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AGGIORNAMENTO AL
27.01.2017 |
ã |
Esercizio obbligatorio in forma associata delle
funzioni fondamentali, mediante unioni o
convenzioni, da parte dei comuni:
E' INCOSTITUZIONALE?? |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Obbligo dei Comuni, c.d. polvere, di esercizio associato delle
funzioni fondamentali.
---------------
●
Giurisdizione - Comuni -
Comuni c.d. polvere - esercizio associato delle funzioni
fondamentali - Esercizio associato delle funzioni
fondamentali – Circolare Ministero interno – Impugnazione –
Artt. 133, comma 1, lett. a, n. 2, c.p.a. - Giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.
●
Enti locali - Comuni - Comuni c.d. polvere - Esercizio
associato delle funzioni fondamentali - Artt. 14, commi
26-31, n. 78 del 2010 e art. 1, commi 110 e 111, l.reg.
Campania n. 16 del 2014 - Violazione artt. 77, 3, 5, 95, 97,
117, comma 6, 114, 118 e 133, comma 2, Cost. - Non manifesta
infondatezza.
●
Il ricorso, proposto avverso la nota del Ministero
dell’interno, avente ad oggetto l'esercizio obbligatorio in
forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unioni
o convenzioni, da parte dei comuni, rientra nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi
dell’art. 133, comma 1, lett. a, n. 2, c.p.a., ipotesi
concernente la “formazione, conclusione ed esecuzione degli
accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento
amministrativo e degli accordi fra pubbliche
amministrazioni”, vertendo la controversia sull’utilizzo
obbligatorio dei “moduli convenzionali” da parte degli enti
locali minori, come tale rientrante nella previsione della
citata lett. a, n. 2, del comma 1 dell’art. 133 c.p.a..
●
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale sia dell’art. 14, commi 26-31,
d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito in legge, con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, l. 30.07.2010, n. 122
–nella parte in cui ha dettato le disposizioni “dirette ad
assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il
contenimento delle spese per l'esercizio delle funzioni
fondamentali dei comuni”, imponendo ai Comuni di dimensioni
minori l’obbligo di esercizio associato delle funzioni
fondamentali, come dalla legge individuate– per contrasto:
a) con l’art. 77, comma 2, cost., in relazione alla evidente
carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza
legittimanti il ricorso allo strumento decretale d’urgenza;
b) con gli artt. 3, 5, 95, 97, 117, comma 6, 114, 118 Cost., con
riferimento ai principi di buon andamento, differenziazione
e tutela delle autonomie locali; per violazione dell'art.
117, comma 1, Cost. con riferimento all'art. 3 della Carta
Europea dell'autonomia locale;
c) con l’art. 133, comma 2, Cost., in relazione all’istituzione di
nuovi comuni, e gli artt. 114 e 119 Cost., in relazione
all’autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali;
sia dell’art. 1, commi 110 e 111, l.reg. Campania
07.08.2014, n. 16 – che ha previsto che previsto che la
"dimensione territoriale ottimale e omogenea per l'esercizio
delle funzioni fondamentali in forma obbligatoriamente
associata" coincida con i c.d. sistemi territoriali di
sviluppo previsti, a fini urbanistici e di coesione
territoriale, dalla legge regionale 13.10.2008, n. 13,
rinviando, per la restante disciplina, alle previsioni del
d.l. n. 78 del 2010, per contrasto con gli artt. 3, 5, 95,
97, 117, comma 6, 114, 118 Cost. (1).
---------------
(1)
Il Tar Lazio ha preliminarmente chiarito, richiamando
principi espressi dalla Corte costituzionale (n. 1 del 2014;
n. 4 del 2000; n. 59 del 1957), che ”la circostanza che
la dedotta incostituzionalità di una o più norme legislative
costituisca l'unico motivo di ricorso innanzi al giudice a
quo non impedisce di considerare sussistente il requisito
della rilevanza, ogni qualvolta sia individuabile nel
giudizio principale un petitum separato e distinto dalla
questione (o dalle questioni) di legittimità costituzionale,
sul quale il giudice rimettente sia chiamato a pronunciarsi”.
Nel caso all’esame del Tribunale tale condizione è
soddisfatta, perché il petitum oggetto del giudizio
principale è costituito dalla pronuncia di accertamento
negativo della sussistenza dell’obbligo, per i Comuni
ricorrenti, di associarsi in via convenzionale, e dalla
correlata pronuncia di annullamento della circolare
ministeriale, atto immediatamente impugnabile perché impone
agli enti interessati precise attività prodromiche
all’attuazione dell’obbligo legislativamente imposto.
Passando alla questione di legittimità costituzionale essa
è, oltre che rilevante, non manifestamente infondata in
primo luogo per violazione dell’art. 77, comma 2, Cost.,
secondo cui “in casi straordinari di necessità e
d’urgenza” il Governo è legittimato ad adottare “provvedimenti
provvisori con forza di legge” destinati a perdere
efficacia ex tunc ove non convertiti in legge entro
sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
Ha ricordato il Tar che secondo un orientamento dottrinale
risalente nel tempo la legge di conversione, avente natura
di legge sostanziale, si sostituisce, quanto meno per
l’avvenire, al decreto legge convertito, con la conseguenza
che dal momento della conversione le norme che questo aveva
provvisoriamente introdotte vedono rinnovata la propria
fonte che, dunque, non è più il provvedimento governativo
bensì la successiva legge di conversione (c.d. novazione
della fonte).
Sulla base di tale insegnamento si era formato l’indirizzo
della giurisprudenza costituzionale più risalente (Corte
cost. n. 108 del 1986, n. 243 del 1987, nn. 808, 810, 1033,
1035 e 1060 del 1988, n. 263 del 1994) che negava la
sindacabilità di ogni vizio proprio del decreto-legge a
seguito della legge di conversione, facendo leva sulla
configurazione di quest’ultima come forma di novazione.
Con la sentenza n. 29 del 1995 la Corte costituzionale ha
superato tale orientamento, escludendo l’efficacia sanante
della legge di conversione. Data la premessa, ha fatto
conseguire che “non esiste alcuna preclusione affinché la
Corte costituzionale proceda all’esame del decreto-legge e/o
della legge di conversione sotto il profilo del rispetto dei
requisiti di validità costituzionale relativi alla
pre-esistenza dei presupposti di necessità e urgenza, dal
momento che il correlativo esame delle Camere in sede di
conversione comporta una valutazione del tutto diversa e,
precisamente, di tipo prettamente politico sia con riguardo
al contenuto della decisione, sia con riguardo agli effetti
della stessa”.
Tale conclusione è stata nel tempo ribadita, salvo alcuni
isolati scostamenti, dal giudice delle leggi (n. 341 del
2003; nn. 6 e 178, 196, 285 e 299 del 2004; nn. 2, 62 e 272
del 2005; n. 22 del 2012 e n. 32 del 2014), fino ad arrivare
alla sentenza n. 171 del 2007, che, per la prima volta, ha
dichiarato fondata (e non solamente ammissibile) la
questione di incostituzionalità della legge di conversione
per la carenza evidente dei presupposti di necessità e
urgenza rispetto all’adozione del decreto-legge convertito.
Ha ancora ricordato il Tar che i decreti-legge traggono la
loro legittimazione generale da casi straordinari e sono
destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare
risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere
regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e
urgenti necessità. Per questo motivo, il legislatore
ordinario, con una norma di portata generale, ha previsto
che il decreto-legge debba contenere “misure di immediata
applicazione” (art. 15, comma 3, l. 23.08.1988, n. 400 “Disciplina
dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del
Consiglio dei ministri”).
La norma citata, pur non avendo, sul piano formale, rango
costituzionale, esprime ed esplicita ciò che deve ritenersi
intrinseco alla natura stessa del decreto-legge (Corte cost.
n. 22 del 2012), che entrerebbe in contraddizione con le sue
stesse premesse, se contenesse disposizioni destinate ad
avere effetti pratici differiti nel tempo, in quanto
recanti, come nel caso di specie, discipline mirate alla
costruzione di nuove strutture istituzionali, senza peraltro
che i perseguiti risparmi di spesa siano, allo stato,
concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via
approssimativa (Corte cost. n. 220 del 2013).
Tutto ciò chiarito in via generale, ed applicando tali
principi al caso sottoposto all’esame del Tar:
- le norme di cui all’art. 14, commi 26–31, d.l. n. 78 del 2010,
lungi dall’incidere su aspetti particolari o su singole
funzioni degli enti locali, introducono una riforma
ordinamentale giungendo a: delineare in via definitiva
l’elenco delle funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi
dell’art. 117, comma 2, lett. p (comma 27); incidere
sull’assetto organizzativo dei comuni con popolazione
inferiore ai 5.000 abitanti prevedendo, in via definitiva,
l’obbligo di esercizio in forma associata delle funzioni
fondamentali stesse (commi 28 – 31-quinquies);
- il d.l. n. 78 del 2010, in parte qua, inoltre, non appare trarre
la propria legittimazione dalla necessità di disciplinare
casi straordinari, bensì, come già sottolineato, arriva a
dettare un’ordinaria disciplina ordinamentale degli enti
locali, senza peraltro contenere misure di immediata
applicazione;
- le disposizioni sull’obbligo di esercizio associato non hanno
trovato, infatti, immediata applicazione, essendo stato
previsto, dal comma 31-ter, in particolare, un loro
attuazione dilazionata nel tempo. Tali termini sono stati,
inoltre, più volte prorogati, sino al termine ultimo del
31.12.2016, fissato dall’art. 4, comma 4, d.l. 30.12.2015,
n. 210, convertito in l. 25.02.2016, n. 21;
- le medesime disposizioni non sono state adeguatamente
giustificate nemmeno sotto il profilo dei risparmi di spesa
che si sarebbero potuti ottenere in virtù dell’intervento
riformatore, risparmi che, nella specie, non risultano
essere stati mai quantificati.
L’art. 14, commi 26-31, d.l. n. 78 del 2010 si pone altresì
in contrasto con gli artt. 3, 5, 95 e 97, 117, comma 6, 114,
118 Cost., con riferimento ai principi di buon andamento,
differenziazione e tutela delle autonomie locali; con l'art.
117, comma 1, Cost. con riferimento all'art. 3 della Carta
europea dell'autonomia locale.
Ha chiarito il Tar che l’’esercizio associato delle funzioni
comunali è stato, sin dalla sua introduzione, caratterizzato
dalla volontarietà e dalla flessibilità, come è dato
evincere dal capo V del titolo II del t.u. enti locali, che
nel disciplinare le forme associative degli enti locali
(convenzioni, consorzi, unioni di comuni, esercizio
associato di funzioni e servizi da parte dei comuni, accordi
di programma) prevede la volontarietà nell’an e la
flessibilità nel quomodo della scelta delle forme
associative alle quali aderire.
La normativa de qua sembra ribaltare questo assetto che, per
gli enti locali di minori dimensioni, da volontario diviene
obbligatorio, da flessibile diviene rigido: per i comuni di
minori dimensioni l’esercizio di tutte le funzioni
fondamentali elencate al comma 28 dell’art. 14, ad eccezione
della tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e
compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia
di servizi elettorali, nell'esercizio delle funzioni di
competenza statale (lett. l), devono obbligatoriamente
essere svolte in forma associata, con conseguente obbligo di
aggregazione della relativa organizzazione burocratica.
Ciò comporta delle rilevanti conseguenze sul normale
funzionamento del circuito democratico:
a) gli organi gestionali non sono più sottoposti all’indirizzo
politico degli organi rappresentativi;
b) l’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni
fondamentali appare, inoltre, comprimere, la potestà
regolamentare dei comuni riconosciuta, dall’art. 117, comma
6, Cost., “in ordine alla disciplina dell’organizzazione
e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
L’art. 14, commi 26 ss., d.l. n. 78 del 2010 viola, infine,
l’art. 133, comma 2, Cost., in relazione all’istituzione di
nuovi comuni, e gli artt. 114 e 119 Cost., in relazione
all’autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali.
