iscrizione nell'elenco delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano
mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie
società in house, previsto dall'art. 192 del dlgs 50/2016.
Il
parere 01.02.2017 n. 282 di Palazzo Spada condivide
l'impianto delle Linee Guida sottoposte al suo esame
dall'autorità presieduta da Raffaele Cantone, chiedendo,
però, «limature» sia ai poteri che l'Anac può svolgere sia
ai contenuti.
Procedura.
Le Linee guida chiariscono che le amministrazioni
che intendano affidare appalti a proprie società in house
possono richiedere l'iscrizione nell'Elenco previsto
dall'articolo 192 del dlgs 50/2015. L'Anac chiuderà il
procedimento, a regime, entro 90 giorni, anche se si prevede
una fase di avvio con termini diversificati.
Natura iscrizione.
In caso di esito positivo, l'Anac iscrive
le amministrazioni nell'elenco. Prima di un eventuale
diniego, inviterà le amministrazioni a far pervenire
eventuali controdeduzioni o a richiedere l'iscrizione con
riserva e l'impegno a rimuovere le cause ostative
all'iscrizione entro i successivi 90 giorni.
A seguito
dell'iscrizione, le amministrazioni potranno attivare gli
affidamenti diretti alle società in house, con la garanzia
di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza derivante
dall'attuazione delle prescrizioni del codice dei contratti
e delle linee guida. Palazzo Spada precisa, però, che
l'iscrizione non ha natura di atto «costitutivo» di un
diritto o di «abilitazione». Il parere paragona la domanda
di iscrizione a una segnalazione di inizio attività: le
pubbliche amministrazioni hanno il potere di affidare gli
appalti alle partecipate in house.
La domanda di iscrizione
al registro, tuttavia, «innesca una fase di controllo dell'Anac,
tesa a verificare la sussistenza dei presupposti soggettivi
ai quali la normativa –Ue e nazionale– subordina la
sottrazione alle regole della competizione e del mercato».
Così, appunto, si garantiscono trasparenza e pubblicità
richieste dalla normativa Ue.
Se il controllo dell'Anac ha
esito positivo, secondo Palazzo Spada non si dà vita ad un
«consenso», incompatibile con l'assenza di un regime
autorizzatorio; si tratta di un «mero riscontro» della
sussistenza dei requisiti di legge, con conseguente
iscrizione che consolida una legittimazione già assicurata,
nei termini descritti, dalla presentazione della domanda».
La verifica Anac si traduce in provvedimento solo se ha
esito negativo.
Verifica requisiti.
Le Linee guida descrivono le modalità
del controllo svolto dall'Anac, che riguardano il possesso
da parte delle partecipate dei requisiti previsti dal dlgs
175/2016 e dall'articolo 5 del codice dei contratti. Il
parere del Consiglio di stato rileva, però, che le
indicazioni Anac introducono requisiti ulteriori e diversi
da quelli indicati dalla legge per stabilire se vi sia il
«controllo analogo»che consente l'affidamento diretto ed
invita l'autorità ad eliminarli.
Cancellazione dall'elenco.
Palazzo Spada chiede all'Anac di
eliminare il passaggio secondo cui nel caso di cancellazione
delle amministrazioni dall'elenco i contratti già
aggiudicati devono essere revocati
(articolo ItaliaOggi del 03.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: In
house, ok di Palazzo Spada alle linee guida dell’Anac.
Appalti. Per affidare i contratti basterà la domanda di
iscrizione.
La scelta dell'Anac di cancellare
una società dall'albo delle aziende legittimate ad assegnare
appalti in house (senza gara) non comporta la revoca
automatica dei contratti già affidati.
È questo uno dei
punti più rilevanti del
parere 01.02.2017 n. 282 con cui il Consiglio di Stato
ha promosso -con qualche obiezione- le linee guida
dell'Anticorruzione destinate a mettere in piedi l’albo
delle società in house. (Linee guida per
l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano
mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie
società in house previsto dall’art. 192 del d.lgs. 50/2016). Si tratta del primo passo per
tentare di portare in piena luce un mercato che finora è
vissuto all’ombra (confortevole) degli affidamenti diretti,
evitando abusi del regime di deroga concesso dal codice
appalti.
L'albo conterrà tutte le informazioni delle amministrazioni
controllanti e delle società in house, con l’indicazione
esplicita della clausola statutaria che impone lo
svolgimento di una quota del fatturato pari almeno all'80%
nei confronti dell'ente controllante «e che la produzione
ulteriore rispetto a questo limite sia consentita solo se
assicura economie di scala».
Insieme al «controllo analogo»,
cioè lo stringente potere di indirizzo esercitato
dall'amministrazione che controlla la società in house, è
uno dei requisiti fondamentali, anche ai sensi delle regole
europee, per consentire deroghe all’obbligo di affidare gli
incarichi con gare aperte al mercato. Per questo i controlli
dell’Anac si concentreranno sul rispetto di entrambi questi
parametri.
Il punto su cui i giudici di Palazzo Spada dissentono
riguarda proprio l’effetto dei controlli esercitati
dall'Autorità. Innanzitutto i giudici chiariscono che per
poter procedere agli affidamenti senza gara non serve
aspettare un atto di assenso dell’Anticorruzione. La
semplice domanda di iscrizione consente di per sé «di
procedere all'affidamento senza gara, senza bisogno» di un
esplicito atto Anac.
Per contro la domanda «innesca una fase
di controllo dell'Anac» che, in caso di esito negativo, si
traduce in un provvedimento che impedisce futuri affidamenti
in house. Questo provvedimento, specificano i magistrati, è
impugnabile davanti al giudice amministrativo, poiché «ha
carattere autoritativo ed effetto lesivo».
In caso di cancellazione dall’elenco, si precisa inoltre nel
parere, la conseguenza non può essere la revoca dei
contratti già affidati e la loro riassegnazione con gara,
come previsto dalle linee guida. Gli affidamenti in house
già in essere restano efficaci, ma l’Anac potrà agire
attraverso la cosiddetta «raccomandazione vincolante»,
prevista dal nuovo codice degli appalti, invitando
l’amministrazione a rimuovere il provvedimento illegittimo.
Quanto ai requisiti sostanziali necessari per procedere
all'affidamento in house, il Consiglio di Stato (con
particolare riferimento al cosiddetto «controllo analogo»)
rileva che i parametri fissati dall'Anac «sono
esemplificativi e non fissano una griglia esaustiva», poiché
altrimenti ciò costituirebbe una integrazione o una modifica
delle «regole elastiche fissate dalla legge» (articolo Il Sole 24 Ore del 04.02.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza ha chiarito che l'esistenza di
un'indagine penale non implica, di per sé, la non
ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in
qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato
disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono
risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei
procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché
gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti
amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di
attività di vigilanza, controllo e di accertamento di
illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, restano nella disponibilità
dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno
specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G.,
cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro
confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22,
1. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di
cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6,
lett. d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del
diritto di accesso fa riferimento ai documenti che
riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di
conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non
ricorre nella fattispecie trattandosi di attività
amministrativa (e non di attività di polizia giudiziaria),
peraltro posta in essere prima delle denunce e degli esposti
presentati all’autorità giudiziaria e per la quale allo
stato non risultano essere stati adottati specifici
provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR
Campania-Napoli: "La circostanza dell'avvenuta trasmissione
degli atti, oggetto della domanda di accesso, al vaglio
della magistratura penale, peraltro senza un provvedimento
di sequestro, non giustifica il rifiuto o il differimento
dell'accesso, né comporta uno specifico obbligo di
segretezza che escluda o limiti la facoltà per i soggetti
interessati di prendere conoscenza degli atti, anche alla
luce della previsione dell'art. 258 c.p.p.".
Anche la Corte di Cassazione, nell’individuare gli atti e i
documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p., per i
quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114
c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto in
oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al
procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia
giudiziaria [“Se per gli atti di indagine in senso stretto
formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone informate,
interrogatori di indagati, confronti, ricognizioni, ecc.)
nessun problema -a questi fini- si pone, atteso che si
tratta di necessità, sempre e comunque, di atti ricadenti
nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso -e
differenziato- non può non essere il discorso per la
categoria dei documenti che pur siano entrati nel
contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto,
rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine
nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g.,
e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale
ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di
certo non può valere ove si tratti di documenti aventi
origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non
processuale, generati non da iniziativa degli organi delle
indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee
giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare
nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti
che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come
recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel
procedimento per disposta acquisizione”].
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche
agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce
effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per
l’amministrazione presentare una denuncia agli organi
giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere
categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma
un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia
con le norme di rango primario dettate in materia.
---------------
... per l'annullamento della nota del Comando di Polizia
municipale prot. N. 332/C/PM del 06.05.2016, con la quale il
Comune in intestazione ha denegato alla ricorrente l’accesso
agli atti richiesti con le istanze presentate il 15.04.2016,
nonché per la declaratoria del diritto della società
ricorrente di prendere visione ed estrarre copia della
documentazione richiesta.
...
Con una prima istanza in data 15.04.2016 la società
ricorrente chiedeva al Comune in intestazione l’accesso alla
documentazione del Comando di Polizia municipale relativa ai
“lavori di realizzazione di un parcheggio pubblico”
in via Verdi, in ditta M. s.r.l., ed in particolare al
verbale di sopralluogo della Polizia municipale in data
15.01.2016 e agli atti relativi a sopralluoghi, accessi,
contestazioni operati dal comando di P.M. nel cantiere di
via Verdi.
Con una seconda istanza in pari data, la società
ricorrente chiedeva al Comune di accedere agli atti del
Comando di Polizia municipale relativi alle segnalazioni di
disturbo alla quiete pubblica per emissioni sonore connesse
all’utilizzo di impianti sportivi all’aperto in via Verdi n.
8 da parte della ditta M. s.r.l. E.C., ed in particolare
chiedeva di accedere all’ordinanza sindacale n. 12 del
28.04.2015 e a tutti gli atti amministrativi relativi
all’atto di diffida dal produrre le predette emissioni
sonore, prot. N. 266/C/PM del 15.04.2016, emesso nei
confronti della MGF s.r.l.
Con la nota quivi impugnata, il comando di P.M. di S.
Giovanni La Punta negava in parte l’accesso richiesto con
riferimento agli atti delle due procedure che erano stati
inseriti in informative dirette all’Autorità Giudiziaria, e
precisamente, denegava l’accesso al verbale di sopralluogo
della Polizia municipale in data 15.01.2016 e alla nota n.
93 del 07.04.2016 con riferimento al procedimento afferente
i “lavori di realizzazione di un parcheggio pubblico”
in via Verdi e, con riferimento al procedimento concernente
la diffida alla società ricorrente per disturbo alla quiete
pubblica per emissioni sonore connesse all’utilizzo di
impianti sportivi (campetti di calcio) all’aperto in via
Verdi n. 8, denegava l’accesso ai vari esposti e
segnalazioni di disturbo alla quiete pubblica che erano
pervenuti al comando di polizia municipale.
Con il ricorso in esame, la ricorrente chiede pertanto
l’annullamento della nota di diniego parziale indicata in
epigrafe e la condanna dell’amministrazione comunale a
consentire l’accesso alla documentazione richiesta,
evidenziando di avere interesse alla conoscenza di tutti gli
atti afferenti ai citati procedimenti ispettivi e di
vigilanza avviati nei suoi confronti in vista della tutela,
anche in giudizio, dei propri interessi.
Si è costituito per resistere al ricorso il Comune di S.
Giovanni La Punta, che non nega la sussistenza di un
interesse qualificato della ricorrente all’accesso, ma
ritiene che si tratti, nella fattispecie, di atti non più
accessibili in quanto l’Amministrazione ha, in relazione ai
procedimenti prima menzionati, presentato diversi
esposti-denunce alla Procura della Repubblica presso il
Tribunale di Catania.
Da quanto precede deriverebbe che vertendosi di atti
inerenti a informative-denunce sporte agli organi giudiziari
penali, gli atti sarebbero sottratti all’accesso, atteso che
il personale di polizia municipale avrebbe agito
nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria e che,
dunque, gli atti richiesti sarebbero coperti dal segreto
istruttorio.
La prospettazione del Comune resistente non può essere
condivisa.
La giurisprudenza ha chiarito che l'esistenza di un'indagine
penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano
risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli
atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di
accesso (cfr. TAR Puglia, Lecce, n. 2331/2014).
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei
procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché
gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti
amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di
attività di vigilanza, controllo e di accertamento di
illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella
disponibilità dell'amministrazione fintanto che non
intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte
dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei
loro confronti, l'accesso garantito all'interessato
dall'art. 22, 1. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, 1. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6,
lett. d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del
diritto di accesso fa riferimento ai documenti che
riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di
conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non
ricorre nella fattispecie trattandosi di attività
amministrativa (e non di attività di polizia giudiziaria),
peraltro posta in essere prima delle denunce e degli esposti
presentati all’autorità giudiziaria e per la quale allo
stato non risultano essere stati adottati specifici
provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR
Campania Napoli, Sez. I, 23.02.1995, n. 38: "La
circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto
della domanda di accesso, al vaglio della magistratura
penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non
giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né
comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o
limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere
conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione
dell'art. 258 c.p.p." (conformi anche Cons. Stato, Sez.
IV, 28.10.1996, n. 1170, TAR Bari, sentenza n. 287/2011).
Anche la Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza
09.03.2011, n. 13494, nell’individuare gli atti e i
documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p., per i
quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114
c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto in
oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al
procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia
giudiziaria [“Se per gli atti di indagine in senso
stretto formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone
informate, interrogatori di indagati, confronti,
ricognizioni, ecc.) nessun problema -a questi fini- si pone,
atteso che si tratta di necessità, sempre e comunque, di
atti ricadenti nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso
-e differenziato- non può non essere il discorso per la
categoria dei documenti che pur siano entrati nel
contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto,
rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine
nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g.,
e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale
ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di
certo non può valere ove si tratti di documenti aventi
origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non
processuale, generati non da iniziativa degli organi delle
indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee
giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare
nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti
che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come
recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel
procedimento per disposta acquisizione”].
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche
agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce
effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per
l’amministrazione presentare una denuncia agli organi
giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere
categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma
un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia
con le norme di rango primario dettate in materia.
Nel caso di specie l’accesso è stata richiesto in relazione
ad atti di origine extraprocessuale che non risultano
coperti da segreto o dal vincolo del sequestro, sicché in
definitiva, non ricorrendo alcuna ipotesi di esclusione
normativamente prevista dal diritto di accesso, il ricorso
deve essere accolto con conseguente accertamento del diritto
all’ostensione, per effetto del quale il Comune resistente
dovrà consentire l’accesso, secondo le modalità indicate in
dispositivo
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 01.02.2017 n. 229 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Obbligo di indicare nel bando per l’affidamento di una
concessione di servizi il fatturato stimato della
concessione.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione –
Concessione servizi - Omessa indicazione fatturato stimato
della concessione – Art. 167, commi 1 e 2, d.lgs. n. 50 del
2016 – Illegittimità – Concessione di modico valore –
Irrilevanza ex se.
E’ illegittimo il bando di gara per
l’affidamento della concessione di un servizio che non
indichi il fatturato stimato della concessione, ai sensi
dell’art. 167, commi 1 e 2, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, a
nulla rilevando il valore minimo della concessione stessa
(1).
---------------
(1)
Ad avviso del Tar si tratta di una previsione dal contenuto
obbligatorio che costituisce sostanziale recepimento,
nell’ordinamento italiano, dell’art. 8 della direttiva del
Parlamento e del Consiglio 26.02.2014, n. 2014/23/UE, senza
alcuna previsione (ed in questo è una significativa
differenza con la direttiva comunitaria) di soglie minime di
applicabilità o di una qualche esenzione riservata alle
concessioni di minore valore economico.
Non sussiste pertanto alcuna possibilità di recepire le
argomentazioni delle Amministrazioni resistenti, tendenti ad
escludere l’applicabilità della previsione alle concessioni
di minore valore o complessità applicativa, trattandosi di
costruzione che non trova alcun addentellato nel testo
normativo che, come già ribadito, prevede la necessità
dell’adempimento con riferimento a tutte le concessioni,
indipendentemente dalla natura della prestazione o dal
valore.
Si tratta, infatti, di previsione finalizzata a garantire al
partecipante alla procedura la possibilità di formulare la
propria offerta nella più completa conoscenza dei dati
economici del servizio da svolgere ovvero di una necessità
che si presenta comune a tutte le concessioni (sia di minimo
importo che di elevato valore economico.
Il Tar ha poi escluso che l’indicazione del valore stimato
della concessione possa essere surrogata dalla stima del
numero dei possibili utenti, operando il citato art. 167,
d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, un preciso riferimento ad un
valore della concessione stimato in termini monetari
(secondo i precisi criteri di cui al comma 4 dell’art. 167)
(TAR Toscana, Sez.
II,
sentenza 01.02.2017 n. 173
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto.
Gli importanti nessi logici e sistematici sussistenti tra le
prime due censure di ricorso impongono di cominciare l’esame
delle censure dal secondo motivo che assume preminenza
logica e funzionale.
A questo proposito,
la Sezione ha già rilevato, in sede
cautelare
(TAR Toscana, sez. II, ord. 07.12.2016, n.
624),
la sicura illegittimità del bando di gara che non ha
dato applicazione alla previsione dell’art. 167, 1° e 2°
comma, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50
(attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture)
che impone, anche
con riferimento alle concessioni, l’inserimento nella lex
specialis della procedura, del <<valore di una concessione,
….. costituito dal fatturato totale del concessionario
generato per tutta la durata del contratto, al netto
dell'IVA, stimato dall'amministrazione aggiudicatrice o
dall'ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e
dei servizi oggetto della concessione, nonché per le
forniture accessorie a tali lavori e servizi>>.
Con tutta evidenza,
si tratta, infatti, di una previsione
dal contenuto obbligatorio che costituisce sostanziale
recepimento, nell’ordinamento italiano, dell’art. 8 della
direttiva del Parlamento e del Consiglio 26.02.2014,
n. 2014/23/UE, senza alcuna previsione (ed in questo è una
significativa differenza con la direttiva comunitaria) di
soglie minime di applicabilità o di una qualche esenzione
riservata alle concessioni di minore valore economico.
Non sussiste pertanto alcuna possibilità di recepire le
argomentazioni delle Amministrazioni resistenti, tendenti ad
escludere l’applicabilità della previsione alle concessioni
di minore valore o complessità applicativa, trattandosi di
costruzione che non trova alcun addentellato nel testo
normativo che, come già ribadito, prevede la necessità
dell’adempimento con riferimento a tutte le concessioni,
indipendentemente dalla natura della prestazione o dal
valore.
Del resto, si trattava di una soluzione che era già stata
affermata dal Consiglio di Stato anche sotto il vigore del
previgente d.lgs. 12.04.2006, n. 163; superando
l’orientamento contrario di una parte della giurisprudenza
(tra cui quella della Sezione: TAR Toscana, sez. II, 24.09.2015, n. 1282),
la più recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato ha, infatti, concluso, sulla base di
esigenze sistematiche, per l’essenzialità ed obbligatorietà
dell’indicazione nel bando del valore della concessione:
<<l’AVCP ha rilevato che sebbene sia difficoltoso per le
stazioni appaltanti stimare i proventi del servizio poiché
provengono interamente dagli utenti e non da chi bandisce la
gara, nondimeno l’esatta determinazione del valore
dell’affidamento assume rilievo sotto molteplici aspetti: è
essenziale per poter fornire una corretta informazione agli
operatori economici potenzialmente interessati a prestare il
servizio, serve ad individuare con esattezza la forma di
pubblicità idonea, è necessaria per determinare l’entità
delle cauzioni e del contributo dovuto all’Autorità.
Già
nella Deliberazione n. 9 del 25/02/2010, l’Autorità aveva
precisato che: “Come è noto, ai sensi dell’art. 29, commi 1,
invece, “il calcolo del valore stimato degli appalti
pubblici e delle concessioni di lavori o servizi pubblici è
basato sull'importo totale pagabile al netto dell'IVA,
valutato dalle stazioni appaltanti. Questo calcolo tiene
conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi
forma di opzione o rinnovo del contratto”.
Per le
concessioni in particolare, nella nozione di “importo totale
pagabile” è sicuramente da ricomprendere il flusso dei
corrispettivi pagati dagli utenti per i servizi in
concessione. Infatti, così come nella stessa nozione è
ricompreso il corrispettivo pagato dalla stazione appaltante
nel caso di appalto, qualora si tratti di una concessione,
non essendovi un prezzo pagato dalla stazione appaltante, ma
solo quello versato dagli utenti, sarà quest’ultimo a
costituire parte integrante dell’“importo totale pagabile”
di cui è fatta menzione nella norma sopra citata; il canone
a carico del concessionario potrà, altresì, essere computato
ove previsto, ma certamente proprio in quanto solo eventuale
non può considerarsi l’unica voce indicativa del valore
della concessione”.
Ha poi precisato che la mancata
indicazione del valore stimato degli appalti, pone le
imprese partecipanti alla gara in una situazione di estrema
incertezza nella formulazione della propria offerta,
rilevando che il calcolo relativo alla determinazione
dell’importo del servizio oggetto di concessione deve essere
effettuato in conformità a quanto previsto dall’art. 29,
comma 1, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, tenendo conto dei
ricavi ipotizzabili in relazione alla sua futura gestione.
Ha precisato, infatti, l’Autorità che “l’esatto computo del
valore del contratto, assume rilevanza anche per garantire
condizioni di trasparenza, parità di trattamento e non
discriminazione, ex art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006 che si
traducono nell’informare correttamente il mercato di
riferimento sulle complessive e reali condizioni di gara”
(cfr. deliberazione AVCP n. 40 del 19/12/2013).
Nel caso di
specie, come già stigmatizzato dall’Autorità di Vigilanza,
il valore della concessione non può essere computato con
riferimento al c.d. “ristorno” e cioè al costo della
concessione, che è un elemento del tutto eventuale, ma deve
essere calcolato sulla base del fatturato generato dal
consumo dei prodotti da parte degli utenti del servizio di
distribuzione automatica>> (Cons. Stato, sez. III, 18.10.2016, n. 4343).
Con tutta evidenza,
si tratta di un percorso argomentativo
finalizzato a garantire al partecipante alla procedura la
possibilità di formulare la propria offerta nella più
completa conoscenza dei dati economici del servizio da
svolgere ovvero di una necessità che si presenta comune a
tutte le concessioni (sia di minimo importo che di elevato
valore economico); non sussiste pertanto alcuna possibilità
di recepire la costruzione delle Amministrazioni resistenti
tendenti a limitare l’applicabilità del principio affermato
dal Consiglio di Stato ed oggi dall’art. 167 del d.lgs.
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 solo alle concessioni di
maggior valore economico.
Deve poi escludersi che l’indicazione del valore stimato
della concessione possa essere surrogata dalla stima del
numero dei possibili utenti (dato contenuto nel bando di
gara del 29.07.2016 prot. n. 6472/G8 emanato
dall’Istituto “Francesco Redi” di Arezzo); l’art. 167 del
d.lgs. d.lgs. 18.04.2016, n. 50 opera, infatti, un
preciso riferimento ad un valore della concessione stimato
in termini monetari (secondo i precisi criteri di cui al
quarto comma della disposizione) ed appare pertanto del
tutto insufficiente l’utilizzazione di altri criteri di
valutazione che, per di più, come nel caso di specie, non
possono strutturalmente individuare quale sia il numero
concreto di utenti interessati ad utilizzare il servizio e
per quale volume di prestazioni.
Conclusivamente, deve poi rilevarsi come l’accoglimento del
motivo di ricorso non sia precluso dall’eccezione
d’inammissibilità articolata dalle Amministrazioni
resistenti; nel caso di specie, appare, infatti, del tutto
ovvio come l’incertezza in ordine al valore economico della
concessione non potesse essere ravvisata con riferimento
alla ricorrente (che, essendo il precedente gestore del
servizio, conosceva perfettamente i dati in questione ed
ammette di avere formulato regolarmente la propria offerta),
ma non altrettanto può dirsi con riferimento all’altra
partecipante alla procedura, che ha pertanto formulato
un’offerta in mancanza di un dato essenziale per la corretta
valutazione della fattibilità e convenienza del servizio.
Si tratta pertanto di un vizio evidentemente incidente sulla
corretta formulazione e valutazione delle offerte e che può
pertanto essere sollevato anche dal concorrente che, per
effetto della propria qualità di precedente gestore del
servizio, conosca già i dati economici fondamentali della
concessione.
Quanto sopra rilevato evidenzia poi plasticamente come la
lesività della detta violazione si sia manifestata nei
confronti della ricorrente, non al momento di emanazione
della lex specialis della procedura, ma nel momento
successivo in cui è intervenuta l’aggiudicazione finale
della procedura a favore di un soggetto che non poteva
essere considerato in grado di formulare un’offerta
consapevole, non conoscendo il valore economico della
concessione (ed in questa prospettiva, non appare secondario
il fatto che la ricorrente abbia più volte sosstolineato
l’insostenibilità dell’offerta dell’aggiudicataria).
L’accenno sopra effettuato all’impossibilità sostanziale di
valutare la congruità e fattibilità delle offerte in
mancanza della stima del valore economico della concessione
permette poi di ribadire quanto già rilevato in sede
cautelare (TAR Toscana, sez. II, ord. 07.12.2016 n.
624) in ordine all’assorbimento della prima censura di
ricorso per effetto dell’accoglimento del motivo di ricorso
sopra richiamato; appare, infatti, di tutta evidenza come
non si possa neanche parlare di valutazione dell’equilibrio
finanziario o di eventuale anomalia dell’offerta in un
quadro in cui sussiste totale incertezza in ordine al valore
della concessione; si tratta pertanto di un vizio talmente
invalidante da rendere impossibile i normali meccanismi di
valutazione della congruità dell’offerta.
La necessità di rinnovare integralmente la procedura a
partire dal bando permette poi di procedere all’assorbimento
delle ulteriori censure proposte da parte ricorrente.
In definitiva, il secondo motivo di ricorso è fondato e deve
pertanto essere accolto, con conseguenziale annullamento di
tutti gli atti di gara, a partire dal bando di gara 29.07.2016 prot. n. 6472/G8 emanato dall’Istituto
“Francesco Redi” di Arezzo; deve, al contrario, essere
rigettata l’azione di declaratoria di inefficacia del
contratto, non risultando che l’atto negoziale sia stato
stipulato. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è
l’onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione
del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso
della dignità personale in conformità all’opinione del
gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico.
In definitiva, secondo quella che viene comunemente
identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che
viene tutelato attraverso l’incriminazione di cui si tratta
è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal
reato. La tipicità della condotta di diffamazione consiste
nell’offesa della reputazione. È dunque necessario, nel caso
della comunicazione scritta od orale, che i termini
dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano
oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto
passivo.
In tal senso la divulgazione di fatti non veritieri
concernenti la vita di quest’ultimo può non determinare
automaticamente tale lesione, giacché quelli attribuiti
possono risultare indifferenti per l’integrità della sua
reputazione. Ciò però non dipende esclusivamente
dall’oggettiva natura del fatto divulgato, ma altresì delle
implicazioni che la sua divulgazione assume in ragione delle
qualifiche soggettive della persona cui viene accostato.
---------------
6. Infondate sono le censure svolte con il quarto motivo in
merito all'offensività del fatto addebitato alla Fi..
6.1 Secondo l'elaborazione tradizionale di questa Corte e
della dottrina, oggetto di tutela nel
delitto di diffamazione è l'onore in senso oggettivo o
esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del
reato, da intendersi come il senso della dignità personale
in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il
particolare contesto storico
(così tra le tante Sez. 5, n. 3247 del 28.02.1995, Labertini
Padovani ed altro, Rv. 20105401).
In definitiva, secondo quella che viene comunemente
identificata come concezione fattuale dell'onore, ciò che
viene tutelato attraverso l'incriminazione di cui si tratta
è l'opinione sociale del "valore" della persona offesa dal
reato.
6.2 La tipicità della condotta di
diffamazione consiste nell'offesa della reputazione. E'
dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od
orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato
attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la
reputazione del soggetto passivo.
In tal senso la divulgazione di fatti non veritieri
concernenti la vita di quest'ultimo può non determinare
automaticamente tale lesione, giacché quelli attribuiti
possono risultare indifferenti per l'integrità della sua
reputazione. Ciò però non dipende esclusivamente
dall'oggettiva natura del fatto divulgato, ma altresì delle
implicazioni che la sua divulgazione assume in ragione delle
qualifiche soggettive della persona cui viene accostato.
6.3 I giudici del merito dimostrano di aver fatto buon
governo di questi peraltro consolidati principi. Il fatto
falsamente attribuito alla persona offesa ha, infatti,
perduto la sua apparente neutralità in ragione del ruolo
istituzionale ricoperto dalla stessa e dalla descrizione del
particolare contesto in cui sarebbe accaduto, accostamento
quest'ultimo oggettivamente insidioso per l'integrità della
reputazione di un capo di Stato. Quanto al riferimento
all'immagine compiuto in sentenza è evidente che il termine
è stato utilizzato al fine di rafforzare il concetto di
reputazione cui pure è stato accostato, formulando una sorta
di endiadi (massima tratta da https://renatodisa.com - Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 31.01.2017 n. 4672). |
CONDOMINIO: Il
cortile e tutti i beni che danno aria e luce sono
condominiali. Presunzioni. Salvo titolo contrario.
La Corte di
Cassazione - Sez. II civile, con la
sentenza
31.01.2017 n. 2532 è tornata sulla nozione di cortile, comunemente
inteso come «l’area scoperta compresa tra i corpi di
fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare
luce e aria agli ambienti circostanti».
La stessa, in linea con le precedenti sentenze, non manca di
riferire come «avuto riguardo all’ampia portata della parola
e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli
ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono
ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti
esternamente alle facciate dell’edificio -quali gli spazi
verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi-
che, sebbene non menzionati espressamente nell’articolo 1117
Codice civile, vanno ritenute comuni a norma della suddetta
disposizione (Cassazione 7889 Cassazione 7889 del
09/06/2000)» (si veda anche: Consiglio di Stato 757/2015).
In questa nozione risulterebbero comprese anche le aree
scoperte con funzione di accesso agli edifici, nonché quelle
con ulteriori ed eventuali funzioni, quali quella di
parcheggio o deposito temporaneo di materiali (Tar Lombardia
Milano n. 245/2015), ma anche il cavedio, altrimenti detto
chiostrina, vanella, pozzo luce (Cassazione 17556/2014).
Per tutti questi beni, riconducibili alla nozione
omnicomprensiva di cortile e, in generale, per tutte le aree
scoperte che assolvono la funzione di dare luce e aria al
fabbricato e agli ambienti circostanti, nonché a quelle che
servono da accesso o parcheggio al condominio, vige la
presunzione di condominialità: i beni si considerano cioè
comuni se il contrario non risulta dal titolo, vale a dire
qualora venga dimostrata la proprietà esclusiva in ragione
di un valido titolo di acquisto.
In virtù di questo principio la Cassazione, nella sentenza
2532/2017, cassa la sentenza della Corte d’appello di Napoli
con la quale erano state ritenute di proprietà privata di
alcuni condòmini le aree scoperte dagli stessi locate a
terze persone e utilizzate come parcheggio, in danno degli
altri condòmini che, al contrario, ne rivendicavano la
proprietà comune e indivisa tra tutti i partecipanti al
condominio.
Impugnata la sentenza di secondo grado, per violazione e
falsa applicazione dell’articolo 1117 del Codice civile, nel
testo ante riforma del 2012, la Cassazione afferma come
nell’impugnata sentenza il giudice di merito non avrebbe
accertato l’eventuale esistenza di un titolo contrario che
escludesse la natura condominiale del bene, nel caso di
specie, un cortile, inteso quale area scoperta compresa tra
i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che
serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti, ma anche
come spazi liberi disposti esternamente alle facciate
dell’edificio, quali gli spazi verdi, le zone di rispetto,
le intercapedini, i parcheggi.
Per completezza, con riferimento al «titolo contrario»
attestante la proprietà esclusiva, si evidenzia come sia
necessario esaminare l’atto costitutivo del condominio o,
comunque, il primo atto di trasferimento dell’unità
immobiliare a cura dell’iniziale unico proprietario ad altro
soggetto, al fine di verificare se sussista la volontà di
destinare a uno o più condòmini la proprietà di beni che,
per ubicazione e struttura, siano anche solo potenzialmente
destinati all’utilizzo comune (Cassazione, sentenza
26609/2016) (articolo Il Sole 24 Ore del 03.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Giurisprudenza
consolidata stabilisce che il dies a quo di decorrenza del
termine decadenziale per l’impugnativa di un permesso a
costruire va individuato non nel momento del rilascio o
della pubblicazione dell’atto e neanche nella data di
apposizione o presa visione del cartello di cantiere bensì
nel completamento delle opere ovvero nel momento in cui le
stesse hanno raggiunto un grado di consistenza tale da
palesarne la portata il contenuto lesivo.
---------------
Il fenomeno dell’ultimazione delle opere, che segna il
limite temporale estremo individuato alla giurisprudenza
quale dies a quo massimo di decorrenza del termine
decadenziale per impugnazione in sede giurisdizionale
amministrativa del permesso di costruire, dies che, inoltre,
in disparte l’avvenuto completamento delle opere, e da
determinare anche nel momento in cui le stesse abbiano
raggiunto uno stadio idoneo a fugare ogni dubbio sulla loro
consistenza (…).
---------------
E' consolidato “il principio secondo il quale il dies a quo
per l’impugnazione di un permesso di costruire decorre dal
momento in cui si è raggiunta la piena conoscenza del
contenuto lesivo del titolo autorizzatorio, che può
verificarsi o con la cognizione del medesimo e dei relativi
allegati progettuali o a livello fenomenico, con la
percezione della portata effettiva dell’intervento edilizio,
conseguibile allorché esso sia stato ultimato o abbia
raggiunto un livello esecutivo tale da fugare ogni dubbio
sulla sua consistenza”.
In generale il Consiglio di Stato ha in proposito precisato
i limiti del concorso del criterio basato sulla presa
visione del permesso di costruire con quello oggettivo
derivante dalla conseguita contezza della portata
dell’intervento edilizio affermando che “nell'ipotesi di
costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una
situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare
dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi
immediatamente in sede giurisdizionale” e che il termine a
ricorrere decorre solo dalla piena conoscenza del contenuto
specifico della concessione o del progetto e dell'entità
delle violazioni urbanistiche, “ovvero dal completamento,
quanto meno strutturale, dell'opera stessa (d.p.r. n.
380/2001 - T.U. Edilizia)”, in tal modo giustapponendo in
termini di rilevanza la cognizione del titolo e del relativo
progetto, alla raggiunta consapevolezza della portata dei
lavori.
Oltretutto, estendendo i confini dell’elemento oggettivo
oltre il completamento delle opere, in armonia con la
rilevanza attribuita dalla Sezione con la pronuncia n.
3939/2014 all’elemento oggettivo, il Consiglio aveva del
resto già chiarito che “Il termine per l’impugnazione del
permesso di costruire rilasciato a terzi decorre, in linea
di massima, dal momento in cui la nuova costruzione rivela
in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche
dell'opera, in modo da evidenziare la eventuale non
conformità della stessa al titolo”.
Dal che, più di recente la giurisprudenza ha apportato
ulteriori elementi di chiarezza in argomento, mitigando la
nettezza del riferimento al momento del completamento
strutturale dell’opera ai fini dell’individuazione del dies
a quo di decorrenza del termine a ricorrere e annettendo
dirimente rilievo al momento di percezione della concreta
entità dell’intervento, al riguardo precisando che “Il
termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso il
rilascio di permesso di costruire decorre dalla data in cui
è palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene
della vita protetto, il che si verifica quando é percepibile
dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la
sua effettiva incidenza sulla propria posizione giuridica”.
---------------
2.1. Ad avviso del Collegio l’eccezione è infondata alla
luce della giurisprudenza consolidata, espressa anche dalla
Sezione, che stabilisce che il dies a quo di
decorrenza del termine decadenziale per l’impugnativa di un
permesso a costruire va individuato non nel momento del
rilascio o della pubblicazione dell’atto e neanche nella
data di apposizione o presa visione del cartello di cantiere
bensì nel completamento delle opere ovvero nel momento in
cui le stesse hanno raggiunto un grado di consistenza tale
da palesarne la portata il contenuto lesivo.
La Sezione ha di recente precisato infatti che “il
fenomeno dell’ultimazione delle opere, che segna il limite
temporale estremo individuato alla giurisprudenza quale dies
a quo massimo di decorrenza del termine decadenziale per
impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa del
permesso di costruire (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
04.06.2015 n. 1856; TAR Sicilia-Catania, Sez. I, 19.11.2015
n. 2677), dies che, inoltre, in disparte l’avvenuto
completamento delle opere, e da determinare anche nel
momento in cui le stesse abbiano raggiunto uno stadio idoneo
a fugare ogni dubbio sulla loro consistenza (…)” (TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 09.03.2016, n. 1300).
2.2. Segnala in argomento il Collegio che la Sezione ha già
denotato che è consolidato “il principio secondo il quale
il dies a quo per l’impugnazione di un permesso di costruire
decorre dal momento in cui si è raggiunta la piena
conoscenza del contenuto lesivo del titolo autorizzatorio,
che può verificarsi o con la cognizione del medesimo e dei
relativi allegati progettuali o a livello fenomenico, con la
percezione della portata effettiva dell’intervento edilizio,
conseguibile allorché esso sia stato ultimato o abbia
raggiunto un livello esecutivo tale da fugare ogni dubbio
sulla sua consistenza” (TAR Campania–Napoli, Sez. III,
15.07.2014, n. 3939).
In generale il Consiglio di Stato ha in proposito precisato,
a conferma della sentenza della Sezione distaccata di questo
TAR n. 890/2013, i limiti del concorso del criterio basato
sulla presa visione del permesso di costruire con quello
oggettivo derivante dalla conseguita contezza della portata
dell’intervento edilizio affermando che “nell'ipotesi di
costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una
situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare
dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi
immediatamente in sede giurisdizionale” e che il termine
a ricorrere decorre solo dalla piena conoscenza del
contenuto specifico della concessione o del progetto e
dell'entità delle violazioni urbanistiche, “ovvero dal
completamento, quanto meno strutturale, dell'opera stessa
(d.p.r. n. 380/2001 - T.U. Edilizia)” (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 18.04.2014, n. 1995), in tal modo
giustapponendo in termini di rilevanza la cognizione del
titolo e del relativo progetto, alla raggiunta
consapevolezza della portata dei lavori.
2.3. Oltretutto, estendendo i confini dell’elemento
oggettivo oltre il completamento delle opere, in armonia con
la rilevanza attribuita dalla Sezione con la pronuncia n.
3939/2014 all’elemento oggettivo, il Consiglio aveva del
resto già chiarito che “Il termine per l’impugnazione del
permesso di costruire rilasciato a terzi decorre, in linea
di massima, dal momento in cui la nuova costruzione rivela
in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche
dell'opera, in modo da evidenziare la eventuale non
conformità della stessa al titolo” (Cons. di Stato, Sez.
IV, 21.11.2013, n. 5522).
Dal che, più di recente la giurisprudenza, sulla scia di
quest’ultimo precedente, a partire dal Consiglio di Stato,
seguito da questo Tribunale, ha apportato ulteriori elementi
di chiarezza in argomento, mitigando la nettezza del
riferimento al momento del completamento strutturale
dell’opera ai fini dell’individuazione del dies a quo
di decorrenza del termine a ricorrere e annettendo dirimente
rilievo al momento di percezione della concreta entità
dell’intervento, al riguardo precisando che “Il termine
per ricorrere in sede giurisdizionale avverso il rilascio di
permesso di costruire decorre dalla data in cui è palese ed
oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto, il che si verifica quando é percepibile dal
controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua
effettiva incidenza sulla propria posizione giuridica”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.04.2015 n. 1746; TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII, 04.11.2015 n. 5118)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 31.01.2017 n. 681 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’articolo
30, comma 1, lett. a), del d.l. n. 69 del
2013, convertito in legge n. 98 del 2013, ha introdotto
all’articolo 3, lett. d), del Tuel l’inciso: “nonché quelli
volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
e gli interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma
dell'edificio preesistente”.
Prima di allora, la Giurisprudenza riteneva che la
ristrutturazione comprendesse solo interventi in cui la
demolizione e fedele ricostruzione avvenissero
contemporaneamente.
La nuova normativa tuttavia è chiara nel modificare tale
situazione ricomprendendovi anche ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza; sicché dall’entrata in vigore del
d.l. n. 69 del 2013, deve ritenersi che anche l’intervento
proposto dall’odierno ricorrente (NDR: richiesta del
permesso di costruire per una ristrutturazione edilizia
attraverso la fedele ricostruzione di un fabbricato
residenziale preesistente e demolita perché in condizioni di
degrado in ottemperanza all’ordinanza sindacale) rientri a pieno titolo
nell’ambito di quelli di cui all’articolo 3, lett. d), del Tuel.
--------------
Per il principio del tempus regit actum, cioè per il
principio di legalità dell’agire amministrativo, al
provvedimento amministrativo si applica la disciplina
vigente al momento della sua adozione (cfr. Tar Palermo,
sentenza n. 1963 del 2016), sicché è con riferimento alla
normativa più favorevole introdotta dal d.l. n. 69 del 2013,
articolo 30, che deve essere esaminata l’istanza di parte
ricorrente.
Né tale disciplina di maggior favore contiene un obbligo di
accertare se la precedente demolizione sia avvenuta per
ordine dell’Amministrazione o per volontà del proprietario,
come si evince dalla locuzione “per crollo o demolizione”, sicché appare del tutto ingiustificata la considerazione
contenuta nella relazione del Comune di Pescara, secondo cui
il ricorrente scegliendo la via della demolizione, prima
dell’entrata in vigore dell’articolo 30, comma 1, lett. a),
della legge n. 98 del 2013, si sarebbe precluso la
possibilità della ristrutturazione.
---------------
Il ricorrente in data 07.01.2014 ha chiesto al Comune di
Pescara il permesso di costruire per una ristrutturazione
edilizia attraverso la fedele ricostruzione di un fabbricato
residenziale preesistente (ex Casa Cantoniera, asseritamente
costruita in data prossima al 1870, accatastata il 27.06.1940, e demolita perché in condizioni di degrado in
ottemperanza all’ordinanza sindacale n. 436 del 23.05.2008) ai sensi dell’art. 30 del D.L. 69/2013 conv. in L. 98/2013
(cd. decreto del fare); intervento ricadente tra l’altro
all’interno della cd. riserva “Pineta Dannunziana”.
Con provvedimento del 24.06.2015 il Comune resistente ha
dichiarato l’improcedibilità della richiesta di
autorizzazione paesaggistica presentata in ragione della
zona in cui ricade l’intervento, ritenendo che esso non
potesse rientrare “tra gli interventi ammissibili dagli
strumenti pianificatori vigenti” giacché “la sagoma del
fabbricato preesistente è posta all’interno del perimetro
della “Pineta Dannunziana” (dove) sono consentiti gli
interventi di cui alla L.R. n. 18/1983 art. 30, comma 1, lett.
a), b), c) e d)”.
Tale provvedimento è stato impugnato con separato ricorso
avanti a questo Tribunale amministrativo.
In data 16.11.2015 è stato quindi adottato il
provvedimento qui impugnato, di diniego del permesso di
costruire, così motivato: “non è assentibile in quanto
prevede la ricostruzione di un fabbricato già demolito in
contrasto con quanto previsto dall’art. 50 lett. A) delle NTA del PRG vigente in quanto l’immobile proposto risulta
essere incluso nella sottozona F1 e nello specifico anche
all’interno del Piano Particolareggiato n. 3 Parco D’Avalos
di iniziativa pubblica”.
Ai sensi dell’articolo 50, lett. a), per quanto d’interesse,
è previsto che “Per gli edifici privati presenti all’interno
dell’ambito, in assenza del P.P., sono consentiti gli
interventi di cui alle lett. a), b), e c) dell’art. 9 delle
presenti Norme Tecniche di Attuazione”; che corrisponde a
quanto più in generale previsto dall’articolo 15, comma 4,
delle medesime NTA: “In assenza di strumento attuativo, gli
interventi consentiti sono quelli di cui alle lettere a),
b), e c) dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, e il rifacimento
del tetto senza aumento dell'altezza del fabbricato”.
Le lettere a), b) e c) dell’articolo 9 in questione
contemplano sostanzialmente interventi di manutenzione
ordinaria, straordinaria nonché risanamento conservativo e
restauro.
Il ricorrente lamenta sostanzialmente che avendo iniziato la
valutazione della compatibilità paesaggistica
l’Amministrazione avrebbe implicitamente valutato
positivamente la conformità edilizia e urbanistica
dell’intervento atteso che da un punto di vista
procedimentale tali valutazioni dovrebbero essere
precedenti, a mente dell’articolo 20, comma 3, del tuel;
lamenta inoltre la violazione del comma 6 dell’articolo 50
delle NTA del PRG il quale prevede che: “Per i manufatti
preesistenti sono consentiti gli interventi di cui alla
lett. a), b), c) e d), dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 e
successive integrazioni e modificazioni, come meglio
specificato all’art. 9 delle presenti Norme Tecniche di
Attuazione con il mantenimento delle destinazioni d’uso
esistenti, ad eccezione delle modifiche di cui al precedente
comma 2” (in sostanza quindi sarebbero ammessi nel caso di
specie anche interventi di ristrutturazione con demolizione
e fedele ricostruzione, anche se nel caso di specie
demolizione e ricostruzione non sarebbero contestuali, e ciò
in applicazione dell’articolo 3, lett. d), del D.P.R.
380/2001, ancor prima delle modifiche introdotte
dall’articolo 30 della L. 98/2013; e a tal fine richiama
Cass., S.U., sentenza n. 21578/2011); che la stessa
Amministrazione, ordinando la demolizione dell’immobile
perché pericolante, avrebbe manifestato di ritenere
ammissibili in quelle aree anche interventi ulteriori
rispetto a quelli di cui alle lett. a), b), e c) dell’art. 9
delle vigenti Norme Tecniche di Attuazione (e per converso
se tale ordine di demolizione fosse illegittimo la stessa
demolizione dovrebbe ritenersi tamquam non esset e quindi si
dovrebbe considerare contemporanea la demolizione e fedele
ricostruzione); che nel caso di lotti interclusi o in
situazioni di diffusa urbanizzazione la previa approvazione
di piani attuativi non sarebbe necessaria; che il vincolo di
piano di cui si discute sarebbe stato imposto nel 2001 e poi
reiterato nel 2006, quindi ora la zona sarebbe da
considerare come zona bianca essendo trascorsi oltre 15 anni
e quindi si applicherebbe la disciplina di cui all’articolo
41-quinquies della L. n. 1150/1942 con conseguente
possibilità di realizzare interventi di demolizione e
ricostruzione.
All’udienza del 13.01.2017 la causa è passata in
decisione.
Il ricorso è fondato.
Dalla relazione dell’Amministrazione del 01.02.2016,
depositata in giudizio, emerge che quest’ultima ha ritenuto
che l’intervento non potesse rientrare nella previsione di
cui all’articolo 3, lett. d), del Tuel, in quanto
nell’ordinanza n. 439 del 2009, emessa per motivi di pubblica
incolumità, si è imposto al ricorrente di provvedere alla
demolizione o al consolidamento dell’immobile in questione, sicché egli scegliendo la via della demolizione, prima
dell’entrata in vigore dell’articolo 30, comma 1, lett. a),
della legge n. 98 del 2013 (che ha introdotto nell’ambito
della ristrutturazione anche gli interventi di fedele
ricostruzione di immobili già demoliti la cui consistenza
possa essere determinata con certezza), si sarebbe precluso
la possibilità della ristrutturazione secondo il vecchio
regime; inoltre il vincolo di piano, non avendo natura
espropriativa, non sarebbe affatto decaduto.
Come noto, l’articolo 30, comma 1, lett. a), del d.l. n. 69 del
2013, convertito in legge n. 98 del 2013, ha introdotto
all’articolo 3, lett. d), del tuel l’inciso: “nonché quelli
volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
e gli interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma
dell'edificio preesistente”.
Prima di allora, la Giurisprudenza riteneva che la
ristrutturazione comprendesse solo interventi in cui la
demolizione e fedele ricostruzione avvenissero
contemporaneamente (cfr. Tar Napoli, sentenza n. 5668 del
2014).
La nuova normativa tuttavia è chiara nel modificare tale
situazione ricomprendendovi anche ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza; sicché dall’entrata in vigore del
d.l. n. 69 del 2013, deve ritenersi che anche l’intervento
proposto dall’odierno ricorrente rientri a pieno titolo
nell’ambito di quelli di cui all’articolo 3, lett. d), del tuel.
Ne consegue la fondatezza della pretesa, atteso che il comma
6 dell’articolo 50 delle NTA del PRG, nel disciplinare in
generale la sottozona F1, comprendente i parchi pubblici a)
Parco D’Avalos – P.P. n. 3 e b) Parco Fluviale – P.P. n. 4,
come ricordato prevede che: “Per i manufatti preesistenti
sono consentiti gli interventi di cui alla lett. a), b), c)
e d), dell'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 e successive
integrazioni e modificazioni”.
Del resto l’Amministrazione non contesta che il manufatto in
questione fosse preesistente né che avesse la consistenza
postulata da parte ricorrente.
Per il principio del tempus regit actum, cioè per il
principio di legalità dell’agire amministrativo, al
provvedimento amministrativo si applica la disciplina
vigente al momento della sua adozione (cfr. Tar Palermo,
sentenza n. 1963 del 2016), sicché è con riferimento alla
normativa più favorevole introdotta dal d.l. n. 69 del 2013,
articolo 30, che deve essere esaminata l’istanza di parte
ricorrente.
Né tale disciplina di maggior favore contiene un obbligo di
accertare se la precedente demolizione sia avvenuta per
ordine dell’Amministrazione o per volontà del proprietario,
come si evince dalla locuzione “per crollo o demolizione”, sicché appare del tutto ingiustificata la considerazione
contenuta nella relazione del Comune di Pescara, secondo cui
il ricorrente scegliendo la via della demolizione, prima
dell’entrata in vigore dell’articolo 30, comma 1, lett. a),
della legge n. 98 del 2013, si sarebbe precluso la
possibilità della ristrutturazione
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 31.01.2017 n. 56 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Senza certificato di abitabilità la casa non si può vendere.
Ricorda la Cassazione che tale mancanza legittima la
risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.
L'immobile non è commerciabile se manca
il certificato di abitabilità.
Lo ha sancito
la II Sez. civile della Corte di Cassazione (con la
sentenza 30.01.2017 n. 2294),
esprimendosi in una vicenda che vedeva un acquirente
chiamare in causa il venditore a causa del mancato rilascio
del certificato di abitabilità dell'appartamento acquistato,
data l'insussistenza delle condizioni necessarie per
ottenerlo "in dipendenza della presenza di un fenomeno di
umidità di ampie proporzioni".
La violazione di tale obbligo legittima, perciò, si legge
nella sentenza "sia la domanda di risoluzione del
contratto, sia quella di risarcimento del danno -sia ancora-
l'eccezione di inadempimento" e non è sanata dalla mera
circostanza che il venditore, al momento della stipula, "abbia
già presentato una domanda di condono per sanare
l'irregolarità amministrativa dell'immobile" (commento
tratto da www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
Va debitamente premesso che, in materia
di vendita di immobile destinato ad abitazione,
questa Corte spiega che integra ipotesi di
consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della
licenza di abitabilità ovvero l'insussistenza delle
condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della
presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica
(cfr. Cass. 27.07.2006, n. 17140).
E soggiunge che il venditore di un immobile
destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare
all'acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale
l'immobile stesso è incommerciabile;
e che la violazione di tale obbligo può
legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia
quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di
inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il
venditore, al momento della stipula, abbia già presentato
una domanda di condono per sanare l'irregolarità
amministrativa dell'immobile
(cfr. Cass. 23.01.2009, n. 1701; cfr. Cass. 20.04.2006, n.
9253, ove si precisa inoltre che è irrilevante la concreta
utilizzazione dell'immobile ad uso abitativo da parte dei
precedenti proprietari). |
TRIBUTI: Sanzioni
ko se la p.a. è in ritardo.
Se il mancato o tardivo pagamento delle imposte è imputabile
all'esistenza di crediti incagliati, vantati nei confronti
di amministrazioni pubbliche, l'inadempimento del
contribuente non deve essere sanzionato. Il ritardo nei
pagamenti della p.a., infatti, si qualifica come una causa
di forza maggiore, non punibile ai sensi dell'articolo 6,
comma 5, del dlgs 472/1997.
È quanto si legge nella
sentenza
30.01.2017 n. 2021/16/2017 della Ctp di Roma.
La vertenza prende le mosse dal ricorso proposto da una
società a responsabilità limitata della capitale, contro una
cartella di pagamento emessa ai sensi degli articoli 36-bis
del dpr 600/1973 e 54-bis del dpr 633/1972, a seguito di omessi
e/o tardivi versamenti d'imposta per l'anno 2012.
Il
difensore della società sosteneva principalmente
l'argomentazione della non colpevolezza della contribuente,
evidenziando come i mancati o tardivi pagamenti fossero
imputabili a una carenza di liquidità, provocata dal ritardo
nell'incasso di alcuni crediti iscritti in bilancio e
relativi a commesse realizzate per conto di enti pubblici.
Il motivo di ricorso ha convinto i giudici capitolini, che
hanno annullato sanzioni per oltre 3 milioni di euro, pur
compensando le spese del giudizio, in ragione della novità
dell'interpretazione fornita.
A tal proposito, la
Commissione richiama il dlgs 472/1997, contenente le
disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative
per le violazioni di norme tributarie, e in particolare la
causa di «non punibilità» prevista dall'articolo 6, comma 5,
secondo cui «non è punibile chi ha commesso il fatto per
forza maggiore».
Per forza maggiore, spiega la Ctp, deve
intendersi, nel caso di specie, la carenza di liquidità
determinata da ritardi nei pagamenti della pubblica
amministrazione. Analogo principio era stato affermato dalla
Ctr di Roma nella sentenza n. 4203/03/16, secondo cui il
citato comma 5 prevede proprio una causa di non punibilità
dell'inadempimento tributario, quando esso sia dipeso da una
forza maggiore, ovvero da una ragione esterna al soggetto
obbligato, non potendo sussistere, in tal caso, la sanzione
tributaria a carico di costui.
Dunque, qualora il mancato o
tardivo pagamento d'imposte sia in stretta connessione con i
ritardi nei pagamenti delle commesse eseguite in favori di
enti pubblici, la relativa sanzione è passibile di
annullamento. Ciò anche in ragione dell'unicità o della
stretta connessione tra stato impositore e amministrazione
pubblica.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Sul ricorso presentato il 30/05/2016 dalla società ( )
rappresentata e difesa dal dottore commercialista Na.Gi., presso il cui studio elegge domicilio, in Roma
piazzale ... n. 8 [ ] contro Agenzia delle entrate
direzione provinciale II di Roma. Avverso la cartella
esattoriale emessa ai sensi dell'art. 36-bis dpr 600/1973 per
imposte Ires e Iva relative all'anno 2012.
Chiede la ricorrente l'annullamento delle sanzioni per
omessi/tardivi versamenti causati da illiquidità e crisi
finanziaria della società e quindi una causa di «forza
maggiore» in presenza di crediti vantati con la pubblica
amministrazione che superano di gran lunga il 50% del
totale, idonea a escludere l'applicazione delle sanzioni
tributarie (dlgs 472/1997, art. 6, c. 5).
[omissis] La Commissione dopo aver esaminato il ricorso, le
deduzioni dell'ufficio, la memoria e la documentazione in
atti ritiene che il ricorso stesso vada accolto.
Nel comportamento della società non è assolutamente
ravvisabile il dolo, ma seppure una colpa attenuata dalla
dimostrata situazione finanziaria per lo più causata dal
tardivo pagamento di ingenti crediti vantati nei confronti
di pubbliche amministrazioni sebbene diverse
dall'amministrazione finanziaria.
Il comportamento della
ricorrente non è quindi stato finalizzato alla elusione o
evasione fiscale, ma trattasi di omessi versamenti
scaturenti da regolare dichiarazione per complessivi
€ 623.023,00 nonché di ritardati versamenti relativi a tutti i
mesi da gennaio a settembre 2012 che hanno generato sanzioni
amministrative (30%) per complessivi € 2.585.485,00 che vengono
contestate. Tra l'altro una gestione più accorta di questi
pagamenti tardivi con il 1° pagamento di gennaio alla fine
di tutti e gli altri pagati nei termini, avrebbe comportato
una sanzione di gran lunga più contenuta.
La Commissioni ritiene doversi applicare alla fattispecie il
comma 5 dell'art. 6 del dlgs del 18/12/1997 n. 472 «Non è
punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore». Per
forza maggiore, come nel caso di cui si discute, è da
intendersi la mancanza di liquidità dovuta a ingenti crediti
contabilizzati nei confronti di pubbliche amministrazioni.
Questo fatto legittima l'esclusione delle sanzioni per
l'assenza del requisito della colpevolezza.
La Commissione ritiene non dovute le sanzioni tributarie e
trattandosi della non facile interpretazione della norma
sulle cause di non punibilità, compensa le spese di
giudizio.
PQM
La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017). |
TRIBUTI: Per
l’edificabilità del terreno è sufficiente il piano generale.
Immobili. Anche se manca lo strumento attuativo.
I terreni inseriti nei piani strutturali comunali
nell’ambito di nuovi insediamenti devono essere considerati
edificabili ai fini fiscali, anche in assenza del piano
operativo che regola la reale possibilità di trasformazione
del territorio.
Lo ha statuito la
Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
27.01.2017 n. 2107.
Ancorché la pronuncia, molto attesa da enti impositori e
contribuenti considerando il rilevante contenzioso pendente
presso le commissioni tributarie, abbia riguardato i
riflessi fiscali dei nuovi strumenti urbanistici che diversi
comuni dell’Emilia Romagna hanno adottato in ossequio alla
l.r. 20/2000, i principi in essa contenuta avranno
inevitabili effetti, con riguardo a qualsiasi tributo, anche
nelle altre regioni ove sono stati abbandonati i
tradizionali strumenti urbanisti in favore di una più
moderna pianificazione del territorio.
Venendo al caso di specie, due contribuenti avevano
impugnato cinque avvisi di accertamento Ici (per gli anni
d’imposta dal 2004 al 2008) con il quale il comune
pretendeva l’imposta per un terreno sulla base del valore di
mercato anziché su quello catastale. I ricorrenti ritenevano
infatti che il terreno dovesse essere considerato agricolo,
anche ai fini Ici, in quanto il fatto che il nuovo piano
strutturale comunale (Psc) avesse ricompreso il terreno in
un ambito destinato a nuovi insediamenti residenziali
sarebbe stato irrilevante fino all’adozione del piano
operativo comunale (Poc).
Sia la commissione tributaria provinciale che quella
regionale condividevano l’assunto dei contribuenti in base
al rilievo che l’articolo 28 della l.r. 20/2000, definendo
il Psc strumento di pianificazione urbanistica generale
predisposto dal comune per delineare le scelte strategiche
di assetto e sviluppo, non gli attribuisce alcuna potestà
edificatoria, a differenza del Poc che regola invece la
reale possibilità di trasformazione del territorio.
Di diverso avviso è stata invece la Cassazione. Secondo i
giudici del Palazzaccio l’edificabilità di un terreno ai
fini della determinazione del suo valore venale non può, una
volta che essa è riconosciuta da uno strumento urbanistico
generale, ritenersi inficiata dalla eventuale mancanza di un
piano particolareggiato o attuativo.
E ciò in ossequio
all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità incentrato
sull’articolo 36, comma 2, del dl 223/2006, convertito dalla
legge 248/2006, secondo il quale l’edificabilità di un’area
ai fini fiscali deve essere desunta dalla qualificazione ad
essa attribuita nel piano regolatore generale adottato dal
comune, indipendentemente dall’approvazione da parte della
regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi
(Cassazione 21156/2016, 11182/2014 ed altre).
Richiamando i
principi già espressi dalle sezioni unite n. 25506/2006, la
Corte ha pertanto ritenuto che i terreni collocati dal Psc
in un ambito destinato a nuovi insediamenti residenziali
debbano essere considerati edificabili, a nulla rilevando
che la potestà edificatoria possa conseguire unicamente
dall’inclusione del terreno nel Poc trattandosi,
quest’ultimo, di uno strumento urbanistico che incide sul
mero ius edificandi.
Nonostante l’articolo 28 della l.r.
20/2000 sia stato modificato nel 2009 con l’introduzione
dell’inciso che «il Psc non attribuisce in nessun caso
potestà edificatoria alle aree né conferisce alle stesse una
potenzialità edificatoria subordinata all’approvazione del
Poc», dalla sentenza 2107/2017 è dato desumere che ai fini
fiscali tale precisazione sia comunque irrilevante avendo
solo riflessi di natura urbanistica (articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Allo
scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente
confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in
senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un
atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare
vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi
suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un
suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione.
---------------
12. L’appello è improcedibile, perché è corretta
l’affermazione del Comune secondo cui, essendo venuto meno e
sostituito da altro strumento urbanistico il piano
particolareggiato oggetto della delibera impugnata, gli
appellanti non otterrebbero alcun vantaggio da un eventuale
accoglimento dell’impugnazione proposta avverso un atto non
più efficace.
13. A questa tesi gli appellanti oppongono che, per quanto
di interesse, il nuovo P.G.T. non si discosterebbe dalle
previsioni del piano precedente, rispetto al quale si
porrebbe come atto meramente confermativo.
14. Viene in questione l’art. 27, comma 1, delle N.T.A. al
piano delle regole previsto dal P.G.T. del 2013, il quale
recita: “Per gli interventi in zone che sono già state
oggetto di Pianificazione attuativa, o di convenzioni
relative a PA vigenti, sono confermati i parametri edilizi e
le norme previste dalle convenzioni stesse, o dalla norme di
Piani di iniziativa pubblica o di Programmazione Integrata”.
15. La conferma da parte del P.G.T. delle previsioni del
piano particolareggiato è testuale. Tuttavia, questo dato
incontrovertibile non basta a rendere fondata la replica
degli appellanti all’eccezione di improcedibilità mossa dal
Comune, in quanto non è corretto il corollario che essi
pretendono di trarne, essere cioè il P.G.T. in parte qua
puramente confermativo della precedente previsione
urbanistica.
16. A questo proposito, va ricordata la costante
giurisprudenza elaborata in tema di atto di conferma.
17. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e
da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto
successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi. In
particolare, non può considerarsi meramente confermativo
rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia
stata preceduta da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un
nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un
atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare
vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi
suscettibile di autonoma impugnazione. Ricorre invece l'atto
meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a
dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento
senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova
motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV,
14.04.2014, n. 1805; sez. IV, 12.02.2015, n. 758; sez. IV,
29.02.2016, n. 812; sez. IV, 12.10.2016, n. 4214).
18. Nel caso di specie, la lettura integrale dell’art. 27
delle N.T.A. dimostra che -al contrario di quanto sostiene
la difesa degli appellanti, che ha ribadito l’argomento
nella discussione in udienza pubblica- nel dettare una
organica disciplina urbanistica del proprio territorio,
l’Amministrazione comunale, anche là dove ha ritenuto di
confermare le scelte in precedenza operate, abbia disposto
una nuova e articolata istruttoria, il cui atto conclusivo
rappresenta l’esito di una rinnovata valutazione anche della
situazione controversa. Infatti, i commi successivi al
primo, sopra riportato, recano una disciplina che, dopo
averla confermata come quadro generale, integra, specifica o
deroga (si veda il comma 6) quella dei precedenti piani
attuativi.
Nella parte che interessa, il P.G.T. costituisce dunque un
atto di conferma, per le ragioni che si sono dette; e perciò
atto che ha preso il posto di quello impugnato in primo
grado e che, per essere dotato di una propria e autonoma
efficacia lesiva, avrebbe richiesto una separata
impugnazione, la mancanza della quale rende l’appello
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse,
trasferendosi l'interesse del ricorrente dall'annullamento
dell'atto impugnato, sostituito dal nuovo provvedimento, a
quest'ultimo (cfr. in termini Cons. Stato, sez. IV,
24.02.2004, n. 731, con ampio apparato di precedenti).
19. Diversamente da quanto sostengono gli appellanti, questa
conclusione non può essere contrastata sulla base della nota
giurisprudenza che, partendo dalla premessa che i piani
particolareggiati attuativi dei piani regolatori generali
hanno efficacia decennale, con esclusione degli allineamenti
e delle prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso
destinati a essere applicati a tempo indeterminato anche in
presenza di uno strumento urbanistico generale, trae la
conseguenza che, in considerazione della stabilità delle
previsioni del piano attuativo, le prescrizioni urbanistiche
relative rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua
scadenza (gli appellanti citano Cons. Stato, sez. IV,
27.10.2009, n. 6568; ivi riferimenti ulteriori).
E ciò, sia perché quella giurisprudenza nasce in relazione
al ben diverso quesito del se la scadenza del termine
decennale trasformi o no le aree considerate in “zone
bianche”, sia perché nel caso in questione non di
scadenza del piano attuativo si tratta, ma della sua
sostituzione ad opera di un diverso e rinnovato strumento
urbanistico.
20. Dalle considerazioni che precedono discende che -come
anticipato- l’appello è improcedibile per sopravvenuta
carenza di interesse.
21. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante:
fra le tante, per le affermazioni più risalenti, cfr. Cass.
civ., sez. II, 22.03.1995 n. 3260 e, per quelle più recenti,
Cass. civ., sez. V, 16.05.2012 n. 7663)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.01.2017 n. 357 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
controversie in materia di determinazioni e pagamento degli
oneri concessori, investendo l’esistenza o l’entità di
un’obbligazione legale, concernono diritti soggettivi e
rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, con la conseguenza che la relativa domanda
non soggiace al regime di decadenza proprio del processo di
impugnazione, ma può essere proposta nel termine di
prescrizione ordinaria ed indipendentemente
dall’impugnazione di eventuali atti.
---------------
Deve dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo quanto alla questione relativa all’escussione
della polizza fideiussoria.
Come, infatti, affermato dalla Suprema Corte, la
controversia avente ad oggetto l’escussione, da parte del
Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di
somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di
penali rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e
non in quella esclusiva del giudice amministrativo in
materia di urbanistica ed edilizia, attesa l’autonomia tra i
rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella
specie, la Pubblica Amministrazione agisce nell'ambito di un
rapporto privatistico, senza esercitare, neppure
mediatamente, pubblici poteri.
Va, quindi, indicato il giudice ordinario quale giudice
munito di giurisdizione, innanzi al quale il processo potrà
essere riproposto ai sensi e per gli effetti di cui all’art.
11, secondo comma, c.p.a..
---------------
Come affermato dalla giurisprudenza,
allorché il privato rinunci o non utilizzi il permesso di
costruire, ovvero quando sia intervenuta la decadenza del
titolo edilizio, sorge in capo alla Pubblica
Amministrazione, anche ai sensi dell’art. 2033 o, comunque,
dell’art. 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme
corrisposte a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione e, conseguentemente,
il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il contributo concessorio, infatti, è strettamente connesso
all’attività di trasformazione del territorio e, quindi, ove
tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento
risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di
dare, cosicché l’importo versato va restituito, con la
precisazione che il diritto alla restituzione sorge non
solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle
opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia
stato utilizzato solo parzialmente, tenuto conto che sia la
quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa
al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto
profili differenti, all’oggetto della costruzione, di talché
l’avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie
comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla
rideterminazione del contributo ed alla restituzione della
quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla
porzione non realizzata.
---------------
Con il presente gravame la società ricorrente ha chiesto al
Tribunale di dichiarare non dovuta la somma di € 46.949,13,
richiesta dal Comune di Messina a titolo di oneri concessori
in relazione ad un intervento edilizio, con conseguente
inibizione per l’Ente di escutere la polizza fideiussoria
stipulata dalla società.
Nel ricorso si espone in fatto quanto segue:
a) la società ha presentato istanza per il rilascio di una
concessione edilizia per la costruzione di un fabbricato da
realizzare in località Montepiselli del Comune di Messina;
b) il progetto prevedeva la realizzazione di due corpi di
fabbrica: il primo (denominato “A”) a quattro elevazioni
fuori terra, più piano portico destinato a parcheggio e
piano interrato destinato a cantine a servizio delle
abitazioni; il secondo (denominato “B”) destinato alla
realizzazione di cantine, il quale si sarebbe dovuto
sviluppare su tre livelli interrati;
c) dopo l’inizio dei lavori, la società, con nota in data 06.05.2009, ha comunicato all’Amministrazione che sarebbe
stato realizzato soltanto il corpo di fabbrica “A” e che,
per l’effetto, sarebbero stati comunicati i nuovi conteggi
relativi agli oneri concessori dovuti;
d) più esattamente, rispetto al calcolo effettuato in fase
progettuale (per un importo pari ad € 66.681,00), il
contributo, in seguito alla effettiva realizzazione
dell’opera, veniva rideterminato in € 55.543,20, con un
residuo debito della società nei confronti
dell’Amministrazione pari ad € 13.746,73;
e) ciò nonostante, il Comune di Messina ha tentato di
escutere la polizza fideiussoria stipulata dalla società a
garanzia del pagamento del costo di costruzione per un
importo complessivo di € 46.949,13.
La ricorrente ha osservato che, come affermato dalla
giurisprudenza, a fronte di opere non compiute,
l’Amministrazione non può richiedere il pagamento degli
oneri concessori.
...
Il Collegio ritiene che l’eccezione di tardività del gravame
proposta dall’Amministrazione intimata debba essere
rigettata.
Al riguardo, deve osservarsi che le controversie in materia
di determinazioni e pagamento degli oneri concessori,
investendo l’esistenza o l’entità di un’obbligazione legale,
concernono diritti soggettivi e rientrano nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con la
conseguenza che la relativa domanda non soggiace al regime
di decadenza proprio del processo di impugnazione, ma può
essere proposta nel termine di prescrizione ordinaria ed
indipendentemente dall’impugnazione di eventuali atti (sul
punto, cfr. TAR di Catania, Sez. I, n. 1881/2015).
Deve, inoltre, dichiararsi il difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo quanto alla questione relativa
all’escussione della polizza fideiussoria.
Come, infatti, affermato dalla Suprema Corte (Cass. Civ.,
Sez. Un., n. 4319/2010), la controversia avente ad oggetto
l’escussione, da parte del Comune, di una polizza
fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri
di urbanizzazione e a titolo di penali rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario e non in quella
esclusiva del giudice amministrativo in materia di
urbanistica ed edilizia, attesa l’autonomia tra i rapporti
in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la
Pubblica Amministrazione agisce nell'ambito di un rapporto
privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente,
pubblici poteri.
Va, quindi, indicato il giudice ordinario quale giudice
munito di giurisdizione, innanzi al quale il processo potrà
essere riproposto ai sensi e per gli effetti di cui all’art.
11, secondo comma, c.p.a..
Tanto precisato, il ricorso appare, per il resto, fondato.
Invero, come affermato dalla giurisprudenza, allorché il
privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire,
ovvero quando sia intervenuta la decadenza del titolo
edilizio, sorge in capo alla Pubblica Amministrazione, anche
ai sensi dell’art. 2033 o, comunque, dell’art. 2041 c.c.,
l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo
di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione e, conseguentemente, il diritto del privato a
pretenderne la restituzione.
Il contributo concessorio, infatti, è strettamente connesso
all’attività di trasformazione del territorio e, quindi, ove
tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento
risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di
dare, cosicché l’importo versato va restituito, con la
precisazione che il diritto alla restituzione sorge non
solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle
opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia
stato utilizzato solo parzialmente, tenuto conto che sia la
quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa
al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto
profili differenti, all’oggetto della costruzione, di talché
l’avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie
comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla
rideterminazione del contributo ed alla restituzione della
quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla
porzione non realizzata (Consiglio di Stato, Sez. V, n.
105/1988, n. 894/1995 e n. 3714/2003; TAR Lombardia, Sez. II, n. 728/2010; TAR Abruzzo, n. 890/2006; TAR di
Parma, n. 149/1998; TAR di Catania, Sez. I, n. 159/2013).
In conclusione, il ricorso va in parte dichiarato
inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo e in parte va accolto, dichiarandosi non
dovuta, per l’effetto, la pretesa di pagamento del Comune di
Messina per l’importo di € 46.949,13
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 27.01.2017 n. 189 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: O
firma digitale o costituzione ko. Il
Tar Calabria sull'impresa in gara.
Azienda batte Regione, almeno per ora: l'impresa non può
essere esclusa d'emblée dalla gara per la realizzazione di
un impianto di valorizzazione dei rifiuti. Ma il punto è che
l'amministrazione non riesce a far valere in sede cautelare
le sue ragioni in quando la sua costituzione in giudizio
risulta nulla per violazione delle norme sul processo
amministrativo telematico. E ciò perché è impossibile
controllare la provenienza dell'atto tanto che esso appare
privo dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento dello scopo ex articolo 156, secondo comma,
Cpc.
È quanto emerge dall'ordinanza
26.01.2017 n. 33,
pubblicata dal TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, che
costituisce una delle prime sentenze pronunciate sulle nuove
regole del Pat.
Doppio errore. Il ricorso della spa merita accoglimento,
almeno in base alla cognizione sommaria tipica della fase
cautelare. Il bando per gestire l'impianto in grado di
«riciclare» materie prime secondarie richiede per ogni
associato al raggruppamento temporaneo dei progettisti una
corrispondenza tra quota di partecipazione e quota di
esecuzione lavori, al di là della qualifica professionale
posseduta.
Ma la mancata corrispondenza tra quota di
esecuzione e quota di qualificazione per il geologo e il
professionista con comprovata esperienza nel campo degli
impianti elettrici e dell'automazione non appare essere una
causa di esclusione.
Intanto tutto tace dalla parte della
Regione che si è autoesclusa dalla partita: infatti la
mancanza della firma digitale apposta sull'atto di
costituzione impedisce di verificarne la paternità, cioè che
esso provenga dal difensore che ne appare l'autore (si
configura dunque la violazione dell'articolo 136, comma
2-bis Cpa e dell'articolo 9, comma 1, del decreto
ministeriale 40/2016).
L'ente territoriale ha inoltre
depositato la copia digitale per immagini della procura
conferita dal presidente della Regione senza attestarne la
conformità all'originale, violando ancora le norme del
codice processo amministrativo e del Pat: non si può dunque
controllare provenga veramente dal legale rappresentante.
Non resta che aspettare l'udienza pubblica fissata per il 10
maggio. Compensate le spese della fase cautelare
(articolo ItaliaOggi del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
--------------
MASSIMA
- Rilevato che il ricorso è stato depositato
l’11.01.2017 e pertanto esso è sottoposto alla disciplina
del processo amministrativo telematico;
- Ritenuto, alla stregua di tale elemento temporale, che
la costituzione della Regione Calabria non sia conforme al
modello stabilito dalla legge, in quanto tale
amministrazione:
a) ha depositato copia digitale per immagini di un atto
di costituzione cartaceo, in violazione dell’art. 136, comma
2-bis c.p.a. e dell’art. 9, comma 1 d.m. 16.02.2016, n. 40,
che prescrivono che gli atti delle parti siano redatti in
formato di documento informatico sottoscritto con firma
digitale;
b) ha depositato copia digitale per immagini della
procura conferita dal Presidente della Regione, senza
attestarne la conformità all’originale ai sensi dell’art.
136, comma 2-ter c.p.a. e dell’art. 8, comma 2 d.m.
16.02.2016, n. 40;
- Ritenuto che nel caso di specie l’atto di costituzione
manchi dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento dello scopo (art. 156, comma II c.p.c.), in
quanto:
a) la mancanza della firma digitale apposta sull’atto di
costituzione impedisce di verificarne la paternità, e cioè
che esso provenga dal difensore che ne appare l’autore (cfr.
anche l’art. 44, comma 1 c.p.a. con riferimento al ricorso);
b) non è possibile, in mancanza della prescritta
attestazione, ritenere la conformità all’originale della
copia digitale della procura prodotta;
- Ritenuto, pertanto, che la costituzione sia nulla; |
APPALTI: Consorzio
stabile, fruibili qualifiche delle consorziate.
Qualificazione per appalti di servizio.
I consorzi stabili operanti negli appalti di servizi si
qualificano ancora con le regole del dpr 207/2010 e quindi
possono utilizzare le qualifiche delle imprese consorziate.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, con la
sentenza 25.01.2017 n. 1324.
La questione affrontata dai giudici riguardava la
possibilità per un consorzio stabile operante nel settore
dei servizi di qualificarsi, in una gara bandita dopo
l'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici,
con i requisiti delle consorziate e non secondo le regole
dell'art. 47.
In questa materia peraltro l'articolo 83 del decreto 50
rinvia per i lavori alle linee guida che l'Anac dovrebbe
emanare entro aprile 2017 per la definizione dei «requisiti
e capacità che devono essere posseduti dal concorrente,
anche in riferimento ai consorzi di cui all'articolo 45,
lettere b) e c)» e stabilisce che «fino all'adozione
di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14».
Quest'ultima norma rende applicabile anche l'articolo 81 del
dpr 207/2010 e l'art. 36, comma 7, del decreto 163/2006,
ovvero la regola per la quale i consorzi stabili si
qualificano sulla base delle qualificazioni possedute dalle
singole imprese consorziate.
Si tratta di una disciplina che, nota la sentenza, «realizza
una particolare forma di avvalimento che non richiede il
ricorso all'avvalimento ex art. 49, dlgs 163/2006. Con la
conseguenza che il consorzio stabile può partecipare alle
gare di appalto avvalendosi dei requisiti delle proprie
consorziate, senza necessità di stipulare un contratto di
avvalimento».