Non manifestamente infondata appare anche la questione
relativa all’art. 1, commi 110 e 111, l.reg. Campania
07.08.2014, n. 16 che, nell’individuare gli ambiti ottimali
per l’esercizio delle funzioni fondamentali, ha fatto
generico riferimento ai c.d. sistemi territoriali di
sviluppo, previsti a loro volta in ambito urbanistico dalla
l.reg. n. 13 del 2008, senza in merito svolgere adeguata
istruttoria attraverso il necessario coinvolgimento degli
enti locali interessati (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-ter,
ordinanza 20.01.2017 n. 1027
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: L'ACCORPAMENTO COATTO (funzioni
comunali) È INCOSTITUZIONALE (ASMEL,
nota 20.01.2017).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
ESTRATTI RASSEGNA STAMPA di martedì 24.01.2017
(ASMEL). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni,
alla Consulta le gestioni associate.
Spending inattuate. Il Tar Lazio invia
alla Corte costituzionale la legge Calderoli.
È una delle
regine fra le riforme infinite della nostra Pubblica
amministrazione, ha raccolto una collezione ormai
sterminata di proroghe e a sette anni dalla sua
nascita ora finisce all’esame della Corte
costituzionale.
Si tratta della cosiddetta “legge Calderoli”,
che ha provato senza successo a imporre ai quasi
6mila piccoli Comuni italiani di gestire in forma
associata tutte le «funzioni fondamentali»,
dalla Polizia locale all’urbanistica, dalla raccolta
dei rifiuti ai servizi sociali fino agli interventi
di protezione civile, per garantire economie di
scala e superare le difficoltà inevitabili quando un
Comune con una manciata di dipendenti deve provare a
garantire tutte le attività locali.
Il principio, semplice nella teoria ma complicato
nella geografia, imporrebbe a tutti i Comuni sotto i
5mila abitanti (3mila abitanti se in montagna) di
gestire i loro servizi tramite alleanze che
abbraccino almeno 10mila residenti.
In realtà non si tratta di una legge, ma di un comma
di un decreto approvato d’urgenza dal governo
Berlusconi nella primavera del 2010 quando la
finanza pubblica cominciava a mostrare i segni della
febbre che sarebbe scoppiata l’anno dopo. Per gli
appassionati, si tratta dell’articolo 14, commi 26 e
seguenti del decreto legge 78 del 2010. Tanta «necessità
e urgenza», però, sembra essersi stemperata
appena dopo l’arrivo della nuova regola in Gazzetta
Ufficiale, e non ha impedito a questa antesignana
della spending review di impantanarsi nella
più classica delle mancate attuazioni, in un
dibattito eterno con gli amministratori locali
condito da proroghe periodiche che l’hanno
trascinata intatta finora.
L’ultimo rinvio è scritto nel Milleproroghe in
discussione in questi giorni al Senato, che sposta a
fine 2017 la scadenza entro cui avviare le “alleanze”
fra Comuni. Ma a mettere sul piatto una nuova,
pesante, dose di interrogativi ci pensa ora il Tar
Lazio, che nell’ordinanza 20.01.2017 n. 1027
appena depositata accoglie il ricorso di un gruppo
di Comuni affiancati dall’Asmel e rimanda tutto il
pacchetto alla Corte costituzionale.
A non andare, secondo i giudici amministrativi, è
prima di tutto la scelta di intervenire con decreto
per modificare gli ordinamenti locali, ricordando
che per la stessa ragione la Consulta ha bocciato la
riforma delle Province tentata dal Governo Monti
(quella che ne dimezzava il numero accorpandole).
Ma accanto allo strumento, le obiezioni del Tar si
concentrano sul contenuto, e sostengono che
l’obbligo di mettersi insieme per gestire il core
business comunale mette in discussione
l’autonomia dell’ente senza coinvolgere le
popolazioni (come avviene invece quando i Comuni
scelgono di fondersi) e per questa via cozza con ben
9 articoli della Costituzioni. Ora la palla passa ai
giudici delle leggi, che potrebbero colpire
definitivamente la norma. Ma senza fretta
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.01.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Associazionismo
comunale alla Consulta.
L'associazionismo comunale forzoso finisce sul
tavolo della Consulta.
A sollevare la questione di legittimità
costituzionale degli obblighi di gestione associata
previsti dal dl 78/2010, è stato il Tar del Lazio
con l'ordinanza 20.01.2017 n. 1027.
I giudici amministrativi sono stati chiamati in
causa dall'Asmel, l'Associazione per la
sussidiarietà e la modernizzazione degli enti
locali, che raggruppa 2.200 comuni in tutt'Italia e
che si era costituita in giudizio a difesa dei 5.700
enti a rischio accorpamento.
L'Associazione aveva impugnato la circolare del
12.01.2015 con cui il ministero dell'interno,
scaduto il 31.12.2014 il termine per costituire le
unioni, ordinava ai prefetti di diffidare
formalmente le amministrazioni inadempienti. Nel
frattempo la deadline per l'associazionismo è via
via slittata fino al 31.12.2017 (l'ultima proroga è
stata disposta dal decreto Milleproroghe), il che ha
mantenuto attuale l'interesse a ricorrere da parte
dell'associazione guidata da Francesco Pinto.
L'Asmel ha ritenuto il decreto legge Calderoli
lesivo di ben nove articoli della Costituzione. A
cominciare dell'art. 77 per carenza manifesta dei
requisiti di necessità e urgenza. E il Tar Lazio è
stato dello stesso avviso.
Secondo il collegio presieduto dal giudice Germana
Panzironi, le norme dell'art. 14, commi 26-31 del dl
78/2010 «introducono una riforma ordinamentale»
che incide sull'assetto organizzativo dei comuni con
meno di 5.000 abitanti. Una riforma che «non
appare trarre la propria legittimazione dalla
necessità di disciplinare casi straordinari, bensì
arriva a dettare un'ordinaria disciplina
ordinamentale degli enti locali, senza peraltro
contenere misure di immediata applicazione».
E la lunga serie di proroghe dell'appuntamento con
l'associazionismo è secondo il Tar una dimostrazione
tangibile dell'assenza di urgenza. La riforma,
inoltre, proseguono i giudici, «non è stata
giustificata nemmeno sotto il profilo dei risparmi
di spesa che si sarebbero potuti ottenere in virtù
dell'intervento riformatore, risparmi che, nel caso
di specie, non risultano essere stati mai
quantificati».
Nonostante il contrasto con l'art. 77 Cost. assorba
tutte le altre questioni di legittimità, il Tar ha
ritenuto comunque non manifestamente infondate anche
le altre censure sollevate da Asmel, tra cui la
violazione degli articoli 3, 5, 95, 97, 117 comma 6,
114 e 118 con riferimento ai principi di buon
andamento, differenziazione e tutela delle autonomie
locali. Non solo. Tra le norme costituzionali
violate dal dl 78/2010 figurano anche gli articoli
133, comma 2, in relazione all'istituzione di nuovi
comuni e gli articoli 114 e 119 in relazione
all'autonomia organizzativa e finanziaria degli enti
locali. In totale nove articoli.
«Un record e sicuramente un duro colpo alla legge
Calderoli», ha commentato il segretario generale
di Asmel Francesco Pinto. «Sono state accolte in
pieno le nostre argomentazioni», osserva. «Il
Tar ha sottolineato non solo la lesione del
principio di autonomia degli enti locali, ma anche
la lesione del principio di ragionevolezza».
Pinto punta il dito contro tutti i governi che
dall'esecutivo Berlusconi in poi hanno confermato
l'obbligo di accorpamento, fino all'attuale che ha
fatto slittare il termine al 31/12/2017. Il motivo?
Secondo Pinto la responsabilità è dell'Anci «che
negli anni ha sempre sostenuto la necessità
dell'accorpamento coatto, basti pensare alla
proposta Fassino che voleva azzerare i comuni fino a
15.000 abitanti, fino alla definizione delle aree
vaste» attualmente allo studio.
«Noi continueremo la nostra battaglia», ha
chiosato Giovanni Caggiano, presidente Asmel, «sicuri
dell'appoggio di tutti gli associati che crescono
sempre di più e forti della proficua collaborazione
con l'Anpci, l'Associazione dei piccoli comuni
d'Italia»
(articolo ItaliaOggi del 24.01.2017). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo
il licenziamento del dipendente che divulga atti contro
l'amministrazione.
Un architetto, dipendente comunale con qualifica di tecnico
responsabile dei lavori pubblici, denunciava l'ente di
appartenenza per asserite violazioni edilizie. L'esposto non
aveva però alcun esito, se non una richiesta riservata di
chiarimenti che l'ente locale riceveva dalla Prefettura.
Venuto così a conoscenza dell'iniziativa del proprio
dipendente, il Comune avviava una procedura disciplinare a
carico di quest'ultimo che, tuttavia, al momento di
presentare le proprie giustificazioni non si limitava ad
indirizzarle al segretario comunale (naturale destinatario
in qualità di responsabile del procedimento disciplinare),
ma ne inviava copia anche al Prefetto, al Procuratore della
Repubblica, alla Corte dei conti, a due consiglieri
comunali, e ad alcuni rappresentanti sindacali territoriali
esterni e interni all'amministrazione.
Il licenziamento
Ritenendo che questo comportamento fosse diretto a gettare
discredito sull'amministrazione, il Comune licenziava
l'architetto per violazione degli obblighi di fedeltà,
correttezza e buona fede, avuto riguardo al grado
d'affidamento richiesto dalle mansioni affidate al
lavoratore e all'intensità dell'elemento intenzionale.
La legittimità del licenziamento veniva dapprima dichiarata
dal Tribunale di primo grado e confermata dalla Corte
d'appello (con sentenza successivamente cassata per vizio di
motivazione), e poi nuovamente ribadita dalla Corte
d'appello di Milano in funzione di Giudice del rinvio.
La decisione
In esito a un'articolata vicenda processuale, il
licenziamento è stato quindi nuovamente sottoposto al vaglio
della Corte di Cassazione -Sez. lavoro- che, con
sentenza 24.01.2017 n. 1752, ne
ha pronunciato definitivamente la validità.
Ritiene, infatti, la Corte che il lavoratore, inviando le
proprie giustificazioni a soggetti estranei
all'amministrazione datrice di lavoro, abbia posto in essere
«un atto esorbitante dalle finalità del procedimento
disciplinare», adombrando anche «presunti illeciti
dell'amministrazione idonei a screditarla e della cui
veridicità, anche solo putativa, non vi era prova». La
condotta, prosegue la Cassazione, costituisce un
comportamento idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo
fiduciario con il datore di lavoro, in quanto «non
giustificato» e «posto in essere senza alcuna
necessità, se non la volontà di proseguire l'opera di
discredito del datore di lavoro, iniziata con la denuncia di
asserite violazioni edilizie».
L'entità della diffusione, unita alla «lesività insita
nella circostanza che i fatti descritti erano risultati del
tutto infondati» non ha consentito, infine, di ritenere
operante il principio sancito dall'articolo 54-bis del Dlgs
165/2001, secondo cui «il pubblico dipendente che denunci
«condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione
del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato,
licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria».
Per espressa previsione di legge, infatti, tale tutela opera
solamente «fuori dei casi di responsabilità a titolo di
calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai
sensi dell'articolo 2043 del codice civile» (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.01.2017).
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MASSIMA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 110/2014,
pronunciando in sede di rinvio a
seguito della sentenza n. 1632/2012 di questa Corte, ha
respinto l'appello proposto dall'arch.
En.Be. e così ha confermato la pronuncia di primo
grado, con cui il Tribunale di Forlì
aveva dichiarato la legittimità del licenziamento
disciplinare irrogato dal Comune di San Mauro
Pascoli, del quale arch. Be. era dipendente, con
qualifica di tecnico comunale
responsabile dei lavori pubblici e inquadramento nell'VIII
qualifica funzionale.
2. La condotta contestata al Be. era quella di avere
inviato la memoria difensiva in
data 04.12.2000, da lui presentata a giustificazione di
quanto oggetto di una precedente
contestazione disciplinare, alla Procura della Repubblica,
alla Prefettura e alla competente
Soprintendenza ai beni architettonici, circa pretese
illegittimità commesse dall'amministrazione
comunale.
Il Comune aveva ritenuto che tale comportamento
fosse contrario all'obbligo di
fedeltà sancito dall'art. 2105 c.c. -da coordinarsi con i
principi generali di correttezza e buona
fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.-, stante il
contenuto della memoria stessa, diretto a
gettare discredito su detta amministrazione.
3. Per quanto ancora rileva nella presente sede, la Corte di
appello -con la sentenza poi
cassata da questa Corte- aveva ritenuto che
il lavoratore,
inviando la memoria del 04.12.2000
a soggetti estranei all'amministrazione comunale, avesse
posto in essere un atto esorbitante
dalle finalità del procedimento disciplinare ed avesse
adombrato anche presunti illeciti
dell'amministrazione idonei a screditarla e della cui
veridicità, anche solo putativa, non vi era
prova.
4. Questa sentenza veniva cassata da questa Corte, in
accoglimento del terzo motivo di ricorso
proposto dal Be., il quale aveva lamentato il vizio
di motivazione per essere la
sentenza carente di un'effettiva motivazione sia sulla
sussistenza che sull'intensità della
violazione disciplinare, con particolare riferimento alla
asserita divulgazione della memoria
difensiva, contestata dal ricorrente, e al conseguente
pregiudizio all'immagine che sarebbe
derivato per l'amministrazione.
5. Nel ritenere fondato tale motivo, questa Corte rilevava
la "palese inadeguatezza delle
stringate affermazioni circa l'idoneità dei fatti addebitati
a giustificare il licenziamento
disciplinare, che non può prescindere da un accertamento
della effettiva natura e portata della
diffusione della memoria in questione". Il rinvio della
causa veniva disposto per "procedere a
nuova valutazione in ordine alla sussistenza di un
giustificato motivo di licenziamento
disciplinare, sulla base anche di un accertamento circa gli
effettivi termini della diffusione della
memoria in questione".
6. Riassunto il giudizio, la Corte di appello di Milano con la sentenza
ora impugnata ha ritenuto
che, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente,
era
circostanza comprovata in giudizio
che la memoria fosse stata inviata a tutti i soggetti già
destinatari della precedente lettera di
denuncia di asserite violazioni edilizie e specificamente al
Prefetto, al Procuratore della
Repubblica, alla Corte dei Conti, a due consiglieri comunali
e ai rappresentanti sindacali.
6.1. Tanto appurato, ha ritenuto che la trasmissione di tale
memoria costituiva un
comportamento non giustificato, posto in essere senza alcuna
necessità, se non la volontà di
proseguire l'opera di discredito del datore di lavoro,
iniziata con la denuncia di asserite
violazioni edilizie del 24.07.2000. Tale denuncia non
aveva avuto alcun esito, se non la nota
riservata con richiesta di chiarimenti ricevuta dal Comune
da parte della Prefettura, con cui
l'Ente locale ebbe notizia dell'iniziativa del suo
dipendente.
Il comportamento integrava,
pertanto, una violazione dell'obbligo di fedeltà di cui
all'art. 2105 c.c.; "...le affermazioni
contenute nella memoria insinuavano nel lettore la
convinzione di una gestione oscura, opaca
e per non dire del tutto illegittima del Comune da parte dei
suoi vertici istituzionali, primo fra
tutti del sindaco, che spaziano dall'asserita manipolazione
del protocollo, alla lamentata
correzione di delibere di giunta, dal contenzioso con i
cittadini nel settore delle concessioni
edilizie a pretese variazioni del piano regolatore adottate
in modo illegittimo e così via".
6.2. La Corte territoriale ha concluso che il comportamento
era di gravità tale da giustificare la
massima sanzione disciplinare, avuto riguardo al "grado di
affidamento richiesto dalle mansioni
affidate al lavoratore ed all'intensità dell'elemento
intenzionale".
7. Per la cassazione di tale sentenza ricorre l'arch.
Be. con due motivi. Resiste il
Comune di San Mauro Pascoli con controricorso. In prossimità
dell'udienza il ricorrente ha
altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 384, secondo
comma, c.p.c., violazione e falsa applicazione della
sentenza rescindente n. 1632/2012;
violazione del'art. 5 legge n. 604/1966, violazione dei
principi e delle norme in tema di onere
della prova e in materia di giudicato.
1.1. La Corte di cassazione aveva disposto che il giudice di
rinvio dovesse procedere ad una
nuova valutazione in ordine alla sussistenza di un
giustificato motivo di licenziamento
disciplinare, sulla base anche di un accertamento circa gli
effettivi termini della diffusione della
memoria in questione. L'effettività e consistenza della
"diffusione" doveva costituire oggetto di
un nuovo accertamento funzionale alla verifica della
sussistenza o meno di una infrazione
disciplinare, mentre la Corte di appello ha ritenuto di non
dovere procedere né ad accertamenti
ulteriori né ad un riesame dei fatti, supponendo come
ammesso dallo stesso ricorrente che la missiva fosse stata
inviata a tutti i soggetti istituzionali indicati quali
destinatari della stessa. In
realtà il ricorrente, sin dall'atto introduttivo del
giudizio, aveva evidenziato che non poteva
essere oggetto di contestazione disciplinare uno scritto
difensivo; che era comunque del tutto
legittimo l'indirizzamento di tale scritto a soggetti ivi
indicati; che inoltre non era stato provato
alcun danno all'immagine che sarebbe derivato
all'Amministrazione dalla divulgazione della
memoria.
2. Con il secondo motivo si denuncia, sotto un diverso
profilo, violazione e falsa applicazione
dell'art. 384, secondo comma, c.p.c., violazione e falsa
applicazione della sentenza rescindente
n. 1632/2012; violazione del'art. 5 legge n. 604/1966,
violazione dei principi e delle norme in
tema di onere della prova e in materia di giudicato.
2.1. Si assume che il terzo motivo di ricorso, accolto dalla
Corte di cassazione, verteva sulla
mancanza di motivazione circa l'"effettiva diffusione" della
memoria difensiva e il quesito di
diritto ivi formulato verteva sulla questione "se in una
fattispecie nella quale viene dedotto
quale elemento determinante, sia in ordine alla
configurabilità dell'illecito disciplinare sia per
quanto riguarda il criterio di graduazione della sanzione,
la diffusione all'esterno
dell'amministrazione di una memoria difensiva presentata da
un dipendente pubblico
nell'ambito del procedimento disciplinare, possa ritenersi
completa, adeguata e razionale
ovvero omessa, carente, insufficiente e contraddittoria una
giustificazione circa gli elementi di
fatto che hanno indotto a ritenere sussistente l'asserita
diffusione della memoria e del
conseguente pregiudizio all'immagine dell'amministrazione,
nell'ipotesi in cui tale asserita
diffusione sia stata espressamente contestata e smentita da
parte del destinatario del
provvedimento disciplinare".
2.2. Nell'accogliere tale censura, la Corte di cassazione
aveva evidenziato che mancava una
"effettiva motivazione sia sull'an che sull'intensità della
violazione disciplinare, con particolare
riferimento alla asserita divulgazione della memoria
difensiva....". Pertanto, il giudice di rinvio
aveva violato il dictum della sentenza rescindente,
omettendo l'accertamento e la valutazione
dell'effettiva diffusione all'esterno della memoria
difensiva dai contenuti asseritamente lesivi.
3. I motivi, che possono essere trattati congiuntamente in
quanto tra loro connessi, sono
infondati.
4. Occorre premettere che, in caso di ricorso per cassazione
avverso la sentenza del giudice di
rinvio fondato sulla deduzione della infedele esecuzione dei
compiti affidatigli con la precedente
pronuncia di annullamento, il sindacato della S.C. si
risolve nel controllo dei poteri propri del
suddetto giudice di rinvio, per effetto di tale affidamento
e dell'osservanza dei relativi limiti, la
cui estensione varia a seconda che l'annullamento stesso sia
avvenuto per violazione di norme
di diritto ovvero per vizi della motivazione in ordine a
punti decisivi della controversia, in quanto, nella prima
ipotesi, egli è tenuto soltanto ad uniformarsi al principio
di diritto
enunciato nella sentenza di cassazione, senza possibilità di
modificare l'accertamento e la
valutazione dei fatti, già acquisiti al processo, mentre,
nel secondo caso, la sentenza
rescindente -indicando i punti specifici di carenza o di
contraddittorietà della motivazione-
non limita il potere del giudice di rinvio all'esame dei
soli punti indicati, da considerarsi come
isolati dal restante materiale probatorio, ma conserva al
giudice stesso tutte le facoltà che gli
competevano originariamente quale giudice di merito,
relative ai poteri di indagine e di
valutazione della prova, nell'ambito dello specifico capo
della sentenza di annullamento.
In
quest'ultima ipotesi, poi, il giudice di rinvio, nel
rinnovare il giudizio, è tenuto a giustificare il
proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente od
implicitamente enunciato nella
sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza
del discorso giustificativo, evitando
di fondare la decisione sugli stessi elementi del
provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con
necessità, a seconda dei casi, di eliminare le
contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi
riscontrati (Cass. n. 13719 del 2006, Cass. n. 2606 del
2009, n. 15692 del 2009, n. 12102 del
2014).
5. Nel caso in esame, l'annullamento disposto dalla sentenza
rescindente ha riguardato
unicamente un vizio di motivazione. Non risultano enunciati,
in relazione alle questioni di
diritto all'epoca sottoposte a questa Corte di legittimità
dall'allora ricorrente, principi di diritto
cui il giudice di rinvio dovesse uniformarsi, pur nel
rinnovato accertamento dei fatti che gli era
demandato.
6. Questa Corte aveva evidenziato come la sentenza all'epoca
impugnata mancasse di
un'effettiva motivazione sia sull'esistenza che
sull'intensità della violazione disciplinare, con
particolare riferimento alla asserita divulgazione della
memoria difensiva e al pregiudizio
all'immagine che sarebbe derivato per l'amministrazione. In
particolare, nessuna motivazione
era stata spesa con riguardo all'assunto difensivo secondo
cui la missiva fu di fatto inviata solo
ad alcuni (e non a tutti) i destinatari. L'omissione di
esame della tesi difensiva inficiava, di per
sé, la sentenza impugnata.
7. La Corte di merito, nel rinnovare l'accertamento e la
valutazione dei fatti, ha ritenuto che
non vi fosse alcuna necessità di nuove indagini, essendo
sufficienti gli elementi già acquisiti
agli atti ai fini di un apprezzamento complessivo della
vicenda, in relazione alla pronuncia da
emettere in sostituzione di quella cassata.
Ha difatti
osservato che, una volta espunto il vizio
che inficiava la sentenza cassata (il mancato accertamento
di quanti, tra i soggetti indicati
nell'intestazione della missiva, fossero stati effettivi
destinatari del documento), le risultanze
processuali portavano a ritenere acquisito al processo "il
fatto storico di tale invio al Prefetto al Procuratore della
Repubblica, alla Corte dei Conti, a due consiglieri
comunali, a rappresentati
sindacali territoriali esterni e interni, oltre che al
naturale destinatario segretario comunale in
qualità di responsabile del procedimento disciplinare".
Alla
stregua di tale accertamento di
fatto, rinnovato in esecuzione del dictum della sentenza
rescindente, ha ritenuto dimostrata
sia l'entità della diffusione, sia la lesività insita nella
circostanza che i fatti ivi descritti erano
risultati del tutto infondati e tanto rivelava l'effettivo
intento di discredito perseguito dal
ricorrente.
8. Non risulta che questioni sollevate in fasi anteriori del
giudizio di merito fossero state
portate all'esame della Corte di cassazione per
l'enunciazione di regulae iuris che avrebbero
dovuto orientare la valutazione del giudice di merito. In
particolare, quanto al thema
decidendum della "diffusione" della memoria, non risulta che
avessero formato oggetto della
sentenza rescindente questioni, pure astrattamente
rilevabili dal ricorrente, quali l'inidoneità
ad integrare illecito disciplinare di un comportamento
consistente nell'inoltro della memoria
difensiva, sostanzialmente equivalente ad un esposto, ad
organi istituzionali preposti al
controllo dell'operato dell'ente locale.
Difatti, pur avendo
il ricorso introduttivo (trascritto in
atti, punti III b e III c) argomentato che un qualsiasi
scritto proveniente da un dipendente
pubblico, sia esso un esposto o un atto redatto a scopi
difensivi, avente ad oggetto
segnalazioni relative all'operato della Pubblica
Amministrazione e indirizzato agli organi pubblici
istituzionalmente preposti ai doverosi controlli sulla
correttezza di tale operato, non può
costituire oggetto di contestazione disciplinare, potendo
assumere tale valenza solo per la
parte in cui vengano usate, nei confronti di determinati
soggetti, espressioni diffamatorie o di
cui si accerti il contenuto calunnioso, non risulta che il
successivo sviluppo processuale abbia
consentito di ritenere coltivata la censura, collaterale a
quella della estensione della diffusione,
fino a pervenire alla sede di legittimità.