I giudici precisano quindi che questa disciplina, che non
faceva differenza fra lavori e servizi, risulta applicabile
anche oggi e, finché non usciranno le linee guida, anche
agli appalti di servizi banditi dopo il 19.04.2016.
Per i giudici, infatti, il rinvio alle regole antecedenti,
ancorché espresso immediatamente dopo la rimessione all'Anac
del compito di predisporre le linee guida per i lavori, è di
carattere assoluto («Fino all'adozione di dette linee
guida, si applica l'articolo 216, comma 14», non essendo
stata richiamata, anche in tal caso, la delimitazione che
connota il periodo precedente («per i lavori») (articolo
ItaliaOggi del 03.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: La
moschea è considerata un servizio. Tar Lazio. La
qualificazione dell’attività svolta e il cambio di
destinazione d’uso.
Una moschea rientra nella categoria dei “servizi”, se il
piano urbanistico comprende in tale generica categoria le
attrezzature culturali e religiose, i pubblici esercizi, gli
sportelli tributari e bancari, le sedi universitarie.
Lo precisa, per un
intervento nella capitale, il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
con
sentenza 25.01.2017 n. 1323.
Il caso esaminato riguarda un edificio in località
Centocelle, nel «tessuto della città consolidata»,
per un seminterrato di 280 metri quadrati destinato a
deposito con il piccolo zona vendita in un edificio di più
piani. Del locale era stato chiesto il cambio di
destinazione d’uso per farne luogo di preghiera dei fedeli
dell’Islam, con esecuzione di opere edili consistenti nella
suddivisione di una sala principale per la preghiera degli
uomini, una piccola per le donne, una vasca di
purificazione, un ufficio per imam e nuovi servizi igienici.
La diversa distribuzione della superficie interna e il
cambio di destinazione d’uso in sanatoria, da commerciale a
luogo di preghiera, era stato impedito dal Comune, ma il Tar
ha accolto il ricorso escludendo che la moschea possa essere
equiparata ad un «artigianato produttivo». La
difficile collocazione delle moschee ha numerosi precedenti,
soprattutto quando si genera un cambio destinazione d’uso da
«produttivo» (capannone industriale) a «sede di
comunità islamica».
La possibilità di cambiare destinazione assimilando la
moschea a un’attività produttiva, è esclusa dal Tar Parma
(792/2009): i due usi sono infatti radicalmente diversi, e
non è nemmeno possibile un provvedimento edilizio “in
deroga”. Le deroghe ai piani urbanistici sono possibili
se sussistono interessi pubblici (articolo 14 Dpr 380/2001),
ma senza stravolgere le destinazioni di zona: considerare
una moschea come luogo di interesse pubblico altererebbe
l’impostazione stessa del piano regolatore generale, e
quindi non è possibile alcuna elasticità, nemmeno ragionando
in termini di interesse pubblico.
Principi analoghi sono espressi dal Tar Milano (n.
4665/2009), che ritiene abusivo il mutamento della
destinazione d’uso di un immobile da residenziale a tempio
buddista, qualora vi sia una frequenza settimanale festiva,
e, saltuariamente, anche nei giorni feriali. Infine, per
collocare moschee non sono utilizzabili le norme sulle
associazioni di promozione sociale che svolgano attività di
utilità sociale (legge 383/2000). La legge 383 prevede che
le sedi di associazioni di promozione sociale siano
localizzabili in qualsiasi parte del territorio urbano, cioè
siano compatibili con ogni destinazione d’uso urbanistico, a
prescindere dalla destinazione d’uso edilizio impressa
specificamente e funzionalmente al singolo fabbricato con il
permesso di costruire.
Tuttavia, é necessario che l’attività di culto sia collegata
ad una attività di promozione sociale che l’associazione
intende realizzare, con la conseguenza che non basta quindi
prevedere generica attività di studio e diffusione della
lingua e cultura islamica, o la generica volontà di
agevolare i rapporti tra gli associati e le istituzioni
locali.
Se manca il legame tra l’attività di culto e altre attività
sociali, secondo il Consiglio di Stato (181/2013, ordinanza
4599/2016) non basta il legame del credo religioso per
affermare l’esistenza di finalità di promozione sociale. In
conseguenza, le agevolazioni che possono spettare ad una
bocciofila non possono estendersi ad una moschea
(articolo
Il Sole 24 Ore del 09.02.2017).
---------------
MASSIMA
3. Premesso
- che il centro islamico ricorrente impugna due
provvedimenti di Roma Capitale: la nota del 20.09.2016 con
cui il dirigente comunale ha inibito gli interventi di cui
alla denuncia di inizio attività presentata il 13.09.2016,
in quanto non conforme alla normativa urbanistica e la
successiva determinazione dirigenziale del 19.10.2016,
notificata il 26.10.2016, di ingiunzione a rimuovere o
demolire gli interventi di ristrutturazione edilizia
abusivamente realizzati in via dei ... al numero 14;
- che, con la denuncia di inizio attività del 13.09.2016,
presentata in alternativa al permesso di costruire, era
stato chiesto il cambio di destinazione d’uso in sanatoria
da commerciale a luogo di preghiera dell’immobile sito in
Roma, via dei ... numero 14, accompagnato di opere di
demolizione e ricostruzione di servizi igienici;
- che si tratta di un locale di 280 m² al piano seminterrato
con destinazione d’uso a deposito per 250 m² e con una zona
annessa per la vendita di 30 m²;
- che gli interventi abusivi contestati consisterebbero nel
cambio di destinazione d’uso dell’intero locale seminterrato
da deposito, con annessa zona di vendita di 30 m², a luogo
di preghiera per i fedeli dell’Islam, mediante l’esecuzione
di opere edili con la suddivisione interna in una sala
principale ampia per la preghiera degli uomini, una piccola
sala secondaria per la preghiera delle donne, una vasca di
purificazione, un ufficio per imam e un nuovo gruppo di
servizi igienici, con una diversa distribuzione della
superficie interna;
- che la denuncia di inizio attività non sarebbe conforme
alla normativa vigente perché l’intervento sarebbe escluso
dal campo di applicazione dell’articolo 44, comma 5, lettera
E, del piano regolatore generale approvato dal Comune di
Roma; l’intervento risulta già eseguito, non rientrerebbe
nelle caratteristiche della denuncia di inizio attività in
alternativa al permesso di costruire e sarebbe stato
utilizzato un modulo non predisposto per la denuncia di
inizio attività a sanatoria;
4. Ritenuto fondato e assorbente il primo motivo
dedotto:
- sono, difatti, incomprensibili le ragioni che hanno
condotto al rigetto della denuncia di inizio attività in
sanatoria;
- la destinazione d’uso richiesta
rientra certamente nella categoria dei “servizi” di
cui all’articolo 6, comma 5, delle Norme tecniche di
attuazione del PRG; la norma regolamentare richiamata
ricomprende nella categoria dei “servizi”, oltre a
pubblici esercizi, uso direzionale privato, sportelli
tributari bancari e finanziari, sedi di pubblica
amministrazione e delle pubbliche istituzioni, sedi ed
attrezzature universitarie, anche le attrezzature culturali
e religiose;
- ebbene, l’articolo 45 delle Norme tecniche di attuazione,
per i “tessuti della città consolidata” consente,
salve ulteriori limitazioni, la destinazione d’uso a
servizi; invece, per quanto riguarda le destinazioni d’uso
produttive, la norma consente solo l’uso “artigianato
produttivo”;
- non si comprende, pertanto, la ragione per cui il cambio
di destinazione d’uso richiesto sarebbe incompatibile con la
normativa urbanistica richiamata;
- il difetto di motivazione del provvedimento inibitorio
della d.i.a. a sanatoria vizia, per illegittimità derivata,
il conseguente ordine di ripristino;
5. Ritenuto, pertanto, di dover accogliere il ricorso, in
quanto manifestamente fondato e, per l’effetto, di dover
annullare i provvedimenti impugnati; |
EDILIZIA PRIVATA: Le
opere consistenti nell’ampliamento (vano cucina) e nella
realizzazione “ex novo” di nuovi ambienti (vano lavanderia e
veranda) formano opere innovative della consistenza
originaria dell’immobile assentito, in alcun modo
descrivibili quali interventi non costituenti variazioni
essenziali o di natura pertinenziale.
Questi ultimi possono riguardare solo manufatti esigui, di
scarsissimo impatto urbanistico, che non possono formare
oggetto di autonoma valutazione ed utilizzazione ma che
esistono con esclusiva funzione di servizio e completamento
della cosa principale.
Viceversa, le opere realizzate introducono nuovi volumi con
autonoma funzionalità, per cui sono annoverabili nella
nozione di nuova costruzione e, pertanto, per essi era
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10
del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.
---------------
Ricorre l’ipotesi di nuova costruzione anche se le opere
sono state intraprese su un preesistente immobile. Invero,
la giurisprudenza ha statuito che:
- <<il concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di
potersi ritenere avverata una “trasformazione del
territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di
interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi
si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur
legittimamente edificate>>;
- <<nella fattispecie si è trattato di un intervento di
trasformazione edilizia del territorio con creazione di
nuove superfici e volumi, per il quale indubbiamente
necessitava del previo rilascio del permesso di costruire,
trattandosi di un intervento di “nuova costruzione” di cui
all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001,
concetto comprensivo di qualunque manufatto autonomo ovvero
modificativo di altro preesistente …>>.
---------------
Non può asserirsi che la veranda chiusa perimetralmente
costituisca una tettoia a protezione dagli agenti
atmosferici e, comunque, anche in tal caso la sua
realizzazione esige il rilascio del permesso di costruire
(giurisprudenza pacifica; cfr. da ultimo, in fattispecie
simile, la sentenza di questa Sezione del 27/08/2016 n.
4110: “gli interventi consistenti nella realizzazione di
tettoie o di altre strutture che siano comunque apposte a
parti di preesistenti edifici non possono ritenersi
installabili senza permesso di costruire allorquando le loro
dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile
alterazione dell’edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite”).
---------------
Il ricorrente insorge avverso il provvedimento con cui è
stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente
realizzate alla Traversa ... n. 7, in difformità dalla
licenza edilizia n. 92 del 31/07/1968, ordinando il rispristino dello stato dei luoghi.
Trattasi:
a) dell’ampliamento della superficie assentita, realizzando
un ulteriore vano adibita a cucina (di circa mq. 19,00 e
altezza mt. 3,00);
b) della realizzazione “ex novo”:
- di un vano lavanderia-w.c. di mq. 4,00 (di altezza
variabile da mt. 2,46 a mt. 3,00, in muratura e con
copertura in lamiere grecate coibentate);
- di una veranda di circa mq. 23,00 (con copertura a falde
in lamiere coibentate, poggiante su una struttura in ferro,
chiusa lateralmente da un parapetto in muratura e pannelli
di alluminio preverniciato e vetro, collegata al piano di
campagna da una scala esterna in ferro zincato);
c) della diversa distribuzione degli spazi interni
dell’appartamento, con la diversa disposizione del bagno
interno.
...
1- Il ricorso è parzialmente fondato, nei seguenti termini.
1.1- Le opere consistenti nell’ampliamento (vano cucina) e
nella realizzazione “ex novo” di nuovi ambienti (vano
lavanderia e veranda) formano opere innovative della
consistenza originaria dell’immobile assentito, in alcun
modo descrivibili quali interventi non costituenti
variazioni essenziali o di natura pertinenziale.
Questi ultimi possono riguardare solo manufatti esigui, di
scarsissimo impatto urbanistico, che non possono formare
oggetto di autonoma valutazione ed utilizzazione ma che
esistono con esclusiva funzione di servizio e completamento
della cosa principale (giurisprudenza costante; cfr., per
tutte, la sentenza di questa Sezione del 24/10/2016 n.
4859).
Viceversa, le opere realizzate introducono nuovi volumi con
autonoma funzionalità, per cui sono annoverabili nella
nozione di nuova costruzione e, pertanto, per essi era
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10
del D.P.R. n. 380/2001 in relazione al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, questa Sezione ha già avuto modo di
rilevare che ricorre l’ipotesi di nuova costruzione, anche
se le opere sono state intraprese su un preesistente
immobile (cfr. la sentenza del 07/06/2016 n. 3367: <<il
concetto di “nuova costruzione”, rilevante al fine di
potersi ritenere avverata una “trasformazione del
territorio”, è pacificamente ravvisabile non solo in caso di
interventi ricadenti su “aree libere”, ma anche qualora essi
si presentino in aggiunta a strutture preesistenti, pur
legittimamente edificate>>; cfr., altresì, la sentenza del
19/07/2016 n. 4109: <<nella fattispecie si è trattato di un
intervento di trasformazione edilizia del territorio con
creazione di nuove superfici e volumi, per il quale
indubbiamente necessitava del previo rilascio del permesso
di costruire, trattandosi di un intervento di “nuova
costruzione” di cui all’art. 3, co. 1, lett. e), del d.P.R.
n. 380 del 2001, concetto comprensivo di qualunque manufatto
autonomo ovvero modificativo di altro preesistente …>>).
Né può asserirsi che la veranda chiusa perimetralmente
costituisca una tettoia a protezione dagli agenti
atmosferici e, comunque, anche in tal caso la sua
realizzazione esige il rilascio del permesso di costruire
(giurisprudenza pacifica; cfr. da ultimo, in fattispecie
simile, la sentenza di questa Sezione del 27/08/2016 n. 4110:
“gli interventi consistenti nella realizzazione di tettoie o
di altre strutture che siano comunque apposte a parti di
preesistenti edifici non possono ritenersi installabili
senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni
sono di entità tali da arrecare una visibile alterazione
dell’edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite”; cfr., altresì, Cons. Stato, sez. VI, 26/01/2015 n.
319).
Consegue da tutto ciò che, per tali opere, il Comune di
Torre del Greco ha correttamente fatto ricorso al potere
repressivo degli abusi edilizi, dettato dal D.P.R. n.
380/2001 per le opere prive del permesso di costruire e
sanzionabili con la demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 25.01.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' esclusa la necessità della previa comunicazione di avvio
del procedimento, come univocamente statuito dalla
giurisprudenza. Invero, il Collegio ritiene, quanto
alla violazione delle regole in tema di partecipazione al
procedimento per omessa comunicazione dell'atto di avvio del
procedimento ai sensi dell'art. 7 L. n. 241 del 1990, che,
in caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive,
non occorra la comunicazione di avvio del procedimento ai
sensi dell'art. 7, L. n. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale
non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario.
---------------
Non inficia il provvedimento la circostanza che non sia
stato indicato il termine di 90 giorni (stabilito dall’art.
31 del D.P.R. n. 380/2001 per la spontanea esecuzione
dell’ordine di demolizione, in previsione della successiva
acquisizione), stante la previsione legislativa che
impedisce di far luogo anzi tempo all’apprensione del bene
ed essendo in facoltà dell’interessato, in ogni caso,
richiedere una proroga per l’adempimento (su quest’ultimo
aspetto, cfr. la sentenza della Sez. IV di questo Tribunale
del 23/12/2015 n. 5883: “D’altronde, la pretesa (ma non
dimostrata) insufficienza del lasso di tempo concesso dal
Comune per demolire l’abuso potrebbe al più giustificare la
richiesta di una proroga, ma non può di per sé ritenersi
sufficiente per l’annullamento dell’ordinanza di
demolizione”).
---------------
Non rileva il lasso di tempo intercorso dalla commissione
degli abusi, il quale non preclude (se non in ipotesi
eccezionali) la doverosa adozione dei provvedimenti
sanzionatori.
Invero, "I provvedimenti di repressione degli
abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente
vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da
escludere la necessità di una specifica valutazione delle
ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun
affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo”.
---------------
Il ricorrente insorge avverso il provvedimento con cui è
stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente
realizzate alla Traversa ... n. 7, in difformità dalla
licenza edilizia n. 92 del 31/07/1968, ordinando il rispristino dello stato dei luoghi.
Trattasi:
a) dell’ampliamento della superficie assentita, realizzando
un ulteriore vano adibita a cucina (di circa mq. 19,00 e
altezza mt. 3,00);
b) della realizzazione “ex novo”:
- di un vano lavanderia-w.c. di mq. 4,00 (di altezza
variabile da mt. 2,46 a mt. 3,00, in muratura e con
copertura in lamiere grecate coibentate);
- di una veranda di circa mq. 23,00 (con copertura a falde
in lamiere coibentate, poggiante su una struttura in ferro,
chiusa lateralmente da un parapetto in muratura e pannelli
di alluminio preverniciato e vetro, collegata al piano di
campagna da una scala esterna in ferro zincato);
c) della diversa distribuzione degli spazi interni
dell’appartamento, con la diversa disposizione del bagno
interno.
...
Quanto alle altre censure, va considerato che:
- è esclusa la necessità della previa comunicazione di avvio
del procedimento, come univocamente statuito dalla
giurisprudenza [cfr., per tutte, la sentenza di questa
Sezione del 27/08/2016 n. 4110 e, da ultimo, Cons. Stato,
sez. IV, 12/10/2016 n. 4204: “Il Collegio ritiene, quanto
alla violazione delle regole in tema di partecipazione al
procedimento per omessa comunicazione dell'atto di avvio del
procedimento ai sensi dell'art. 7 L. n. 241 del 1990, che,
in caso di ordine di demolizione di opere edilizie abusive,
non occorra la comunicazione di avvio del procedimento ai
sensi dell'art. 7, L. n. 07.08.1990 n. 241, trattandosi
di atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale
non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario (cfr.
ex multis, Cons. St., Sez. V, 09.09.2013, n. 4470)”];
- gli abusi realizzati sono stati correttamente qualificati
(ad eccezione di quanto si dirà appresso) ed il
provvedimento contiene la puntuale descrizione delle opere;
- non inficia il provvedimento la circostanza che non sia
stato indicato il termine di 90 giorni (stabilito dall’art.
31 del D.P.R. n. 380/2001 per la spontanea esecuzione
dell’ordine di demolizione, in previsione della successiva
acquisizione), stante la previsione legislativa che
impedisce di far luogo anzi tempo all’apprensione del bene
ed essendo in facoltà dell’interessato, in ogni caso,
richiedere una proroga per l’adempimento (su quest’ultimo
aspetto, cfr. la sentenza della Sez. IV di questo Tribunale
del 23/12/2015 n. 5883: “D’altronde, la pretesa (ma non
dimostrata) insufficienza del lasso di tempo concesso dal
Comune per demolire l’abuso potrebbe al più giustificare la
richiesta di una proroga, ma non può di per sé ritenersi
sufficiente per l’annullamento dell’ordinanza di
demolizione”);
- non rileva il lasso di tempo intercorso dalla commissione
degli abusi, il quale non preclude (se non in ipotesi
eccezionali) la doverosa adozione dei provvedimenti
sanzionatori [cfr., per tutte, la sentenza della Sezione del
20/02/2016 n. 951: “I provvedimenti di repressione degli
abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente
vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da
escludere la necessità di una specifica valutazione delle
ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun
affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons.
St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228)”] (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 25.01.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per operare una diversa distribuzione ambienti
interni non necessita il previo rilascio del permesso di
costruire atteso che l’intervento de quo non può
configurarsi quale “ristrutturazione”, ai sensi dell’art.
33, D.P.R. n. 380/2001, né ovviamente, quale “nuova
costruzione”, ai sensi del precedente art. 31 (per operare i
quali occorrerebbe il previo rilascio di un permesso di
costruire), con la rilevante conseguenza che non sussistono
i presupposti per l’irrogazione della sanzione della
riduzione in pristino dello stato dei luoghi prevista dagli
artt. 31, co. 2, e dall’art. 33, co. 1, D.P.R. n. 380 del
2001, in mancanza di permesso di costruire, rispettivamente,
per le nuove opere e per gli interventi di ristrutturazione
edilizia.
---------------
Il ricorrente insorge avverso il provvedimento con cui è
stata ingiunta la demolizione delle opere abusivamente
realizzate alla Traversa ... n. 7, in difformità dalla
licenza edilizia n. 92 del 31/07/1968, ordinando il rispristino dello stato dei luoghi.
Trattasi:
a) dell’ampliamento della superficie assentita, realizzando
un ulteriore vano adibita a cucina (di circa mq. 19,00 e
altezza mt. 3,00);
b) della realizzazione “ex novo”:
- di un vano lavanderia-w.c. di mq. 4,00 (di altezza
variabile da mt. 2,46 a mt. 3,00, in muratura e con
copertura in lamiere grecate coibentate);
- di una veranda di circa mq. 23,00 (con copertura a falde
in lamiere coibentate, poggiante su una struttura in ferro,
chiusa lateralmente da un parapetto in muratura e pannelli
di alluminio preverniciato e vetro, collegata al piano di
campagna da una scala esterna in ferro zincato);
c) della diversa distribuzione degli spazi interni
dell’appartamento, con la diversa disposizione del bagno
interno.
...
1.2- Il ricorso è fondato, relativamente alla sanzionata
distribuzione interna degli spazi.
Questa Sezione ha già avuto modo di rilevare (cfr. la
sentenza del 06/11/2015 n. 5202, con ulteriori richiami) che
“per operare una diversa distribuzione ambienti interni non
necessita il previo rilascio del permesso di costruire
atteso che l’intervento de quo non può configurarsi quale
“ristrutturazione”, ai sensi dell’art. 33, D.P.R. n.
380/2001, né ovviamente, quale “nuova costruzione”, ai sensi
del precedente art. 31 (per operare i quali occorrerebbe il
previo rilascio di un permesso di costruire), con la
rilevante conseguenza che non sussistono i presupposti per
l’irrogazione della sanzione della riduzione in pristino
dello stato dei luoghi prevista dagli artt. 31, co. 2, e
dall’art. 33, co. 1, D.P.R. n. 380 del 2001, in mancanza di
permesso di costruire, rispettivamente, per le nuove opere e
per gli interventi di ristrutturazione edilizia”.
Pertanto, per questa parte, limitatamente al punto relativa
dell’impugnata ordinanza (“diversa distribuzione degli spazi
interni all’appartamento”), il ricorso deve essere accolto,
con il conseguente annullamento, in parte qua, della
predetta ordinanza.
2- Alla stregua delle considerazioni che precedono, il
ricorso va dunque accolto in parte, come sopra chiarito, con
conseguente annullamento, in parte qua, dell’impugnata
ordinanza (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 25.01.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cila,
no al silenzio del comune. Senza la demolizione arriva il
commissario prefettizio. La giurisprudenza più recente in
materia di abusi edilizi, verifiche e diffide dei vicini.
Il comune che dopo la comunicazione di inizio lavori
asseverata fa finta di non vedere il manufatto contro legge
rischia l'arrivo del commissario dalla prefettura a far
abbattere l'abuso edilizio: la presentazione della Cila,
infatti, non dispensa l'ente locale dall'esercitare i suoi
poteri repressivi contro le irregolarità, mentre risulta
illecita la condotta dell'amministrazione che non riscontra
entro trenta giorni la diffida del vicino, il quale punta
alla demolizione della veranda.
È quanto emerge dalla
sentenza
25.01.2017 n. 522,
pubblicata dalla VII Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso del condomino, atto che va qualificato
come soggetto al rito del silenzio di cui agli articoli 31 e
117 del codice del processo amministrativo. Sbaglia il
comune a non compiere entro un mese le verifiche sulla Cila
richieste nella diffida perché il parere della
Soprintendenza allegato parla chiaro: va ridimensionato il
terrazzo che costituisce la copertura della veranda.
Soltanto così si può ottenere la sanatoria. Risulta quindi
illegittimo il silenzio serbato dal Comune perché dai
documenti emerge che il manufatto è abusivo, mentre l'ente
locale è deputato al controllo del territorio in base
all'articolo 27 del Testo unico sull'edilizia e doveva
dunque controllare la sussistenza dei requisiti per la Cila.
Insomma: non soltanto l'amministrazione deve riscontrare la
diffida del vicino entro trenta giorni, ma nello stesso
termine deve ordinare la demolizione della veranda e del
terrazzo soprastante. E se non provvederà sarà
«commissariato» da un funzionario della prefettura.
I precedenti: lesione e consapevolezza.
Le guerre fra vicini
finiscono tutte al Tar quando c'è un'autorizzazione di
mezzo. E anche se la Dia-Scia si è consolidata, il vicino
può sempre ottenere l'inibitoria sul progetto di
ristrutturazione della costruzione contigua alla sua se ha
agito entro sessanta giorni dal momento in cui si è reso
conto che il titolo del confinante risulta viziato, dopo
essersi procurato le pratiche edilizie.
È quanto emerge
dalla
sentenza
15.04.2016 n. 735, pubblicata dalla
II Sez. del
TAR Lombardia-Milano.
Accolto il ricorso del proprietario
dell'immobile preoccupato per le intenzioni del vicino che
punta ad abbattere e ricostruire un fabbricato.
Secondo il confinante il progetto contiene violazioni alle
norme sulle distanze minime tra fabbricati oltre che alle
stesse disposizioni urbanistiche.
Per il comune, invece, niente da segnalare, visto che
«decorsi i termini a seguito della presentazione della
documentazione integrativa» la Dia-Scia ha ormai consolidato
i suoi effetti. E invece no, perché è l'articolo 19, comma
6-ter, legge 241/1990 a imporre all'amministrazione anzitutto
di riscontrare l'istanza che proviene dal terzo titolare di
un situazione giuridica differenziata, come è il vicino che
vuole bloccare i lavori.
Ma soprattutto il comune deve anche
bloccare l'opera se risulta che il confinante ha agito entro
sessanta giorni da quando ha avuto notizia dei profili
lesivi dell'intervento: altrimenti il terzo subirebbe una
diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia
leso da un permesso di costruire. E se sono passati più di
due mesi il terzo può sempre chiedere all'ente locale di
agire in autotutela.
Attenzione, però. Solo se i lavori sono a buon punto scatta
il termine per impugnare il permesso a costruire del vicino.
Altro che decaduto. Il confinante ha ancora tempo per
impugnare il titolo edilizio rilasciato dal comune dal
proprietario del fondo limitrofo. E ciò perché, quando si
contesta la difformità dall'originario progetto, il
confinante si rende conto del danno che la sua proprietà sta
rischiando soltanto quando i lavori che si svolgono poco
lontano hanno raggiunto uno stadio tale da mostrarne
l'illegittimità.
È quanto emerge dalla
sentenza
21.06.2016 n. 1049,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana, che ha
accolto il ricorso del vicino contro il titolo edilizio
fondato sulla precisa qualificazione dell'intervento come
ristrutturazione conservativa posta in essere
dall'amministrazione comunale.
Infondata l'eccezione di
tardività proposta dal rivale. Manca la prova che il
confinante abbia preso piena conoscenza delle differenze tra
il nuovo manufatto e quello precedente, differenze che
invece risultano fondamentali.
Né si può sostenere legittimamente che il vicino conosca il
progetto prima che sia presentato al comune. Il confinante
contesta la diversità del manufatto realizzato rispetto a
quello esistente: deve dunque ritenersi che si sia reso
conto dell'illegittimità soltanto quando i lavori erano già
a buon punto ed era possibile notare a occhio nudo le
difformità.
La costruzione risulta ancora in corso nel
giugno 2015: il 22 del mese il vicino è convocato per
acquisire i documenti edilizi dei lavori mentre il ricorso
al Tar è presentato il successivo 21 settembre e deve dunque
ritenersi in termini. Spese di giudizio compensate per la
novità della questione
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Secondo
i principi giurisprudenziali enucleati da questo Consiglio,
poi sostanzialmente confluiti nell’art. 21-nonies
della legge n. 241/1990 (nel testo ratione temporis applicabile
ovvero quello antecedente alle novelle del 2014 e 2015), i
presupposti per l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità
originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino
della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo
ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente
motivazione allorché la caducazione intervenga ad una
notevole distanza di tempo.
---------------
Circa il denunciato profilo della tardività dell’esercitato
potere di autotutela, vero è che erano trascorsi cinque anni
dall’approvazione del piano esecutivo in contestazione,
nondimeno il criterio del non superamento del “ragionevole
termine” (entro cui esercitare il potere di autotutela) non
riveste un carattere assoluto e categorico dovendosi
correlare la “tempistica” alla specificità della fattispecie
e all’interesse pubblico sotteso all’adottato atto di
rimozione.
Nel caso de quo vi sono stati degli accertamenti
particolarmente complessi ed inoltre è indubbio che si è in
presenza di interessi pubblici particolarmente delicati,
aventi un rilievo costituzionale, quali la salute pubblica,
l’ambiente e la sicurezza pubblica, la tutela dei quali in
ragione della loro essenziale e preminente rilevanza non
possono essere assoggettati ad un termine di decadenza,
potendo tutt’al più il trascorrere del tempo richiedere una
più argomentata motivazione a sostegno della decisione di
annullamento d’ufficio, circostanza questa puntualmente
intervenuta sol che si proceda a scorrere il testo
dell’impugnato provvedimento di autotutela dove
l’Amministrazione si occupa diffusamente delle ragioni che
l’hanno indotta ad assumere le relative determinazioni.
Infine, il Comune ha correttamente proceduto ad annullare
con effetto ex tunc gli atti di approvazione del P.I.I.
proprio perché le criticità rilevate hanno dato luogo a vizi
di legittimità che sono insorti sin dall’origine senza che
si possa ricondurre le rilevate mende a fatti o accadimenti
sopravvenuti che soli, avrebbero postulato l’esercizio del
potere di revoca; appare fuor di dubbio, quindi, che le
adottate delibere consiliari costituiscono provvedimenti a
contenuto fortemente vincolato e/o obbligatorio, la cui
adozione, in quanto volta a rimuovere una esistente (e
persistente) situazione contra legem non può soggiacere a
quale che sia limite temporale.
---------------
22. Ciò precisato, con riferimento ai rilievi di
illegittimità mossi dal Comune a carico dell’approvato
P.I.I., parte ricorrente articola le sue critiche su tre
punti fondamentali:
a) contesta la legittimità in sé dell’esercitato potere di
autotutela perché avvenuto in assenza di presupposti e
perché in ogni caso l’annullamento è stato adottato
tardivamente (non entro un “termine ragionevole”);
b) sostiene che la localizzazione delle opere costituite dal
parco pubblico e dalla scuola materna nonché la prevista
realizzazione delle unità immobiliari di cui al “lotto 2”
non contrastano con la normativa dettata in tema di
inquinamento acustico;
c) rileva che l’approvato P.I.I. non viola le disposizioni
disciplinanti il rischio da incidente rilevante
23. In relazione alla questione di cui alla suindicata
lettera a), vanno scrutinate le censure di cui ai motivi
indicati come I e II del ricorso di primo grado, con cui si
deduce la tardività dell’annullamento parziale d’ufficio
intervenuto a distanza di più di cinque anni
dall’approvazione del P.I.I. Bellaria (e ad oltre quattro
anni dal rilascio dei titoli edilizi) nonché l’insussistenza
dei presupposti per farsi luogo all’annullamento d’ufficio.
24. In particolare, ad avviso di parte appellante, non
sussisterebbero le condiciones iuris per l’annullamento in
autotutela, sarebbe poi stato comunque superato il “termine
ragionevole” stabilito dall’art. 21-nonies entro cui poter
esercitare lo ius poenitendi ed inoltre gli eventi addotti a
sostegno della misura di autotutela sarebbero intervenuti
solo successivamente agli originari atti annullati, sicché
non si poteva far luogo ad un annullamento ex tunc.
25. L’assunto non è condivisibile.
26. Secondo i principi giurisprudenziali enucleati da questo
Consiglio, poi sostanzialmente confluiti nell’art. 21-nonies
della legge n. 241/1990 (nel testo ratione temporis applicabile
ovvero quello antecedente alle novelle del 2014 e 2015), i
presupposti per l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità
originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino
della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo
ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente
motivazione allorché la caducazione intervenga ad una
notevole distanza di tempo (cfr. fra le tante, Cons. Stato,
Sez. IV, 27/11/2010 n. 8291; Sez. IV, n. 2885 del 2016; Sez.
IV, n. 2908 del 2016).
27. Ebbene, dall’esame degli atti tutti di causa emerge che
nella specie l’Amministrazione (prima) e il Tar (poi) hanno
fatto buon governo dei principi giurisprudenziali che
reggono la materia.
In primo luogo il procedimento di annullamento d’ufficio è
stato avviato e gestito in ragione di riscontrati vizi di
legittimità che giustificano la determinazione di rimuovere
gli effetti delle previsioni urbanistiche e dei titoli
edilizi per cui è causa, laddove l’Amministrazione comunale
fa avuto cura di fornire sufficiente contezza dell’esistenza
oltreché della fondatezza dei profili di invalidità che
inficiano gli atti in parola.
28. Quanto alla necessità di un’adeguata valutazione
dell’interesse pubblico in assoluto e in comparazione con
l’interesse privato, non può non osservarsi come il Comune,
nella parte motiva della delibera consiliare n. 52/2012, ha
avuto modo di riconoscere la prevalenza dell’interesse
pubblico ad una corretta gestione del proprio territorio,
con la puntuale evidenziazione dei valori giuridici ritenuti
prevalenti (ambiente, salute, sicurezza).
29. Relativamente poi all’affidamento dei privati,
l’Amministrazione ha evidenziato che per le opere edilizie
interessanti le parti in discussione non erano state
eseguite, a differenza invece di quelle riguardante i lotti
1 e 3, tant’è che per questi ultimi, proprio in
considerazione degli acquisti delle unità immobiliari
avvenuti in buona fede da parte dei terzi, ha deciso di
soprassedere all’adozione di misure di autotutela.
30. Rimane da esaminare il denunciato profilo della
tardività dell’esercitato potere di autotutela.
31. Ora, vero è che erano trascorsi cinque anni
dall’approvazione del piano esecutivo in contestazione,
nondimeno il criterio del non superamento del “ragionevole
termine” (entro cui esercitare il potere di autotutela) non
riveste un carattere assoluto e categorico dovendosi
correlare la “tempistica” alla specificità della fattispecie
e all’interesse pubblico sotteso all’adottato atto di
rimozione.
32. Nel caso de quo vi sono stati degli accertamenti
particolarmente complessi ed inoltre è indubbio che si è in
presenza di interessi pubblici particolarmente delicati,
aventi un rilievo costituzionale, quali la salute pubblica,
l’ambiente e la sicurezza pubblica, la tutela dei quali in
ragione della loro essenziale e preminente rilevanza non
possono essere assoggettati ad un termine di decadenza (cfr.
Cons. Stato Sez. VI, 27/12/2012 n. 1081), potendo tutt’al
più il trascorrere del tempo richiedere una più argomentata
motivazione a sostegno della decisione di annullamento
d’ufficio, circostanza questa puntualmente intervenuta sol
che si proceda a scorrere il testo dell’impugnato
provvedimento di autotutela dove l’Amministrazione si occupa
diffusamente delle ragioni che l’hanno indotta ad assumere
le relative determinazioni.
33. Infine, il Comune ha correttamente proceduto ad annullare
con effetto ex tunc gli atti di approvazione del P.I.I.
proprio perché le criticità rilevate hanno dato luogo a vizi
di legittimità che sono insorti sin dall’origine senza che
si possa ricondurre le rilevate mende a fatti o accadimenti
sopravvenuti che soli, avrebbero postulato l’esercizio del
potere di revoca; appare fuor di dubbio, quindi, che le
delibere consiliari nn. 42/2012 e 52/2012 costituiscono
provvedimenti a contenuto fortemente vincolato e/o
obbligatorio, la cui adozione, in quanto volta a rimuovere
una esistente (e persistente) situazione contra legem non
può soggiacere a quale che sia limite temporale.
34. Come si è visto, una delle due ragioni giustificative
del disposto annullamento d’ufficio è riconducibile alla
rilevata presenza di “criticità acustiche” a carico di
alcune strutture previste dal Piano (la scuola materna e il
parco pubblico).
Parte ricorrente sul punto contesta (specificatamente con il
terzo motivo d’impugnazione) la fondatezza dei rilievi mossi
dall’Amministrazione procedente e riguardanti:
a) il mancato inserimento delle aree destinate ad ospitare
le predette strutture in classe I di zonizzazione acustica a
fronte invece del loro avvenuto inquadramento nelle classi
III e IV;
b) l’incompatibilità della localizzazione di dette opere con
i parametri di inquinamento acustico connesso alla
immissione di rumore derivante dalla vicinanza delle strade
provinciali e in ogni caso il superamento dei limiti di
rumorosità previsti dalla normativa.
35. I profili di doglianza all’uopo formulati non appaiono
meritevoli di positivo apprezzamento
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.01.2017 n. 293 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Progettista - False attestazioni contenute nella
relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di
attività edilizia (D.I.A.) - Reato di falsità ideologica in
certificati - Persone esercenti un servizio di pubblica
necessità - Articolo 481 Codice Penale - Attestazione sullo
stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande
agli strumenti urbanistica - Art. 23, 44, c. 1, lett. b),
d.P.R. n. 380/2001.
Le false attestazioni contenute nella relazione di
accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività
edilizia integrano il reato di falsità ideologica in
certificati (art. 481 cod. pen.), in quanto detta relazione
ha natura di certificato in ordine alla descrizione dello
stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali
vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati
dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si
intende realizzare e all'attestazione della loro conformità
agli strumenti urbanistici ed ai regolamento edilizio.
E, più in particolare, va ribadito che, rispetto alla d.i.a..
assume la qualità di persona esercente un servizio di
pubblica necessità e risponde, quindi, del reato di falsità
ideologica in certificati, il progettista che, nella
relazione iniziale di accompagnamento di cui all'art. 23,
comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, renda false
attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo stato dei
luoghi e la conformità delle opere realizzande agli
strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione del
committente o la futura eventuale difformità di quest'ultima
rispetto a quanto poi in concreto realizzato.
Nella specie: la falsa attestazione riguardava lo stato dei
luoghi e non l'intenzione del committente di realizzare una
certa tipologia di opere o l'eventuale futura difformità di
quanto realizzato rispetto a quanto progettato.
Reato di falsità ideologica in
certificati - Natura plurioffensiva dei delitti contro la
fede pubblica e legittimazione alla costituzione di parte
civile - Tutela dell'ambiente e del territorio - DANNO
AMBIENTALE - Diritto del Comune al risarcimento del danno
sia per il reato edilizio sia per il connesso reato di
falso.
I delitti contro la fede pubblica, per la loro natura
plurioffensiva, tutelano direttamente non solo l'interesse
pubblico alla genuinità materiale e alla veridicità
ideologica di determinati atti, ma anche quello dei soggetti
sulla cui sfera giuridica l'atto sia destinato a incidere
concretamente, con la conseguenza che essi, in tal caso,
sono legittimati a costituirsi parte civile (Cass., Sez. 3,
Sentenza n. 2511 del 16/10/2014 Ud., dep. 21/01/2015).
Pertanto, la legittimazione alla costituzione di parte
civile sussiste non solo per i reati urbanistici o
ambientali, ma anche per i reati commessi in occasione o con
la finalità di violare normative dirette alla tutela
dell'ambiente e del territorio (Sez. 5, Sentenza n. 2076 del
05/12/2008 Ud., dep. 20/01/2009).
Nella specie: sia il Tribunale e la Corte d'appello hanno
ritenuto sussistente il diritto del Comune al risarcimento
del danno sia per il reato edilizio di cui al capo A, sia
per il connesso reato di falso di cui al capo E (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2017 n. 3067
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permanenza del reato di edificazione abusiva -
Momento conclusivo della fattispecie - Ininterrotto utilizzo
abitativo del bene - Giudice civile determinazione del
momento consumativo del reato di abuso edilizio - Limite
alle statuizioni civili - Estinzione del reato.
La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con
conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in
cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta (ad esempio,
il sequestro del manufatto), cessano o vengono sospesi i
lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche
dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello
della emissione della sentenza di primo grado.
Ne consegue che, ai fini dell'individuazione del momento di
cessazione dei lavori, il completamento dell'opera con tutte
le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un
elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei
casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la
permanenza sia terminata anche senza l'ultimazione
dell'opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando
risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene
comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie.
Ciò che conta, è dunque l'ininterrotto utilizzo abitativo
del bene, del quale l'attivazione delle utenze è solo uno
degli elementi sintomatici e non è da solo sufficiente a far
ritenere cessata la permanenza, ben potendosi dare il caso
di attivazione delle utenze a lavori ancora in corso. Il
giudice civile, in applicazione dei principi sopra enunciati
in relazione alla determinazione del momento consumativo del
reato di abuso edilizio, dovrà preventivamente valutare se
l'estinzione del reato sia maturata prima della pronuncia di
primo grado.
Infatti, se l'estinzione del reato è maturata prima della
pronuncia di primo grado, il giudice di secondo grado -ivi
compreso quello di rinvio- non può pronunciarsi sulle
statuizioni civili (Cass. pen., sez. un., 11/07/2006, n.
25083) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2017 n. 3067
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Vincoli
negoziali sulle bonifiche. La sottoscrizione di accordi
urbanistici impegna i titolari a farsi carico di tutte le
fasi dell’iter.
Inquinamento. Le ultime pronunce dei Tar chiariscono la
portata degli obblighi assunti dal proprietario non
responsabile.
Il proprietario non responsabile dell’inquinamento che ha
aderito a un vincolo negoziale che lo impegna a bonificare
un sito contaminato deve seguire tutte le fasi del
procedimento. E il vincolo permane anche se i costi degli
interventi sono superiori a quanto preventivato o sono
necessari interventi non presi in considerazione al momento
dell’adesione.
Sono questi i principi chiariti dalle sentenze emesse lo
scorso gennaio dal TAR Veneto - Sez. III (sentenza
23.01.2017 n. 65) e dal
TAR Lombardia-Brescia - Sez. I (sentenza
17.01.2017 n. 48).
I giudici amministrativi
stanno infatti delineando le caratteristiche dell’obbligo di
bonifica determinato dall’adesione dei proprietari non
responsabili ad accordi urbanistici.
L’obbligo di bonifica
In base al principio del “chi inquina paga”, il Codice
dell’ambiente (Dlgs 152/2006) stabilisce una netta
separazione tra il soggetto responsabile dell’inquinamento,
che è tenuto per legge a bonificare, e il proprietario non
responsabile che invece non è, di regola, sottoposto a tale
obbligo.
Ma, in alcuni casi, anche il soggetto non responsabile può
decidere di accollarsi gli obblighi di bonifica.
La “parte interessata”.
In primo luogo, il proprietario non responsabile può
decidere di farsi carico della bonifica in qualità di “parte
interessata”. È un’ipotesi molto comune, che si verifica
quando il responsabile dell’inquinamento non si assume gli
obblighi di bonifica (perché non è noto o non può o non
vuole farlo) ed è quindi la Pa ad effettuare la
decontaminazione.
La Pa, avendo preventivamente iscritto
onere reale, potrà quindi soddisfare il proprio credito
attraverso la vendita forzata dell’area e chiedendo il
rimborso dei costi al proprietario nei limiti del valore di
mercato dell’area dopo l’esecuzione degli interventi. Per
evitare gravami sulla propria area, quindi, i proprietari
non responsabili possono decidere di partecipare attivamente
alla procedura di bonifica.
Successione nella titolarità.
È possibile assumere l’obbligo di bonificare anche con la
compravendita di aree compromesse a livello ambientale (ad
esempio con successioni societarie). I nuovi proprietari
subentrano nella bonifica e sono considerati dalla Pa come i
(nuovi) referenti.
Gli accordi. Il proprietario non responsabile può poi essere
tenuto a bonificare in virtù di accordi urbanistici che gli
consentono di trarre vantaggi sul futuro utilizzo dell’area
(in termini di volumetrie, destinazioni d’uso, oneri di
urbanizzazione eccetera).
La portata dei vincoli
È proprio su queste forme di vincolo negoziale, inteso in
senso ampio, che la giurisprudenza sta facendo chiarezza con
recenti pronunce. In particolare, il Tar Veneto (sentenza
65/2017) ha individuato nell’adesione ad un accordo di
programma il vincolo che impegna l’aderente (sia esso il
soggetto che ha inquinato o meno) al rispetto delle azioni
di bonifica decise nell’ambito dell’accordo stesso. I
giudici veneti hanno sottolineato la forza vincolante
dell’accordo chiarendo che l’atto (iniziale) di adesione ad
esso obbliga l’aderente a seguire tutte le fasi di bonifica
necessarie per la conclusione del procedimento.
Il Tar Brescia con la sentenza 48/2017 ha focalizzato
l’attenzione sulla vincolatività degli atti unilaterali
d’obbligo chiarendo che essi ben possono essere titoli
giuridici da cui derivano le obbligazioni di bonifica con
una forza vincolante notevole: essi continuano a impegnare
il proprio sottoscrittore anche nel caso in cui i costi
degli interventi si rivelino maggiori di quanto preventivato
o qualora si rendano necessari ulteriori interventi non
presi in considerazione al momento della sottoscrizione.
In tal senso, anche il TAR Lombardia-Milano, Sez. III (sentenza 29.06.2016
n. 1297) e il TAR Toscana, Sez. I (sentenza
11.11.2016 n. 1635)
hanno chiarito che l’approvazione di piani attuativi e le
conseguenti convenzioni urbanistiche possono determinare il
sorgere dell’obbligo di bonifica in capo ai non inquinatori.
Resta, comunque inteso che in assenza di un vincolo
giuridico, legale o negoziale, nessun soggetto può essere
costretto a bonificare anche se è proprietario dell’area
inquinata.
---------------
Costi non indicati nelle intese a carico
dei privati. spese. Se causati da
eventi prevedibili.
Anche se non è
responsabile dell’inquinamento, il proprietario ha comunque
alcuni obblighi, a cominciare dall’adozione delle cosiddette
misure di prevenzione, ossia di iniziative volte a
contrastare eventi che creano una minaccia imminente per la
salute o per l’ambiente.
La circostanza di non avere inquinato non lo esime inoltre
dalla partecipazione (in forma indiretta) ai costi di
bonifica.
Se il responsabile dell’inquinamento non provvede, le
attività di bonifica vengono condotte dalla Pa. Ma
l’eliminazione della contaminazione determina un
miglioramento valutabile anche in termini economici.
Per questo l’ordinamento giuridico permette alla Pa di:
-
iscrivere onere reale in relazione al bene (e quindi di
attivare una azione reale di garanzia con relativo diritto
di prelazione sul bene);
-
chiedere al privato il rimborso delle spese degli interventi
adottati (nei limiti del valore di mercato del bene a
seguito dell’esecuzione degli interventi).
Il privato non responsabile deve quindi valutare i costi da
sostenere per mantenere la proprietà del bene o per ripagare
l’amministrazione. Una ponderazione economica che si
allaccia spesso alle valutazioni legate ai possibili
sviluppi urbanistici.
La stipula di convenzioni urbanistiche, accordi di programma
o atti unilaterali d’obbligo è il punto di arrivo di
valutazioni negoziali tra Pa e privati in cui si bilanciano
gli interessi pubblici (di eliminazione della contaminazione
e di sviluppo o riqualificazione delle aree) con gli
interessi economici dei privati.
L’obbligo del proprietario non responsabile di bonificare
previsto nelle convenzioni urbanistiche di solito è
strettamente correlato all’attività di trasformazione
urbanistica prevista dal piano attuativo. Con la conseguenza
che al decadere per qualsiasi motivo in tutto o in parte
delle previsioni edificatorie (ad esempio per decadenza del
piano o variante urbanistica) vengono meno in tutto o in
parte gli obblighi di bonifica.
Inoltre, durante la fase esecutiva del contratto, possono
intervenire imprevisti (difficoltà tecniche, impossibilità
di perfezionare varianti urbanistiche, dichiarazione di
illegittimità della procedura da parte dell’autorità
giudiziaria eccetera) che possono determinare uno squilibrio
economico.
In questo caso l’operatore privato può sottrarsi alla
bonifica ma secondo il Tar Brescia (sentenza 48/2017)
bisogna fare una distinzione:
-
se lo squilibrio era prevedibile, il privato non potrà
liberarsi unilateralmente dagli obblighi negoziali assunti
con la Pa (e quindi resterà obbligato a bonificare);
-
se lo squilibrio, invece, non era prevedibile e altera
pesantemente le spese ipotizzate (ad esempio nel caso in cui
il piano attuativo venga annullato), allora può chiedere
all’amministrazione misure compensative volte a ristabilire
l’equilibrio economico che spetta all’amministrazione
individuare di volta in volta e possono consistere in minori
contributi di costruzione, soluzioni perequative relative ai
diritti edificatori, ed anche rimodulazione delle operazioni
di bonifica (articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria emissioni moleste
o fastidiose - Impianto munito di regolare autorizzazione
alle emissioni in atmosfera e molestie olfattive - Emissioni
odorigene realizzata nell'ambito dell'ordinario ciclo
produttivo dell'impresa - Reato di getto pericoloso di cose
- Configurabilità - Adozione di puntuali accorgimenti
tecnici - All.ti Parte V del TUA - Art. 674 cod. pen. - Art.
844 c.c..
Anche nel caso in cui un impianto sia munito di
autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in caso di
produzione di "molestie olfattive" il reato di getto
pericoloso di cose è, comunque, configurabile, non esistendo
una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e
valori limite in materia di odori (Cass. Sez. 3, n. 36905
del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni; Sez. 3, n. 2475 del
9/10/2007, dep. 17/01/2008, Alghisi e altro).
Ne consegue che non può riconoscersi automatica valenza
scriminante alla produzione di emissioni odorigene pur
realizzata nell'ambito dell'ordinario ciclo produttivo
dell'impresa, ancorché regolarmente autorizzato.
Né può condividersi l'assunto difensivo secondo cui
l'unicità e la coerenza dell'ordinamento non potrebbero
consentire che da un lato sia permesso e, dall'altro, sia
punito uno stesso identico comportamento, atteso che
l'attività autorizzata potrebbe essere in ogni caso
realizzata con modalità tali da garantire, grazie
all'adozione di puntuali accorgimenti tecnici, il mancato
prodursi di emissioni moleste o fastidiose (in termini, v.
Sez. 3, n. 15734 del 12/02/2009, dep. 15/04/2009, Schembri e
altro).
ARIA - Configurabilità del reato di cui
all'art. 674 cod. pen. - Natura di reato di pericolo
concreto - Criterio di valutazione della tollerabilità delle
emissioni olfattive - Non necessario un accertamento tecnico
- Giurisprudenza.
Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 674 cod.
pen. è necessario che le condotte consistenti nel gettare o
versare abbiano attitudine concreta a molestare persone, non
essendo sufficiente una attitudine potenzialmente idonea
alla molestia (Sez. 3, n. 25175 del 11/05/2007, dep.
03/07/2007, Gagliardi e altro).
Tuttavia, la natura di reato di pericolo concreto e il
peculiare criterio di valutazione della tollerabilità delle
emissioni olfattive, comporta che sia sufficiente
l'apprezzamento diretto delle conseguenze moleste da parte
anche solo di alcune persone, dalla cui testimonianza il
giudice può logicamente trarre elementi per ritenere
l'oggettiva sussistenza del reato, a prescindere dal fatto
che tutte le persone siano state interessate o meno dallo
stesso fenomeno o che alcune non l'abbiano percepito
affatto; non essendo nemmeno necessario un accertamento
tecnico (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015,
Maroni; in termini sostanzialmente analoghi v. Sez. 3, n.
12019 del 10/02/2015, dep. 23/03/2015, Pippi, secondo cui ai
fini dell'accertamento può farsi riferimento al fastidio
dichiarato dai testimoni che hanno una percezione quotidiana
dell'intensità dello stesso, nonché Sez. 3, n. 19206 del
27/03/2008, Crupi).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Valori limite
in materia di odori - Parametro per valutare la legittimità
dell'emissione - Criterio della "stretta tollerabilità"
previsto dall'art. 844 cod. civ. - Protezione dell'ambiente
e della salute umana.
Non esistendo una normativa statale che preveda disposizioni
specifiche e valori limite in materia di odori, il parametro
alla stregua del quale valutare la legittimità
dell'emissione deve essere individuato nel criterio della "stretta
tollerabilità", attesa la inidoneità di quello della "normale
tollerabilità" previsto dall'art. 844 cod. civ., ad
assicurare una protezione adeguata all'ambiente ed alla
salute umana (Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep.
14/09/2015, Maroni; Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, dep.
17/01/2008, Alghisi e altro; Sez. 3, n. 11556 del
21/02/2006, dep, 31/03/2006, Davito Bava; Sez. 3, n. 19898
del 21/04/2005, Pandolfini) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.01.2017 n. 2240
- link a www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: La
Tosap è compatibile con il canone concessorio.
Consiglio di stato: non si realizza una doppia
imposizione.
Il canone concessorio e la tassa o il canone di occupazione
spazi e aree pubbliche sono compatibili. Dunque, le
amministrazioni comunali o provinciali possono richiedere il
canone cosiddetto non ricognitorio unitamente alla Tosap o
al Cosap. In questi casi non si realizza una doppia
imposizione per la stessa occupazione di suolo pubblico.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, II Sez., con
il
parere 18.01.2017 n. 120.
I giudici amministrativi hanno ritenuto infondato il ricorso
straordinario al presidente della repubblica proposto
dall'Enel per l'annullamento, per doppia imposizione, della
deliberazione del consiglio comunale con la quale era stato
approvato il regolamento per l'applicazione del canone
concessorio patrimoniale non ricognitorio.
Per il Consiglio
di stato, invece, «mentre il canone concessorio non
ricognitorio costituisce per l'ente pubblico proprietario
del terreno una entrata patrimoniale (e non tributaria) che
trova la sua giustificazione nella necessità di trarre un
corrispettivo per l'uso esclusivo e per l'occupazione dello
spazio, concessi contrattualmente o in base a provvedimento
amministrativo a soggetti terzi; la Tosap è un tributo e
deve essere corrisposta al comune, quale ente impositore, al
verificarsi di determinati presupposti ritenuti indici
seppure indiretti di capacità contributiva. Ancora, la Cosap
è un'entrata di carattere patrimoniale, la cui istituzione è
rimessa alla facoltà dei comuni e delle province in
alternativa alla tassa».
Con la pronuncia in esame, inoltre, è stata respinta per
inammissibilità la contestazione dell'Enel, concernente
sempre la legittimità del regolamento, nella parte in cui
assoggetta a imposizione le occupazioni realizzate al di
fuori della sede stradale, poiché non aveva dimostrato che
il comune avesse richiesto il pagamento del canone anche per
le suddette occupazioni. Peccato che il giudice non si sia
espresso nel merito, perché la questione non è pacifica.
I
contrasti sui presupposti di legge per richiedere il
pagamento del canone sono emersi anche all'interno del
Consiglio di stato che con la sentenza 1926/2016,
contrariamente a quanto sostenuto con la pronuncia
6459/2014, ha stabilito che non può essere richiesto il
canone concessorio per qualsiasi utilizzo della sede
stradale da parte delle aziende erogatrici di acqua, luce e
gas, ma solo per lo spazio soprastante ad essa e a
condizione che limiti il suo tipico uso pubblico. Ciò che
conta è l'uso della sede stradale, che l'articolo 3 del
Codice della strada (decreto legislativo 285/1992) definisce
come la superficie compresa entro i confini stradali. Questa
comprende la carreggiata e le fasce di pertinenza.
Pertanto, la norma di legge esclude che il presupposto per
l'imposizione di un canone possa essere costituito dall'uso
del sottosuolo, con la posa di cavi e tubi interrati.
Quest'ultima pronuncia, però, non è condivisibile. Si
ritiene corretta la tesi espressa dallo stesso Consiglio di
stato laddove non ha escluso dall'esigibilità del canone
l'utilizzo del sottosuolo stradale.
In effetti, l'articolo 27 del Codice della strada fa
riferimento all'uso o all'occupazione delle strade e delle
loro pertinenze e il successivo articolo 28, che disciplina
gli obblighi dei concessionari di linee elettriche,
telefoniche, di servizi di oleodotti, metanodotti,
distribuzione di acqua potabile o gas, dispone che le
concessioni possono essere sia aeree che sotterranee
(articolo ItaliaOggi del 07.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Disposizioni in tema di conglomerato cementizio
armato o in metallo - Assicurare la stabilità della
struttura in funzione statica.
La "ratio legis" delle disposizioni in tema di
conglomerato cementizio armato è quella di assicurare la
stabilità del fabbricato in tutti i casi nei quali siano
comunque adoperate strutture in cemento armato o in metallo
in funzione statica.
Non assume rilievo, quindi, l'entità dell'elemento
materiale, atteso che non è necessario che questo sia
costituito da un complesso di strutture, essendo rilevante
l'elemento funzionale.
Violazione della normativa urbanistica -
Rilascio del permesso di costruire in sanatoria - Effetti e
limiti - Estinzione dei soli reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche - Violazioni della
disciplina per le costruzioni in zone sismiche - Artt. 36,
44, 64, 65, 71, 72, 93 e 95 DPR 380/2001.
In materia di violazione della normativa urbanistica, il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi
dell'art. 36 d d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta
l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientrano
né le violazioni della disciplina per le costruzioni da
eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività
giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto
del territorio (Sez. 3, n. 10110 del 21/01/2016, Navarra;
Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, Conforti) né, per le stesse
ragioni, i reati previsti un tempo dalla legge 05.11.1971 n.
1086, e oggi dagli artt. 64 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001
con riguardo alle opere in conglomerato cementizio, atteso
che le citate disposizioni estinguono i soli reati
contravvenzionali previsti dalla norme urbanistiche, fra le
quali non possono essere ricomprese le disposizioni aventi
oggettività giuridica diversa, quale la citata legge n.
1086, rispetto alla tutela urbanistica del territorio.
Omessa denuncia delle opere in
conglomerato cementizio armato - Reato omissivo proprio del
costruttore - Responsabilità del committente di lavori
edilizi - Concorso al reato in qualità di "extraneus" -
Giurisprudenza.
Il committente di lavori edilizi concorre, in qualità di "extraneus",
quale concorrente morale, nella contravvenzione di omessa
denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato
(artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), pur trattandosi
di reato omissivo proprio del costruttore (Sez. 3, n. 21775
del 23/03/2011, Rv.250377) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.01.2017 n. 1959 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conglomerato cementizio armato, nella normativa non conta
l'entità dell'elemento materiale.
Cassazione: non è necessario che
l'elemento materiale sia costituito da un complesso di
strutture, essendo rilevante l'elemento funzionale.
Il committente di lavori edilizi “concorre, in qualità di "extraneus",
quale concorrente morale, nella contravvenzione di omessa
denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato
(artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), pur trattandosi
di reato omissivo proprio del costruttore”.
Lo ha ribadito la III Sez. penale della Corte di Cassazione
nella
sentenza 17.01.2017 n. 1959.
La suprema Corte ricorda che “la "ratio legis" delle
disposizioni in tema di conglomerato cementizio armato è
quella di assicurare la stabilità del fabbricato in tutti i
casi nei quali siano comunque adoperate strutture in cemento
armato o in metallo in funzione statica. Non assume rilievo,
quindi, l'entità dell'elemento materiale, atteso che non è
necessario che questo sia costituito da un complesso di
strutture, essendo rilevante l'elemento funzionale”.
Inoltre, “secondo la pacifica giurisprudenza di questa
Corte in materia di violazione della normativa urbanistica,
il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi
dell'art. 36 d d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta
l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientrano
né le violazioni della disciplina per le costruzioni da
eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività
giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto
del territorio (…) né, per le stesse ragioni, i reati
previsti un tempo dalla legge 05.11.1971 n. 1086, e oggi
dagli artt. 64 e ss. del d. P.R. n. 380 del 2001 con
riguardo alle opere in conglomerato cementizio, atteso che
le citate disposizioni estinguono i soli reati
contravvenzionali previsti dalla norme urbanistiche, fra le
quali non possono essere ricomprese le disposizioni aventi
oggettività giuridica diversa, quale la citata legge n.
1086, rispetto alla tutela urbanistica del territorio”
(commento tratto
da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Il primo motivo è inammissibile.
Questa Corte ha affermato che il committente di lavori
edilizi concorre, in
qualità di "extraneus", quale concorrente morale, nella
contravvenzione di omessa
denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato
(artt. 65 e 72, d.P.R. 06.06.2001, n. 380),
pur
trattandosi di reato omissivo proprio del costruttore
(Sez. 3, n. 21775 del 23/03/2011, Rv. 250377).
Il ricorrente articola sul punto motivo privo di
concretezza, senza censurare
con elementi specifici la valutazione del giudice di merito
(pag. 3 della sentenza
impugnata).
2. Il secondo motivo è infondato.
La "ratio legis" delle disposizioni in tema di conglomerato
cementizio armato
è quella di assicurare la stabilità del fabbricato in tutti
i casi nei quali siano
comunque adoperate strutture in cemento armato o in metallo
in funzione statica.
Non assume rilievo, quindi, l'entità dell'elemento
materiale, atteso che non è
necessario che questo sia costituito da un complesso di
strutture, essendo
rilevante l'elemento funzionale (con riguardo alla
previgente normativa, Sez. 3,
n. 6814 del 11/01/2002, Rv. 221428; Sez. 3, n. 5220 del
29/11/2000, dep. 07/02/2001, Rv. 218797).
Inoltre, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte
in materia di
violazione della normativa urbanistica, il rilascio del
permesso di costruire in
sanatoria ai sensi dell'art. 36 d d.P.R. 06.06.2001, n.
380, comporta l'estinzione
dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, nella cui
nozione non rientrano né le violazioni della disciplina per
le costruzioni da eseguirsi
nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica
diversa da quella riguardante
il corretto assetto del territorio (Sez. 3, n. 10110 del
21/01/2016, Navarra, Rv.
266252; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, Conforti, Rv.
261099) né, per le stesse
ragioni, i reati previsti un tempo dalla legge 05.11.1971 n. 1086, e oggi
dagli artt. 64 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001 con
riguardo alle opere in
conglomerato cementizio, atteso che le citate disposizioni
estinguono i soli reati
contravvenzionali previsti dalla norme urbanistiche, fra le
quali non possono
essere ricomprese le disposizioni aventi oggettività
giuridica diversa, quale la
citata legge n. 1086, rispetto alla tutela urbanistica del
territorio (Sez. 3, n. 12869
del 2009 e Sez. 7, n. 38907 del 2016 non massimate, nonché
con riguardo alla
previgente normativa, Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002,
Menna, Rv. 221439;
Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997, dep. 11/02/1998, Rv. 209571). |
APPALTI: Non
sempre si va al giorno feriale seguente.
Quando la data di scadenza per presentare la domanda di
partecipazione a una gara d'appalto coincide con un giorno
festivo, il termine non slitta per forza al giorno feriale
seguente.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza
17.01.2017 n. 170.
Il Collegio ha soppesato un risalente precedente del 2003
(la pronuncia n. 1214) secondo cui per le domande di gara si
applicano i principi generali (propri anche del processo
civile) sullo slittamento al primo giorno feriale successivo
del termine che cade in un giorno festivo.
I giudici hanno rilevato tuttavia che nella vicenda non si
ravvisava, come nel precedente indicato nel ricorso, una
analoga incertezza riguardo al contenuto del bando, che anzi
risultava chiaro in ordine sia alle modalità di inoltro
delle offerte sia alla tempistica del loro atteso arrivo
presso la stazione appaltante.
Tanto è vero che gli altri partecipanti alla procedura
selettiva non avevano avuto dubbi rispetto al termine entro
cui inoltrare la documentazione. Inoltre la stazione
appaltante, con il bando, aveva consentito ai partecipanti
di ricorrere ad una pluralità di forme di inoltro dei
plichi, e quindi la parte poteva scegliere la modalità più
adatta a far risultare (anche ex post) il proprio
adempimento.
L'Amministrazione avrebbe poi avuto l'onere di dover
eventualmente giustificare la ragione della mancata
accettazione del plico proprio nell'ultimo giorno stabilito.
Palazzo Spada ha concluso affermando che «assolutamente
nulla impedisce che una stazione appaltante voglia e possa
tenere aperti propri uffici, per lavorare ad una procedura
di selezione competitiva, anche di domenica o altro giorno
festivo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
----------------
MASSIMA
5. L’appello va respinto, giacché infondato, risultando
la sentenza impugnata meritevole di conferma in quanto non
affetta dalle censure che le sono state rivolte.
5.1. Nonostante il precedente costituito dalla sentenza del
CdS, V, n. 1214/2003, depositata in data 05.03.2003, che ha
sostenuto che alle scadenze dei termini di presentazione di
domande di gara si applicano i principi generali (propri
anche del processo civile) sullo slittamento al primo giorno
feriale successivo del termine cadente in giorno festivo, si
può confermare la sentenza impugnata tenuto conto del fatto
che:
- rispetto al precedente citato, nel caso di specie non si ravvisa
una analoga incertezza nel tenore del bando, che anzi
risulta adeguatamente chiaro in ordine sia alle modalità di
inoltro delle offerte sia alla tempistica del loro atteso
arrivo presso la stazione appaltante;
- non risulta che la dedotta incertezza interpretativa abbia
colpito anche gli altri partecipanti alla procedura
selettiva, circostanza questa che può far anche propendere
–nei riguardi della ricorrente– un misto tra incertezza,
mera distrazione in ordine al tempo massimo di consegna
dell’offerta, semplice ritardo nella predisposizione del
materiale costituente l’offerta, con ciò avendosi ulteriore
differenza rispetto al caso oggetto del precedente citato;
- la stazione appaltante, con il bando, aveva consentito ai
partecipanti (ed in ciò altro aspetto differente rispetto al
caso precedente) di ricorrere ad una pluralità di forme di
inoltro dei plichi, onde nulla impediva alla parte di
scegliere, tra i diversi, la modalità più adatta a far
risultare (anche ex post) che il suo adempimento era
stato pienamente conforme alla regola di partecipazione
stabilita dall’Università, lasciando così a quest’ultima
l’onere di dover eventualmente giustificare la ragione della
mancata accettazione del plico proprio nel giorno ultimo da
essa stessa stabilito;
- assolutamente nulla impedisce che una stazione
appaltante voglia e possa tenere aperti propri uffici, per
lavorare ad una procedura di selezione competitiva, anche di
domenica o altro giorno festivo (sua essendo la scelta di
quanto debba essere sollecita la procedura stessa), mentre
nella fattispecie la ricorrente neppure ha dato un principio
di prova sul fatto (in tal modo non assodato) che
l’Università avesse tradito quanto fatto intendere col
bando, lasciando chiuso l’ufficio preposto che, invece,
sarebbe dovuto essere aperto per la ricezione dei plichi
contenenti le offerte;
- al di là della affermazione di parte, non v’è prova
circostanziata che un dipendente della stazione appaltante,
abilitato a fornire risposte attendibili in merito alla
procedura selettiva, abbia realmente indotto la ricorrente a
ritenere che le offerte potessero pervenire utilmente anche
il giorno successivo a quello ultimo stabilito proprio dalla
stazione appaltante. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - CONDOMINIO - Rumori
idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete -
Situazione di pericolo concreto per la quiete pubblica -
Dimostrazione del pericolo con apprezzamento "in fatto" -
Art. 659 c.p. - Fatttispecie: attività di un centro di
formazione svolta in ambito condominiale.
La dimostrazione della sussistenza di una situazione di
pericolo concreto per la quiete pubblica può essere offerta
anche alla stregua delle dichiarazioni dei soggetti
disturbati, potendo tale valutazione essere compiuta secondo
un parametro di comune esperienza, purché idoneo a
dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete.
Nella specie, il giudice è stato in grado di accertare, con
apprezzamento "in fatto", come l'attività rumorosa
determinata dall'uso dell'ascensore e dal continuo afflusso
di frequentatori del centro di formazione, "con il
connesso moltiplicarsi delle voci, delle attese, delle
discussioni tra i frequentatori del centro", avesse
determinato una situazione di grave pregiudizio per la
quiete pubblica e per il riposo delle persone, incidendo non
soltanto sulla sfera personale di pochi soggetti, ma anche
sull'intera collettività condominiale.
INQUINAMENTO ACUSTICO - RUMORE -
Dimostrazione della sussistenza di una situazione di
pericolo concreto per la quiete pubblica - Immissioni sonore
superiori alla "normale tollerabilità" - Verifica della
effettiva idoneità della condotta - Natura di reato di
pericolo concreto - Art. 659 c.p. giurisprudenza.
La fattispecie di cui all'art. 659, comma 1 c.p., riveste la
natura di reato di pericolo concreto, sicché al fine della
sua integrazione, è necessario verificare la effettiva
idoneità della condotta, secondo una valutazione da compiere
in concreto ed ex ante, ad arrecare disturbo al
riposo o alle occupazioni di un numero indeterminato di
persone (Cass. Sez. 1, n. 7748 del 24/01/2012, dep.
28/02/2012, Giacomasso e altro; Sez. 1, n. 44905 del
11/11/2011, dep. 02/12/2011, Mistretta e altro; Sez. 1, n.
246 del 13/12/2007, dep. 7/01/2008, Guzzi e altro; Sez. 1,
n. 40393 del 08/10/2004, dep. 14/10/2004, P.G. in proc.
Squizzato).
E nel caso di attività che si svolge in ambito condominiale,
è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare
disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo
degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante
la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte
degli occupanti il medesimo edificio (Sez. 1, n. 45616 del
14/10/2013, dep. 13/11/2013, Virgillito e altro; v., in
termini, anche Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, dep.
05/06/2014, Ioniez, relativa all'esercizio di una discoteca
e del disturbo recato al riposo delle persone abitanti
nell'edificio in cui era ubicato il locale), pur se, poi, in
concreto soltanto alcune persone se ne possano lamentare
(Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011, dep. 20/12/2011, lori),
configurandosi in caso contrario un illecito civile che
resta confinato nell'ambito dei rapporti di vicinato (così
Sez. 1, n. 17825 del 23/04/2002, dep. 10/05/2002, Tonello ed
altro; Sez. 1, n. 17670 del 19/03/2002, dep. 09/05/2002,
Baratta e altro; Sez. 1, n. 1406 del 12/12/1997, dep.
05/02/1998, P.C. e Costantini; Sez. 1, n. 5578 del
06/11/1995, dep. 04/06/1996, Giuntini ed altro).
Peraltro, la dimostrazione della sussistenza di una
situazione di pericolo concreto per la quiete pubblica può
essere offerta anche alla stregua delle dichiarazioni dei
soggetti disturbati (v. Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015,
Montali e altro; Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez;
Sez. 1, n. 20954 del 18/01/2011, Torna; Sez. 1, n. 7042 del
27/05/1996, Fontana), potendo tale valutazione essere
compiuta alla stregua di un parametro di comune esperienza,
purché idoneo a "dimostrare la sussistenza di un fenomeno
in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica
quiete" (così, ancora, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015,
Montali e altro).
INQUINAMENTO ACUSTICO - Ipotesi di reato
ex art. 659 cod. pen. - Contravvenzioni concernenti l'ordine
pubblico e la tranquillità pubblica.
L'art. 659 del codice penale, tra le contravvenzioni
concernenti l'ordine pubblico e la tranquillità pubblica,
preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al
primo comma, la quale punisce il comportamento di colui il
quale "mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di
strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero
suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le
occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli
spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici";
nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il
fatto di "chi esercita una professione o un mestiere
rumoroso contro le disposizioni della legge o le
prescrizioni dell'Autorità".
Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma
1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque
cagionato, peraltro con modalità espressamente e
tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal
comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o
professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni
di legge o dalle disposizioni dell'autorità.
In ogni caso, entrambe le fattispecie in questione tutelano
la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il
riposo delle persone possano venire disturbate con
schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad
interferire nel normale svolgimento della vita privata di un
numero indeterminato di persone, con conseguente messa in
pericolo del bene giuridico della pubblica tranquillità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2017 n. 1746
- link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: La
relazione tecnica troppo lunga fa perdere l’appalto.
Consiglio di Stato. Se il bando dà limiti.
Non può essere valutato il tempo di
esecuzione dell’appalto indicato alla fine di relazioni
“papiro” sulla gestione, quindi oltre il limite dimensionale
stabilito dal bando per «un’esigenza di speditezza e
funzionalità della procedura». L’offerta tecnica presentata
è quindi «incompleta» di un «elemento essenziale» la cui
mancanza non può essere sanata.
Il Consiglio di
Stato –sentenza
16.01.2017 n. 95, V Sez.-
conferma così l’esclusione di una società di costruzioni
aggiudicataria di una procedura bandita nel 2014 da un
Comune (base d’asta circa 4 milioni) nonostante la
commissione giudicatrice avesse provveduto, come previsto
dalla lex specialis, a oscurarle i documenti dell’offerta
tecnica poiché illustrata in un numero di pagine superiore
al massimo consentito (18 fogli A4 fronte-retro anziché 10).
Negli atti oscurati, c’era la richiesta «gestione del
cantiere» improntata sull’obiettivo determinante di chiusura
lavori in 210 giorni.
In linea col primo grado (Tar Napoli, sentenza 2221/2016),
la pronuncia dà ragione all’impresa seconda in graduatoria:
aveva invocato l’esclusione della prima per incompletezza
dell’offerta, ritenendo illegittimo e irragionevole
valutarne il pregio «essenziale» definito non più
utilizzabile dalla stessa stazione appaltante.
A detta
invece dell’affidataria ricorrente in secondo grado, il
limite di pagine per la relazione descrittiva va considerato
solo «indicativo», e chi lo viola non può essere sanzionato
con l’esclusione: il “sistema appalti” è fondato sui princìpi di
favor partecipationis e tassatività delle cause
di esclusione.
In base alla stessa tesi, l’affidamento in
tal caso era «assolutamente logico e coerente»: l’offerta
tecnica era stata comunque valutata dalle pagine “leggibili”
e con indicazioni anche sulla tempistica, posto che il cronoprogramma richiesto consisteva in una sintesi grafica
di quanto descritto.
Il Consiglio di Stato spiega che «a prescindere da
un’espressa comminatoria di esclusione, il (sub)punteggio
basato sul tempo di esecuzione… non può che fondarsi su di
un’adeguata comprensione delle modalità di gestione
dell’appalto», perciò «è necessaria anche la lettura secondo
ragione del cronoprogramma, che racchiude in sé proprio
l’offerta temporale, scandendo la tempistica esecutiva del
contratto».
In casi come questi, non essendo utilizzabile
«tale elemento (essenziale), l’offerta risulta incerta sul
contenuto» e l’esclusione legittimata dal “vecchio” Codice
appalti (articolo 46, comma 1-bis, Dlgs 163/2006). Una
«soluzione» dettata dallo Regolamento di attuazione
(articolo 40, comma 2, Dpr 207/2010) per cui il
cronoprogramma va presentato assieme all’offerta se
l’appalto è di lavori con progettazione esecutiva su base di
un progetto definitivo o preliminare (lettere b e c, comma
2, articolo 53, Codice appalti).
Affidando la gara alla seconda in graduatoria (al netto di
verifiche dei requisiti), il collegio ha sottolineato che in
questo caso la parte non oscurata della relazione
descrittiva indicava solo «per suggestioni» la modalità di
gestione del cantiere poiché in più punti si riferiva sia al
cronoprogramma sia alla «tabella delle maestranze e della
manodopera».
Quindi a parti non valutabili, poiché oltre la
soglia che il disciplinare aveva fissato per valutare
l’offerta su criteri esecutivi oltre che qualitativi (articolo Il Sole 24 Ore del 02.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pubblicità
all'incrocio con cautela. Parere cds.
Niente pubblicità ingombrante nelle rotatorie stradali. Ma
se gli impianti non interferiscono con il traffico e sono
stati autorizzati poi è difficile rimuoverli.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere
13.01.2017 n. 60.
Una società autorizzata all'esercizio di due impianti
pubblicitari posizionati in prossimità di una rotatoria
stradale è divenuta destinataria di un provvedimento di
revoca della licenza con un'ordinanza comunale di
autotutela.
Contro questa misura sfavorevole l'interessato ha proposto
con successo ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica. L'ordinanza di revoca della licenza è tardiva e
poco motivata, specifica il collegio.
Trattandosi di due impianti regolarmente autorizzati,
infatti, nell'istruttoria comunale non risultano adeguate
verifiche su tutti gli interessi in gioco. Anzi per uno dei
due pannelli la polizia locale sottoscrive la piena
compatibilità dell'impianto con le esigenze della
circolazione
(articolo ItaliaOggi del 07.02.2017).
---------------
MASSIMA
Nel merito, il ricorso è fondato nei profili e nei
limiti che seguono.
Con il primo capo della prima censura si lamenta che
l’istanza di nulla-osta all’apposizione dei cartelli
inoltrata al Comune doveva essere ritenuta comprensiva anche
del profilo paesaggistico. Per cui una volta rilasciata,
previo nulla-osta provinciale, l’autorizzazione del Comune,
questa era stata ritenuta perfettamente legittima.
L’intervento del regime semplificato avrebbe dovuto
comportare l’obbligo dello stesso Comune di istruire e di
valutare anche il profilo relativo alla autorizzabilità dei
cartelli pubblicitari sotto il profilo paesaggistico ai
sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/1994 e del regime
semplificato d.p.r. n. 139/2010.
Con il secondo motivo di gravame la parte ricorrente
lamenta, in estrema sintesi, la violazione dei principi in
materia di autotutela per il superamento dei 18 mesi ivi
previsti e l’erroneità della motivazione e dei presupposti
dell’ordinanza di revoca del nulla osta all’istallazione dei
due cartelli pubblicitari lungo la strada provinciale che
non avrebbe tenuto conto del fatto che i cartelli non solo
erano stati legittimamente autorizzati nel 2011, ma erano
stati poi prorogati nel 2013.
Con il terzo motivo di gravame si lamenta poi il
difetto di motivazione, di istruttoria, e di presupposti
dato che, dal verbale di sopralluogo, non risultavano né
violazioni paesaggistiche e né pericoli alla circolazione,
al contrario sottolineati dal verbale della Polizia
Municipale del 03.02.2016.
Tutti i predetti profili possono essere congiuntamente
condivisi nei limiti che seguono.