La sentenza
rescindente rivela l'assenza di enunciati
indicativi della sottoposizione a questa Corte del suddetto
tema.
9. Pur dovendo essere evidenziato -incidentalmente- che
è
doverosa la cooperazione del
pubblico dipendente per l'emersione di fatti illeciti o
comunque illegittimi, di interesse
collettivo, posti in essere dalla pubblica amministrazione
(l'art. 54-bis del D.Lgs. n. 165/2001,
successivamente introdotto dalla legge anticorruzione n. 190
del 2012 e, da ultimo, modificato
dal d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in L. 11.08.2014,
n. 114, ha espressamente previsto,
al primo comma, che "fuori dei casi di responsabilità a
titolo di calunnia o diffamazione, ovvero
per lo stesso titolo ai sensi dell'art. 2043 del codice
civile", il pubblico dipendente che denuncia
"all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, o
all'Autorità nazionale anticorruzione...condotte
illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del
rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o
sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o
indiretta, avente
effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati
direttamente o indirettamente alla
denuncia"), nel caso in esame, il giudice di rinvio ha
tratto argomenti di convincimento dal
riscontro della palese infondatezza dei fatti denunciati.
Tale passaggio argomentativo -sul
quale la Corte territoriale ha fondato la prova indiziaria
dell'intento lesivo e dell'elemento
soggettivo della condotta- non è stato specificamente
censurato dall'odierno ricorrente. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati: il Tar boccia le tariffe al "ribasso".
Anche il Tar Lecce contro le tariffe "low cost". I servizi
legali non possono affidarsi con aggiudicazione al massimo
ribasso.
Altra stoccata
contro i Comuni che prevedono affidamenti di servizi legali
agli avvocati con retribuzioni irrisorie, giudicate dai
legali offensive della professione e dell'attività svolta.
Va sospeso il bando comunale che affida i servizi legali con
il criterio del massimo ribasso. Il TAR Puglia-Lecce, Sez.
II, ha accolto con l'ordinanza
19.01.2017 n. 21 il ricorso promosso, tra
l'altro, dall'Ordine degli Avvocati di Lecce avanzato contro
il Comune di Racale.
Con delibera il summenzionato Comune aveva bandito qualche
mese fa una gara per l'affidamento del servizio
giuridico-legale a un unico avvocato. L'attività avrebbe
riguardato tutti i servizi legali, compresi consulenza e
assistenza anche giudiziale: la base d'asta, pari a 18.000
euro, prevedeva aggiudicazione a mezzo del criterio del
massimo ribasso.
Nonostante la partecipazione di pochi professionisti, l'asta
di era conclusa con un importo vittorioso di poco più di
7mila euro, meno della metà dell'importo iniziale. Un evento
che ha portato all'impugnazione degli atti di gara, come
reazione non solo del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati e
della Camera Amministrativa Distrettuale Avvocati di Lecce,
Brindisi Taranto, ma anche dell'Aiga sezione di Lecce.
Il TAR, accogliendo l'istanza, evidenzia che i contenuti del
servizio in questione non sembrano rientrare nelle ipotesi
disciplinate dall'art. 95, comma 4, del d.lgs. 50/2016, a
norma del quale il criterio del minor prezzo può essere
utilizzato soltanto:
a) per i lavori di importo pari o inferiore a 1.000.000 di euro,
tenuto conto che la rispondenza ai requisiti di qualità è
garantita dall'obbligo che la procedura di gara avvenga
sulla base del progetto esecutivo;
b) per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate
o le cui condizioni sono definite dal mercato;
c) per i servizi e le forniture di importo inferiore alla soglia di
cui all'articolo 35, caratterizzati da elevata ripetitività,
fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico
o che hanno un carattere innovativo.
Per effetto dell'accoglimento della richiesta misura
cautelare, il TAR provvede a sospendere i provvedimenti
impugnati, fissando apposita data per la trattazione di
merito del ricorso (commento tratto da
www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione
dell'efficacia:
- della delibera G.C. n. 143 del 30.06.2016;
- della determina dirigenziale n. 745/RG del 2.11.2016;
- del bando di gara per l'affidamento del servizio
giuridico-legale per il Comune di Racale del 02.11.2016 e
dell'allegato disciplinare di onori, pubblicato sull'Albo
Pretorio del Comune di Racale dal 02.11.2016 al 23.11.2016;
- dell'aggiudicazione provvisoria del 24.11.2016 a favore
dell'avv. Da.Sa., pubblicato sull'Albo Pretorio il
24.11.2016;
- della determina n. 823/RG del 30.11.2016;
- di ogni atto connesso, presupposto e/o consequenziale.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di
Racale;
Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del
provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla
parte ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 18.01.2017 la
dott.ssa Cl.La. e uditi per le parti i difensori avv.ti
L.An., V.Ca., V.Pe., G.Mi. e L.Ca., quest'ultima in
sostituzione dell'avv. G.Na., per i ricorrenti e avv. D.Ch.,
in sostituzione dell'avv. F.S.Ma., per il Comune;
Considerato:
- che il ricorso non può essere considerato tardivo in quanto i
termini per l’impugnazione decorrono dall’ultimo giorno di
pubblicazione del bando;
- che i contenuti del servizio in questione non
sembrano rientrare nelle ipotesi disciplinate dall’art. 95,
comma 4, del d.lgs. 50/2016.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce -
Sezione Seconda accoglie la richiesta
misura cautelare e, per l'effetto, sospende i provvedimenti
impugnati.
Fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza
pubblica del 29.03.2017.
Rinvia al determinazione sulle spese alla fase di merito. |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sull'interpretazione dell’art. 53, c. 6, del D.Lgs. n. 165/2001 al fine di decidere se gli ingegneri dipendenti
pubblici a tempo pieno rientrino o meno tra i soggetti
contemplati da tale norma, a cui eccezionalmente è
consentito lo svolgimento della libera professione.
In linea generale, ex art. 60 D.P.R.
10.01.1957 n. 3, i dipendenti pubblici non possono infatti
esercitare alcuna professione, salvo che gli stessi
intrattengano un “rapporto di lavoro a tempo parziale con
prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento
di quella a tempo pieno”, o per l’appunto, a fronte di
“categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da
disposizioni speciali lo svolgimento di attività
libero-professionali” (c. 6, art. 53 cit.).
---------------
Il tenore letterale dell’art. 62 del R.D. 23.10.1925 n. 2537
(“Regolamento per le professioni d'ingegnere e di
architetto”) non consente di ritenere che la stesso
prefiguri, in favore degli ingegneri, la possibilità di
esercitare liberamente la professione, qualora siano
dipendenti pubblici, limitandosi viceversa a sottolineare
che, in tale “eventuale” caso, gli stessi siano “soggetti
alla disciplina dell’ordine” (c. 1), secondo le modalità
prefigurate nello stesso R.D..
Al contrario, i commi successivi, perfettamente in linea con
la normativa generale dettata per i dipendenti pubblici
(D.P.R. n. 3/1957 e D.Lgs. n. 165/2001), prevedono che gli
ingegneri “non possono esercitare la libera professione ove
sussista alcuna incompatibilità preveduta da leggi,
regolamenti generali o speciali”, e che “per l'esercizio
della libera professione è in ogni caso necessaria espressa
autorizzazione”.
L’art. 62 R.D. n. 2537/1925, lungi dal derogare ai principi
generali contenuti nella normativa dettata in materia di
lavoro pubblico, si limita ad evidenziare che l’esercizio
della libera professione da parte di un dipendente pubblico
si configura in termini di eccezionalità, e che in tale
“eventuale” caso, espressamente individuato dal citato art.
53, c. 6, del D.Lgs. n. 165/2001 qualora il dipendente
pubblico abbia un rapporto di lavoro a tempo parziale,
l’attività libero-professionale vada esperita nel rispetto
della disciplina dell'ordine professionale.
---------------
In conclusione, il ricorrente, in quanto dipendente pubblico
con contratto di lavoro a tempo pieno, contrariamente a
quanto dallo stesso dichiarato, non apparteneva alle
categorie di cui all’art. 53, c. 6, del D.Lgs. n. 165/2001,
non potendo conseguentemente divenire affidatario
dell’incarico di collaudo oggetto del presente giudizio, in
conformità a quanto affermato dall’Autorità di Vigilanza sui
Contratti Pubblici in una fattispecie analoga a quella per
cui è causa, e come indirettamente confermato dall’art. 24,
c. 3, D.Lgs. 18.04.2016 n. 50, per il quale solo i pubblici
dipendenti “che abbiano un rapporto di lavoro a tempo
parziale” possono espletare, al di fuori dell'ambito
territoriale dell'ufficio di appartenenza, incarichi
professionali per conto di pubbliche amministrazioni.
---------------
Il ricorrente, nell’anno 2014, ha presentato una domanda al
Comune di Milano, per l’inserimento nell’elenco dei
professionisti idonei all’affidamento di incarichi di
collaudo, per importi inferiori ai 100.000,00 Euro,
dichiarando di rivestire la qualifica di Dirigente Ingegnere
presso la Provincia di Alessandria, e di appartenere alle
casistiche di cui all’art. 53, c. 6, del D.Lgs. n. 165/2001.
In occasione della procedura oggetto del presente ricorso,
il ricorrente è risultato aggiudicatario, sebbene
successivamente, con i provvedimenti impugnati nel presente
giudizio, il Comune di Milano ha revocato l’aggiudicazione
in suo favore, oltre ad escutere la cauzione provvisoria
dallo stesso versata, ed alla segnalazione all’Autorità
Nazionale Anticorruzione.
...
Ai fini della soluzione della presente controversia, il
Collegio è chiamato ad interpretare l’art. 53, c. 6, del
D.Lgs. n. 165/2001, al fine di decidere se, come sostenuto
dal ricorrente, nella sua domanda di partecipazione, e nel
corso del presente giudizio, gli ingegneri dipendenti
pubblici a tempo pieno rientrino o meno tra i soggetti
contemplati da tale norma, a cui eccezionalmente è
consentito lo svolgimento della libera professione.
In linea generale, ex art. 60 D.P.R. 10.01.1957 n. 3, i
dipendenti pubblici non possono infatti esercitare alcuna
professione, salvo che gli stessi intrattengano un “rapporto
di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non
superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno”,
o per l’appunto, a fronte di “categorie di dipendenti
pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo
svolgimento di attività libero-professionali” (c. 6,
art. 53 cit.).
Secondo il ricorrente, premesso che lo stesso presta
servizio a tempo pieno, l’art. 62 del R.D. 23.10.1925 n.
2537 (“Regolamento per le professioni d'ingegnere e di
architetto”), configurerebbe una delle disposizioni
speciali, richiamate dal citato c. 6 dell’art. 53, che
consentirebbe eccezionalmente agli ingegneri di svolgere
l’attività libero-professionale.
II.2) Osserva tuttavia il Collegio che, in primo luogo, il
tenore letterale di detta norma non consente di ritenere che
la stessa prefiguri, in favore degli ingegneri, la
possibilità di esercitare liberamente la professione,
qualora siano dipendenti pubblici, limitandosi viceversa a
sottolineare che, in tale “eventuale” caso, gli
stessi siano “soggetti alla disciplina dell’ordine”
(c. 1), secondo le modalità prefigurate nello stesso R.D..
Al contrario, i commi successivi, perfettamente in linea con
la normativa generale dettata per i dipendenti pubblici
(D.P.R. n. 3/1957 e D.Lgs. n. 165/2001), prevedono che gli
ingegneri “non possono esercitare la libera professione
ove sussista alcuna incompatibilità preveduta da leggi,
regolamenti generali o speciali”, e che “per
l'esercizio della libera professione è in ogni caso
necessaria espressa autorizzazione”.
L’art. 62 R.D. n. 2537/1925 invocato dal ricorrente, lungi
dal derogare ai principi generali contenuti nella normativa
dettata in materia di lavoro pubblico, si limita quindi ad
evidenziare che l’esercizio della libera professione da
parte di un dipendente pubblico si configura in termini di
eccezionalità, e che in tale “eventuale” caso,
espressamente individuato dal citato art. 53, c. 6, del
D.Lgs. n. 165/2001 qualora il dipendente pubblico abbia un
rapporto di lavoro a tempo parziale, l’attività libero
professionale vada esperita nel rispetto della disciplina
dell'ordine professionale.