1.§. E’ rilevante che successivamente all’ottenimento del
nulla osta della Provincia di Caserta e nelle more
dell’emissione del provvedimento di nulla osta del comune,
fosse entrato in vigore il d.p.r. n. 139 del 09.07.2010
perché il n. 15. dell’all. 1) di cui all’art. 1 del cit.
d.p.r. n. 139 include tra gli interventi di lieve entità
sottoposti al regime semplificato, la “posa in opera di
cartelli e altri mezzi pubblicitari non temporanei di cui
all'art. 153, comma 1 del Codice, di dimensioni inferiori a
18 mq, ivi comprese le insegne per le attività commerciali o
pubblici esercizi”.
L’art. 4 d.p.r. n. 139 del 2010 impone l'obbligo
dell'Amministrazione Comunale di concludere il procedimento
con un provvedimento espresso, completando tutte le fasi del
procedimento, così come del resto stabilito dall'art. 2, l.
n. 241 del 1990
(richiamato espressamente dal comma 9 dell'art. 4 cit.). Nel
caso di specie, ai sensi dell’art. 3 del predetto d.p.r. n.
139, è rilevante che, non essendo intervenuto entro trenta
giorni dalla domanda il provvedimento negativo di
conclusione anticipata del procedimento di cui all'articolo
4, comma 2, l’espressa autorizzazione del Comune del
11.05.2011 ben ricomprendesse anche il profilo
paesaggistico.
2.§. Essendo ancora pendente l’iter in esame alla data di
entrata in vigore del regime semplificato, sussisteva
infatti l'obbligo dell'Amministrazione di concludere
tempestivamente il procedimento con un espresso
provvedimento paesaggistico.
Proprio in relazione alla specialità della disciplina che
governa le fattispecie in esame,
è onere dell’amministrazione richiedere il parere della
competente soprintendenza al fine di acquisire il giudizio
sulla compatibilità paesaggistica dell’istallazione
(in tal senso si è già espressa anche la giurisprudenza:
cfr. TAR Roma, Lazio, sez. II, 11/11/2015, n. 12760).
3.§. Sotto altra angolazione, si osserva che
la determinazione di annullamento in sede di autotutela
dell’autorizzazione per la rimozione dei due cartelli
pubblicitari di 1,80x1,40 apposti da quasi un lustro lungo
una cancellata, presupponeva comunque l’adozione di un atto
di autotutela ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge
n. 241/1990.
Anche sotto il profilo della ragionevolezza l’ordinanza di
revoca avrebbe dunque dovuto dare specifico atto non solo
delle ragioni di interesse pubblico, ma anche in relazione
al superamento del termine dei diciotto mesi dal momento
della prima adozione, avrebbe dovuto motivare tenendo
specificamente conto anche degli interessi secondari del
privato.
Il provvedimento al contrario è del tutto immotivato sul
punto.
4.§. Con riguardo poi al secondo presupposto dell’ordinanza
relativo alla sicurezza della circolazione stradale, si
osserva che non vi sono dubbi sulla legittimità
dell’ordinanza impugnata nella parte in cui impone la
rimozione dell’insegna posta sulla sinistra dell’esercizio
commerciale lungo la via Caduti del Lavoro. Infatti, come
emerge dal verbale di sopralluogo della Polizia Municipale
del 14.03.2016 n. 274 tale insegna “… occupava
parzialmente la visuale, con possibile pericolo per i
veicoli che si immettono sulla sede stradale di via
Caduti...” (cfr. all. n. 4 al fascicolo introduttivo).
Al contrario invece appare rilevante sul punto la differente
conclusione del Comando di Polizia Municipale dopo il
secondo sopralluogo, avvalorata anche dall’evidenza delle 22
fotografie allegate al medesimo, per cui essendo stata
ridotta la siepe ornamentale che limitava la visibilità,
l’insegna posta sulla destra “non impedisce la visuale a
coloro che si immettono sulla sede stradale di cui sopra”.
5.§. In conclusione, appare evidente che
il provvedimento di rimozione sia illegittimo sia nella
parte in cui procede senza un’appropriata motivazione
all’annullamento in autotutela di un provvedimento in
violazione dell’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990 e
sia con riferimento alla sola insegna posta sulla destra
dell’esercizio commerciale lungo la via Caduti del Lavoro
essendo risultato insussistente il pericolo alla
circolazione dei veicoli, fatti in ogni caso salvi gli
ulteriori provvedimenti concernenti la necessità di
valutazione del profilo paesaggistico della ulteriore
permanenza del medesimo cartello.
Il ricorso per l’assorbente rilievo dei seguenti capi di
doglianza, è dunque fondato nei limiti che seguono.
La domanda di sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato
resta in conseguenza assorbita.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba essere accolto in
parte nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, fatti
salvi gli ulteriori provvedimenti. |
APPALTI: Appalti,
si diradano nubi sul rito superspeciale.
Si diradano le nubi sul rito superspeciale per gli appalti
ex articolo 120, comma 2-bis, Cpa introdotto dal nuovo
codice dei contratti pubblici. Può capitare che l'atto di
ammissione di un'azienda alla procedura non sia pubblicato
sul profilo committente della stazione appaltante, come
invece prevede l'articolo 29, comma 1, del decreto
legislativo 50/2016: in tal caso il termine decadenziale di
trenta giorni decorre da quando l'impresa concorrente riceve
il messaggio di posta elettronica certificata con il
provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara.
È quanto emerge dalla
sentenza
13.01.2017 n. 24,
pubblicata dal TAR Basilicata.
Ammissibile il ricorso dell'azienda. Nessun dubbio che al
caso si applichi il nuovo codice appalti, entrato in vigore
il 18.04.2016: il bando per la procedura aperta è stato
pubblicato il successivo 28 giugno. È vero, l'articolo 29
del decreto legislativo 50/2016 precisa che «l'omessa
impugnazione preclude la facoltà di far valere
l'illegittimità derivata dei successivi atti del
procedimento di affidamento».
Ma nella specie non c'è
traccia dell'atto di ammissione del vincitore sul profilo
committente della Provincia appaltante: il termine decadenziale decorre dunque solo dal 13 ottobre, data in cui
l'impresa ha ricevuto la Pec che comunica l'aggiudicazione
dell'appalto concludendo la procedura.
E quindi risulta
ricevibile il ricorso inviato per posta il 29 ottobre, a
meno di un meno di un mese dal messaggio e-mail: fa fede la
data di spedizione
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Immobili abusivi - Atto di vendita - Nullità e
divieto di stipula degli atti di disposizione -
Responsabilità - Estremi del permesso di costruire o del
permesso in sanatoria - Assenza di dichiarazione
dell'alienante - Tutela dell'acquirente del bene -
Fattispecie - Artt. 28 Legge notarile e 46 d.P.R. 380/2001.
L'art. 46 d.P.R. 380/2001 si riferisce ad edifici ed a loro
parti e prevede la nullità ed il divieto di stipula degli
atti di disposizione che li riguardano in assenza di
dichiarazione dell'alienante indicante gli estremi del
permesso di costruire o del permesso in sanatoria.
Il comma 5-bis estende poi l'applicabilità delle precedenti
disposizioni agli interventi edilizi realizzati mediante
denuncia di inizio attività ai sensi dell'articolo 22, comma
3, qualora nell'atto non siano indicati gli estremi della
stessa. La disposizione ha tuttavia uno scopo evidente, che
è quello di impedire la circolazione degli immobili abusivi,
ponendo un ulteriore ostacolo al fenomeno dell'abusivismo
edilizio, tutelando così l'interesse pubblico all'ordinata
trasformazione del territorio, oltre che l'acquirente del
bene.
Se questo, dunque, è il senso della norma, è chiaro che
l'ambito di efficacia della stessa deve ritenersi
comprensivo anche di quegli interventi successivi alla
realizzazione dell'immobile che ne abbiano determinato la
trasformazione in maniera significativa e, segnatamente,
quelli che, per la loro esecuzione, richiedano un titolo
abilitativo specifico quale, nel caso in esame, il permesso
di costruire.
Fattispecie: interventi ad oggetto:
1) il cambio di
destinazione di una loggia (con originario uso agricolo)
mediante chiusura, realizzazione di impianti di
riscaldamento e impianto elettrico, nonché dotazione di
finiture (pavimento) ed infissi, tali da farne parte
integrante dell'abitazione e, quindi, con ampliamento di
superficie utile e volumetrico;
2) cambio di destinazione di
un locale accessorio destinato a magazzino a parte
integrante dell'abitazione e conseguente ampliamento di
superficie utile e volumetrico;
3) Falsa attestazione da
parte del tecnico, la conformità agli strumenti urbanistici
e la sanabilità degli interventi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.01.2017 n. 1165
- link a www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Sgravi
Ici alle società agricole. Le agevolazioni sono riconosciute
anche prima del 2012. Una pronuncia
della Cassazione che inverte rotta rispetto alle precedenti
interpretazioni.
Le agevolazioni Ici vanno riconosciute agli imprenditori
agricoli che esercitano l'attività in forma societaria anche
prima del 2012. I benefici fiscali, dunque, si applicano
anche alle società agricole e non solo alle persone fisiche
che hanno la qualifica di coltivatori diretti o imprenditori
agricoli. Quindi, se il terreno è posseduto e condotto da
una società agricola non può essere assoggettato a
imposizione come area edificabile, nonostante l'immobile
abbia questa qualificazione in base al piano regolatore
comunale.
È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione - Sez. VI
civile, con l'ordinanza
10.01.2017 n. 375.
I giudici di legittimità hanno rivisto le precedenti
interpretazioni, prendendo posizione in maniera più chiara e
netta, fissando i paletti anche a livello temporale sul
riconoscimento delle agevolazioni Ici per le società
agricole.
Per la Cassazione, il giudice d'appello avrebbe
dovuto valutare solo la sussistenza del requisito
soggettivo, «non essendo a ciò di per sé ostativo lo
svolgimento dell'attività agricola da parte di imprenditore
agricolo professionale nella forma di società di persone
purché sussistano i succitati requisiti di cui all'art. 1
del dlgs n. 99/2004 e successive modifiche».
Per le
annualità in contestazione, infatti, «erano già entrate in
vigore le disposizioni di cui al dlgs n. 228/2001 e del dlgs
n. 99/2004, che hanno profondamente inciso sulla stessa
configurazione del requisito soggettivo per la fruizione
dell'agevolazione».
Le regole. Bisogna ricordare che il terreno sul quale
venivano esercitate le attività agricole non era soggetto
all'Ici come area edificabile, anche se il bene era
qualificato come tale dal piano regolatore comunale.
Tuttavia, gli articoli 2 e 9 del decreto legislativo
504/1992 escludevano il beneficio della finzione giuridica
di non edificabilità dei terreni per le società agricole in
qualsiasi forma costituite. Il citato articolo 2,
applicabile anche all'Imu, dispone che sono considerati non
fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai coltivatori
diretti o da imprenditori agricoli sui quali persiste
l'utilizzazione agro-silvo-pastorale.
L'articolo 58 del
decreto legislativo 446/1997 prevedeva però che, per quanto
concerne le agevolazioni Ici sui terreni agricoli, si
considerassero coltivatori diretti o imprenditori agricoli a
titolo principale solo le «persone fisiche» iscritte negli
appositi elenchi comunali previsti dall'articolo 11 della
legge 9/1963 e soggette al corrispondente obbligo
dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia.
Dunque, la presa di posizione della Cassazione non può
essere condivisa, tenuto conto della formulazione letterale
della norma di legge.
In realtà, l'articolo 58 del decreto
legislativo 446/1997 era una norma speciale e imponeva che
«ai fini Ici» il terreno fosse posseduto e condotto
dall'agricoltore persona fisica. Non a caso gli stessi
giudici di legittimità, con l'ordinanza 14734/2014, hanno
stabilito che le agevolazioni previste dall'articolo 9 del
decreto legislativo 504/1992 «si applicano unicamente agli
imprenditori agricoli individuali e non anche alle società
cooperative a responsabilità limitata che svolgono attività
agricola, non rientrando queste ultime nella definizione di
imprenditore agricolo a titolo principale».
Hanno, inoltre, precisato che «la limitazione agli
imprenditori agricoli individuali è stata successivamente
ribadita ed, anzi, ulteriormente ristretta dall'art. 58,
comma 2, del dlgs 15.12.1997, n. 446 mediante la
previsione della necessaria iscrizione delle persone fisiche
negli appositi elenchi comunali».
In questo senso si era già espressa la Cassazione con le
sentenze 14145/2009, 5931/2010, 9770/2010.
Va infine precisato che le agevolazioni Ici e Imu spettano
al coltivatore diretto o all'imprenditore agricolo solo nel
caso in cui possieda, di diritto, il terreno.
Le norme suindicate richiedono il possesso del bene da parte
del titolare, nella sua qualità di soggetto passivo, oltre
che la conduzione del terreno da parte dello stesso.
Se la conduzione del terreno è effettuata sulla base di un
contratto di affitto o di comodato da parte di un soggetto
diverso dal proprietario non si ha diritto ai benefici
fiscali. In questi casi l'agricoltore che non sia possessore
di diritto dei terreni non è soggetto al pagamento delle
imposte locali e, per l'effetto, non ha bisogno di fruire
delle agevolazioni.
Le stesse regole valgono per la Tasi sulle aree edificabili
possedute e condotte da coltivatori diretti e imprenditori
agricoli. Gli agricoltori non pagano l'imposta sui servizi
indivisibili sulle aree edificabili se utilizzate per
l'esercizio delle attività agricole.
---------------
I terreni esenti dal 2016.
Se esistono i presupposti per la finzione giuridica di non
edificabilità, le aree relative oggi non possono essere
assoggettate a imposizione neppure come terreni agricoli.
Dal 2016, infatti, non sono tenuti al pagamento dell'imposta
i titolari di terreni montani o di collina ubicati nei
comuni elencati nella circolare del Ministero dell'economia
e delle finanze 9/1993. Inoltre, sono esonerati i terreni
agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti e
imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla
loro ubicazione, quelli ubicati nelle isole minori, nonché
quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a
proprietà collettiva indivisibile.
Il legislatore, come è già avvenuto in passato, per
individuare i comuni montani o di collina rinvia alla
circolare ministeriale 9/1993. Quindi, non fa più fede
l'elenco predisposto dall'istituto nazionale di statistica
(Istat), al quale le amministrazioni locali hanno dovuto
fare riferimento per il 2015. Nell'elenco allegato alla
citata circolare, redatto utilizzando i dati forniti dal
Ministero dell'agricoltura e delle foreste, sono indicati i
comuni, suddivisi per provincia di appartenenza, sul cui
territorio i terreni agricoli saranno esenti dall'imposta
municipale, come previsto dall'articolo 7, comma 1, lettera
h), del decreto legislativo 504/1992.
Se a fianco
dell'indicazione del comune non è riportata alcuna
annotazione, vuol dire che l'esenzione opera sull'intero
territorio. Qualora, invece, sia riportata l'annotazione
parzialmente delimitato «PD», l'agevolazione sarà
circoscritta a una parte del territorio. Questo comporta che
negli enti montani e di collina non sono più richiesti
requisiti soggettivi in capo ai possessori dei terreni, ma
conta solo la loro inclusione nella circolare ministeriale.
Gli altri terreni, indipendentemente dalla loro ubicazione,
possono invece fruire del trattamento agevolato solo se
posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori
agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola.
Sono poi esonerati dal prelievo i terreni ubicati nei comuni
delle isole minori di cui all'allegato A della legge 448/2001 e quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale
a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Fino al 2015 erano esonerati dal pagamento coloro che erano
titolari di terreni ubicati in comuni montani, sia agricoli
che incolti, e parzialmente montani.
Per questi ultimi l'esonero dal pagamento dell'Imu spettava
solo qualora i terreni fossero posseduti da coltivatori
diretti e imprenditori agricoli. I comuni parzialmente
montani erano indicati in un elenco predisposto
dall'Istituto nazionale di statistica (Istat). Pertanto, non
tutti gli agricoltori potevano fruire dell'esenzione sui
terreni (articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017). |
APPALTI: P.a.,
il Rup ha poteri limitati. Il responsabile del procedimento
non adotta atti finali. Il Consiglio
di stato chiarisce in un parere una questione che si
trascina da anni.
Il responsabile del procedimento ha esclusivamente poteri
istruttori e non può adottare provvedimenti finali.
Il Consiglio di
Stato, col
parere 10.01.2017 n. 22, in
merito al regolamento sulla definizione dei contenuti della
progettazione in materia di lavori pubblici nei tre livelli
progettuali (Schema di decreto, su proposta del Consiglio
superiore dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e del
Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo
recante “definizione dei contenuti della progettazione in
materia di lavori pubblici nei tre livelli progettuali”), previsto dall'articolo 23, comma 3, del dlgs
50/2016, chiarisce in modo tranciante e ultimativo una
questione che si trascina da anni, rispondendo negativamente
al quesito se il responsabile del procedimento disponga
della competenza ad adottare i provvedimenti «negoziali»,
che costituiscono, modificano o estinguono situazioni
giuridiche.
La Commissione speciale di palazzo Spada col proprio parere
parte dall'analisi delle norme contenute nella bozza di
regolamento ministeriale, per enunciare, poi, principi di
carattere generale, che illustrano i confini delle
competenze dei responsabili del procedimento.
In particolare, il parere stigmatizza la circostanza che il
decreto analizzato in molte parti affida direttamente al
responsabile del procedimento il potere di disporre una
variazione del contenuto progettuale, individuando gli
elaborati o le relazioni tecniche che devono comporre il
progetto.
Tali previsioni, spiega il Consiglio di stato, si pongono in
contrasto con l'articolo 23, comma 4, del dlgs 50/2016, ai
sensi del quale è la stazione appaltante dotata del potere
di indicare le caratteristiche, i requisiti e gli elaborati
progettuali necessari per la definizione di ogni fase della
progettazione.
Per «stazione appaltante» si deve intendere l'organo
competente per legge ad adottare i provvedimenti
amministrativi finali, che nel caso di specie va
identificato nel dirigente o responsabile di servizio.
Per altro, osserva Palazzo Spada, è lo stesso regolamento
ministeriale oggetto del parere che all'articolo 4 ribadisce
la prescrizione dell'articolo 23, comma 4, del codice,
assegnando al responsabile del procedimento la sola cura
dell'istruttoria, mentre all'amministrazione la competenza
all'adozione del provvedimento finale.
Ancor più chiaro è il passaggio nel quale il Consiglio di
stato afferma con estrema chiarezza che «assegnare poteri
finali e il correlato obbligo di motivazione non è coerente
con il ruolo che il responsabile del procedimento assume nel
sistema amministrativo, in base alla legge 241 del 1990».
Rilievo che, come detto sopra, estende gli effetti
dell'analisi di palazzo Spada a tutte le materie
amministrative e non solo a quella degli appalti.
Con specifico riferimento, comunque, alla materia dei
contratti pubblici, il Consiglio di stato sottolinea che non
può portare a una conclusione diversa da quella dell'assenza
di poteri finali al Rup l'articolo 31 del codice, ai sensi
del quale «il Rup, ai sensi della legge 07.08.1990, n.
241, svolge tutti i compiti relativi alle procedure di
programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione
previste dal presente codice, che non siano specificatamente
attribuiti ad altri organi o soggetti».
Tale disposizione, spiega Palazzo Spada, deve essere
interpretata alla luce della legge 241/1990, cui si fa
espresso rinvio, ma, soprattutto, esclude che il Rup possa
assorbire competenze attribuite ad altri organi. Nella
specie, come visto, il Codice attribuisce
all'amministrazione il potere in questione.
Il Consiglio di stato specifica, quindi, che la funzione del
responsabile del procedimento è solo istruttoria,
finalizzata a raccogliere gli elementi di valutazione, per
sintetizzarli nelle «risultanze» dell'istruttoria stessa,
previste dall'articolo 6, comma 1, lettera e), della legge
241/1990 come base per l'adozione del provvedimento finale
da parte del soggetto competente; il quale potrà discostarsi
da tali risultanze -che vanno formalizzate in relazioni o
schede sottoscritte dal responsabile del procedimento ad
accompagnamento della proposta di provvedimento- solo
esprimendo una specifica motivazione che espliciti le
ragioni della visione contraria a quella esposta dalle
risultanze istruttorie
(articolo ItaliaOggi del 03.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Questo
Consiglio di Stato ha ribadito alcuni principi in tema di
pianificazione urbanistica di attuazione ed in tema di
competenza degli organi in relazione alla adozione degli
atti ad essa riconducibili, dai quali il Collegio non ha
ragione di discostarsi.
Si è, in particolare, affermato:
- “il piano di lottizzazione (o altro strumento di pianificazione
attuativa) e lo schema di convenzione ad esso allegato
costituiscono atti distinti ma giuridicamente connessi, la
cui approvazione non può che avvenire contestualmente da
parte dell’unico organo al quale, nell’ambito dell’ente
locale, è attribuito l’indirizzo politico-amministrativo in
relazione alla pianificazione del territorio, e cioè da
parte del Consiglio comunale”;
- “mentre piano urbanistico attuativo e schema di convenzione
formano oggetto di un unico atto di approvazione (di
competenza del Consiglio comunale), la convenzione
propriamente detta (cioè il contratto ad oggetto pubblico
successivamente stipulato) costituisce certamente .... un
atto negoziale autonomo (nel senso di essere giuridicamente
distinto dal provvedimento–atto unilaterale di
approvazione), la cui sottoscrizione deve essere effettuata
dal dirigente del Comune, ex art. 107, co. 3, lett. c) T.U.
enti locali”, il quale, se non ha “un potere di modifica e/o
integrazione delle clausole, che inciderebbe sul contenuto
stesso della potestà pianificatoria precedentemente
esercitata dal Consiglio comunale”, tuttavia “laddove
ritenga che le clausole contrattuali in sé considerate,
ovvero lo stesso piano urbanistico attuativo contrastino con
disposizioni di legge, ben può rimettere le sue osservazioni
all’organo competente, onde sollecitarne una ulteriore
valutazione ed, eventualmente, l’esercizio del potere di
annullamento in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l.
n. 241/1990”;
- “qualora tra approvazione del piano attuativo/schema di
convenzione e momento di stipulazione della stessa, vengano
meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata
fondata, l’amministrazione, la quale ben può verificare la
persistenza di detti presupposti fino al momento della
stipula, non può ritenersi obbligata alla stipulazione della
convenzione, ma valuterà la sussistenza di ragioni di revoca
dell’approvazione, ai sensi dell’art. 21-quinquies l. n.
241/1990”, ovvero di annullamento del piano già approvato,
in esercizio del potere di autotutela.
---------------
Alla luce dei principi giurisprudenziali ora riaffermati,
appare evidente che la competenza alla stipulazione della
convenzione inerente uno strumento urbanistico attuativo è
del dirigente; che questi ben può verificare la legittimità
di quanto dalla stessa previsto e che, in ogni caso,
l’amministrazione non è tenuta alla stipula della
convenzione (pur avendone in precedenza approvato lo
schema), laddove non sussistano i dovuti presupposti di
legittimità ovvero, nelle more, siano venuti meno
presupposti o condizioni che avevano determinato
l’approvazione del piano e/o del predetto schema di
convenzione.
---------------
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con
conseguente riforma della sentenza impugnata.
Questo Consiglio di Stato ha, anche di recente, ribadito
alcuni principi in tema di pianificazione urbanistica di
attuazione ed in tema di competenza degli organi in
relazione alla adozione degli atti ad essa riconducibili,
dai quali il Collegio non ha ragione di discostarsi.
Si è, in particolare, affermato:
- “il piano di lottizzazione (o altro strumento di
pianificazione attuativa) e lo schema di convenzione ad esso
allegato costituiscono atti distinti ma giuridicamente
connessi, la cui approvazione non può che avvenire
contestualmente da parte dell’unico organo al quale,
nell’ambito dell’ente locale, è attribuito l’indirizzo
politico-amministrativo in relazione alla pianificazione del
territorio, e cioè da parte del Consiglio comunale” (Cons.
Stato, sez. IV, 29.09.2016 n. 4027);
- “mentre piano urbanistico attuativo e schema di
convenzione formano oggetto di un unico atto di approvazione
(di competenza del Consiglio comunale), la convenzione
propriamente detta (cioè il contratto ad oggetto pubblico
successivamente stipulato) costituisce certamente .... un
atto negoziale autonomo (nel senso di essere giuridicamente
distinto dal provvedimento–atto unilaterale di
approvazione), la cui sottoscrizione deve essere effettuata
dal dirigente del Comune, ex art. 107, co. 3, lett. c) T.U.
enti locali”, il quale, se non ha “un potere di modifica e/o
integrazione delle clausole, che inciderebbe sul contenuto
stesso della potestà pianificatoria precedentemente
esercitata dal Consiglio comunale”, tuttavia “laddove
ritenga che le clausole contrattuali in sé considerate,
ovvero lo stesso piano urbanistico attuativo contrastino con
disposizioni di legge, ben può rimettere le sue osservazioni
all’organo competente, onde sollecitarne una ulteriore
valutazione ed, eventualmente, l’esercizio del potere di
annullamento in autotutela, ai sensi dell’art. 21-nonies l.
n. 241/1990” (sent. n. 4027/2016 cit.);
- “qualora tra approvazione del piano attuativo/schema di
convenzione e momento di stipulazione della stessa, vengano
meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata
fondata, l’amministrazione, la quale ben può verificare la
persistenza di detti presupposti fino al momento della
stipula (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2016 n. 3334), non
può ritenersi obbligata alla stipulazione della convenzione,
ma valuterà la sussistenza di ragioni di revoca
dell’approvazione, ai sensi dell’art. 21-quinquies l. n.
241/1990”, ovvero di annullamento del piano già approvato,
in esercizio del potere di autotutela (v. sent. n. 4027/2016
cit.).
Alla luce dei principi giurisprudenziali ora riaffermati,
appare evidente che la competenza alla stipulazione della
convenzione inerente uno strumento urbanistico attuativo è
del dirigente; che questi ben può verificare la legittimità
di quanto dalla stessa previsto e che, in ogni caso,
l’amministrazione non è tenuta alla stipula della
convenzione (pur avendone in precedenza approvato lo
schema), laddove non sussistano i dovuti presupposti di
legittimità ovvero, nelle more, siano venuti meno
presupposti o condizioni che avevano determinato
l’approvazione del piano e/o del predetto schema di
convenzione.
Ciò comporta, con riferimento al caso di specie, che il
dirigente “competente” alla stipulazione (e non solo
meramente “delegato” alla stessa), nutrendo perplessità
sulla legittimità complessiva della operazione urbanistico-edilizia, ben poteva svolgere una propria
verifica tecnico-amministrativo in ordine all’oggetto del
piano e dello schema di convenzione, anche con riferimento
alle autorizzazioni ed ai titoli edilizi successivamente da
emanarsi
E ciò a maggior ragione nel caso di specie, posto che la
delibera n. 73/2010 del Consiglio comunale di Tarquinia, nel
“delegare” al dirigente la stipula della convenzione,
subordinava (né avrebbe potuto essere altrimenti) il
rilascio del permesso di costruire ad essa inerente alla
acquisizione di tutte le autorizzazioni.
Alla luce di quanto sinora esposto, e contrariamente a
quanto sostenuto dall’appellata (v. pagg. 3-4 memoria di
costituzione), il fondamento della facoltà di verifica della
sussistenza delle condizioni di legittimità di quanto
oggetto della stipulanda convenzione non è da rinvenirsi
nella “delega” eventualmente in tal senso effettuata dal
Consiglio comunale al dirigente, bensì nelle attribuzioni
proprie del dirigente che, qualora rinvenga motivi ostativi
(come è emerso nel caso di specie), non solo non è tenuto
alla stipulazione, ma deve rimettere le proprie
considerazioni al competente Consiglio comunale.
Pertanto, ed in accoglimento del primo motivo di appello
(sub a) dell’esposizione in fatto), appare del tutto
legittimo l’impugnato provvedimento adottato dal dirigente
dell’area tecnica del Comune di Tuscania.
Ed è appena il caso di osservare (e ciò a prescindere da
ogni valutazione sugli atti emanandi, estranea al presente
giudizio), che, come risulta dalla documentazione depositata
in data 03.09.2016, proprio in esito alla verifica
tecnico-amministrativa, il Comune di Tuscania ha adottato
comunicazione di avvio del procedimento di
revoca/annullamento in autotutela della delibera del
Consiglio comunale n. 73/2010 e di ulteriori titoli edilizi
in precedenza adottati.
3. La riscontrata legittimità dell’atto impugnato con il
ricorso instaurativo del giudizio di I grado già sorregge,
di per sé, l’accoglimento del secondo motivo di appello (sub
lett. b) dell’esposizione in fatto), con il quale si
contesta la disposta condanna del Comune di Tuscania al
risarcimento del danno; e determina altresì l’assorbimento
del terzo motivo (sub lett. c), relativo alla condanna alle
spese del giudizio di I grado, stante la nuova regolazione
conseguente all’accoglimento dell’impugnazione.
Pertanto, l’appello deve essere accolto, e per l’effetto, in
riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettato il
ricorso instaurativo del giudizio di I grado
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.01.2017 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Le
delibere Tari devono essere dettagliate.
Il piano finanziario Tari deve contenere tutte le
indicazioni previste dalla legge, altrimenti rende
illegittima la delibera che fissa le tariffe. Il piano
finanziario non può tradursi in una tabella riassuntiva dei
costi del servizio, distinti in fissi e variabili. E non è
sufficiente che gli elementi richiesti dalla legge siano
indicati in una relazione allegata alla delibera comunale.
E' quanto affermato dal TAR Lazio-Latina con la
sentenza
04.01.2017 n. 1.
Per i giudici, il piano approvato
dall'amministrazione comunale «non è un documento di tipo pianificatorio
ma una semplice tabella riassuntiva dei costi del servizio,
distinti in costi fissi e costi variabili, e con finale
indicazione della incidenza percentuale di questi ultimi sul
costo complessivo».
Mancano, infatti, nella tabella gli
elementi richiesti dall'articolo 8 del dpr. 158/1999 per il
piano e la relazione. E non sono state rispettate le regole
stabilite dal regolamento sul metodo normalizzato. Ancorché
possano essere sintetici gli atti suddetti, devono tuttavia
contenere i requisiti essenziali. Dunque, secondo il Tar, il
comune non può invocare la circostanza che essi sono
rinvenibili in una relazione che «non fa parte del piano
approvato e costituisce quindi un semplice atto
istruttorio».
Il fatto che «nelle premesse della delibera
venga richiamata la relazione del 04.08.2014 non rileva
ai fini del rispetto delle prescrizioni dell'articolo 8». In
particolare, il citato articolo 8 prescrive che il piano
finanziario deve comprendere il programma degli interventi
necessari; il piano finanziario degli investimenti e la
specifica dei beni, delle strutture e dei servizi
disponibili.
Inoltre, occorre specificare se si fa ricorso
all'utilizzo di beni e strutture di terzi o si affida il
servizio a terzi. Vanno fornite informazioni sul grado di
«copertura dei costi afferenti alla tariffa rispetto alla
preesistente tassa sui rifiuti». Al piano va allegata una
relazione dalla quale deve emergere il modello gestionale ed
organizzativo, i livelli di qualità del servizio ai quali
deve essere commisurata la tariffa e l'elencazione degli
impianti esistenti per l'anno precedente. Infine, devono
essere posti in evidenza gli eventuali scostamenti e le
motivazioni
(articolo ItaliaOggi del 10.02.2017).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Il citato articolo 8 D.P.R. n. 158 del 1999, infatti,
prescrive al comma 2 che il piano finanziario debba
comprendere “a) il programma degli interventi necessari; b)
il piano finanziario degli investimenti; c) la specifica dei
beni, delle strutture e dei servizi disponibili, nonché il
ricorso eventuale all'utilizzo di beni e strutture di terzi,
o all'affidamento di servizi a terzi; d) le risorse
finanziarie necessarie; e) relativamente alla fase
transitoria, il grado attuale di copertura dei costi
afferenti alla tariffa rispetto alla preesistente tassa sui
rifiuti”; il comma 3 aggiunge che al piano debba essere
allegata una relazione “nella quale sono indicati: a) il
modello gestionale ed organizzativo; b) i livelli di qualità
del servizio ai quali deve essere commisurata la tariffa; c)
la ricognizione degli impianti esistenti; d) con riferimento
al piano dell'anno precedente, l'indicazione degli
scostamenti che si siano eventualmente verificati e le
relative motivazioni”.
I ricorrenti denunciano che il piano non contiene le
indicazioni prescritte al comma 2 e che manca del tutto la
relazione richiesta dal comma 3.
Il comune replica sostenendo che il piano approvato contiene
in realtà tutti i dati che sono prescritti dalla legge (sia
pure in forma sintetica) e che la relazione non
costituirebbe un elemento necessario ai fini della validità
della delibera di approvazione del piano; in punto di fatto
il comune ha inoltre evidenziato che le informazioni di cui
i ricorrenti lamentano l’assenza sono in realtà contenute in
una relazione datata 04.08.2014 elaborata dal
dipartimento II ambiente la quale “seppur non adottata con
la deliberazione consiliare, viene in essa richiamata”.
Le argomentazioni dei ricorrenti sono fondate.
Se si esamina il piano approvato è agevole rendersi conto
che esso non è un documento di tipo pianificatorio ma una
semplice tabella riassuntiva dei costi del servizio,
distinti in costi fissi e costi variabili, e con finale
indicazione della incidenza percentuale di questi ultimi sul
costo complessivo.
Nella tabella non v’è traccia di alcuno dei contenuti che
l’articolo 8 citato richiede per il piano e la relazione;
non è in discussione quindi il problema della necessità o
meno che vi sia una relazione, nel senso che si può
senz’altro ammettere che la relazione formalmente manchi
qualora i suoi contenuti siano rinvenibili nel piano;
il
problema reale è che per quanto il piano e/o la relazione
possano essere sintetici essi devono contenere le
informazioni che in base all’articolo 8 devono essere
rinvenibili nel combinato del piano e della relazione
approvati; nella fattispecie questi contenuti mancano e il
comune non può invocare la circostanza che essi sono
rinvenibili nella relazione del 04.08.2014 richiamata
nelle premesse della delibera n. 56; tale relazione,
infatti, non fa parte del piano approvato –come del resto
si ammette in memoria– e costituisce quindi un semplice
atto istruttorio; la circostanza, quindi, che nelle premesse
della delibera venga richiamata la relazione del 04.08.2014 non rileva ai fini del rispetto delle prescrizioni
dell’articolo 8, perché nella fattispecie non viene in
rilievo un problema di sufficienza di istruttoria o
motivazione (peraltro, trattandosi di un atto di
pianificazione la motivazione non è necessaria) ma di
corrispondenza al modello legale del piano approvato.
In altri termini la legge prescrive che il consiglio
comunale approvi un piano con allegata relazione che deve
obbligatoriamente avere i contenuti minimi indicati
nell’articolo 8; questi contenuti devono costituire
l’immediato oggetto delle delibera (in modo che su questi
contenuti possa svolgersi il dibattito consiliare), sicché
l’approvazione di una tabella riassuntiva dei costi fissi e
variabili del servizio non può essere considerata
equipollente all’approvazione di un piano (che di fatto non
risulta essere stato sottoposto all’approvazione del
consiglio comunale).
Ciò comporta, con assorbimento di ogni altra censura,
l’annullamento della delibera n. 56 del 2014 e, per
illegittimità derivata, della delibera n. 57. |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazioni disposizioni antisismiche - Deposito
"in sanatoria" degli elaborati progettuali - Soluzioni
realizzative diverse - Sanatoria delle varianti -
Responsabilità - Artt. 45, 52, 83, 93, 94 e 95 d.P.R.
n.380/2001.
Il deposito "in sanatoria" degli elaborati
progettuali non estingue la contravvenzione antisismica, che
punisce l'omesso deposito preventivo di detti elaborati in
quanto l'effetto estintivo è limitato dall'art. 45 d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380 alle sole contravvenzioni urbanistiche
(Cass. Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino).
Violazioni edilizie e norme tecniche -
Responsabilità del proprietario, del committente, del
titolare della concessione edilizia dell'esecutore delle
opere e di qualsiasi altro soggetto che abbia la
disponibilità dell'immobile o dell'area - Chiunque violi o
concorra a violare a disciplina in materia - Costruzioni in
zone sismiche - Responsabilità del direttore dei lavori -
Assenza del previo deposito del progetto presso il Genio
Civile - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare
gli obblighi imposti e, quindi, dal proprietario, dal
committente, dal titolare della concessione edilizia e da
qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità
dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da
coloro, come il direttore e l'assuntore dei lavori, che
abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato la
costruzione senza il doveroso controllo del rispetto degli
adempimenti di legge (Sez. 3, n. 49991 del 10/11/2015,
Terenzi).
Inoltre, in materia di costruzioni in zone sismiche, il
direttore dei lavori risponde del reato previsto dall'art.
95 d.P.R. n. 380 del 2001, per l'esecuzione di interventi
edilizi in assenza del previo deposito del progetto presso
il Genio Civile, in virtù della posizione di controllo
affidatagli su costruzioni potenzialmente lesive della
pubblica incolumità e del conseguente obbligo di verificare
il rispetto degli adempimenti prescritti dalla normativa in
materia (Sez. 3, n. 7775 del 05/12/2013, dep. 2014, Damiano;
Sez. 3, n. 6675 del 20/12/2011, dep. 2012, Lo Presti: "Il
reato di omesso deposito del progetto per le costruzioni
edificate in zona sismica (artt. 17 e 20 legge 02.02.1974,
n. 64) può essere commesso da chiunque violi o concorra a
violare l'obbligo imposto e, quindi, anche dal direttore dei
lavori che non abbia controllato il rispetto degli
adempimenti prescritti dalla normativa antisismica"); il
direttore dei lavori risponde del reato previsto dagli artt.
93 e 94 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo anch'egli
destinatario del divieto di esecuzione dei lavori in assenza
della autorizzazione ed in violazione delle prescrizioni
tecniche contenute nei decreti ministeriali di cui agli
artt. 52 e 83 del d.P.R. n. 380/2001, atteso che le
disposizioni sulla vigilanza sulle costruzioni in zone
sismiche, prevedendo un complesso sistema di cautele rivolto
ad impedire l'esecuzione di opere non conformi alle norme
tecniche, ha determinato una posizione di controllo su
attività potenzialmente lesive in capo al direttore dei
lavori (Sez. 3, n. 33469 del 15/06/2006, Osso, Rv. 235122) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.12.2016 n. 55303
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Violazioni
urbanistiche e paesaggistiche e applicabilità dell'art.
131-bis cod. pen. - Criteri e presupposti - Consistenza
dell'intervento abusivo - Speciale causa di non punibilità.
Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen.
nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche,
la consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia,
dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo
uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche
altri elementi quali, ad esempio, la destinazione
dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico,
l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e
l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli
e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale
collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti,
la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di
difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti
autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le
modalità di esecuzione dell'intervento (Sez. 3, n. 19111 del
10/03/2016, Mancuso, che, in applicazione del principio, ha
escluso la ricorrenza della speciale causa di non punibilità
nel caso di concorrente violazione di legge urbanistica,
antisismica e in materia di conglomerato in cemento armato)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.12.2016 n. 55303
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Devesi richiamare
l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe alle
distanze ex art. 9 DM 1444/1968 (il quale stabilisce le
distanze minime da rispettare fra pareti finestrate di
edifici frontistanti) secondo cui a tali fini all’intervento
di recupero di un immobile già esistente può essere
assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo
laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni
esterne dell’edificio preesistente.
---------------
4.1. Come già accennato, il primo giudice ha ritenuto che
nella specie fosse stato violato l’art. 9 del d.m. nr. 1444
del 1968, il quale stabilisce le distanze minime da
rispettare fra pareti finestrate di edifici frontistanti.
L’Amministrazione comunale e l’odierna istante si erano
difesi assumendo che nella specie avrebbe dovuto trovare
applicazione l’art. 99 del Regolamento edilizio comunale, il
quale stabilisce che, ai fini del calcolo delle distanze tra
fabbricati, non debba tenersi conto di balconi, sporti ed
aggetti di lunghezza fino a mt 1,20 (ciò che avrebbe
assicurato il rispetto delle distanze di cui al precitato
art. 9); il TAR ha però ritenuto di dover disapplicare tale
prescrizione siccome illegittima, escludendo che il Comune
abbia in sede di pianificazione urbanistica il potere di
derogare a qualsiasi titolo alle distanze fissate dal d.m.
nr. 1444/1968.
4.2. A fronte delle suesposte conclusioni, le parti
appellanti articolano un duplice ordine di critiche:
a) si assume, innanzi tutto, che il citato art. 9 del d.m. nr.
1444/1968 non avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso
di specie, trattandosi di intervento di demolizione e
ricostruzione di edificio preesistente e non di nuova
edificazione;
b) in secondo luogo, si sostiene che deve ritenersi del tutto
consentito ai Comuni introdurre nei propri strumenti
urbanistici previsioni del tipo di quella di che trattasi.
4.2.1. La prima censura è manifestamente infondata, dovendo
richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale in tema di deroghe
alle distanze ex art. 9 secondo cui a tali fini
all’intervento di recupero di un immobile già esistente può
essere assimilato quello di demolizione e ricostruzione solo
laddove siano mantenute in toto le medesime dimensioni
esterne dell’edificio preesistente (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 12.07.2002, nr. 3929).
Nel caso che qui occupa, come si legge in sentenza e non
risulta specificamente contestato dalle parti appellanti che
col permesso di costruire in variante nr. 26 del 22.02.2013
è stato assentito un incremento delle altezze rispetto al
preesistente, ciò che è sufficiente a far escludere che si
ricada nell’ipotesi derogatoria suindicata (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 30.12.2016 n. 5552 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo
in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle
distanze degli edifici che ammette che i detti elementi
architettonici possano non essere compresi nel computo delle
distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968,
qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a
condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei
cioè al volume utile dell’edificio.
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la ratio
stessa della previsione delle distanze minime fra edifici,
che come noto è quella di evitare la creazione di
intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità
pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da
fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione
urbanistica, laddove gli elementi architettonici de quibus
abbiano le suddette caratteristiche.
---------------
4.2.2. È invece fondata la seconda subcensura sopra
richiamata.
Al riguardo, la Sezione non ignora l’esistenza di precedenti
che, muovendo da una rigorosa qualificazione delle norme del
d.m. nr. 1444/1968 in termini di disposizioni di ordine
pubblico, traenti la propria fonte direttamente dalla legge
primaria (e, segnatamente, dall’art. 41-quinquies, comma 2,
della legge 17.08.1942, nr. 1150), esclude che le stesse
possano essere derogate dagli strumenti urbanistici
generali, le cui prescrizioni pertanto, ove contrastanti con
le predette norme, devono essere disapplicate dal giudice.
Tuttavia, esiste un diffuso, recente e specifico indirizzo
in tema di calcolo dei balconi e degli sporti ai fini delle
distanze degli edifici, dal quale in questa sede si ritiene
di non doversi discostare, che ammette che i detti elementi
architettonici possano non essere compresi nel computo delle
distanze di cui al ridetto art. 9, d.m. nr. 1444/1968,
qualora vi sia una norma di piano che ciò autorizzi e a
condizione che si tratti di balconi aggettanti, estranei
cioè al volume utile dell’edificio (cfr. Cons. Stato, sez.
VI, 05.01.2015, nr. 11; id., sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557;
id., 07.07.2008, nr. 3381).
Tale ultimo orientamento appare invero coerente con la
ratio stessa della previsione delle distanze minime fra
edifici, che come noto è quella di evitare la creazione di
intercapedini pregiudizievoli o pericolose per la salubrità
pubblica: nel senso che siffatta evenienza si ritiene possa
escludersi in via presuntiva, e salvo prova contraria da
fornirsi da parte di chi impugna o contesta la disposizione
urbanistica, laddove gli elementi architettonici de
quibus abbiano le suddette caratteristiche (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 30.12.2016 n. 5552 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Il possesso dello spazio va provato dall’origine.
Beni e confini. Vent’anni di lite per pochi centimetri.
Rivendicare la proprietà si può ma
solo con la prova (anche risalendo ai propri danti causa)
dell’acquisto a titolo originario del bene oggetto della
controversia.
Lo afferma la
Corte di Cassazione (Sez. II civile, relatore Antonio Scalisi) con la
sentenza
29.12.2016 n. 27366 sul diritto di una vicina di occupare
una piccola striscia con dei vasi di fiori, dopo vent’anni
di liti.
In particolare, chi viene chiamato in causa non ha l’onere
di fornire alcuna prova, mentre chi agisce in giudizio per
dimostrare il possesso di un piccolo basamento davanti alla
propria abitazione deve fornire la cosiddetta probatio
diabolica (alla lettera, significa, prova del diavolo, nel
senso che non vi sono prove per dimostrare che il diavolo
esista ma neppure che non esista).
In relazione a un bene
immobile, colui che afferma di esserne proprietario e
desidera che il bene stesso gli venga restituito da chi lo
detiene o lo possiede dovrà provare la sua proprietà non
solo in base ad un valido titolo di acquisto, ma anche che
ha ricevuto questo diritto da chi a sua volta era
proprietario e così anche per il precedente proprietario
fino a giungere al primo e incontestabile proprietario da
cui è sorto a titolo originario il diritto di proprietà in
contestazione.
Questa prova può essere “attenuata” nel caso
in cui chi rivendica la proprietà ne dimostri l’usucapione
attraverso il possesso ininterrotto, con quello dei danti
causa, per 20 anni o per 10 anni, se si tratta di possesso
in buona fede. Dal punto di vista processuale, il
proprietario non deve essere in possesso della cosa che
vuole recuperare.
La Cassazione ha quindi cassato (con rinvio) la sentenza
della Corte d’appello di Torino che non aveva tenuto conto
di questi princìpi (articolo Il Sole 24 Ore del 14.02.2017). |
APPALTI: Il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della
valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta
giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante, ai sensi
dell’articolo 29, comma 1, del codice dei contratti
pubblici, adottato in attuazione della Legge 28.01.2016 n.
11.
L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere
l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure
di affidamento, anche con ricorso incidentale. E’ altresì
inammissibile l’impugnazione della proposta di
aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti
endo-procedimentali privi di immediata lesività.
---------------
Ai sensi dell’art. 80, comma 5,
lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è illegittima
l’esclusione dalla gara di un concorrente disposta per
asseriti gravi illeciti professionali nel caso in cui la
risoluzione contrattuale che è alla base del provvedimento
sia giurisdizionalmente contestata con giudizio civile
pendente, non sussistendo il presupposto delle
“significative carenze nell’esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, purché non contestata in
giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio”,
previsto dalla citata lett. c del comma 5 dell’art. 80 del
Codice dei contratti, che legittima l’esclusione dalla gara.
---------------
Il ricorso è fondato e va accolto.
In via preliminare, osserva il Collegio che il ricorso è
stato tempestivamente e ritualmente proposto in conformità a
quanto previsto dall’art. 120, comma 2-bis c.p.a. (inserito
dall’art. 204 del nuovo “Codice degli appalti” approvato con
Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50), statuente che: “Il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della
valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta
giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante, ai sensi
dell’articolo 29, comma 1, del codice dei contratti
pubblici, adottato in attuazione della Legge 28.01.2016 n.
11. L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere
l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure
di affidamento, anche con ricorso incidentale. E’ altresì
inammissibile l’impugnazione della proposta di
aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti
endo-procedimentali privi di immediata lesività”.
Sempre preliminarmente, si rileva che la parte ricorrente ha
esplicitamente richiesto, avvalendosi della facoltà concessa
dall’art. 120, comma 6-bis c.p.a., che il giudizio venga
definito in udienza pubblica.
Nel merito, è necessario, innanzitutto, rammentare –in punto
di fatto– che l’impugnato provvedimento di esclusione si
basa sulla seguente motivazione: ”La società TRA.
s.r.l. viene esclusa a seguito di valutazione dei requisiti
di idoneità professionale e, nello specifico, ai sensi
dell’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs. 50/2016, il quale
recita: le Stazioni Appaltanti escludono dalla
partecipazione alla proecdura di appalto l’operatore
economico …… omissis……qualora:……omissis….lett. c) La
stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che
l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze
nell’esecuzione di un precedente contratto d’appalto o di
concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata,
non contestata in giudizio, ovvero confermata a seguito di
un giudizio…..omissis, tutto ciò così come anche previsto
nella lettera di invito al paragrafo 3.1.2. Alla luce del
dettato normativo ed a seguito della dichiarazione prodotta
dalla ditta in sede di gara, la commissione ha eseguito una
propria istruttoria consultando gli atti del Comune di
Montesilvano (Pe), da cui si evince che con determinazione
R.G. n. 215 del 25/02/2016 è stata effettuata una
risoluzione contrattuale (Contratto rep. 3673/2013)
sottoscritto in data 05/11/2013 con la ditta TRA.
relativo al servizio di gestione rifiuti e igiene
ambientale, essendo la ditta incorsa in gravi e ripetute
violazioni contrattuali nel corso della gestione del
servizio di igiene urbana del Comune di Montesilvano. La
ditta, a seguito di tale risoluzione contrattuale, ha
resistito in giudizio promuovendo azione davanti al
Tribunale de L’Aquila. Il Giudice Unico, presso il Tribunale
delle Imprese de L’Aquila, Dott. Ro.Fe., con
ordinanza del 23/06/2016, ha rigettato l’istanza cautelare
proposta dalla società TRA. s.r.l., finalizzata alla
disapplicazione della determinazione dirigenziale del Comune
n. 215/2016, recante risoluzione del contratto di
affidamento del servizio in questione. Tali circostanze si
evincono dalla delibera di G.C. del Comune di Montesilvano
n. 198 del 18/07/2016. A seguito di tali circostanziate
valutazioni, la commissione ritiene che la ditta TRA.
s.r.l. non abbia i necessari requisiti di affidabilità nella
gestione del servizio e, pertanto, esclude la stessa dalla
procedura di gara”.
Ciò premesso, il Tribunale ritiene sufficiente osservare,
sinteticamente, –in diritto– che appare condivisibile, in
primo luogo, la prospettata censura formulata dalla Società
ricorrente incentrata sulla violazione e falsa applicazione,
da parte della Stazione Unica Appaltante intimata, dell’art.
80, quinto comma lett. c), del Decreto Legislativo
18.04.2016 n. 50, considerato –da un lato– che
quest’ultima norma consente alla stazione appaltante di
escludere dalla partecipazione alla procedura di appalto
l’operatore economico allorquando dimostri con mezzi
adeguati che lo stesso si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali (tali da rendere dubbia la sua affidabilità),
tra i quali rientrano (per esplicita previsione normativa)
le significative carenze nell’esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, purché non contestata in
giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio; e –dall’altro–
che, nel caso di specie, risulta invece “per tabulas”
che la TRA. S.r.l. ha giurisdizionalmente contestato
dinanzi al Tribunale Civile - Sezione Imprese di L’Aquila la
risoluzione contrattuale disposta in suo danno dal Comune di
Montesilvano (con determinazione dirigenziale n. 215 del
2016), richiamata nella motivazione del provvedimento di
esclusione impugnato, e che tale giudizio civile è tutt’ora
pendente (essendo solo stata rigettata l’istanza cautelare
incidentalmente avanzata dalla Società attrice), sicché
–nella fattispecie concreta de qua– non si è in
presenza di una risoluzione anticipata del precedente
contratto di appalto confermata -con sentenza- all’esito di
un giudizio.
Infatti, è agevole rilevare che la predetta innovativa norma
introdotta dal Codice degli appalti del 2016 (in vigore dal
19.04.2016) –interpretata alla stregua dei consueti
ortodossi canoni ermeneutici–, a differenza della previgente
similare disciplina dettata dall’art. 38, primo comma, lett.
f), del Decreto Legislativo 12.04.2006 n. 163 e ss.mm.,
rende irrilevante –ai fini della esclusione degli operatori
economici dalle procedure di gara indette dalla P.A.– la
risoluzione anticipata di un precedente contratto di appalto
o di concessione ancora “sub judice” (pur in presenza
di una pronuncia cautelare negativa da parte dell’adito
Tribunale Civile).
Il Collegio è dell’avviso meditato che vada disattesa la
tesi interpretativa sostenuta dalla difesa della Società
controinteressata secondo cui le espressioni letterali
adoperate dal legislatore nell’art. 80, quinto comma, lett.
c), del Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50 possono portare
al risultato pratico (esplicitamente precluso, invece, dalla
stessa norma) di consentire alla stazione appaltante di
escludere dalla gara anche l’operatore economico nei cui
confronti sia stata disposta dalla P.A. una risoluzione
contrattuale anticipata, in ragione di ravvisate
significative carenze nell’esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione, contestata in sede
giurisdizionale e non confermata -con sentenza (ancorché non
definitiva)- all’esito del relativo giudizio, ovvero
contestata in un giudizio non ancora concluso (nemmeno in
primo grado), ma nel quale l’istanza cautelare del privato
sia stata non accolta dal giudice.
Né si ravvisa l’allegato contrasto dell’art. 80, quinto
comma, lett. c), del Decreto Legislativo 18.04.2016 n. 50
–così inteso– con l’art. 57, punto 4, della Direttiva
2014/24/UE (recepito dal legislatore italiano con tale
norma) che, peraltro, non avendo carattere puntualmente
completo e dettagliato, non è “self executing”.
L’acclarata illegittimità della impugnata esclusione della
TRA. S.r.l. produce la denunciata illegittimità
derivata della determina di aggiudicazione provvisoria (pure
gravata) della gara ufficiosa adottata in data 06.09.2016 in
favore della controinteressata Società Az.Se.Va. S.p.A..
Per le ragioni innanzi illustrate il ricorso deve essere
accolto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 22.12.2016 n. 1935 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
parcelle da provare. Credito ed entità della prestazione per
agire in giudizio. Secondo la
Cassazione parere dell'Ordine non decisivo nella causa
contro il cliente.
L'avvocato che agisce giudizialmente nei confronti del
cliente per ottenere il pagamento delle proprie competenze
professionali ha l'onere di dimostrare l'esistenza del
credito e l'entità delle prestazioni eseguite. Non può,
infatti, attribuirsi alcuna rilevanza probatoria
all'eventuale nota spese depositata nel giudizio in cui egli
abbia prestato assistenza, né può ritenersi vincolante il
parere espresso dal Consiglio dell'Ordine di appartenenza,
il cui peso è sempre più «leggero».
Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 16.12.2016 n. 26065.
La vicenda è quella di un giudizio di opposizione promosso
dai clienti di un legale avverso un decreto ingiuntivo
avente ad oggetto i compensi relativi all'attività
professionale prestata da quest'ultimo e cristallizzato in
una parcella peraltro corredata dal parere di congruità del
Consiglio dell'Ordine.
Sia l'opposizione, sia il gravame proposto dall'avvocato
sono stati integralmente rigettati, inducendo il
professionista a proporre ricorso per Cassazione.
I giudici di Piazza Cavour hanno rigettato anche tale
impugnativa, evidenziando che, in tema di compenso per
prestazioni professionali, il parere espresso dal Consiglio
dell'Ordine di appartenenza non è mai vincolante, essendo
riservata al giudice la possibilità di sindacare la
liquidazione anche nel merito in ipotesi di contestazione
del compenso richiesto.
Corollario di tale assunto è che, solo ai fini
dell'emissione del decreto ingiuntivo (art. 636 cod. proc.
civ.), la prova dell'espletamento dell'opera e dell'entità
delle prestazioni professionali può essere fornita
semplicemente con la produzione della parcella e del
relativo parere di congruità della competente associazione
professionale.
Viceversa, nell'eventuale giudizio di opposizione al decreto
ingiuntivo da parte dei clienti, l'avvocato, deve, in
qualità di «attore sostanziale», fornire integralmente gli
elementi dimostrativi della propria pretesa, sia con
riferimento alle attività prestate sia alla loro
valorizzazione, ossia assolvere pienamente il c.d. onere
della prova, senza più ritrarre un sostanziale beneficio dal
parere dell'Ordine di appartenenza.
Pertanto, il giudice di merito non può assumere come base di
calcolo per la determinazione del compenso le voci della
parcella contestate dal debitore (trattandosi di un
documento di formazione unilaterale), e il parere del
Consiglio dell'Ordine è idoneo esclusivamente ad attestare
la conformità della parcella alle «tariffe» vigenti, non
provando, viceversa, l'effettiva esecuzione delle
prestazioni in essa indicate
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifica,
non serve la certezza. Spese a carico dell'azienda anche se
non è responsabile. Una pronuncia
del Tar Piemonte: applicato il principio europeo del più
probabile che non.
L'impresa che ha operato sul terreno risultato contaminato
deve bonificarlo anche se non c'è la certezza che sia
responsabile delle immissioni vietate perché nell'area si
sono alternate nel tempo varie aziende tutte impegnate in
lavorazioni simili. E ciò in quanto il criterio eurounitario
«chi inquina paga» prevede che a far scattare la diffida a
provvedere risulti sufficiente che vi sia più della metà
delle probabilità che la società sia responsabile della
contaminazione rilevata nella falda acquifera locale.
È quanto emerge dalla
sentenza
16.12.2016 n. 1543,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Piemonte.
Certezza superflua.
Niente da fare per l'azienda che lavora nel settore
automotive: deve farsi carico delle spese necessarie alla
rimessione in pristino del terreno dopo che l'agenzia
regionale di protezione ambientale ha rilevato nell'area
inquinamento storico da cromo esavalente e da solventi
clorurati. In effetti nell'area esiste da un secolo
un'officina meccanica e la porzione contaminata corrisponde
alla vecchia cromatura, reparto chiuso molto prima che fosse
impiantata in loco l'attività di produzione di
ammortizzatori dell'azienda subentrata.
Ma eccepirlo non
giova all'impresa sopravvenuta, perché ai fini della diffida
a bonificare non si applica il criterio penalistico che
richiede la certezza «al di là di ogni ragionevole dubbio»,
ma quello eurounitario del «più probabile che non». E le
sostanze inquinanti rinvenute nelle acque costituiscono
scarti e prodotti industriali tipici anche della lavorazione
dell'impresa subentrata e nonostante le ultime bonifiche
l'area risulta inquinata dalle stesse sostanze. Non resta
che provvedere, dunque. Le spese di giudizio compensate per
la complessità della situazione di fatto.
Il precedente.
I rapporti fra le aziende nostrane e l'inquinamento
industriale, dunque, risultano regolati anzitutto da norme
Ue e della questione si è occupata anche la Corte di
giustizia europea con la sentenza C-534/13, pubblicata il 04.03.2015 dalla terza sezione. I giudici di Lussemburgo
hanno stabilito che la legge italiana è compatibile con la
direttiva 2004/35/Ce laddove non impone misure di
riparazione ai proprietari dei terreni inquinati laddove
essi risultano estranei alle contaminazioni rilevate. Resta
però fermo il rimborso degli interventi realizzati
dall'amministrazione.
Gli stati membri dell'Unione europea
sono liberi di prevedere una responsabilità soltanto
patrimoniale. In base alla direttiva sulla responsabilità
ambientale, l'operatore che gestisce un sito deve, in linea
di principio, sopportare i costi delle misure di prevenzione
e di riparazione adottate in risposta al verificarsi di un
danno ambientale nel sito. Ma questi esborsi non sono a
carico dell'azione se la società può provare che il danno è
stato causato da un terzo.
La direttiva consente comunque agli stati membri di adottare
norme più severe. La normativa italiana risulta conforme
alla direttiva perché il principio «chi inquina paga»
(articolo 191, paragrafo 2, Tfue), si rivolge all'azione
dell'Unione: la disposizione non può dunque essere invocata
in quanto tale da privati o da autorità amministrative.
Le persone diverse dagli operatori economici non rientrano
nell'ambito di applicazione della direttiva e, quando non
può essere accertato alcun nesso causale tra il danno
ambientale e l'attività dell'operatore, tale situazione non
rientra nel diritto dell'Unione, bensì nel diritto
nazionale. Il codice ambientale, decreto legislativo 152/2006,
obbliga dal canto suo soggetti pubblici e privati a tutelare
l'ambiente mediante un'adeguata azione, informata ai
principi della precauzione e dell'azione preventiva, della
correzione dei danni causati all'ambiente e del «chi inquina
paga». Prevede che l'amministrazione, dopo la scoperta della
contaminazione di una superficie, diffidi il responsabile o
adotti gli interventi necessari alla messa in sicurezza, nei
casi in cui il responsabile della contaminazione non sia
individuabile e non provveda il proprietario.
Il caso è finito all'attenzione dei giudici europei perché
alcune società erano divenute proprietarie di diversi
terreni situati nella provincia di Massa Carrara. I suoli
erano gravemente contaminati da sostanze chimiche in seguito
alle attività economiche svolte dai precedenti proprietari,
appartenenti a un gruppo industriale Montedison che vi
produceva insetticidi e diserbanti. I nuovi proprietari non
erano autori della contaminazione, ma le autorità italiane
avevano ordinato loro di realizzare una barriera idraulica
per proteggere la nappa freatica.
Il Consiglio di stato, adito in appello con ricorsi contro
le corrispondenti decisioni amministrative, ha constatato
che la legislazione italiana limita la responsabilità
patrimoniale dell'operatore al valore del suo terreno. Il
Consiglio di stato ha chiesto, quindi, alla Corte di
giustizia se tali norme nazionali siano compatibili con il
principio «chi inquina paga» cui dà attuazione la
direttiva.
E la Corte ha risposto che la normativa italiana è conforme
alla direttiva: il principio «chi inquina paga» si
rivolge all'azione dell'Ue e la disposizione non può essere
invocata in quanto tale da privati o da autorità
amministrative
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017).
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MASSIMA
3) Nel secondo motivo viene invece esaminata la
posizione della ricorrente rispetto all’inquinamento.
Sostiene la difesa della I. la sua assoluta estraneità e
quindi l’assenza di ogni forma di responsabilità, neppure
sotto forma di responsabilità solidale, rispetto
all’inquinamento storico da cromo esavalente e da solventi
clorurati: quando I. acquistò il sito nel 1986 la vecchia
cromatura era già terminata e smantellata.
Lamenta la ricorrente il difetto di istruttoria, in quanto
la conclusione cui è giunta la Provincia, di “estendere”
la responsabilità anche alla I. è assunta solo sulla base
della sentenza del Tribunale di Asti, poi riformata, senza
indicare la natura dell’inquinamento, la soglia di
contaminazione e la riconducibilità dell’inquinamento
all’attività di I..
Va evidenziato che la ricorrente non si sofferma tanto sul
profilo della “successione societaria”, al fine di
escludere la propria responsabilità, ma contesta in radice
la propria responsabilità, censurando l’istruttoria condotta
dalla Provincia, laddove è giunta a ritenere che anche la I.
possa avere responsabilità per l’inquinamento dell’area
vecchia cromatura.
Anche questo motivo non può essere accolto.
Ritiene il Collegio che la conclusione cui è giunta la
Provincia sia corretta: dalla ricostruzione dei fatti non
può escludersi che anche per il breve periodo in cui ha
svolto l’attività I. possa aver contribuito all’inquinamento
del sito.
In materia di accertamento del nesso
causale, tra operatore e inquinamento, nel rispetto del
principio “chi inquina paga”, il criterio oggi
maggiormente applicato è quello del “più probabile che
non”, secondo cui per affermare il legame causale non è
necessario raggiungere un livello di probabilità (logica)
prossimo ad uno (cioè la certezza), bensì è sufficiente
dimostrare un grado di probabilità maggiore della metà (cioè
del 50%) (cfr. Tar
Lazio Roma, n. 998 del 2014; Cassazione sentenza n. 21619
del 2007), escludendo invece la possibilità
di applicare il criterio penalistico che richiede una
certezza al di là di ogni ragionevole dubbio
(TAR Pescara, (Abruzzo), sez. I, 30/04/2014, n. 204).
In applicazione dei principi sopra riportati, non pare
illegittima la conclusione cui è pervenuta la Provincia di
indicare come responsabile anche la società I..
Non appare analiticamente ed efficacemente contestato dalla
ricorrente che le sostanze inquinanti rinvenute nelle acque
costituiscono scarti e prodotti industriali tipici
dell'attività esercitata anche da I. e che l’area della
vecchia cromatura, nonostante le opere di bonifica
approntate negli ultimi anni, risulti contaminata dalle
medesime sostanze.
Ne deriva che la contaminazione della falda discende
ragionevolmente dalla contaminazione interna del sito, nel
quale anche I. ha svolto attività per la quale sono
utilizzate le suddette sostanze inquinanti.
Né può escludersi una responsabilità della I. alla luce
della sentenza della Corte d’Appello di Torino, laddove si
afferma la mancanza di “emergenze probatorie certe”
sulle infiltrazioni da cromo esavalente precedentemente
all’episodio dell’incidente del 1999: va infatti evidenziata
la differente indagine che il giudice civile ha compiuto per
affermare la responsabilità dei danni subiti dai cittadini,
rispetto a quella posta in essere dall’Amministrazione (e
oggetto di valutazione da parte del giudice amministrativo),
sull’accertamento del nesso causale.
Il giudizio civile aveva ad oggetto la domanda di
risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali
subiti dai residenti, a causa dell’inquinamento diffuso
nonché di un incidente avvenuto nel 1999, che ha provocato
una immissione massiccia di sostanze inquinanti.
Il giudice civile ha escluso la responsabilità della I.
ritenendo che nel corso del giudizio non fosse stata
raggiunta la prova che prima dell’incidente del 1999 vi
fosse effettivamente una contaminazione delle acque dei
pozzi privati che superasse la soglia di rischio per la
salute umana e che tale contaminazione provenisse dalla
vecchia vasca di cromatura dismessa negli anni 80.
Al fine di accertare una responsabilità
risarcitoria è infatti necessario provare l’esistenza del
nesso causale tra l’evento e il danno:
in tal caso il Giudice d’appello ha ritenuto che non fosse
provato che il danno lamentato dai cittadini fosse
causalmente riconducibile all’attività di I..
Differente è l’indagine che deve compiere
l’Amministrazione nella ricerca dei soggetti responsabili
dell’inquinamento e quindi tenuti alle opere di bonifica: in
base al principio del “più probabile che non” la P.A.
può presumere l'esistenza di un nesso di causalità alla luce
di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua
presunzione, quali la vicinanza dell'impianto dell'operatore
all'inquinamento accertato e la corrispondenza tra le
sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da
detto operatore
(così, ad es., TAR Sicilia, Catania, sez. I, sent. n. 2117
del 2012), tutti elementi indiziari che ben ricorrono nella
presente fattispecie e che sono rinvenibili nella citata
perizia della prof.ssa Za. e dagli accertamenti effettuati
nel corso del procedimento: la collocazione del laboratorio
“Vecchia Cromatura” sull’area ove si è riscontrato il
maggior inquinamento, la pacifica corrispondenza tra le
sostanze inquinanti ritrovate e le sostanze utilizzate
dall’operatore nell’esercizio della propria attività
industriale (si vd., al riguardo, con specifico riferimento
ai solventi clorurati, quanto riporta la perizia Ra.-So. a
pag. 124: “... la metà degli anni ’50 è il periodo in cui
si iniziano ad usare massicciamente i solventi clorurati e
perché inizia la produzione di ammortizzatori. Siamo
arrivati fino alla metà del 1966 perché il 3 giugno di
quell’anno è la data dell’ultimo scarico di solventi
ricavabile dal registro carico-scarico”).
Non può quindi escludersi una responsabilità della I. per
l’effettiva attività che ha svolto dal 1986 al 1993, di
produzione di ammortizzatori, comprendente attività di
cromatura, in cui si utilizzano le stesse sostanze rinvenute
nelle acque, ed una omissiva, in quanto nella sua veste di
proprietaria dell’intera area, non ha posto in essere quelle
condotte per eliminare la situazione dannosa e permanente
riscontrata nel sito.
Il motivo va quindi respinto. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sportello
unico non può bloccare la variante.
Non può essere lo sportello unico del comune a bloccare la
variante urbanistica sprint all'attività produttiva che
vuole ingrandirsi. Dopo il riordino degli Suap, infatti, il
ruolo del responsabile unico del procedimento costituisce
soltanto un filtro contro domande inadeguate: è dunque
escluso che il Rup possa evitare di convocare la conferenza
di servizi.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.12.2016 n. 2655, pubblicata dal TAR Campania-Salerno,
I Sez..
Accolto il ricorso dell'impresa che ha bisogno di un nuovo
impianto. Si tratta di una carrozzeria di grandi automezzi:
serve più spazio per l'allestimento dei veicoli. Ma serve
anche una variante allo strumento urbanistico del Comune
perché l'area risulta classificata come zona agricola. La
società sceglie di avvalersi dell'iter semplificato ex
articolo 8 del dpr 160/2010, il regolamento che ha riformato
gli Suap.
Ma è proprio il responsabile dello sportello unico
a bloccare il progetto sul rilievo che il piano urbanistico
comunale dev'essere ancora emanato e bisognerebbe
salvaguardarne la mission di programmazione del territorio.
Il punto è che le norme attuali non consentono al Rup alcuna
discrezionalità: nell'ambito del procedimento semplificato
al responsabile dello sportello per le attività produttive
non è dunque riconosciuta la facoltà di pronunciarsi sulla
compatibilità urbanistica dell'intervento. Lo stop è quindi
frutto di un eccesso di zelo del dirigente.
Non giova al Rup evidenziare che in materia mancano «indirizzi
dell'amministrazione» proprio perché si tratta di
valutazioni che non gli competono. Il provvedimento
impugnato, peraltro, richiama l'articolo 4 del dpr 447/1998,
da tempo superato da successivi interventi normativi. E
soltanto con le vecchie regole il responsabile unico del
procedimento aveva un autonomo potere di rigetto
dell'istanza.
È d'altronde la stessa legge sulla trasparenza a consentire
al privato di chiedere la conferenza di servizi quando
bisogno del consenso di più amministrazioni alla sua
iniziativa: risulta escluso che l'ente competente a emettere
il provvedimento finale abbia la facoltà di non convocarla.
Al comune non resta che provvedere e pagare le spese di lite
(articolo ItaliaOggi del 07.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
I. Il ricorso è fondato.
II.1. Assume dirimente rilievo quanto articolato con il
primo mezzo, ove le deducenti valorizzano il tratto
testuale dell’art. 8 del D.P.R. n. 160/2010 al fine di
evidenziare che la norma, ai sensi della quale l’istanza di
convocazione della Conferenza di Servizi è stata presentata,
non attribuisce all’ufficio del SUAP alcun diaframma di
discrezionalità bensì impone l’obbligo di procedere nel
senso richiesto.
La deduzione trova adeguato riscontro nel testo della norma,
che così provvede: “1. Nei comuni in cui lo strumento
urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di
impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta
salva l'applicazione della relativa disciplina regionale,
l'interessato può richiedere al responsabile del SUAP la
convocazione della conferenza di servizi di cui agli
articoli da 14 a 14-quinquies della legge 07.08.1990, n.
241, e alle altre normative di settore, in seduta pubblica.
Qualora l'esito della conferenza di servizi comporti la
variazione dello strumento urbanistico, ove sussista
l'assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale
è trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente del Consiglio
comunale, ove esistente, che lo sottopone alla votazione del
Consiglio nella prima seduta utile. Gli interventi relativi
al progetto, approvato secondo le modalità previste dal
presente comma, sono avviati e conclusi dal richiedente
secondo le modalità previste all'articolo 15 del testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380”.
Per vero,
poiché la procedura semplificata di variante urbanistica si
fonda su esigenze sostanziali, che giustificano
l’applicazione di tale fattispecie dal “carattere
eccezionale e derogatorio della disciplina generale”
(cfr. Cons. Stato Sez. IV, 20.10.2016, n. 4380)
il ruolo del responsabile del RUP può esplicarsi nel senso
di assicurare una sorta di filtro rispetto a quelle istanze
che si palesino del tutto estranee alla piattaforma
applicativa dell’istituto, ma è da escludere, in base alla
norma stessa, che l’attivazione del modulo semplificatorio
sia demandata a valutazioni discrezionali del responsabile
del SUAP afferenti alla compatibilità urbanistica del
progettato intervento.
Ebbene,
il corredo motivazionale dell’atto impugnato non risulta
coerente con tale impostazione normativa, avendo il
redattore dell’atto oggetto di gravame prospettato
l’esigenza di salvaguardare il redigendo PUC del Comune di
Montoro nel suo disegno “programmatorio”, ma per tal
via effettuando valutazioni di compatibilità urbanistica
dell’intervento che non competono all’organo emanante.
Non vanno trascurate le differenze, già sul piano lessicale,
tra la norma in esame ed il previgente art. 5, comma 1, del
D.P.R. n. 447/1998, che,
come evidenziato dalle ricorrenti,
non solo attribuiva al responsabile del procedimento
un'autonoma potestà di rigetto dell'istanza (che oggi non è
più prevista), ma, subito dopo, prescriveva che "allorché
il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia
ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro, ma lo
strumento urbanistico non individui aree destinate
all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano
insufficienti in relazione al progetto presentato, il
responsabile del procedimento può, motivatamente, una
conferenza di servizi (...), per le conseguenti decisioni,
dandone contestualmente avviso pubblico"; a sua volta
l’art. 14, comma 4, L. n. 241/1990
(come sostituito dall'art. 9, comma 1, L. n. 340/2000),
già da tempo, prescrive che "quando l'attività del
privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque
denominati, di competenza di più amministrazioni pubbliche,
la conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta
dell'interessato, dall'amministrazione competente per
l'adozione del provvedimento finale" così anch’esso
escludendo che quest'ultima sia titolare di una facoltà
discrezionale di non convocare la conferenza richiesta dal
privato.
Anche una lettura diacronica e sistematica della norma di
riferimento, di cui al ridetto art. 8, conferma la
configurazione dell’effettivo ruolo del
responsabile del SUAP che ha mero carattere propedeutico
all’intervento della conferenza di servizi, essa sola
deputata all’adozione dell’atto conclusivo del decorso
procedimentale involgente valutazioni di contenuto
discrezionale.
Inoltre, come evidenziato in sede cautelare, il riferimento
in motivazione al PUC del Comune di Montoro è formulato in
termini meramente generici, senza alcun riferimento né a
specifiche parti o norme dello stesso, né alla sua prossima
o imminente adozione.
Va condiviso infatti quanto sul punto dedotto da parte
ricorrente circa la inidoneità ostativa delle misure di
salvaguardia in epoca antecedente all’adozione del piano
urbanistico, in base a quanto statuito dall’art. 10 L.R.C.
n. 16/2004. Il motivo in esame è quindi fondato, risultando
idoneo a compromettere la parte della motivazione impingente
in valutazioni di stampo urbanistico.
II.2. Va altresì condiviso quanto ulteriormente dedotto, col
secondo mezzo, nel senso della inattitudine degli
ulteriori passaggi motivazionali a confortare la contestata
determinazione reiettiva.
In tale sede, il Responsabile del SUAP evidenzia che sarebbe
inconferente l’ordinanza di questo Tribunale n. 61/2013,
richiamata dall’istante nelle sue controdeduzioni, sollevate
a seguito della comunicazione del preavviso di diniego, in
quanto non sarebbe in discussione la regolare attivazione
del contraddittorio preventivo stigmatizzata nel citato
provvedimento cautelare.
Tale considerazione, come condivisibilmente dedotto in
ricorso, nemmeno in astratto rappresenta un motivo
concettualmente idoneo a sorreggere la determinazione
negativa, risultando così del tutto ininfluente sul piano
logico-argomentativo; l’osservazione è plausibilmente
dettata dalla mera finalità di ribattere al contributo
dialogico reso dall’istante in sede procedimentale invece
che dall’esigenza di evidenziare una ragione potenzialmente
ostativa all’accoglimento della domanda.
Nemmeno possono suffragare l’atto impugnato quegli ulteriori
passaggi motivazionali con i quali si richiama l’art. 4 del
d.P.R. n. 447/1998, peraltro già da tempo superato da
successivi interventi normativi, o si evidenzia la mancanza
di “indirizzi” da parte dell’Amministrazione,
implicitamente affermandosi una sfera di discrezionalità del
SUAP che invece, per le ragioni sopra esposte, non si
configura.
III. Tanto è sufficiente, ritenuta assorbita ogni altra
deduzione, per il complessivo accoglimento del gravame, di
tal che dell’atto impugnato occorre disporre l’annullamento. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Gli
articoli 21-quater e 21-nonies L. n. 241/1990 sono stati
modificati da ultimo con la Legge 07.08.2015 n. 124, che ha
ora previsto il termine massimo di diciotto mesi entro cui
l’Amministrazione può procedere in autotutela alla
sospensione o all’annullamento d’ufficio di provvedimenti
amministrativi autorizzatori o comunque attributivi di
vantaggi economici.
Dal momento che tale novella, nel sancire una sorta di
“decadenza” (in senso atecnico) per l’esercizio del potere
amministrativo in autotutela, ha profondamente innovato la
previgente disciplina (ove si prevedeva il più elastico
concetto di “termine ragionevole” senza fissare un preciso
dies ad quem), occorre procedere ad una interpretazione
conforme al principio tempus regit actum, senza accedere ad
improvvide interpretazioni reatroattive della suddetta
novella legislativa, che non solo si porrebbero in palese
contrasto con l’art. 11 delle disp. prel. al codice civile,
ma comporterebbero la incongrua conseguenza di pregiudicare
irrimediabilmente la posizione della Pubblica
Amministrazione.
Pertanto una interpretazione conforme alla ratio della
suddetta novella deve portare l’interprete ad abbracciare
un’opzione ermeneutica idonea a contemperare la tutela del
legittimo affidamento del privato (per il cui presidio è
stato ora fissato il termine massimo di esercizio del potere
amministrativo in autotutela) e la tutela del buon andamento
della Pubblica Amministrazione garantito dall’art. 97 della
Costituzione.