In conclusione, ritiene il Collegio che il ricorrente, in
quanto dipendente pubblico con contratto di lavoro a tempo
pieno, contrariamente a quanto dallo stesso dichiarato, non
apparteneva alle categorie di cui all’art. 53, c. 6, del
D.Lgs. n. 165/2001, non potendo conseguentemente divenire
affidatario dell’incarico di collaudo oggetto del presente
giudizio, in conformità a quanto affermato dall’Autorità di
Vigilanza sui Contratti Pubblici in una fattispecie analoga
a quella per cui è causa (determinazione
25.02.2009 n. 2), e come indirettamente
confermato dall’art. 24, c. 3, D.Lgs. 18.04.2016 n. 50, per
il quale solo i pubblici dipendenti “che abbiano un
rapporto di lavoro a tempo parziale” possono espletare,
al di fuori dell'ambito territoriale dell'ufficio di
appartenenza, incarichi professionali per conto di pubbliche
amministrazioni.
Il ricorso va pertanto respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 09.01.2017 n. 35 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
APPALTI: Convegno
gratuito dal titolo:
Tradizione e innovazione nella disciplina dei contratti
pubblici (Brescia, venerdì 10.02.2017
-
Auditorium di Santa Giulia, Via Piamarta n. 4). |
UTILITA' |
APPALTI:
Ritardi nei pagamenti per le transazioni commerciali: nuovo
tasso di interesse 01/01/2017-30/06/2017 (link a
www.lavoripubblici.it).
---------------
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 18 del 23.01.2017 è stato
pubblicato il Comunicato del Ministero dell'Economia e delle
Finanze che determina la percentuale degli interessi legali
di mora da applicare per ritardati pagamenti nelle
transazioni commerciali, al netto della maggiorazione ivi
prevista (8 punti percentuali), ai sensi dell'art. 5, comma
2, del Decreto Legislativo 09.10.2002, n. 231 così come
modificato dal Decreto Legislativo 09.11.2012, n. 192.
Il saggio d'interesse per il semestre 01.01.2017-30.06.2017
è stato fissato allo 0,00% e, quindi, identico a quello del
semestre precedente. Sommato alla maggiorazione prevista di
8 punti,
il tasso da applicare risulta
pertanto dell'8,00%.
(...continua). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Installazione “termovalvole” e fonti rinnovabili
– decreto milleproroghe e situazione normativa regionale
(ANCE di Bergamo,
circolare 20.01.2017 n. 21). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: L'ACCORPAMENTO COATTO (funzioni comunali) È
INCOSTITUZIONALE (ASMEL,
nota 20.01.2017).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
ESTRATTI RASSEGNA STAMPA di martedì 24.01.2017 (ASMEL). |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: In vigore il DM concernente le categorie
superspecialistiche (ANCE di Bergamo,
circolare 19.01.2017 n. 19). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Oggetto: Legge di stabilità 2017 (L. 232/2016) -
Principali misure di natura fiscale (ANCE di Bergamo,
circolare 13.01.2017 n. 18).
---------------
Sommario:
1. PROROGA AL 31.12.2017 DEL CD. “BONUS RISPARMIO
ENERGETICO” DEL 65% E NOVITÀ IN MERITO AGLI INTERVENTI SU
PARTI COMUNI CONDOMINIALI”
2. PROROGA AL 31.12.2017 DELLA MISURA POTENZIATA AL 50% DEL
CD. “BONUS RISTRUTTURAZIONI” E DEL CD. “BONUS MOBILI”
3. PROROGA QUINQUENNALE E RIMODULAZIONE DEL CD. “SISMA
BONUS”
4. PROROGA E POTENZIAMENTO DEL “BONUS ALBERGHI”
...
12. NOVITÀ IN TEMA DI ACE (AIUTO ALLA CRESCITA ECONOMICA)
...
16. RINVIO AL 2018 DELL’AUMENTO DELLE ALIQUOTE IVA
...
18. LAVORI CONDOMINIALI: TRACCIABILITA’ DEI CORRISPETTIVI E
VERSAMENTO RITENUTE
19. MODIFICHE ALLA DISCIPLINA FISCALE DEI TRASFERIMENTI
IMMOBILIARI NELL’AMBITO DELLE VENDITE GIUDIZIARIE |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI: G.U.
25.01.2017 n. 20 "Definizione degli indirizzi generali di
pubblicazione degli avvisi e dei bandi di gara, di cui agli
articoli 70, 71 e 98 del decreto legislativo 18.04.2016, n.
50" (Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti,
decreto 02.02.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 24.01.2017 n. 19, "Approvazione delle Linee guida,
predisposte dall’ISPRA e dalle ARPA/APPA, relativamente alla
definizione delle pertinenze esterne con dimensioni
abitabili" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 07.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 24.01.2017,
"Aggiornamento delle disposizioni in merito alla
disciplina per l’efficienza energetica degli edifici e al
relativo attestato di prestazione energetica, in
sostituzione delle disposizioni approvate con i decreti n.
6480/2015 e n. 224/2016" (decreto
D.U.O. 12.01.2017 n. 176).
---------------
Si legga anche:
- B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 26.01.2017, "D.d.u.o.
12.01.2017 n. 176 - «Aggiornamento delle disposizioni in
merito alla disciplina per l’efficienza energetica degli
edifici e al relativo attestato di prestazione energetica in
sostituzione delle disposizioni approvate con i decreti n.
6480/2015 e n. 224/2016» pubblicato sul bollettino serie
ordinaria n. 4 del 24.01.2017" (Errata
corrige). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 4 del 23.01.2017, "Approvazione
contrassegni Identificativi delle strutture ricettive non
alberghiere" (deliberazione
G.R. 16.01.2017 n. 6117). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 13.01.2017 n. 10, suppl. ord. n. 3/L, "Disciplina di
attuazione della direttiva 2014/94/UE del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 22.10.2014, sulla realizzazione di una
infrastruttura per i combustibili alternativi" (D.Lgs.
16.12.2016 n. 257).
---------------
Di particolare interesse si legga:
●
Art. 15. - Misure per agevolare la realizzazione di punti di
ricarica |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 1 del
04.01.2017, "Direzione generale Sicurezza, protezione
civile e immigrazione - Avviso pubblico per l’acquisizione
di disponibilità al conferimento dell’incarico di esperto da
nominare nella «Commissione Regionale in materia di opere o
di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche»" (comunicato
regionale 22.12.2016 n. 168). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G. Gardini,
Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di
rendere oscure le cose semplici
(11.01.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. FOIA 2016: nasce il diritto
all’informazione amministrativa. – 2. L’errore di voler
disciplinare congiuntamente due forme di accesso diverse. –
3. La tutela dimezzata dei contro-interessati. – 4.
L’incerto ruolo della difesa civica. – 5. Le soluzioni
possibili. A) Riscrivere la legge. – 5.1. Le soluzioni
possibili. B) Interpretare le norme seguendo la ratio dei
vari istituti. – 6. La convivenza tra accesso documentale (o
difensivo) e accesso civico. |
APPALTI:
Guida alla redazione dei documenti per la trasparenza e
tracciabilità della fase esecutiva dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture - (Artt. 80 e 105 D.Lgs. 50/2006
- Art. 3 Legge 136/2010) (ITACA, dicembre 2016).
---------------
Adeguata alle nuove disposizioni del D.lgs.
50/2016 la guida elaborata da ITACA recante “Guida alla
redazione dei documenti per la trasparenza e tracciabilità
della fase esecutiva dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture”.
Nel corso della seduta del 21.12.2016 il Consiglio
Direttivo di ITACA ha approvato l’adeguamento alla innovata
disciplina dei contratti pubblici (D.lgs. 50/2016), della
“Guida alla redazione dei documenti per la Trasparenza e
Tracciabilità (T&T) della fase esecutiva dei contratti
pubblici di lavori servizi e forniture”, già adottata dalla
Conferenza delle Regioni e delle Province autonome il 19.02.2015.
Il documento, redatto nell’ambito del Gruppo
di lavoro interregionale “Legalità e Trasparenza" di ITACA,
coordinato dalla Regione Campania ed a cui partecipano anche
organismi di rappresentanza degli operatori economici
(associazioni delle imprese, sindacati e consigli nazionale
degli ordini professionali), sarà a breve supportato anche
da uno specifico strumento informatico.
La guida contiene
alcuni allegati tecnici contrattuali utili a promuovere
buone prassi di trasparenza per le amministrazioni
aggiudicatrici nella gestione della fase esecutiva di un
contratto pubblico, per la quale i rischi della corruzione e
del condizionamento della criminalità organizzata sono
storicamente accertati e si esprimono con maggiore forza e
frequenza, in special modo nella gestione dei subappalti e
dei subcontratti.
Più in particolare, le indicazioni
proposte vogliono perseguire un efficace monitoraggio
sull’applicazione delle norme vigenti nella fase esecutiva,
definendo nel dettaglio metodologie e procedure per la
Trasparenza e Tracciabilità del flusso di denaro attinente
al contratto (16.01.2017). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI: Le
spese di viaggio sono senza paletti.
La sezione autonomie: non si tratta di costi di missione.
Le spese di viaggio degli amministratori locali che siano
strettamente necessarie all'esercizio del proprio mandato
non sono spese di missione.
L'indicazione fornita dalla Corte dei conti – sezione delle
autonomie con la
delibera 29.12.2016 n. 38 agevola il compito
degli enti nella costruzione dei bilanci di previsione: gli
oneri in questione, infatti, non devono più essere
conteggiati fra quelli soggetti a limitazioni quantitative.
I giudici contabili hanno chiarito che le spese di viaggio
da rimborsare a sindaci, assessori e consiglieri possono
rientrare in due tipologie diverse. Da un lato, vi sono
quelle sostenute per recarsi dal proprio luogo di residenza
a quello in cui essi esercitano il proprio mandato (art. 84,
comma 3, del Tuel): esse non si configurano come spese di
missione, bensì come un onere finalizzato all'effettivo
esercizio costituzionalmente tutelato della funzione e
quindi esulano dai limiti di spesa di cui all'art. 6, comma
12, del dl 78/2010, che pone un importo massimo pari al 50%
di quello sostenuto nel 2009.
La pronuncia della sezione autonomie, inoltre, ammette anche
la possibilità di quantificare i rimborsi in via
forfettaria, parametrandoli ad un quinto del prezzo di un
litro di benzina moltiplicato per i chilometri percorsi,
come previsto dell'art. 77-bis, comma 13, del dl 112/2008.
Ovviamente, non mancano i «paletti»: occorre che vi
sia la «necessità», da parte dell'amministratore, di
sostenere tali oneri, necessità che deve potersi qualificare
come tale sia soggettivamente che oggettivamente. Sotto il
profilo soggettivo, essa ricorre quando la presenza presso
la sede degli uffici sia inerente all'effettivo svolgimento
di funzioni proprie o delegate, come la partecipazione alle
sedute degli organi esecutivi e assembleari. In altri
termini, è da ritenersi necessaria quella presenza
qualificata da un preesistente obbligo giuridico
dell'interessato che non gli consentirebbe una scelta
diversa per l'esercizio della propria funzione, salvo il non
esercizio della funzione stessa.
È da escludersi, pertanto, la rimborsabilità delle spese di
viaggio sostenute per le presenze in ufficio
discrezionalmente rimesse alla valutazione soggettiva
dall'amministratore locale (per esempio, in giorni diversi
da quelli delle sedute degli organi di appartenenza), in
quanto tali costi devono considerarsi coperti dall'indennità
di funzione.
Con riguardo al profilo oggettivo, deve considerarsi
correttamente motivata l'autorizzazione rilasciata dal
soggetto competente a norma dello statuto o dei regolamenti
dell'ente locale all'uso del mezzo proprio in assenza di
mezzi di trasporto pubblico idonei, ovvero, quando l'orario
degli stessi non ne consenta la fruizione in tempi
conciliabili con l'espletamento delle incombenze connesse al
mandato, nonché ogni volta che l'uso del mezzo di trasporto
privato sia accertato come economicamente più conveniente o
il solo possibile.
Ancora più stretti i limiti di rimborsabilità per le spese
di viaggio sostenute in caso di missioni istituzionali (art.
84, comma 1, del Tuel): in tal caso, è possibile rifondere i
costi in misura non superiore agli oneri che l'ente pubblico
avrebbe sostenuto per le sole spese di trasporto pubblico
(articolo ItaliaOggi del 17.01.2017). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
privacy prevale sul Foia. Se ci sono dati sensibili accesso
generalizzato ko. FREEDOM OF
INFORMATION ACT/ Lo si desume dalle linee guida dell'Anac.
La privacy batte il Foia. Se ci sono dati sensibili
l'accesso generalizzato è ko. Ma anche per i dati di minori
o dati delicati la strada è sbarrata. Il consiglio è di
consegnare i documenti con omissis sui dati identificativi.
È quanto desumibile dalle linee guida dell'Autorità
nazionale anticorruzione, Anac, approvate con
determinazione 28.12.2016 n. 1309 sull'accesso
civico generalizzato (articolo 5, comma 2, dlgs 33/2013,
modificato dal dlgs 97/2013), e cioè su un istituto che
sulla carta sembrerebbe avere messo a disposizione di tutti
scaffali e memorie informatiche delle p.a.
Ma non è proprio così.
Se arriva a un ente pubblico la richiesta di accesso civico
generalizzato, l'ente deve valutare caso per caso se non
prevalga il diritto alla privacy delle persone nominate nei
documenti o nei dati richiesti. In ogni caso il terzo ha il
diritto di dire la sua nel corso del procedimento di
accesso.
Le tutele per la privacy della persona fisica sono, dunque,
di due tipi, procedurali e sostanziali: procedurali, perché
deve essere necessariamente avvisata di una richiesta di
accesso che la riguarda e ha dieci giorni di tempo per
presentare una motivata opposizione; sostanziali, perché la
privacy (delle persone fisiche) può costituire una causa
ostativa all'accesso. Vediamo le indicazioni delle Linee
guida dell'Anac. La regola generale dice che se riceve
istanze di accesso generalizzato aventi a oggetto dati e
documenti relativi a (o contenenti) dati personali, l'ente
se la conoscenza da parte di chiunque del dato personale
richiesto possa provocare un pregiudizio concreto alla
protezione dei dati personali.
E qui abbiamo la prima indicazione operativa: se c'è
pericolo concreto per la privacy, l'istanza di accesso
civico va respinta, a meno che non si consideri di poterla
accogliere, oscurando i dati personali eventualmente
presenti e le altre informazioni che possono consentire
l'identificazione, anche indiretta, del soggetto
interessato. Quindi non basta bianchettare il nome della
persona fisica, ma bisogna fare in modo che non sia
altrimenti identificabile sulla base delle indicazioni
residue mantenute nel testo del documento. Quindi sì
all'accesso con gli omissis: con questa modalità non bisogna
nemmeno attivare la pesante procedura di coinvolgimento del
soggetto controinteressato.
Poi si ricordi che l'accesso generalizzato serve, per legge,
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico: se l'accesso civico ha per oggetto documenti
contenenti informazioni relative a persone fisiche non
necessarie al raggiungimento degli scopi di legge (e allora,
per inciso, bisognerebbe chiedere la motivazione a chi fa
l'istanza, anche se il dlgs 33/2013 dice il contrario),
oppure informazioni personali di dettaglio che risultino
comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'ente
destinatario della richiesta dovrebbe accordare l'accesso
parziale ai documenti, oscurando i dati personali.
Se, poi, bisogna valutare il rischio concreto per la privacy
degli individui (e questo capita quando non si possano
consegnare le copie con gli omissis), l'ente (per dire sì o
no) deve considerare: future azioni da parte di terzi, o
possibilità di discriminazioni, oppure altri svantaggi
personali o sociali; l'eventualità di minacce,
intimidazioni, ritorsioni o turbative al regolare
svolgimento delle funzioni pubbliche o delle attività di
pubblico interesse; eventuali furti di identità o di
creazione di identità fittizie attraverso le quali
esercitare attività fraudolente.
Si deve tenere conto anche delle ragionevoli aspettative
dell'interessato e si deve far riferimento a diversi
parametri: natura dei dati personali; ruolo ricoperto nella
vita pubblica, la funzione pubblica esercitata o l'attività
di pubblico interesse svolta dalla persona cui si
riferiscono i dati.
Dunque la presenza di dati sensibili o giudiziari può
rappresentare un indice della sussistenza del predetto
pregiudizio: in linea di principio, quindi, sostiene l'Anac
andrebbe rifiutato l'accesso generalizzato a tali
informazioni, potendo invece valutare diversamente, caso per
caso, situazioni particolari quali, ad esempio, quelle in
cui le informazioni siano state deliberatamente rese note
dagli interessati, anche attraverso loro comportamenti in
pubblico. Lo stesso vale per altri tipi di dati come i dati
genetici, biometrici, di profilazione, sulla localizzazione
o sulla solvibilità economica.
Cautele maggiori sono richieste operi dati dei minorenni.
Inoltre va pensato al fatto che un danno è più probabile per
informazioni sulle situazioni personali, familiari,
professionali, patrimoniali di persone fisiche che non
ricoprono necessariamente un ruolo nella vita pubblica o non
esercitano funzioni pubbliche o attività di pubblico
interesse.
Verrebbe, a questo punto, da chiedersi a che serve l'accesso
civico generalizzato: o assomiglia all'accesso tradizionale
ai documenti (stessi limiti) anzi più limitato, oppure
riguarda dati anonimi o anonimizzati
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Chiarimenti in merito all’applicabilità dell’istituto del
soccorso istruttorio ai casi di mancata presentazione,
incompletezza o altre irregolarità relative ai patti di
integrità di cui all’art. 1, comma 17, l. n. 190/2012 -
richiesta di parere.
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Mancata presentazione, incompletezza o altre irregolarità
relative ai patti di integrità di cui all’art. 1, comma 17,
l. n. 190/2012 – soccorso istruttorio – ammissibilità.
I principi affermati dall’Autorità nella
determinazione n. 1/2015 e nella delibera n. 227/2016, in
ordine alla legittimità della prescrizione, a pena di
esclusione, dell’accettazione delle condizioni contrattuali
contenute nella documentazione di gara, tra cui gli obblighi
in materia di contrasto alle infiltrazioni criminali negli
appalti previsti nell’ambito di protocolli di legalità/patti
di integrità, possono ritenersi validi anche in vigenza del
d.lgs. 50/2016.
La carenza della dichiarazione di accettazione del patto di
integrità o la mancata produzione dello stesso debitamente
sottoscritto dal concorrente possono considerarsi
regolarizzabili attraverso la procedura di soccorso
istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, del d.lgs. 50/2016,
con applicazione della sanzione pecuniaria stabilita dal
bando di gara.
Art. 83, comma 9, d.lgs. 50/2016
(Parere
sulla Normativa 21.12.2016 n. 1374 - rif. AG/54/16/AP - URCP
60/2016 - link a www.anticorruzione.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Consulenze
p.a. sono referenze. Scopo: più concorrenza. Vietato
chiedere servizi identici. Integrazioni dell'Anac in merito
alle linee guida sui servizi di ingegneria e architettura.
Più concorrenza negli appalti di servizi di ingegneria e
architettura; utilizzabili anche le referenze relative alla
redazione di varianti per le imprese e ai servizi di
supporto che non hanno dato luogo alla materiale redazione
di un progetto; vietata la richiesta di servizi identici.
Sono questi alcuni dei chiarimenti forniti dall'Autorità
nazionale anticorruzione con il
comunicato del Presidente 14.12.2016
Raffaele Cantone, depositato il 21
dicembre e reso pubblico il 23 dicembre.
Il comunicato contiene integrazioni alle linee guida 1/2016
sui servizi di ingegneria e architettura emesse a ottobre
scorso. L'Anac si sofferma in particolare
sull'utilizzabilità, come referenze, di alcune attività
svolte da progettisti anche nell'ambito di rapporti
privatistici con le imprese di costruzioni e con le
amministrazioni.
Uno dei punti di maggiore interesse riguarda il diverso
ambito applicativo della nozione di servizi di ingegneria e
architettura determinato dal passaggio dall'art. 252 del dpr
207/2010 all'articolo 3, comma 1, lettera vvvv), del nuovo
codice dei contratti pubblici.
L'Anac prende atto che la nozione del nuovo codice è più
ampia rispetto alla precedente di cui all'articolo 252
dell'abrogato regolamento e stabilisce che possono essere
spesi come requisiti di partecipazione «i servizi di
consulenza aventi ad oggetto attività accessorie di supporto
alla progettazione che non abbiano comportato la firma di
elaborati progettuali, quali ad esempio, le attività
accessorie di supporto per la consulenza specialistica
relativa agli ambiti progettuali strutturali e geotecnici».
Il comunicato pone però la condizione che «si tratti di
attività svolta nell'esercizio di una professione
regolamentata per la quale è richiesta una determinata
qualifica professionale, come indicato dall'art. 3 della
direttiva 2005/36/Ce, e purché l'esecuzione della
prestazione, in mancanza della firma di elaborati
progettuali, sia documentata mediante la produzione del
contratto di conferimento dell'incarico e delle relative
fatture di pagamento». Altrettanto utilizzabili in gara
anche «le prestazioni di ingegneria relative alle sole
verifiche strutturali e verifiche sismiche, in assenza di
progettazione».
Inoltre rientrano nelle prestazioni utilizzabili anche i
«servizi di supporto alla progettazione consistenti in
varianti predisposte dai progettisti indicati dalle imprese
di costruzioni nel caso di partecipazione ad appalti
integrati». Anche in questo caso occorre che l'intervento
svolto sia «formalizzato in un elaborato sottoscritto dal
progettista che intende avvalersene e che la stazione
appaltante attesti la variante, formalmente approvata e
validata, e il relativo importo».
Infine si specifica che l'importo dell'intervento svolto
«dovrà corrispondere alla somma degli importi incrementali,
riferiti alle categorie di lavori aggiuntive rispetto al
progetto posto a base di gara, ferma restando
l'inammissibilità delle offerte in aumento sull'importo a
base d'asta, ai sensi dell'art. 59, comma 4, lett. e), del
Codice».
L'Anac affronta anche il tema della richiesta di requisiti
più rigorosi rispetto a quelli previsti, per gli affidamenti
di importo inferiore a 100 mila euro, ammessi a condizione
che siano «rispettosi dei principi di proporzionalità e
ragionevolezza, non limitino indebitamente l'accesso alla
procedura di gara e siano giustificate da specifiche
esigenze imposte dal peculiare oggetto dell'appalto».
È ribadito, infine, il divieto di richiedere come requisiti
di capacità tecnico-professionale servizi identici a quelli
oggetto dell'affidamento
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Oggetto: Azienda Mobilità Trasporti s.p.a. di Verona –
Appalto per la progettazione esecutiva, i lavori e la
fornitura dei veicoli per la realizzazione di un sistema
filoviario a guida vincolata per la città di Verona -
possibilità di procedere ad una variante per la sostituzione
dei veicoli filoviari e per il conseguente adattamento delle
opere infrastrutturali - richiesta di parere.
---------------
Art. 132 del d.lgs. 163/2006 – varianti contrattuali.
La possibilità di procedere a varianti
contrattuali, nel caso contemplato dall’art. 132, comma 1,
lett. b), del Codice è subordinata alla sussistenza delle
seguenti circostanze: materiali, componenti e tecnologie
innovativi, non esistenti al momento della progettazione;
nuove tecnologie che determinano significativi miglioramenti
della qualità dell’opera o sue parti; utilizzo delle nuove
tecnologie che non altera l’impostazione progettuale (non
deve trattarsi di variante sostanziale); tale utilizzo non
comporta un aumento del costo.
L’accertamento della sussistenza dei presupposti
legittimanti il ricorso alla variante ex art. 132, comma 1,
lett. b) è demandato alla SA (per i lavori la norma fa
espresso riferimento al direttore dei lavori ed al rup);
resta fermo che, come chiarito dalla norma, non può esservi
alcun aumento di costo, posto che si tratta di una variante
finalizzata a consentire l’utilizzo di innovazioni
tecnologiche introdotte dopo la stipula del contratto, senza
alterarne l’impostazione originaria
(Parere
sulla Normativa 23.11.2016 n. 1203 - rif. AG 48/2016/AP
- link a www.anticorruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulle
opere «gratuite» decide la Pa. Non sempre gli interventi
eseguiti a proprie spese dai privati escludono l’obbligo di
gara.