Utilizzando le suddette coordinate ermeneutiche si ritiene
che, in caso di provvedimenti favorevoli adottati prima
dell’entrata in vigore della novella del 2015, la Pubblica
Amministrazione gode, in linea generale, del termine di 18
mesi dall’entrata in vigore della Legge n. 124/2015 per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di
sospensione in autotutela, salvo le ipotesi, da valutare
caso per caso, in cui il lungo lasso di tempo già trascorso
induce comunque a ritenere decorso il “termine ragionevole”
per l’esercizio del potere di annullamento o sospensione in
autotutela, a maggior tutela del legittimo affidamento del
privato.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 08.08.2016,
protocollo 376786/2016, con il quale il Dirigente del
Settore Commercio del Comune di Venezia ha disposto "la
sospensione dell'attività di somministrazione di alimenti e
bevande sita in Venezia, San Marco ... esercitata
dalla ditta Ca. & Ca. sas in forza dell'autorizzazione
n. 998746 del 05/03/2009 con decorrenza il 30° giorno dalla
notifica del presente provvedimento fino all'ottenimento
della piena conformità edilizia e dell'agibilità dei
locali”, nonché per il risarcimento del danno ingiusto.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Gli articoli 21-quater e 21-nonies L. n. 241/1990 sono stati
modificati da ultimo con la Legge 07.08.2015 n. 124, che
ha ora previsto il termine massimo di diciotto mesi entro
cui l’Amministrazione può procedere in autotutela alla
sospensione o all’annullamento d’ufficio di provvedimenti
amministrativi autorizzatori o comunque attributivi di
vantaggi economici.
Dal momento che tale novella, nel sancire una sorta di
“decadenza” (in senso atecnico) per l’esercizio del potere
amministrativo in autotutela, ha profondamente innovato la
previgente disciplina (ove si prevedeva il più elastico
concetto di “termine ragionevole” senza fissare un preciso
dies ad quem), occorre procedere ad una interpretazione
conforme al principio tempus regit actum, senza accedere ad
improvvide interpretazioni reatroattive della suddetta
novella legislativa, che non solo si porrebbero in palese
contrasto con l’art. 11 delle disp. prel. al codice civile,
ma comporterebbero la incongrua conseguenza di pregiudicare
irrimediabilmente la posizione della Pubblica
Amministrazione.
Pertanto una interpretazione conforme alla ratio della
suddetta novella deve portare l’interprete ad abbracciare
un’opzione ermeneutica idonea a contemperare la tutela del
legittimo affidamento del privato (per il cui presidio è
stato ora fissato il termine massimo di esercizio del potere
amministrativo in autotutela) e la tutela del buon andamento
della Pubblica Amministrazione garantito dall’art. 97 della
Costituzione.
Utilizzando le suddette coordinate ermeneutiche si ritiene
che, in caso di provvedimenti favorevoli adottati prima
dell’entrata in vigore della novella del 2015, la Pubblica
Amministrazione gode, in linea generale, del termine di 18
mesi dall’entrata in vigore della Legge n. 124/2015 per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di
sospensione in autotutela, salvo le ipotesi, da valutare
caso per caso, in cui il lungo lasso di tempo già trascorso
induce comunque a ritenere decorso il “termine ragionevole”
per l’esercizio del potere di annullamento o sospensione in
autotutela, a maggior tutela del legittimo affidamento del
privato.
Utilizzando tali principi nel caso di specie, si deve
rilevare, in primo luogo, che non risulta decorso il termine
di 18 mesi, dal momento che il provvedimento impugnato è
stato adottato nell’agosto del 2016, a distanza di 12 mesi
dall’entrata in vigore della L. n. 124/2015.
Né è possibile ritenere che, nella presente fattispecie, sia
decorso comunque il “termine ragionevole” per l’esercizio
del potere di sospensione in autotutela (o di annullamento
d’ufficio), in quanto tale “ragionevolezza” deve essere
calibrata e misurata in ragione dell’affidamento del privato
che, per essere tutelato, deve essere “legittimo”, ovvero
incolpevole e connotato dal requisito della buona fede.
Nel caso di specie, come già illustrato, la società odierna
ricorrente, sin dal 2009 ha presentato plurime domande di
permesso di costruire in sanatoria, con ciò dimostrando la
piena consapevolezza in ordine alla non conformità edilizia
dei locali ove viene svolta l’attività di somministrazione
di alimenti e bevande, con la conseguenza che, nel caso
oggetto del presente giudizio, difetta a monte la natura
incolpevole dell’affidamento nutrito dal privato, con
conseguente legittimità del provvedimento di sospensione
adottato dal Comune.
Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Infondato è, altresì, il secondo motivo di ricorso.
Il provvedimento di sospensione impugnato reca, infatti,
quale giustificazione dei gravi motivi, la situazione di non
conformità edilizia dei locali ove viene esercitata
l’attività della ricorrente, considerando altresì che,
proprio per non pregiudicare definitivamente gli interessi
della Ca. & Ca., il Comune di Venezia si è risolto ad
archiviare il precedente procedimento amministrativo per
l’annullamento d’ufficio dell’autorizzazione (che avrebbe
poi comportato l’impossibilità di richiedere una nuova
autorizzazione), in favore di una diversa misura
maggiormente proporzionata, quale è appunto la semplice
sospensione dell’attività di somministrazione di alimenti e
bevande.
Il secondo motivo, pertanto, deve essere rigettato.
Infondato è infine il terzo motivo di ricorso.
L’impugnata sospensione è stata disposta “fino
all’ottenimento della piena conformità edilizia e
dell’agibilità dei locali”, ancorando la cessazione
dell’effetto sospensivo non ad una condizione, come
infondatamente argomentato dal ricorrente, in quanto non
dipendente da un evento esterno futuro ed incerto, ma ad un
termine finale che, pur non indicato a data fissa, è
agevolmente individuabile per relationem e direttamente
collegato alla volontà del ricorrente, il solo titolare del
potere di richiedere e di adoperarsi per l’agibilità dei
locali e per la loro conformità edilizia.
Il terzo motivo di ricorso, pertanto, deve essere respinto.
Dalla infondatezza dei motivi di ricorso discende, altresì,
l’infondatezza della domanda di risarcimento del danno che,
pertanto, deve essere rigettata.
In definitiva il ricorso deve essere respinto
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 07.12.2016 n. 1345 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Aspettativa
edificabilità non tassabile ai fini Ici.
Ai fini dell'imposizione locale (Ici, Imu) l'aspettativa di
edificabilità non è tassabile; di più: il valore di un'area
fabbricabile non può essere determinato utilizzando i valori
normali desunti dalle banche dati, trattandosi di mere
presunzioni che esulano dalle fattispecie concrete.
Sono queste le conclusioni che si leggono nella
sentenza 26.11.2016 n. 7356/17/2016
emessa dalla Sez. XVII della Commissione tributaria
regionale di Roma.
La vicenda tratta di un avviso
d'accertamento Ici per l'anno 2007.
Impugnando l'atto notificato dal comune di Roma, la società
ricorrente palesava che l'area identificata come
edificabile, era stata ricompresa tra quelle di interesse
archeologico, con conseguente cancellazione della stessa
dalle aree della zona a destinazione urbanistica e
inserimento in quelle adibite a parco pubblico. A seguito di
questo, veniva avviato il procedimento di perequazione
urbanistica.
L'operazione perequativa, avallata anche dal
Tar del Lazio nella sentenza n. 1652/1999, consiste nel
trasferire la capacità dell'area su altre aree individuate
dalla stessa amministrazione o su altre aree possedute dallo
stesso proprietario. La Commissione regionale, quindi,
veniva chiamata a decidere se la potenzialità edificatoria
trasferita su un'area diversa da quella originariamente
individuata (così detta area di atterraggio) fosse dovuta
l'imposta locale.
La Commissione provinciale di Roma ha
accolto il ricorso e la decisione è stata confermata in
appello. «Nel caso di specie» si legge nella sentenza di cui
al commento «non risulta portato a termine il procedimento
in base a cui sia stato trasferito il diritto su di un'area
così detta di atterraggio.
Quindi nessuna area edificabile è
stata attribuita alla società ricorrente».
Ne deriva che, non
essendo ancora esercitabile lo ius edificandi, in mancanza
della sottoscrizione di una apposita convenzione con il
comune da parte della società, si configura solo una
aspettativa di edificabilità non capace di istaurare un
rapporto da cui sorga il diritto a esigere l'imposta. Il
collegio aggiunge che, quanto al merito, il valore di
un'area edificabile non può essere determinato utilizzando i
valori normali desunti dalle banche dati, trattandosi di
mere presunzioni che esulano dalle fattispecie concrete.
La
Commissione, annullando definitivamente l'accertamento
illegittimo, ha condannato il comune di Roma al pagamento
delle spese processuali quantificato in euro tremila.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il Tar del Lazio, con la sentenza n. 1652/1999, ha
avallato l'operazione perequativa, con la quale, nel caso in
cui un'area edificabile privata perde tale requisito per
effetto di una variante dello strumento urbanistico generale
o di una creazione di un vincolo per sopravvenute esigenze
pubbliche e venga destinata alla collettività, la capacità
edificatoria dell'area in questione non possa essere
annullata con l'obbligo di indennizzo a favore del
proprietario, ma possa essere esercitata su altre aree
individuate dalla stessa amministrazione o su altre aree
possedute dallo stesso proprietario.( )
In relazione a tale oggetto del decidere, la Commissione
tributaria provinciale di Roma, con decisione n. 8597/98/15,
accoglieva il ricorso della società ( ).
Ha proposto appello il comune, deducendo l'inadeguata
argomentazione in ordine al metodo di stima adottato in
quanto per la stima del valore venale in comune commercio
all'01/01/2007, anno interessato dalle operazioni di controllo
e accertamento fiscale, il valore ottenuto all'01/01/2002 è
stato attualizzato attraverso indici che tenessero conto
dell'andamento del mercato immobiliare romano nel periodo
2002-2007. ( )
Il ricorso del comune è infondato e non merita accoglimento.
Deve preliminarmente rilevarsi che, nel caso di specie, non
sussistono i presupposti impositivi in ordine all'Ici: nella
fattispecie in esame, come in altre analoghe, non risulta
portato a termine il procedimento in base alla quale l'area
in questione, quale cosiddetta di atterraggio, risulti
effettivamente edificabile e attribuita come tale alla
contribuente.
Ne deriva che, non essendo ancora esercitabile lo ius
aedificandi, in mancanza della sottoscrizione di un'apposita
convenzione con il comune da parte della società, ma
configurandosi soltanto un'aspettativa in tal senso,
tendente appunto alla compensazione edificatoria, non sorge
il diritto a esigere la chiesta imposta. In più è da
rilevare, quanto al merito, che il valore di un'area
fabbricabile non può essere determinato utilizzando i valori
normali desunti dalle banche dati, trattandosi di mere
presunzioni che esulano dalle fattispecie concrete; inoltre,
anche la percentuale di riduzione sul coefficiente di
rivalutazione stabilita dal comune di Roma nella misura del
30%, risulta arbitrario e senza una plausibile valutazione.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in
dispositivo.
PQM
La Commissione rigetta l'appello e condanna l'Ufficio
alla rifusione delle spese processuali che liquida in
3.000,00, omnicomprensivi
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.02.2017). |
TRIBUTI:
Tarsu illegittima per il 2010 e a seguire.
Le somme relative alla richiesta di Tarsu per l'anno 2010 e
seguenti sono illegittime e quindi devono essere rimborsate
dall'ente impositore; con l'abrogazione della Tarsu
(articolo 49 del dlgs n. 22/1997) e l'introduzione del
Codice dell'ambiente, ogni eventuale delibera comunale
risulta, comunque, viziata in quanto priva di riferimento
normativo.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 24.11.2016 n. 7390/13/2016
emessa dalla Sez. XIII della Commissione tributaria
regionale del Lazio.
La vertenza riguarda un ricorso presentato avverso un
silenzio rifiuto del comune di San Giorgio a Liri per il
rimborso della Tarsu relativa all'anno 2010. Il contribuente
richiedente, riteneva che la Tarsu non fosse dovuta in
assenza di una legge che ne prevedesse l'applicabilità.
La
Commissione tributaria provinciale di Frosinone aveva
rigettato il ricorso; di diverso parere la Commissione
tributaria regionale del Lazio, che con la sentenza di cui
al commento, ha accolto l'appello del contribuente, e
disposto il rimborso della tassa richiesta in assenza di una
disposizione di legge. La materia dei rifiuti solidi urbani
nel corso degli anni è stata disciplinata da cinque diversi
principali interventi legislativi (come ben puntualizzato
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238 del
16/07/2009 in G.U. del 29/07/2009).
E ciò non poteva essere
diversamente, tenuto conto che l'articolo 23 della
Costituzione testualmente dispone che «Nessuna prestazione
personale o patrimoniale può essere imposta se non in base
alla legge (così detta riserva relativa di legge)».
Di
conseguenza è di palese evidenza la non legittimità
dell'intervento legislativo adottato con il dlgs n. 23/2011
che all'articolo 14, comma 7, dispone testualmente che «Sino
alla revisione della disciplina relativa ai prelievi
relativi alla gestione dei rifiuti solidi urbani, continuano
ad applicarsi i regolamenti comunali adottati in base alla
normativa concernente la tassa sui rifiuti solidi urbani e
la tariffa di igiene ambientale, restando, quindi, ferma la
possibilità per i comuni di adottare la tariffa integrata
ambientale».
Nel caso specifico, il collegio regionale
aggiunge che il comune di San Giorgio a Liri, peraltro
nemmeno costituito, nemmeno poteva considerarsi ancora in
termine per effetto di quanto previsto dall'articolo 53,
comma 16, della legge n. 388/2000, stante appunto
l'abrogazione della disciplina istitutiva della Tarsu. Il
collegio regionale capitolino, disapplicando la norma che
consente l'utilizzo di una norma ormai abrogata, ha accolto
l'appello e disposto il rimborso della Tarsu illegittima.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Tuttavia, l'attento esame delle pronunce citate a
sostegno di entrambi gli orientamenti espressi dalla Ctr di
Latina non rileva contraddittorietà tra le pronunce medesime
(e cioè tra le sentenze della Corte di cassazione, sez V, n.
3756/2012; della Corte costituzionale n. 238/2009; del
Consiglio di stato, sez. V, n 4756/2013).
Tale conclusione appare in effetti coerente sia con la
sentenza della Corte di cassazione n. 3756/2012 sia con la
sentenza della corte Costituzionale n. 238/2009 sia con la
sentenza del consiglio di stato, sez. V, n. 4756/2013 in
quanto con la prima la fattispecie esaminata dalla Suprema
Corte riguarda la fattispecie (diversa da quella in esame)
del passaggio dalla TIA/1 già istituita alla TIA/2 (laddove,
al punto 6 dei motivi della decisione, si trova affermato
che «la tariffa integrata ambientale, di cui al dlgs n. 152
del 2006, art. 238, è stata istituita previa soppressione
(e, dunque, in conseguente sostituzione) della tariffa
d'igiene ambientale. Per incidens, essa non risulta ancora
applicabile non essendo stato emanato il previsto
regolamento attuativo, di cui ai commi 3 e 6 della
disposizione citata. (...)».
Da quanto sopra precede, dopo l'abrogazione dell'art. 49 del
dlgs n. 22/1997 per effetto dell'entrata in vigore del Codice
dell'ambiente, non poteva più ritenersi consentito il
passaggio alla tariffa di igiene ambientale per la semplice
ragione che alla data del 30/05/2006 detta normativa (art. 49
del dlgs 22/1997) era ormai stata abrogata e dunque non era
più esistente; sicché la delibera emanata dal consiglio
comunale, peraltro non costituito in nessuno dei gradi di
giudizio e dimostrare il contrario, risulta viziata nella
parte in cui istituisce la TIA sulla base dell'art. 49 del
dlgs 22/1997, come modificato dall'art. 1, comma 28, della
legge n. 426 del 1998.
Alla luce di quanto precede non ha
pertanto fondamento neppure l'argomento secondo il quale il
comune poteva considerarsi ancora in termine per effetto di
quanto previsto dall'art. 53, comma 16, della legge n
388/2000, stante, appunto, l'abrogazione della disciplina
istitutiva della Tariffa di igiene ambientale.
Tale conclusione risulta in armonia anche con il disposto di
cui all'art. 1, comma 184, della legge n. 296/2006 in quanto,
alla data del 29.04.2006, il regime di prelievo relativo al
servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti adottato nel
comune per l'anno 2010 non era quello della TIA/1 e,
pertanto, si accoglie l'appello della contribuente. (...)
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017). |
VARI: La
scuola paga per la caduta del bimbo in cortile. Tribunale di
Treviso. Responsabilità.
Vanno risarciti i genitori del bimbo
che cade nel cortile dell’asilo se, né scuola, né insegnante
provano che l’infortunio é dipeso da causa loro non
imputabile. Al danneggiato, dunque, basterà dimostrare che
il fatto sia accaduto in orario e luogo scolastici, ossia
quando il figlio era sotto la responsabilità dell’istituto e
dei maestri.
Lo annota il TRIBUNALE di Treviso, Sez. I civile, con
sentenza 25.10.2016 n. 2615.
A promuovere la causa, sono i genitori di una bimba
scivolata, durante la ricreazione, nel cortile dell’asilo.
Sinistro –avvenuto mentre girava, in sella ad una
biciclettina priva di rotelle di sicurezza– di cui,
sostiene l’avvocato della coppia, erano responsabili maestra
e scuola.
Di qui, la domanda risarcitoria tesa ad avere un ristoro
economico per le lesioni subìte dalla piccola, che il
giudice trevigiano accoglie, condannando in solido i
convenuti. Nell’ipotesi di danno cagionato dall’alunno a se
stesso –ricorda il Tribunale– la responsabilità
dell’istituto scolastico e quella dell’insegnante «hanno
natura contrattuale e pertanto si applica il regime
probatorio imposto dall’articolo 1281 del codice civile
sicché, mentre il danneggiato deve provare esclusivamente
che l’evento si è verificato nel corso dello svolgimento del
rapporto, la scuola ha l’onere di dimostrare che l’evento è
stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né
all'insegnante».
Nel puntualizzarlo, la sentenza si allinea alla tesi –ribadita da Cassazione 20475/2015– per cui, in tema di
responsabilità dei soggetti obbligati alla sorveglianza di
minori, il regime probatorio non muta, sia che la si
riconduca alla presunzione di cui all’articolo 2048 del
Codice civile, comma 2 (responsabilità per fatti accaduti
sotto vigilanza del genitore, precettore o maestro) sia che
la si intenda come contrattuale (da negligente adempimento
dell’obbligo di sorveglianza).
D’altronde, cardine della responsabilità dell’insegnante per
il danno subito dall’allievo, è l’averne la custodia.
Ecco che, nel caso di specie, essendo stati provati –più
che la dinamica della caduta– il luogo e l’orario in cui
era avvenuta, ossia nel cortile dell’asilo e in orario
scolastico, gli unici a poter far qualcosa per fuggire alla
condanna per danni, erano proprio maestra e istituto che,
però, non avevano offerto alcuna prova che l'evento non
fosse loro imputabile. A nulla era valso, infatti, sostenere
l’imprevedibilità dell’agire della bimba che, per evitare
l’impatto con la direttrice (tenuta, invece, alla «dovuta
attenzione» nell’aggirarsi in un cortile destinato al gioco
di bimbi piccolissimi), aveva svoltato a U, frenando
bruscamente.
La scuola, poi, era responsabile, per «rapporto
negoziale generato dall’iscrizione del minore», di non aver
vigilato sulla sicurezza degli allievi, controllando la
corretta funzionalità dei giochi e omettendo «di adottare
misure di protezione e prevenzione quali l’utilizzo di
caschetti, ginocchiere o gomitiere». Accorgimenti il cui
uso, doveva essere monitorato dall’insegnante, anche
impedendo alla minore di adoperare una bici priva di
rotelle.
Riconosciuto, così, per i genitori, il risarcimento di un
danno di circa 20mila euro, onnicomprensivo –secondo
l’ottica delle sentenze “gemelle” di Cassazione (8827/2003 e
8828/2003)- di quello non patrimoniale personalizzato (articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2017). |
LAVORI PUBBLICI: L’appalto
non esonera il Comune. Risarcimenti. L’ente non può far
pagare all’impresa i danni per la caduta.
Per la caduta in una buca, l’ente
proprietario della via è responsabile nei confronti del
cittadino solo se il sinistro è dipeso da situazioni di
pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della
strada, non percepibili né prevedibili con l’ordinaria
diligenza.
Lo conferma la Corte
d’appello di Roma, con la
sentenza
13.10.2016 n. 6055 (presidente Reali, relatore
Mariani).
Il caso nasce dalla domanda di una donna che aveva citato
per danni Roma Capitale perché si era fratturata il malleolo
cadendo in una buca in un marciapiede. Richiesta accolta dal
tribunale, che aveva condannato Roma Capitale a versare il
risarcimento.
L’ente aveva impugnato la pronuncia, sostenendo che la
ricostruzione dei fatti era errata e che, in ogni caso,
l’eventuale responsabilità sarebbe da addebitare alla ditta
appaltatrice della manutenzione della strada, chiamata in
giudizio per la manleva. La Corte, però, non concorda e
boccia il ricorso del Comune.
Secondo i giudici, la donna,
nel dimostrare di essersi infortunata cadendo in un fosso
piccolo ma profondo, non segnalato né transennato, aveva
assolto all’onere probatorio richiesto dall’articolo 2043
del Codice civile in caso di responsabilità
extracontrattuale. Era palese, quindi, la colpa specifica
dell’ente tenuto, secondo l’articolo 14 del Codice della
strada, a garantire la sicurezza della circolazione, con
manutenzione, pulizia e gestione delle vie.
Inoltre, la responsabilità non può essere addebitata
esclusivamente all’impresa appaltatrice, non potendo il
Comune -proprietario del marciapiede e, quindi, obbligato a
custodirlo in base all’articolo 2051 del Codice civile–
liberarsi da ogni debito adducendo di averne appaltato la
manutenzione a una società, se non dimostra di averle anche
trasferito «integralmente il potere di fatto sulla porzione
interessata da lavori».
La Corte, quindi, inquadrata la
fattispecie nell’alveo della responsabilità
extracontrattuale (per la presenza dell’insidia) e di quella
da custodia (per i rapporti con l’appaltatrice), ha
dichiarato infondato il ricorso di Roma Capitale, non
essendo emersa alcuna prova che l’ente avesse passato alla
ditta ogni potere e dovere di controllo e manutenzione del
tratto incriminato.
Secondo il collegio, la norma del
capitolato speciale di appalto, che prevede la
responsabilità dell’appaltatore per i danni derivanti da
mancata sorveglianza o tardivo intervento, è semplice
previsione “di stile”, inidonea a «determinare la chiara
manifestazione di volontà di esonero della posizione del
Comune quale custode del territorio e delle strade con
relative pertinenze». D’altronde, il committente non è
esonerato da responsabilità per il solo fatto di aver
appaltato lavori o servizi (si veda la sentenza 3793/2014
della Cassazione) (articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2017). |
VARI: PATENTE/
I requisiti di sicurezza sotto la
lente.
Niente di più sbagliato che litigare con gli agenti di
polizia e ripartire a tutto gas in barba alle regole di
sicurezza. In questo caso la segnalazione dei vigili alla
motorizzazione attiva la possibile revisione della patente
per dubbi sulla persistenza dei requisiti per guidare.
Lo ha chiarito il TAR Sardegna, Sez. I, con la
sentenza
29.09.2016 n.
743.
Un autista munito di tagliando
per la circolazione e la sosta dei veicoli al servizio delle
persone invalide ha litigato con la polizia municipale in
prossimità di una scuola ripartendo a tutta velocità e
creando pericolo per la circolazione.
Al ricevimento della
segnalazione la motorizzazione di Cagliari ha adottato un
provvedimento di revisione della licenza di guida, per
possibili dubbi sulla persistenza dei requisiti di idoneità
del soggetto. Contro questa determinazione l'interessato ha
proposto censure al collegio ma senza successo.
Il
provvedimento non ha alcuna valenza sanzionatoria ma serve
solo per verificare l'idoneità dell'autista messa in dubbio
dal suo comportamento di guida
(articolo ItaliaOggi del 07.02.2017). |
APPALTI: L'anomalia
scatta con l'aggiudicazione.
Nelle gare d'appalto il momento in cui la soglia di anomalia
viene cristallizzata in modo intangibile coincide con l'
aggiudicazione definitiva.
Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. I, con la
sentenza n. 1372 del 19.09.2016.
La controversia era nata perché la stazione appaltante, dopo
la riammissione in gara di alcune ditte inizialmente
espulse, aveva proceduto al ricalcolo della soglia di
anomalia. Ciò aveva portato all'esclusione dell'offerta
della ricorrente, giudicata anomala. Per determinare il
momento in cui la soglia di anomalia viene fissata in modo
irreversibile, il Collegio ha puntato l'attenzione
sull'esegesi della locuzione usata dal legislatore
nell'ultima parte dell'art. 38, comma 2-bis, dlgs n.
163/2006.
Il confine invalicabile previsto dalla norma fa riferimento
a «ogni variazione che intervenga successivamente alla
fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle
offerte». Ai fini della soluzione ermeneutica va
preliminarmente tenuto a mente che in questo contenzioso non
si era proceduto né all'aggiudicazione definitiva, né a
quella provvisoria.
Partendo anche da tale presupposto, il consesso fiorentino
ha rimeditato il proprio orientamento. Col richiamo a «ragioni
di carattere sistematico e logico», l'organo giudicante
ha prescelto la soluzione che esclude il potere della
stazione appaltante di agire in autotutela solo dopo
l'adozione dell'atto di aggiudicazione definitiva, rimanendo
quindi possibile prima di tale momento.
Da notare in sentenza la precisazione che è anche vero che
la norma citata potrebbe legittimare una diversa
interpretazione maggiormente restrittiva circa i poteri
d'intervento dell'amministrazione. In pratica l'interprete
deve ritenere che il divieto di ricalcolo delle soglie e
delle medie operi solo dopo la conclusione di una «fase
effettiva» della procedura di evidenza pubblica
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIPRISTINO DEI LUOGHI O PAGAMENTO DI SOMMA:
CONDIZIONI.
Obblighi concordati con l’ente pubblico per la messa in
sicurezza
di un’area- Inadempimento - Condanna al pagamento
di una somma di denaro - Valutazione equitativa.
Art. 18, Legge n. 349/1986.
La previsione secondo cui il giudice
disponga, ove possibile,
il ripristino dello stato dei luoghi, presuppone
che il soggetto condannato sia colui il quale abbia arrecato
il danno all'ambiente.
Nel caso in cui, invece, il
convenuto sia stato inadempiente rispetto agli obblighi
concordati con l’ente pubblico e finalizzati alla messa in
sicurezza di un’area, accertata la responsabilità dello
stesso non può censurarsi la pronuncia di merito che
abbia condannato il medesimo al pagamento di una
somma di denaro disposta in via equitativa.
Un comune aveva rilasciato ad una Società l’autorizzazione
per l'esecuzione dei lavori di messa in sicurezza di
un'area,
di proprietà della Società stessa; area che era stata
adibita,
da altro soggetto, a discarica abusiva di rifiuti
industriali
pericolosi (fanghi da attività metallurgiche).
Tuttavia, i
lavori
in questione non venivano eseguiti e la fideiussione
rilasciata
dalla Società a garanzia del proprio impegno si rivelava
inutilizzabile (in quanto prestata da una società già
cancellata dal relativo albo e poi dichiarata fallita).
Il Comune agì quindi in giudizio chiedendo che detta Società
fosse condannata al risarcimento del danno ambientale,
ai sensi della legge 08.07.1986, n. 349, art. 18,
conseguente
all'inadempimento rispetto agli obblighi concordati
e finalizzati alla messa in sicurezza dell’area in
questione.
Il Tribunale accolse la domanda, condannando la Società
convenuta al pagamento di una somma di denaro a favore
del Comune.
Respinto dalla Corte d’appello il gravame proposto dalla
Società convenuta, la controversia giungeva dinanzi alla
Suprema Corte di Cassazione, la quale si è trovata a
pronunciarsi
in merito ad alcuni dei principali meccanismi risarcitori
del danno ambientale derivanti dall’applicazione
del richiamato art. 18, legge n. 349/1986.
La questione concerne, in particolare, il tema della
condanna
al ripristino dello stato dei luoghi a spese del
responsabile:
la società ricorrente lamentava, infatti, dinanzi alla
Suprema
Corte che, a norma del citato art. 18, comma 8, il rimedio
del ripristino dello stato dei luoghi a spese del
responsabile,
da ritenere di carattere prioritario, è obbligatorio
per legge: da ciò deriverebbe che la condanna al pagamento
di una somma di denaro costituirebbe, nella specie,
una palese violazione della norma suindicata.
La censura risulta infondata.
In via generale, la Cassazione ricorda innanzitutto sul
punto
quanto segue:
- il risarcimento del danno ambientale deve comprendere
sia il pregiudizio patrimoniale arrecato ai beni pubblici o
privati sia quello non patrimoniale, rappresentato dal
vulnus
all'ambiente in sé e per sé considerato, cioè come bene
immateriale (si veda al riguardo Cass. n. 10118/2008 e
n. 25010/2008);
- a tal fine la legge n. 349/1986, art. 18 -norma abrogata
ma comunque applicabile nella presente fattispecie ratione
temporis- ha collocato l'obbligo risarcitorio nell'ambito
più
vasto della responsabilità extracontrattuale (si veda al
riguardo
anche C. Cost. n. 641/1987);
- in tale contesto, l'art. 18, comma 8, prevede che il
giudice
nella sentenza di condanna dispone, ove possibile, il
ripristino
dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
Ciò posto la Cassazione osserva che si tratta di un
“principio
coerente con gli obiettivi che quella legge si prefiggeva e
che sono stati portati ad ulteriore compimento con la
normativa
successiva”: la previsione del ripristino risponde, in
particolare, “alla ovvia e comprensibile finalità di far sì
che
colui il quale danneggia l'ambiente sia tenuto, innanzitutto
e
fin dove possibile, ad una sorta di restitutio in integrum”.
Al rimedio del ripristino dello stato dei luoghi, però, va
condannato,
appunto, colui il quale danneggia l’ambiente.
Nel caso di specie, invece, il responsabile del danno
arrecato
all'ambiente non era la società in questione, bensì -come detto- coloro i quali avevano in passato adibito
l'area
a discarica abusiva di rifiuti industriali pericolosi.
Da ciò discende, illustra la pronuncia in commento, che
l'obbligo di messa in sicurezza del terreno costituiva, come
correttamente rilevato dal Giudice di merito, proprio
l'oggetto
dell'obbligazione a carico della Società convenuta.
Società che rispetto a tale obbligazione era rimasta
inadempiuta;
ne consegue, prosegue la Cassazione, che “censurare
la sentenza per la mancata previsione dell'obbligo di
ripristino dello stato dei luoghi si risolve, in sostanza,
nel
censurare la mancata concessione di un ulteriore termine
per l'adempimento in favore di chi era già inadempiente”.
La condanna al pagamento di una somma di denaro va
quindi confermata, essendo in tal caso conforme al dettato
normativo in questione.
La pronuncia in commento analizza, poi, anche la tematica
del quantum del risarcimento.
Secondo la Società ricorrente, infatti, l’art. 18 in
questione
indica la possibilità di una determinazione del danno in via
equitativa ove non sia possibile una precisa determinazione
del medesimo, con la conseguenza che, in considerazione
del carattere eccezionale della disposizione, il giudice del
merito avrebbe dovuto valutare precise prove del danno,
che il Comune avrebbe dovuto fornire.
Anche su tale aspetto la Cassazione giudica corretta la
decisione
impugnata in quanto la Corte d'appello, spiegano i
Giudici di legittimità, dato conto del costo del ripristino
dell'area,
ha incrementato tale somma in considerazione del
tempo trascorso e del ragionevole profitto che la Società
aveva comunque ottenuto dal complessivo risparmio.
La Società aggiunge infine che l’avere innalzato il
risarcimento,
rispetto alla somma prevista per la messa in sicurezza,
di circa 200.000 euro, come fatto dal Giudice d’appello,
costituirebbe una sorta di indebita sanzione a carico
della parte, non prevista dalla legge.
La Suprema Corte, invece, illustra, che trattasi di
liquidazione
fatta con criteri presuntivi ed equitativi, di un danno che
l'inadempimento
della Società ricorrente ha senza dubbio arrecato
al Comune, costretto a rivolgersi ad altri per ottenere la
messa in sicurezza dell'area: anche l'incremento della
somma, quindi, di carattere risarcitorio, si giustifica
pienamente (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 22.05.2015 n. 10532 - Ambiente &
sviluppo 8-9/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO ILLECITO: CONFISCA VEICOLO.
Rifiuti - Legge dell’emergenza - Veicolo utilizzato per
trasporto
illecito - Obbligatorietà della confisca.
Art. 6, legge n. 210/2008.
L'art. 6, comma 1-bis, legge n. 210/2008
prevede, per
tutte le fattispecie penali di cui al predetto articolo,
poste
in essere con l'uso di un veicolo, che si proceda, nel
corso delle indagini preliminari, al sequestro preventivo
del medesimo veicolo, disponendo che, alla sentenza di
condanna, consegua la confisca del veicolo stesso.
La
confisca del mezzo ha pertanto luogo anche nelle ipotesi
di trasporto illecito di rifiuti e di realizzazione
dell'attività
di miscelazione di categorie diverse di rifiuti pericolosi
di cui all'Allegato G della Parte IV D.Lgs. n.
152/2006 ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non
pericolosi
(art. 6, lett. g).
Nella specie, il tribunale della libertà di Messina
rigettava
l'appello proposto avverso il rigetto della richiesta di
dissequestro
di un autocarro Fiat Iveco il cui vincolo era stato
imposto in quanto il figlio dell'appellante era imputato di
aver effettuato, utilizzando il predetto autocarro,
un'attività di raccolta e di trasporto di rifiuti speciali
pericolosi e non,
in mancanza di autorizzazione e di avere effettuato
un'attività
di miscelazione di rifiuti pericolosi e non pericolosi (art.
6, lett. d) e g), legge n. 210/2008).
Avverso il provvedimento di rigetto, veniva proposto ricorso
per cassazione in cui il ricorrente assumeva di essere un
autotrasportatore, oltre che titolare del mezzo sequestrato;
che egli era stato affetto da ("gastroenterite acuta") con
tre
giorni di prognosi e che perciò non poteva recarsi al
lavoro;
che, per tale motivo, il figlio si era recato, alla guida
dell'autocarro
in questione, presso il detentore del materiale R.G.
al fine di raccogliere il materiale e consegnarlo a M.r.snc.
Si doleva, pertanto, del fatto che l'ordinanza impugnata
non si fosse fatta carico di alcuna motivazione diretta ad
inquadrare la legittimità del provvedimento di sequestro,
omettendo di considerare che, ai fini del sequestro
preventivo
di cosa di cui è consentita la confisca, è necessario
uno specifico, non occasionale e strutturale nesso
strumentale
tra res e reato. Il fatto che, il giorno in cui fu
sequestrato
il mezzo, l'autocarro fosse condotto da G.R.,
mentre il ricorrente era assente per malattia dall'azienda,
costituiva invece elemento di estraneità del ricorrente alla
realizzazione del reato.
Il ricorso è stato rigettato perché il tribunale cautelare
aveva
sostenuto che non fosse stata provata la buona fede del
proprietario del mezzo in considerazione del rapporto di
lavoro,
anche se in prova, espletato da G.R. nell'azienda del
padre. Quest'ultimo, pur avendo comprovato di essere affetto
da "gastroenterite acuta" con prognosi di tre giorni,
non aveva affatto provato, essendo il certificato medico
silente
sul punto, l'impossibilità a deambulare e pertanto la
dedotta malattia, secondo il Collegio cautelare, non
costituiva
prova che lo stesso non si fosse recato sul posto di
lavoro.
Al ricorrente, in altre parole, è stato accollato un
addebito
di negligenza per difetto di vigilanza perché non aveva dato
la prova di non aver impedito che il figlio, con l'uso del
veicolo
sequestrato, commettesse i reati ambientali contestati,
in una zona ove era stato dichiarato lo stato di emergenza
nel settore dello smaltimento dei rifiuti.
La Corte ha poi ribadito che l'art. 6, comma 1-bis, legge n.
210/2008 per tutte le fattispecie penali di cui al predetto
articolo,
poste in essere con l'uso di un veicolo, prevede che
si proceda, nel corso delle indagini preliminari, al
sequestro
preventivo del medesimo veicolo, disponendo che, con la
sentenza di condanna, consegua la confisca del veicolo
stesso.
Ne consegue che la norma va annoverata nel gruppo di
disposizioni
che rendono obbligatoria la confisca, in deroga
al regime generale di tipo facoltativo di cui all'art. 240
cod.
pen. sicché il mezzo di trasporto utilizzato per il traffico
o
per il trasporto illecito di rifiuti, o per le altre ipotesi
tipizzate,
è oggetto di una presunzione legislativa di pericolosità
che ne giustifica la confisca.
La Corte ha concluso che, nel caso di specie, il nesso di
strumentalità tra sequestro e reato era di palmare evidenza,
con riferimento ovviamente al soggetto cui il fatto è stato
addebitato (ossia il figlio del ricorrente) ed ha altresì
ricordato
che non si è mai dubitato che la misura di sicurezza
non possa essere applicata anche quando il mezzo sia,
come nella specie, di proprietà di un soggetto terzo
estraneo
al reato, purché sia accertato che l'utilizzo del veicolo,
per una delle condotte vietate, sia avvenuto per negligenza
del terzo estraneo, ossia ove si dimostri che questi abbia
violato le regole di diligenza o che non versi in buona
fede,
intesa, quest'ultima, come assenza di condizioni che rendano
probabile a carico del terzo un qualsivoglia addebito di
negligenza da cui sia derivata la possibilità dell'uso
illecito
della cosa e senza che esistano collegamenti, diretti o
indiretti,
ancorché non punibili, con la consumazione del reato
e con l’ulteriore precisazione che incombe sul terzo, che
chiede la restituzione del bene, la dimostrazione rigorosa
degli indicati presupposti (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.05.2015 n. 18515
- Ambiente & sviluppo 8-9/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: SOTTOPRODOTTI.
Rifiuti - Sottoprodotti - Riutilizzo di materiali di scarto
nella
realizzazione di manufatti.
Art. 184-ter, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Secondo il D.M. 08.05.2003, n. 203,
che regolamenta
l’uso dei materiali riciclati per la realizzazione di
manufatti,
detti materiali (fra i quali certamente rientrano i
prodotti di scarto rispetto a quelli di natura litoide),
classificabili ex art. 2, comma 1, lett. a) come “rifiuti
derivati
dal post-consumo”, costituiscono rifiuti che devono
essere assoggettati ad un trattamento specifico prima
di essere reimpiegati per la realizzazione di manufatti.
Nella specie si contestava a tal B., nella sua qualità di
amministratore
unico dell’impresa B. s.p.a., di avere realizzato
opere edilizie utilizzando ghiaia mista a materiale vario
(lattine,
bottiglie, sacchetti e legno) derivante dalla vagliatura
della sabbia estratta dal lago d'Iseo.
Per l'annullamento della sentenza di condanna, il B.
ricorreva
per cassazione deducendo erronea applicazione e/o
inosservanza del D.Lgs. n. 152/2006 e del D.M. 08.05.2003 n. 203, nonché vizio di travisamento della prova e
manifesta illogicità della motivazione in ordine alla
qualificazione,
come rifiuto, del materiale estratto dall'impresa e
posizionato in parte dell'area di proprietà dell’impresa
medesima.
Per affrontare queste tematiche, la Cassazione ha ricordato
che la Corte di appello aveva, anzitutto, riconosciuto che
il
materiale che l'impresa B. s.p.a. aveva utilizzato per
realizzare
un piazzale di circa 3.000 mq. corrispondente a quasi
1/5 dell'area di pertinenza della società a ridosso della
foce
del fiume Oglio (estesa in totale 14.991 mq.) era lo stesso
che l'impresa estraeva dal fondo del lago d'Iseo.
La Corte territoriale, pur dando atto dell'esistenza di
materiale
escavato di natura mista e pur riconoscendo la bontà
della tesi difensiva circa la necessità di una operazione
preliminare
di selezione del materiale attraverso la vagliatura,
era però giunta alla conclusione, avvalorata dalla
constatazione
diretta del teste del Corpo Forestale dello Stato e dalle
fotografie in atti, che i residui (a detta del ricorrente di
trascurabile portata) esistenti nel materiale adoperato per
la sistemazione del piazzale fossero, invece, in quantità
nettamente superiore, tanto da notarsi "ad occhio nudo":
da qui la considerazione che tale materiale dovesse
considerarsi
rifiuto, non pericoloso, stoccato sull'area.
Insomma, il materiale estratto non era solo di origine
litoide,
ma conteneva residui di altra variegata natura. Vero è -come asserito dal ricorrente- che l'art. 1 ultimo capoverso
del D.M. Ambiente 12.08.2012, n. 161 attuativo dell'art.
186 D.Lgs. n. 152/2006 precisa che i materiali da scavo
possono contenere anche altri elementi quali calcestruzzo,
bentonite, pvc, vetroresina, miscele cementizie e additivi
per scavo meccanizzato, ma la Corte distrettuale aveva
evidenziato che nel materiale estratto erano presenti
componenti
quali, legno, lattine e bottiglie che non rientravano
di certo nel materiale "aggiuntivo" indicato dal detto art.
1.
Inoltre, la Cassazione ha sostenuto che il ricorrente aveva
reiterato censure cui la Corte di merito aveva dato ampia e
convincente risposta, con particolare riguardo
all'affermazione
che il materiale depositato dall’impresa fosse solo
materia prima, mentre la sentenza impugnata aveva precisato
che, oltre alla materia prima, vi erano altri componenti
non consentiti, costituenti materiali di scarto da
qualificare
come rifiuti.
Al riguardo, la Corte d’appello, con riferimento al D.M.
Ministero
Ambiente 08.05.2003, n. 203, asseritamente
violato secondo la tesi del ricorrente, aveva opportunamente
rimarcato che tale normativa mira a disciplinare l'uso dei
materiali riciclati per la realizzazione di manufatti,
traendone,
quale conseguenza logica, la conclusione che i materiali
riciclati -quali certamente i prodotti di scarto rispetto a
quelli di natura litoide- classificabili come "rifiuti
derivanti
dal post-consumo" (art. 1, lett. a), del detto D.M.)
costituiscono
rifiuti che debbono essere assoggettati ad un trattamento
specifico, con l'ulteriore conseguenza che, laddove
impiegati per la realizzazione di manufatti (come, nel caso
di specie, il piazzale) integrano il reato di cui all'art.
256,
D.Lgs. n. 152/2006.
La sentenza, infine, ha preso posizione in ordine
all'asserita
esistenza dei requisiti richiesti dall'art. 184-ter per far
sì che
un determinato prodotto venga escluso dalla qualifica di
rifiuto:
correttamente, la Corte di merito aveva escluso che
tali requisiti, o almeno parte di essi (l'esistenza di un
mercato
commerciale e l'assenza di impatto per l'ambiente)
fossero presenti, avendo affermato che «non può di regola
ritenersi oggetto di commercializzazione materiale litoide
non correttamente vagliato o separato e che tali rifiuti,
per
la loro quantità, avevano determinato un impatto negativo
sull'ambiente tanto da indurre il Comune interessato ad
emettere una serie di ordinanze di rimessione in pristino»
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17114 - Ambiente &
sviluppo 8-8/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: NOZIONE DI SCARICO.
Acque - Nozione di scarico - Rifiuti liquidi - Rapporto tra
le normative.
Artt. 137, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
La disciplina sugli scarichi trova
applicazione soltanto
se il collegamento tra ciclo di produzione e recapito finale
sia diretto ed attuato mediante un sistema stabile
di collettamento. Se presenta, invece, momenti di soluzione
di continuità, di qualsiasi genere, si è in presenza
di un rifiuto liquido, il cui smaltimento deve essere come
tale autorizzato.
Il titolare di un’azienda zootecnica riversava i reflui,
relativi
a 750 capi di bestiame, mediante ruscellamento su un terreno
incolto; i reflui si immettevano poi in un canale
sottostante,
a sua volta confluente nel torrente Alimenta, da
considerare acqua pubblica così danneggiando un bene
appartenente al demanio. Per questi fatti si ipotizzava nei
confronti di tal D. il reato di cui all’art. 256, D.Lgs. n.
152/2006 e 635 cod. pen..
La presente pronuncia ha per oggetto l’esame del ricorso
per cassazione del Procuratore della Repubblica avverso
l’ordinanza di revoca del sequestro preventivo operato di
iniziativa dalla polizia giudiziaria e riguardante un
terreno
aziendale di circa due ettari.
Nel ricorso il Pubblico Ministero faceva presente che l'area
in questione era interessata dallo sversamento di reflui
zootecnici,
precedentemente raccolti in vasche ormai ricolme
e invase da vegetazione spontanea, nonché dall'abbandono
di un grosso quantitativo di reflui palabili e non palabili.
Rilevava perciò che la condotta, contrariamente a quanto
opinato dal Tribunale, era penalmente rilevante in quanto
non era corretta l’equiparazione delle acque reflue
provenienti
da imprese dedite ad allevamento di bestiame alle
acque reflue domestiche. Osservava, inoltre, che nella
fattispecie
non era applicabile la disciplina degli scarichi, ma
quella dei rifiuti, tali essendo quelli versati sull'area in
sequestro,
risultando documentato in atti che i reflui riempivano
le vasche, per poi tracimare e raggiungere, mediante
ruscellamento, il terreno incolto, ove ristagnavano per poi
immettersi nel corso d'acqua.
Il ricorso è stato accolto.
La Corte ha premesso che il Tribunale, dopo aver dato atto
della condotta contestata e dell'esito del sopralluogo
effettuato
dalla polizia giudiziaria, osservando al riguardo che i
reflui zootecnici venivano immessi «in due vasche con
formazione
di un canale naturale e versamento in un terreno
retrostante incolto di proprietà dell'istante con ruscellamento
nel torrente», aveva richiamato il contenuto dell'art.
101, comma 7, D.Lgs. n. 152/2006 e l'assimilazione delle
acque reflue provenienti da imprese dedite all'allevamento
di bestiame a quelle domestiche e quindi aveva posto in
evidenza la depenalizzazione conseguente a tale
assimilazione
e la rilevanza solo amministrativa della condotta, che
indicava come l'unica contestata (il Tribunale, infatti,
aveva
osservato che nulla emergeva in merito al danneggiamento
delle acque, pure oggetto di contestazione).
Per la Cassazione era chiara la fattispecie: questa non
poteva
essere correttamente inquadrata quale scarico di acque
reflue, trattandosi di un abbandono di rifiuti.
Gli effluenti, infatti, non defluivano in condotte di
scarico,
ma raggiungevano direttamente un terreno incolto, sul
quale ristagnavano per poi immettersi nel torrente
sottostante
e ciò indicava chiaramente l'insussistenza dei presupposti
per qualificare la condotta come scarico.
Dopo aver ricordato che i rapporti tra la normativa sulla
tutela
delle acque e quella in tema di rifiuti sono stati più volte
presi in considerazione dalla giurisprudenza di legittimità,
la sentenza ha osservato che la disciplina delle acque è
applicabile quando si è in presenza di uno scarico, anche
se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque
reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed
effettuato
tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile;
in tutti gli altri casi, nei quali manchi il nesso
funzionale e
diretto delle acque reflue con il corpo recettore, si
applicherà,
invece, la disciplina sui rifiuti.
Nella specie, la raccolta nelle vasche interrompeva la
necessaria
continuità tra il luogo in cui i reflui venivano prodotti
(le stalle o gli altri ambienti dell'allevamento) e il
recapito
finale (il torrente) e, in ogni caso, il percorso seguito
dai reflui mancava comunque di continuità, considerando
che, all'iniziale collocazione nelle vasche di raccolta,
seguiva
la tracimazione, il ristagno su un terreno incolto e il
successivo
ruscellamento fino al torrente.
Secondo la Cassazione, si trattava di una situazione che
non era possibile qualificare come «scarico», in quanto,
sebbene tale nozione non richieda la presenza di una
«condotta» nel senso proprio del termine, costituita da tubazioni
o altre specifiche attrezzature, vi è comunque la necessità
di un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che
comunque
canalizza, senza soluzione di continuità, in modo
artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore.
E’ stato conseguentemente ribadito che la disciplina sugli
scarichi trova applicazione soltanto se il collegamento tra
ciclo di produzione e recapito finale sia diretto e attuato
mediante un sistema stabile di collettamento. Se presenta,
invece, momenti di soluzione di continuità, di qualsiasi
genere,
si è in presenza di un rifiuto liquido il cui smaltimento
deve essere come tale autorizzato (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.04.2015 n. 16623 - Ambiente &
sviluppo 8-9/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ILLECITO AMBIENTALE DI UN COMUNE: GIURISDIZIONE.
Comune titolare di uno scarico autorizzato dalla Provincia
- Violazione delle prescrizioni dell’autorizzazione -
Ordinanza
ingiunzione emessa dalla Provincia - Opposizione
del Comune- Giurisdizione del giudice ordinario.
Art. 133, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006.
Il Comune titolare di uno scarico
autorizzato dalla Provincia
che violi le prescrizioni contenute nel provvedimento
di autorizzazione, commette l’illecito amministrativo
di cui all'art. 133, comma 3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152.
Pertanto, l'opposizione del Comune all'ordinanza
ingiunzione emessa dalla Provincia per detto illecito
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.
Con ordinanza-ingiunzione la Provincia di Bergamo aveva
irrogato una sanzione al Comune di Carona per la violazione
del D.Lgs. n. 152/2006, art. 133, comma 3, avendo il
Comune mantenuto uno scarico senza osservare le prescrizioni
indicate nel provvedimento provinciale di autorizzazione
(l'impianto di depurazione di immissione di acque reflue
urbane in corsi d'acqua superficiali, provenienti dalla
pubblica
condotta di fognatura comunale, aveva superato più
volte un parametro massimo prescritto nell'autorizzazione).
La relativa controversia è oggetto di regolamento di
competenza,
sostenendosi che con l'ingiunzione emessa a norma
della legge n. 689/1981, sia stata erroneamente incardinata
la giurisdizione ordinaria, come se il Comune fosse
un soggetto privato che produce reflui urbani, e non un
soggetto che concorre con la Provincia per i fini di cui al
D.Lgs. n. 152/2006 (e in particolare per l'abbattimento dei
parametri inquinanti); con la conseguenza, sostiene il
Comune
ricorrente, che il conflitto è tra due enti territoriali e
perciò dovrebbe radicarsi la giurisdizione amministrativa,
ai
sensi della legge n. 133/2000, art. 133, comma 1, punto v).
La Cassazione conferma invece la giurisdizione del giudice
ordinario.
Al riguardo la Suprema Corte, all’esito di una lunga
disamina
di tutta la normativa di settore, illustra come, per la
difesa
del suolo, la tutela delle acque dall'inquinamento e la
gestione delle risorse idriche, la disciplina degli scarichi
sia
unitaria; con la conseguenza che essa risulta applicabile a
chiunque sia autorizzato allo scarico in corpi recettori
idrici
(che perciò è obbligato a rispettare le prescrizioni
limitative
e conformative contenute nel provvedimento autorizzatorio
per la tutela della qualità dell'acqua).
Ne consegue che il Comune che sia titolare dello scarico
finale
in corsi d'acqua superficiali delle acque reflue urbane
provenienti dalla pubblica fognatura dell'agglomerato, e
gestore
del relativo impianto di depurazione, risulta destinatario
dell'obbligo di rispettare le prescrizioni a tutela
dell'ambiente
dall'inquinamento contenute nell'autorizzazione (esso
era nella specie, in particolare, tenuto a verificare
l’idoneità
del trattamento di depurazione a mantenere le acque reflue
nei limiti ammessi e in caso contrario, prosegue la
Cassazione,
ad attivarsi per i necessari trattamenti stabiliti per non
superare i limiti di accettabilità delle sostanze
inquinanti).
Pertanto, non scaturendo il rapporto instauratosi per
effetto
dell’autorizzazione provinciale in questione tra Provincia
e Comune non scaturisce da un accordo tra pubbliche
amministrazioni
(D.Lgs. 02.07.2010, n. 104, art. 133, lett. a),
n. 1), ovvero da procedura di affidamento di un pubblico
servizio (art. 133, lett. e), n. 1, stesso D.Lgs.), la
violazione
delle prescrizioni contenute nell'atto di autorizzazione
allo
scarico configura un illecito amministrativo comune ex art.
133, comma 3, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152.
Ciò posto, la Suprema Corte osserva che:
- per disposizione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 135,
all'irrogazione
delle sanzioni amministrative pecuniarie "provvede,
con ordinanza-ingiunzione ai sensi degli artt. 18 e
seguenti
della legge 24.11.1981, n. 689, la regione ...", ma,
la
Regione Lombardia, con la legge n. 26/2003, art. 43, comma
1, lett. b), ha attribuito alle province "l'attività
sanzionatoria";
- il D.Lgs. n. 150, art. 6, comma 4, lett. c) del primo
settembre
2011, dispone che l'opposizione all'ordinanza - ingiunzione
si propone davanti al Tribunale, anziché davanti al Giudice
di Pace, quando la sanzione è stata applicata per una
violazione
concernente disposizioni in materia di "tutela dell'ambiente
dall'inquinamento, della flora, della fauna e delle aree
protette" (applicabile al procedimento in questione).
In conclusione, la giurisdizione spetta quindi all'autorità
giudiziaria ordinaria (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 26.03.2015 n. 6059 - Ambiente &
sviluppo 8-9/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO.
Rifiuti - Trasporto abusivo - Terzo proprietario del mezzo -
Onere della prova per evitare la confisca del veicolo.
Artt. 256, 260-ter, D.Lgs. n. 152/2006.
In tema di sequestro di mezzi di
trasporto per i quali è
obbligatoria la confisca, il terzo proprietario che invochi
la restituzione delle cose sequestrate, è tenuto a provare
l'estraneità al reato e la buona fede, intesa come assenza
di condizioni tali da configurare a suo carico un
qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata
la possibilità dell'uso illecito del bene.
Avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame che
aveva rigettato la richiesta di riesame presentata
nell'interesse
della ricorrente e avente a oggetto il decreto di sequestro
preventivo di un autocarro in relazione al reato di
trasporto abusivo di rifiuti, Fe.Mo. proponeva
ricorso
deducendo che i giudici avevano rigettato la sua richiesta
di riesame senza fornire alcuna motivazione; in particolare,
la ricorrente si doleva del fatto che il tribunale non
aveva ritenuto applicabile al caso in esame una norma
(l'art. 260-ter D.Lgs. n. 152/2006) che, invece, si
applicherebbe
alla raccolta e al trasporto abusivo di rifiuti non
pericolosi;
i giudici del riesame, poi, avevano richiesto un onere
probatorio a carico della ricorrente anziché a carico del
PM, senza poi entrare nel merito della questione, non
valutando
la conformità alla legge del provvedimento di sequestro.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso osservando
che il tribunale correttamente aveva escluso l'applicabilità
al caso in esame dell'art. 260-ter, comma 4, che prevede la
confisca in caso di trasporto abusivo di rifiuti pericolosi
"salvo che gli stessi appartengano non fittiziamente a
persona
estranea al reato".
Infatti, il Tribunale aveva enunciato che: a) era comprovato
che nessuno degli indagati (la ricorrente, proprietaria del
mezzo, e gli esecutori del trasporto) risultavano essere in
possesso delle necessarie autorizzazioni e che il co-indagato
aveva prodotto tre ricevute di vendita di materiale ferroso
alla ditta B.; b) che la reiterazione di tale commercio
dimostrava
che non si trattava di un episodio casuale e che
la ricorrente non poteva ignorare l'impiego che i suoi
"amici"
facevano del veicolo sequestrato; c) che nessuna prova
vi era in atti sulle ragioni della titolarità del veicolo da
parte
della ricorrente.
Il supremo Collegio ha poi osservato che la norma evocata
dalla ricorrente presuppone che gravi a carico del
proprietario
del mezzo adibito al trasporto abusivo, che assume di
essere estraneo al reato da terzi commesso, l'onere
probatorio
di dimostrare di esserlo "non fittiziamente".
Alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte (che
ha affermato in più occasioni come in tema di sequestro di
cose pertinenti al reato che ne renda obbligatoria la
successiva
confisca, il terzo che invochi la restituzione delle
cose sequestrate, qualificandosi come proprietario o
titolare
di altro diritto reale è tenuto a provare i fatti
costitutivi
della sua pretesa e, in particolare, oltre alla titolarità
del diritto
vantato, anche l'estraneità al reato e la buona fede, intesa
come assenza di condizioni in grado di configurare a
suo carico un qualsivoglia addebito di negligenza da cui
sia derivata la possibilità dell'uso illecito del bene), era
dunque
corretta l'affermazione del tribunale del riesame che
aveva sottolineato che la ricorrente, dichiaratasi
asseritamente
estranea al trasporto abusivo di rifiuti, avrebbe dovuto
fornire prova della sua buona fede e di non aver violato i
propri obblighi di diligenza (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.03.2015 n. 12245 - Ambiente &
sviluppo 8-8/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: VEICOLI FUORI USO.
Rifiuti - Veicoli fuori uso - Natura di rifiuto pericoloso -
Necessità di particolari accertamenti - Esclusione.
Artt. 184, 227, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
La natura di rifiuto pericoloso di un
veicolo fuori uso
non necessita di particolari accertamenti quando risulti,
anche soltanto per le modalità di gestione, che lo stesso
non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata
alla rimozione dei liquidi e delle altre componenti
pericolose.
Il titolare di una ditta abilitata all'affidamento di
veicoli sottoposti
a sequestro, veniva condannato per aver effettuato
un deposito incontrollato di rifiuti speciali pericolosi
costituiti
da 250 autoveicoli e 150 motocicli e ciclomotori, nonché
materiali inerti provenienti da demolizioni edilizie, su
un'area recintata scoperta.
Nel proposto ricorso per cassazione il prevenuto deduceva
il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta natura di
rifiuto
dei mezzi rinvenuti, osservando che per l'attività svolta
non era richiesta alcuna autorizzazione inerente alla
gestione
di rifiuti, svolgendo egli un'attività di deposito
giudiziario
e che l'individuazione dei mezzi quali rifiuti sarebbe
stata data per presupposto senza alcuno specifico
accertamento.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.
I giudici di merito avevano accertato, in fatto, le
caratteristiche
dei mezzi depositati presso la struttura dell'imputato
e le condizioni in cui venivano mantenuti: si trattava di
veicoli
in disuso, in parte incidentati, incendiati, mancanti di
parti e di targhe o giacenti da anni, consegnati
direttamente
dai proprietari per la demolizione o già radiati dal PRA
su richiesta presentata da autoscuole o demolitori. Detti
mezzi risultavano, inoltre, abbandonati senza alcuna cautela
o preventivo trattamento, su un'area priva di
impermeabilizzazione
del terreno, esposti agli agenti atmosferici ed al
dilavamento senza alcun sistema per il convogliamento e
lo smaltimento dei reflui.
Non si trattava, dunque, di soli mezzi ricevuti in qualità
di
custode giudiziario, ma di autoveicoli e motocicli
pacificamente
qualificabili come rifiuti, così come era indubbia la
natura di rifiuto dei residui provenienti da demolizione,
pure
depositati sull'area nella disponibilità del ricorrente.
La Cassazione ha svolto un’articolata analisi in merito alla
natura di rifiuto dei veicoli fuori uso cominciando
dall'art.
227, comma 1, lett. c) D.Lgs. n. 152/2006 il quale richiama
espressamente il D.Lgs. 24.06.2003, n. 209, con cui è
stata data attuazione alla direttiva n. 2000/53/CE, relativa
ai
veicoli fuori uso, oltre, non avendo la disciplina
comunitaria
contemplato tutte le categorie di veicoli a motore, l'art.
231 cit. dec. il quale costituisce un necessario complemento
della particolare normativa introdotta dal D.Lgs. n.
209/2003, in quanto tratta dei veicoli fuori uso non
disciplinati
dal quest'ultimo decreto.
La sentenza ha poi ricordato che nella giurisprudenza della
stessa Corte Suprema si è precisato che le richiamate
disposizioni
considerano sia il veicolo di cui il proprietario si
disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, sia
quello
destinato alla demolizione, ufficialmente privato delle
targhe
di immatricolazione, anche prima della consegna ad
un centro di raccolta, nonché quello che risulti in evidente
stato di abbandono, ancorché giacente in area privata.
Tale condizione di rifiuto peraltro non può essere del tutto
esclusa neppure con riferimento ai veicoli sottoposti a
sequestro
quando questi, per le modalità con le quali sono
detenuti, siano da considerare obiettivamente destinati
all'abbandono.
Secondo i giudici romani, le condizioni del deposito dei
veicoli
di cui danno conto i giudici del merito evidenziavano,
inequivocabilmente, una obbiettiva condizione di abbandono
che escludeva ogni dubbio sulla loro condizione di rifiuto.
Per la Cassazione era corretta anche la qualificazione dei
veicoli come rifiuti pericolosi.
Il comma 4 dell'art. 184, D.Lgs. n. 152/2006 specifica che:
sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche
di
cui all'allegato I della Parte Quarta del presente decreto.
Anch'esso individuava, in precedenza, tra i rifiuti
speciali,
al comma 3, lettera I) veicoli a motore, rimorchi e simili
fuori uso e loro parti (il periodo è stato poi soppresso
con
l'intervento correttivo ad opera del D.Lgs. n. 205/2010).
Inoltre il comma 5 del medesimo articolo chiarisce che
l'elenco
dei rifiuti di cui all'Allegato D alla Parte IV include i
rifiuti
pericolosi e tiene conto della loro origine e composizione
e, quando necessario, dei valori limite di concentrazione
delle sostanze pericolose.
L'Allegato D individua con il codice CER 16 01 04* e,
quindi, quali rifiuti pericolosi, i veicoli fuori uso in
generale
e, con il codice CER 16 01 06, i veicoli fuori uso, non
contenenti
liquidi né altre componenti pericolose, che sono dunque
rifiuti non pericolosi.
La sentenza ha ritenuto opportuno formulare alcune
precisazioni.
È evidente che un veicolo funzionante contiene
una serie di elementi e sostanze che ne consentono la
normale
utilizzazione e che sono normalmente riconducibili
nel novero dei liquidi e delle componenti cui il catalogo
dei
rifiuti attribuisce rilievo ai fini della classificazione
del veicolo
fuori uso come rifiuto pericoloso. Si pensi, ad esempio,
al combustibile, alla batteria, all'olio motore, alle
sospensioni
idrauliche, all'olio dell'impianto frenante, ai liquidi
refrigeranti
o antigelo, ai detergenti per i cristalli, ad alcune
parti dell'impianto elettrico o del motore.
Tali componenti, normalmente presenti in tutti i veicoli
marcianti, richiedono, per essere rimossi, operazioni
oggettivamente
complesse, le quali comportano non soltanto la
previa selezione dei singoli elementi da eliminare, ma anche
la disponibilità di particolari attrezzature per lo
smontaggio.
Si tratta, inoltre, di attività che, per essere eseguite,
richiedono una minima competenza tecnica ed il rispetto di
specifiche norme di sicurezza o, quanto meno, di una certa
prudenza al fine di evitare danni alle persone o alle cose.
Tali interventi di “bonifica” risultano, peraltro, ancor più
complessi quando le condizioni del veicolo, a causa di
precedenti
eventi, come, ad esempio, nel caso di danni ingenti
alla carrozzeria a seguito di sinistro stradale, rendono
meno
agevole le operazioni di movimentazione e di smontaggio
delle singole componenti.
Inoltre, una volta rimossi, i liquidi e le componenti non
più
utilizzabili vanno pure trattati come rifiuti e sono,
pertanto,
soggetti alla disciplina prevista per la loro gestione,
cosicché
attività quali, ad esempio, il deposito, il trasporto o lo
smaltimento richiedono specifici titoli abilitativi e
dovrebbero
risultare comunque tracciabili perché documentate.
È dunque evidente che le effettive modalità di conservazione
del veicolo e la presenza o meno dei mezzi necessari
per l'espletamento delle attività di cui si è appena detto
costituiscono
dati obiettivi di valutazione e che l'esclusione
dal novero dei rifiuti pericolosi dei veicoli fuori uso non
può
essere presunto, essendo al contrario pacifico che un
veicolo,
non sottoposto ad alcun preventivo trattamento volto
ad eliminarne i liquidi e le componenti pericolose, le
contenga
ancora, considerando la complessità delle operazioni
di rimozione.
E’ stato conseguentemente affermato il principio secondo
il quale
«la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori
uso
non necessita di particolari accertamenti quando risulti,
anche
soltanto per le modalità di gestione, che lo stesso non
è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla
rimozione
dei liquidi e delle altre componenti pericolose.
Nella fattispecie, la presenza di liquidi e sostanze
pericolose
nei veicoli risultava effettivamente accertata dal giudice
del merito mediante il richiamo al contenuto del verbale di
sopralluogo, corredato da fotografie, nella parte in cui
evidenzia
l'opportunità, dopo la rimozione dei veicoli ...di
effettuare
un'indagine per accertare l'eventuale contaminazione
dei suoli a causa del percolamento di liquidi (oli, benzina,
refrigeranti) e del dilavamento da parte delle piogge
di parti meccaniche arrugginite...».
Della di liquidi ed oli minerali degli automezzi, oltre che
delle generali condizioni di degrado dell'area, viene dato
atto
in altra parte della decisione di primo grado osservando
come tale situazione fosse stata comprovata dalle
dichiarazioni di un teste (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.03.2015
n. 11030 - Ambiente &
sviluppo 7/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: PRODUTTORE DEL RIFIUTO.
Rifiuti - Impresa che esegue opere in appalto - Produttore
del rifiuto - Conseguenti responsabilità.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L'appaltatore, in ragione della natura
del rapporto contrattuale,
che lo vincola al compimento di un’opera o alla
prestazione di un servizio con organizzazione dei
mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di
regola,
il produttore del rifiuto e su di lui, quindi, gravano
i relativi oneri.
Il Sindaco del Comune di S. Pio delle Camere e il legale
rappresentante della B.C. s.r.l., subappaltatrice di lavori
di
«messa in sicurezza di cavità ipogee del centro storico»,
commissionati dal Comune, venivano condannati per il reato
di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256, comma 2, D.Lgs. n.
152/2006 perché depositavano in modo incontrollato cumuli
di rifiuti costituiti da scarti di cemento e sbriciolati
(materiale di risulta del cantiere) su terreno vegetale in
assenza
di protezione del suolo ed esposti all'azione degli
agenti atmosferici.
In sede di ricorso, il Sindaco deduceva che il giudice del
merito aveva ritenuto la sua responsabilità sulla base della
circostanza che l'autorizzazione al deposito era stata data
dall'amministrazione comunale, pur dando atto dell'esistenza
di una bozza di autorizzazione non firmata dal sindaco e
del fatto che l'ufficiale di polizia giudiziaria intervenuto
sul
posto aveva riferito che il Sindaco, messo al corrente
dell'accertamento,
aveva dichiarato di non essere a conoscenza
di nessun tipo di accordo, mentre il responsabile
dell'ufficio
tecnico comunale aveva riferito di aver assunto
personalmente
la decisione di autorizzare il deposito dei rifiuti.
La Cassazione ha ricordato che più volte è stato analizzato
il ruolo dell'appaltatore con riferimento alle attività di
gestione
dei rifiuti, seppure, nella maggior parte dei casi, al fine
di distinguerne gli obblighi e le responsabilità rispetto
alle diverse figure del committente e del subappaltatore; in
queste pronunce, si è osservato che nessuna fonte legale,
né scaturente da norma extrapenale, quale la disciplina
generale
sui rifiuti, né da contratto, individuava tali soggetti
come gravati da un obbligo di garanzia in relazione
all'interesse
tutelato e il correlato potere giuridico di impedire che
l'appaltatore commettesse il reato di abusiva gestione dei
rifiuti, con la conseguenza che, tranne nel caso di un
diretto
concorso nella commissione del reato, non poteva ravvisarsi
alcuna responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma 2,
cod. pen. per mancato intervento al fine di impedire
violazioni
della normativa in materia di rifiuti da parte della ditta
appaltatrice.
Pertanto, l'appaltatore, in ragione della natura del
rapporto
contrattuale, che lo vincola al compimento di un’opera o
alla prestazione di un servizio con organizzazione dei mezzi
necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il
produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i
relativi
oneri, pur potendosi verificare casi in cui, per la
particolarità
dell'obbligazione assunta o per la condotta del committente,
concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull'attività
dell'appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale
ultimo soggetto.
La Corte ha poi osservato, con specifico riferimento alla
figura
del Sindaco, che a norma dell'art. 107, D.Lgs. n.
267/2000 il Sindaco, una volta esercitati i poteri
attribuitigli
dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli
esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte
sua,
anche il successivo controllo sulla concreta attuazione
delle
scelte programmatiche effettuate; egli ha, inoltre, il
dovere
di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti
da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone
o l'integrità dell'ambiente.
Nel caso in esame, secondo la Corte suprema la posizione
del Sindaco non era stata compiutamente valutata da parte
del giudice del merito. Infatti, considerata l'utilizzazione
di
un terreno di proprietà comunale per il deposito dei rifiuti
e
l'esistenza di una «autorizzazione» non sottoscritta dal
Sindaco
e recante la data del 27.06.2011, corrispondente
a quella dell'accertamento, il giudice del merito aveva
proceduto
attraverso un percorso giustificativo che si presentava
tutt'altro che lineare.
Dopo aver dato atto dell'esistenza di un'autorizzazione
all'uso
del terreno di proprietà pubblica, il giudice del merito
aveva riportato testualmente alcuni brani delle
dichiarazioni
dell'ufficiale di polizia giudiziaria che aveva proceduto al
controllo tra le quali figura la seguente «... D. F. era
stata
contattata ed è venuta lì al comune intorno alle 12,20...e
non era a conoscenza di nessun tipo di accordo che ci
potesse
essere... abbiamo chiesto del responsabile dell'ufficio
tecnico, che in quel momento non era presente. Si è
avvicinato
a noi l'istruttore amministrativo della Polizia Municipale,
il signor P..., il quale ci ha esibito una carta intestata,
una dichiarazione a nome del sindaco, che esisteva un
accordo
verbale tra il sindaco e questa ditta per quanto riguarda
lo sversamento di detti rifiuti».
Subito dopo, il giudice aveva individuato la conferma di un
assenso del Sindaco al conferimento dei rifiuti nelle
dichiarazioni
del coimputato il quale, dopo aver affermato che i
rifiuti erano provvisoriamente collocati sul posto per poi
essere
trasferiti presso la sede della società per procedere al
loro smaltimento, aveva aggiunto «... posso dire che tutti
gli organi competenti ci avevano autorizzato all'attività di
demolizione, deposito e successivo smaltimento. Tengo a
specificare che il luogo ove sono stati momentaneamente
depositati i materiali in questione è un'area del Comune di
San Pio a quello scopo destinata e a noi B.C. indicata da
quella amministrazione comunale».
In base a questi dati, il Tribunale aveva opinato che fosse
inverosimile che, in una piccolissima realtà locale quale
quella interessata dai fatti per cui era processo, il
Sindaco
non avesse conoscenza del conferimento di rifiuti in corso
da alcuni giorni.
Inoltre, pur dando atto che tanto il tecnico comunale quanto
la guardia comunale avevano riferito che l'autorizzazione
al deposito all’impresa subappaltatrice era stata data di
loro
iniziativa, aveva sostenuto che l'aver agito senza
coinvolgere
il sindaco nella decisione era comunque «poco credibile», sia per la delicatezza della decisione sia per le
evidenti
responsabilità derivanti dal contratto di appalto.
Aggiungeva il Tribunale che i lavori, regolarmente
appaltati,
avrebbero dovuto necessariamente prevedere un piano
di smaltimento dei rifiuti, cosicché era «impensabile» che i
due dipendenti avessero deciso di agire senza coinvolgere i
vertici politici dell'amministrazione locale.
Ad avviso del supremo Collegio, si trattava invece di
valutazioni
ipotetiche che non superavano l'ambito delle mere
congetture inidonee a superare il dato concreto
rappresentato
dalle dichiarazioni del tecnico comunale e dell'istruttore
di vigilanza, il cui contenuto, inequivoco, non poteva
essere
certo inficiato sulla base di un giudizio di mera
inverosimiglianza.
Per la Cassazione erano parimenti illogiche le ulteriori
considerazioni
concernenti il documento privo della sottoscrizione
del Sindaco.
Aveva infatti affermato il Tribunale, ricordando come il
documento
recasse una data coincidente con quella dell'accertamento,
che, seppure il tecnico comunale e la guardia
municipale avessero agito di loro iniziativa, cercando poi
di
rimediare predisponendo il documento da far sottoscrivere
al Sindaco, era comunque evidente la loro consapevolezza
circa la necessità di un coinvolgimento della massima
autorità comunale nelle decisioni concernenti la gestione
dei rifiuti e, conseguentemente, che essa sussistesse fin
dal momento in cui era sorta la necessità di individuare un
sito per la collocazione dei rifiuti e che, pertanto, ne
avessero reso immediatamente edotto il sindaco il quale
avrebbe
dato il suo assenso.
Anche in questo caso, secondo la Cassazione il giudizio
risultava
fondato su personali supposizioni e l'intera motivazione,
per ciò che riguardava la posizione del Sindaco, appariva
manifestamente carente, in quanto non spiegava,
tenuto conto dei principi dianzi richiamati, sulla base di
quali elementi concreti, al di là delle mere ipotesi, fosse
dimostrato
che costui avesse cognizione del conferimento
dei rifiuti e delle modalità con le quali veniva attuato e
che
fosse direttamente intervenuto nei confronti
dell'appaltatore.
La Corte suprema ha perciò disposto l'annullamento con
rinvio della decisione impugnata per porre rimedio alle
lacune motivazionali rilevate (Corte
di
Cassazione, Sez. III, penale,
sentenza 16.03.2015 n. 11029 - Ambiente &
sviluppo 8-9/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ESERCIZIO ABUSIVO DI ATTIVITÀ DI TRASPORTO, RECUPERO
E SMALTIMENTO.
Rifiuti - Esercizio abusivo di attività di trasporto,
recupero
e smaltimento di rifiuti - Gestione di veicoli fuori uso -
Concorso di reati - Sussistenza.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 13, D.Lgs. n. 209/2003.
Il reato di cui all'art. 256, comma 1,
lett. b), D.Lgs. n.
152/2006 può concorrere materialmente, se riguardante
rifiuti consistenti in veicoli fuori uso, con il reato di
cui
all'art. 13, D.Lgs. n. 209/2003, in quanto mentre la prima
contravvenzione attiene ad una azione diversificata di
raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti
pericolosi
svolta in assenza di preventiva autorizzazione,
la seconda fattispecie è integrata da una attività
imprenditoriale
di gestione dei veicoli fuori uso non soggetta
ad autorizzazione ambientale preventiva, svolta
in violazione di una serie di prescrizioni specifiche
dettate
non solo per la salvaguardia dell'ambiente ma anche
per il riutilizzo ottimale dei veicoli.
Nella fattispecie, l'imputato svolgeva abusivamente attività
di gestione di veicoli fuori uso e di rifiuti da essi
derivati e
per questo motivo è stato condannato sia per il reato di cui
all’art. 13, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 209/2003, sia per
quello di cui all’art. 256 comma 1, lett. a) e b) D.Lgs. n.
152/2006.
Il ricorso presentato dall’imputato è stato giudicato
inammissibile
perché le censure esposte erano state già esaustivamente
esaminate dalla Corte territoriale che aveva fornito
risposte specifiche sia in merito alla presunta genericità
del capo di imputazione sia in merito alla qualificazione
della
natura imprenditoriale dell'attività posta in essere.
La Cassazione ha poi osservato, quanto alla pretesa
inconfigurabilità
del concorso materiale tra le condotte ascritte,
che, mentre l'attività di "raccolta, trasporto, recupero e
smaltimento dei rifiuti" (quale che sia il genere di
appartenenza),
contemplata del D.Lgs. n. 152/2006, attiene ad una
azione diversificata -secondo il settore di interesse- che
può anche essere svolta in forma imprenditoriale (termine
che non esige una organizzazione specifica di forze lavoro
e mezzi) e necessita di una preventiva autorizzazione,
l'attività
di gestione di veicoli fuori uso non richiede una
autorizzazione
preventiva, così come non afferisce necessariamente
alla materia dei rifiuti, in quanto i veicoli fuori uso
possono essere destinati ad un riutilizzo, parziale o
totale,
dei vari materiali, ovvero al commercio dell'usato quanto
alle parti di ricambio laddove ancora funzionanti.
In particolare, sono gli artt. 1 D.Lgs. n. 209/2003
(afferente
al campo di applicazione della normativa di settore) e 2
(afferente
agli obiettivi che il legislatore intende perseguire) che
aiutano a comprendere la differenza strutturale tra le
due normative in esame. Il D.Lgs. n. 209/2003 regolamenta
una materia speciale rispetto a quella disciplinata dal
D.Lgs. n. 152/2006, in quanto il soggetto gestore, che
agisca
in forma imprenditoriale, deve attenersi ad una serie di
prescrizioni specifiche che, come indicato nell'art. 2,
mirano
a salvaguardare l'ambiente e nello stesso tempo consentono
il riutilizzo ottimale dei veicoli: il rifiuto da essi
prodotto
costituisce quindi un posterius rispetto alla gestione
del veicolo, il che giustifica pienamente la differenza tra
le
due norme e -per quanto qui rileva- la differenza delle
violazioni
e il relativo regime sanzionatorio (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
03.03.2015 n. 9217
- Ambiente & sviluppo 7/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: REALIZZAZIONE DI DEPOSITO.
Rifiuti - Realizzazione di deposito di rifiuti - Concorso
del
locatore del terreno.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 40 cod pen.
Risponde del reato di deposito di
rifiuti il proprietario
che conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi
un'attività di smaltimento di rifiuti se non ha verificato
che costui sia in possesso dell'autorizzazione per
l'attività
di gestione dei rifiuti e rispetti le prescrizioni contenute
nel titolo abilitativo.
Il legale rappresentante della I. sas di S.F. e c., e D.L.N.,
in
qualità di legale rappresentante della S. srl, venivano
condannati
per avere depositato in modo incontrollato rifiuti di
vario genere (metallo, plastica, carte, cartoni, cascami
edili,
calcinacci nonché pneumatici in disuso) in larga parte
provenienti
dalla attività di demolizione di fabbricati, su di un
terreno di proprietà della prima società e concesso in
affitto
alla seconda.
Era infatti risultato che la S., nella cui disponibilità era
il terreno
in questione, non era autorizzata al trattamento dì rifiuti
relativamente all'area, antistante il suo impianto, in cui
essi erano stati rinvenuti.
Il giudice del merito aveva perciò ritenuto che fosse
integrata
la responsabilità sia del legale rappresentante della
S. sia di quello della In., avendo quest'ultima
ceduto
l'area in questione alla prima, senza verificare che questa
fosse dotata delle necessarie autorizzazione per lo
svolgimento
della attività in questione.
La sentenza veniva impugnata dal legale rappresentante
della Interaffari che deduceva che non era chiaro il titolo
in
base al quale era stato chiamato a rispondere del reato
contestato posto che il terreno in oggetto era stato
acquistato,
con atto del marzo 2009, dalla U. Leasing, sicché
non vi era in atti alcun elemento che potesse far ritenere
che il terreno in questione fosse di proprietà di
In.;
né la circostanza di averlo ceduto in locazione a S. era un
fattore idoneo a far nascere in capo a In. una
qualche
responsabilità per la condotta della società conduttrice.
Il ricorso è stato respinto.
La Corte -messa da parte la riferibilità alla U. Leasing
della
formale posizione dominicale in relazione al terreno in
questione- ha osservato che il Tribunale correttamente aveva
ritenuto sussistere un legame qualificato fra il ricorrente
ed
il fondo ove era ubicata la discarica abusiva sulla base del
dato, comprovante una ampia e sicura disponibilità giuridica
e di fatto del terreno in questione, secondo il quale era
stata la In. a cedere in affitto alla S. il terreno de
quo.
La Corte ha poi riconosciuto che nella giurisprudenza della
Sezione era riscontrabile l'esistenza di un contrasto in
ordine
alla possibilità di riconoscere la responsabilità penale
del titolare del terreno nel caso in cui soggetti terzi lo
adibiscano
a discarica o deposito di rifiuti.
Infatti, ad un primo orientamento secondo il quale non è
configurabile in forma omissiva il reato di gestione o
realizzazione
di discarica abusiva nei confronti del proprietario di
un terreno sul quale terzi abbiano illecitamente depositato
i
rifiuti, in quanto nessun obbligo di controllo può
ravvisarsi
in carico del proprietario medesimo, se ne contrappone
uno, di diverso segno, per il quale il legale rappresentante
di una ditta, proprietario di un'area su cui terzi
depositino
in modo incontrollato rifiuti, è penalmente responsabile
dell'illecita condotta di questi ultimi in quanto tenuto a
vigilare
sull'osservanza da parte dei medesimi delle norme in
materia ambientale.
Orbene, la Corte pur consapevole della preferibilità del
primo
orientamento, per essere questo più rispettoso del
principio,
costituzionalmente tutelato ex art. 27 della Costituzione,
della personalità della responsabilità penale ha osservato,
nel caso in esame, che il legale rappresentante
della In. aveva dato in affitto alla S., per una
specifica
finalità da questa perseguita, il terreno in questione, e
che tale circostanza era idonea a far sorgere in capo al
medesimo
un puntuale obbligo di sorveglianza sulla condotta
dell'affittuario: all’uopo, è stato anche richiamato un
proprio
precedente specifico in cui si è stabilito che risponde
del reato di gestione non autorizzata di rifiuti il
proprietario
che conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi
un'attività di smaltimento di rifiuti, in quanto incombe sul
primo, anche al fine di assicurare la funzione sociale della
proprietà (presidiata dall'art. 42 della Costituzione),
l'obbligo
di verificare che il concessionario sia in possesso
dell'autorizzazione
per l'attività di gestione dei rifiuti e che questi
rispetti le prescrizioni contenute nel titolo abilitativo.
Il fatto che il terreno fosse stato concesso dal S. alla S.
proprio
affinché quest'ultima lo destinasse ad un'attività di
deposito
e trattamento di rifiuti avrebbe dovuto indurre nel
ricorrente
una particolare cautela in ordine alla verifica della
effettiva titolarità da parte del concessionario delle
necessarie
autorizzazioni allo svolgimento delle attività in questione
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.02.2015
n. 8135 -
Ambiente & sviluppo 7/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
SVERSAMENTO DIRETTO DI OLI VEGETALI E GRASSI IN UN
CANALE.
Rifiuti - Smaltimento di oli vegetali e grassi mediante il
loro
diretto sversamento in un canale - Deposito incontrollato
dei residui in contenitori non aventi chiusura ermetica
e conservati all'aperto - Riversamento del loro contenuto
nel canale causa alluvione - Difetto di correlazione accusa/sentenza - Sussiste.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 521 cod. proc. pen.
Nel caso in cui sia originariamente
contestata una condotta
consistente nell'avere disposto che si effettuasse
lo smaltimento di oli vegetali, già utilizzati ad usi
alimentari,
tramite il loro sversamento in un canale di acqua,
non è rispettato il principio di correlazione fra
l’imputazione
contestata e la sentenza ai sensi dell'art. 521
cod. proc. pen. se la condotta per cui è intervenuta
condanna
consiste nell'avere immesso i residui in contenitori
conservati all'aperto da cui, non essendo stati
adeguatamente
chiusi ed essendo stati travolti dalla pioggia
dovuta ad una alluvione, si era riversato il contenuto
nel predetto canale.
Il Tribunale condannava tale B., nella sua qualità di
titolare
di un ristorante, previa riqualificazione del fatto,
originariamente
contestato come violazione dell'art. 256, comma 1,
lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, nella violazione del comma 2
del medesimo articolo, in quanto aveva depositato in modo
incontrollato rifiuti, costituiti da residui di oli e
grassi utilizzati
per la cottura di cibi, immettendoli in contenitori non
utilizzati correttamente non essendo stata controllata la
chiusura ermetica dopo ogni conferimento in essi di rifiuti.
Nel ricorso per cassazione il B. deduceva l'avvenuta
violazione
degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. stante il difetto
di correlazione fra l'accusa e la sentenza.
Il ricorso è stato ritenuto meritevole di accoglimento.
La Corte ha opinato che andasse esaminata la questione
se, essendo pacifico che nel corso del dibattimento non
era stata effettuata nei confronti dell'imputato alcuna
modificazione
della originaria imputazione, fosse stato rispettato
il principio di correlazione fra la imputazione contestata e
la sentenza così come espresso dall'art. 521 cod. proc.
pen.
La Corte ha ricordato che, sebbene il giudice possa dare al
fatto una diversa qualificazione giuridica, senza incorrere
nella violazione dell'obbligo della correlazione tra
sentenza
ed accusa contestata, affinché ciò avvenga legittimamente
è comunque necessario che il fatto storico addebitato
rimanga
identico, in riferimento al triplice elemento della
condotta, dell'evento e dell'elemento psicologico
dell'autore.
Nel caso in esame, al B. era stata originariamente
contestata
una condotta consistente nell'avere effettuato e disposto
che si effettuasse lo smaltimento di oli vegetali utilizzati
ad usi alimentari tramite il loro sversamento in un canale
di acqua situato nei pressi del suo esercizio commerciale,
mentre la condotta accertata in sede di sentenza di
condanna consisteva nell'avere immesso i predetti oli, una
volta esaurita la loro funzione, in contenitori conservati
all'aperto
che, non essendo stati adeguatamente chiusi, ma
essendo stati, invece, travolti dalla pioggia dovuta ad una
alluvione verificatasi in zona, avevano riversato il loro
contenuto
nel predetto canale.
Per la Corte era evidente che, nel caso di specie, non solo
la condotta accertata era del tutto diversa sotto il profilo
materiale da quella contestata, ma anche l'elemento
soggettivo,
non trascurabile ai fini della identificazione del fatto
storico, differiva sensibilmente fra le due ipotesi, posto
che
in quella contestata l'evento determinatosi (l'avvenuta
contaminazione
con gli oli esausti delle acque del ricordato canale)
era caratterizzato dall'essere voluto dall'agente come
conseguenza della propria azione (il capo di imputazione
infatti recita: "effettuava o disponeva che si effettuasse
attività
di smaltimento di oli vegetali (...) mediante versamento
degli stessi nel canale d'acqua"), mentre nella sentenza al
B. veniva contestata la mera negligenza nel non essersi
assicurato
che i bidoni utilizzati per lo stoccaggio degli oli
usati fossero adeguatamente chiusi cosicché l'eventuale loro
caduta, nei fatti causata dall'innalzamento del livello
dell'acqua
stante l'alluvione, non avrebbe comportato la fuoriuscita
del materiale in essi contenuto.
Poiché la modificazione della contestazione non era stata
preceduta dai meccanismi di garanzia per l'imputato previsti
dagli artt. 516 cod. proc. pen., la sentenza è stata
annullata
con trasmissione degli atti al Tribunale per nuovo
procedimento
previa eventuale modificazione della contestazione mossa al
prevenuto (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.02.2015 n. 8134
- Ambiente & sviluppo 10/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: SOTTOPRODOTTO.
Rifiuti - Sottoprodotto - Diretta riutilizzazione senza
ulteriore
trattamento - Sussistenza - Fattispecie.
Art. 184-bis, D.Lgs. n. 152/2006.
Il sale residuato dalla salagione delle
carni, riutilizzato
per evitare la formazione di ghiaccio sulle strade comunali
costituisce un sottoprodotto ai sensi dell’art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006, come tale escluso dalla disciplina
penale dei rifiuti.
Avverso la sentenza che lo aveva condannato per avere
effettuato
attività di deposito, smaltimento e commercio di rifiuti,
avendo ceduto a terzi, in assenza di autorizzazione, il
sale derivante dalla lavorazione delle carni eseguita presso
il proprio stabilimento, dopo averlo stoccato sul piazzale
antistante il proprio opificio, tale Gentile ricorreva in
cassazione
deducendo che il giudice di prime cure non aveva
considerato che il sale non aveva le caratteristiche del
rifiuto,
bensì quelle del sottoprodotto.
La Corte ha ritenuto fondato il ricorso.
Alla luce di quanto disposto dall’art. 184-bis, comma 1,
D.Lgs. n. 152/2006 (che per sottoprodotto ha stabilito che
si deve intendere qualsiasi sostanza od oggetto che origini
da un processo di produzione, di cui sia parte integrante,
sebbene non ne costituisca la finalità; che sia certamente
destinata ad un successivo uso -legittimo e non nocivo
per la salute e per l'ambiente- per il quale non necessiti
di
alcun ulteriore trattamento), la Cassazione ha sostenuto
che, in maniera apodittica, il Tribunale di Avezzano aveva
escluso che il sale residuato dalla salagione delle carni
eseguita
presso lo stabilimento del ricorrente potesse essere
ritenuto sottoprodotto, sebbene fosse risultato che tale
sostanza
aveva tutte le caratteristiche per essere ritenuto tale.
Si trattava, infatti, di materiale utilizzato in un processo
produttivo,
volto ad assicurare la conservazione delle carni e
pertanto non costituente lo scopo di quello, che può essere
riutilizzato per evitare il formarsi del ghiaccio sulle
strade
dei Comuni ai quali veniva gratuitamente ceduto
dall’imputato,
senza alcun ulteriore trattamento e senza alcun apprezzabile
nocumento né per la salute né per l'ambiente.
La riconosciuta natura di sottoprodotto della sostanza
depositata
nel piazzale e successivamente ceduta agli enti locali
della zona ha perciò determinato l'annullamento, senza
rinvio, della impugnata sentenza (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2015
n. 7899 - Ambiente &
sviluppo 7/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI PERICOLOSI.
Rifiuti - Veicoli fuori uso - Rifiuti pericolosi -
Condizioni.
Art. 184, D.Lgs. n. 152/2006.
Affinché un veicolo dismesso possa
considerarsi rifiuto
pericoloso è necessario non solo che esso sia fuori uso,
ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose.
Nel caso che si presenta, l’imputato lamentava l'erronea
qualificazione come rifiuto pericoloso del materiale ferroso
costituito dalla carcassa rimossa di una Fiat Croma
abbandonata
da tempo su un fondo agricolo e prelevata dall'imputato
proprio perché priva di gasolio o sostanze infiammabili
all'interno.
La sentenza impugnata è stata annullata con rinvio ad altra
sezione della Corte d'Appello per nuovo esame. Infatti, la
Cassazione ha ricordato che un principio consolidato è
quello per cui, affinché un veicolo dismesso possa
considerarsi
rifiuto pericoloso è necessario non solo che esso sia
fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti
pericolose, altrimenti rientra nella categoria 16.01.06
(prevista nell'Allegato D, Parte IV, D.Lgs. n. 152/2006) e
non può essere qualificato come pericoloso.
Infatti, l'art. 184, comma 5, prevede che "L'elenco dei
rifiuti
di cui all'Allegato D alla parte quarta del presente decreto
include i rifiuti pericolosi e tiene conto dell'origine e
della
composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori
limite
di concentrazione delle sostanze pericolose. Esso è
vincolante
per quanto concerne la determinazione dei rifiuti da
considerare pericolosi. L'inclusione di una sostanza o di un
oggetto nell'elenco non significa che esso sia un rifiuto in
tutti i casi, ferma restando la definizione di cui all'art.
183".
L’allegato D, alla Parte IV, considera come rifiuti
pericolosi
sotto la categoria 16.01.04 i veicoli fuori uso, mentre
considera
come rifiuti non pericolosi i veicoli fuori uso appartenenti
a diversi modi di trasporto (categoria 16.01) ed i veicoli
fuori uso, non contenenti liquidi né altre componenti
pericolose (categoria 16.01.06).
Ciò posto, nella specie, la sentenza impugnata, in luogo di
fare riferimento ai criteri posti dalla legge per ricondurre
i
veicoli fuori uso nell'una piuttosto che nell'altra
categoria,
si è limitata a ravvisare la natura pericolosa in
considerazione
della "natura e composizione di tutti i materiali utilizzati
per la costruzione di un'autovettura di vecchia concezione
e progettualità" in tal modo, dunque, valorizzando un
criterio
che, oltre ad essere implicitamente disconosciuto dalla
legge (posto che le diverse categorie indicate dal
legislatore
appaiono evidentemente prescindere dall'epoca di
fabbricazione
del veicolo), finisce per far coincidere tout court
la natura pericolosa del rifiuto con la "vecchia" concezione
dell'autovettura interessata senza che, peraltro, sia dato
comprendere quale sarebbe il discrimine temporale
(evidentemente
necessario per conferire certezza al criterio utilizzato) da
individuare con precisione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2015
n. 3951 - Ambiente &
sviluppo 7/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RACCOLTA E TRASPORTO IN FORMA ITINERANTE.
Rifiuti - Raccolta e trasporto in forma itinerante - Deroga
al regime ordinario - Titolo abilitativo per l'esercizio di
attività
commerciale in forma ambulante ai sensi del D.Lgs.
31.03.1998, n. 114 - Sufficienza - Esclusione
Artt. 256, 266, D.Lgs. n. 152/2006.
Con riferimento al fenomeno del
“commercio ambulante
di rifiuti”, l'ambito di efficacia della deroga di cui
all'art.
266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 è delimitato alle
sole ipotesi in cui sia effettivamente applicabile la
disciplina
sul commercio ambulante di cui al D.Lgs. n.
114/1998 e tale applicabilità sia dimostrata
dall'interessato
ed accertata dal giudice del merito, escludendosi,
conseguentemente, che l'attività di raccolta e trasporto
di rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi consistenti,
per lo più, in rottami ferrosi, possa rientrare tout court
nella nozione di commercio ambulante come individuata
dal menzionato decreto perché una simile attività
non può essere astrattamente riconducibile a quelle
descritte
dal D.Lgs. n. 114/1998 ed esercitata in concreto
con le modalità che lo stesso decreto stabilisce.
Anche questa sentenza affronta il tema dei «commercianti
ambulanti» di rottami ferrosi. L’interesse precipuo per la
pronuncia nasce dal fatto che la stessa, collegandosi
idealmente
a Cass. 24.06.2014, PM in proc. Lazzaro, esamina una problematica affacciata
dal ricorrente Procuratore della Repubblica in una memoria
trasmessa alla Corte suprema.
Premesso che il Pubblico Ministero aveva impugnato il
proscioglimento
di un soggetto che effettuava abusivamente
la raccolta e il trasporto ambulante dei rifiuti, la Corte
ha rilevato
che il ricorso riguardava identiche questioni già sottoposte
all'attenzione della Cassazione nell'ambito di altro
procedimento avviato dalla stessa Procura della Repubblica.
Perciò ha richiamato integralmente il contenuto della
precedente decisione (quella sopra citata) osservando che
il Pubblico Ministero ricorrente, con apposita memoria,
aveva criticato la medesima decisione nella parte in cui
sembrava ritenere applicabile la deroga di cui al comma 5
dell'art. 266 D.Lgs. n. 152/2006 nei casi in cui il soggetto
interessato fosse in possesso del titolo abilitativo per
l'esercizio
di attività commerciale in forma ambulante ai sensi
del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114.
Il Collegio ha replicato testualmente che «la sentenza n.
29992/2014, diversamente da quanto ritenuto dal Pubblico
Ministero ricorrente, non si pone affatto su un piano
diverso,
perché, richiamato quanto già precisato in precedenti
pronunce della Sezione sul fenomeno del «commercio ambulante
di rifiuti», ha chiaramente delimitato l'ambito di efficacia
della deroga di cui all'art. 266, comma 5, D.Lgs. n.
152/2006 alle sole ipotesi in cui sia effettivamente
applicabile
la disciplina sul commercio ambulante di cui al D.Lgs.
n. 114/1998 e tale applicabilità sia dimostrata
dall'interessato
ed accertata in fatto dal giudice del merito, escludendosi,
conseguentemente, che l'attività di raccolta e trasporto
di rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi consistenti,
per lo più, in rottami ferrosi (quale è quella oggetto
dell'imputazione
nel presente procedimento) possa rientrare nella
nozione di commercio ambulante come individuata dal
menzionato D.Lgs. n. 114/1998».
Ulteriore conseguenza di tale interpretazione, secondo la
Cassazione, è che l'ambito di operatività della deroga è
limitato,
come opinato dallo stesso Pubblico Ministero ricorrente,
ad ipotesi residuali quali quelle della vendita, sulla
base delle disposizioni vigenti, su aree pubbliche, di beni
usati ovvero oggetti di antiquariato e da collezionismo non
aventi valore storico-artistico.
La Corte ha poi ricordato la definizione di «commercio al
dettaglio», contenuta nell'art. 4, comma 1, lett. b), D.Lgs.
n.
114/1998, inteso come «l'attività svolta da chiunque
professionalmente
acquista merci in nome e per conto proprio
e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre
forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale».
Ed ha aggiunto che la disciplina astrattamente
applicabile
è quella regolata dal Titolo X, relativo al commercio al
dettaglio su aree pubbliche, definite, dall'art. 27, comma
1,
lett. b), come «le strade, i canali, le piazze, comprese
quelle
di proprietà privata gravate da servitù di pubblico
passaggio ed ogni altra area di qualunque natura destinata
ad uso
pubblico» e che l'attività commerciale esercitabile è quella
indicata dall'art. 18, comma 1, lett. b) e, cioè, quella che
può essere svolta «su qualsiasi area purché in forma itinerante» e soggetta all'autorizzazione di cui al successivo
comma 4, rilasciata, in base alla normativa emanata dalla
Regione, dal Comune nel quale il richiedente, persona fisica
o giuridica, intende avviare l'attività.
Ha perciò concluso che quanto paventato dal Pubblico
Ministero
nella memoria e, cioè, che per un’attività quale
quella oggetto di imputazione potesse essere richiesta ed
ottenuta un'autorizzazione per l'attività svolta in forma
itinerante,
era «del tutto impensabile, perché giammai una
simile attività potrebbe essere astrattamente riconducibile
a quelle descritte dal D.Lgs. n. 114/1998 ed esercitata in
concreto con le modalità che lo stesso decreto stabilisce» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2015
n. 2872 - Ambiente &
sviluppo 10/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUE METEORICHE DI DILAVAMENTO.
Acque - Acque meteoriche di dilavamento - Natura di
scarico industriale - Fattispecie.
Artt. 74, 137, D.Lgs. n. 152/2006.
Le acque meteoriche di dilavamento sono
costituite
dalle acque piovane che, depositandosi su un suolo
impermeabilizzato,
dilavano le superfici ed attingono indirettamente
i corpi recettori. Per acque meteoriche di dilavamento
si intendono quindi solo quelle acque che
cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche
non subiscono contaminazioni di sorta con altre sostanze
o materiali inquinanti.
Il Tribunale di Castrovillari condannava tal M. quale
responsabile
del reato di cui all'art. 137 comma 1, D.Lgs. n.
152/2006 per avere, quale legale rappresentante della M.
srl, effettuato scarichi di reflui industriali tali
dovendosi
qualificare le acque meteoriche contaminate da sostanze
impiegate nello stabilimento che perciò non potevano essere
considerate come acque meteoriche di dilavamento.
Nel ricorso per cassazione, il prevenuto deduceva
l'inosservanza
dell'art. 74, lett. h) e lett. f) in relazione all'art. 137
cit. dec. asserendo che le acque meteoriche di dilavamento
andavano escluse dalla nozione di scarico anche quando
hanno raccolto sostanze inquinanti provenienti da
insediamenti
produttivi.
Infatti, secondo l’art. 74, lett. h), per acque reflue
industriali
si intendono le acque reflue "scaricate" (e non più quelle
"provenienti") da edifici o impianti in cui si svolgono
attività
commerciali o di produzione di beni diversi dalle acque
meteoriche
di dilavamento. Inoltre, l'art. 74, lett. ff), nel definire
lo scarico, richiede un'immissione effettuata esclusivamente
tramite un sistema stabile di collegamento senza
soluzione di continuità tra il ciclo della produzione del
refluo
e il corpo ricettore del refluo (acque superficiali, suolo,
sottosuolo e rete fognaria); pertanto, dato che nel caso di
specie era assente una conduttura che convogliasse le acque
meteoriche di dilavamento, non si poteva configurare
uno scarico, potendosi al più configurare l'ipotesi di
abbandono
di rifiuti liquidi.
Il ricorso è stato respinto.
Il tema sottoposto alla Corte investe il concetto di
scarichi
di reflui industriali ed in particolare l'incidenza delle
acque
meteoriche che raccolgono sostanze inquinanti provenienti
da insediamenti industriali o commerciali (nel caso di
specie,
trattavasi di una stazione di servizio per rifornimento di
carburante).
Come osservato in altre decisioni, nel D.Lgs. n. 152/2006 si
fa cenno alle "acque meteoriche di dilavamento" nella
sezione
2, parte 3, dedicata alla "Tutela delle acque
dall'inquinamento":
infatti, nell'art. 74, dedicato alle definizioni, "le
acque meteoriche di dilavamento" non sono definite in modo
diretto nel loro contenuto, ma citate nella definizione di
un'altra tipologia di acque, e cioè dei reflui industriali
(lett.
h), allo scopo di delimitarne in negativo il significato.
L'art. 74, pertanto, pur non fornendo una diretta
definizione
delle acque meteoriche di dilavamento, le considera diverse
e distinte dalle acque reflue industriali e, quindi, non
assimilabili
a quest'ultime.
La formulazione dell'art. 74 è quella risultante dalla
modifica
operata dal D.Lgs. n. 4/2008 il cui art. 2, comma 1, ha
escluso il riferimento qualitativo alla tipologia delle due
acque.
E difatti il previgente testo dell'art. 74, lett. h),
stabiliva
che si intendono per "acque reflue industriali: qualsiasi
tipo
di acque reflue provenienti da edifici od installazioni in
cui
si svolgono attività commerciali o di produzione di beni,
differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e
da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali
anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali,
anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate
nello stabilimento".
La definizione contenuta nell'art. 74, lett. h), D.Lgs. n.
152/2006, prima della modifica apportata dal D.Lgs. n.
4/2008, come la precedente di cui al regime del D.Lgs. n.
152/1999, escludeva dalle acque reflue industriali quelle
meteoriche di dilavamento, ma precisava che devono
intendersi
per tali anche quelle contaminate da sostanze o
materiali "non connessi" con quelli impiegati nello
stabilimento.
Si riteneva perciò che, quando le acque meteoriche fossero,
invece, contaminate da sostanze impiegate nello
stabilimento,
non dovessero più essere considerate come "acque
meteoriche di dilavamento", con la conseguenza che dovevano
essere considerate reflui industriali.
Come detto, la nuova formulazione dell'art. 74, lett. h), ha
escluso ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle
acque
ed ha eliminato l'inciso "intendendosi per tali (cioè acque
meteoriche di dilavamento, n.d.r.) anche quelle venute
in contatto con sostanze...non connesse con le attività
esercitate nello stabilimento".
Fatta questa premessa sulla normativa applicabile, la
Cassazione
ha osservato che la pronuncia invocata dal ricorrente
a sostegno della propria tesi difensiva (Cass. 30.10.2013, Rv. 258378) faceva discendere dalla eliminazione
di tale inciso l'impossibilità di assimilare sotto un
profilo
qualitativo i reflui industriali e le acque meteoriche di
dilavamento
ed in particolare l'impossibilità di ritenere che le
acque meteoriche di dilavamento, una volta venute a contatto
con materiali o sostanze connesse all'attività esercitata
nello stabilimento, potessero essere assimilate ai reflui
industriali.
Questa impostazione è stata però sottoposta a revisione
nella sentenza in epigrafe in cui si è sostenuto che
l'eliminazione
dell'inciso, frutto di una precisa scelta del legislatore,
sta ad indicare proprio l'intenzione di escludere qualunque
assimilazione di acque contaminate con quelle meteoriche
di dilavamento: l'eliminazione dell'inciso, insomma, non ha
affatto ampliato il concetto di "acque meteoriche di
dilavamento", ma, al contrario, lo ha ristretto in un'ottica
di
maggior rigore, nel senso di operare una secca distinzione
tra la predetta categoria di acque e quelle reflue
industriali
o quelle reflue domestiche.
Oggi, pertanto, le acque meteoriche, comunque venute in
contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non
possono essere più incluse nella categoria di acque
meteoriche
di dilavamento, per espressa volontà di legge.
E’ stato dunque riaffermato il principio secondo cui le
acque
meteoriche di dilavamento sono costituite dalle acque
piovane che, depositandosi su un suolo impermeabilizzato,
dilavano le superfici ed attingono indirettamente i corpi
recettori.
Per acque meteoriche di dilavamento si intendono
quindi solo quelle acque che cadendo al suolo per effetto
di precipitazioni atmosferiche non subiscono contaminazioni
di sorta con altre sostanze o materiali inquinanti.
Nel caso di specie, il giudice di merito aveva accertato,
sulla
scorta delle deposizioni dei verbalizzanti e delle
fotografie,
l'inquinamento del terreno circostante l'impianto per
effetto
delle acque meteoriche di dilavamento che si andavano
ad amalgamare con gli oli e i residui di carburante presenti
sul piazzale, escludendo con certezza che le macchie
ritratte nelle fotografie potessero essere state provocate
dalla perdita di olio da parte di eventuali auto in sosta
presso il distributore (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2015
n. 2832 -
Ambiente & sviluppo 7/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ACCERTAMENTO DELLA PERICOLOSITÀ.
Rifiuti - Accertamento della pericolosità - Rispetto di
specifiche
norme tecniche - Necessità - Esclusione.
Art. 260, D.Lgs. n. 152/2006.
L'accertamento della pericolosità di un
rifiuto non richiede
necessariamente il rispetto delle metodiche di
campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica
UNI 10802 (richiamata dall'art. 8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di un insieme di disposizioni prive di
portata generale vincolante, dirette unicamente allo
scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del
titolare
dell'impianto di produzione dei rifiuti.
Nel caso in esame si era contestato allo Z., quale
responsabile
del sistema gestione ambientale della P. s.r.l., produttrice
di rifiuti pericolosi, e all’A., quale responsabile della
gestione dei rifiuti dello stabilimento della P. s.r.l., di
aver,
con più operazioni continuative e organizzate costituite
dalla
raccolta mediante mezzi non autorizzate e con documenti
di viaggio e formulari falsi, dallo stoccaggio e smaltimento
mediante interramento, dalla miscelazione con terre
di cava e inerti da demolizione, frantumati e poi impiegati
per sottofondi stradali in cantieri, gestito abusivamente
ingenti
quantitativi di rifiuti misti pericolosi (CER 170903),
provenienti dallo stabilimento della P. s.r.l., stimati in
circa
10.625 mc, con alte concentrazioni delle sostanze inquinanti
analiticamente indicate nell'imputazione, al fine di
conseguire un ingiusto profitto, costituito dalla riduzione
dei costi aziendali di smaltimento regolare in discarica.
Avverso la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte
d'appello di Cagliari per il reato di cui all’art. 260
D.Lgs. n.
152/2006, gli imputati proponevano ricorso per cassazione
eccependo che il campionamento dei rifiuti era avvenuto
da parte della polizia giudiziaria in violazione della
disciplina
dettata dal D.M. 05.02.1998 che disponeva
l'applicazione
delle metodiche di campionamento e analisi fissate
dalla norma tecnica UNI 10802 in luogo della metodica
previgente CNR IRSA 64/1985.
In particolare, era stata fatta una setacciatura del
materiale,
senza pesatura e conservazione del materiale scartato.
Per la difesa non era quindi condivisibile l'affermazione
della
Corte d'appello secondo cui la norma UNI avrebbe un
ambito di applicazione diverso da quello oggetto del
presente giudizio, nel quale dovrebbe invece trovare
applicazione
la norma CNR IRSA.
Quanto alla differenza fra il metodo UNI e il metodo CNR
IRSA, la difesa osservava che solo il primo dei due metodi
è caratterizzato da un vero e proprio manuale operativo di
campionamento dei rifiuti, nel quale si specifica che il
campione
prelevato deve essere rappresentativo dell'intero; cosicché,
prima del prelievo, il materiale deve essere movimentato
e suddiviso in ammassi più piccoli, per evitare di
raccogliere solo lo strato superficiale. Infine, la difesa
richiamava
Cass. 27.04.2010, n 16386 nella quale si afferma
che è necessario che il giudice motivi circa le ragioni
per le quali viene utilizzato il metodo IRSA CNR anziché il
metodo UNI 10802.
Per i giudici romani il decreto ministeriale 05.02.1998
(modificato dal D.M. 05.04.2006, n. 186, art. 1) non
trovava
applicazione diretta nel caso di specie.
Esso infatti si riferisce alla "individuazione dei rifiuti
non pericolosi
sottoposti alle procedure semplificate di recupero
ai sensi del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, artt. 31 e 33"
ed
ha, perciò, una portata limitata alle attività, ai
procedimenti
e ai metodi di recupero di ciascuna delle tipologie di
rifiuti
individuati dal decreto stesso: rifiuti liquidi, granulari,
fastosi
e fanghi (art. 1).
L'art. 8 dello stesso D.M., intitolato "Campionamenti e
analisi",
richiama le norme UNI 10802 per il campionamento di
rifiuti, agli specifici fini della loro caratterizzazione
chimicofisica
(comma 1) e si riferisce a campionamenti e analisi
che sono effettuati a cura del titolare dell'impianto ove i
rifiuti
sono prodotti (comma 4). Si tratta, dunque, di un insieme
di disposizioni prive di portata generale, perché dirette
allo specifico scopo di disciplinare le analisi effettuate a
cura
del titolare dell'impianto di produzione di rifiuti, ai fini
della loro caratterizzazione chimico-fisica, per le sole
tipologie
di rifiuti individuate dallo stesso decreto ministeriale.
Tale conclusione trova conferma nella stessa sentenza
invocata
dalla difesa: infatti, in tale pronuncia si afferma che
l'uso del metodo UNI 10802 non è obbligatorio e che la
scelta sul metodo da utilizzare per il campionamento è
questione di fatto, in mancanza di una normativa generale
vincolante sul punto con la conseguenza che è necessario
e sufficiente che il giudice motivi circa le ragioni per le
quali
viene utilizzato il diverso metodo IRSA CNR anziché il
metodo UNI 10802.
La motivazione della Corte d'appello è stata dunque ritenuta
adeguata: nella specie, i rifiuti oggetto di campionamento
erano derivati da demolizioni e non potevano rientrare,
neanche per tipologia, nell'ambito di applicazione della
norma
UNI 10802, la quale, nel richiamare la necessità di ottenere
un campione rappresentativo del rifiuto tal quale, si
riferisce
a rifiuti omogenei, quali sono quelli liquidi, granulari,
pastosi, fangosi. E la setacciatura costituisce un passaggio
necessario del campionamento, in presenza di macerie,
mattoni, terreni assai eterogenei tra loro.
La sentenza impugnata è stata annullata con rinvio ad altra
sezione della Corte d'appello, ma sotto un diverso profilo:
infatti, nel secondo motivo di ricorso, gli imputati
lamentavano
l’illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte
d'appello aveva affermato che i rifiuti provenivano tutti
dalla
P. s.r.l. e avevano sicura destinazione al sito della T. s.r.l..
La Corte territoriale non aveva, infatti, fornito
un'adeguata
motivazione al rilievo difensivo secondo cui i rifiuti
presenti
nel sito della T. s.r.l. non erano solo quelli della P., ma
anche
altri, come risulterebbe dalla documentazione prodotta
e relativa al conferimento dei rifiuti in tale sito da parte
di
imprese diverse. In altri termini, la circostanza che i
rifiuti
provenissero dalla società P. e avessero come sicura
destinazione
la cava della T. non era sufficiente a dimostrare
che i rifiuti, che erano stati concretamente oggetto di
campionamento,
fossero proprio quelli provenienti dalla prima
perché la Corte d'appello non aveva specificato il luogo nel
quale i prelievi erano avvenuti (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2015
n. 1987 -
Ambiente & sviluppo 7/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: REFLUI PROVENIENTI DA PISCINA.
Acque - Scarico di reflui provenienti da una piscina -
Equiparazione alle acque reflue domestiche - Esclusione.
Art. 74, 137, D.Lgs. n. 152/2006.
Integra il reato previsto dall'art. 137,
comma 1, D.Lgs. n.
152/2006 l'immissione in pubblica fognatura, senza la
prescritta autorizzazione, di acque reflue provenienti da
una piscina di un agriturismo, equiparabili a quelle
domestiche
solo a condizione che provengano da piccole
e medie imprese e che rispettino i parametri indicati
dall'art. 2, D.P.R. n. 227/2001, essendo altrimenti
applicabili
gli artt. 74 e 101 D.Lgs. n. 152/2006.
Il titolare di un agriturismo, che convogliava nella
condotta
delle acque reflue domestiche le acque provenienti da una
piscina presente nella propria azienda, dopo essere stato
condannato dal Tribunale di Udine - sezione distaccata di
Cividale del Friuli per il reato di cui all’art. 137, comma
1,
D.Lgs. n. 152/2006 si rivolgeva alla Suprema Corte
contestando
l'assimilazione delle acque di scarico provenienti
dalle piscine alle acque reflue industriali, sul rilievo che
la
L.R. n. 25/1996, prevede che le piscine annesse alle
strutture
agrituristiche utilizzate esclusivamente dai fruitori di
dette strutture sono considerate ad uso privato fino a una
superficie di 120 mq. La piscina installata presso
l'agriturismo
dell'imputato rientrava in detti parametri.
Inoltre, ai
sensi dell’art. 101, comma 7, lett. a) ed e), cit. dec. sono
assimilate alle acque reflue domestiche quelle provenienti
da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del
terreno
o alla silvicoltura e quelle aventi caratteristiche
qualitative
equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa
regionale. Il D.P.R. n. 227/2011 avrebbe poi assimilato
alle acque reflue domestiche quelle provenienti dalle
piscine, con la sola esclusione delle acque di contro
lavaggio
dei filtri, non preventivamente trattate.
Il ricorso è stato respinto.
Al momento del fatto (14.10.2009), la fattispecie era
disciplinata dalla L.R. Friuli Venezia Giulia 15.05.2002,
n. 13 (art. 18, comma 25) che richiamava il D.Lgs. n.
152/1999. Questa norma stabiliva che, ai fini della
disciplina
degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle
acque reflue domestiche le acque reflue scaricate da edifici
o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di
produzione di beni aventi caratteristiche qualitative e
quantitative
equivalenti alle acque reflue provenienti da insediamenti
di tipo residenziale e da servizi, in quanto derivanti
prevalentemente dal metabolismo umano e da attività di tipo
domestico, purché separate dagli altri reflui.
L’art. 18, comma 25, L.R. n. 13/2002 è stato poi sostituito
dalla L.R. 21.12.2012, n. 26, art. 179, comma 1, lett.
a): attualmente è previsto che, ai fini della disciplina
degli
scarichi e delle autorizzazioni, per quanto non disposto dal
successivo comma 26 -che si riferisce a scarichi di
attività
industriali di produzione di generi alimentari e di acque
utilizzate
per scopi geotermici- si applicano i criteri di
assimilazione
alle acque reflue domestiche indicati al D.P.R. n.
227/2011.
Ciò chiarito, la sentenza è passata a verificare se e in che
misura la disciplina contenuta nell’appena citato decreto
sia più favorevole della disciplina previgente e sia
applicabile
nel caso di specie.
Per la Corte suprema, il criterio distintivo tra
insediamenti
civili e produttivi va ricercato in concreto sulla base
dell'assimilabilità
o meno dei rispettivi scarichi, per quantità e
qualità dei reflui, a quelli provenienti da insediamenti
abitativi.
La definizione di acque reflue domestiche è tale da
non ricomprendere le acque reflue non aventi caratteristiche
qualitative equivalenti a quelle domestiche.
In Friuli Venezia Giulia, la normativa regionale di
riferimento
richiama i criteri di assimilazione di cui al D.P.R. n.
227/2011. L'art. 1 ne individua l'ambito di applicazione
richiedendo
la sussistenza di due presupposti:
1) la riconducibilità dello scarico alle categorie di
imprese
di cui al D.M. attività produttive 18 aprile 2005, art. 2 e,
cioè, alle piccole e medie imprese (PMI);
2) l'attestazione, da parte del titolare dell'impresa,
dell'appartenenza
alla categoria delle piccole e medie imprese
mediante dichiarazione sostitutiva di certificazione ai
sensi
del D.P.R. n. 445/2000, presentata allo sportello unico per
le attività produttive, ai sensi dello stesso D.P.R. n.
227/2011.
L'art. 2 precisa che, in assenza di disciplina regionale e
fermo
restando quanto previsto dal D.Lgs. n. 152/2006, trovano
applicazione i criteri di assimilazione di cui al precedente
comma 1. Tale comma prevede che, fermo restando
quanto previsto dall'art. 101 dall'allegato 5 alla parte
terza
D.Lgs. n. 152/2006, sono assimilate alle acque reflue
domestiche:
a) le acque che prima di ogni trattamento depurativo
presentano le caratteristiche qualitative e quantitative
di cui alla tabella 1 dell'allegato A;
b) le acque
provenienti
da servizi igienici, cucine e mense;
c) le acque reflue
provenienti dalle categorie di attività indicate nella
tabella 2
dell'allegato A, con le limitazioni indicate nella stessa.
Per quanto rilevava nel caso in esame, la tabella 2
dell'allegato
A al D.P.R. prevede, al n. 19, che sono assimilate alle
acque reflue domestiche le acque delle piscine, con
l'esclusione delle acque di contro lavaggio dei filtri non
preventivamente
trattate.
Secondo la Corte, si tratta di un quadro assai articolato da
cui emerge che la normativa di cui al D.P.R. n. 227/2011,
seppure in astratto più favorevole rispetto al D.Lgs. n.
152/2006, non trova applicazione automatica e, dunque,
non muta in via generale le categorie delle acque di
scarico.
La sua applicazione è, infatti, limitata alle imprese che
abbiano
attestato, con dichiarazione sostitutiva presentata allo
sportello unico per le attività produttive, l'appartenenza
alla categoria delle PMI. Del resto, l'assoluta prevalenza
del
profilo procedimentale su quello sostanziale emerge anche
dall’art. 49, comma 4-quater, aggiunto dalla legge di
conversione
n. 122/2010, che costituisce il fondamento normativo
dell'emanazione del richiamato D.P.R. n. 227/2011.
Tale disposizione autorizza il governo ad adottare
regolamenti
di delegificazione volti a semplificare e ridurre gli
adempimenti amministrativi gravanti sulle piccole e medie
imprese, in base a: criteri di proporzionalità;
semplificazione
dei regimi autorizzatori, con l'eliminazione degli
adempimenti
amministrativi e delle procedure non necessarie rispetto
alla tutela degli interessi pubblici in relazione alla
dimensione
dell'impresa ovvero all'attività esercitata; ampliamento
dell'ambito di utilizzo dell'autocertificazione;
informatizzazione
degli adempimenti e delle procedure; coordinamento
delle attività di controllo al fine di evitare duplicazioni
o sovrapposizioni.
Sono invece del tutto assenti, nella disposizione che
autorizza
la delegificazione, riferimenti agli ambiti di materia nei
quali la semplificazione degli adempimenti amministrativi
può trovare spazio, quali la tutela dell'ambiente o, più
nello
specifico, la tutela delle acque dall'inquinamento. E
proprio
la mancanza di espressi riferimenti alla materia
dell'inquinamento
delle acque, concretizzandosi nella mancanza
dell'autorizzazione a delegificare tale materia, ha reso
necessaria,
da parte della disciplina regolamentare, la precisazione
che i criteri di assimilazione di cui al comma 1 non
derogano a quanto previsto dal D.Lgs. n. 152/2006 [art.
101, comma 7, lett. e)] con la conseguenza che
l'applicazione
di tali criteri di assimilazione deve intendersi soggetta
all'ulteriore condizione che gli scarichi abbiano
"caratteristiche
qualitative equivalenti a quelle domestiche".
A fronte di siffatto quadro normativo, la Cassazione ha
confermato che l'assimilazione alle acque reflue domestiche
delle acque reflue generate da attività produttive trova
applicazione solo per le PMI, in presenza dei presupposti
soggettivi e oggettivi sopra richiamati, e non vale ad
innovare
in via generale la sistematica degli artt. 74, comma 1,
lett. g) e h) e art. 101, comma 7, D.Lgs. n. 152/2006.
Nel caso in esame, secondo la Cassazione, una tale
prospettazione
mancava del tutto, sia con riferimento all'appartenenza
dell'impresa esercitata alla categoria delle PMI,
sia con riferimento all'attestazione di tale appartenenza
con
dichiarazione sostitutiva presentata allo sportello unico
per
le attività produttive, sia con riferimento alle
caratteristiche
qualitative delle acque.
Inoltre, le acque di contro lavaggio dei filtri delle
piscine
non preventivamente trattate -la cui presenza nello scarico
era stata ampiamente riscontrata nel caso di specie- sono
escluse espressamente anche sul piano oggettivo dall'ambito
di applicazione del D.P.R. n. 227/2011, con la conseguenza
che il reato contestato avrebbe comunque era ravvisabile
anche in presenza della prova della sussistenza dei
presupposti di cui agli artt. 1 e 2 dello stesso D.P.R..
La sentenza ha, infine, chiarito che l’invocata applicazione
della L.R. Friuli-Venezia Giulia n. 25/1996 (il cui art. 4,
comma
5-ter, prevede che le piscine annesse alle strutture
agrituristiche
utilizzate esclusivamente dai fruitori di dette
strutture sono considerate ad uso privato fino a una
superficie
di 120 mq) è inserita nella disciplina regionale
dell'agriturismo
ed è semplicemente diretta all'individuazione
degli edifici e delle costruzioni destinate all'esercizio di
tale
attività e perciò non ha nulla a che vedere con la tutela
dell'ambiente.
In altri termini, il riferimento all'"uso privato"
delle piscine contenuto in quella disciplina non ha in alcun
modo l'effetto di rendere assimilabili agli scarichi
domestici
gli scarichi delle piscine trattandosi di una definizione
normativa
dettata per altri fini (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2015 n. 1983
- Ambiente & sviluppo 7/2015) |
AGGIORNAMENTO AL 03.02.2017 |
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APPALTI: Convegno
gratuito dal titolo:
Tradizione e innovazione nella disciplina dei contratti
pubblici (Brescia, venerdì 10.02.2017
-
Auditorium di Santa Giulia, Via Piamarta n. 4). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Semplificazioni in materia di documento unico di
regolarità contributiva (DURC). Modifiche al decreto
interministeriale 30.01.2015 (INPS,
circolare 31.01.2017 n. 17). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Oggetto: Mandati difensivi delle pubbliche
amministrazioni (Unione Nazionale Avvocati
Amministrativisti,
lettera-circolare
19.01.2017 n. 1/2017). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G. Bartolozzi,
L'affidamento dei
servizi legali - Gli orientamenti giurisprudenziali ed i
nuovi criteri sanciti dal d.lgs. n. 50/2016 (25.01.2017
- tratto da www.dirittodeiservizipubblici.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 03.02.2017, "Primo
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 31.01.2017 n. 925). |
APPALTI:
G.U. 31.01.2017 n. 25 "Modifiche al decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 18.04.2013 per
l’istituzione e l’aggiornamento degli elenchi dei fornitori
prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo
di infiltrazione mafiosa, di cui all’art. 1 comma 52, della
legge 06.11.2012, n. 190" (D.P.C.M.
24.11.2016). |
APPALTI: G.U.
28.01.2017 n. 23 "Adozione dei criteri ambientali minimi
per gli arredi per interni, per l’edilizia e per i prodotti
tessili" (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela
del Territorio e del Mare,
decreto 11.01.2017).
---------------
Nello specifico, il DM dispone:
Art. 1. - Adozione dei criteri ambientali minimi
Ai sensi dell’art. 2 del decreto interministeriale 11.04.2008, sono
adottati i criteri ambientali minimi di cui agli allegati
tecnici del presente decreto, facenti parte integrante del
decreto stesso, di prodotti/servizi di seguito indicati per
la:
●
«Fornitura e il servizio di noleggio di arredi per interni »
(allegato
1);
●
«Affidamento di servizi di progettazione e lavori per la
nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di
edifici pubblici» (allegato 2);
●
«Forniture di prodotti tessili» (allegato
3) |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Casellario Informatico e Banca Dati Nazionale dei
Contratti Pubblici Contenuto del nuovo Casellario
informatico e Modelli di comunicazione (delibera
21.12.2016 n. 1386 -
link a www.anticorruzione.it).
---------------
Obblighi informativi di Stazioni
appaltanti, S.O.A. ed Operatori economici.
Nuovi modelli di comunicazione ai fini della tenuta del
Casellario Informatico e Banca Dati Nazionale dei Contratti
Pubblici.
Adottati con una delibera dell’Autorità nuovi modelli
standardizzati di comunicazione che le Stazioni appaltanti,
gli Operatori economici e le Società Organismo di
Attestazione dovranno utilizzare per ciascuna tipologia di
informazione da rendere all’Autorità. |
APPALTI:
Modelli di segnalazione all’Autorità per le comunicazioni
utili ai fini dell’esercizio del potere sanzionatorio della
Autorità, relativamente ad Operatori Economici nei cui
confronti sussistono cause di esclusione ex art. 80 del
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nonché per le notizie, le
informazioni dovute dalle stazioni appaltanti ai fini della
tenuta del casellario informatico (comunicato
del Presidente 21.12.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le procedure di mobilità.
DOMANDA:
Un dipendente, inquadrato in categoria C1, pervenuto per
mobilità esterna da altro comune nell’anno 2014 presso
l’area di vigilanza, è stato poi spostato a richiesta con
mobilità interna in area amministrativa nei settori relativi
ai servizi di anagrafe e stato civile, da circa un anno, dei
quali è responsabile di procedimento.
Detto dipendente intende chiedere nulla osta preventivo per
partecipare a una mobilità esterna indetta da altro comune,
sempre in Lombardia, soggetto, come il nostro, al regime di
limitazione delle assunzioni di personale a tempo
indeterminato, indicando quale possibile sostituto un
dipendente di altro comune inquadrato in categoria B4
ritenendo fattibile una mobilità per compensazione.
Ciò premesso, l’attuale normativa, in particolare l’art. 30
del D.Lgs. 165/2001, prevede che si possono ricoprire posti
vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti
"… appartenenti a una qualifica corrispondente e in
servizio presso altre amministrazioni …”. Nel nostro
caso, non sono ancora trascorsi 5 anni dalla mobilità e non
esiste una corrispondenza di qualifica.
Si chiede se tale passaggio sia possibile, come effettuare
l’eventuale compensazione e rispettare la contemporaneità e
se il dipendente subentrante in base alla categoria
posseduta (B) possa essere nominato responsabile di
procedimento in settori così delicati quali quelli di
anagrafe e stato civile.
RISPOSTA:
In risposta al quesito posto, si evidenzia innanzitutto che
l'operazione descritta non rientra pienamente nella così
detta mobilità per compensazione o per interscambio.
Infatti, tale figura -originariamente prevista dall'art. 6,
comma 20, del DPR 268/1987, abrogato dal D.L. 5/2012-
comporta che il trasferimento volontario e reciproco di
dipendenti tra due o più enti, produca "uno scambio del
posto di lavoro" tra i dipendenti stessi.
Occorre, in altre parole, che i lavoratori interessati
dall'interscambio, anche se provenienti da diversi comparti
di contrattazione collettiva, possiedano lo stesso livello
professionale, vale a dire lo stesso inquadramento nelle
diverse aree giuridiche-categorie (nell'ambito della
categoria, non rileva invece l'eventuale differenza di
posizione economica che, peraltro, è finanziata con il fondo
risorse decentrate e non determina un incremento di spesa).
In sostanza occorre che l'operazione tra i due enti sia a “somma
zero” (e non comporti costi aggiuntivi). Questo spiega
perché, ad es., la mobilità per compensazione sia ammessa
anche in caso di violazione del patto di stabilità (ora,
pareggio di bilancio) e non si computi ai fini del rispetto
del tetto massimo alla spesa di personale (FP nota n. 20506
del 27/03/2015 e Corte dei Conti Lombardia 342/2015).
Nel caso prospettato, invece, lo scambio è tra un lavoratore
di categoria C ed uno di categoria B.
Ciò premesso, è indubbio che al di là dell'inquadramento
giuridico della figura, si potrà comunque procedere allo
scambio a titolo di mobilità volontaria. Più precisamente,
trattandosi di enti soggetti a limitazioni delle assunzioni,
si tratterà di una mobilità finanziariamente neutra che,
perciò, potrà avvenire anche in difetto di capacità
assunzionale, purché nell'anno precedente sia stato
rispettato il pareggio di bilancio (art. 1, comma 47, della
legge 311/2004 e comma 475, lett. e, della legge di Bilancio
2017) e il tetto massimo alla spesa di personale posto dal
comma 557 della legge Finanziaria 2007.
Infine, in risposta agli ulteriori quesiti posti, si precisa
che la contemporaneità dello scambio nella mobilità per
compensazione, non deve essere intesa come contestualità, in
quanto è sufficiente che il passaggio di entrambi i
dipendenti avvenga entro "un periodo di tempo congruo"
che non costringa l'ente ad abbattere le spese di personale
(per la mobilità in uscita) a causa dello slittamento della
mobilità in entrata all’esercizio successivo (Corte dei
Conti Veneto n. 65/2013) l'obbligo di permanenza
quinquennale nella sede di prima assegnazione previsto dal
comma 5-bis dell'art. 35 del D.Lgs 165/2001, introdotto
dalla legge finanziaria del 2006, secondo la Funzione
Pubblica (parere uppa 2/2006) non si applica ai comuni.
Inoltre, per l'interpretazione prevalente non si tratta di
un obbligo di carattere oggettivo ma soggettivo, posto a
tutela delle concrete situazioni in cui può trovarsi la P.A.
che, pertanto, potrà o meno farlo valere in relazione alle
proprie esigenze organizzative. La nomina a responsabile del
procedimento di un dipendente inquadrato in categoria B non
è di per sé vietata dalle norme.
Tuttavia la questione merita un approfondimento.
L'art. 5, commi 1 e 2, della L. n. 241/1990 dispone che il
dirigente di ciascuna unità organizzativa assegna a sé o ad
altro dipendente addetto all'unità, la responsabilità della
istruttoria ed eventualmente dell'adozione del provvedimento
finale. In mancanza, è considerato responsabile del singolo
procedimento il funzionario preposto alla singola unità
organizzativa competente. L'art 6, comma 1, lett. e),
precisa che il responsabile del procedimento adotta il
provvedimento finale "ove ne abbia la competenza",
mentre, in caso contrario, trasmette gli atti all'organo
competente per l'adozione.
La norma, dunque, non prevede alcuna prescrizione con
riguardo alla categoria d'inquadramento del dipendente, ma
allo stesso tempo -salva la vigenza di normative speciali e
di settore come, ad es., in materia anagrafica- sembra
limitare la possibilità di attribuire la competenza
all'adozione dell'atto finale nel caso in cui il dipendente
incaricato non rappresenti la figura apicale dell'ufficio
(in considerazione dell'attribuzione di tale competenza al
dirigente o alla figura apicale ex artt. 107, comma 2, e
109, comma 2, Tuel).
Nello stesso senso, d'altronde, si ricorda che negli enti
privi di dirigenza è possibile conferire anche ad un
dipendente di categoria B un incarico di posizione
organizzativa, a condizione che gli sia attribuita la "responsabilità
degli uffici" (e in mancanza di lavoratori di categoria
D - art. 11, comma 3, CCNL 31.03.1999).
In ogni caso, secondo il Consiglio di Stato (parere Sez. I
n. 304 del 03.03.2004) l'attribuzione delle funzioni di
responsabile del procedimento implica quale contenuto
minimo, l'assegnazione della responsabilità dell'istruttoria
e di ogni altro adempimento inerente al procedimento,
rimanendo "solo eventuale" l'adozione del
provvedimento finale (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Convocazioni senza limiti.
Per interrogazioni, interpellanze e mozioni.
Il presidente non può sindacare l'oggetto delle
richieste dei consiglieri.
La minoranza consiliare può presentare richiesta, al
presidente del consiglio comunale, di convocare entro 20
giorni il consiglio per discutere interrogazioni,
interpellanze, mozioni, o ciò costituisce un uso distorto
dell'art. 39 , comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?
Ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000 il presidente del consiglio comunale è tenuto a
riunire il consiglio, «in un termine non superiore ai venti
giorni», quando lo richiedano un quinto dei consiglieri,
inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste.
La
norma sembra configurare un obbligo del presidente del
consiglio comunale di procedere alla convocazione
dell'organo assembleare per la trattazione, da parte del
Consiglio, delle questioni richieste, senza alcun
riferimento alla necessaria adozione di determinazioni da
parte del consiglio stesso.
Tale diritto di iniziativa, «è tutelato in modo specifico
dalla legge, che prevede la modificazione dell'ordine delle
competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto,
misura, questa, severa ed eccezionale, in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine, breve, di
20 giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere
dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio
medesimo» come «diritto» dal legislatore è, quindi, ormai
ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. I
del 04.02.2004, n. 124).
Circa la questione relativa alla sindacabilità dei motivi
che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione
straordinaria dell'assemblea, l'orientamento consolidato è
nel senso di prevedere che al presidente del consiglio
spetti solo la verifica formale della richiesta, non potendo
comunque sindacarne l'oggetto.
In particolare, la giurisprudenza in materia si è da tempo
espressa affermando che, in caso di richiesta di
convocazione del consiglio da parte di un quinto dei
consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal
prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può
sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio
nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare,
salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle
competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere
posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996).
Inoltre, appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea
decidere in via pregiudiziale se un dato argomento inserito
nell'ordine del giorno debba essere discusso (questione
pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione
(questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1,
04.02.2004, n. 124).
L'art. 43 del Tuel peraltro, demanda alla potestà statutaria
e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina
delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle
mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo
proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte,
che devono comunque essere fornite entro 30 giorni.
In tal senso, qualora l'intenzione dei proponenti non sia
diretta a provocare una delibera del consiglio comunale,
bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si
potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza
del consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e
di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione
di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del
comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque a tale
ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che
parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti
fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di
argomenti non rientranti nella previsione del citato comma
2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere
subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da
parte del consiglio comunale.
Pertanto, la richiesta di convocazione del consiglio ex art.
39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 finalizzata
all'esame degli atti di sindacato ispettivo non configura un
utilizzo distorto della citata disposizione, dettata dal
legislatore a tutela delle minoranze consiliari
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2017). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento in concessione ex latteria possibilità di
subentro alla ditta concessionaria.
In materia di contratti pubblici vige il
principio generale di incedibilità del contratto e di
immodificabilità soggettiva dell'aggiudicatario.
Nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici, il
capitolato speciale ha la funzione precipua di
predeterminare, in senso conforme agli interessi
dell'amministrazione, il contenuto del contratto da
stipulare, onde è volto alla regolazione dell'assetto degli
interessi negoziali conseguenti all'affidamento.
Un eventuale subentro al soggetto concessionario non può che
avvenire alle condizioni stabilite nel disciplinare
speciale, espressamente richiamato, quale parte integrante,
dal contratto firmato dal Comune e dal concessionario.
Il Comune riferisce di aver affidato in concessione, con
contratto del 2013 e per la durata di 15 anni, la gestione
dell'ex latteria sociale [1]
sita nel territorio comunale e di aver ricevuto richiesta da
parte della società cooperativa concessionaria -selezionata
tramite procedura aperta- di far subentrare nella gestione
della struttura altro soggetto abilitato. Il Comune chiede
se un tanto sia possibile.
La fattispecie del subentro risulta disciplinata nel
capitolato speciale, che -osserva la giurisprudenza
[2]-, ha
la funzione precipua di predeterminare, in senso conforme
agli interessi dell'amministrazione, il contenuto del
contratto da stipulare, onde è volto alla regolazione
dell'assetto di interessi negoziali conseguenti
all'affidamento.
In particolare, nel capitolato è previsto che 'I diritti
derivanti dal presente contratto sono intrasferibili' e
che 'È ammesso l'ingresso di nuovi soci, se in aggiunta
agli affidatari originari, e purché in possesso dei
necessari requisiti di legittimazione a contrarre con le
Amministrazioni pubbliche. In ogni caso i soci originari
devono mantenere la maggioranza delle quote'
[3].
Ebbene, il capitolato speciale è espressamente richiamato,
quale parte integrante, dal contratto di cui è questione,
firmato dal Comune e dalla Società concessionaria.
Ne deriva che un eventuale subentro non può che avvenire
alle predette condizioni accettate dalla società
affidataria, ciò implicando che, ferma la permanenza della
gestione in capo agli affidatari originari, a questi
potranno aggiungersi nuovi soci, purché i primi mantengano
la maggioranza delle quote.
In proposito, si osserva che la disciplina del subentro
contenuta nel capitolato speciale appare in linea con il
principio generale in materia di contratti pubblici di
incedibilità del contratto e di immodificabilità soggettiva
dell'aggiudicatario selezionato con procedura ad evidenza
pubblica, stabilito dall'art. 118, D.Lgs. n. 163/2006
[4].
Come è noto, infatti, -osserva l'AVCP [5]-
i contratti di diritto pubblico poggiano sul principio
generale della personalità, in virtù del fatto che derivano
da una procedura concorsuale che mira, da un lato, a
premiare l'offerta più vantaggiosa e, dall'altro, a tutelare
l'interesse pubblico alla qualificazione tecnica,
organizzativa, economica e morale delle imprese concorrenti
[6].
Del pari, in giurisprudenza si osserva che le concessioni
amministrative, siano esse relative a beni o a servizi
pubblici, soggiacciono all'applicazione dei principi di
derivazione comunitaria inerenti agli appalti pubblici. E
ciò, proprio per il fatto che, dal punto di vista della
tutela della concorrenza, esse hanno la stessa incidenza sul
mercato degli appalti, visto che il concessionario di beni o
servizi pubblici ricava un'utilità sfruttando economicamente
beni pubblici che non sono disponibili in quantità
illimitata [7].
---------------
[1] In particolare, la gestione della struttura
comprende: apertura di un punto ristoro/caffetteria -
vendita di prodotti agricoli; gestione della mostra
permanente dei funghi e attività didattiche; gestione della
sala convegni/mostre.
[2] Consiglio di Stato, sez. VI, 17.07.1998, n. 1101;
conforme, Consiglio di Stato, sez. V, 20.08.2006, n. 5035.
[3] V. Art. 39 del Capitolato speciale.
[4] Il caso in esame ricade nell'ambito temporale di
applicazione del previgente D.Lgs. n. 163/2006 abrogato
dall'art. 217, c. 1, lett. e), D.Lgs. 18.04.2016, n. 50,
entrato in vigore il 19.04.2016 (art. 220), stante la
previsione di cui all'art. 216 del D.Lgs. n. 50/2016, che ha
stabilito che le disposizioni del decreto medesimo si
applicano alle procedure e ai contratti per i quali i bandi
o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati successivamente alla sua entrata
in vigore.
Ai sensi del comma 1 dell'art. 118, D.Lgs. n. 163/2006, 'i
soggetti affidatari dei contratti di cui al presente codice
sono tenuti ad eseguire in proprio le opere o i lavori,
servizi e forniture compresi nel contratto'; e la violazione
di tale divieto comporta la nullità del contratto.
[5] Ora ANAC (art. 19, D.L. 24.06.2014, n. 90).
[6] AVCP deliberazione n. 19 dell'Adunanza del 19.05.2013.
Nello stesso senso, v. le deliberazioni dell'Autorità n. 31
del 26.10.2011, n. 46/13 adottata nell'adunanza 26.02.2014 e
n. 20 del 09.05.2013. L'AVCP trae il principio generale
dell'incedibilità dei contrati pubblici dall'art. 118,
D.Lgs. n. 163/2006, che sancisce il divieto di cessione del
contratto d'appalto, a pena di nullità.
[7] TAR Marche Ancona, sez. 1, 05.04.2013, n. 285. Nello
stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 25/01/2005, n.
168, secondo cui l'applicazione dei principi di evidenza
alla concessione di beni (in quel caso area demaniale
marittima) trova il suo presupposto sufficiente nella
circostanza che con detta concessione si fornisce
un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato,
tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai
ricordati principi di trasparenza e non discriminazione
(25.01.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Possibilità di presentare querela per diffamazione a tutela
dell'immagine dell'ente.
La giurisprudenza, se pur non preclude
la possibilità che persone giuridiche possano assumere la
qualità di soggetti passivi dei delitti contro l'onore,
pone, tuttavia, dei limiti di natura sostanziale, nel senso
che 'l'offesa deve essere così oggettivamente diffusiva da
incidere anche sull'ente', specificamente sulla
considerazione di cui l'ente gode nella collettività. La
portata diffusiva dell'offesa va valutata sulla base di
rigorosi parametri indicati dalla giurisprudenza e di tutti
gli altri elementi che la fattispecie concreta offre.
Per quanto concerne l'affidamento dell'incarico ad un legale
per la proposizione della querela per diffamazione a tutela
dell'ente, si segnala che, come rilevato dalla Corte dei
conti, la presentazione della querela è atto di parte per il
quale non è necessario il patrocinio e l'assistenza di un
legale.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
presentare querela [1]
per il reato di diffamazione verso chi ha diffuso in
pubblici locali e presso famiglie un volantino in cui si
attribuisce al Sindaco il fatto di essersi aumentato
l'indennità, laddove l'indennità dallo stesso percepita dal
2009 ad oggi è quella prevista dalla legge
[2].
L'Ente ritiene che il volantino riporti dati diffamatori ed
oggettivamente non veritieri e che sia idoneo a danneggiare
l'immagine e la credibilità dell'amministrazione complessiva
e chiede se la Giunta possa deliberare l'affidamento
dell'incarico ad un legale per presentare una 'denuncia
querela' per diffamazione contro i suoi autori.
In via preliminare, si ricorda che l'attività di questo
Servizio consiste nel fornire un supporto generale sulle
questioni giuridiche poste dagli enti ed esula da qualunque
tipo di controllo in ordine ai singoli atti delle
amministrazioni locali, e dunque da qualsiasi ingerenza
sulla valutazione dei fatti che li riguardano. Per cui,
prendendo atto di quanto affermato dall'Ente in ordine alla
corrispondenza a legge dell'indennità del Sindaco e
dell'apprezzamento sul contenuto del volantino, che l'Ente
assume diffamatorio e idoneo a danneggiare l'immagine
dell'amministrazione, a prescindere da qualsiasi valutazione
al riguardo si affronta la questione se vi siano ostacoli,
di carattere giuridico contabile, alla deliberazione della
Giunta di incaricare un legale per la presentazione di
querela, da parte dell'Amministrazione comunale, in
relazione al comportamento degli autori del volantino.
Ai sensi dell'art. 595 c.p., compie reato di diffamazione
chiunque offenda l'altrui reputazione mediante comunicazione
a più persone (comma 1).
Riguardo alla possibilità per le persone giuridiche di
proporre querela contro il reato di diffamazione, nel caso
in cui accanto all'aggressione della persona fisica
specificamente individuata si raffiguri anche quella
dell'ente cui quella persona appartiene, si riportano le
riflessioni della giurisprudenza, secondo cui la capacità di
essere soggetti passivi del reato di diffamazione non può
essere esclusa nei confronti delle entità giuridiche,
associazioni, enti di fatto privi di personalità giuridica,
quali partiti, fondazioni, comunità religiose, corpi
amministrativi o giudiziari [3].
Infatti, l'individuazione del destinatario dell'offesa in
una determinata persona fisica, specificamente aggredita
nell'onore e nella reputazione con riferimento alle funzioni
svolte in un ente collettivo, non preclude la
configurabilità del reato per una concorrente aggressione
all'onore sociale dell'ente al quale quella persona
appartiene [4].
Tuttavia, occorre che l'offesa assuma un evidente carattere
diffusivo, nel senso di incidere direttamente sulla
considerazione di cui l'ente gode nella collettività
[5].
La giurisprudenza ha indicato elementi da cui poter trarre
il carattere diffusivo dell'offesa, tale da incidere anche
sull'ente cui appartiene la persona fisica espressamente
destinataria delle affermazioni del soggetto agente. E così,
la Cassazione penale ha elencato la natura e la portata
dell'aggressione, le circostanze narrate, le espressioni
usate, i riferimenti ed i collegamenti operati dal soggetto
attivo all'attività svolta e alle finalità perseguite dal
soggetto passivo, la forma impersonale delle accuse, l'uso
del plurale, il contesto complessivo del contenuto
diffamatorio, e comunque tutti gli elementi che la
fattispecie offre [6].
La giurisprudenza, dunque, pur non precludendo la
possibilità che persone giuridiche possano assumere la
qualità di soggetti passivi dei delitti contro l'onore,
pone, tuttavia, dei limiti di natura sostanziale, nel senso
che 'l'offesa deve essere così oggettivamente diffusiva
da incidere anche sull'ente' [7],
in relazione ai rigorosi parametri sopra riportati.
Al fine dell'autonoma valutazione dell'Ente, in ordine alla
propria legittimazione a proporre querela, appare pertanto
fondamentale la ponderazione dell'effettivo coinvolgimento
diretto dell'Amministrazione comunale (e non soltanto del
Sindaco) nella portata -che l'Ente afferma diffamatoria-
delle espressioni utilizzate nel volantino.
A ciò si aggiunga la valutazione in ordine all'esimente del
diritto di critica, ai sensi dell'art. 51 c.p., secondo cui
l'esercizio di un diritto esclude la punibilità.
Con specifico riferimento alla critica espressa in un
contesto di opposizione politica (come nel caso di specie),
a mezzo stampa [8],
la giurisprudenza ha affermato che la critica costituisce
attività speculativa e congetturale, attraverso la lettura o
rivisitazione di fatti veri, per cui la stessa non può
pretendersi del tutto asettica, quasi fedele riproposizione
di quegli accadimenti, perché se così fosse sarebbe cronaca
e non già giudizio di valore. La critica non può essere del
tutto avulsa da ogni riferimento alla realtà sostanziale,
deve pur sempre riferirsi ad un determinato evento, tra gli
altri socio-politico, ma, per sua stessa natura, consiste
nella rappresentazione, per l'appunto critica, di quello
stesso fatto e dunque nella sua elaborazione
[9].
Infine, sotto il profilo degli ostacoli di natura contabile
che si potrebbero frapporre all'affidamento, con delibera di
giunta, dell'incarico ad un legale per la proposizione della
querela, si osserva che la presentazione della querela, da
intendersi quale diritto riconosciuto ad ogni persona offesa
da un reato, per cui non debba procedersi d'ufficio, è atto
di parte per il quale non è necessario il patrocinio e
l'assistenza di un legale [10].
---------------
[1] Il reato di diffamazione lamentato dall'Ente è
punibile a querela della persona offesa. La querela può
essere presentata dalla persona offesa dal reato entro tre
mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce
reato (art. 124 c.p.).
[2] In proposito, per rigore espositivo, si richiama l'art.
41, c. 2, L.R. n. 18/2015, ai sensi del quale la misura
delle indennità base di funzione e di presenza degli
amministratori locali è determinata con deliberazione della
Giunta regionale su proposta dell'Assessore competente,
sentita la Commissione consiliare competente. In materia,
vige tuttora la DGR 24.06.2011, n. 1193 -emanata nella
vigenza dell'art. 3, comma 13, L.R. n. 13/2002, abrogato e
trasfuso nell'art. 41, comma 2, L.R. n. 18/2015, cit.-, che
ha determinato le indennità di funzione del sindaco ed ha
altresì previsto le misure percentuali di aumento, alle
condizioni ivi previste. In particolare, si veda il punto 15
della DGR n. 1193/2011, nella parte in cui prevede l'aumento
del 35% dell'indennità di funzione per gli amministratori,
ad eccezione dei lavoratori dipendenti non collocati in
aspettativa.
[3] Cass. pen., sez. V, 26.10.2001, n. 1188; Cass. pen.,
sez. V, 16.06.2011, n. 37383. Conformi sulla possibilità
anche per le persone giuridiche di assumere la veste di
soggetti passivi del delitto di diffamazione: Cass. pen.,
sez. V, 07.10.1998, n. 12744; Trib. Milano, sez. I,
23.03.2015, n. 3747. Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n.
4982.
[4] Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n. 4982.
[5] Cass. pen., sez. V, 26.10.2001, n. 1188; Cass. pen.,
sez. V, 16.06.2011, n. 37383.
[6] Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n. 4982; Cass. pen.,
sez. V, 26.10.2001, n. 1188; Cass. pen., sez. V, 16.06.2011,
n. 37383.
[7] Cass. pen., sez. V, 30.01.1998, n. 4982.
[8] Fattispecie integrata, tra l'altro, dalla distribuzione
di volantini, cfr. Cass. pen., sez. II, 25.03.2011, n.
26133.
[9] Cass. pen., sez. V, 16.11.2004, n. 6416. Nello stesso
senso, Cass. pen., 26.09.2014, n. 48712, secondo cui,
nell'esercizio del diritto di critica politica, il rispetto
della verità del fatto assume rilievo limitato, in quanto la
critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva,
ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per
definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed
asettica. Il limite immanente all'esercizio del diritto di
critica è, pertanto, costituto dal fatto che la questione
trattata sia di interesse pubblico e che comunque non si
trascenda in gratuiti attacchi personali (limite della
continenza). Ove il giudice pervenga, attraverso l'esame
globale del contesto espositivo, a qualificare quest'ultimo
come prevalentemente valutativo, i limiti dell'esimente sono
costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla
correttezza di espressione.
[10] Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Regione
Lombardia, 12.07.2011, n. 452 (19.01.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: Statali,
sui premi parola ai contratti nazionali.
Pubblico impiego. La riforma in arrivo permette
di superare i parametri rigidi di legge sulla produttività.
Dopo il tentativo, vano, di impedire la
distribuzione indiscriminata dei premi di produttività ai
dipendenti pubblici imbrigliandone le regole della legge,
con la nuova riforma in arrivo per attuare la delega Madia
la parola torna ai contratti.
Il passaggio, nelle intenzioni del governo, non dovrebbe
tradursi in un “liberi tutti”, ma l’obbligo di differenziare
i premi a seconda del merito, individuale e dell’ufficio,
sarebbe tradotto in principi più flessibili per andare
incontro alle differenze che si incontrano fra ente ed ente,
evitando che troppa rigidità si traduca in un nulla di
fatto.
Uno dei pilastri del nuovo decreto legislativo, anticipato
sul Sole 24 Ore di ieri e atteso in consiglio dei ministri
nelle prossime settimane, è proprio la riforma dei premi di
produttività, considerata sia dal governo sia dai sindacati
un presupposto indispensabile per far partire i nuovi
contratti. Oggi le regole sono scritte nella legge Brunetta
del 2009, che fissa due obblighi: alla produttività deve
andare la «quota prevalente» (cioè oltre il 50%, secondo la
lettura più ovvia) dei fondi che finanziano il trattamento
accessorio, vale a dire tutta la parte di busta paga che si
aggiunge allo stipendio base («tabellare»).
Qui arriva il primo problema, perché in molti comparti,
dalla sanità agli enti locali, questo significherebbe
alleggerire i capitoli dei fondi decentrati che finanziano
altre indennità, dai turni alle indennità di «rischio» e di
«disagio» che premiano chi lavora in strada come la polizia
municipale. Oltre a questo, la riforma Brunetta impone di
dividere i dipendenti di ogni amministrazione statale in tre
fasce di merito, e in «almeno tre fasce» nel caso di regioni
ed enti locali, azzerando del tutto i premi per chi si trova
nell’ultima, quella che raccoglie i dipendenti con le
pagelle meno brillanti.
Tutto questo impianto, che avrebbe dovuto debuttare al
«primo rinnovo contrattuale» post-riforma, è stato subito
messo in un angolo dal congelamento della contrattazione, ma
ora torna di attualità. E, se applicato, finirebbe per
trasformare il riavvio delle trattative in una cattiva
notizia per molti, perché gli aumenti promessi (e in buona
parte ancora da finanziare) non basterebbero a compensare
l’azzeramento della produttività e la riduzione delle altre
indennità.
Per aggirare l’ostacolo, le bozze del decreto sul pubblico
impiego fissano un principio generale, che permette ai
contratti nazionali di derogare tutte le norme sul pubblico
impiego con l’eccezione di quelle scritte nel Testo unico (Dlgs
165/2001) in via di riforma. E i principi della legge
Brunetta, dalla «quota prevalente» alle tre fasce, nel testo
unico non ci sono.
Da evitare, però, c’è appunto anche il via libera ufficiale
alle famigerate distribuzioni “a pioggia”, abituali
in molte amministrazioni dove anche la produttività, come le
altre voci accessorie, è stata spesso utilizzata per
rafforzare un po’ le buste paga congelate dal 2010. Gli
strumenti nelle mani del governo per provare a garantire la
differenziazione sono due: il principio potrebbe essere
ribadito nel testo finale del nuovo decreto, magari senza
andare troppo nel dettaglio per non incappare negli stessi
problemi della riforma del 2009, e poi articolato negli atti
di indirizzo che la Funzione pubblica deve inviare all’Aran
per far partire i lavori sui nuovi contratti.
Anche su questo tema il progetto punta ad avvicinare i
meccanismi del lavoro pubblico a quelli del settore privato,
dove i premi di risultato, incentivati con un'aliquota
fiscale piatta del 10%, sono stati di fatto reintrodotti con
la legge di Stabilità 2016: il loro riconoscimento è però
legato a incrementi misurabili di alcuni “indicatori”, come,
oltre alla produttività, la reddittività, la qualità,
l'efficienza e l’innovazione. Se queste somme vengono
contrattate in azienda, diventano welfare, completamente
esentasse (altro aspetto che la riforma punta in prospettiva
a portare anche nella Pa). Negli uffici pubblici il merito
dovrebbe essere misurato secondo la riforma in base a un
doppio sistema di obiettivi: quelli «nazionali», che
definiscono le «priorità strategiche» della Pa nel suo
complesso, e quelli specifici di ogni ente, da dettagliare
nel piano delle performance.
Tra le priorità generali tornerà anche la lotta
all’assenteismo (sono 9,2 i giorni di assenza medi all’anno
secondo la Ragioneria generale, ma il dato nasconde
situazioni parecchio differenziate): per contrastare quello
strategico, la riforma dovrebbe tagliare i premi in
particolare a chi diserta troppo l’ufficio di lunedì o
venerdì, quindi a ridosso del fine settimana, anche se
distinguere fra le assenze motivate e quelle strategiche non
sembra facile (articolo Il Sole 24 Ore del
29.01.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pa,
estesi i licenziamenti «veloci». In arrivo il decreto sul
pubblico impiego - Uscita in 30 giorni per chi è colto in
flagranza.
La procedura «sprint» che porta alla sospensione in 48 ore e
all’uscita in 30 giorni di chi viene visto timbrare
l’entrata senza poi andare in ufficio si estende a tutti i
comportamenti punibili con il licenziamento e colti in
flagrante: comportamenti che a loro volta si estendono, e
oltre ad assenze ingiustificate, falsi documentali e
condotte aggressive comprendono anche le violazioni gravi e
reiterate dei codici di comportamento, la ripetuta
valutazione negativa e, per i dirigenti, il mancato
esercizio con dolo o colpa grave, dell’azione disciplinare.
Per i procedimenti disciplinari ordinari, invece, i termini
scendono da 120 a 90 giorni.
Sono queste le novità principali portate dalla bozza del
nuovo decreto sul pubblico impiego, il provvedimento
chiamato ad attuare la riforma Madia sulle regole per gli
statali e a preparare il terreno per far ripartire le
trattative sui contratti.
Per centrare questo obiettivo la riforma riscrive anche il
rapporto fra legge e contratti, fissando il principio che
questi ultimi potranno derogare le leggi che riguardano il
lavoro pubblico, con l’eccezione del Testo unico: per questa
via, si possono accantonare le regole scritte dalla legge
Brunetta, che impone di dedicare alla produttività la «quota
prevalente» dei fondi per i trattamenti accessori e di
dividere i dipendenti in tre fasce di merito.