Infrastrutture. Secondo l’interpretazione restrittiva dell’Anac
bisogna verificare l’assenza di interessi patrimoniali
dell’impresa.
Spetta alle amministrazioni pubbliche
valutare se l’opera pubblica che il privato è disponibile a
realizzare a proprie spese rappresenta un vero e proprio
atto di liberalità o se si tratta invece di una
controprestazione legata all’ottenimento di un’utilità. Una
distinzione importante da cui dipende il ricorso alla gara
per l’individuazione del soggetto che dovrà realizzare
l’intervento.
L’entrata in vigore del nuovo Codice appalti (il Dlgs
50/2016) sembrava aver definitivamente chiarito il tema, da
tempo dibattuto in dottrina e giurisprudenza, inerente
all’applicabilità o meno delle procedure ad evidenza
pubblica a fattispecie nelle quali un soggetto privato si
impegni a realizzare, a propria totale cura e spesa,
un’opera pubblica prevista da uno strumento urbanistico
(nella grafica sono riportate le pronunce più rilevanti).
Ma il
parere sulla normativa n. 763 del 16.07.2016 - rif. AG
25/2016/AP
dell'Anac ha riaperto la discussione e ha rimesso
all’amministrazione pubblica la valutazione sulla “natura”
dell’opera e sull’applicazione delle procedure di evidenza
pubblica.
Il nuovo Codice appalti
L’articolo 20 del nuovo Codice statuisce in modo chiaro che
«il Codice non si applica al caso in cui
un’amministrazione pubblica stipuli una convenzione con la
quale un soggetto pubblico o privato si impegni alla
realizzazione, a sua totale cura e spesa e previo
ottenimento di tutte le necessarie autorizzazioni, di
un’opera pubblica o di un suo lotto funzionale o di parte
dell’opera prevista nell’ambito di strumenti o programmi
urbanistici, fermo restando il rispetto dell’articolo 80».
La norma sembrava dunque aver superato la posizione espressa
mediante la
determinazione 02.04.2008 n. 4
dell’Autorità di vigilanza
sui contratti pubblici, secondo la quale, in caso di
convenzioni urbanistiche che prevedano la realizzazione di
opere pubbliche a cura e spese del privato, pertanto senza
scomputo del relativo valore dagli oneri di urbanizzazione,
la realizzazione stessa sarebbe comunque avvenuta «sulla
base di accordi convenzionali conclusi dallo stesso con
l’amministrazione per il raggiungimento di un proprio
interesse patrimoniale», con l’effetto che «si può
ritenere che le fattispecie …siano da ricondurre alla
categoria dell’appalto pubblico di lavori», da ciò
derivando, come corollario, che esse debbano essere affidate
secondo procedure ad evidenza pubblica.
Il parere dell’Anac
Chiamata a rispondere a un quesito della Regione Lombardia
relativo all’intenzione di un soggetto privato di
realizzare, a proprie spese, parte di un’infrastruttura di
carattere strategico secondo le previsioni dell’articolo 20
del Codice e senza quindi procedere a gara, l’Anac, con il
parere sulla normativa n. 763 del 16.07.2016 - rif. AG
25/2016/AP,
ha reintrodotto valutazioni che comportano un sensibile
contenimento della portata di innovativa dell’articolo 20.
Secondo l’Anac la disposizione non può trovare applicazione
se la convenzione riguarda la realizzazione di opere
pubbliche da parte del privato in cambio del riconoscimento
di una qualunque utilità, con conseguente carattere oneroso
della convenzione stessa.
In particolare, l’Autorità ha chiarito che il carattere
oneroso della prestazione sussiste in tutti i casi in cui, a
fronte di una prestazione, vi sia il riconoscimento di un
corrispettivo che può essere costituito, ad esempio, dal
riconoscimento del diritto di sfruttamento dell’opera
(concessione) o ancora mediante la cessione in proprietà o
in godimento di beni.
In tali casi, secondo la tesi di Anac, il privato, pur non
portando a scomputo il valore delle infrastrutture pubbliche
realizzate, eseguirebbe le opere al fine di raggiungere un
proprio interesse patrimoniale, il quale rappresenterebbe
dunque la causa del negozio giuridico.
L’Anac conclude sostenendo che il ricorso all’articolo 20
può giustificarsi solo se non sussiste in favore del
proponente alcuna controprestazione e l’operazione si
configura come un vero e proprio «atto di liberalità»
e «gratuità», e rimettendo alla stessa Regione
Lombardia l’accertamento circa la sussistenza dei suddetti
presupposti legittimanti il ricorso all’istituto di cui
all’articolo 20.
La situazione attuale
L’interpretazione piuttosto restrittiva adottata dall’Anac
nel parere relativo a uno degli articoli più rilevanti del
nuovo Codice, potrebbe però comportare problematiche in sede
applicativa.
In sostanza, è compito delle amministrazioni pubbliche
valutare, caso per caso, se l’opera pubblica che il privato
si dovesse rendere disponibile a realizzare a proprie cura e
spese rappresenti un vero e proprio atto di liberalità o se,
per contro, essa rappresenti sul piano eziologico la
controprestazione dovuta ai fini dell’ottenimento di una
utilità per il privato.
---------------
Applicazione entro i limiti delle
direttive Ue. I paletti. No a
interpretazioni più severe.
Qualunque
applicazione della normativa dovrà rispettare il divieto di
cosiddetto gold plating contenuto all’articolo 1
della legge delega 28.01.2016, n. 11, ossia il divieto di
introdurre o di mantenere livelli di regolazione superiori a
quelli richiesti dalle direttive comunitarie in materia.
Una ferma linea guida di cui le pubbliche amministrazioni
devono tener conto nell’applicazione dell’articolo 20 del
nuovo Codice alla luce di tutti i pareri sinora espressi in
merito.
Le amministrazioni non potranno cioè imporre lo svolgimento
di procedure di gara in modo acritico, a titolo
esemplificativo, riscontrando semplicemente che l’impegno a
realizzare infrastrutture pubbliche a spese dell’operatore
acceda ad una convenzione urbanistica per l’attuazione di
interventi privati, seppur connessi o comportanti variante
urbanistica.
Sull’articolo 20 del nuovo Codice appalti, anche il
Consiglio di Stato aveva evidenziato diversi punti critici
(poi richiamati nel parere dell’Anac).
Nel parere sullo schema del Dlgs (parere
01.04.2016 n. 855),
il supremo organo di consulenza giuridico-amministrativa
dello Stato, in merito alla sottrazione dell’ipotesi di
opera pubblica realizzata a cura e spese di un privato
dall’ambito di applicazione del Codice stesso, aveva
sottolineato come il legislatore avrebbe «quanto meno»
dovuto salvaguardare l’applicazione delle disposizioni sui
requisiti morali e di qualificazione richiesti per
realizzare un’opera pubblica.
Oltre a tale indicazione, il Consiglio di Stato aveva
rilevato che fattispecie di tal fatta (assunzione di opere
pubbliche a cura e spese dei privati) non necessariamente
sono connotate da liberalità o gratuità, essendovi ipotesi
in cui l’accollo dell’opera pubblica costituisce la
controprestazione del privato «a fronte dello scomputo di
oneri economici di urbanizzazione e costruzione di opere
private».
Il parere concludeva dunque nel ritenere che la norma fosse
eccessivamente generica e che richiedesse maggior
specificità quanto a finalità e modalità attuative.
In esito a tale parere, la norma è stata integrata con il
richiamo alle disposizioni del Codice sui requisiti morali,
ma non ha subito ulteriori specificazioni, se non quelle di
carattere interpretativo da ultimo dettate con il parere di
Anac.
Ebbene, a ben vedere, il testuale contenuto del parere del
Consiglio di Stato, nell’affermare che l’assunzione di opere
pubbliche a cura e spese dei privati non sia necessariamente
connotata da liberalità, ha fatto riferimento a una ipotesi
rispetto alla quale effettivamente non v’è dubbio circa la
sussistenza di una controprestazione e dunque circa la
necessità di affidamento dei lavori secondo procedure ad
evidenza pubblica.
La norma in discussione, tuttavia, pare, pur in modo
effettivamente non dettagliato, diretta a regolare
fattispecie diverse, in cui gli accordi tra amministrazione
e privato non prevedano lo scomputo del valore delle opere
pubbliche dagli oneri di urbanizzazione dovuti per le
costruzioni private.
In tale ottica, l’interpretazione da ultimo assunta da Anac
fissa limiti più restrittivi di quelli dettati dal parere
del nostro organo di consulenza giuridico-amministrativa
(articolo Il Sole 24 Ore del
23.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Niente controlli a 360°.
Verifiche limitate all'attività di governo.
Commissioni speciali per esaminare i problemi di
interesse del comune.
I cittadini di un comune, riunitisi in comitato, possono
chiedere la convocazione della Commissione garanzia e
controllo di un comune per verificare l'eventuale violazione
delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un
distributore di carburanti nel territorio comunale?
Per dirimere la questione occorrerebbe fare riferimento alle
disposizioni di legge o di regolamento, ovvero degli statuti
locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni
obbligatorie (previste per legge come, ad esempio, la
commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative
(come, le cd. commissioni consiliari permanenti ex art. 38
del Tuel n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva
composizione e il funzionamento si riconducono generalmente
alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle
richiamate previsioni statutarie e regolamentari.
Nel caso in esame, lo Statuto comunale si limita a stabilire
che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con
finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei
gruppi consiliari di opposizione, prevede la possibilità di
istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire
commissioni speciali per l'esame di problemi particolari,
demandando al Consiglio la composizione, l'organizzazione,
le competenze, i poteri e la durata.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni
speciali e le commissioni di inchiesta; inoltre, dispone che
le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo
«effettuano verifiche sull'attività di governo, sulla
programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui
risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia
potrebbero considerarsi, così come sostenuto da una parte
della dottrina, una specie del medesimo genere delle
commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla
circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44
del dlgs n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si
concretizza nell'affidamento della presidenza della
commissione permanente ad un consigliere dell'opposizione,
una volta costituita, l'attività istituzionale di tale
commissione segue la dinamica delle altre commissioni
permanenti, nel rispetto comunque delle competenze
amministrative demandate previamente agli Uffici comunali.
Considerato che lo Statuto ed il regolamento hanno previsto
la possibilità di istituire anche commissioni speciali con
il compito di approfondire «particolari questioni o problemi
che interessino il comune», la fattispecie relativa alla
presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra
incidere in particolare sulla competenza di tali organismi,
dovendo limitarsi l'attività della commissione garanzia e
controllo, alle verifiche sull'attività di governo
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Costituzione di un nuovo gruppo consiliare. Gruppo misto.
1) La materia dei gruppi consiliari, ai
sensi dell'art. 38, comma 2, del TUEL, è disciplinata dal
regolamento sul funzionamento del consiglio comunale 'nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto', essendo
riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale ed
organizzativa. Pertanto, le problematiche relative alla
costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono
essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.
2) Il gruppo misto è un gruppo consiliare con carattere
residuale, nel quale confluiscono i consiglieri, anche di
diverso orientamento, che non si riconoscono negli altri
gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio
gruppo per mancanza delle condizioni previste dallo statuto
o dal regolamento e la cui costituzione non dovrebbe essere
subordinata alla presenza di un numero minimo di componenti.
Il Comune chiede un parere in materia di gruppi consiliari.
Più in particolare, attese le avvenute dimissioni di un
amministratore locale, considerato che la persona che
verrebbe nominata consigliere in surroga avrebbe espresso la
volontà di creare un 'gruppo consiliare autonomo', l'Ente
desidera sapere se questi possa assumere la qualità di
capogruppo.
In via preliminare, si ricorda che la materia dei gruppi
consiliari, ai sensi dell'articolo 38, comma 2, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, è disciplinata dal
regolamento sul funzionamento del consiglio comunale 'nel
quadro dei principi stabiliti dallo statuto', essendo
riconosciuta ai consigli piena autonomia funzionale ed
organizzativa. Pertanto, le problematiche relative alla
costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari devono
essere valutate alla stregua delle specifiche norme
statutarie e regolamentari di cui l'ente si è dotato.
In particolare, in relazione alla questione posta,
l'articolo 6 del regolamento comunale di organizzazione del
Consiglio Comunale recita:
'I Consiglieri eletti nelle medesima lista di norma
formano un gruppo consiliare.