Queste regole, che sono state subito congelate insieme ai
rinnovi contrattuali, rappresentano uno degli ostacoli più
importanti sul riavvio delle trattative, perché imporrebbero
di azzerare i «premi» a un quarto del personale della
Pa centrale, e prosciugherebbero voci che oggi finanziano
altre indennità come i turni, il «disagio» e così
via. Le tre fasce e la «quota prevalente», però, sono
scritte nella legge Brunetta e non nel Testo unico, per cui
potranno essere derogate.
Il nuovo testo, atteso in uno dei prossimi consigli dei
ministri prima della ricerca dell’intesa (imposta dalla
Consulta) con Regioni ed enti locali e dei pareri
parlamentari, dovrebbe intervenire anche sull’articolo 18.
Il vecchio Statuto dei lavoratori, come ribadito in più di
un’occasione dalla ministra per la Pa e la semplificazione
Marianna Madia, rimane in vigore nel pubblico impiego, ma
qualche novità si affaccia all’orizzonte.
I “vizi formali” non determineranno più la decadenza
dell’azione disciplinare (purché non venga leso il diritto
di difesa del lavoratore); se ci sono “prove schiaccianti”
nel giudizio penale (per esempio, che portano, in sede di
ordinanza non definitiva, alla custodia cautelare in
carcere) la Pubblica amministrazione non sarà più costretta
ad attendere la definizione della controversia per
proseguire il giudizio disciplinare nei confronti
dell’impiegato infedele (e quindi, potrà subito mandarlo via
dall’ufficio); e se il giudice annulla il licenziamento (o
qualsiasi altra sanzione disciplinare) per violazione del
principio di proporzionalità (hai sì commesso il fatto
illecito, ma la sanzione che ti è stata irrogata è
eccessiva) l’amministrazione avrà 60 giorni di tempo (dal
passaggio in giudicato della pronuncia) per riattivare
correttamente il procedimento disciplinare nei confronti
dell’interessato (oggi, quando arriva la sentenza, se non
converte la sanzione direttamente il giudice, scatta
automatico il reintegro in servizio del dipendente).
Sull’applicazione delle tutele in caso di licenziamenti
illegittimi, insomma, si sta arrivando a un compromesso: in
caso di annullamento dell’atto di recesso datoriale
resterebbe in piedi, a vantaggio dei lavoratori, la tutela
reale piena accordata dall’articolo 18 dello Statuto,
pre-riforma Fornero (in pratica, reintegrazione nel posto di
lavoro per qualsiasi tipologia di licenziamento).
Si aprirebbe invece, rivisitando il modello delineato
dall’articolo 21-octies della legge 241 del 1990, sui vizi
formali (o procedurali) sancendone, nei fatti, l’irrilevanza
ai fini della legittimità dell’azione disciplinare e della
sanzione espulsiva irrogata, se non è stato violato il
diritto di difesa del lavoratore e nel rispetto dei termini
previsti. «Una novità non di poco conto -evidenzia Sandro
Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’Università di
Bologna- in quanto tende ad azzerare la tradizionale
equiparazione tra vizio sostanziale e vizio formale ai fini
della sanzionabilità dell’atto di recesso illegittimo,
naturalmente allorquando sono invece giudizialmente
accertati la sussistenza dell’illecito e il rispetto dei
diritti di difesa».
«Certo, con riguardo alle tutele, la distanza con i
lavoratori del settore privato resta ampia a favore di
quelli pubblici e quindi difficilmente spiegabile anche sul
costituzionale. Si poteva forse fare di più per avvicinare
le discipline, ma i termini della delega con riguardo
all’articolo 18 Stat. Lav. erano troppo limitati per un
intervento di maggiore impatto» (articolo Il Sole 24 Ore del
28.01.2017). |
APPALTI: Appalti,
massima trasparenza Avvisi e bandi vanno ancora pubblicati
sui quotidiani. Lo prevede il
decreto del Mit. In attesa della piattaforma Anac, resta la
pubblicazione in G.U.
Confermato l'obbligo di pubblicare avvisi e bandi di gara
sui quotidiani con modalità differenziate a seconda
dell'oggetto e dell'importo.
È quanto, in estrema sintesi, prevede il dm Infrastrutture 02.12.2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 20 del
25.01.2017 (si veda ItaliaOggi di ieri).
Il
provvedimento dà attuazione all'articolo 73, comma 4, del
nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016).Tale
disposizione ha rimesso a un decreto del ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con l'Anac, la
definizione degli indirizzi e delle modalità di
pubblicazione, «anche con l'utilizzo della stampa quotidiana
maggiormente diffusa nell'area interessata». Nelle more,
l'art. 9, comma 4, del decreto mille proroghe (dl 244/2016)
aveva prorogato la disciplina precedente (art. 66, comma 7,
del dlgs 163/2006), disponendone il superamento proprio a
decorrere dall'entrata in vigore del «decreto di cui
all'articolo 73, comma 4».
Per gli avvisi e i bandi di importo superiore alla soglia di
cui all'art. 35, comma 1, lettera a), del codice (ossia 5,2
milioni di euro per i lavori, 209.000 euro per servizi e
forniture), è richiesta la pubblicazione per estratto su
almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale
e su almeno due a maggiore diffusione locale nel luogo ove
si eseguono i contratti.
Per i lavori o concessioni di importo inferiore alla
predetta soglia (5,2 milioni di euro), ma superiore a
500.000 euro, basta pubblicare il bando o l'avviso, sempre
per estratto, su almeno uno dei principali quotidiani a
diffusione nazionale e su almeno uno a maggiore diffusione
locale
Per gli altri affidamenti (lavori di importo inferiore a
500.000 euro, servizi e forniture di importo inferiore a
209.000 euro), sarà un successivo decreto a disciplinare le
modalità di pubblicazione; nel frattempo, continuerà ad
applicarsi la disciplina attuale, che non impone la
pubblicità sui quotidiani.
La pubblicazione sui giornali dovrà avvenire dopo 12 giorni
dalla trasmissione alla Gazzetta Ufficiale delle Comunità
Europee, ovvero dopo cinque giorni da detta trasmissione in
caso di riduzione dei termini di cui agli articoli da 60 a
63 del codice, e, per gli appalti di lavori di importo
compreso fra 500.000 e 5,2 milioni di euro, entro cinque
giorni dalla pubblicazione avente valore legale.
Il decreto
prevede la pubblicità obbligatoria sui quotidiani anche
degli avvisi di post-informazione relativi agli appalti
aggiudicati, sempre con le medesime modalità differenziate
previste per bandi e avvisi: per i lavori, sopra soglia
comunitaria, occorre la pubblicazione per estratto su almeno
due quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due
quotidiani a diffusione locale dopo dodici giorni, o cinque
giorni in caso di urgenza, dalla trasmissione alla Guce; per
i lavori sotto soglia di importo maggiore o uguale a 500.000
euro, bastano un quotidiano a diffusione nazionale e uno a
diffusione locale. Gli avvisi di post-informazione relativi a
lavori sotto soglia comunitaria di importo inferiore a
500.000 euro possono essere pubblicati solo sull'albo
pretorio del comune dove si eseguono i lavori entro 30
giorni dal decreto di aggiudicazione.
Il provvedimento ha anche cura di precisare che, ai fini
della pubblicazione su quotidiani locali, per area
interessatasi intende il territorio della provincia cui
afferisce l'oggetto dell'appalto e nell'ambito del quale si
esplicano le competenze dell'amministrazione aggiudicatrice.
Confermata, infine, la norma che impone all'aggiudicatario
il rimborso delle spese per la pubblicazione obbligatoria
degli avvisi e dei bandi di gara entro il termine di 60
giorni dall'aggiudicazione. Con una nota diffusa ieri,
intanto, il ministero delle infrastrutture ha specificato
che la piattaforma telematica Anac destinata alla
pubblicazione sarà disciplinata con apposito atto dell'Anac
pubblicato in Gazzetta Ufficiale e che fino alla piena
operatività di tale piattaforma si continui con la
pubblicazione di avvisi e bandi sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana, serie speciale relativa ai
contratti pubblici, e sulla stampa quotidiana.
Circa gli
effetti giuridici della pubblicazione dei bandi e degli
avvisi, aggiunge il ministero, è stabilito che, fino alla
piena operatività della piattaforma Anac, continuino a
decorrere dalla data di pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale o, per gli appalti di lavori di importo inferiore
a 500.000 euro, dalla data di pubblicazione nell'albo
pretorio del comune dove si eseguono i lavori
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Riforma,
subappalti da rivedere. Estendere fino a 5,2 mln la soglia
per il massimo ribasso. Richieste di
modifica del nuovo codice dei contratti da parte dei
cosiddetti settori speciali.
Snellire le procedure, aumentare la soglia per affidare con
il massimo ribasso, limitare il vincolo del 30% sul
subappalto.
Sono queste alcune delle richieste di modifica al nuovo
codice dei contratti pubblici che arrivano dal mondo dei
cosiddetti «settori speciali» e in particolare dal settore
ferroviario (Rfi) ascoltato il 24 gennaio, insieme ad
Invitalia, dalle commissioni riunite ambiente e lavori
pubblici di camera e senato sulle prossime modifiche del
decreto 50/2017.
Si tratta della definizione del primo decreto correttivo del
nuovo codice per cui ad oggi vale il termine del 19 aprile,
visto che non risulta all'ordine del giorno alcuna richiesta
di proroga. Anzi, sia dal ministero delle infrastrutture,
sia in questi ultimi giorni anche dall'Ance, si ribadisce la
linea di andare rapidamente verso una celere approvazione
delle proposte di modifica del Codice, anche nell'attuale
situazione che vede completato soltanto parzialmente
l'articolato iter di attuazione della riforma, che conta su
più di 50 provvedimenti di cui poco più di una decina sono
in vigore.
In sede parlamentare continuano però le audizioni e martedì
scorso è stato Maurizio Gentile, a.d. e d.g. di Rete
ferroviaria italiana (Rfi) a dare i voti al decreto 50,
indicando i punti da correggere.
Preliminarmente Rfi ha espresso un giudizio complessivamente
positivo sul nuovo codice dei contratti pubblici e ha
fornito dati che sintetizzano l'effetto del nuovo codice
degli appalti dal punto di vista dell'applicazione da parte
del gruppo ferroviario: nel 2015 era stato concluso
l'affidamento per più di 2 miliardi di euro, mentre nel 2016
le attività negoziali di Rfi sono state superiori ai 4
miliardi, grazie alle nuove risorse delle leggi di
Stabilità.
A fronte di questo aumento, Rfi ha segnalato un elemento
negativo determinato dall'allungamento dei tempi delle
attività negoziali legato alla mancanza di esperienza
nell'applicazione delle nuove procedure così come
disciplinate nel nuovo quadro normativo, che comunque il
gruppo ferroviario ha iniziato ad applicare anche in assenza
del completamento della cosiddetta «soft law».
Fra i fattori negativi Gentile ha posto l'accento anche
sulla gestione più complessa del subappalto e sulla
disciplina del criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa prevista dal nuovo Codice: in questo caso
(l'offerta economicamente più vantaggiosa, ndr) la proposta
è quella di portare da un milione fino alla soglia
comunitaria (5,2 milioni di euro, ndr) il limite entro il
quale si possa aggiudicare le gare con il massimo ribasso in
presenza del progetto esecutivo, perché così si ridurrebbero
i tempi di aggiudicazione. Sulla disciplina del subappalto,
più complessa rispetto al passato, si è detto d'accordo
sulla limitazione del 30% (applicazione del limite soltanto
alla «categoria prevalente»).
Richiesto anche un intervento sull'articolo 29 («Principi in
materia di trasparenza») del nuovo codice degli appalti che
prevede maggiori adempimenti amministrativi e pubblicitari,
con «un forte appesantimento della pubblicazione degli
atti».
Il subappalto è stato oggetto di attenzione anche
nell'audizione dell'ad di Invitalia: Domenico Arcuri ha
posto dei dubbi interpretativi sull'obbligo di indicare la
terna dei subappaltatori. In generale, comunque, anche da
Invitalia è giunto un giudizio positivo sia sull'importanza
del criterio dell'offerta economica più vantaggiosa che
sugli effetti positivi del metodo antiturbativa e
sull'obiettivo di ridurre il numero delle stazioni
appaltanti.
Perplessità sono state espresse in ordine al
sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, in
particolare sul livello di soccombenza nel contenzioso quale
criterio per la valutazione che andrebbe precisato meglio
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Bonifica
amianto, 5 mln per gli edifici pubblici.
Fondo per finanziare la progettazione. Richieste
entro marzo.
Dal 30 gennaio al 30 marzo gli enti pubblici potranno fare
richiesta di finanziamento per la progettazione di
interventi di bonifica dall'amianto in edifici di loro
proprietà; 5,5 milioni i fondi a disposizione e più di 6
ogni anno per il 2017 e il 2018; necessaria una relazione
tecnica asseverata da un professionista.
Lo prevede il bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.
19 del 24.01.2017 con il quale viene avviata la
procedura pubblica, destinata agli enti pubblici per il
finanziamento della progettazione preliminare e definitiva
di interventi di bonifica di edifici pubblici contaminati da
amianto, in conformità a quanto disposto dal decreto del
ministero dell'ambiente del 21.09.2016 (si veda
l'anticipazione pubblicata su ItaliaOggi di giovedì 26.01.2016).
Si tratta del fondo di 5,536 milioni (6,018 milioni sono
previsti per ciascun anno nel 2017 e nel 2018) che servirà a
coprire i costi di progettazione fino a un massimo, per ogni
intervento, di 15 mila euro, anche a copertura dei
corrispettivi da porre a base di gara.
Gli interventi finanziabili saranno soltanto quelli
concernenti edifici e strutture di proprietà degli enti
pubblici e destinate allo svolgimento delle attività
dell'ente o di attività di interesse pubblico. Il bando
precisa che per progettazione preliminare e definitiva si
intendono i livelli di progettazione inferiori al progetto
esecutivo e comunque finalizzati e necessari alla redazione
dello stesso.
Gli interventi finanziabili saranno quelli relativi ai
lavori di rimozione dell'amianto e dei manufatti in
cemento-amianto da edifici e strutture pubbliche, compreso
lo smaltimento, anche previo trattamento in apposte
strutture, da effettuarsi nel rispetto della normativa
ambientale, edilizia e di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Alla richiesta di finanziamento dovrà essere allegata una
relazione tecnica asseverata da professionista abilitato,
trasmessa attraverso l'applicativo presente sul portale e
adottata in conformità al modello di cui all'allegato A al
bando stesso. In particolare, nella relazione devono essere
specificati: la destinazione d'uso dei beni o dei siti sede
dell'intervento, la localizzazione e la destinazione d'uso
dei manufatti contenenti amianto, la tipologia, la quantità
e lo stato di conservazione dei materiali; le modalità di
intervento di bonifica proposto; la stima dei lavori da
eseguire con dettaglio dei costi di progettazione soggetti a
finanziamento; il cronoprogramma orientativo delle attività,
incluse le fasi progettuali.
Ogni ente potrà presentare una sola richiesta di
finanziamento per la progettazione di un singolo intervento,
ma l'intervento potrà riguardare anche più edifici o unità
locali, sempre nel rispetto del limite complessivo di 15
mila euro. Le domande dovranno essere presentate dal 30
gennaio al 30.03.2017 tramite l'applicativo presente nel
portale del ministero dell'ambiente all'indirizzo
www.amiantopa.minambiente.ancitel.it.
Priorità verrà data
agli interventi relativi a edifici entro un raggio non
superiore a 100 metri dalle scuole, parchi, ospedali e
impianti sportivi (40 punti) ma 10 punti saranno previsti
anche per interventi per i quali vi sia un progetto cantierabile in 12 mesi, o ad interventi in siti in cui sia
stata già segnalata la presenza di amianto o collocati
all'interno di un sito di interesse nazionale o inseriti
nella mappatura dell'amianto in base al dm 101 del 2003
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2017). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
17, comma 3, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
esonera dal pagamento del contributo “…gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari” qualora, ovviamente, questi
ultimi abbiano già e conservino natura residenziale.
Nel caso di specie, la semplice iscrizione catastale nella
categoria A/4 non vale a dimostrare che l’edificio avesse
uso corrispondente e residenziale, poiché le risultanze
catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza,
valenza meramente sussidiaria.
Ne consegue che, ove anche si voglia e possa prescindere
dalla qualificazione urbanistico-edilizia contenuta nella
relazione illustrativa del P.R.G.C., che indica l’edificio
come avente “destinazione rurale”, l’appellante doveva
suffragare con altri elementi probatori l’asserita
destinazione residenziale, non potendo assumere alcun
rilievo il rilascio di concessione edilizia per altra
porzione di fabbricato, riveniente dal frazionamento di
unico originario compendio, che ben avrebbe potuto avere
destinazione residenziale già a esso impressa o conseguente
ai relativi lavori.
---------------
... per la riforma della
sentenza
18.01.2006 n. 101 in forma semplificata del
TAR per il Piemonte, Sez. 1^, notificata il 03.02.2006, resa tra le parti, con
cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso in primo
grado n.r. 1642/2005, proposto per l’annullamento della nota
n. 17703 di prot. del 03.11.2005 recante intimazione
del pagamento della somma di € 10.512,37 a titolo di
contributo di costruzione relativo alla d.i.a. per
ristrutturazione e ampliamento di fabbricato
...
1.) Pi.Al.Me., quale proprietario di fabbricato
ubicato in Cambiano con accesso dalla via ... n. 6
(iscritto in catasto fabbricati a fg. 10, particella n. 592,
sub 4), cat. a/4) composto da piano terreno e primo piano, ha
presentato in data 18.04.2005 denuncia d’inizio di
attività per la realizzazione di lavori di ristrutturazione
e ampliamento.
Con nota del 06.09.2005 il responsabile dello
sportello unico comunale per l’edilizia chiedeva la
rettifica del calcolo relativo all’aumento di superficie
utile, e indicava il contributo di costruzione dovuto in
complessivi € 10.512,37 (di cui € 5.220.54 per quota parte
di oneri di urbanizzazione primaria, € 3.957,84 per quota
parte di oneri di urbanizzazione secondaria ed € 1.333,99
per quota parte del costo di costruzione).
Con nota protocollata in data 05.10.2005 l’interessato,
nell’inviare la richiesta rettifica, significava che non
riteneva dovuto il contributo di costruzione ai sensi
dell’art. 17, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001 perché
l’ampliamento era inferiore al 20% di edificio unifamiliare.
Con nota n. 17703 di prot. del 03.11.2005 il
responsabile dello sportello unico comunale per l’edilizia
intimava il pagamento della suddetta somma rilevando che
l’intervento rientrava nella categoria della
ristrutturazione edilizia di tipo B con aumento di
superficie utile superiore al 20% della cubatura totale
dell’edificio, e che il fabbricato era situato all’interno
del centro storico e classificato come cellula edilizia
ordinaria n. 299, sulla quale insisteva fabbricato rurale
–secondo la relazione illustrativa del piano regolatore
generale comunale- per il quale non era stata versata alcuna
somma per il cambio di destinazione all’uso residenziale.
...
4.) Il Collegio rileva che la sentenza gravata è affatto
erronea quanto alla declaratoria d’inammissibilità del
ricorso in primo grado.
E’ infatti palese che la controversia ha ad oggetto un
giudizio di accertamento negativo in ordine all’obbligazione
pecuniaria relativa al pagamento del contributo di
costruzione, in ambito di giurisdizione esclusiva, rispetto
alla quale gli atti di liquidazione sono privi di contenuto
ed effetti provvedimentali (secondo orientamento pacifico:
cfr. tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2016,
n. 2394 e 19.03.2015, n. 1504; sulla natura paritetica di
tali atti vedi anche Sez. V, 13.10.2010, n. 7466).
Il rilievo che precede implica, correlativamente, anche la
reiezione dell’eccezione di difetto di giurisdizione, come
spiegata dal Comune appellato nella memoria depositata il 07.12.2016.
5.) Nondimeno il ricorso proposto in primo grado è infondato
e deve essere rigettato, all’esito dell’esame delle
riproposte censure.
L’art. 17, comma 3, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 esonera dal pagamento del contributo “…gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari” qualora, ovviamente, questi
ultimi abbiano già e conservino natura residenziale.
Nel caso di specie la semplice iscrizione catastale nella
categoria A/4 non vale a dimostrare che l’edificio avesse
uso corrispondente e residenziale, poiché le risultanze
catastali rivestono, secondo consolidata giurisprudenza,
valenza meramente sussidiaria (cfr. tra le tante, Cons.
Stato, Sez. VI, 05.06.2015, n. 27595 e 05.01.2015, n.
5, nonché Sez. IV, 18.04.2014, n. 1994 e 21.10.2013, n. 5109; nel senso che non siano decisive nemmeno
quanto alla effettiva consistenza dell’immobile vedi Sez. IV,
06.08.2014, n. 4208).
Ne consegue che, ove anche si voglia e possa prescindere
dalla qualificazione urbanistico-edilizia contenuta nella
relazione illustrativa del P.R.G.C., che indica l’edificio
di via ... n. 6 come avente “destinazione rurale”,
l’appellante doveva suffragare con altri elementi probatori
l’asserita destinazione residenziale, non potendo assumere
alcun rilievo il rilascio di concessione edilizia per altra
porzione di fabbricato, riveniente dal frazionamento di
unico originario compendio, che ben avrebbe potuto avere
destinazione residenziale già a esso impressa o conseguente
ai relativi lavori.
6.) In conclusione, in riforma della sentenza gravata deve
rigettarsi il ricorso proposto in primo grado, avendo il il
Collegio esaminato e toccato tutti gli aspetti rilevanti a
norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio
sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato
(come chiarito dalla giurisprudenza costante: ex plurimis,
per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ.,
sez. V, 16.05.2012, n. 7663), laddove gli argomenti di
doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti
non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a
condurre a una conclusione di segno diverso (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 01.02.2017 n. 425 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle
Linee guida Anac sugli affidamenti in house: "Linee guida
per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano
mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie
società in house previsto dall’art. 192 del d.lgs. 50/2016".
Il Consiglio
di Stato ha reso parere favorevole con osservazioni sulle
Linee guida “vincolanti” dell’Anac “per
l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano
mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie
società in house”, previsto dall’art. 192 del Codice dei
contratti pubblici.
Il parere -rilevato che lo scopo della norma è garantire
pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici- fornisce
una ricostruzione in cui la funzione di controllo dell’Anac
sia pienamente compatibile con il divieto di introdurre “livelli
di regolazione superiori a quelli minimi” richiesti
dalle direttive europee (cd. “goldplating”).
Da un lato, il Consiglio di Stato ha affermato che la
pubblicità prevista dalla legge non è “costitutiva”
ma “dichiarativa”: in presenza dei requisiti di
legge, la domanda di iscrizione all’elenco consente di per
sé “di procedere all’affidamento senza gara, senza bisogno
dell’intermediazione di un’attività provvedimentale
preventiva” (ovvero, non occorre un esplicito atto dell’Anac
di iscrizione all’elenco).
Dall’altro, lo stesso Consiglio ha affermato che “la
domanda innesca una fase di controllo dell’Anac” che, in
caso di esito negativo, si traduce in un provvedimento che
impedisce futuri affidamenti in house. Questo provvedimento
è impugnabile davanti al giudice amministrativo, poiché “ha
carattere autoritativo ed effetto lesivo”.
Gli affidamenti in house già in essere restano
efficaci, ma l’Anac potrà agire attraverso la cd. “raccomandazione
vincolante”, invitando l’amministrazione a rimuovere il
provvedimento illegittimo.
Quanto ai requisiti sostanziali necessari per procedere
all’affidamento in house, il Consiglio di Stato (con
particolare riferimento al requisito del cd. “controllo
analogo”) rileva che i parametri fissati dall’Anac “sono
esemplificativi e non fissano una griglia esaustiva”,
poiché altrimenti ciò costituirebbe una integrazione o una
modifica delle “regole elastiche fissate dalla legge”
(Consiglio di
Stato, comm. spec.,
parere 01.02.2017 n. 282 -
commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danno da demansionamento e danno da mobbing.
---------------
●
Mobbing – Danno da mobbing – Differenza dal danno da
demansionamento - Individuazione.
●
Mobbing –
Presupposti – Sistematicità degli episodi – Necessità.
●
Processo
amministrativo – Prove – File audio – Sono tali.
●
Il danno da demansionamento e il danno da mobbing
costituiscono due disitnte situazioni giuridiche: il
mobbing, diversamente dal demansionamento, è caratterizzato
dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del
datore di lavoro, intento che deve formare oggetto di
dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto,
fermo restando che il demansionamento, qualora provochi
danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento
indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing
(1).
●
La condotta illecita di mobbing non è ravvisabile
quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i
comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria
siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro,
funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o
imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine,
quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al
comportamento datoriale (2).
●
I file audio (id est, le registrazione) possono
costituire elementi probatori oggetto di prudente
apprezzamento dal parte del giudice amministrativo, ai sensi
dell’art. 2729 cod. civ. (3).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che i fatti portati a fondamento sia del
danno da demansionamento che del danno da mobbing, devono
essere provati in giudizio secondo il principio dell’onere
della prova, sancito dall’art. 2697 cod. civ. e valido anche
per le controversie portate dinnanzi alla giurisdizione
amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento.
Ha aggiunto il Tribunale che per ritenere provato un danno
da dequalificazione professionale attraverso il meccanismo
delle presunzioni semplici ex art. 2729 cod. civ., non è
sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il
semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e
quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la
natura della professionalità coinvolta, la gravità del
demansionamento, la sua durata e altri simili indici,
dovendo invece procedere il giudice di merito, pur
nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione
dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della
dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di
probabilità e regole di comune esperienza (di recente, in
tal senso, Cass. civ., s.l., 18.08.2016, n. 17163).
Analogamente è a dirsi per la prova degli elementi
costitutivi del mobbing, tenendo presente che, nel rapporto
d’impiego pubblico, esso si sostanzia in una condotta del
datore di lavoro (o del superiore gerarchico) “complessa,
continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del
dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con
comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e
sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria
gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo
dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua
salute psicofisica; pertanto, ai fini della configurabilità
della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza
di una pluralità di elementi costitutivi, dati in
particolare: a) dalla molteplicità e globalità di
comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di
per sé leciti, posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un
disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute
psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la
condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione
dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova
dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio
unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento
costitutivo della fattispecie” (Cons.
St., sez. IV, 27.10.2016, n. 4509).
Distinguendo, sul piano probatorio, le fattispecie di danno,
il Tar ha affermato che:
a) quanto al “danno da demansionamento”, sebbene l’obbligo
del datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni
rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni
equivalenti a quelle da ultimo svolte abbia natura
contrattuale, tuttavia il contenuto del preteso
demansionamento va comunque esposto nei suoi elementi
essenziali dal lavoratore che non può, quindi, limitarsi
genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma
deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al
quale il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri
officiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi
confronti di una condotta illecita; ciò, peraltro, sul
presupposto che l'illecito di demansionamento non è
ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni
datoriali bensì soltanto nell'effettiva perdita delle
mansioni svolte (Tar
Lazio, sez. I, 07.02.2015, n. 2280).
b) quanto al “danno da mobbing”, il lavoratore non può
limitarsi, davanti al giudice, a dolersi genericamente di
essere vittima di un illecito (ovvero ad allegare
l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto
meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale
il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza
nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato
alla vessazione o alla prevaricazione (Cons.
St., sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
c) quanto poi al “danno–conseguenza”, ossia allo specifico
pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale
sofferto dal lavoratore, esso deve essere parimenti allegato
e provato dal danneggiato, in quanto non si pone quale
conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo
rientrante nelle suindicate categorie: non è sufficiente, in
altre parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della
condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non
solo di allegare gli elementi costitutivi del
demansionamento o del mobbing, ma anche di fornire la prova,
ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è
derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento
datoriale (Tar
Lazio, sez. I-ter, 26.06.2015, n. 8705 del 2015).
(2) Cons. St., sez. VI, 06.05.2008, n. 2015;
Tar Piemonte, sez. I, 10.07.2015, n. 1168.
(3) Cass. civ., s.l., 08.05.2007, n. 10430, che h tra l’altro
ricordato che “il disconoscimento, che fa perdere alle
riproduzioni meccaniche la loro qualità di prova e va
distinto dal mancato riconoscimento -diretto o indiretto-
che non esclude il libero apprezzamento da parte del giudice
delle riproduzioni legittimamente acquisite, deve essere
chiaro e circostanziato ed esplicito con allegazione di
elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà
fattuale e realtà riprodotta”.
L’ammissione, quale mezzo di prova, del file audio è
prevista dall’art. 2729 cod. civ., secondo cui “Le
riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche,
le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra
rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena
prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro
il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai
fatti o alle cose medesime” (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 01.02.2017 n. 84 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
MASSIMA
3. Il ricorso non è fondato.
Nella sostanza il ricorrente fa valere, con il presente
giudizio, i danni che gli sarebbero derivati sia
dall’illegittimo “demansionamento” (vale a
dire, dall’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a
quelle della sua qualifica di appartenenza) sia dal
complessivo comportamento di mobbing posto in essere
nei suoi confronti.
3.1. E’ nota in proposito la differenza tra le due
situazioni: il mobbing, diversamente
dall’altra figura, è caratterizzato dall’esistenza di un
intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento
che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi
rivendica il danno subìto, fermo restando che il
demansionamento, qualora provochi danni morali e
professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente
dalla ulteriore sussistenza del mobbing
(cfr., Consiglio di Stato, Sez. III, 12.01.2015 n. 28 del
2015; TRGA Trentino Alto Adige, Bolzano, 23.09.2015, n. 279
del 2015; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 02.03.2015, n. 342).
In ogni caso, i fatti portati a fondamento
sia del danno da demansionamento, quanto del danno da
mobbing, devono ricevere idonea dimostrazione in
giudizio secondo il principio dell’onere della prova,
sancito dall’art. 2697 c.c. e valido anche per le
controversie portate dinnanzi alla giurisdizione
amministrativa, secondo il quale chi vuole far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento.
3.2. La giurisprudenza, in proposito, ha precisato che,
ai fini di ritenere provato un danno da
dequalificazione professionale attraverso il meccanismo
delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., non è
sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il
semplice richiamo di categorie generali, come la qualità e
quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la
natura della professionalità coinvolta, la gravità del
demansionamento, la sua durata e altri simili indici,
dovendo invece procedere il giudice di merito, pur
nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione
dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della
dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di
probabilità e regole di comune esperienza
(di recente, in tal senso, Cass., Sez. lav., 18.08.2016, n.
17163).
Analogamente è a dirsi per la prova degli
elementi costitutivi del mobbing, tenendo presente che, nel
rapporto d’impiego pubblico, esso si sostanzia in una
condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) “complessa,
continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del
dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con
comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e
sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria
gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo
dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua
salute psicofisica; pertanto, ai fini della configurabilità
della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza
di una pluralità di elementi costitutivi, dati in
particolare:
a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere
persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in
essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente secondo un disegno vessatorio;
b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore
gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del
lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio unificante i singoli fatti lesivi,
che rappresenta elemento costitutivo della fattispecie”
(in tal senso, di recente, Consiglio di Stato, Sez. IV,
27.10.2016, n. 4509).
3.3. E così, per un verso, quanto al
danno da demansionamento, la giurisprudenza ha
evidenziato che, sul piano probatorio, sebbene l’obbligo del
datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni
rispondenti alla categoria attribuita o a mansioni
equivalenti a quelle da ultimo svolte abbia natura
contrattuale, tuttavia il contenuto del preteso
demansionamento va comunque esposto nei suoi elementi
essenziali dal lavoratore che non può, quindi, limitarsi
genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma
deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al
quale il Giudice amministrativo, anche con i suoi poteri
officiosi, possa verificare la sussistenza nei suoi
confronti di una condotta illecita; ciò, peraltro, sul
presupposto che l'illecito di demansionamento non è
ravvisabile in qualsiasi inadempimento alle obbligazioni
datoriali bensì soltanto nell'effettiva perdita delle
mansioni svolte
(in tal senso, da ultimo, TAR Lazio, Roma, Sez. I,
07.02.2015, n. 2280).
Per altro verso, ed analogamente,
quanto al danno da mobbing è stato ribadito che il
lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dolersi
genericamente di essere vittima di un illecito (ovvero ad
allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve
quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al
quale il giudice amministrativo possa verificare la
sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno
preordinato alla vessazione o alla prevaricazione
(Cons. Stato, Sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
3.4. Con riguardo, poi, al
danno-conseguenza, ossia allo specifico pregiudizio
professionale, biologico ed esistenziale sofferto dal
lavoratore, esso deve essere parimenti allegato e provato
dal danneggiato, in quanto non si pone quale conseguenza
automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante
nelle suindicate categorie: non è sufficiente, in altre
parole, dimostrare la mera potenzialità lesiva della
condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non
solo di allegare gli elementi costitutivi del
demansionamento o del mobbing, ma anche di fornire la prova,
ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è
derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento
datoriale (da
ultimo, in tal senso, TAR Lazio, Roma, Sez. I-ter,
26.06.2015, n. 8705 del 2015; TAR Sicilia, Catania, Sez. II,
12.03.2015, n. 725).
4. Nel caso di specie, il ricorrente è complessivamente
venuto meno ai descritti oneri probatori.
...
4.2.2. Come è noto, la condotta illecita di
mobbing “non è ravvisabile quando sia
assente la sistematicità degli episodi, ovvero i
comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria
siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro,
funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo (o
imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine,
quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al
comportamento datoriale
(Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008 n. 2015; TAR Piemonte,
Sez. I, 08.10.2008, n. 2438)”
(TAR Piemonte, Sez. I, 10.07.2015, n. 1168).
...
7. Alla luce delle su indicate circostanze, il Collegio
ritiene che il ricorrente non abbia adempiuto (né si sia
offerto di adempiere articolando prova testimoniale su
circostanze in tal senso rilevanti) agli oneri probatori su
di esso gravanti in materia.
Come è noto, “in relazione all’imputazione soggettiva
dell’onere della prova, la giurisprudenza afferma la natura
contrattuale della relativa azione risarcitoria, dal momento
che quest’ultima rinviene il proprio presupposto
nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del
soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da
parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso
incombente ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Pertanto, alla luce dei principi affermati dall’art. 1218
c.c., grava sul lavoratore l'onere
di provare la condotta illecita e il nesso causale tra
questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di
lavoro il solo onere di provare l'assenza di una colpa a sé
riferibile.
In ordine all'onere della prova da offrirsi
da parte del soggetto destinatario di una condotta
mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente
rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli
comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento
persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non
rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali,
fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo
(TAR Lombardia, Milano, sez. I, 11.08.2009 n. 4581; TAR
Lazio, Roma, III, 14.12.2006 n. 14604);
- in altri termini, il mobbing, proprio
perché non può prescindere da un supporto probatorio
oggettivo, non può essere correlato in via esclusiva, ma
neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto,
ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle
normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di
ciascuno (cfr. TAR
Lazio, Roma, Sez. I, 07.04.2008 n. 2877);
- in particolare, nell'esaminare i casi di preteso
mobbing, il giudice deve evitare di assumere
acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore
che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è
possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se
oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare
significative sofferenze e disagi, se non in personalità
dotate di una sensibilità esasperata o addirittura
patologica; dall'altro, è possibile che gli atti del datore
di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e
giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili
dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano
lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc.
(TAR Umbria, Sez. I, 24.09.2010 n. 469);
- in altre parole, non si deve sottovalutare
l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti
umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità
dell'interessato; tale ipotesi può, anzi, essere
empiricamente convalidata dalla considerazione che
diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato
individuo percepisca come ostile una situazione che invece i
suoi colleghi trovano normale;
- tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando
l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel
caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente
organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per
definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti
i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le
aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti
possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono
essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio
condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non
strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai
fuorviante”
(TAR Piemonte, Sez. I, 10.07.2015, n. 1168). |
APPALTI:
Soccorso istruttorio per incompletezza dell’offerta di gara.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio – File contenente il modello di dichiarazione di
offerta economica illeggibile – Inapplicabilità del soccorso
istruttorio.
L’istituto del c.d. soccorso
istruttorio non è applicabile nel caso in cui il concorrente
ad una gara pubblica, in relazione alla quale la lex
specialis aveva previsto l’invio telematico delle offerte,
abbia trasmesso il file contenente il modello di
dichiarazione di offerta economica illeggibile (1).
---------------
(1)
Il Tar Napoli -chiamato a verificare la legittimità
dell’esclusione da una gara bandita per l’affidamento della
progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori per la
messa in sicurezza delle Regiones I, II e III dell’area
archeologica di Pompei- ha preliminarmente richiamato la
giurisprudenza ormai pressoché consolidata del giudice
amministrativo (Cons.
St., sez. V 10.01.2017, n. 39; id.
07.11.2016, n. 4645), secondo cui nelle gare
pubbliche la radicalità del vizio dell'offerta non consente
l'esercizio del soccorso istruttorio che va contemperato con
il principio della parità tra i concorrenti, anche alla luce
dell'altrettanto generale principio dell'autoresponsabilità
dei concorrenti, per il quale ciascuno di essi sopporta le
conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione
dell'offerta e nella presentazione della documentazione.
Con l'istituto del soccorso istruttorio, infatti, la
stazione appaltante supera una mera incompletezza della
documentazione attestante i requisiti soggettivi del
concorrente, al fine di evitare esclusioni fondate su mere
carenze formali e non può farsi ricorso ad una richiesta di
chiarimenti sull'offerta, laddove, invece questa sia
totalmente carente degli elementi essenziali (Cons.
St., sez. IV, 12.09.2016, n. 3847).
Ciò premesso, il Tar ha chiarito che nel caso, sottoposto al
suo esame, di documento di offerta illeggibile (nella
specie, era illeggibile il file contenente il modello di
dichiarazione di offerta economica e le eventuali firme
digitali presenti nello stesso non potevano essere
verificate, con la conseguenza che il file è stato
considerato privo di firma digitale) comunque incompleto di
elementi essenziali, la regula iuris è quella
contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n.
163 (applicabile al caso di specie ratione temporis),
secondo cui “la stazione appaltante esclude i candidati o
i concorrenti in caso di mancato adempimento alle
prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento
e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di
incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza
dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri
elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del
plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o
altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali
da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia
stato violato il principio di segretezza delle offerte; i
bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono
comunque nulle”.
In doverosa applicazione di tale norma non c’è dubbio alcuno
che sull’organo di gara incombesse l’obbligo espresso di
estromettere dalla gara il concorrente, essendosi in
presenza di un’ipotesi di “incertezza assoluta sul
contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi essenziali”, non
essendo le firme digitali leggibili.
Ha ancora aggiunto il Tar che il cit. art. 46, comma 1-bis,
d.lgs. n. 163 del 2006, in coerenza con esigenze di certezza
e celerità dell’azione amministrativa, soprattutto in
settori come quello delle gare pubbliche, non riconosce
significatività alcuna a comportamenti del concorrente che
possano essere incolpevoli o altrimenti imputabili alla
stazione appaltante -magari rilevanti ad altri fini-
restando l’accertamento della legittima partecipazione alla
gara di un concorrente circoscritto all’oggettiva verifica
della sussistenza dei necessari requisiti formali e
sostanziali richiesti dalla normativa e dalla lex
specialis, nonché della loro corretta allegazione e
rappresentazione (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 30.01.2017 n. 641 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Beni culturali, appalti flessibili. Affidamenti
anche sulla base del solo progetto definitivo. Dal Consiglio
di stato il parere favorevole al regolamento ministeriale
attuativo del Codice.
Più flessibilità negli appalti sui beni culturali. Ferma
restando la regola secondo cui l'affidamento dei lavori
avviene sulla base del progetto esecutivo, qualora sia
necessario integrare la progettazione in corso d'opera,
l'appalto potrà essere affidato sulla base del solo progetto
definitivo.
Tutto questo per soddisfare le peculiari esigenze di
flessibilità che caratterizzano il settore dei beni
culturali «dove è spesso difficile predeterminare sin
dall'inizio nel dettaglio le modalità esecutive dei lavori
oggetto dell'appalto». È una delle principali novità del
regolamento del Mibact in materia di appalti sui beni
culturali che ha ricevuto il parere favorevole della sezione
normativa del Consiglio di stato.
Nel
parere 30.01.2017 n. 263,
pubblicato ieri, sul decreto ministeriale attuativo degli
articoli 146 e seguenti del nuovo codice appalti (dlgs n.
50/2016) i giudici di palazzo Spada hanno quindi aperto a
una maggiore flessibilità nelle procedure, anche se, hanno
osservato, per prevenire il possibile contenzioso in
materia, occorrerà «validare definitivamente la scelta
con previsioni ad hoc in sede di decreti correttivi al
codice».
Nel parere il Consiglio di stato sottolinea anche
l'opportunità di una disciplina specifica e ancora più
snella per i lavori per somme molto più basse di 150.000
euro. In particolare, i giudici amministrativi suggeriscono
di inserire nell'art. 12 del regolamento un comma ad hoc
che preveda una disposizione particolare per i lavori di
importo non superiore a 40.000 euro. In tali casi, si
dovrebbe consentire che il certificato di buon esito dei
lavori possa essere rilasciato alle imprese restauratrici,
oltre che dalla soprintendenza, anche dall'amministrazione
aggiudicatrice.
Altra novità contenuta nel testo riguarda l'ampliamento dei
lavori relativi a beni culturali che rientrano nell'ambito
di applicazione del decreto. Il decreto, innovando rispetto
alla previgente disciplina regolamentare, introduce tra
questi anche il «monitoraggio». La ragione è chiara
ed è coerente con il nuovo codice che valorizza l'azione di
monitoraggio «in quanto l'obiettivo primario resta
impedire, quanto più a lungo possibile, la necessità di
dover ricorrere nel tempo a ulteriori interventi di restauro
di beni culturali», come spiega la relazione di
accompagnamento
(articolo ItaliaOggi del 31.01.2017). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul
Regolamento governativo sugli appalti dei beni.
Il Consiglio di Stato ha reso parere favorevole sul
Regolamento governativo in merito alla disciplina di
dettaglio degli appalti dei lavori concernenti beni
culturali, in attuazione degli artt. 146 ss., d.lgs.
18.04.2016, n. 50.
Il Regolamento realizza un passo avanti verso l’obiettivo di
un testo organico ed unitario per gli appalti dei beni
culturali, che dev’essere ulteriormente perseguito –si legge
nel parere– attraverso l’attuazione, se non contestuale,
almeno coordinata, anche di altre parti del Codice relative
ai beni culturali.
Nel parere favorevole allo schema di decreto, il Consiglio
di Stato ha sottolineato anche l’opportunità di una
disciplina ad hoc e ancora più snella per i lavori sotto i
40.000 euro. In tali casi, si dovrebbe consentire che il
certificato di buon esito dei lavori possa essere
rilasciato, oltre che dalla soprintendenza, anche
dall'amministrazione aggiudicatrice.
Nel parere del Consiglio di Stato, inoltre, si esprime
parere favorevole su una delle principali novità previste
dallo schema di Regolamento, e cioè sulla “possibilità di
omettere, in situazioni particolari, il progetto esecutivo e
di affidare i lavori sulla base del progetto definitivo”,
e si sottolinea che “per prevenire il contenzioso occorre
validare definitivamente la scelta con previsioni ad hoc un
sede di decreti correttivi al codice appalti” (Consiglio
di Stato, Comm. spec.,
parere 30.01.2017 n. 263 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
danno da ritardo è configurabile in presenza di un “danno
ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Non può sfuggire all’interprete, in proposito, la volontà
del legislatore di ancorare la fattispecie risarcitoria del
danno da ritardo non solo all’immancabile requisito della
“ingiustizia” del danno ma anche alla “inosservanza dolosa o
colposa del termine di conclusione del procedimento”.
Ciò significa che il ritardo nella conclusione del
procedimento amministrativo si arricchisce, sul versante
dell’elemento soggettivo, di un contegno frutto di
deliberata volontà della P.a. di disattendere la tempistica
procedimentale, o di negligente verifica circa il rispetto
dei tempi del procedimento.
---------------
Quanto, infine, al quinto motivo di ricorso, e cioè
al lamentato ritardo con il quale la Regione avrebbe
formulato il parere di compatibilità così da provocare un
danno patrimoniale e morale alla società ricorrente, il
Collegio non può che condividere la prospettazione difensiva
della Regione Puglia.
Dalla lettura degli atti di causa si desume che, nella
fattispecie posta al vaglio del G.A. non possono ravvisarsi
gli estremi della speciale fattispecie risarcitoria di danno
da ritardo, contemplata dall’art. 2-bis, comma 1-bis della
legge 241/1990.
Il danno da ritardo è, infatti, configurabile in presenza di
un “danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento”.
Non può sfuggire all’interprete, in proposito, la volontà
del legislatore di ancorare la fattispecie risarcitoria del
danno da ritardo non solo all’immancabile requisito della “ingiustizia”
del danno ma anche alla “inosservanza dolosa o colposa del
termine di conclusione del procedimento”.
Ciò significa che il ritardo nella conclusione del
procedimento amministrativo si arricchisce, sul versante
dell’elemento soggettivo, di un contegno frutto di
deliberata volontà della P.a. di disattendere la tempistica
procedimentale, o di negligente verifica circa il rispetto
dei tempi del procedimento.
Deve, sul punto, rimarcarsi che il procedimento
amministrativo in discorso è stato connotato da evidente
complessità e da frequenti sopravvenienze normative, specie
di carattere regolamentare, le quali hanno delineato uno
scenario complesso, non solo per quanto riguarda il tema
specifico del fabbisogno regionale da soddisfare, ma anche
in ordine agli stessi criteri di priorità da rispettare
nella disamina delle istanze provenienti da un non esiguo
numero di società interessate.
In un contesto del genere, pare al Collegio si possa
francamente dubitare della possibilità di configurare un
ritardo colpevole nella gestione del procedimento da parte
del competente servizio Regionale, atteso che le sopra
evidenziate vicissitudini normo-regolamentari hanno
contribuito a rendere più difficoltoso l’iter procedimentale
medesimo
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 28.01.2017 n. 165 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
contratto fissa le mansioni equivalenti. Pubblico impiego.
Un dipendente comunale può essere trasferito ad altro
ufficio indipendentemente dalla professionalità acquisita.
Le mansioni di comandante della
polizia municipale di un Comune con meno di 5.000 abitanti
corrispondono alla responsabilità dell’ufficio statistica
che appartenga allo stesso settore di “vigilanza” di quel
Comune.
Lo sottolinea la
Sez. lavoro della Corte di Cassazione, con
sentenza
27.01.2017 n. 2140.
Nel caso specifico si discuteva del mantenimento di compiti
equivalenti a quelli in precedenza svolti: pur essendo
l’ufficio statistica inserito all’interno dell’area della
vigilanza, i nuovi compiti apparivano, rispetto al vertice
dei vigili, non equivalenti, limitati, ripetitivi, senza
coordinamento di personale sottoposto né utilizzo del
bagaglio professionale acquisito.
Ciò tuttavia non basta, secondo la Cassazione, per
rivendicare la precedente carica. Occorre stabilire se la
nuova posizione organizzativa sia riconducibile, per
contenuto professionale e livello di responsabilità, ai
profili propri della categoria di inquadramento.
Infatti il datore di lavoro pubblico, pur operando con gli
strumenti tipici del rapporto di lavoro privato,
sull’organizzazione del lavoro ha vincoli strutturali che
impongono di conformarsi al pubblico interesse e mantenere
una compatibilità finanziaria generale. Vi è quindi
(articolo 52 del Dlgs 165/2001) il diritto del dipendente a
essere adibito a mansioni per le quali è stato assunto o
equivalenti, ma l’equivalenza è ancorata a una valutazione
demandata ai contratti collettivi e non è sindacabile da
parte del giudice.
Di conseguenza c’è equivalenza tra mansioni se vi è una
previsione in tal senso da parte della contrattazione
collettiva, indipendentemente dalla professionalità
specifica che il dipendente possa avere acquisito. Quindi,
prevalgono le esigenze di duttilità del servizio e di buon
andamento della pubblica amministrazione, e cioè
l’equivalenza formale, con riferimento alla classificazione
prevista in astratto dei contratti collettivi, senza tener
conto del cosiddetto bagaglio professionale del lavoratore e
senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura “equivalente”
della mansione.
Se quindi vi è identica area professionale prevista dal
contratto collettivo, è insindacabile la collocazione in una
determinata categoria di diversi profili professionali,
perché tale operazione è di competenza delle parti sociali.
Altrettanto insindacabile è la verifica dell’equivalenza
sostanziale tra le mansioni proprie del profilo
professionale di provenienza e quelle del profilo
attribuito, se entrambe tali mansioni siano riconducibili
alla medesima declaratoria.
Solo nel caso in cui la destinazione ad altri mansioni
comporti un sostanziale svuotamento dell’attività
lavorativa, si può parlare di comportamento contrario alla
legge, ma la sottrazione delle funzioni da svolgere dev’essere
pressoché integrale (articolo Il Sole 24 Ore del
28.01.2017).
---------------
MASSIMA
1. Con unico motivo il Comune censura la sentenza per
violazione di legge e vizio di
motivazione, in relazione all'art. 2103 c.c., richiamato
dall'art. 52 d.lgs. n. 165/2001, degli artt.
2727 c.c., 2729 c.c. e 115 c.p.c..
Deduce -in sintesi-
che, ai fini dell'equivalenza della
mansioni per l'accertamento dell'osservanza dell'art. 52
d.lgs. n. 165/01, nonché dell'art. 3
CCNL di comparto e nel rispetto dell'art. 2103 c.c., i nuovi
compiti non potevano considerarsi
non equivalenti a quelli in precedenza svolti dal Bi..
La Corte di appello aveva trascurato
di considerare che le funzioni proprie dell'Ufficio
statistica risultavano inserite, nel nuovo
assetto organizzativo dell'ente, tra quelle proprie della
vigilanza e che quindi il Bianchini era
stato preposto ad un ufficio appartenente alla stessa area
di cui faceva parte il servizio della
polizia municipale. Nel quadro della fungibilità delle
prestazioni ricomprese nello stesso alveo,
nulla impedisce che i compiti dell'uno o dell'altro ufficio
possano essere svolti dalle medesime
professionalità applicate al settore.
I giudici di merito
avevano ignorato che, trattandosi di una P.A.,
l'avvicendamento poteva essere motivato da ragioni di natura
organizzativa e strutturale
e che l'equivalenza delle mansioni non poteva rispondere ai
medesimi criteri applicati
all'impresa privata. Il mutamento di mansioni non aveva
comportato alcuna deminutio della
retribuzione globalmente goduta dal Bianchini, che difatti
non aveva rivendicato differenze
retributive, ma il diritto a permanere nella posizione di
comandante della Polizia municipale.
2. Il ricorso è fondato.
3. Va premesso che la riconduzione della disciplina del
lavoro pubblico alle regole privatistiche
del contratto e dell'autonomia privata individuale e
collettiva, con conseguente devoluzione
delle relative controversie alla giurisdizione del giudice
ordinario, non ha eliminato la
perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che,
pur munito nella gestione degli
strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che
riguarda l'organizzazione del lavoro
resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di
conformazione al pubblico interesse e di
compatibilità finanziaria generale.
In questa ottica il
d.lgs. n. 165 del 2001 ha disciplinato
interamente la materia delle mansioni all'art. 52, e, al
comma 1, ha sancito il diritto del
dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto, o alle mansioni
considerate equivalenti nell'ambito della classificazione
professionale prevista dai contratti
collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal
d.lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 62,
comma 1). La lettera del citato art. 52, comma 1, specifica
un concetto di equivalenza
"formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai
contratti collettivi, e non sindacabile
da parte del giudice.
Ne segue che, condizione necessaria e
sufficiente affinché le mansioni
possano essere considerate equivalenti è la mera previsione
in tal senso da parte della
contrattazione collettiva, indipendentemente dalla
professionalità specifica che il lavoratore
possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di
lavoro alle dipendenze della P.A..
3.1. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n.
8740/2008, è principio costante nella
giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico
impiego contrattualizzzato, non si
applica l'art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata
compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del
2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla
novella recata dal D.Lgs. n. 150 del
2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al
caso in esame) che assegna rilievo,
per le esigenze di duttilità del servizio e di buon
andamento della P.A., solo al criterio
dell'equivalenza formale con riferimento alla
classificazione prevista in astratto dai contratti
collettivi, indipendentemente dalla professionalità in
concreto acquisita, senza che possa quindi
aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla
relativa elaborazione dottrinaria e
giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d.
bagaglio professionale del lavoratore,
e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura
equivalente della mansione (Cass.
n. 17396/2011; Cass. n. 18283/2010; Cass. sez. un. n. 8740/2008; v.
più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n.
17214 del 2016).
Dunque, non è ravvisabile alcun
demansionamento qualora le nuove mansioni rientrino nella
medesima area professionale
prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice
possa sindacare in concreto la natura
equivalente delle medesime mansioni.
Restano, dunque,
insindacabili tanto l'operazione di
riconduzione in una determinata categoria di determinati
profili professionali, essendo tale
operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali,
quanto l'operazione di verifica
dell'equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del
profilo professionale di provenienza e
quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano
riconducibili nella medesima
declaratoria.
3.2. Condizione necessaria e sufficiente affinché le
mansioni possano essere considerate
equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della
contrattazione collettiva,
indipendentemente dalla professionalità acquisita,
evidentemente ritenendosi che il riferimento
all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di
professionalità acquisita, mal si concili
con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni
e posto in organico, alla stregua
dello schematismo che ancora connota e caratterizza il
rapporto di lavoro pubblico (cfr. Cass.
n. 11835 del 2009).
3.3. Invero, l'equivalenza in senso formale è anche ribadita
dalla norma contrattuale, dal
momento che l'art. 3, comma 2 del CCNL del Comparto Regioni
e Autonomie Locali, che viene
in applicazione nella specie, prevede che "Ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come
modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni
ascrivibili a ciascuna categoria, in
quanto professionalmente l'equivalenti, sono esigibili,
l'assegnazione di mansioni equivalenti
costituisce atto di esercizio del potere determinativo
dell'oggetto del contratto di lavoro".
3.4. Incidentalmente, va osservato che resta comunque salva
l'ipotesi che la destinazione ad
altre mansioni abbia comportato il sostanziale svuotamento
dell'attività lavorativa.
Trattasi di
questione che, tuttavia, giova rimarcare, esula dall'ambito
delle problematiche sull'equivalenza
delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della
sottrazione pressoché integrale delle
funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico
impiego (Cass. n. 11835 del 2009,
n. 11405 del 2010, Cass. n. 687 del 2014).
4. La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione di
tali principi di diritto, errando nel
ritenere, sulla base di una verifica in senso sostanziale
della equivalenza, che il bagaglio
professionale acquisito dal dipendente radicasse il suo
diritto a permanere nelle medesime
funzioni.
Ha così omesso di valutare se, nel nuovo assetto
organizzativo adottato dal Comune
a seguito della delibera di giunta n. 101 del 2004, la
fungibilità fosse giustificata dalla
sussumibilità delle nuove mansioni in quelle riconducibili
ai profili propri della categoria D, di
inquadramento del Bi.. |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti per l’annullamento d’ufficio di una concessione
edilizia in sanatoria.
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Concessione edilizia in sanatoria – Annullamento d’ufficio –
Termine dell’esercizio del potere di autotutela – Ante l. n.
124 del 2015 – Rilevanza – Fattispecie - Annullamento dopo
tredici anni dal rilascio della sanatoria – Omessa congrua
motivazione - Illegittimità.
Anche prima
dell’entrata in vigore della novella introdotta dalla l.
07.08.2015, n. 124 –che ha fissato il termine massimo di
diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio di atti
autorizzatori o attributivi di vantaggi economici– era
illegittimo l’annullamento d’ufficio di una concessione
edilizia in sanatoria disposto dopo circa tredici anni dal
rilascio della sanatoria, senza congruamente motivare le
ragioni che hanno resi indispensabile tale provvedimento,
non essendo sufficiente il mero richiamo al necessario
ripristino della legalità violata (1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che il potere di annullamento
d’ufficio è regolato dall’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n.
241, che ha individuato, quale condizione per l’esercizio di
tale potere, l’illegittimità dell’atto oggetto della
decisione di autotutela nonché la ragionevolezza del termine
entro cui può essere adottato l’atto di secondo grado, la
sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione e la
considerazione degli interessi dei destinatari del
provvedimento viziato.
La norma dunque individua, per la valida esplicazione del
potere di agire in autotutela, un presupposto rigido
(l’illegittimità dell’atto da annullare) e altre condizioni
flessibili e duttili riferite a concetti indeterminati e,
come tali, affidate all’apprezzamento discrezionale
dell’amministrazione.
Queste ultime devono intendersi, in particolare, stabilite a
garanzia delle esigenze di tutela dell’affidamento, dei
destinatari di atti ampliativi, in ordine alla stabilità dei
titoli ed alla certezza degli effetti giuridici da essi
prodotti e, appunto per mezzo dell’affidamento, a garanzia
della valutazione discrezionale dell’amministrazione nella
ricerca del giusto equilibrio tra le esigenze di ripristino
della legalità (nelle quali si risolve la rimozione di un
atto illegittimo) e quelle di conservazione dell’assetto
regolativo recato dal provvedimento viziato.
Ha ancora ricordato la Sezione che le esigenze di ripristino
della legalità e di conservazione dell’assetto regolativo
recato dal provvedimento viziato hanno ricevuto recentemente
un ulteriore rafforzamento, per mezzo dell’introduzione, con
la l. 07.08.2015, n. 124, della fissazione del termine
massimo di diciotto mesi (con una opportuna precisazione
quantitativa della nozione elastica della formula lessicale
“termine ragionevole”), per l’annullamento d’ufficio
di atti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici e,
quindi, mediante una riconfigurazione del potere di
autotutela secondo canoni di legalità più stringenti e
maggiormente garantisti per le posizioni private originate
da atti ampliativi.
Fatta questa premessa il giudice di appello ha ritenuto che
l’impugnato annullamento d’ufficio abbia violato i principi
posti dal Legislatore per l’esercizio del potere di
autotutela.
Per quanto definiti in maniera elastica, infatti, i criteri
della ragionevolezza del termine e della considerazione di
un interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo,
implicano apprezzamenti discrezionali che, a loro volta,
restano presidiati dal parametro della proporzionalità, al
quale devono comunque obbedire per rimanere ascritti entro i
confini del legittimo esercizio della funzione di
autotutela, e, quindi, sindacabili in ossequio al relativo
criterio di giudizio.
Ad avviso del Consiglio di Stato i principi introdotti dalla
l. n. 124 del 2015, anche se ratione temporis non
applicabili al caso sottoposto al suo esame, possono essere
utilizzati come “prezioso (e ineludibile) indice
ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della
regola di condotta in questione”.
Con la precisazione esatta del termine massimo di
consumazione del potere di autotutela decisoria, il
legislatore ha, infatti, inteso accordare una tutela più
pregnante all’interesse dei destinatari di atti ampliativi
alla stabilità e alla certezza delle situazioni giuridiche
da essi prodotte, costruendo un regime che garantisca la
loro intangibilità una volta decorso inutilmente il periodo
di operatività del potere di annullamento d’ufficio dei
relativi titoli “ampliativi” (che diventano, così,
non più rimuovibili dall’amministrazione, anche quando
illegittimamente adottati).
Ora, per quanto l’anzidetta, cogente regola non possa
applicarsi a provvedimenti di autotutela perfezionatisi
prima dell’entrata in vigore dell’intervento normativo che
l’ha introdotta, non può trascurarsi la valenza della
presupposta scelta legislativa, in occasione dell’esegesi e
dell’applicazione della norma, nella sua formulazione
previgente (Cons.
St., sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
La decifrazione della nozione indeterminata di termine
ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta
interpretazione (ed applicazione) da parte
dell’amministrazione, dev’essere, quindi, compiuta con
particolare rigore quando il potere di autotutela viene
esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od
economiche, con la conseguenza che, pur non potendo
ritenersi consumato, nella fattispecie esaminata, il potere
di annullamento d’ufficio decorso il termine massimo
stabilito dal legislatore del 2015, deve giudicarsi,
comunque, irragionevole un termine notevolmente superiore
(nel caso in esame, di oltre sette volte) a quest’ultimo.
Ha aggiunto il giudice di appello che l’esercizio di tale
potere di secondo grado dopo un lasso di tempo molto lungo
dal rilascio del titolo avrebbe imposto, a fronte della
consistenza dell’affidamento ingenerato nei destinatari
circa il consolidamento della sua efficacia imponeva, una
motivazione particolarmente convincente, per giustificare la
misura di autotutela, circa l’apprezzamento degli interessi
dei destinatari dell’atto (come espressamente prescritto
dall’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990), in relazione alla
pregnanza e alla preminenza dell’interesse pubblico alla
eliminazione d’ufficio del titolo edilizio illegittimo.
Non solo, ma la consistenza di tale onere motivazione deve
intendersi aggravata dall’efficacia istantanea dell’atto, e,
cioè, della sua idoneità a produrre effetti autorizzatori
destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo,
assumendo, in tale fattispecie, nel giudizio comparativo
degli interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei
privati destinatari dell’atto ampliativo e minore pregnanza
quello pubblico all’elisione di effetti già prodotti in via
definitiva e non suscettibili di aggravamento (Cons.
St., sez. IV, 29.02.2016, n. 816) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.01.2017 n. 341
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Copiare
il compito è plagio. Esami di abilitazione. Il reato
«assorbe» il falso ideologico.
Truccare gli esami di Stato per
l’abilitazione all’esercizio di una professione rientra nel
reato di plagio letterario.
Lo specifica la V Sez. penale della Corte di Cassazione, con
la
sentenza 26.01.2017 n. 3871.
L’esame truccato è quello per avvocati a Bari: ad alcuni
candidati erano stati distribuiti elaborati scritti da
esperti di materie giuridiche e ciò aveva consentito di
superare la prova ad almeno un partecipante. Sotto accusa
erano finiti i componenti della commissione d’esame e una
dipendente dell’Università, finita agli arresti domiciliari.
Tale misura era stata revocata dal gip e il pm ha presentato
ricorso, argomentando che sussistessero due reati .
Infatti, il gip aveva riconosciuto solo la violazione degli
articoli 1 e 2 della legge 475/1925 (plagio letterario). Il
pm, invece, riteneva ci fosse anche il falso ideologico
(articolo 479 del Codice penale). In sostanza, il pm,
invece, aveva distinto tra la genuinità degli elaborati
presentati alla commissione (plagio) e la veridicità delle
attestazioni dei componenti della commissione (falso
ideologico) in base alle quali era stata conferita
l’abilitazione a chi aveva presentato come proprio il testo
redatto dagli esperti.
La Cassazione respinge il ricorso del pm, richiamando il «solido
orientamento» espresso anche dalle Sezioni unite
(sentenza 46982/2007), «secondo il quale l’oggetto della
tutela dei reati contro la fede pubblica è l’interesse
pubblico alla genuinità materiale ed alla veridicità
ideologica di determinati atti». Per questo, la legge
475/1925 comprende sia la presentazione di un elaborato
falso sia il conseguimento dell’abilitazione e si pone come
norma speciale rispetto al falso ideologico, nel senso
previsto dall’articolo 15 del Codice penale
(articolo Il Sole 24 Ore del
27.01.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
disciplina in tema di demansionamento applicabile
nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato e
sull’applicazione della sufficiente equiparazione formale
tra le mansioni.
In materia di mansioni nel pubblico
impiego contrattualizzato non si applica l’art. 2103 c.c.,
essendo la materia disciplinata compiutamente dall’art. 52
del D.Lgs. n. 165 del 2001, che assegna rilievo, per le
esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della
P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con
riferimento alla classificazione prevista in astratto dai
contratti collettivi, indipendentemente dalla
professionalità in concreto acquisita.
Pertanto, nell’ambito delle mansioni nel pubblico impiego
contrattualizzato, non vi è alcuna violazione dell’art. 52
d.lgs. n. 165/2001, “qualora le nuove mansioni rientrino
nella medesima area professionale prevista dal contratto
collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto
la natura equivalente delle medesime mansioni”.
Quindi, in presenza di una espressa previsione della
contrattazione collettiva di riferimento non è compito del
giudice esprimere apprezzamenti o, addirittura, sindacare la
natura equivalente delle mansioni, in quanto tale funzione
dovrebbe essere specificamente ascrivibile alle parti
sociali.
---------------
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 638/2010,
ha confermato il rigetto della domanda proposta da Ca.Ad.
nei confronti del Comune di Salzano, avente ad oggetto il
risarcimento dei danni che il ricorrente, dipendente
pubblico con inquadramento in posizione D3, assumeva
essergli derivati dal mutamento organizzativo disposto dal
Comune nel 2002 in forza del quale era stato spostato dal
settore Manutenzione e Ambiente, di cui era responsabile, al
settore Protezione civile, Sicurezza del territorio e Tutela
del patrimonio, sempre in funzione di preposto.
2. La Corte distrettuale, premesso che nel 2002 il Comune di
Salzano aveva proceduto ad una riorganizzazione interna
delle aree, creando un autonomo settore alla cui direzione
aveva posto il geom. Ca., ha osservato che non vi era stata
né riduzione dello stipendio né variazione del carattere
apicale della posizione ricoperta dal funzionario, mentre
nessun rilievo potevano avere le circostanze addotte
dall'appellante a sostegno del prospettato demansionamento,
ossia la riduzione del budget di spesa (in precedenza di
cospicua entità) e il ridotto organico dell'ufficio (da 5-6
operai ad un solo addetto, ma con attribuzione del
coordinamento di un gruppo di 25 volontari per la protezione
civile).
Ha aggiunto che doveva piuttosto evidenziarsi l'importanza
del neo-istituto Settore della Protezione civile, Sicurezza
del territorio e Tutela del patrimonio, creato per la
gestione degli interventi in caso di calamità naturali e in
situazioni di pronto intervento, incidenti sulla salute e
l'incolumità pubblica, "a maggior ragione poi in un
territorio come quello veneto, assai soggetto ad esondazione
dei corsi d'acqua e a fenomeni alluvionali, anche gravi".
3. Per la cassazione di tale sentenza il Ca. ha proposto
ricorso affidato ad un motivo.
Resiste il Comune di Salzano con controricorso.
4. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con unico motivo si denuncia violazione dell'art. 2103
c.c. e vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) per
avere la Corte di appello omesso di individuare il contenuto
delle mansioni svolte dal ricorrente in qualità di
responsabile dell'Ufficio Manutenzione e Assetto del
territorio e di porle a confronto con quelle successivamente
attribuite, implicanti la gestione di un limitato
portafoglio di spesa, la comprovata riduzione di orario e di
impegno lavorativo, il coordinamento di una sola impiegata.
Ove il raffronto richiesto dall'art. 2103 c.c. fosse stato
effettuato, il demansionamento sarebbe emerso con certezza.
2. Il ricorso è palesemente infondato.
3. La riconduzione della disciplina del
lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e
dell'autonomia privata individuale e collettiva, con
conseguente devoluzione delle relative controversie alla
giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la
perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che,
pur munito nella gestione degli strumenti tipici del
rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda
l'organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da
vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e
di compatibilità finanziaria generale.
In questa ottica il d.lgs. n. 165 del 2001
ha disciplinato interamente la materia delle mansioni
all'art. 52, e, al comma 1, ha sancito il diritto del
dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti
nell'ambito della classificazione professionale prevista dai
contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione
operata dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 62, comma 1). La
lettera del citato art. 52, comma 1, specifica un concetto
di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una
valutazione demandata ai contratti collettivi, e non
sindacabile da parte del giudice.
Ne segue che, condizione necessaria e
sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate
equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della
contrattazione collettiva, indipendentemente dalla
professionalità specifica che il lavoratore possa avere
acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle
dipendenze della P.A.
3.2. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n.
8740/2008, è principio costante nella giurisprudenza di
questa Corte che, in materia di pubblico
impiego contrattualizzzato, non si applica l'art. 2103 c.c.,
essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 52
(come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal
D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile
ratione temporis al caso in esame), che
assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e
di buon andamento della P.A., solo al criterio
dell'equivalenza formale con riferimento alla
classificazione prevista in astratto dai contratti
collettivi, indipendentemente dalla professionalità in
concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo
alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione
dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la
tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e
senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura
equivalente della mansione
(Cass. n. 17396/2011; Cass. n. 18283/2010; Cass. sez. un. n.
8740/2008; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n.
12109 e n. 17214 del 2016).
Dunque, non è ravvisabile alcuna violazione
dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 qualora le nuove mansioni
rientrino nella medesima area professionale prevista dal
contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare
in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni.
Restano, dunque, insindacabili tanto l'operazione di
riconduzione in una determinata categoria di determinati
profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva
competenza dalle parti sociali, quanto l'operazione di
verifica dell'equivalenza sostanziale tra le mansioni
proprie del profilo professionale di provenienza e quelle
proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano
riconducibili nella medesima declaratoria.
3.3. Condizione necessaria e sufficiente
affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti
è la mera previsione in tal senso da parte della
contrattazione collettiva, indipendentemente dalla
professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il
riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del
concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le
esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto
in organico, alla stregua dello schematismo che ancora
connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico
(cfr. Cass. n. 11835 del 2009).
3.4. Tale nozione di equivalenza in senso
formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del
pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili
a ciascuna categoria, in quanto professionalmente
l'equivalenti, sono esigibili e l'assegnazione di mansioni
equivalenti costituisce atto di esercizio del potere
determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro.
3.5. Resta comunque salva l'ipotesi che la destinazione ad
altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento
dell'attività lavorativa. Trattasi di questione che,
tuttavia -giova rimarcare- esula dall'ambito delle
problematiche sull'equivalenza delle mansioni,
configurandosi nella diversa ipotesi della sottrazione
pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata
anche nell'ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del
2009, n. 11405 del 2010, nonché Cass. n. 687 del 2014).
4. Alla stregua della sentenza impugnata, risulta
positivamente accertato che la direzione dell'unità
denominata Settore 07 Protezione civile, Sicurezza del
territorio e Tutela del Patrimonio del Comune di Salzano
corrispondesse ad una posizione organizzativa di categoria
D.
Pertanto, escluso il diritto del dipendente pubblico a
permanere in un determinata posizione alla stregua di una
verifica in senso sostanziale della equivalenza, la
preposizione a tale unità organizzativa non costituisce
violazione dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
26.01.2017 n. 2011). |
APPALTI:
Principio della concorrenza nelle gare.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Concorrenza -
Massima partecipazione e previsioni per le piccole e medie
imprese – Artt. 51 e 83, d.lgs. n. 80 del 2016.
La matrice volta a stimolare la
concorrenza, sia attraverso la massima partecipazione
possibile alle gare pubbliche sia garantendo una più elevata
possibilità che le imprese di piccole e medie dimensioni
possano risultare aggiudicatarie, caratterizza tutta la
normativa europea in materia di appalti pubblici e, di
conseguenza, il nuovo Codice degli appalti pubblici e delle
concessioni.
Lo attestano, tra gli altri, le disposizioni
dell’art. 51, secondo cui “nel caso di suddivisione in
lotti, il relativo valore deve essere adeguato in modo da
garantire l’effettiva possibilità di partecipazione da parte
delle micro imprese, piccole e medie imprese”, e dell’art.
83, comma 2, che prevede che i requisiti di idoneità
professionale e le capacità economica e finanziaria e
tecniche–professionali sono attinenti e proporzionati
all’oggetto dell’appalto, “tenendo presente l’interesse
pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali
partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e
rotazione” (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che un ulteriore impulso all’apertura dei
mercati attraverso la partecipazione alle gare e la
possibile aggiudicazione delle stesse da parte del più alto
numero di imprese possibile –le quali in tal modo, in un
circolo “virtuoso”, potrebbero acquisire le
qualificazioni ed i requisiti necessari alla partecipazione
ad un numero sempre maggiore di gare- è dato dal c.d.
vincolo di aggiudicazione, vale a dire dalla facoltà della
stazione appaltante di limitare il numero massimo di lotti
che possono essere aggiudicati ad un solo offerente.
Il vincolo di aggiudicazione costituisce uno strumento
proconcorrenziale che, nell’impedire ad uno stesso soggetto
di essere aggiudicatario di una pluralità di lotti, aumenta
le possibilità di successo delle piccole e medie imprese pur
in presenza di aziende meglio posizionate sul mercato.
Nel considerando n. 124 alla direttiva 2014/24/UE, è
espresso che le nuove disposizioni europee “dovrebbero
contribuire al miglioramento del livello di successo, ossia
la percentuale delle PMI rispetto al valore complessivo
degli appalti aggiudicati”. L’art. 46 della menzionato
direttiva europea prevede a tal fine che “le
amministrazioni aggiudicatrici possono, anche ove esista la
possibilità di presentare offerte per alcuni o per tutti i
lotti, limitare il numero di lotti che possono essere
aggiudicati a un solo offerente …”, analoga previsione è
contenuta nell’art. 51, comma 3,d.lgs. n. 50 del 2016.
In definitiva, la matrice volta a stimolare la concorrenza,
sia attraverso la massima partecipazione possibile alle gare
sia anche garantendo una più elevata possibilità che le
imprese di piccole e medie dimensioni possano risultare
aggiudicatarie, caratterizza tutta la normativa europea in
materia di appalti pubblici e, di conseguenza, il nuovo
Codice nazionale degli appalti pubblici e delle concessioni.
In quest’ottica, un’impresa sfornita da sola dei requisiti
di partecipazione, potrebbe concorrere in Raggruppamento
Temporaneo di Imprese o ricorrendo all’avvalimento.
Tuttavia, occorre considerare che la costituzione di un
Raggruppamento Temporaneo di Imprese o il ricorso all’avvalimento
sono il frutto di scelte discrezionali di tutte le imprese
coinvolte, per le quali non è sufficiente la volontà della
piccola o media impresa che intende partecipare alla gara,
essendo necessaria anche una coincidente volontà delle altre
imprese nella costituzione dell’eventuale raggruppamento e
dell’impresa o delle imprese ausiliarie nell’avvalimento.
Ne consegue che l’astratta possibilità di costituire un RTI
o di ricorrere all’avvalimento non esclude che una
preclusione alla possibile partecipazione individuale
dell’impresa si concreti in un vulnus al principio
del favor partecipationis e, quindi, in una lesione
sia alla sfera giuridica dell’impresa che non può
partecipare individualmente sia alle finalità pubblicistiche
a base della normativa in materia (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 26.01.2017 n. 1345
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
MASSIMA
3. Il ricorso è fondato e va di conseguenza accolto
secondo quanto di seguito indicato.
Un contratto di appalto stipulato da una
amministrazione pubblica si distingue da un analogo
contratto stipulato tra soggetti privati sia per la
rilevanza giuridica assunta dai motivi che spingono la parte
pubblica a contrarre sia e soprattutto per le modalità di
scelta del contraente
(cfr. in tema TAR Lazio, II, 30.08.2016, n. 9441).
La libertà di scelta del contraente
costituisce uno dei fondamentali pilastri dell’autonomia
privata, per cui il contraente privato, di norma, può
scegliere discrezionalmente con chi contrarre; la pubblica
amministrazione, invece, è tenuta a scegliere il proprio
contraente in esito ad una apposita procedura (rectius:
procedimento) ad evidenza pubblica.
Il corpus normativo di disciplina dell’evidenza
pubblica era originariamente costituito dalla legge di
contabilità di Stato, R.D. 18.11.1923, n. 2440, e dal suo
regolamento di attuazione, R.D. 23.05.1924, n. 827, ed era
finalizzato alla individuazione del “giusto”
contraente dell’amministrazione, vale a dire del contraente
in grado di offrire le migliori prestazioni e garanzie alle
condizioni più vantaggiose, per cui la ratio della
normativa sull’evidenza pubblica era volta esclusivamente al
controllo della spesa pubblica per il miglior utilizzo del
denaro della collettività (cd. concezione contabilistica).
A tale esigenza di tutela degli interessi pubblici si è
aggiunta, sotto la spinta dei principi e delle direttive
comunitarie, l’esigenza di tutela della libertà di
concorrenza e di non discriminazione tra le imprese.
Di talché, la concorrenzialità nell’aggiudicazione, che ha
il suo elemento cardine nel principio di massima
partecipazione alla gara delle imprese in possesso dei
requisiti richiesti, in origine funzionale al solo interesse
finanziario dell’amministrazione, nel senso che la procedura
competitiva tra imprese era (ed è) ritenuta la modalità più
efficace per garantire la migliore spendita del denaro
pubblico, è diventata un’espressione dell’ondata
neoliberista degli ultimi decenni dello scorso secolo, che
ha portato le autorità comunitarie a prendere in
considerazione -ai fini della tutela della concorrenza, che
dovrebbe garantire l’efficiente allocazione delle risorse
sul mercato- l’impatto concorrenziale prodotto dalle
amministrazioni pubbliche in qualità di committenti o di
concedenti, per cui ogni singola gara diviene uno specifico
e temporaneo micromercato nel quale le imprese di settore
possono confrontarsi.
La compresenza della duplice esigenza volta alla tutela
della concorrenza tra le imprese ed al buon uso del denaro
della collettività è stata chiaramente delineata dalla
giurisprudenza europea la quale, nel dichiarare che uno
degli obiettivi della normativa comunitaria in materia di
appalti pubblici è costituito dall’apertura alla concorrenza
nella misura più ampia possibile e che è nell’interesse del
diritto comunitario che venga garantita la più ampia
partecipazione possibile di offerenti ad una gara d’appalto,
ha aggiunto che siffatta apertura alla concorrenza è
prevista non soltanto con riguardo all’interesse comunitario
alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, ma
anche nell’interesse stesso dell’amministrazione
aggiudicatrice che disporrà così di un’ampia scelta circa
l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della
collettività pubblica interessata.
In tale ottica, la direttiva 2014/24/UE del Parlamento
Europeo e del Consiglio reca tra i propri principi il
facilitare la partecipazione delle piccole e medie imprese
(PMI) agli appalti pubblici.
Più specificamente, il considerando n. 78 della direttiva
prevede quanto segue: “E’ opportuno che gli appalti
pubblici siano adeguati alle necessità delle PMI. Le
amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero essere
incoraggiate ad avvalersi del Codice europeo di buone
pratiche, di cui al documento di lavoro dei servizi della
Commissione del 25.06.2008, dal titolo «Codice europeo di
buone pratiche per facilitare l’accesso delle PMI agli
appalti pubblici», che fornisce orientamenti sul modo in cui
dette amministrazioni possono applicare la normativa sugli
appalti pubblici in modo tale da agevolare la partecipazione
delle PMI. A tal fine e per rafforzare la concorrenza, le
amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero in particolare
essere incoraggiate a suddividere in lotti i grandi appalti.
Tale suddivisione potrebbe essere effettuata su base
quantitativa, facendo in modo che l’entità dei singoli
appalti corrisponda meglio alla capacità delle PMI, o su
base qualitativa, in conformità alle varie categorie e
specializzazioni presenti, per adattare meglio il contenuto
dei singoli appalti ai settori specializzati delle PMI o in
conformità alle diverse fasi successive del progetto”.
Il considerando n. 124, poi, nel premettere che, “dato il
potenziale delle PMI per la creazione di posti di lavoro, la
crescite e l’innovazione, è importante incoraggiare la loro
partecipazione agli appalti pubblici, sia tramite
disposizioni appropriate nella presente direttiva che
tramite iniziative a livello nazionale”, ha posto in
rilievo che “le nuove disposizioni della presente
direttiva dovrebbero contribuire al miglioramento del
livello di successo, ossia la percentuale delle PMI rispetto
al valore complessivo degli appalti pubblici”,
precisando che “non è appropriato imporre percentuali
obbligatorie di successo, ma occorre tenere sotto stretto
controllo le iniziative nazionali volte a rafforzare la
partecipazione delle PMI, data la sua importanza”.
Con il nuovo codice degli appalti pubblici e delle
concessioni (d.lgs. n. 50 del 2016), che ha attuato, tra le
altre, la direttiva 2004/24/UE, risulta evidente che la
funzione proconcorrenziale delle regole di evidenza pubblica
ha assunto ancora maggiore rilievo ed è divenuta il
baricentro del sistema.
L’art. 2 del d.lgs. n. 50 del 2016 sancisce che le
disposizioni ivi contenute sono adottate nell’esercizio
della competenza legislativa esclusiva statale in materia di
tutela della concorrenza, sicché è consequenziale ritenere
che i provvedimenti adottati in applicazione del codice
degli appalti ove non realizzino detta finalità violano le
regole stesse ed i principi di libera concorrenza.
Le due “anime” della normativa sostanziale
dell’evidenza pubblica, in linea di massima, possono e
devono essere perseguite contemporaneamente, atteso che la
massima partecipazione alla gara è funzionale alla
realizzazione di entrambe le finalità.
Il principio del favor partecipationis, pertanto, è
stato scolpito a chiare lettere anche nella disciplina
legislativa.
L’art. 30, comma 1, del nuovo codice, analogamente a quanto
già espresso dall’art. 2 del d.lgs. 163/2006, oltre ad
indicare che l’affidamento e l’esecuzione di appalti di
opere, lavori, servizi, forniture e concessioni ai sensi del
codice garantisce la qualità delle prestazioni e deve
svolgersi nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, tempestività e correttezza (principi ispirati
alla tutela della pubblica amministrazione per il controllo
ed il miglior utilizzo delle finanze pubbliche), ha
specificato che le stazioni appaltanti rispettano altresì i
principi di libera concorrenza, non discriminazione,
trasparenza, proporzionalità nonché di pubblicità (principi
ispirati alla tutela delle imprese concorrenti e del
corretto funzionamento del mercato).
Il successivo settimo comma dello stesso art. 30 dispone che
“i criteri di partecipazione alle gare devono essere tali
da non escludere le microimprese, le piccole e medie imprese”.
L’art. 51 del nuovo codice stabilisce non solo che, nel
rispetto della disciplina comunitaria in materia di appalti
pubblici, “al fine di favorire l’accesso delle
microimprese, piccole e medie imprese, le stazioni
appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali … in
conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei
lavori, servizi e forniture”, ma anche che “nel caso
di suddivisione in lotti, il relativo valore deve essere
adeguato in modo da garantire l’effettiva possibilità di
partecipazione da parte delle micro imprese, piccole e medie
imprese”.
L’art. 83, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, infine, prevede
che i requisiti di idoneità professionale e le capacità
economica e finanziaria e tecniche–professionali sono
attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, “tenendo
presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero
di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di
trasparenza e rotazione”.
Un ulteriore impulso all’apertura dei mercati attraverso la
partecipazione alle gare e la possibile aggiudicazione delle
stesse da parte del più alto numero di imprese possibile –le
quali in tal modo, in un circolo “virtuoso”,
potrebbero acquisire le qualificazioni ed i requisiti
necessari alla partecipazione ad un numero sempre maggiore
di gare- è dato dal c.d. vincolo di aggiudicazione, vale a
dire dalla facoltà della stazione appaltante di limitare il
numero massimo di lotti che possono essere aggiudicati ad un
solo offerente.
Il vincolo di aggiudicazione, come correttamente affermato
nel ricorso, costituisce uno strumento proconcorrenziale
che, nell’impedire ad uno stesso soggetto di essere
aggiudicatario di una pluralità di lotti, aumenta le
possibilità di successo delle piccole e medie imprese pur in
presenza di aziende meglio posizionate sul mercato.
Nel richiamato considerando n. 124 alla direttiva
2014/24/UE, è espresso che le nuove disposizioni europee “dovrebbero
contribuire al miglioramento del livello di successo, ossia
la percentuale delle PMI rispetto al valore complessivo
degli appalti aggiudicati”.
L’art. 46 della menzionato direttiva europea prevede a tal
fine che “le amministrazioni aggiudicatrici possono,
anche ove esista la possibilità di presentare offerte per
alcuni o per tutti i lotti, limitare il numero di lotti che
possono essere aggiudicati a un solo offerente …”,
analoga previsione è contenuta nell’art. 51, comma 3, del
d.lgs. n. 50 del 2016.
In definitiva, la matrice volta a stimolare
la concorrenza, sia attraverso la massima partecipazione
possibile alle gare sia anche garantendo una più elevata
possibilità che le imprese di piccole e medie dimensioni
possano risultare aggiudicatarie, caratterizza tutta la
normativa europea in materia di appalti pubblici e, di
conseguenza, il nuovo codice nazionale degli appalti
pubblici e delle concessioni. |
APPALTI SERVIZI: Acquisti
centrali anche per le concessioni. Affidamenti. Il Tar
Veneto boccia la condotta di un Comune non capoluogo su una
procedura in autonomia.
I Comuni non capoluogo non possono eludere l’obbligo di
ricorso alle centrali di committenza e devono utilizzarle
non solo per gli appalti, ma anche per l’affidamento delle
concessioni.
Il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza
26.01.2017 n. 85 affronta la portata applicativa
delle disposizioni del codice dei contratti pubblici che
disciplinano i modelli aggregativi per le amministrazioni
comunali che non sono capoluogo di provincia.
Il caso esaminato riguardava un ente che ha indetto e
gestito una procedura di gara per l’aggiudicazione di una
concessione di servizi, pur essendo obbligato a fare ricorso
a uno dei modelli previsti dal comma 4 dell’articolo 37 del
decreto legislativo 50/2016 e pur avendo costituito con
altri comuni una centrale unica di committenza, mediante una
convenzione per la gestione associata.
Proprio l’accordo tra le amministrazioni prevedeva una
dettagliata specificazione delle attività di competenza
della centrale e dei vari enti aderenti, riportando a questi
ultimi una serie di attività rilevanti, tra cui l’assunzione
della determinazione di aggiudicazione definitiva e la
stipulazione del contratto, oltre a quelle attinenti alla
fase esecutiva dello stesso.
Il Comune non poteva pertanto gestire autonomamente la
procedura di gara, essendosi a maggior ragione vincolato
all’utilizzo della centrale unica di committenza come
modello aggregativo, che veniva pertanto a risultare l’unico
soggetto legittimato a sviluppare la procedura selettiva.
Tra i vari atti riconducibili necessariamente alla
competenza della centrale unica di competenza risultava
anche la nomina della commissione giudicatrice per la
valutazione delle offerte tecniche e delle offerte
economiche, effettuata invece dal Comune, con conseguente
produzione di un atto illegittimo, inficiante i successivi
atti di gara.
La sentenza evidenzia anche come l’obbligo di ricorso ai
modelli aggregativi previsto dall’articolo 37 del nuovo
codice dei contratti pubblici si applichi ai Comuni non
capoluogo non solo per gli appalti, ma anche per le
procedure che hanno ad oggetto l’affidamento di concessioni.
Secondo il Tar Veneto, peraltro, una diversa interpretazione
avrebbe conseguenze pericolose, in quanto consentirebbe ai
singoli Comuni di sottrarsi al vincolo normativo
strutturando il servizio come concessione anziché come
appalto, arrivando a gestire procedure per le quali non
avrebbero adeguate capacità.
La forzatura del Comune ha quindi determinato
l’illegittimità della procedura di gara, con il conseguente
annullamento degli atti posti in essere
dall’amministrazione.
L’intervento dei giudici amministrativi rafforza le
previsioni contenute nell’articolo 37 del codice dei
contratti pubblici, valorizzando tuttavia il ruolo delle
centrali di committenza costituite dai Comuni non capoluogo
come strumenti efficaci per conseguire razionalizzazione
della spesa e ottimizzazione delle procedure di affidamento.
L’inclusione delle concessioni (di lavori e di servizi) tra
gli oggetti gestibili dalle centrali di committenza locali
(peraltro desumibile anche dalle linee-guida Anac n. 4/2016
sugli affidamenti sottosoglia) conferma l’importanza del
ruolo che le stesse possono assumere in processi di elevata
complessità, come quelli riferibili a molte tipologie di
servizi pubblici locali non riconducibili alla competenza
degli enti d’ambito (articolo Il Sole 24 Ore del
30.01.2017). |
APPALTI:
Nelle procedure amministrative l’allegazione
della copia fotostatica del documento del sottoscrittore
della dichiarazione sostitutiva, prevista dall’art. 38,
comma 3, del d.P.R. n. 445/2000, è adempimento inderogabile
atto a conferire, in virtù della sua introduzione come forma
di semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione
apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed
efficacia all’autocertificazione; si tratta quindi di un
elemento integrante della fattispecie normativa, rivolto a
stabilire, data l’unità della fotocopia sostitutiva del
documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un
collegamento tra la dichiarazione ed il documento ed a
comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, la
soggettiva imputabilità della dichiarazione al soggetto che
la presta.
---------------
Per quanto riguarda, poi, la mancanza della sottoscrizione,
si ricorda che è la combinazione della sottoscrizione
autografa e della copia del documento di identità (quale
modalità di autenticazione della sottoscrizione) a rendere
incontestabile sino a querela di falso la paternità
dell’atto, garantendo la certezza di cui si ha bisogno per
la genuinità della dichiarazione, presidiata dall’art. 76
del d.P.R. n. 445 cit. con sanzioni penali (v. TAR Campania,
Napoli, Sez. I, 02.07.2007, n. 6422, secondo cui, pertanto,
la presentazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto
di notorietà non può essere validamente sostituita dalla
produzione di una dichiarazione in fotocopia, priva della
sottoscrizione autografa).
Né l’assenza della sottoscrizione e della fotocopia del
documento di identità della dichiarante possono essere in
alcun modo sostituite dalla dichiarazione resa dal
procuratore di gara della C.Food, o dalla sottoscrizione ad
opera dello stesso procuratore, in ogni pagina, del
curriculum vitae della predetta dietista e della
dichiarazione sostitutiva che quest’ultima ha reso senza
apporvi la sua –indispensabile, come detto– sottoscrizione.
Da un lato, infatti, la firma del procuratore della società
in ogni pagina dell’offerta tecnica non assolve al fine di
attestare la veridicità del contenuto degli stessi,
riferibili ad un soggetto terzo, ma piuttosto serve a
garantire la provenienza dell’offerta dal concorrente: la
sottoscrizione dell’offerta ex art. 74 del d.lgs. n.
163/2006, infatti, si configura come lo strumento tramite il
quale l’autore fa propria la dichiarazione contenuta nel
documento, serve a renderne nota la paternità ed a vincolare
l’autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta.
---------------
L’assunto della ricorrente non può essere condiviso, atteso
che –come rilevato dalla Commissione di gara nel verbale del
29.07.2016 (cfr. all. 2 al ricorso)– la C.Food si è limitata
ad allegare all’offerta due documenti (il curriculum
vitae della dr.ssa Ma. ed una dichiarazione sostitutiva
di costei relativa al suo percorso scolastico), ambedue
privi di firma e senza unirvi alcun documento di identità
della dichiarante (cfr. all.ti 17 e 18 al ricorso).
Correttamente, pertanto, la Commissione di gara ha ritenuto
che mancassero gli elementi essenziali (sottoscrizione della
dichiarazione e fotocopia del documento di identità del
dichiarante) per poter attribuire validità alla predetta
dichiarazione sostitutiva (cfr. gli artt. 47, comma 1, e 38,
comma 3, del d.P.R. n. 445/2000).
Sul punto si richiama la giurisprudenza consolidata, secondo
cui nelle procedure amministrative l’allegazione della copia
fotostatica del documento del sottoscrittore della
dichiarazione sostitutiva, prevista dall’art. 38, comma 3,
del d.P.R. n. 445/2000, è adempimento inderogabile atto a
conferire, in virtù della sua introduzione come forma di
semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione
apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed
efficacia all’autocertificazione; si tratta quindi di un
elemento integrante della fattispecie normativa, rivolto a
stabilire, data l’unità della fotocopia sostitutiva del
documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un
collegamento tra la dichiarazione ed il documento ed a
comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, la
soggettiva imputabilità della dichiarazione al soggetto che
la presta (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V,
26.03.2012, n. 1739; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I,
15.07.2014, n. 347; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II,
19.10.2012, n. 1008).
Per quanto riguarda, poi, la mancanza della sottoscrizione,
si ricorda che è la combinazione della sottoscrizione
autografa e della copia del documento di identità (quale
modalità di autenticazione della sottoscrizione) a rendere
incontestabile sino a querela di falso la paternità
dell’atto, garantendo la certezza di cui si ha bisogno per
la genuinità della dichiarazione, presidiata dall’art. 76
del d.P.R. n. 445 cit. con sanzioni penali (v. TAR Campania,
Napoli, Sez. I, 02.07.2007, n. 6422, secondo cui, pertanto,
la presentazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto
di notorietà non può essere validamente sostituita dalla
produzione di una dichiarazione in fotocopia, priva della
sottoscrizione autografa).
Né l’assenza della sottoscrizione e della fotocopia del
documento di identità della dichiarante dr.ssa Ma. possono
essere in alcun modo sostituite dalla dichiarazione resa dal
procuratore di gara della C.Food, o dalla sottoscrizione ad
opera dello stesso procuratore, in ogni pagina, del
curriculum vitae della predetta dietista e della
dichiarazione sostitutiva che quest’ultima ha reso senza
apporvi la sua –indispensabile, come detto– sottoscrizione.
Da un lato, infatti, la firma del procuratore della società
in ogni pagina dell’offerta tecnica, inclusi i documenti di
cui si discute, non assolve al fine di attestare la
veridicità del contenuto degli stessi, riferibili ad un
soggetto terzo, la già citata dr.ssa Ve.Ma., ma piuttosto
–come giustamente osserva la Ge.– serve a garantire la
provenienza dell’offerta dal concorrente: la sottoscrizione
dell’offerta ex art. 74 del d.lgs. n. 163/2006, infatti, si
configura come lo strumento tramite il quale l’autore fa
propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a
renderne nota la paternità ed a vincolare l’autore alla
manifestazione di volontà in esso contenuta (cfr., ex
plurimis, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 09.11.2016, n.
11092).
Nel caso di specie, peraltro, non si tratta nemmeno della
firma, ma soltanto del timbro e della sigla apposte dal
citato procuratore ai sensi dell’art. 11 del disciplinare di
gara e non certo dell’art. 46 del d.P.R. n. 445/2000:
quest’ultima disposizione, peraltro, prevede che la
dichiarazione sostitutiva di certificazione, comprovante
taluni stati, qualità personali e fatti, venga sottoscritta
dall’interessato, e non certo da un terzo.
È ovvio, del resto, come eccepiscono il Comune di Cerea e la
Centrale Unica di Committenza, che il procuratore della
società nulla potesse legittimamente dichiarare in ordine al
titolo di studio conseguito da un diverso soggetto
(TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza
26.01.2017 n. 85 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'annullamento
dell’ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione
amministrativa per utilizzazione immobile in assenza di
certificazione agibilità.
La fattispecie ha ad oggetto
l’impugnativa di una sanzione amministrativa con cui è stato
ingiunto al ricorrente il pagamento di una somma di danaro
in relazione a violazioni di carattere edilizio.
Essa rientra a pieno titolo, tra le ipotesi in cui, pur
avendo gli atti amministrativi impugnati un collegamento con
la materia edilizia, la relativa giurisdizione è devoluta al
Giudice Ordinario, in quanto la sanzione amministrativa
impugnata interferisce direttamente su un diritto soggettivo
perfetto del ricorrente, che è in definitiva il diritto a
non vedersi depauperare il patrimonio in forza di
provvedimenti amministrativi non sorretti da una effettiva
causale.
Occorre rilevare, in proposito, che nella emissione della
ingiunzione di pagamento non vi è esercizio di
discrezionalità, costituendo essa un atto dovuto,
conseguente all’accertamento dell’illecito amministrativo,
potendosi al più ravvisare l’esercizio di discrezionalità
nella quantificazione della sanzione non determinata dalla
legge in misura fissa. Tuttavia, anche l’impugnazione di una
ordinanza–ingiunzione si traduce sempre nella contestazione
di non dover pagare, in tutto o in parte, una somma di
danaro, e per tale ragione finisce sempre per incidere su un
diritto soggettivo perfetto.
A ciò si aggiunga che “Le norme sancite dagli artt. 22, co.
1, e 22-bis, l. n. 689 del 1981 (quest’ultima disposizione
ora abrogata e sostituita dall’art. 6, d.lgs. n. 150 del
2011, inapplicabile ratione temporis ai sensi dell’art. 36
del medesimo decreto), affidano al giudice ordinario la
cognizione sulle controversie aventi ad oggetto sanzioni
amministrative e, nel ripartire la competenza tra giudice di
pace e tribunale per le opposizioni alle inflitte sanzioni,
confermano l’attribuzione dell’intera «materia» delle
sanzioni amministrative alla giurisdizione <<piena>> del
giudice ordinario (potendo annullare o riformare l’atto
sanzionatorio), salvo diversa e specifica previsione di
legge e, in particolare, quanto previsto dall’art. 133
c.p.a. che non include, nel suo tassativo catalogo, le
controversie come quella oggetto del presente giudizio; in
quest’ottica è sufficiente rilevare, per completezza, che
l’art. 296 d.lgs. n. 152 del 2006 cit. –Controlli e
sanzioni– nel richiamare espressamente la l. n. 689 del
1981, si colloca nell’alveo della su esposta impostazione
sistematica”.
Deve, pertanto, essere dichiarato il difetto di
giurisdizione del Giudice amministrativo in favore del
Giudice ordinario presso il quale la controversia potrà
essere riproposta nel termine di legge (art. 11 c.p.a.),
fatte salve le eventuali decadenze e preclusioni
intervenute.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza-ingiunzione di
pagamento della sanzione amministrativa per utilizzazione
immobile in assenza di certificazione agibilità.
...
1. - Con ricorso notificato il 19.10.2010 e depositato il
27.10.2010 il sig. Vi.An., premettendo di essere
proprietario di un immobile sito in Bari, alla via ... 25,
identificato al catasto al fg. 31, p.lla 188, subalterno 10,
impugnava l’ordinanza-ingiunzione in epigrafe indicata, a
mezzo della quale gli è stato contestato l’utilizzo del
suddetto cespite privo del certificato di agibilità.
Riferiva il ricorrente che nel gravato provvedimento è
menzionata una precedente ordinanza di apertura del
procedimento sanzionatorio n. 219711, a seguito di verbale
di accertamento della Polizia Municipale del 19.08.2009, che
non gli sarebbe stata notificata.
Affermava, inoltre, la sua estraneità alla vicenda per
mancanza di disponibilità dell’immobile in questione, locato
ed oggetto di procedimento di sfratto per finita locazione.
...
4. – Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo.
5. - La fattispecie portata all’esame del Collegio, infatti,
ha ad oggetto l’impugnativa di una sanzione amministrativa
con cui è stato ingiunto al ricorrente il pagamento di una
somma di danaro in relazione a violazioni di carattere
edilizio.
Essa rientra a pieno titolo, tra le ipotesi in cui, pur
avendo gli atti amministrativi impugnati un collegamento con
la materia edilizia, la relativa giurisdizione è devoluta al
Giudice Ordinario, in quanto la sanzione amministrativa
impugnata interferisce direttamente su un diritto soggettivo
perfetto del ricorrente, che è in definitiva il diritto a
non vedersi depauperare il patrimonio in forza di
provvedimenti amministrativi non sorretti da una effettiva
causale.
5.1. - Occorre rilevare, in proposito, che nella emissione
della ingiunzione di pagamento non vi è esercizio di
discrezionalità, costituendo essa un atto dovuto,
conseguente all’accertamento dell’illecito amministrativo,
potendosi al più ravvisare l’esercizio di discrezionalità
nella quantificazione della sanzione non determinata dalla
legge in misura fissa. Tuttavia, anche l’impugnazione di una
ordinanza–ingiunzione si traduce sempre nella contestazione
di non dover pagare, in tutto o in parte, una somma di
danaro, e per tale ragione finisce sempre per incidere su un
diritto soggettivo perfetto (Cfr. in tal senso TAR Puglia
Bari, Sez. III, sent. n. 2019 del 03.09.2008).
5.2. - A ciò si aggiunga quanto sostenuto dalla
giurisprudenza condivisa dal Collegio, secondo cui “Le
norme sancite dagli artt. 22, co. 1, e 22-bis, l. n. 689 del
1981 (quest’ultima disposizione ora abrogata e sostituita
dall’art. 6, d.lgs. n. 150 del 2011, inapplicabile ratione
temporis ai sensi dell’art. 36 del medesimo decreto),
affidano al giudice ordinario la cognizione sulle
controversie aventi ad oggetto sanzioni amministrative e,
nel ripartire la competenza tra giudice di pace e tribunale
per le opposizioni alle inflitte sanzioni, confermano
l’attribuzione dell’intera «materia» delle sanzioni
amministrative alla giurisdizione <<piena>> del giudice
ordinario (potendo annullare o riformare l’atto
sanzionatorio), salvo diversa e specifica previsione di
legge e, in particolare, quanto previsto dall’art. 133
c.p.a. che non include, nel suo tassativo catalogo, le
controversie come quella oggetto del presente giudizio; in
quest’ottica è sufficiente rilevare, per completezza, che
l’art. 296 d.lgs. n. 152 del 2006 cit. –Controlli e
sanzioni– nel richiamare espressamente la l. n. 689 del
1981, si colloca nell’alveo della su esposta impostazione
sistematica” (Cons. Stato, Sez. V, sent. 3787 del
27.06.2012).
6. - Deve, pertanto, essere dichiarato il difetto di
giurisdizione del Giudice amministrativo in favore del
Giudice ordinario presso il quale la controversia potrà
essere riproposta nel termine di legge (art. 11 c.p.a.),
fatte salve le eventuali decadenze e preclusioni intervenute
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 25.01.2017 n. 45 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Annullamento d'ufficio o revoca dell'atto amministrativo.
Rispetto ai provvedimenti adottati
anteriormente all'attuale versione dell'art. 21-nonies l. n.
241 del 1990, il termine massimo dei diciotto mesi per
l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio non può che
cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della
nuova disposizione e salva, comunque, l'operatività del
"termine ragionevole" già previsto dall'originaria versione
dell'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990.
---------------
... per la riforma della
sentenza 10.08.2016 n. 687 del TAR
SARDEGNA-CAGLIARI: SEZ. I, resa tra le parti, concernente
mancata liquidazione contributo di scopo per azioni di
promozione territoriale in concomitanza con organizzazione
incontro di pugilato internazionale.
...
- Considerato, infatti, che la definizione del giudizio
dipende da un’unica questione di diritto, relativa
all’applicabilità ratione temporis dell’art.
21-nonies legge 07.08.1990, n. 241, che prevede (nella
versione risultante dalla modifiche apportate dall’art. 6,
comma 1, lett. d), legge 07.08.2015, n. 124) il termine
massimo di diciotto mesi per l’esercizio del potere di
annullamento d’ufficio diretto a rimuovere provvedimenti di
autorizzazione o, come nella specie, attributivi di vantaggi
economici;
- Ritenuto che il termine dei diciotto mesi non può
applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche
il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della
legge n. 124 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a
porsi in contrasto con il generale principio di
irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe
per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole
l’esercizio del potere di autotutela amministrativa;
- Ritenuto, infatti, che l’eventuale applicazione
retroattiva, nel senso ritenuto dal Tar, finirebbe per
sottoporre l’esercizio del potere di annullamento ad un
termine inferiore rispetto ai diciotto mesi voluti dalla
legge, dovendosi inevitabilmente detrarre, in quanto già
consumato, il periodo di tempo intercorrente tra l’adozione
del provvedimento e la data di entrata in vigore della
legge;
- Ritenuto che tale interpretazione porterebbe, per assurdo,
all’irragionevole conseguenza che per i provvedimenti
adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della
nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo,
precluso;
- Ritenuto, pertanto, che, rispetto ai provvedimenti
adottati anteriormente all’attuale versione dell’art.
21-nonies legge n. 241 del 1990, il termine dei diciotto
mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di
entrata in vigore della nuova disposizione e salva,
comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già
previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies legge
n. 241 del 1990;
- Ritenuto che l’applicazione dei suesposti principi
conduce, nel caso di specie, all’accoglimento dell’appello
proposto dalla Regione, alla luce, in particolare, delle
seguenti ulteriori considerazioni:
●
il provvedimento di
autotutela impugnato (che, sebbene impropriamente
qualificato dall’Amministrazione in termini di atto
dichiarativo della nullità, è un annullamento d’ufficio) è
stato adottato il 22.12.2015 (quando ancora, quindi, dalla
data di entrata in vigore della legge 07.08.2015, n. 124,
erano decorsi poco più di quattro mesi);
●
il termine
complessivamente decorso rispetto alla data del
provvedimento annullato (adottato in data 08.07.2013) non
può ritenersi irragionevole, specie se si considera che un
primo provvedimento di annullamento d’ufficio era stato già
adottato dall’Amministrazione nel novembre del 2014;
●
il provvedimento del
novembre 2004, sebbene poi annullato dal Tar per difetto di
motivazione e vizi procedimentali, assume, tuttavia, una
valenza sostanzialmente interruttiva del termine, perché già
vale ad escludere il consolidarsi di un affidamento
incolpevole sulla stabilità degli effetti del provvedimento;
- Ritenuto, pertanto, che l’appello debba essere accolto e,
per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, debba
essere rigettato il ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.01.2017 n. 250 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
gara anche se il costo della sicurezza è zero.
L'offerta non può essere esclusa.
È illegittima l'esclusione per l'offerta tecnica che indica
costi per la sicurezza aziendale interna pari a zero; va
sempre verificata nella sostanza la congruità della
quantificazione.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V,
con la
sentenza 19.01.2017 n. 223 relativa a un
appalto di servizi in cui la ditta aggiudicataria aveva
presentato una offerta tecnica in cui aveva dichiarato di
non sostenere costi interni per la sicurezza aziendale.
I giudici hanno escluso che l'indicazione di oneri interni
per la sicurezza di importo pari a zero possa determinare
l'esclusione del concorrente per motivi di ordine formale,
ed in particolare per violazione del citato art. 87, comma
4, dlgs n.163 del 2006 e, nel caso di specie, del bando di
gara.
Per il collegio giudicante in questi casi occorre
andare a verificare il dato sostanziale e non è ammesso
fermarsi al puro riscontro formale. Pertanto se viene
riportato un importo negativo, cioè che nessuna spesa il
concorrente sosterebbe per questa voce, «ogni questione di
verifica del rispetto dei doveri concernenti la salute e
sicurezza sul lavoro si sposta dal versante dichiarativo a
quello sostanziale, concernente la congruità di una simile
quantificazione». Era stata l'adunanza plenaria del
Consiglio di stato (27.07.2016, n. 19) a precisarlo
ancorché nel caso di specie lo scorporo di questa voce fosse
espressamente richiesto dalla lex specialis.
Anche in quel
caso il Consiglio di stato aveva dato rilievo agli aspetti
di ordine sostanziale relativamente ai costi minimi di
sicurezza aziendale per le gare bandite anteriormente
all'entrata in vigore del cosiddetto nuovo Codice dei
contratti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n.
50), come appunto quella oggetto del giudizio (mentre
successivamente lo stesso Consiglio di stato ha negato la
possibilità di escludere per mancata specificazione
nell'offerta degli oneri per la sicurezza aziendali).
Inoltre, ricorda la sentenza, l'assenza di costi per la
sicurezza aziendale per un servizio di ordine intellettuale
quale quello qui in contestazione non appare incongruo, così
come ha ritenuto, nel marzo scorso la stessa quinta sezione
con la sentenza 16.03.2016, n. 1051
(articolo ItaliaOggi del 27.01.2017).
---------------
MASSIMA
6. Con il secondo motivo d’appello la A.T.O.S. Servizi
ripropone la censura diretta a sostenere che quest’ultimo
avrebbe dovuto essere escluso dalla gara, con riferimento a
tutti e tre i lotti, per avere esposto nella propria offerta
economica oneri per la sicurezza interni pari a 0.
Secondo l’appellante il raggruppamento temporaneo
aggiudicatario avrebbe così violato il bando di gara,
laddove esso impone ai concorrenti di indicare a pena
espressa di esclusione «la stima degli oneri per la
sicurezza cd. “interna” o “specifica aziendale”» (pag.
10; analogamente è disposto nell’allegato 1, sopra citato,
relativo ai «Parametri e criteri di valutazione delle
offerte»), ed inoltre l’art. 87, comma 4, dell’allora
vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n.
163).
Nel criticare la statuizione di rigetto del motivo del
Tribunale regionale di giustizia amministrativa, la A.T.O.S.
Servizi soggiunge che l’indicazione pari a 0 equivale a
mancata specificazione di questa voce di costo e che la
natura intellettuale del servizio non esclude di per sé che
l’impresa sostenga oneri a questo titolo, come peraltro
evincibile dal fatto che le altre concorrenti hanno invece
dichiarato per ciascun lotto cui hanno partecipato i loro
costi interni per la sicurezza aziendale, né che questi
ultimi possano essere compresi nelle spese generali di
gestione o comunque sarebbero coperti dall’INAIL (in
particolare gli infortuni sul lavoro).
7. Anche questo motivo è infondato.
Deve innanzitutto escludersi che
l’indicazione di oneri interni per la sicurezza pari a 0
comporti l’esclusione della concorrente per motivi di ordine
formale, ed in particolare per violazione del citato art.
87, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006 e, nel caso di specie,
del conforme bando di gara.
Infatti, allorché un importo a questo
titolo sia indicato, e sebbene questa indicazione sia di
ordine negativo, nel senso che nessuna spesa la concorrente
sosterebbe per questa voce, ogni questione di verifica del
rispetto dei doveri concernenti la salute e sicurezza sul
lavoro si sposta dal versante dichiarativo a quello
sostanziale, concernente la congruità di una simile
quantificazione.
Sovvengono a questo riguardo i principi
espressi in materia dall’Adunanza plenaria di questo
Consiglio di Stato nella sentenza del 27.07.2016, n. 19
–ancorché nel caso di specie lo scorporo di questa voce
fosse espressamente richiesto dalla lex specialis–
ed in particolare l’enfasi posta dall’organo di
nomofilachia agli aspetti di ordine sostanziale
relativamente ai costi minimi di sicurezza aziendale per le
gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del c.d.
nuovo Codice dei contratti pubblici
(decreto legislativo 18.04.2016, n. 50),
come appunto quella oggetto del presente giudizio (in
conformità ai principi espressi dall’Adunanza plenaria, la
successiva giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha
negato valenza escludente alla mancata specificazione
nell’offerta degli oneri per la sicurezza aziendali:
III, 09.01.2017, n. 30; V, 28.12.2016, n. 5475, 23.12.2016,
n. 5444, 22.12.2016, n. 5423, 15.12.2016, n. 5283,
17.11.2016, n. 4755, 07.11.2016, n. 4646, 11.10.2016, n.
4182).
Del resto, anche la stessa A.T.O.S. Servizi finisce per
porsi in questa prospettiva, laddove a conclusione del
motivo in esame afferma che l’indicazione pari a 0
denoterebbe l’«assoluta non affidabilità dell’offerta»,
oltre che la contrarietà della stessa a norme inderogabili a
tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
8. Sennonché, con riguardo a quest’ultimo profilo, la
censura dell’appellante pretende di demandare al giudice
amministrativo, nella sede di legittimità, apprezzamenti
riservati alle valutazioni di ordine tecnico-discrezionale
della stazione appaltante, unica preposta alla verifica di
anomalia e che nel caso di specie la stessa ha ritenuto di
non esperire.
A ciò occorre soggiungere che l’assenza di
costi per la sicurezza aziendale per un servizio di ordine
intellettuale quale quello qui in contestazione non appare
incongruo, e così
è stato ritenuto da questa Sezione in una recente pronuncia
(sentenza 16.03.2016, n. 1051).
Alle contestazioni dell’odierna appellante incentrate
sull’impossibilità di estendere analogicamente i principi
espressi nel precedente ora richiamato al caso di specie,
dal momento che in quello (servizio di brokeraggio
assicurativo) l’attività era destinata a svolgersi in via
esclusiva presso la sede dell’appaltatore, mentre quello
oggetto del presente giudizio «viene svolto per la sua
interezza nei locali delle scuole e dunque non all’interno
dei locali della ditta affidataria», deve rilevarsi,
da un lato, che anche la prestazione di attività di
lavoro presso la propria sede è per l’imprenditore astratta
fonte di oneri per la sicurezza delle proprie maestranze, e
dall’altro lato che, come deduce sul punto la
controinteressata Ci., presso gli istituti scolastici deve
ritenersi in vigore la copertura assicurativa dell’INAIL per
tutti gli infortuni ivi occorsi. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Sulla
distinzione tra regolamenti cd. volizioni preliminari
e regolamenti cd. volizioni-azioni.
I regolamenti cd. volizioni preliminari sono
caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza,
contengono previsioni normative astratte e programmatiche
che non si traducono in una immediata incisione della sfera
giuridica del destinatario.
Diversamente, i regolamenti c.d. volizioni-azioni
contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla
immediata applicazione, come tali capaci di produrre un
immediato effetto lesivo della sfera giuridica del
destinatario.
---------------
... per l’annullamento:
- della deliberazione del Consiglio Comunale di Udine n.
74/2013 dd. 04.11.2013, di approvazione del regolamento per
la telefonia mobile ai sensi e per gli effetti della L.R.
F.V.G. n. 2/2011;
- del conseguente “Regolamento comunale per la telefonia
mobile” e relativi allegati approvato con l'anzidetta
deliberazione consiliare, comprensivo degli allegati ed in
particolare della c.d. “mappa delle localizzazioni”;
...
E’ nota e pacifica in giurisprudenza la distinzione «tra
regolamenti cd. volizioni preliminari, che,
caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza,
contengono previsioni normative astratte e programmatiche
che non si traducono in una immediata incisione della sfera
giuridica del destinatario e i regolamenti c.d.
volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte,
previsioni destinate alla immediata applicazione, come tali
capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera
giuridica del destinatario» (così, TAR Toscana, Sez. I,
sentenza n. 1194/2015)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 19.01.2017 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Giurisdizione del giudice amministrativo per le azioni di
retrocessione e risarcimento danni proposte dai proprietari
nel caso di occupazione protratta dopo la sopraggiunta
inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
Le Sezioni unite della Corte di cassazione affermano, ex
art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., la giurisdizione del
giudice amministrativo per le azioni di retrocessione e
risarcimento danni proposte dai proprietari nel caso di
occupazione protratta dopo la sopraggiunta inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità.
---------------
Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità –
Domanda di retrocessione e di risarcimento danni –
Occupazione protratta dopo la sopraggiunta inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità – Giurisdizione del
giudice amministrativo.
Sussiste la giurisdizione del
giudice amministrativo nel caso di domanda di retrocessione
e di risarcimento danni proposta in presenza di una
occupazione protrattasi dopo la sopraggiunta inefficacia
della dichiarazione di pubblica utilità, venendo in rilievo
un comportamento dell’amministrazione -che omette di
restituire il terreno occupato in virtù di decreto di
occupazione– comunque connesso, ancorché in via mediata,
all’esercizio del potere ablatorio. (1)
---------------
(1) La pronuncia è stata resa dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione in sede di regolamento di giurisdizione proposto
d’ufficio dal Tar Milano con ordinanza 02.11.2015, n. 2303,
nell’ambito di una controversia in cui gli ex proprietari di
un terreno (dapprima espropriato per la realizzazione di
un’opera pubblica e successivamente venduto previa
sdemanializzazione ad una società per la costruzione di un
centro commerciale), hanno chiesto di accertare l’avvenuta
decadenza della dichiarazione di pubblica utilità per
ottenere la retrocessione del bene o comunque la condanna
delle Amministrazioni e delle società acquirenti convenute,
al pagamento dell’equivalente monetario del terreno pari
alla differenza tra il suo valore venale e il minore importo
dell’indennità di espropriazione a suo tempo ricevuta,
ovvero, in subordine, l’indennizzo ai sensi dell’art. 2041
c.c., per l’ingiustificato arricchimento conseguito dalle
Amministrazioni e dalle società convenute.
Le Sezioni unite concludono nel senso della sussistenza
della giurisdizione del giudice amministrativo sulla scorta
delle seguenti motivazioni:
a) è fuorviante la prospettiva tradizionale del carattere parziale
o totale della retrocessione e della connessa
configurazione, in capo al soggetto espropriato, di una
posizione di interesse legittimo ovvero di diritto
soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere
discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte
dell'amministrazione;
b) la materia, infatti, trova attualmente una specifica disciplina
nel codice del processo amministrativo approvato con d.lgs.
02.07.2010, n. 104 che all'art. 133, comma 1, lett. g),
contempla, tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, quella delle "controversie aventi
ad oggetto (...) i comportamenti, riconducibili, anche
mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle
pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per
pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del
giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e
la corresponsione dell'indennità in conseguenza
dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa";
c) in via generale una situazione di "mediata"
riconducibilità del comportamento della pubblica
amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche
nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur
dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi
l'elemento decisivo —per l'affermazione della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo— del concreto esercizio
del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al
procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza
con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella
proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute
senza alcun titolo che le consentiva: infatti il
comportamento dell'amministrazione, che omette di restituire
il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione,
nonostante quest'ultimo sia stato travolto dalla
sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica
utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via mediata, a
quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata
apprensione e, quindi, neppure la mancata restituzione(cfr.
Cass. civ., S.U., ordinanze nn. 10879 e 12179 del 2015, in
Foro it., 2015, I, 3570, con nota A. CAPONE);
d) una situazione del tutto analoga si verifica nel caso di mancata
retrocessione del bene, acquisito mediante decreto di
esproprio, nonostante la sopravvenuta decadenza della
dichiarazione di pubblica utilità; anche in questo caso è
dato registrare, infatti, il concreto esercizio di un potere
ablatorio, culminato nel decreto di espropriazione, e un
comportamento ad esso collegato (che non si sarebbe
verificato se non vi fosse stato l'esproprio) della pubblica
amministrazione, la quale omette la retrocessione del bene
nonostante la sopravvenuta decadenza della dichiarazione di
pubblica utilità.
Per completezza si segnala:
e) in materia di riparto della giurisdizione su controversie aventi
ad oggetto comportamenti materiali della P.A., Cass. civ.,
S.U., 16.12.2016, n. 25978, ;
f) in materia di riparto della giurisdizione su controversie aventi
ad oggetto occupazioni sine titulo, e domande di
restituzione e risarcimento del danno, Cass. civ., S.U.,
18.11.2016, n. 23462;
g) in materia il riparto di giurisdizione su controversie aventi ad
oggetto il riacquisto coattivo di immobili da parte di un
Consorzio industriale, Cons. St., sez. V, 08.06.2015, n.
2811 (Corte di
Cassazione, Sez. unite civili,
ordinanza 18.01.2017 n. 1092 -
commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
pergolati sanzionati, in considerazione delle
caratteristiche strutturali, dimensionali e funzionali degli
stessi (pavimentazione degli stessi, consistenza delle
dimensioni -trattandosi di strutture aventi una superficie
di circa 178 mq. e di circa 180 mq.- e destinazione -uno a
parcheggio e l’altro ad attività), devono essere qualificati
in termini di nuova costruzione in quanto opere destinate ad
una permanenza e ad una utilizzazione prolungata nel tempo e
idonee a determinare una trasformazione permanente del
territorio.
---------------
Né soccorre, al fine di addivenire a diverse conclusioni,
l’asserita pertinenzialità di tali opere rispetto ad un
immobile che, allo stato, non risulta legittimato da alcun
titolo edilizio.
Invero, la nozione edilizia di pertinenzialità assume
connotati significativamente diversi da quelli civilistici,
rilevando in essa non tanto il dato del legame materiale tra
pertinenza e immobile principale, quanto il dato giuridico
che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di
autonomo valore di mercato ed esaurisca la propria
destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio
principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
Tali caratterizzazioni non ricorrono nel caso che ne occupa,
venendo in rilievo opere che presentano, come sopra
evidenziato, una propria autonomia sotto il profilo
strutturale e funzionale e che hanno un autonomo valore di
mercato.
---------------
Le censure dedotte avverso il provvedimento impugnato si
palesano infondate.
Il Collegio evidenzia, infatti, che sotto il profilo
qualificatorio, i pergolati sanzionati, in considerazione
delle caratteristiche strutturali, dimensionali e funzionali
degli stessi (pavimentazione degli stessi, in relazione alla
quale non rilevano né i materiali impiegati né le tecniche
di installazione, nonché consistenza delle dimensioni,
trattandosi di strutture aventi una superficie di circa 178
mq. e di circa 180 mq., e destinazione uno a parcheggio e
l’altro ad attività delle quali non emerge né è stata
dimostrata la temporaneità), debbano essere qualificati in
termini di nuova costruzione in quanto opere destinate ad
una permanenza e ad una utilizzazione prolungata nel tempo e
idonee a determinare una trasformazione permanente del
territorio (Cons. St. , sez. IV, 02.10.2008, n. 4793;
TAR Campania, Napoli, sez. VII, 12.03.2010, n. 1438;
TAR Puglia, Bari, sez. III, 06.02.2009, n. 222 ).
Né soccorre, al fine di addivenire a diverse conclusioni,
l’asserita pertinenzialità di tali opere rispetto ad un
immobile che, allo stato, non risulta legittimato da alcun
titolo edilizio; dal provvedimento impugnato emerge,
infatti, che l’immobile abusivo è stato oggetto di una
domanda di condono che alla data di proposizione del
presente giudizio non era stata ancora esitata dall’ente ed
in relazione agli sviluppi di tale procedimento nulla è
stato rappresentato dalla difesa del ricorrente.
Il Collegio sottolinea, a tale riguardo, che la nozione
edilizia di pertinenzialità assume connotati
significativamente diversi da quelli civilistici, rilevando
in essa non tanto il dato del legame materiale tra
pertinenza e immobile principale, quanto il dato giuridico
che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di
autonomo valore di mercato ed esaurisca la propria
destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio
principale, così da non incidere sul carico urbanistico
(TAR Puglia Lecce, sez. I, 17.11.2010, n. 2662).
Tali caratterizzazioni non ricorrono nel caso che ne occupa,
venendo in rilievo opere che presentano, come sopra
evidenziato, una propria autonomia sotto il profilo
strutturale e funzionale e che hanno un autonomo valore di
mercato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 18.01.2017 n. 398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulle conseguenze della mancata indicazione degli
oneri della sicurezza aziendale in sede di offerta da parte
del concorrente, per le gare bandite anteriormente
all'entrata in vigore del nuovo c.d. codice degli appalti
(d.lgs. 18.04.2016, n. 50).
Per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del
nuovo c.d. codice degli appalti pubblici e delle concessioni
(d.lgs. 18.04.2016, n. 50), nelle ipotesi in cui l'obbligo
di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non
sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in
contestazione che dal punto di vista sostanziale l'offerta
rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione
del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo
stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla
stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di
soccorso istruttorio (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.01.2017 n. 194 - link a
www.diritodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
La misura dell'interdittiva antimafia può essere
emessa dall'amministrazione in una logica di anticipazione
della soglia di difesa dell'ordine pubblico economico.
L'informativa antimafia c.d. tipica risponde alla peculiare
esigenza di mantenere un atteggiamento intransigente contro
i rischi di infiltrazione mafiosa, idonei a condizionare le
scelte dell'impresa oggetto di controllo; in altre parole,
l'intento del legislatore nel disciplinare la materia de qua
è stato quello di accostare alle misure di prevenzione
antimafia un altro significativo strumento di contrasto
della criminalità organizzata, consistente nell'esclusione
dell'imprenditore, che sia sospettato di legami o
condizionamenti derivanti da infiltrazioni mafiose, dal
mercato dei pubblici appalti e, più in generale, dalla
stipula di tutti quei contratti e dalla fruizione di tutti
quei benefici, che presuppongono la partecipazione di un
soggetto pubblico e l'utilizzo di risorse della
collettività.
Del resto, proprio la formulazione generica del concetto di
tentativo di infiltrazione mafiosa, rilevante ai fini del
diritto, comporta l'attribuzione al Prefetto di un ampio
margine di accertamento e di apprezzamento, nell'esercizio
di poteri sicuramente discrezionali, diretti alla
dimostrazione, in via indiziaria, della sussistenza di una
situazione di rischio di infiltrazione da parte della
criminalità organizzata.
Insomma, la misura dell'interdittiva antimafia può essere
emessa dall'Amministrazione in una logica di anticipazione
della soglia di difesa dell'ordine pubblico economico e non
postula, come tale, l'accertamento in sede penale di uno o
più reati che attestino il collegamento o la contiguità
dell'impresa con associazioni di tipo mafioso, potendo,
perciò, basarsi anche sul solo rilievo di elementi
sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se
non la certezza) di infiltrazioni della criminalità
organizzata nell'attività imprenditoriale (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 12.01.2017 n. 58 - link a
www.diritodeiservizipubblici.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Accesso
frenato ai database della pubblica amministrazione.
Sentenza della corte di giustizia europea:
informazioni solo in base a interrogazioni predefinite.
La trasparenza dei data base della p.a. dipende da come sono
stati scritti i programmi informatici.
A disposizione di cittadini e imprese ci sono solo i dati
che sono il risultato delle SQL (Structured Query Language,
il Sistema delle domande nelle ricerche in internet).
A queste conclusioni è giunta la Corte di giustizia
dell'Unione europea, con la
sentenza
11.01.2017 causa C-491/15 P
della I Sez..
Per legge, infatti, con il diritto di accesso cittadini e
imprese non possono chiedere alla p.a. di elaborare un nuovo
documento, ma solo i documenti già detenuti.
Però per distinguere se un documento sia nuovo nelle banche
dati elettroniche, bisogna distinguere se l'informazione sia
accessibile attraverso le modalità di ricerca (query
strutturate) già programmate o se, invece, bisogna
programmare un nuovo sistema di ricerca.
Nel primo caso l'accesso alla informazione contenuta nel
data base della p.a. (pubblica amministrazione) è a
disposizione del cittadino/impresa; nel secondo caso
l'informazione non è disponibile.
La distinzione tra un documento esistente e un documento
nuovo va operata sulla base di un criterio adeguato alle
specificità tecniche delle banche dati elettroniche.
Le informazioni contenute nelle banche dati elettroniche
possono essere raggruppate, collegate e presentate in
diversi modi grazie ai linguaggi di programmazione.
Tuttavia, la programmazione e la gestione informatica di
banche dati elettroniche non rientrano tra le operazioni
effettuate dagli utenti finali nell'ambito dell'uso
corrente. Infatti, questi ultimi accedono alle informazioni
contenute in una banca dati utilizzando strumenti di ricerca
preprogrammati.
DOCUMENTO ESISTENTE
Secondo la sentenza devono essere qualificate come documento
esistente tutte le informazioni che possono essere estratte
da una banca dati elettronica nell'ambito del suo uso
corrente mediante strumenti di ricerca preprogrammati.
DOCUMENTO NUOVO
È possibile che le istituzioni costituiscano un documento a
partire dalle informazioni contenute in una banca dati
utilizzando gli strumenti di ricerca esistenti.
Tuttavia ogni informazione la cui estrazione da una banca
dati necessiti un intervento sostanziale dev'essere
considerata un nuovo documento e non un documento esistente.
Quindi dev'essere qualificata come nuovo documento ogni
informazione per ottenere la quale sia necessaria una
modifica dell'organizzazione di una banca dati elettronica o
degli strumenti di ricerca attualmente disponibili per
l'estrazione delle informazioni.
Se la banca dati elettronica consente l'estrazione delle
informazioni mediante l'uso delle interrogazioni SQL ma se
la richiesta di accesso alla combinazione di dati oggetto
della sua domanda presuppone un lavoro di programmazione
informatica, cioè l'elaborazione di nuove interrogazioni
SQL, allora abbiamo un nuovo documento.
Le operazioni necessarie per la programmazioni di nuove
interrogazioni SQL non potrebbero essere assimilate ad una
ricerca normale o di routine nella banca dati interessata,
effettuata mediante strumenti di ricerca messi a
disposizione per la banca dati e che, pertanto, l'accesso
alle informazioni sollecitate avrebbe richiesto la creazione
di un nuovo documento.
PERICOLO
Le istituzioni potrebbero occultare taluni documenti
elettronici con la predeterminazione dei criteri di ricerca
SQL. Ma la Corte di giustizia risponde che la possibilità
astratta che un documento sia soppresso o distrutto riguarda
allo stesso modo sia i documenti cartacei sia quelli
generati mediante estrazione da una banca dati.
RIFLESSI ITALIANI
In Italia il decreto legislativo sulla trasparenza (33/2013)
disciplina l'accesso alle banche dati della p.a. e ha
regolamentato l'accesso civico generalizzato. Sul punto l'Anac,
autorità anticorruzione, ha diffuso le linee guida approvate
con la
determinazione 28.12.2016 n. 1309 (pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 7 del 10.01.2017).
L'Anac ha precisato che l'amministrazione non è tenuta a
rielaborare informazioni in suo possesso, per rispondere ad
una richiesta di accesso generalizzato: deve consentire
l'accesso ai documenti, ai dati ed alle informazioni così
come sono già detenuti, organizzati, gestiti e fruiti.
Mentre resta escluso che l'amministrazione sia tenuta a
formare o raccogliere o altrimenti procurarsi informazioni
che non siano già in suo possesso. Pertanto,
l'amministrazione non ha l'obbligo di rielaborare i dati ai
fini dell'accesso generalizzato, ma solo a consentire
l'accesso ai documenti nei quali siano contenute le
informazioni già detenute e gestite dall'amministrazione
stessa.
Anche per l'Italia, dunque, la trasparenza dipende da come
vengono strutturate le interrogazioni preprogrammate. Anche
se questo provoca un'altra questione e cioè fare in modo che
la programmazione delle query avvenga in maniera trasparente
e controllabile. La trasparenza amministrativa non può
essere svilita o stoppata dalla programmazione informatica (articolo ItaliaOggi Sette del
30.01.2017). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Paletti
ai locali della movida. Addio tavolini del bar se il comune
non avvisa i residenti. Una
ricognizione delle pronunce più recenti sull'occupazione di
suolo pubblico.
Il comune non può dare il via libera al bar che vuole
mettere i tavolini sul terreno demaniale se l'avvio del
procedimento di autorizzazione non risulta comunicato al
condominio vicino, che è in causa con il gestore
dell'esercizio per i fastidi creati dai clienti ai
residenti.
Ciò perché l'amministrazione locale sa che l'ente di
gestione è controinteressato in quanto ha già tentato di
bloccare l'occupazione del suolo pubblico e la stessa
attività commerciale: la decisione del dirigente
dell'ufficio, infatti, viola il principio della
partecipazione al procedimento amministrativo stabilito
dalla legge 241/1990.
È quanto emerge dalla
sentenza
09.01.2017 n. 228,
pubblicata dalla Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Niente da fare per il locale pubblico che aveva ottenuto
oltre venti metri quadrati nel centro storico di Roma dove
installare sedie, ombrelloni e arredi per l'aperitivo dei
suoi clienti. Dopo la revoca della prima concessione, un
secondo permesso per l'occupazione del suolo pubblico (Osp)
era stato rilasciato a un soggetto diverso per subentro. Ma
viene accolto il ricorso per motivi aggiunti del condominio
perché l'ente di gestione avrebbe potuto subire danni da una
nuova autorizzazione Osp, eppure non era stato avvisato dal
comune dell'avvio dell'iter.
L'amministrazione, in verità, aveva già ricevuto esposti
contro i rumori e i fumi del bar da parte del condominio,
che protestava contro l'occupazione abusiva dello slargo
davanti all'edificio da parte dell'esercizio pubblico.
L'ente di gestione, fra l'altro, aveva dichiarato guerra
all'happy hour, essendo in causa contro la società che
gestisce il locale perché il regolamento condominiale
vietava attività di somministrazione all'interno del
fabbricato. Non resta che pagare le spese di giudizio.
È sempre più guerra nelle zone della movida fra residenti e
gestori dei locali. Ecco alcuni precedenti: no al dehors per
il bar se prima di rivolgersi al comune il titolare non ha
fatto i conti con il condominio. Stop all'autorizzazione
unica concessa all'esercizio pubblico dallo sportello
attività produttive dell'ente locale: la struttura a
padiglione, infatti, deve essere considerata aderente alla
facciata dello stabile e dunque non può essere installata in
loco senza il nulla osta di tutti coloro che risultano
proprietari del muro perimetrale ex articolo 1117 Cc.
È quanto emerge dalla
sentenza
04.03.2016 n. 379,
pubblicata dalla II Sez. del TAR Toscana.
Accolto il ricorso di uno dei condomini. Il progetto del
dehors per il bar prevede che la struttura sia posta a un
solo centimetro di distanza alla facciata dello stabile.
Ed è proprio il regolamento comunale a imporre il nulla osta
dei proprietari o dell'amministratore dell'edificio quando
si verifica il «contatto-aderenza» con la superficie
esterna di un fabbricato: sbaglia l'amministrazione quando
interpreta le norme ritenendo necessaria l'autorizzazione
preventiva da parte del condominio soltanto nell'ipotesi in
cui i tiranti della struttura a padiglione devono essere
agganciati alla parete. E il condomino non ha mai dato il
suo consenso all'opera.
Ancora. Niente dehors per il pub, anche se il gestore
assicura che è «smontabile». Il punto è che il locale
si trova in una zona soggetta al piano territoriale
paesaggistico, che non ammette incremento di volumi anche
quando non è frutto di nuova costruzione, come nel caso del
gazebo che pure ha tende laterali in plastica trasparenti.
Risulta allora legittimo il «no» opposto dal comune al
permesso di costruire dopo il parere negativo della
Soprintendenza per i beni architettonici. E non conta che
l'amministrazione abbia invece dato via libera in zona a un
analogo progetto di un concorrente.
È quanto emerge dalla
sentenza 29.06.2016 n. 3286,
pubblicata dalla VI Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il piano territoriale che tutela il paesaggio non fa
differenza fra i volumi edilizi e quelli tecnici, ma vieta
ogni aumento delle cubature: l'agognato dehors non può
comunque essere definito una struttura precaria da un punto
di vista edilizio laddove invece deve essere destinato in
modo stabile alle esigenze commerciali del pub, vale a dire
assicurare nuovi tavoli al locale.
Inutile lamentare il vizio di eccesso di potere: conta il
Ptp (Piano territoriale paesaggistico) che tutela quello «specifico
paesaggio» e gli atti che sono espressione di
discrezionalità non risultano censurabili per violazione del
canone di imparzialità
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9, l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di
parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti
al piano terreno con autorizzazione gratuita e in deroga
alla vigente disciplina urbanistica, concerne i soli
fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie
rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece
provvede l'art. 2, comma 2, della legge stessa che, nel
novellare l'art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942 n.
1150, stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per
parcheggi di misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc di
costruzione.
Trattandosi nel caso di specie di un permesso per la
realizzazione di un nuovo edificio unifamiliare il beneficio
previsto dalla norma sopra richiamata risulta, pertanto,
inapplicabile.
Né è possibile sostenere che i manufatti in questione
costituirebbero opere di urbanizzazione atteso che non si
tratta di posti auto destinati alla fruizione collettiva ma
di parcheggi pertinenziali alla unità abitativa principale
che non possono, quindi, considerarsi come infrastrutture di
pubblica utilità.
---------------
I ricorrenti contestano la determinazione del contributo
relativo al rilascio in loro favore del permesso di
costruire n. 2 del 2016 da parte del comune di Siena sotto
più profili.
Gli stessi in primo luogo ritengono che i parcheggi
pertinenziali coperti realizzati ai sensi dell’art. 40 del
R.U. non potrebbero essere assoggettati a contributo in
quanto rientranti nell’ambito della esenzione prevista
dall’art. 9 della L. 122/1989 e, comunque, perché costituenti
opere di urbanizzazione.
La pretesa esenzione dal contributo non ha, tuttavia,
fondamento giuridico.
In base alla prevalente giurisprudenza, alla quale il
Collegio ritiene di dover aderire, l'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel
sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno
con autorizzazione gratuita e in deroga alla vigente
disciplina urbanistica, concerne i soli fabbricati già
esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per
realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l'art.
2, comma 2, della legge stessa che, nel novellare l'art. 41-sexies, l. fondamentale 17.08.1942 n. 1150, stabilisce
l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi di
misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc di costruzione
(Consiglio di Stato sez. VI 09.02.2015 n. 637).
Trattandosi nel caso di specie di un permesso per la
realizzazione di un nuovo edificio unifamiliare il beneficio
previsto dalla norma sopra richiamata risulta, pertanto,
inapplicabile.
Né è possibile sostenere che i manufatti in questione
costituirebbero opere di urbanizzazione atteso che non si
tratta di posti auto destinati alla fruizione collettiva ma
di parcheggi pertinenziali alla unità abitativa principale
che non possono, quindi, considerarsi come infrastrutture di
pubblica utilità
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 09.01.2017 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'omessa
acquisizione del parere della commissione edilizia, ai fini
della decisione di una domanda di sanatoria, non costituisce
necessariamente vizio procedimentale invalidante, posto che
-ai sensi dell'art. 4, comma 2, del DPR 380/2001- “nel caso
in cui il Comune intenda istituire la Commissione edilizia,
il regolamento indica gli interventi sottoposti al
preventivo parere di tale organo consultivo”.
Il parere della commissione edilizia nell'ambito dei
procedimenti di rilascio di titoli edilizi è quindi
requisito meramente eventuale, in quanto subordinato alle
previsioni del regolamento comunale.
Va d’altra parte rilevato che i ricorrenti non hanno
dimostrato che l’intervento in questione rientra nell’ambito
dei casi per i quali il regolamento richiede il necessario
parere della Commissione edilizia.
Ancora, il procedimento di accertamento di conformità ex
art. 36 del richiamato testo unico non prevede
l'acquisizione del parere della Commissione edilizia quando
l’istruttoria non richieda valutazioni di ordine tecnico, ma
solo –come nella specie- di natura giuridica.
---------------
1.1 Riguardo la composizione della commissione edilizia, il
vizio dedotto è irrilevante. Innanzitutto, non è dedotta
l’obbligatorietà del parere ai sensi del regolamento
comunale.
Infatti, l'omessa acquisizione del parere della
commissione edilizia, ai fini della decisione di una domanda
di sanatoria, non costituisce necessariamente vizio
procedimentale invalidante, posto che -ai sensi dell'art.
4, comma 2, del richiamato testo unico- “nel caso in cui il
Comune intenda istituire la Commissione edilizia, il
regolamento indica gli interventi sottoposti al preventivo
parere di tale organo consultivo”.
Il parere della
commissione edilizia nell'ambito dei procedimenti di
rilascio di titoli edilizi è quindi requisito meramente
eventuale, in quanto subordinato alle previsioni del
regolamento comunale. Va d’altra parte rilevato che i
ricorrenti non hanno dimostrato che l’intervento in
questione rientra nell’ambito dei casi per i quali il
regolamento richiede il necessario parere della Commissione
edilizia (Tar Sardegna 20.05.2015, n. 805).
Ancora, il procedimento di accertamento di conformità ex
art. 36 del richiamato testo unico non prevede
l'acquisizione del parere della Commissione edilizia quando
l’istruttoria non richieda valutazioni di ordine tecnico, ma
solo –come nella specie- di natura giuridica (sul punto,
Tar Campania-Napoli 06.09.2012, n. 3775)
(TAR Marche,
sentenza 07.01.2017 n. 25 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere edilizie abusive realizzate in zona
sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in
totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della
legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono
suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione.
---------------
Fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella
materia civilistica, possono costituire pertinenza solo
manufatti inidonei ad alterare in modo significativo
l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione
dell'aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.lgs. n. 42 del
2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica, il che comporta che
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie
e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della
sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia
stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica.
----------------
Interventi consistenti nella installazione di tettoie o di
altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti
di preesistenti edifici come strutture accessorie di
protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi
entro coperture volumetriche previste in un progetto
assentito, possono ritenersi sottratti al regime del
permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono.
Tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili
senza permesso di costruire e, ancora una volta, soprattutto
senza autorizzazione paesaggistica, allorquando le loro
dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile
alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite.
---------------
2 Passando
alle altre censure, si premette che non è contestato che il
manufatto si trovi, come menzionato nel provvedimento ablatorio, in zona sottoposta a tutela paesaggistica
ambientale, imposta con DM 16.05.1968.
2.1 Questa circostanza comporta l’irrilevanza delle
deduzioni di parte ricorrente relative al carattere
pertinenziale dell’opera e all’applicabilità della sanzione
ex art. 37 DPR 380 del 2001.
2.2 Ciò in forza dei costanti e condivisi principi
giurisprudenziali per cui:
- le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a
vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale
difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47
del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono
suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione;
- fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella
materia civilistica, possono costituire pertinenza solo
manufatti inidonei ad alterare in modo significativo
l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione
dell'aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.lgs. n. 42 del
2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica, il che comporta che
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie
e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della
sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia
stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica;
- interventi consistenti nella installazione di tettoie o di
altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti
di preesistenti edifici come strutture accessorie di
protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi
entro coperture volumetriche previste in un progetto
assentito, possono ritenersi sottratti al regime del
permesso di costruire soltanto ove la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali
strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza
permesso di costruire e, ancora una volta, soprattutto senza
autorizzazione paesaggistica, allorquando le loro dimensioni
sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione
all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite (si veda Tar Campania Napoli 20.02.2014, n. 1122 e
la copiosa giurisprudenza ivi citata).
2.3 Nel caso in esame l’opera abusiva, della superficie di
24 mq. e realizzata in legno, su piattaforma in calcestruzzo
e con copertura in coppo-tegola laterizio costituisce, in
tutta evidenza, un‘alterazione dell’edificio
(TAR Marche,
sentenza 07.01.2017 n. 25 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di parcheggi nelle aree
pertinenziali esterne al fabbricato -ai sensi dell’art. 9 L.
122/1989- deve essere realizzata nel sottosuolo (la
costruzione di una tettoia non costituisce, ovviamente, un
parcheggio “interno” del fabbricato medesimo).
Peraltro, la legge n. 122 del 1989 consente la realizzazione
di parcheggi pertinenziali in deroga agli strumenti
urbanistici, ma non ai vincoli paesaggistici ed ambientali,
che costituiscono, comunque, un limite da rispettare.
---------------
2.4 Sono infondate anche le censure relative alla violazione
dell’art. 9 della richiamata legge n. 122 del 1989
(cosiddetta legge Tognoli) e della legge n. 13 del 1989
sulle barriere architettoniche.
Difatti, la realizzazione di
parcheggi nelle aree pertinenziali esterne al fabbricato -ai sensi dell’art. 9 invocato- deve essere realizzata nel
sottosuolo (la costruzione di una tettoia non costituisce,
ovviamente, un parcheggio “interno” del fabbricato
medesimo).
Peraltro, la legge n. 122 del 1989 consente la
realizzazione di parcheggi pertinenziali in deroga agli
strumenti urbanistici, ma non ai vincoli paesaggistici ed
ambientali, che costituiscono, comunque, un limite da
rispettare (Tar Toscana 11.06.2010, n. 1818).
2.5 Nel caso in esame, vista l’incontestata presenza di un
vincolo paesaggistico, la realizzazione dell’opera, anche
ammettendo l’applicabilità della norma invocata, doveva
comunque essere assoggettata all'istruttoria propria del
procedimento di rilascio del permesso di costruire in zone
vincolate e non poteva essere eseguita sic et simpliciter
mediante una mera autorizzazione (si veda Tar Campania
Napoli 20.03.2014 n. 1598).
2.6 Non può altresì essere invocato il collegamento con la
legge n. 13 del 1989 (tanto meno in connessione con la già
citata legge n. 122 del 1989, inapplicabile nel caso di
specie) dato che la costruzione di una struttura
(eventualmente) destinata, tra l’altro, ad ospitare
-OMISSIS- non costituisce opera di abbattimento delle
barriere architettoniche
(TAR Marche,
sentenza 07.01.2017 n. 25 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
spetta al Ministero dei beni culturali la comparazione tra
la protezione del vincolo e l’interesse pubblico dell’opera,
ma solo la valutazione circa la sua compatibilità con i
valori protetti.
Difatti, come osservato condivisibilmente in giurisprudenza,
alla funzione di tutela del paesaggio (che il Ministero dei
beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio
parere nell’ambito del procedimento di compatibilità
ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione della
tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla
comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di
volta in volta possono venire in considerazione: il parere
del Ministero dei beni culturali è atto strettamente
espressivo di discrezionalità tecnica, dove, similmente al
parere dell’art. 146 d.lgs. 242 del 2004, l’intervento
progettato va messo in relazione con i valori protetti ai
fini della valutazione tecnica della compatibilità fra
l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico
paesaggistico, valutazione che è istituzionalmente
finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni
inaccettabili del preesistente valore protetto.
---------------
2.2 Riguardo l’affermata contraddittorietà del parere, in
tutta evidenza il parere della Soprintendenza reso in sede
in approvazione dello strumento urbanistico (delibera del
Consiglio comunale di Fano. n. 34 del 19.02.2009) è di natura
differente (non fosse altro per i diversi organi
ministeriali coinvolti) rispetto all’approfondimento proprio
della Valutazione di impatto ambientale.
Non è altresì
rilevante, evidentemente, l’eventuale presenza di
valutazioni diverse rispetto a quelle del Ministero
dell’ambiente e della Commissione tecnica, in presenza di un
concorde giudizio negativo di compatibilità.
2.3 Appare altresì priva di pregio la tesi per cui il
Ministero dei beni culturali non avrebbe potuto valutare la
presenza del vincolo adottato con decreto del Presidente
della Regione ai sensi dell'art. 2 della legge 29.06.1939 n.
1497 (Decreto del Presidente della Regione Marche 668/1981),
trattandosi in ogni caso di vincolo paesaggistico sottoposto
alla valutazione di detto Ministero in sede di VIA, che non
viene, ovviamente, posto nel nulla, dagli atti relativi al
parere favorevole al progetto reso dalla Regione Marche in
sede di Intesa stato-regioni.
2.4 Infine, l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si
afferma che l’intervento sarebbe compatibile con i valori
paesaggistici tutelati, costituisce sostanzialmente
un’inammissibile sostituzione di un nuovo giudizio
discrezionale a quello effettuato dall’ente competente in
materia. Del resto, non spetta al Ministero dei beni
culturali la comparazione tra la protezione del vincolo e
l’interesse pubblico dell’opera, ma solo la valutazione
circa la sua compatibilità con i valori protetti (si veda,
in particolare Cons. Stato Sez. VI. 16.07.2015 n. 3652).
2.5 Difatti, come osservato condivisibilmente in
giurisprudenza, alla funzione di tutela del paesaggio (che
il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo
obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di
compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di
attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal
bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi,
ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in
considerazione: il parere del Ministero dei beni culturali è
atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica,
dove, similmente al parere dell’art. 146 d.lgs. 242 del
2004, l’intervento progettato va messo in relazione con i
valori protetti ai fini della valutazione tecnica della
compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato
interesse pubblico paesaggistico, valutazione che è
istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano
alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto
(Cons. Stato, VI 3652/2015, cit.).
2.6 Vale a dire che, nel caso in esame, la valutazione
negativa sull’interesse pubblico dell’opera, sia pure
presente nel parere impugnato e non di competenza del
Ministero dei beni culturali, è un semplice corollario del
separato giudizio di non compatibilità con i beni protetti.
Perciò è al limite superflua, ma non certo tale da rendere
illegittimo il parere (il caso potrebbe essere diverso
qualora tali interessi fossero valutati e ritenuti, al
contrario prevalenti rispetto all’impatto negativo sul
paesaggio, si veda Cons. Stato 3652/2015, cit.).
2.7 Il Ministero dei beni culturali non esorbitando dalle
sue competenze ha quindi espresso un giudizio di non
compatibilità dell’intervento con i vincoli paesaggistici
esistenti (oltre al citato decreto 668/1981, il DM
25.10.1965, relativo alla zona a nord del torrente Arzilla
fino al fosso Setore).
Il parere si esprime, infatti, sui
valori paesaggistici, in particolare osservando come l’area
occupata dall'eventuale casello, laddove caratterizzata da
un intervento con estese superfici asfaltate e volumi
aggiunti (barriere di passaggio, locali di servizio) e
segnaletiche d’uso risulterebbe certamente apprezzabile e,
proprio per quanto sopra detto, recepita quale assolutamente
impropria rispetto al contesto. Il progetto interferirebbe,
inoltre, con complessi di rilevanza storica e architettonica
tutelati (TAR Marche,
sentenza 05.01.2017 n. 21 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il
giudice dell'accesso, come pure il soggetto pubblico
richiesto, non può andare oltre una valutazione circa il
collegamento dell'atto -obiettivo o secondo la
prospettazione del richiedente- con la situazione soggettiva
da tutelare e circa l'esistenza di una concreta necessità di
tutela, senza poter apprezzare nel merito la fondatezza
della pretesa o le strategie difensive dell'interessato.
---------------
Nel processo amministrativo la "vicinitas", intesa come
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, costituisce
criterio di per sé sufficiente a rappresentare l'interesse
al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza
che, in sua presenza, non è necessario accertare
concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente.
---------------
Ai sensi dell'art. 22, l. 07.08.1990, n. 241 soggetti
legittimati all'accesso ai documenti amministrativi sono
tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e
collegata al documento al quale si chiede l'accesso.
Inoltre l'interesse all'accesso ai documenti va valutato in
astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al
caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla
fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
l'interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo
valutarsi la legittimazione all'accesso alla stessa stregua
di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante.
Sicché, la posizione giuridica del proprietario di area
limitrofa è già sufficientemente idonea a consolidare il suo
interesse “diretto, concreto e attuale” all’accesso.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 42180 del
09/06/2016, successivamente notificato, a firma congiunta
del Responsabile del procedimento e del Responsabile APO
Servizio Urbanistica del comune di Battipaglia recante
accoglimento dell’istanza di accesso agli atti del fascicolo
relativo alla concessione edilizia n. 22809 del 02.04.1975,
formulata dal sig. avv. Fe.Be., e contestuale rigetto dei
motivi di opposizione all’accesso formulata dai ricorrenti;
...
Il ricorso è infondato.
Giova premettere che, con il provvedimento impugnato, il
Comune di Battipaglia ha accolto l’istanza ostensiva,
avanzata dall’avv. Fe.Be., intesa ad esaminare il fascicolo
amministrativo relativo allo stato concessorio dei
fabbricati di proprietà dei ricorrenti, ubicati sulle p.lle
132 e 133 del foglio 5, evidenziando, come emerge dal corpo
della istanza medesima versata agli atti del giudizio, di
essere proprietario di un terreno di 2.440 mq. (censito in
catasto al Foglio 5, Particella 1399, ricadente
integralmente in zona territoriale omogenea C2) e di essere
intervenuto ad opponendum nel ricorso RG n.
1045/2013, proposto innanzi a questo Tribunale, dai medesimi
ricorrenti Fr.Sc. ed Ad.Pe., in qualità di un terreno
distinto in catasto al Foglio 5, particelle nn. 133 e 132,
per l’esecuzione ope judicis delle sentenze n.
1017/2012 e n. 2227/2013 del medesimo Tribunale.
Dal tenore dell’istanza, così come evidenziato in seno al
quadro motivazionale del provvedimento impugnato, emerge che
il Be. ha radicato la propria legittimazione ad
exhibendum sulla base sia della vicinitas, avuto
riguardo all’ubicazione della sua proprietà rispetto a
quella dei ricorrenti, sia della proposizione di intervento
ad opponendum nel citato giudizio, così da avere
necessità di “apprestare una migliore difesa possibile in
occasione della Udienza Pubblica del 19/12/2016” (cfr.
istanza d’accesso, pag. 1).
Tanto è sufficiente, a parere del Collegio per radicare la
base di legittimazione al conseguimento della sospirata
ostensione da parte del Be., come rappresentato dall’Ufficio
in seno all’atto impugnato, ove si dice che <<L’avv. Be.
è proprietario del terreno censito al foglio 5 particella
1399, che ricade nella medesima zona territoriale omogenea
“C2-Cupa Filette” in cui è ricompresa la proprietà dei
controinteressati, che dista circa 90 ml da essa; 2. La
richiesta è sufficientemente motivata, riportando il
riferimento all’interesse diretto, concreto ed attuale alla
conoscenza dell’atto, per la cura e la tutela di una
situazione soggettiva giuridicamente rilevante che determina
la richiesta dell’istante (cfr. art. 7 del Regolamento
Comunale; 3. Il diritto ad accedere agli atti richiesti non
può essere compromesso dalla circostanza che il richiedente
abbia in corso una richiesta di intervenire ad opponendum al
ricorso (NRG n. 1045/2013) proposto dinanzi al TAR Salerno
dai signori Francesco Schiavo ed Ada Pesce contro il Comune…>>.
Non convincono i rilievi sollevati dalla parte in ordine
alla pretesa inammissibilità dell’intervento ad
opponendum, così come argomentato nel connesso giudizio
anche sulla base dell’esigenza di patrocinare interessi di
terzi (“proprietari delle aree ricadenti nella medesima
zona omogenea”) non specificati e comunque non
formalmente costituitisi con il rilascio di mandato
difensivo all’avv. Be., in quanto, come affermato di recente
dal Massimo Consesso di GA, “il giudice dell'accesso,
come pure il soggetto pubblico richiesto, non può andare
oltre una valutazione circa il collegamento dell'atto
-obiettivo o secondo la prospettazione del richiedente- con
la situazione soggettiva da tutelare e circa l'esistenza di
una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell'interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007, n.
55; Id., sez. IV, 29.01.2014, n. 461; Id., sez. V,
23.03.2015, n. 1545; Id., sez. IV, 09.02.2016, n. 527)”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 22/06/2016, n. 2760).
L’Amministrazione ha comunque dato conto della vicinanza dei
due fondi (pari a circa 90 ml) e ciò è sufficiente a
consolidare la legittimazione dell’accedente, in quanto “Nel
processo amministrativo la "vicinitas", intesa come
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, costituisce
criterio di per sé sufficiente a rappresentare l'interesse
al ricorso contro un titolo edilizio, con la conseguenza
che, in sua presenza, non è necessario accertare
concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente”
(cfr. TAR Potenza Basilicata, sez. I, 28.11.2016, n. 1071;
TAR Torino Piemonte, sez. II, 15.11.2016, n. 1407, ove si
afferma che è “sufficiente la vicinitas quale elemento
che distingue la posizione giuridica di un soggetto da
quella della generalità dei consociati”).
Le considerazioni formulate in ricorso circa il concorso da
parte del Be. al depauperamento degli standard urbanistici
mediante il recente conseguimento di sanatoria edilizia
risultano inconferenti, in quanto, poiché impingono
anch’esse nel merito della controversia, incardinata presso
questo Tribunale e nella quale l’accedente ha proposto
intervento ad opponendum, non hanno alcuna incidenza
sulla legittimazione all’accesso.
Va ribadito che, in base a consolidato orientamento pretorio
assurgente al rango di jus receptum, “Ai sensi
dell'art. 22, l. 07.08.1990, n. 241 soggetti legittimati
all'accesso ai documenti amministrativi sono tutti coloro
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al
documento al quale si chiede l'accesso; inoltre l'interesse
all'accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che
possa essere operato, con riferimento al caso specifico,
alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o
ammissibilità della domanda giudiziale che l'interessato
potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti
acquisiti mediante l'accesso, non potendo valutarsi la
legittimazione all'accesso alla stessa stregua di una
legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante”
(cfr. TAR Torino Piemonte, sez. I, 05.10.2016, n. 1209).
In conclusione la posizione giuridica del Be., quale
proprietario di area limitrofa, è già sufficientemente
idonea, per le ragioni anzidette, a consolidare il suo
interesse “diretto, concreto e attuale” all’accesso.
Non è più assistito, infine, dal necessario profilo di
interesse quanto ulteriormente dedotto con riferimento alla
parte dell’istanza rivolta all’ostensione delle “Eventuali
concessioni edilizie rilasciate alla confinante Parrocchia…”,
avendo l’avv. Fe.Be., con memoria dell’08.11.2016, fatto
rinuncia all’accesso anche di tali atti. Tale profilo di
pronuncia va quindi dichiarato improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso è complessivamente da respingere siccome
infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.01.2017 n. 6 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Il
muretto di contenimento in questione è realizzato su base
muraria e presenta dimensioni certo non trascurabili ovvero
lunghezza di 100 mt. e altezza variabile da 0,55 a 1,30 mt.
laddove i ricorrenti non abbiano provato, come è pacifico
loro onere, né il periodo di realizzazione né la sussistenza
degli eventuali titoli abilitativi che legittimerebbero ab
origine l’esistenza dei manufatti.
Ciò ha indubbio rilievo, dal momento che le opere oggetto
dell’impugnata ordinanza ripristinatoria hanno sicuro
impatto urbanistico-edilizio in considerazione delle
relative dimensioni e delle caratteristiche costruttive.
---------------
La pur sostenuta -anche dalla giurisprudenza dell’adito
Tribunale- natura libera delle recinzioni con rete metallica
e paletti di legno o ferro a delimitazione della proprietà
immobiliare non riguarda le recinzioni erette su base
muraria per le quali è invece richiesto il permesso a
costruire.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensiva, dell’ordinanza di
demolizione e remissione in pristino n. 11069 del
11/04/2008, prot. n. 14936, a firma del Dirigente
dell’ufficio pianificazione territoriale ed edilizia del
Comune di Gubbio notificata ai ricorrenti in data
05/05/2008, della delibera consiliare del Comune di Gubbio
n. 39 del 17/03/2008 pubblicata in data 29/04/2008 nel
B.U.R. (Avvisi e Concorsi) della Regione dell’Umbria,
mediante la quale il Comune di Gubbio ha approvato il Nuovo
Piano Regolatore Generale - parte operativa e in
particolare, tra gli altri, l’art. 241;
...
1. - I ricorrenti, proprietari di immobile sito in Gubbio e
identificato al NCEU al foglio 187, mappale 34, hanno
impugnato l’ordinanza del Dirigente dell’Ufficio
pianificazione territoriale ed edilizia del Comune di Gubbio
con cui si intima loro la demolizione e remissione in
pristino di opere prive di titolo abilitativo poste
all’esterno del fabbricato, consistenti in un muretto di
contenimento in pietra e rifacimento della pavimentazione
esterna di circa 200 metri quadri.
Impugnano altresì l’art. 241 del P.R.G. parte operativa del
Comune di Gubbio nella parte in cui limita la realizzazione
di muretti di contenimento della proprietà privata.
...
2. - E’ materia del contendere la legittimità dell’ordinanza
n. 11069 del 11.04.2008 con cui il Dirigente dell’ufficio
pianificazione territoriale ed edilizia del Comune di Gubbio
ha ordinato ai ricorrenti, in qualità di proprietari, la
demolizione e remissione in pristino di un muretto di
contenimento in pietra e di una pavimentazione esterna di
circa 200 metri quadrati.
3. - Il ricorso è infondato e va respinto
4. - Va premesso in punto di fatto che il muretto di
contenimento in questione è realizzato su base muraria e
presenta dimensioni certo non trascurabili ovvero lunghezza
di 100 mt. e altezza variabile da 0,55 a 1,30 mt.
5. - Giova anzitutto evidenziare come i ricorrenti non
abbiano provato come è pacifico loro onere (ex plurimis
TAR Umbria, sez. I, 02.08.2013, n. 411) né il periodo di
realizzazione né la sussistenza degli eventuali titoli
abilitativi che legittimerebbero ab origine
l’esistenza dei manufatti.
Ciò ha indubbio rilievo, dal momento che le opere oggetto
dell’impugnata ordinanza ripristinatoria hanno sicuro
impatto urbanistico-edilizio in considerazione delle
relative dimensioni e delle caratteristiche costruttive.
6. - Infatti la pur sostenuta -anche dalla giurisprudenza
dell’adito Tribunale- natura libera delle recinzioni con
rete metallica e paletti di legno o ferro a delimitazione
della proprietà immobiliare (ex multis TAR Umbria,
sez. I, 07.08.2013, n. 434) non riguarda le recinzioni
erette su base muraria per le quali è invece richiesto il
permesso a costruire (TAR Umbria, sez. I, 18.08.2016, n.
571; id. 09.03.2015, n. 100; Consiglio di Stato, sez. V,
09.04.2013, n. 1922; TAR Campania, Salerno, sez. I,
22.04.2015, n. 887; TAR Piemonte, sez. II, 18.01.2013, n.
58) (TAR Umbria,
sentenza 02.01.2017 n. 5 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Quanto all’intervento di rifacimento della
pavimentazione esterna, soltanto a seguito dell’entrata in
vigore (30.06.2003) del testo unico edilizia approvato con
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 il legislatore ha sussunto tale
intervento tra quelli liberi (art. 6) mentre in precedenza
risultava soggetto a denuncia di inizio attività.
Sicché, le opere in questione risalenti per ammissione degli
stessi ricorrenti a diversi anni addietro, non risultano mai
essere state assentite, come dovevano, con i prescritti
titoli abilitativi, ragion per cui anche gli interventi
oggetto dell’impugnata ordinanza risentono inevitabilmente
di tal carattere abusivo.
Diversamente opinando, come pretenderebbe parte ricorrente,
un opera ab origine abusiva, solo per il fatto stesso della
sua esistenza, legittimerebbe i successivi interventi di
manutenzione e/o ristrutturazione a prescindere dai titoli
abilitativi richiesti dall’ordinamento.
---------------
7. - Quanto all’intervento di rifacimento della
pavimentazione esterna, soltanto a seguito dell’entrata in
vigore (30.06.2003) del testo unico edilizia approvato con
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 il legislatore ha sussunto tale
intervento tra quelli liberi (art. 6) mentre in precedenza
risultava soggetto a denuncia di inizio attività (TAR
Calabria Catanzaro, sez. II, 01.12.2004, n. 2177).
Tanto premesso, le opere in questione risalenti per
ammissione degli stessi ricorrenti a diversi anni addietro,
non risultano mai essere state assentite, come dovevano, con
i prescritti titoli abilitativi, ragion per cui anche gli
interventi oggetto dell’impugnata ordinanza risentono
inevitabilmente di tal carattere abusivo.
Diversamente opinando, come pretenderebbe parte ricorrente,
un opera ab origine abusiva, solo per il fatto stesso
della sua esistenza, legittimerebbe i successivi interventi
di manutenzione e/o ristrutturazione a prescindere dai
titoli abilitativi richiesti dall’ordinamento.
8. - Ne consegue anzitutto l’infondatezza del III motivo
(TAR Umbria,
sentenza 02.01.2017 n. 5 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
In caso di ordine di demolizione di opere
edilizie abusive non occorre la comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell'art. 7, L. 07.08.1990, n. 241,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, in
ordine al quale non sono richiesti apporti partecipativi del
destinatario, fatta salva l’ipotesi di contestazioni o
incertezza sullo stato dei luoghi.
---------------
9. - Parimenti prive di pregio sono i rimanenti motivi.
10. - Quanto al II motivo basta osservare come, diversamente
da quanto asserito dai ricorrenti, l’Amministrazione
intimata abbia dato prova dell’effettuazione delle richieste
comunicazioni a fine partecipativo.
Ad ogni caso ha rilievo assorbente come per giurisprudenza
oramai pacifica in caso di ordine di demolizione di opere
edilizie abusive non occorre la comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell'art. 7, L. 07.08.1990, n. 241,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, in
ordine al quale non sono richiesti apporti partecipativi del
destinatario (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV,
12.10.2016, n. 4204; id. sez. V, 09.09.2013, n. 4470) se si
eccettua l’ipotesi -non ricorrente nella fattispecie- di
contestazioni o incertezza sullo stato dei luoghi (TAR
Umbria,
sentenza 02.01.2017 n. 5 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: La
denuncia di inizio attività non è un provvedimento
amministrativo a formazione tacita e non dà luogo ad un
titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a
comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività
direttamente ammessa dalla legge.
Pertanto l'omesso esercizio da parte dell'amministrazione
del potere inibitorio, entro il termine perentorio, dà luogo
ad un provvedimento tacito di diniego di adozione del
provvedimento inibitorio; in altri termini il titolo si
consolida pur non privando l’amministrazione del potere di
intervenire, anche successivamente.
Invero, per giurisprudenza costante, l’inutile spirare del
termine accordato dalla legge per l'inibizione dei lavori o
dell'intervento edilizio preannunciati con una DIA non priva
l’amministrazione del potere di controllo
urbanistico-edilizio e dell'eventuale potere sanzionatorio
in ordine ad interventi realizzati in violazione della
pertinente normativa.
---------------
In presenza di una DIA illegittima, l'Amministrazione può
intervenire anche oltre il termine di cui all'art. 23, comma
6, D.P.R. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni cui la
legge subordina il potere di annullamento d'ufficio dei
provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre
che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori
assentiti per effetto della DIA ormai perfezionatasi,
dell'affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto
del decorso del tempo e, comunque, esternando le ragioni di
interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
Infatti, il termine per l'esercizio del potere inibitorio
doveroso, nel caso di DIA, è perentorio, ma anche dopo il
suo decorso la P.A. conserva un potere residuale di
autotutela; peraltro, tale potere residuale, con il quale
l'Amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato
esercizio del doveroso potere inibitorio, deve essere
esercitato nel rispetto del limite del termine ragionevole,
e soprattutto, sulla base di una valutazione comparativa, di
natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a
giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole
maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del
tempo e della conseguente consumazione del potere
inibitorio.
---------------
9.2. L’art. 23 D.P.R. 380/2001, nel testo applicabile
ratione temporis alla fattispecie in esame, disponeva al
comma 1: “Il proprietario dell'immobile o chi abbia
titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno
trenta giorni prima dell'effettivo inizio dei lavori,
presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da
una dettagliata relazione a firma di un progettista
abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che
asseveri la conformità delle opere da realizzare agli
strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con
quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il
rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienico-sanitarie”.
Il successivo comma 6 disponeva: “6. Il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale, ove entro il
termine indicato al comma 1 sia riscontrata l'assenza di una
o più delle condizioni stabilite, notifica all'interessato
l'ordine motivato di non effettuare il previsto intervento
e, in caso di falsa attestazione del professionista
abilitato, informa l'autorità giudiziaria e il consiglio
dell'ordine di appartenenza. È comunque salva la facoltà di
ripresentare la denuncia di inizio attività, con le
modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme
alla normativa urbanistica ed edilizia”.
Secondo l’inquadramento fornito dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, la denuncia di inizio attività non è un
provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà
luogo ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto
privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere
un'attività direttamente ammessa dalla legge. Pertanto
l'omesso esercizio da parte dell'amministrazione del potere
inibitorio, entro il termine perentorio, dà luogo ad un
provvedimento tacito di diniego di adozione del
provvedimento inibitorio (Cons. Stato, ad. plen.,
29.07.2011, n. 15); in altri termini il titolo si consolida
pur non privando l’amministrazione del potere di
intervenire, anche successivamente.
Invero, per giurisprudenza costante, l’inutile spirare del
termine accordato dalla legge per l'inibizione dei lavori o
dell'intervento edilizio preannunciati con una DIA non priva
l’amministrazione del potere di controllo
urbanistico-edilizio e dell'eventuale potere sanzionatorio
in ordine ad interventi realizzati in violazione della
pertinente normativa (TAR Campania, Napoli, sez. III,
06.02.2015, n. 937).
Tale essendo la natura giuridica della Dichiarazione di
inizio attività, se ne deve inferire che, nel caso di
specie, il provvedimento che il Comune ha qualificato di
rigetto, delle n. 7 DIA di cui si è dato conto in
precedenza, deve essere viceversa correttamente qualificato
come annullamento in autotutela.
Infatti, in presenza di una DIA illegittima,
l'Amministrazione può intervenire anche oltre il termine di
cui all'art. 23, comma 6, D.P.R. n. 380 del 2001, ma solo
alle condizioni cui la legge subordina il potere di
annullamento d'ufficio dei provvedimenti amministrativi e,
quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di
illegittimità dei lavori assentiti per effetto della DIA
ormai perfezionatasi, dell'affidamento ingeneratosi in capo
al privato per effetto del decorso del tempo e, comunque,
esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del
provvedimento repressivo.
Infatti, il termine per l'esercizio del potere inibitorio
doveroso, nel caso di DIA, è perentorio, ma anche dopo il
suo decorso la P.A. conserva un potere residuale di
autotutela; peraltro, tale potere residuale, con il quale
l'Amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato
esercizio del doveroso potere inibitorio, deve essere
esercitato nel rispetto del limite del termine ragionevole,
e soprattutto, sulla base di una valutazione comparativa, di
natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a
giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole
maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del
tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio
(TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 09.01.2015, n. 241)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 30.12.2016 n. 12891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 7, comma 1, L. 241/1990 prevede che, “ove non
sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari
esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del
procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste
dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti
ed a quelli che per legge debbono intervenirvi…..”.
La giurisprudenza ha più volte affermato che la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un
principio di carattere generale dell’azione amministrativa,
diretto a garantire l’instaurazione di un contraddittorio
procedimentale tra le parti interessate in relazione a tutti
gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della decisione
finale, per la salvaguardia del buon andamento e della
trasparenza dell’Amministrazione, anche in un’ottica
deflattiva del contenzioso, tanto che il contenuto
sostanziale del provvedimento finale deve inscriversi nello
schema delineato nella comunicazione di avvio del
procedimento.
L’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento e di
instaurare un contraddittorio effettivo con i soggetti
direttamente interessati assume maggior spessore in casi in
cui, come quello in esame, l’Amministrazione esercita il
potere di autotutela annullando quello che la giurisprudenza
ha definito il diniego di esercizio nei termini di legge del
potere inibitorio, ossia un’inerzia con cui, di fatto,
l’amministrazione ha consentito il consolidarsi di una
posizione soggettiva favorevole per l’interessato.
Detto obbligo, dunque, trova la sua ragion d’essere primaria
nell’indiscussa idoneità dei provvedimenti cc.dd. di
“secondo grado” ad incidere su posizioni giuridiche ormai
acquisite e, quindi, sull’affidamento ingenerato negli
interessati dagli atti di “primo grado”.
---------------
9.3.1. In
primo luogo deve essere rilevato che, la mancata
comunicazione di avvio del procedimento ai ricorrenti,
proprietari da anni degli immobili su cui l’emanando
provvedimento di annullamento delle DIA avrebbe inciso, non
può essere considerata un’omissione soltanto formale.
Risulta che il provvedimento impugnato è stato comunicato
unicamente ai seguenti soggetti: l'avv. Ol.Ma.,
procuratrice dei Sig.ri Gi. e Lu.Pa.,
originari proprietari degli immobili nel 2005 e presentatori
delle DIA di cui ai prot. N. 42940 del 28.06.2005 e n.
76846 del 01.12.2005; dott. Gi.Sa.,
Presidente della società D. S.r.l. che, acquistato nel 2006
il complesso residenziale dai Sig.ri Pa., ha
presentato le ulteriori DIA prot. n. 21372 del 28.03.2006, n. 21373 del 28.03.2006, n. 42323 del 27.06.2006, n. 42758 del 19.06.2007 e n. 42763 del 19.06.2007; arch. Ma.Si., in qualità di progettista e
direttore dei lavori.
L’art. 7, comma 1, L. 241/1990 prevede che, “ove non
sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari
esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del
procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste
dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti
ed a quelli che per legge debbono intervenirvi…..”.
La giurisprudenza ha più volte affermato che la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un
principio di carattere generale dell’azione amministrativa,
diretto a garantire l’instaurazione di un contraddittorio
procedimentale tra le parti interessate in relazione a tutti
gli aspetti che assumeranno rilievo ai fini della decisione
finale, per la salvaguardia del buon andamento e della
trasparenza dell’Amministrazione, anche in un’ottica
deflattiva del contenzioso, tanto che il contenuto
sostanziale del provvedimento finale deve inscriversi nello
schema delineato nella comunicazione di avvio del
procedimento (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. I, 06.07.2016, n. 1596; id., Napoli, Sez. IV,
09.06.2016,
n. 2927).
L’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento e di
instaurare un contraddittorio effettivo con i soggetti
direttamente interessati assume maggior spessore in casi in
cui, come quello in esame, l’Amministrazione esercita il
potere di autotutela annullando quello che la giurisprudenza
ha definito il diniego di esercizio nei termini di legge del
potere inibitorio, ossia un’inerzia con cui, di fatto,
l’amministrazione ha consentito il consolidarsi di una
posizione soggettiva favorevole per l’interessato.
Detto obbligo, dunque, trova la sua ragion d’essere primaria
nell’indiscussa idoneità dei provvedimenti cc.dd. di
“secondo grado” ad incidere su posizioni giuridiche ormai
acquisite e, quindi, sull’affidamento ingenerato negli
interessati dagli atti di “primo grado” (cfr. TAR Lazio,
Roma, sez. II-bis, 08.11.2016, n. 11054; id. Latina,
Sez. I, 31.08.2016, n. 536; TAR Lombardia, Milano,
Sez. I, 08.06.2016, n. 1141).
L’obiezione per cui, data la radicale non conformità
urbanistica ed edilizia dell’intero complesso immobiliare,
il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto
diverso, secondo i dettami dell’art. 21-octies L. 241/1990,
nel caso di specie non può trovare ingresso, sia per un
profilo squisitamente giuridico, ossia la natura, testé
evidenziata, di provvedimento di secondo grado
dell’annullamento impugnato, sia per ragioni fattuali atteso
che, proprio l’enormità e complessità della situazione su
cui il provvedimento avrebbe inciso (il futuro di 55
famiglie), avrebbe postulato di per sé sola la necessità
dell’instaurazione del contraddittorio
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 30.12.2016 n. 12891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 21-nonies L. 241/1990 prevede che il
provvedimento amministrativo illegittimo può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo
previsto dalla legge.
---------------
9.3.2.
Parimenti fondate sono le ulteriori censure formulate dai
ricorrenti, segnatamente laddove, nel sottolineare il lungo
tempo trascorso (oltre 7 anni) dalla presentazione delle DIA
al loro annullamento, denunciano da una parte la grave
lesione dell’affidamento ingenerato negli acquirenti in
buona fede degli immobili, circa la regolarità edilizia e
urbanistica di quanto acquistato e, dall’altra, la totale
assenza di considerazione degli interessi in gioco e,
dunque, la radicale assenza di bilanciamento fra le ragioni
degli incolpevoli proprietari e l’interesse pubblico a
ristabilire la legalità dopo così tanto tempo, interesse
neanche enunciato.
Infatti l’impugnato provvedimento si connota per una
inusuale laconicità, limitandosi esclusivamente ad enunciare
l’avvenuto riscontro di irregolarità procedurali.
Ribadito che, nel caso di specie, quello adottato è un
provvedimento di annullamento in autotutela e non già di
“rigetto”, va rammentato che l'art. 21-nonies L. 241/1990
prevede che il provvedimento amministrativo illegittimo può
essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato ovvero da
altro organo previsto dalla legge.
Nella specie, manca sia l'esternazione delle ragioni di
interesse pubblico (al di là del mero ripristino della
legalità violata) sia la valutazione motivata della
posizione dei soggetti finali, destinatari del titolo
edilizio, ossia dell’affidamento in essi ingenerato.
Nel caso in esame tale affidamento è, peraltro,
particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo
trascorso dall'adozione delle DIA annullate, risultando
trascorsi ben sette anni dal consolidamento della prima di
esse e cinque dalla dichiarazione di fine lavori (per una
fattispecie analoga, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762).
In definitiva, nella complessa vicenda all’esame del
Collegio, non è revocabile in dubbio che l’intero complesso
edilizio di via ... sia abusivo, sebbene per ragioni
e in misura diverse per ciascun fabbricato
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 30.12.2016 n. 12891 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Nulla
osta a che il privato proponente un piano attuativo,
nell’esercizio della propria autonomia negoziale, assuma in
sede di convenzione urbanistica obblighi, di fare e/o di
dare, ulteriori ed eccedenti rispetto a quelli discendenti
dalla legge.
La convenzione urbanistica, infatti, rientra nel novero
degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, e
vede combinarsi insieme poteri pubblicistici
(dell’Amministrazione), con quelli privatistici (di entrambi
i contraenti) di autoregolare il proprio assetto di
interessi, con l’assunzione di reciproci obblighi e
correlati diritti di credito.
E, dunque, nell’equilibrio del sinallagma contrattuale
cristallizzato nella convenzione urbanistica l’obbligo di
rendere prestazioni eccedenti il minimo legale ben può
risultare giustificato dai benefici che la convenzione
consente comunque al privato di conseguire.
---------------
8.4.2. In secondo luogo, come questo Tribunale ha già
affermato (sentenza n. 541/2016), nulla osta a che il
privato proponente un piano attuativo, nell’esercizio della
propria autonomia negoziale, assuma in sede di convenzione
urbanistica obblighi, di fare e/o di dare, ulteriori ed
eccedenti rispetto a quelli discendenti dalla legge.
La convenzione urbanistica, infatti, rientra nel novero
degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, e
vede combinarsi insieme poteri pubblicistici
(dell’Amministrazione), con quelli privatistici (di entrambi
i contraenti) di autoregolare il proprio assetto di
interessi, con l’assunzione di reciproci obblighi e
correlati diritti di credito (cfr., TAR Emilia Romagna,
Bologna, Sez. I, sentenza n. 1099/2014).
E, dunque, nell’equilibrio del sinallagma contrattuale
cristallizzato nella convenzione urbanistica l’obbligo di
rendere prestazioni eccedenti il minimo legale ben può
risultare giustificato dai benefici che la convenzione
consente comunque al privato di conseguire (cfr., C.d.S.,
Sez. V, sentenza n. 5603/2013) (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 30.12.2016 n. 589 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Viene
in giurisprudenza generalmente riconosciuto che il Comune è
tenuto a rispondere espressamente alla domanda con la quale
i proprietari di immobili terreni limitrofi a quello
interessato da un supposto abuso edilizio chiedano
l’adozione di provvedimenti repressivi e, ove sussistano le
condizioni, anche ad assumere gli stessi.
Allo stesso modo si riconosce che qualunque soggetto che si
trovi in una stabile relazione con il territorio sottoposto
ad un intervento urbanistico-edilizio è titolare di un
interesse qualificato ad ottenere una pronuncia espressa da
parte dell'amministrazione sull'istanza di adozione di
misure repressive dell'abuso edilizio.
Una situazione di "stabile collegamento" con la zona
interessata dall'attività edilizia, che legittima un
soggetto ad agire, può derivare dalla proprietà o dal
possesso di un immobile ovvero dalla residenza o domicilio
in detta zona o da altro titolo di frequentazione di
quest'ultima.
---------------
... per l'annullamento del silenzio-rifiuto a provvedere del
Comune di Gricignano D'Aversa formatosi sull'atto di invito
e diffida del 28.07.2016.
...
FATTO
Le parti ricorrenti espongono di essere residenti in
Gricignano d'Aversa, in via ... 12, in un lotto
limitrofo ad un immobile di proprietà del sig. Bo.Ma..
Con concessione edilizia n. 50 del 16.07.2002, il Comune di
Gricignano d'Aversa ha assentito la realizzazione in via
Mania di quattro villette unifamiliari da realizzare in due
corpi di fabbrica distinti, costituiti da due villette a
schiera ciascuno e posizionati a distanza di 10 metri l'uno
dall'altro.
I sigg.ri Be.Lu. e Bo.Ma. edificavano
congiuntamente il rustico delle unità immobiliari di cui al
titolo autorizzativo e poi procedevano alla divisione della
unità abitative, attribuendo l'unità immobiliare
prospiciente via Mameli, civico 14, al sig. Bo.Ma. e
le altre unità ai figli del sig. Be.Lu., tra cui
la ricorrente Be.Ca..
I coniugi Be.Ca. e Sa.Fi. completavano la
realizzazione della propria unità immobiliare conformemente
al titolo abilitativo.
Questi ultimi sostengono che, al contrario, il sig. Bo.Ma., proprietario dell'immobile limitrofo, procedeva al
completamento della propria unità immobiliare in totale
difformità dalla concessione edilizia n. 50/2002,
trasformando il fabbricato di sua proprietà in tre mini
appartamenti, uno per ogni piano, a uso abitativo.
Realizzava, inoltre, un ampliamento del manufatto di oltre
il 100% del volume assentito, peraltro su un'area che il
P.R.G. del Comune di Gricignano d'Aversa prevede
tassativamente essere "Fascia di Rispetto Stradale".
Costruiva, infine, all'interno del portico, un mini
appartamento di altezza m 2,50, ovverosia inferiore al
limite consentito dalle normative tecniche di attuazione del
P.R.G.
Be.Lu. e Fi.Sa. segnalavano la situazione
di supposta abusività al Comune di Gricignano, in data
16.01.2013.
Con ulteriore atto di segnalazione e denuncia, prot. 1343
del 25.02.2013, gli stessi esortavano ulteriormente
l'amministrazione a provvedere in relazione agli abusi
segnalati.
Lu.Be., padre della ricorrente, in data 07.03.2013,
presentava querela nei confronti del sig. Bo.Ma., per
abusivismo edilizio, in riferimento ai lavori dallo stesso
realizzati presso l'immobile di sua proprietà.
In data 14.06.2014, Lu.Be. e il ricorrente Sa.Fi. inoltravano formale atto di invito e diffida al
Comune di Gricignano d'Aversa di provvedere in ordine agli
abusi segnalati.
Con ricorso iscritto al RG. n. 5792/14, le parti ricorrenti
adivano questo TAR per ottenere l'annullamento del
silenzio-rifiuto serbato sull'atto di invito e diffida e la
condanna dell'ente a provvedere.
Con sentenza n. 1387/15 veniva accolto il ricorso e
dichiarata l'illegittimità del silenzio-rifiuto serbato dal
Comune di Gricignano d'Aversa, con riferimento all'istanza
dei ricorrenti di voler accertare gli abusi edilizi
realizzati e di adottare i conseguenti eventuali
provvedimenti repressivi nell'esercizio della funzione di
vigilanza, di cui all'art. 27 DPR 380/2001.
Veniva quindi disposto l'obbligo del Comune intimato di
provvedere entro trenta giorni e nominato, per il caso di
persistente inadempienza, il commissario ad acta nella
persona del Prefetto di Caserta con facoltà di delega.
Spirati infruttuosamente i termini assegnati, si insediava
il commissario ad acta nella persona della dott.ssa St.Mu..
Successivamente all'insediamento del commissario ad acta, il
Comune rilasciava al Bo.Ma. il condono edilizio, ex lege n. 326/03, n. 710 del 27.05.2015, per gli abusi edilizi
in questione.
I ricorrenti impugnavano il condono edilizio dinanzi a
questo TAR, con ricorso iscritto al RG. n. 4586/15,
tutt'ora pendente.
Con successiva determinazione n. CE2003/87FAB, prot. n. 2405
del 07.03.2016, il Comune, riscontrando l'effettiva
insanabilità degli abusi in quanto ricadenti su fascia di
rispetto stradale e, come tali, insuscettibili di sanatoria,
annullava il provvedimento di condono n. 710/2015,
determinando la reviviscenza -in tutta la sua dimensione-
degli abusi più e più volte segnalati dai ricorrenti.
Il Commissario ad acta, con nota del 27.04.2016, chiedeva
chiarimenti sulle modalità di esecuzione dell'incarico e
l’adito TAR, con ordinanza n. 3507 dell'08.07.2016,
considerava ultimata l'attività del Commissario ad acta,
stante il venir meno del silenzio del Comune con
l’annullamento del titolo edilizio in sanatoria n. 710/2015.
Le parti ricorrenti invitavano, quindi, in data 28.07.2016,
nuovamente il Comune di Gricignano d'Aversa ad intervenire
sugli abusi edilizi segnalati, senza tuttavia ottenere
riscontro, nonostante lo spirare dei termini procedimentali
per provvedere.
Le medesime parti ricorrenti agiscono in questa sede
affinché venga acclarata l’illegittimità del silenzio
inadempimento a provvedere e venga ordinato
all’Amministrazione intimata di provvedere, nominando, sin
da ora, ex art. 117, comma 3, c.p.a., un commissario ad acta,
affinché provveda in via sostitutiva in caso di inosservanza
del termine assegnato. Con condanna alle spese ex art. 96
c.p.c. e 26 c.p.a.
Il Comune di Gricignano e il controinteressato non si sono
costituiti in giudizio.
DIRITTO
Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
Viene in giurisprudenza generalmente riconosciuto che il
Comune è tenuto a rispondere espressamente alla domanda con
la quale i proprietari di immobili terreni limitrofi a
quello interessato da un supposto abuso edilizio chiedano
l’adozione di provvedimenti repressivi (Cons. Stato, 09.11.2015, n. 5087) e, ove sussistano le condizioni,
anche ad assumere gli stessi (TAR Lazio Latina, 24.10.2003, n. 876; Consiglio Stato, sez. V, 26.11.1994, n. 1381).
Allo stesso modo si riconosce che qualunque soggetto che si
trovi in una stabile relazione con il territorio sottoposto
ad un intervento urbanistico-edilizio è titolare di un
interesse qualificato ad ottenere una pronuncia espressa da
parte dell'amministrazione sull'istanza di adozione di
misure repressive dell'abuso edilizio (TAR Toscana, sez. III, 19.06.1991, n. 303).
Una situazione di "stabile collegamento" con la zona
interessata dall'attività edilizia, che legittima un
soggetto ad agire, può derivare dalla proprietà o dal
possesso di un immobile ovvero dalla residenza o domicilio
in detta zona o da altro titolo di frequentazione di
quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. IV, 07.02.2002, n. 727).
Nel caso di specie risulta che le parti ricorrenti sono
proprietarie di un immobile sito nelle vicinanze di quello
dove si è stata lamentata l’asserita situazione di
irregolarità edilizia.
L’istanza del ricorrente era volta a stimolare i poteri di
vigilanza e repressivi della pubblica amministrazione in
materia edilizia ed, in particolare, alla verifica
dell’abusività del manufatto per essere stato costruito in
difformità del titolo abilitativo edilizio e per la sua
parziale insistenza sulla fascia di rispetto stradale.
Essendo stato annullato in via d’ufficio il condono
edilizio, il Comune aveva l’obbligo di procedere nei
confronti dell’istanza del privato, pronunciandosi
espressamente in merito e, qualora ne ricorressero i
presupposti, di provvedere alla repressione dell’abuso.
Conseguentemente parte ricorrente ben poteva contestare
l’inerzia dell’amministrazione ed adire il giudice
amministrativo, ex art. 117 c.p.a., sussistendo gli estremi
del silenzio inadempimento.
Il ricorso va, quindi, accolto nei termini suindicati con
declaratoria dell’obbligo dell’Amministrazione di
pronunciarsi espressamente sull’istanza formulata da parte
ricorrente e, se del caso, di assumere i necessari
provvedimenti repressivi, entro 30 (trenta) giorni dalla
comunicazione o, se precedente, dalla notificazione della
presente decisione, portandoli a esecuzione.
Decorso tale termine, in caso di perdurante inerzia,
provvederà all’adozione dei provvedimenti indicati, entro
l’ulteriore termine di giorni 30 (trenta), il Commissario ad acta all’uopo nominato sin d’ora nella persona del Prefetto
di Caserta, con facoltà di subdelega a un funzionario del
suo ufficio.
Le spese per l’espletamento dell’eventuale funzione
commissariale saranno poste a carico del Comune e si
liquidano, sin d’ora, nella misura di Euro 1.000,00.
Non può, invece, essere accolta la domanda di responsabilità
aggravata ex 96 c.p.c. e 26 c.p.a., in quanto quest’ultima
presuppone una colpa grave o, comunque, un’imprudenza che
non è stato dimostrato ricorra nel caso in questione.
La presente sentenza viene trasmessa, al passaggio in
giudicato, in via telematica, ai sensi dell’art. 2, comma 8,
della legge n. 241 del 1990, alla Corte dei Conti, Procura
regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la regione
Campania Napoli.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Ottava), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, dichiara illegittimo il silenzio
tenuto dal Comune di Gricignano di Aversa sull’istanza dei
ricorrenti e ordina allo stesso di provvedere adottando, al
ricorrere dei presupposti, i necessari provvedimenti
repressivi e ripristinatori, entro 30 (trenta) giorni dalla
comunicazione o, se precedente, dalla notifica della
presente decisione.
Nomina, per il caso di perdurante inerzia decorso tale
termine, quale Commissario ad acta il Prefetto di Caserta,
con facoltà di subdelega. Le spese dell’eventuale funzione
commissariale saranno poste a carico del Comune e si
liquidano nella misura di Euro 1.000,00.
Condanna il Comune di Gricignano di Aversa alla rifusione
delle spese di lite in favore della ricorrente, liquidate in
complessivi euro 1.500,00, oltre IVA e CPA, se dovuti, e
alla refusione del contributo unificato qualora dovuto e
versato.
Dispone la trasmissione della presente pronuncia, al suo
passaggio in giudicato, alla Corte dei conti – Procura
Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione
Campania–Napoli, ai sensi dell’art. 2 L. 241/1990
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 29.12.2016 n. 6006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante orientamento giurisprudenziale, alla DIA non si
applica il preavviso di cui al citato art. 10-bis.
----------------
Coglie nel segno la censura secondo cui il Comune avrebbe esercitato i
propri poteri inibitori oltre il termine di 30 giorni di cui
all’art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001; l’intervento
del Comune, quindi, stante il carattere perentorio del
termine in questione, sarebbe avvenuto in un momento ormai
successivo al perfezionamento della fattispecie legittimante
riconducibile alla DIA.
Al riguardo, occorre soffermarsi sul tenore testuale
del citato art. 23, comma 6, ai sensi del quale “Il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata
l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica
all’interessato l’ordine motivato di non effettuare il
previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del
professionista abilitato, informa l’autorità giudiziaria e
il consiglio dell’ordine di appartenenza. È comunque salva
la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività,
con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla
conforme alla normativa urbanistica ed edilizia”.
La norma, quindi, dispone che il dirigente (o il
responsabile del competente ufficio comunale) notifichi
all’interessato (senza che sia stabilito all’uopo un termine
preciso) l’ordine motivato di non effettuare il previsto
intervento qualora, entro il termine di cui al comma 1
(i.e.: 30 giorni dalla presentazione della DIA), sia
riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni
stabilite.
In altri termini, dalla formulazione letterale
della disposizione può desumersi che l’Amministrazione,
entro il termine de quo, è tenuta ad adottare il
provvedimento inibitorio (pur non essendo tenuta anche a
notificarlo nello stesso termine).
---------------
Al riguardo, occorre precisare che per data di
adozione dell’atto deve intendersi, per esigenze di
trasparenza e certezza, quella di registrazione dell’atto al
protocollo dell’Ente, e non quella della semplice
sottoscrizione dell’atto da parte del dirigente o
responsabile dell’ufficio.
La sottoscrizione di un documento amministrativo e la sua
registrazione al protocollo, infatti, sono due momenti
dell’iter di adozione del documento che assolvono a finalità
diverse.
La sottoscrizione riguarda la validità dell’atto
amministrativo e consente di imputare lo stesso, e i suoi
effetti, all’ente cui è riconducibile il funzionario
sottoscrittore.
La registrazione di protocollo, invece, è disciplinata ai
sensi del d.P.R. n. 445/2000 (Testo unico in materia di
documentazione amministrativa) e dalle regole tecniche sul
protocollo informatico e certifica l’ingresso o l’uscita del
documento dall’Amministrazione.
Nel caso specifico dei documenti in uscita la registrazione
di protocollo avviene sul documento già formato e già
sottoscritto secondo le modalità previste dal particolare
procedimento, fissando il momento a partire dal quale l’atto
può “uscire” dalla sfera dell’Amministrazione.
È ben possibile, quindi, che la data di sottoscrizione non
coincida con quella di protocollo dell’atto. D’altra parte,
l’esecuzione corretta dell’operazione di registrazione di
protocollo, così come definita nel d.P.R. n. 445/2000 e
nelle regole tecniche sul protocollo informatico, richiede
che la firma o la sottoscrizione del documento sia sempre
apposta prima della registrazione stessa.
Il protocollo costituisce uno strumento di trasparenza
dell’attività amministrativa, che consente di assegnare a un
documento due dati fondamentali per la sua efficacia come
fonte di prova, affidabile e opponibile ai terzi: la data
certa e la provenienza certa.
In quest’ottica, in caso di discrasia tra la data della
sottoscrizione dell’atto e quella di segnatura di protocollo
dello stesso, è quest’ultima ad essere opponibile ai terzi.
----------------
Ai sensi delle previsioni contenute nell’art. 23 del d.P.R.
n. 380/2001, è illegittimo l’operato dell’Amministrazione
comunale che, in presenza di una denuncia di inizio attività
per la realizzazione di un intervento edilizio (oggi SCIA),
adotta provvedimenti di diffida a non proseguire le opere,
di sospensione dei lavori o di demolizione dopo che sia
decorso il termine di trenta giorni previsto per il
consolidamento del titolo, senza fare previo ricorso agli
strumenti dell’autotutela.
Invero, non può essere revocato in dubbio che qualsivoglia
intervento il Comune intenda esercitare sull’assetto di
interessi risultante da una DIA (oggi SCIA) già perfetta ed
efficace, la relativa attività deve necessariamente
esplicarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado
avente ad oggetto il riesame di un’autorizzazione implicita
che ha già determinato la piena espansione del cd. ius
aedificandi.
---------------
Nella fattispecie, deve ritenersi conclusivamente che, al
momento dell’adozione del provvedimento impugnato, si fosse
consolidata la legittimazione del privato ad eseguire
l’intervento edilizio conseguente alla sua denuncia d’inizio
attività e all’inerzia dell’Amministrazione la quale,
ritenendo di doversi tardivamente opporre all’intervento,
non poteva limitarsi a diffidare la ricorrente a non
proseguire le opere intraprese, dovendo previamente
provvedere, in via di autotutela, alla rimozione del
provvedimento implicito (il cui esercizio deve peraltro
essere coordinato con il principio di certezza dei rapporti
giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del
privato nei confronti dell’attività amministrativa).
---------------
1. La ricorrente, premesso di avere presentato al Comune di
Milano denuncia d’inizio attività per eseguire opere di
ristrutturazione edilizia e di recupero abitativo di un
sottotetto, ha impugnato gli atti con i quali il Comune ha
comunicato il parere negativo della commissione edilizia e
diffidato l’interessata “dall’iniziare o dal proseguire le
opere eventualmente intraprese nel fabbricato in questione”.
...
2. Il ricorso è fondato; di seguito le motivazioni della
sentenza, rese nella forma redazionale semplificata di cui
all’art. 74 c.p.a.
2.1. Con il primo motivo la ricorrente deduce che il Comune
ha omesso di comunicare i motivi ostativi all’accoglimento
della richiesta, così violando l’art. 10-bis della l. n. 241
del 1990.
Sul punto, il Collegio rileva che, per costante orientamento
giurisprudenziale, alla DIA non si applica il preavviso di
cui al citato art. 10-bis (TAR Veneto, n. 3418/2005;
C.d.S., sez IV, n. 4828/2007; v. inoltre, con riguardo alla
SCIA, TAR Veneto, n. 875/2014).
La censura, pertanto, va respinta.
2.2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce che il
Comune avrebbe esercitato i propri poteri inibitori oltre il
termine di 30 giorni di cui all’art. 23, comma 6, del d.P.R.
n. 380/2001; l’intervento del Comune, quindi, stante il
carattere perentorio del termine in questione, sarebbe
avvenuto in un momento ormai successivo al perfezionamento
della fattispecie legittimante riconducibile alla DIA.
La censura coglie nel segno.
2.2.1. Al riguardo, occorre soffermarsi sul tenore testuale
del citato art. 23, comma 6, ai sensi del quale “Il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
ove entro il termine indicato al comma 1 sia riscontrata
l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, notifica
all’interessato l’ordine motivato di non effettuare il
previsto intervento e, in caso di falsa attestazione del
professionista abilitato, informa l’autorità giudiziaria e
il consiglio dell’ordine di appartenenza. È comunque salva
la facoltà di ripresentare la denuncia di inizio attività,
con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla
conforme alla normativa urbanistica ed edilizia”.
La norma, quindi, dispone che il dirigente (o il
responsabile del competente ufficio comunale) notifichi
all’interessato (senza che sia stabilito all’uopo un termine
preciso) l’ordine motivato di non effettuare il previsto
intervento qualora, entro il termine di cui al comma 1
(i.e.: 30 giorni dalla presentazione della DIA), sia
riscontrata l’assenza di una o più delle condizioni
stabilite. In altri termini, dalla formulazione letterale
della disposizione può desumersi che l’Amministrazione,
entro il termine de quo, è tenuta ad adottare il
provvedimento inibitorio (pur non essendo tenuta anche a
notificarlo nello stesso termine).
2.2.2. Al riguardo, occorre precisare che per data di
adozione dell’atto deve intendersi, per esigenze di
trasparenza e certezza, quella di registrazione dell’atto al
protocollo dell’Ente, e non quella della semplice
sottoscrizione dell’atto da parte del dirigente o
responsabile dell’ufficio.
La sottoscrizione di un documento amministrativo e la sua
registrazione al protocollo, infatti, sono due momenti
dell’iter di adozione del documento che assolvono a finalità
diverse.
La sottoscrizione riguarda la validità dell’atto
amministrativo e consente di imputare lo stesso, e i suoi
effetti, all’ente cui è riconducibile il funzionario
sottoscrittore.
La registrazione di protocollo, invece, è disciplinata ai
sensi del d.P.R. n. 445/2000 (Testo unico in materia di
documentazione amministrativa) e dalle regole tecniche sul
protocollo informatico e certifica l’ingresso o l’uscita del
documento dall’Amministrazione.
Nel caso specifico dei documenti in uscita la registrazione
di protocollo avviene sul documento già formato e già
sottoscritto secondo le modalità previste dal particolare
procedimento, fissando il momento a partire dal quale l’atto
può “uscire” dalla sfera dell’Amministrazione.
È ben possibile, quindi, che la data di sottoscrizione non
coincida con quella di protocollo dell’atto. D’altra parte,
l’esecuzione corretta dell’operazione di registrazione di
protocollo, così come definita nel d.P.R. n. 445/2000 e
nelle regole tecniche sul protocollo informatico, richiede
che la firma o la sottoscrizione del documento sia sempre
apposta prima della registrazione stessa.
Il protocollo costituisce uno strumento di trasparenza
dell’attività amministrativa, che consente di assegnare a un
documento due dati fondamentali per la sua efficacia come
fonte di prova, affidabile e opponibile ai terzi: la data
certa e la provenienza certa.
In quest’ottica, in caso di discrasia tra la data della
sottoscrizione dell’atto e quella di segnatura di protocollo
dello stesso, è quest’ultima ad essere opponibile ai terzi.
2.2.3. Ciò posto, alla luce degli atti di causa emerge che:
- l’interessata ha presentato la DIA presso gli uffici del
Consiglio di Zona n. 2 del Comune di Milano in data
08.02.2005;
- il Comune, con nota datata 01.03.2005, protocollata il 04.03.2005 e ricevuta dalla ricorrente in data 11.03.2005, ha
comunicato alla stessa l’incompletezza della documentazione
prodotta con la DIA, disponendone l’integrazione, così
interrompendo il termine di cui all’art. 23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001;
- la ricorrente ha adempiuto alla richiesta di integrazione
il 31.03.2005 e da tale data ha iniziato a decorrere
nuovamente il termine di 30 giorni previsto dal citato art.
23, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001;
- il Comune, con la nota datata 19.04.2005, protocollata il
16.05.2005 e notificata in data 24.05.2005, ha comunicato
all’interessata il parere negativo della commissione
edilizia e la diffida dall’iniziare o proseguire le opere.
2.2.4. Orbene, la semplice esposizione dei fatti consente di
concludere che il provvedimento impugnato risulta adottato
oltre il termine di 30 giorni di cui al combinato disposto
dei commi 1 e 6 dell’art. 23 del d.P.R. n. 380/2001.
Tale termine, infatti, come visto, a seguito
dell’integrazione documentale da parte della ricorrente ha
iniziato nuovamente a decorrere il 31.03.2005, mentre il
Comune ha protocollato la nota in questione solamente in
data 16.05.2005 (peraltro a distanza di quasi un mese dalla
data apposta sull’atto, che, secondo il criterio dell’id
quod plerumque accidit, coincide con la data della
sottoscrizione); ne consegue che il Comune, nella
fattispecie, ha esercitato i propri poteri tardivamente.
2.2.5. Ciò premesso, va richiamato l’orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo cui, ai
sensi delle previsioni contenute nell’art. 23 del d.P.R. n.
380/2001, è illegittimo l’operato dell’Amministrazione
comunale che, in presenza di una denuncia di inizio attività
per la realizzazione di un intervento edilizio (oggi SCIA),
adotta provvedimenti di diffida a non proseguire le opere,
di sospensione dei lavori o di demolizione dopo che sia
decorso il termine di trenta giorni previsto per il
consolidamento del titolo, senza fare previo ricorso agli
strumenti dell’autotutela (cfr. C.d.S., Sez. IV, n.
7730/2009; Id., n. 2558/2010; TAR Campania, Sez. II,
25.06.2005, n. 8707/2005; Id., n. 2093/2008; Id., Sez. VIII,
n. 5200/2009; T.A.R Piemonte, Sez. I, n. 3382/2006; TAR
Liguria, Sez. I, n. 2583/2010; TAR Calabria–Catanzaro,
Sez. I, n. 283/2014).
Invero, non può essere revocato in dubbio che qualsivoglia
intervento il Comune intenda esercitare sull’assetto di
interessi risultante da una DIA (oggi SCIA) già perfetta ed
efficace, la relativa attività deve necessariamente
esplicarsi nell’ambito di un procedimento di secondo grado
avente ad oggetto il riesame di un’autorizzazione implicita
che ha già determinato la piena espansione del cd. ius
aedificandi (TAR Campania-Napoli, n. 3205/2012).
Per tali ragioni, deve ritenersi conclusivamente che, al
momento dell’adozione del provvedimento impugnato, si fosse
consolidata la legittimazione del privato ad eseguire
l’intervento edilizio conseguente alla sua denuncia d’inizio
attività e all’inerzia dell’Amministrazione la quale,
ritenendo di doversi tardivamente opporre all’intervento,
non poteva limitarsi a diffidare la ricorrente a non
proseguire le opere intraprese, dovendo previamente
provvedere, in via di autotutela, alla rimozione del
provvedimento implicito (il cui esercizio deve peraltro
essere coordinato con il principio di certezza dei rapporti
giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del
privato nei confronti dell’attività amministrativa: cfr.
C.d.S., n. 5811/2008).
2.3. Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbito
l’ultimo motivo, il ricorso è fondato e va accolto, con il
conseguente annullamento del provvedimento gravato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.12.2016 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA
PRIVATA: L'art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 stabilisce che
“In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene
pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale
rappresentante della comunità locale”.
L’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, dispone che “Il
sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti
di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al
prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti
ritenuti necessari alla loro attuazione”.
Orbene, le richiamate previsioni attribuiscono al Sindaco il
potere di adottare i provvedimenti necessari a fronteggiare
particolari emergenze, che devono essere individuabili in
maniera chiara nei loro tratti distintivi; tali
provvedimenti, infatti, si caratterizzano per il fatto di
prevedere misure che, seppure eccezionalmente atipiche ed
extra ordinem, devono pur sempre essere “calibrate” in
relazione alle dimensioni, alla portata e alla gravità
dell’emergenza stessa e, per tale ragione, sono destinate a
esaurire i propri effetti con il cessare della situazione di
pericolo che ne ha reso necessaria l’adozione.
---------------
Nella fattispecie, è illegittima l'ordinanza sindacale con
la quale è stato disposta la chiusura dell’attività,
compresa la somministrazione di alimenti e bevande,
annullandone contestualmente la relativa SCIA, laddove nel
provvedimento in questione il sindaco:
- non ha individuato né descritto in motivazione una
particolare situazione di emergenza, riconducibile alle
previsioni di cui ai citati artt. 50 e 54;
- non ha adottato, conseguentemente, misure specificamente
volte a fronteggiare quel determinato tipo di emergenze.
Al contrario, il Sindaco, sul presupposto che “i locali
utilizzati dall’attività di […] non hanno le caratteristiche
per essere considerati agibili”, ha disposto la chiusura –da
intendersi come definitiva– dell’attività e l’annullamento
della relativa SCIA, risalente peraltro al 2010.
In questo modo, tuttavia, il Sindaco, lungi dall’esercitare
i poteri di cui agli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000,
ha esorbitato dalle proprie competenze, esercitando funzioni
che sono invece attribuite ai dirigenti comunali ai sensi
dell’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, a tenore del quale
“Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione
degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi
espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di
indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi
di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del
segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente
agli articoli 97 e 108”.
---------------
Anche la competenza in ordine ai provvedimenti (di tipo
ordinario, e non caratterizzati da alcuna urgenza) di cui
all’art. 222 del r.d. n. 1265/1934 è da ricondursi al
personale dirigente, come risulta indirettamente confermato
dal testo dell’art. 24, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, il
quale, sostituendo gli artt. 220 e 221 del r.d. n.
1265/1934, prevede che “il certificato di agibilità viene
rilasciato dal dirigente o dal responsabile del competente
Ufficio comunale” (dal che deve ritenersi che anche
un’eventuale dichiarazione di inagibilità non possa che
essere adottata da tali organi).
---------------
2.1. Va dapprima esaminato il ricorso principale, volto a
censurare l’ordinanza n. 19/2015, con la quale il Sindaco di
Torre d’Isola ha disposto nei confronti della ricorrente la
chiusura dell’attività di -OMISSIS-, compresa la
somministrazione di alimenti e bevande, annullandone
contestualmente la relativa SCIA.
Al riguardo, osserva il Collegio che, contrariamente a
quanto sostenuto dalla difesa comunale, tale ordinanza non
può essere ricondotta alla categoria di provvedimenti che il
Sindaco può adottare ai sensi degli artt. 50 e 54 del d.lgs.
n. 267/2000 (Testo unico enti locali); ciò può desumersi dal
confronto tra il contenuto delle disposizioni citate e le
decisioni adottate concretamente dal Sindaco nella vicenda
in esame.
L’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 stabilisce che
“In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene
pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale
rappresentante della comunità locale”.
L’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, dispone che “Il
sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto
motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel
rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti
di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al
prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti
ritenuti necessari alla loro attuazione”.
Orbene, le richiamate previsioni attribuiscono al Sindaco il
potere di adottare i provvedimenti necessari a fronteggiare
particolari emergenze, che devono essere individuabili in
maniera chiara nei loro tratti distintivi; tali
provvedimenti, infatti, si caratterizzano per il fatto di
prevedere misure che, seppure eccezionalmente atipiche ed
extra ordinem, devono pur sempre essere “calibrate” in
relazione alle dimensioni, alla portata e alla gravità
dell’emergenza stessa e, per tale ragione, sono destinate a
esaurire i propri effetti con il cessare della situazione di
pericolo che ne ha reso necessaria l’adozione.
Nella fattispecie, invece, il Sindaco, con il provvedimento
in questione:
- non ha individuato né descritto in motivazione una
particolare situazione di emergenza, riconducibile alle
previsioni di cui ai citati artt. 50 e 54;
- non ha adottato, conseguentemente, misure specificamente
volte a fronteggiare quel determinato tipo di emergenze.
Al contrario, il Sindaco, sul presupposto che “i locali
utilizzati dall’attività di -OMISSIS- […] non hanno le
caratteristiche per essere considerati agibili”, ha disposto
la chiusura –da intendersi come definitiva– dell’attività
e l’annullamento della relativa SCIA, risalente peraltro al
2010; in questo modo, tuttavia, il Sindaco, lungi
dall’esercitare i poteri di cui agli artt. 50 e 54 del
d.lgs. n. 267/2000, ha esorbitato dalle proprie competenze,
esercitando funzioni che sono invece attribuite ai dirigenti
comunali ai sensi dell’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000, a
tenore del quale “Spettano ai dirigenti tutti i compiti,
compresa l’adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l’amministrazione verso
l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97
e 108”.
L’ordinanza impugnata, in altri termini, è viziata sotto il
profilo del difetto di competenza, e per questa ragione va
annullata, con assorbimento di ogni altra censura, secondo
il costante orientamento della giurisprudenza.
Pertanto, il ricorso principale è fondato e va accolto.
2.2. Con i motivi aggiunti la ricorrente ha impugnato
l’ordinanza con la quale il Responsabile dell’Ufficio
Tecnico comunale ha revocato il certificato di agibilità
rilasciato per i locali del -OMISSIS-, ordinando
contestualmente la chiusura immediata dell’attività di
-OMISSIS- –compresa la somministrazione di alimenti e
bevande– e annullando la SCIA relativa all’inizio
dell’attività in questione per mancanza dei presupposti di
agibilità e salubrità dei locali.
2.3. Va esaminato, in primo luogo, il motivo con il quale la
ricorrente deduce l’incompetenza del responsabile dell’U.T.C.
ad adottare la dichiarazione di inagibilità.
Secondo la ricorrente il provvedimento in questione avrebbe
dovuto essere adottato dal Sindaco, e non dal responsabile
dell’U.T.C., ai sensi dell’art. 222 del r.d. n. 1265/1934 -richiamato dall’art. 26 del d.P.R. n. 380/2001– a tenore
del quale “il podestà, sentito l’ufficiale sanitario o su
richiesta del medico provinciale, può dichiarare inabitabile
una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne
lo sgombero”.
Sul punto, il Collegio fa proprio l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale anche la competenza in
ordine ai provvedimenti (di tipo ordinario, e non
caratterizzati da alcuna urgenza) di cui all’art. 222 del
r.d. n. 1265/1934 è da ricondursi al personale dirigente,
come risulta indirettamente confermato dal testo dell’art.
24, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, il quale, sostituendo
gli artt. 220 e 221 del r.d. n. 1265/1934, prevede che “il
certificato di agibilità viene rilasciato dal dirigente o
dal responsabile del competente Ufficio comunale” (dal che
deve ritenersi che anche un’eventuale dichiarazione di
inagibilità non possa che essere adottata da tali organi;
cfr. TAR Campania-Salerno, Sez. II, n. 1513/2005).
La censura, pertanto, è infondata e va respinta
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.12.2016 n. 2486 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La DIA/SCIA, una volta decorsi i termini per l’esercizio del
potere inibitorio-repressivo, costituisce un titolo
abilitativo valido ed efficace, che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle
prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n.
241/1990.
Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto
dalla legge per verificare la sussistenza dei relativi
presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un
provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela
adottato senza le garanzie e i presupposti richiesti
dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per l’esercizio del
potere di annullamento d’ufficio.
---------------
Per analoghe considerazioni l’ordinanza impugnata è
illegittima anche nella parte in cui dispone la chiusura
definitiva dell’attività di -OMISSIS- e l’annullamento della
relativa SCIA.
Con riferimento all’annullamento della SCIA, inoltre,
occorre rilevare che il Comune non ha tenuto conto, oltre
che degli eventuali profili di illegittimità dell’attività
assentita per effetto della SCIA ormai perfezionatasi,
dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto
del decorso del lungo lasso di tempo (risalendo la SCIA al
2010).
La DIA/SCIA, una volta decorsi i termini per l’esercizio del
potere inibitorio-repressivo, costituisce un titolo
abilitativo valido ed efficace, che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle
prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n.
241/1990. Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto
dalla legge per verificare la sussistenza dei relativi
presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un
provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela
adottato senza le garanzie e i presupposti richiesti
dall’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per l’esercizio del
potere di annullamento d’ufficio (cfr., in questi termini,
C.d.S., Sez. VI, n. 4780/2014; TAR Lazio–Roma, n.
192/2015; TAR Veneto, Sez. III, n. 958/2015).
2.4.4. In ragione delle suesposte considerazioni, il ricorso
e i motivi aggiunti sono fondati e vanno accolti, con il
conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati.
Resta fermo che, laddove il Comune dovesse ritenere
sussistente una situazione di pericolo per l’igiene, la
sanità o l’incolumità pubbliche, l’organo competente potrà
adottare le misure ritenute più opportune in relazione al
caso concreto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.12.2016 n. 2486 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione delle istanze con le
quali i ricorrenti, a vario titolo, tentano di regolarizzare
parte delle opere descritte nell’ordinanza di demolizione
oggetto dell’odierno ricorso hanno valore confessorio e,
quindi, è acclarata la loro realizzazione in difformità dal
titolo edilizio precedentemente conseguito.
---------------
Le richieste di sanatoria presentate ai sensi degli artt. 36
e 37, d.P.R. n. 380 del 2001, successivamente alla data di
adozione dei provvedimenti repressivi, non possono incidere
sull'efficacia e sulla legittimità dell'impugnato
provvedimento demolitorio.
L'istanza di accertamento di conformità, quand'anche fosse
presentata e fosse ancora pendente, non avrebbe comunque
avuto alcuna influenza sul piano della legittimità
dell'ordine di demolizione, potendo, al più, essere
condizionata, entro i limiti temporali di legge, la
possibilità di portarla ad esecuzione.
---------------
7) Osserva il Collegio che i ricorrenti in data 10.12.2009 -quindi dopo l’adozione dell’ordinanza impugnata datata
08.09.2009, e non prima come affermato- hanno presentato
istanza di rilascio di titolo edilizio per recupero ai fini
abitativi di sottotetto ai sensi della L.R. n. 13/2009.
Successivamente, con nota del 21.06.2010, hanno chiesto al
Comune che la suddetta istanza venisse esaminata “per le
opere già realizzate in difformità dalla DIA n. 230/2007
presentata in data 20.03.2007, come accertamento di
conformità ai sensi del combinato disposto dell’art. 36 del
DPR 380/2001”.
Infine, in data 12.11.2013, hanno presentato una DIA ad
oggetto l’adeguamento del sottotetto alla normativa vigente
ai sensi della L.R. n. 13/2009 e la ristrutturazione dei
magazzini esterni.
8) Tanto premesso, è evidente che le succitate istanze con
le quali i ricorrenti, a vario titolo, tentano di
regolarizzare parte delle opere descritte nell’ordinanza di
demolizione oggetto dell’odierno ricorso hanno valore
confessorio e, quindi, è acclarata la loro realizzazione in
difformità della DIA del 20.03.2007 (cfr. sul punto ex multis
TAR Lazio Latina 30.06.2016 n. 462).
9) Con riguardo agli effetti prodotti da tali istanze
sull’efficacia dell’ordinanza di demolizione, va ricordato
che la giurisprudenza più recente, condivisa dal Collegio, è
orientata nel senso che “le richieste di sanatoria
presentate ai sensi degli artt. 36 e 37, d.P.R. n. 380 del
2001, successivamente alla data di adozione dei
provvedimenti repressivi, non possono incidere
sull'efficacia e sulla legittimità dell'impugnato
provvedimento demolitorio. L'istanza di accertamento di
conformità, quand'anche fosse presentata e fosse ancora
pendente, non avrebbe comunque avuto alcuna influenza sul
piano della legittimità dell'ordine di demolizione, potendo,
al più, essere condizionata, entro i limiti temporali di
legge, la possibilità di portarla ad esecuzione” (ex multis
TAR Campania Napoli sez. VI 05.05.2016 n. 2241).
10) Inoltre, va evidenziato che le opere realizzate nel loro
insieme (siccome descritte anche nella relazione del C.T.U.
nominato dal Tribunale Civile di Latina nell’ambito del
giudizio instaurato a istanza della controinteressata sig.ra
Ba.; cfr. doc. allegato all’atto di costituzione) hanno
comportato un aumento della superficie e della volumetria
dell’immobile oltre a una modifica della sagoma e, pertanto,
dovevano necessariamente essere autorizzate col rilascio di
permesso di costruire
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 28.12.2016 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione a suo favore della disposizione
contenuta nell'art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del
pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del
bene residuo, con la precisazione che l'applicazione della
sanzione pecuniaria è innescata da un'istanza presentata a
tal fine dall'interessato e non già da una verifica tecnica
di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente
gravata, essendo proprio la parte privata, autrice
dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come
esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi,
a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte
conforme.
---------------
11) Infine, va respinto anche il
secondo motivo di ricorso
posto che “il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi
contenuta nell'art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del
pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del
bene residuo, con la precisazione che l'applicazione della
sanzione pecuniaria è innescata da un'istanza presentata a
tal fine dall'interessato e non già da una verifica tecnica
di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente
gravata, essendo proprio la parte privata, autrice
dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come
esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi,
a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte
conforme" (TAR Campania Napoli sez. II 15.01.2015 n.
233)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 28.12.2016 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
richiamato il consolidato orientamento della Sezione in
materia di condono ex lege n. 326/2003 secondo cui:
- ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del D.L. n.
269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, il condono
delle opere realizzate su aree vincolate è ammissibile solo
in caso di costruzione delle opere abusive prima
dell'imposizione dei vincoli ovvero qualora i manufatti
successivamente edificati, benché non assentiti o difformi
dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle
norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici;
- quest’ultima condizione, che costituisce una novità rispetto
alle precedenti leggi sul condono edilizio, ha dato vita ad
un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente
all’istituto dell’accertamento di conformità, previsto
dall’art. 36 T.U. 06.06.2001 n. 380.
---------------
Premesso che secondo la giurisprudenza della Corte
Costituzionale il vincolo paesaggistico rilevante ai sensi
della legge n. 326/2003 ed in grado di porsi come ostativo
al rilascio del condono è anche il vincolo di
inedificabilità relativa, il Collegio rileva che è
necessario acquisire il parere della Soprintendenza e della
Commissione edilizia circa la compatibilità paesaggistica
delle opere da sanare solo ed esclusivamente nei casi in cui
l’esito del procedimento dipenda da una verifica di ordine
tecnico.
Tale circostanza è da escludere nel caso di specie in
considerazione del carattere vincolato dell’atto impugnato,
fondato unicamente sulla constatazione dell’insanabilità
dell’abuso realizzato in zona vincolata e non conforme agli
strumenti urbanistici vigenti.
---------------
8.1. Con il provvedimento impugnato il Comune di
Sant’Agnello ha rigettato l’istanza di condono prot. n. 429,
presentata dal ricorrente il 10.12.2004, ai sensi della
legge n. 326/2003, avente ad oggetto l’ampliamento di 46,64
mq. di un’unità abitativa, sita in via ... n. 62
(catastalmente identificata al foglio 2, particella 199) in
quanto: “le opere realizzate non possono essere suscettibili
di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d),
della legge 24.11.2003, n. 326, trattandosi di opere: 1)
eseguite su aree soggette a vincolo paesaggistico di cui al
Decreto legislativo n. 42 del 22.01.2004, ex lege n. 1497/1939;
2) non conformi alle disposizioni del vigente Piano
Regolatore Generale, in quanto ricadenti in zona B
“edificate sature”, in cui, ai sensi dell’art. 41 delle
Norme di Attuazione, non sono consentite nuove edificazioni
nei modi e destinazioni così come realizzate”.
8.2. Dall’esame della documentazione prodotta dalla
controinteressata Do.Ap. si evince, inoltre, che
l’intervento a cui si riferisce il diniego di condono
impugnato costituisce l’ampliamento di un immobile già
oggetto di altra istanza di condono prot. n. 3227/1995,
presentata ai sensi della legge n. 724/1994, rigettata con
provvedimento prot. n. 12892 del 16.11.2000 cui è seguita
l’ordinanza di demolizione n. 176 del 05.12.2000.
8.3. Tali circostanze risultano, peraltro, affermate anche
nella sentenza n. 1650 del 15.03.2016 di questa Sezione con
la quale, in accoglimento del ricorso proposto dalla controinteressata Do.Ap., è stata dichiarata
“l’illegittimità del silenzio fatto maturare sulle istanze
di condono edilizio presentate dai Ma. sub prot. n.
20926 e n. 20927 del 10.12.2004” ed è stato ordinato
al Comune di Sant’Agnello di provvedere sulle stesse in modo
espresso.
8.4. Tanto premesso il Collegio non può che richiamare il
consolidato orientamento della Sezione in materia di condono
ex lege n. 326/2003.
Ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), del D.L. n.
269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, il condono
delle opere realizzate su aree vincolate è ammissibile solo
in caso di costruzione delle opere abusive prima
dell'imposizione dei vincoli ovvero qualora i manufatti
successivamente edificati, benché non assentiti o difformi
dal titolo abilitativo, risultino comunque conformi alle
norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici (cfr. TAR Campania, VII, 19.12.2014, n. 6858;
TAR Campania, Napoli, VII, 03.11.2010 n. 22299; TAR
Campania, Napoli, VII, 15.02.2010 n. 940).
Quest’ultima condizione, che costituisce una novità rispetto
alle precedenti leggi sul condono edilizio, ha dato vita ad
un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente
all’istituto dell’accertamento di conformità, previsto
dall’art. 36 T.U. 06.06.2001 n. 380 (cfr. TAR
Campania, Napoli, VII, 20.03.2009 n. 1556; TAR Campania,
Salerno, 14.01.2011 n. 26).
Nella motivazione del diniego impugnato è stato puntualmente
evidenziato che la domanda di condono non può essere accolta
in quanto le opere abusivamente realizzate si pongono in
contrasto sia con la normativa vincolistica che con la
vigente strumentazione urbanistica, giacché esse ricadono in
“zona B – edificata satura” del vigente P.R.G..
Peraltro, in ipotesi di vincolo paesaggistico, anche di tipo
relativo, l’opera abusiva è suscettibile di sanatoria solo
qualora si tratti di abuso minore, rientrante nella
tipologie nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del cit. D.L. n. 269
del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione
straordinaria) senza quindi aumento di superficie) –
laddove, nel caso di specie, viene in rilievo un manufatto
costruito in ampliamento ed adiacenza ad altro fabbricato
(anch’esso abusivo) e, quindi, un’opera di nuova
costruzione, neanche conforme alla normativa urbanistica.
8.5. La situazione descritta è, dunque, tale determinare di
per sé il rigetto dell’istanza di condono, senza la
necessità di ulteriori motivazioni.
8.6. Premesso che secondo la giurisprudenza della Corte
Costituzionale il vincolo paesaggistico rilevante ai sensi
della legge n. 326/2003 ed in grado di porsi come ostativo
al rilascio del condono è anche il vincolo di
inedificabilità relativa, il Collegio rileva inoltre che è
necessario acquisire il parere della Soprintendenza e della
Commissione edilizia circa la compatibilità paesaggistica
delle opere da sanare solo ed esclusivamente nei casi in cui
l’esito del procedimento dipenda da una verifica di ordine
tecnico.
Tale circostanza è da escludere nel caso di specie in
considerazione del carattere vincolato dell’atto impugnato,
fondato unicamente sulla constatazione dell’insanabilità
dell’abuso realizzato in zona vincolata e non conforme agli
strumenti urbanistici vigenti.
8.7. Deve, infine, essere evidenziato come la prima censura
sia destituita di fondamento anche nella parte in cui
lamenta l’illegittimità del diniego per difetto di
istruttoria in relazione all’epoca di apposizione del
vincolo rispetto a quella di realizzazione delle opere
abusive.
Dalle risultanze istruttorie e dal provvedimento gravato si
evince, infatti, che il vincolo è stato imposto
antecedentemente alla realizzazione delle opere il cui
nucleo originale risale al 1994 (come desumibile dalla prima
domanda di condono).
Quindi le opere sono successive sia alla L.R. n. 35/1987 sul
P.U.T., sia al D.M. 02.02.1962, richiamato dalla controinteressata Ap.
nella propria memoria e non contestato da parte ricorrente
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 27.12.2016 n. 5986 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La conformità urbanistica
non va valutata, al contrario di quanto sembrerebbe
adombrare parte ricorrente, avendo riguardo alla normativa
urbanistica sussistente al momento della realizzazione delle
opere –dovendo aversi riguardo a tale momento solo in
riferimento al distinto profilo dell’introduzione del
vincolo paesaggistico– ma alla normativa urbanistica vigente
ratione temporis al momento della presentazione
dell’istanza.
---------------
9.1. Secondo
la giurisprudenza di questa Sezione, infatti, la conformità
urbanistica non va valutata, al contrario di quanto
sembrerebbe adombrare parte ricorrente, avendo riguardo alla
normativa urbanistica sussistente al momento della
realizzazione delle opere –dovendo aversi riguardo a tale
momento solo in riferimento al distinto profilo
dell’introduzione del vincolo paesaggistico– ma alla
normativa urbanistica vigente ratione temporis al momento
della presentazione dell’istanza- sempreché si tratti di
normativa adeguata al vincolo paesaggistico, stante la
misura di salvaguardia di cui all’art. 5 del P.U.T. (cfr.
TAR Campania, VII, 17.03.2016, n. 1454)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 27.12.2016 n. 5986 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
Laddove le opere abusive insistano su zona
paesaggisticamente vincolata la prevalenza dell’interesse
pubblico sull’interesse privato deve considerarsi in re ipsa,
in considerazione del rilievo costituzionale del paesaggio,
ex art. 9, comma 2, Cost., assurgente a principio
fondamentale, con conseguente primazia sugli altri
interessi, pubblici e privati, del pari considerati dalla
Costituzione, ma non annoverati fra i principi fondamentali.
---------------
12. Il
Collegio evidenzia che l’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto vincolato che
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (cfr. Cons. Stato, V,
09.09.2013, n. 4470; Cons. Stato, VI, 05.08.2013, n. 4086).
Laddove, come nella specie, le opere abusive insistano su
zona paesaggisticamente vincolata la prevalenza
dell’interesse pubblico sull’interesse privato deve
considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo
costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost.,
assurgente a principio fondamentale, con conseguente
primazia sugli altri interessi, pubblici e privati, del pari
considerati dalla Costituzione, ma non annoverati fra i
principi fondamentali
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 27.12.2016 n. 5986 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata
soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 D.lgs. n.
259 del 2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva
che include anche la valutazione della compatibilità
edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo il
permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 DPR n.
380/2001.
---------------
L’omesso pagamento dei diritti di segreteria non può
costituire una valida causa di rigetto dell’istanza.
Invero, in seguito all'entrata in vigore dell'art. 93, comma
2, del D.lgs. 01.08.2003 n. 259 (ai sensi del quale, oltre
alla tassa, al canone e al contributo una tantum ivi
elencati, “nessun altro onere finanziario o reale può essere
imposto, in base all'art. 4 della legge 31.07.1997, n. 249,
in conseguenza dell'esecuzione delle opere di cui al
presente decreto”), il rilascio dell'autorizzazione e la
gestione dell'impianto non possono essere subordinati al
pagamento di importi ulteriori rispetto a quelli previsti
per legge.
---------------
2.2. Deve poi evidenziarsi la non legittimità della
previsione dell’art. 48 del R.U.E.C., a cui il Comune di
Brusciano dà invece applicazione, laddove richiede il
rilascio del permesso di costruire per la realizzazione
dell’impianto de quo.
In base al consolidato orientamento giurisprudenziale, da
cui non vi è motivo di distanziarsi, la realizzazione di
impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto
all'autorizzazione prevista dall'art. 87 D.lgs. n. 259 del
2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che
include anche la valutazione della compatibilità
edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo il
permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 DPR n.
380/2001 (ex multis da ultimo Tar Campania–Napoli sez. VII
n. 1729/2016, Cons. Stato n. 1269/2014).
2.3 Infine l’omesso pagamento dei diritti di segreteria,
contestato dal Comune nel provvedimento impugnato, non può
costituire una valida causa di rigetto dell’istanza; in
seguito all'entrata in vigore dell'art. 93, comma 2, del D.lgs.
01.08.2003 n. 259 (ai sensi del quale, oltre alla tassa,
al canone e al contributo una tantum ivi elencati, “nessun
altro onere finanziario o reale può essere imposto, in base
all'art. 4 della legge 31.07.1997, n. 249, in
conseguenza dell'esecuzione delle opere di cui al presente
decreto”), il rilascio dell'autorizzazione e la gestione
dell'impianto non possono essere subordinati al pagamento di
importi ulteriori rispetto a quelli previsti per legge.
3. In conclusione, poggiando su ragioni illegittime, il
provvedimento prot. n. 12478 dell’08.07.2015 deve essere
annullato. Le disposizioni regolamentari applicate sono
illegittime nei termini indicati.
Il ricorso viene quindi accolto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da
dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Settima) pronunciando sul ricorso, come in epigrafe
proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il
provvedimento prot. n. 12478 dell’08.07.2015.
Sono dichiarati illegittimi, nei termini e limiti indicati
in parte motiva, e per l’effetto annullati l’art. 48 del
Regolamento urbanistico edilizio del Comune di Brusciano
(approvato con delibera C.C. n. 48 del 28.11.2011)
e l’art.
7 del Regolamento comunale per le stazioni radio base del
Comune di Brusciano (approvato con delibera C.C. n. 45 del
20.11.2002)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 27.12.2016 n. 5975 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 15, comma 2, t.u. 06.06.2001
n. 380 la pronuncia di decadenza del permesso di costruire è
espressione di un potere strettamente vincolato; ha una
natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli
effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del
titolare ovvero della sopravvenienza di un nuovo piano
regolatore; ha quindi decorrenza "ex tunc".
Inoltre, il termine di durata del permesso edilizio non può
mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un "factum principis" ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore".
Né a conclusioni diverse conduce, poi, la previsione del 4
comma, del medesimo articolo 15, posto che “l’adozione dei
provvedimenti di decadenza per mancata ultimazione dei
lavori relativi a licenza edilizia che li ponga in contrasto
con lo strumento urbanistico sopravvenuto costituisce
attività dovuta per il sindaco".
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 02.12.2015, prot.
n. 6695/2015 avente ad oggetto “diniego alla richiesta di
proroga della concessione edilizia n. 341/01".
...
Con ricorso notificato il 03.02.2016, tempestivamente
depositato, i deducenti hanno impugnato l’atto 02.12.2015,
n. 6695 con cui il Responsabile del servizio Edilizia
Privata del comune di Minturno ha respinto la richiesta
proroga concessione edilizia n. 341/01, dai medesimi
presentata in data 26.03.2015, sul rilievo che: …“il
titolo abilitativo rilasciato nel 2001, riguardante la
realizzazione di una pertinenza agricola,…i cui termini di
validità sono ampliamenti scaduti”; ed ancora: …”l’istanza
non può essere accolta in quanto l’intervento edilizio non è
più conforme alla normativa sopravvenuta prevista dalla L.r.
38/1999, entrata in vigore nel 2003”.
...
Il ricorso è infondato.
In ordine alla denunciata violazione delle garanzie
procedimentali (art. 10-bis della L. 241/1990) va rilevato
che –anche a prescindere dal rilievo che l’articolo 10-bis
della legge n. 241 è disposizione che ha lo scopo di
assicurare la partecipazione al procedimento del privato e
il contraddittorio di quest’ultimo con l’amministrazione-
nella fattispecie il contraddittorio inequivocabilmente vi è
stato come dimostra la documentazione allegata al ricorso;
sicché essi hanno avuto la possibilità di interloquire al
riguardo (e di fatto hanno interloquito) con
l’amministrazione.
In ordine ai profili motivazionali, va invece osservato che
l’atto del comune –benché formulato in modo poco felice–
reca una motivazione che risulta giuridicamente corretta.
La proroga rilasciata il 16.09.2008, prot. 17986 era stata
invero subordinata ai pareri ambientali, da prodursi entro
il termine di trentasei mesi dal rilascio della stessa, con
l’espressa avvertenza che, decorso tale termine, “il
permesso doveva intendersi decaduto di dritto”; ciò di
per sé giustifica il diniego di proroga.
Rafforza detta conclusione la previsione dell’articolo 15
D.P.R. 06.06.2001, n. 380. La disposizione del secondo comma
stabilisce, in particolare, che la proroga del permesso di
costruire “può essere accordata, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del
titolare del permesso, oppure in considerazione della mole
dell'opera da realizzare, delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà
tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei
lavori”; il comma 2-bis, invocato dalla difesa dei
ricorrenti per supportare l’illegittimità del diniego
impugnato, non sembra, del pari, conferente.
Stabilisce, in realtà, detta disposizione che “la proroga
dei termini per l'inizio e l'ultimazione dei lavori è
comunque accordata qualora i lavori non possano essere
iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o
dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate”.
Come si vede nessuna delle suesposte previsioni normative
reca riferimenti ai ritardi imputabili all’interessato,
tanto più che nella vista proroga accordata nel 2008 era
stato espressamente ribadito che la decorrenza del
prescritto termine avrebbe comportato la decadenza di
diritto del permesso di costruire.
Sul punto la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “ai
sensi dell'art. 15, comma 2, t.u. 06.06.2001 n. 380 la
pronuncia di decadenza del permesso di costruire è
espressione di un potere strettamente vincolato; ha una
natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli
effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del
titolare ovvero della sopravvenienza di un nuovo piano
regolatore; ha quindi decorrenza "ex tunc"; inoltre, il
termine di durata del permesso edilizio non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un "factum principis" ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore" (Tar
Veneto, sez. II, n. 2346 del 2005).
Né a conclusioni diverse conduce, poi, la previsione del 4
comma, del medesimo articolo 15, anch’essa espressamente
invocata dalla parte ricorrente, posto che “l’adozione
dei provvedimenti di decadenza per mancata ultimazione dei
lavori relativi a licenza edilizia che li ponga in contrasto
con lo strumento urbanistico sopravvenuto costituisce
attività dovuta per il sindaco”… (Tar Veneto, sez. II,
n. 2346 del 2005).
In conclusione il ricorso deve essere respinto (TAR
Lazio-Latina,
sentenza 12.12.2016 n. 794 -
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