Ciascun Gruppo è costituito da almeno 1/10 dei Consiglieri.
Nel caso che una lista presentata alle elezioni abbia avuto
eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute le
prerogative e la rappresentanza spettanti ad un gruppo
consiliare.
I singoli Gruppi devono comunicare per iscritto al
Segretario Comunale il nome del Capogruppo entro il giorno
precedente la prima riunione del Consiglio neo-eletto. Con
la stessa procedura dovranno essere segnalate al segretario
comunale le variazioni della persona del Capogruppo. In
mancanza di tali comunicazioni, viene considerato capogruppo
il Consigliere del gruppo designato nella lista a candidato
a Sindaco.
Il Consigliere che intende appartenere ad un Gruppo diverso
da quello in cui è stato eletto, deve darne comunicazione al
Segretario Comunale, allegando la dichiarazione di
accettazione del Capo del nuovo gruppo.
Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è stato
eletto e non aderisce ad altri Gruppi, non acquisisce le
prerogative spettanti ad un Gruppo consiliare. Qualora più
Consiglieri vengano a trovarsi nella predetta condizione,
essi costituiscono un Gruppo misto che elegge al suo interno
il Capogruppo. Della costituzione del gruppo misto deve
essere data comunicazione per iscritto al segretario
Comunale da parte dei Consiglieri interessati.
Il Segretario comunale comunica ai Capigruppo Consiliari,
come sopra determinati, l'avvenuta pubblicazione all'Albo
Pretorio della delibera di Giunta'. [1]
Con riferimento al caso in esame, si tratta in primis di
valutare se il soggetto che deve assumere la qualità di
consigliere comunale in surroga possa costituire un gruppo
consiliare autonomo formato da un solo componente. La
risposta a tale interrogativo dipende dall'interpretazione
che viene fornita alle previsioni statutarie e regolamentari
nella parte in cui dispongono che ciascun gruppo è
costituito da almeno un decimo dei consiglieri.
Atteso, infatti, che il consiglio comunale è costituito da
12 consiglieri, si tratta di stabilire se l'arrotondamento
risultante dall'operazione frazionaria sia da effettuare col
metodo aritmetico o per eccesso. Nel primo caso, infatti,
seguirebbe che un Gruppo consiliare potrebbe comporsi anche
solo di un membro; [2]
diversamente, l'arrotondamento per eccesso richiederebbe che
il numero minimo di componenti un gruppo consiliare sia di
almeno due consiglieri.
Si ritiene che la decisione sul se avvalersi dell'uno
piuttosto che dell'altro criterio spetti all'organo che si è
dato la norma in commento ovverosia al consiglio comunale. A
livello generale, si rileva che secondo il Ministero
dell'Interno il criterio dell'arrotondamento aritmetico
rappresenta il metodo di calcolo che trova ordinariamente
applicazione in mancanza di espresse disposizioni di segno
diverso. [3]
La scelta, invece, di optare per l'arrotondamento per
eccesso sarebbe giustificata dalla considerazione che
l'arrotondamento per difetto corrisponderebbe ad un valore
inferiore alla conversione della frazione in decimi.
Ciò premesso, qualora si ritenesse possibile la costituzione
di un gruppo consiliare formato da un solo componente, si
ritiene che questi dovrebbe acquisire, altresì,
automaticamente la veste di capogruppo.
Qualora, invece, si negasse la possibilità al consigliere di
costituire un gruppo autonomo bisogna considerare la
possibilità che lo stesso entri a far parte del gruppo misto
o lo costituisca, se non esistente.
In linea generale, si rappresenta che l'esistenza dei gruppi
consiliari non è espressamente prevista dalla legge ma si
desume implicitamente da quelle disposizioni normative che
contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai
capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125
del D.Lgs. 267/2000). La materia, pertanto, come sopra già
rilevato, deve trovare la propria disciplina nelle norme
statutarie e regolamentari dell'ente locale.
A tale riguardo, l'articolo 6 del regolamento consiliare, al
quinto comma, così come sopra già riportato recita: 'Il
Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è stato eletto
e non aderisce ad altri Gruppi, non acquisisce le
prerogative spettanti ad un Gruppo consiliare. Qualora più
Consiglieri vengano a trovarsi nella predetta condizione,
essi costituiscono un Gruppo misto che elegge al suo interno
il Capogruppo. Della costituzione del gruppo misto deve
essere data comunicazione per iscritto al segretario
Comunale da parte dei Consiglieri interessati'.
Nel ribadire che spetta unicamente al consiglio comunale
interpretare le norme del proprio regolamento, in via
collaborativa si rileva che la disposizione sopra citata non
sembrerebbe consentire la possibilità di istituire il gruppo
misto anche con la partecipazione di un unico componente.
Occorre, peraltro, considerare che in linea generale il
gruppo misto è un gruppo consiliare con carattere residuale,
nel quale confluiscono i consiglieri, anche di diverso
orientamento, che non si riconoscono negli altri gruppi
costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo
per mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal
regolamento e la cui costituzione non dovrebbe essere
subordinata alla presenza di un numero minimo di componenti.
La possibilità di consentire che il gruppo misto sia
costituito anche da un solo componente soddisfa, in altri
termini, il diritto di autodeterminazione del consigliere e
consentirebbe il pieno rispetto del principio
costituzionalmente garantito del divieto di mandato
imperativo.
Si rileva, ancora, che fino a quando il gruppo misto è
composto da un solo membro, lo stesso dovrebbe assumere
automaticamente la veste di capogruppo. [4]
Concludendo, alla luce delle considerazioni suesposte le
norme regolamentari del Comune dovrebbero rispettare i
principi sopra espressi. Si suggerisce, pertanto, all'Ente
di valutare l'opportunità di procedere alla modifica di
quelle disposizioni che si pongano in contrasto con essi e
che costituirebbero una lesione delle prerogative
riconosciute ai consiglieri comunali.
---------------
[1] Nello statuto comunale è stata rinvenuta una norma
relativa ai gruppi consiliari (articolo 11) del seguente
tenore letterale: 'I consiglieri eletti nella medesima lista
di norma formano un gruppo consiliare.
Ciascun gruppo è costituito da almeno un decimo dei
consiglieri. Nel caso che una lista presentata alle elezioni
abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono
riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti a
un gruppo consiliare'.
[2] Infatti, aritmeticamente si avrebbe 12/10= 1,2 x 1 =
1,2. L'arrotondamento aritmetico implica, com'è noto, che in
caso di cifra decimale uguale o inferiore a 50,
l'arrotondamento debba essere effettuato per difetto, mentre
nel caso in cui essa sia superiore a 50 si procederà ad
arrotondamento per eccesso.
[3] Il Ministero dell'Interno ha, infatti, affermato in
diverse occasioni che 'in conformità ad un costante
indirizzo interpretativo, si ritiene che, in mancanza di
apposite prescrizioni statutarie o regolamentari sia
legittimamente applicabile il criterio dell'arrotondamento
aritmetico, in quanto richiamato espressamente, a vario
titolo, in più disposizioni del richiamato decreto
legislativo n. 267/2000 (cfr. artt. 47, c. 1; 71, co. 8; 73,
co. 1; 75, co. 8).' (così, Ministero dell'Interno, parere
del 04.08.2015).
[4] In questo senso, si veda Ministero dell'Interno, parere
del 17.08.2009 (13.01.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Lo stemma dell'Unione.
DOMANDA:
Nello Statuto dell’Unione T. è prevista la possibilità di
dotarsi, con specifica deliberazione consiliare, di un
proprio stemma, ma non è contemplata la riproduzione di un
gonfalone.
L’Ente, che al momento non ha intenzione di avvalersi di un
proprio stemma avendo stabilito di fruire solo sulla carta
intestata dei tre stemmi dei Comuni facenti parte l’Unione,
si interroga sulla legittimità di riprodurre i tre stemmi su
un unico gonfalone affinché rappresenti, da solo, l’Unione
T. di M.
RISPOSTA:
Il comma 2 dell’art. 6 del D.Lgs. 267/2000 attribuisce allo
statuto dell’ente la definizione e l’approvazione dello
stemma e del gonfalone del comune e analogamente lo statuto
dell’unione deve stabilire le modalità per dotarsi di uno
stemma e di un gonfalone quali segni identificativi della
comunità rappresentata.
Lo stemma e il gonfalone dei comuni e anche delle unioni dei
comuni devono avere le caratteristiche tecniche previste dal
d.P.C.M. 28.01.2011 che ha disciplinato le competenze della
Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di araldica
pubblica secondo le modalità e le regole araldiche già
contenute nell’abrogato regio decreto 07.06.1943, n. 652,
che vengono semplificate, attualizzando la relativa
procedura istruttoria.
In particolare lo stemma è costituito da uno scudo detto “sannitico
moderno”; cioè uno scudo rettangolare con gli angoli
inferiori arrotondati. Tale scudo deve mantenere una
proporzione di 7 moduli di larghezza per 9 moduli di
altezza. Il gonfalone è costituito da un drappo rettangolare
di cm. 90 per cm. 180, su cui è effigiato lo stemma
dell’ente con la relativa corona. Il colore del drappo deve
riferirsi ad un colore presente nello stemma.
Sulla base delle ricordate caratteristiche tecniche il
gonfalone dell’unione non può limitarsi a riprodurre
separatamente i tre stemmi dei comuni aderenti, ma deve
contenere lo stemma dell’unione costituito da un unico scudo
nel quale possono essere riprodotte le varie figure presenti
negli stemmi dei comuni costituenti l’unione (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La restituzione della tassa di concorso.
DOMANDA:
Questo Ente ha proceduto alla revoca in autotutela degli
atti con i quali sono state bandite selezioni per la
copertura di posti di ruolo a seguito delle mutate esigenze
funzionali ed organizzative.
Si chiede di conoscere se la tassa di concorso versata dagli
aspiranti concorrenti debba essere restituita agli stessi ed
in base a quali disposizioni.
RISPOSTA:
Occorre preliminarmente ricordare che l’art. 4, comma 45,
della legge n. 183/2011, ha introdotto il pagamento del
diritto di segreteria a carico dei partecipanti ai concorsi
pubblici per la copertura delle spese della procedura per il
reclutamento dei dirigenti presso le PP.AA., con
l’esclusione di regioni, province autonome, enti di
rispettiva competenza, Servizio sanitario nazionale. L’art.
4, comma 15, del decreto -legge n. 101/2013, convertito in
legge 125/2013, ha esteso il pagamento del predetto
contributo anche ai concorsi per il reclutamento del
personale di magistratura.
Per quanto riguarda gli enti locali, loro consorzi ed
aziende, tali soggetti hanno facoltà di esigere tasse di
ammissione ai concorsi, se previste dai rispettivi
ordinamenti (per un importo non superiore a 10,33 euro). Si
tratta di un contributo economico a carico dei partecipanti
necessario per far fronte alle spese, non di rado rilevanti,
che le selezioni comportano.
Da un punto di vista giuridico può essere considerato quale
tassa di partecipazione ai concorsi, legislativamente
fondata sull'articolo 1 del regio decreto 21.10.1923, n.
2361 e s.m.i. (anche se, in merito, non vi è un orientamento
dottrinario e giurisprudenziale univoco, cfr. TAR,
Sicilia-Palermo, Sez. III, Sent. n. 752/2015).
Partendo dalla natura del contributo di partecipazione alla
procedura concorsuale quale tassa, ossia corrispettivo di un
servizio, risponde ad un principio generale del nostro
ordinamento che tale contributo debba essere restituito
laddove il servizio non venga prestato (perché il concorso
viene revocato o annullato) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI:
Le informazioni sugli appalti.
DOMANDA:
Si formula il seguente quesito sugli adempimenti ex art 1,
comma 32 L. 190/2012: è possibile avere un chiarimento circa
le date di inizio e di conclusione di lavori, servizi e
forniture da indicare?
In particolare per data di conclusione, va indicata quella
di conclusione del contratto, ecc. o dell'ultimo mandato di
pagamento effettuato?
RISPOSTA:
L’art. 1, comma 32, della Legge 190/2012 fa riferimento -tra
le informazioni che le stazioni appaltanti sono in ogni caso
tenute a pubblicare nei propri siti web istituzionali e a
trasmettere ogni semestre alla commissione per la
valutazione, la trasparenza e l'integrità delle
amministrazioni pubbliche- “i tempi di completamento
dell'opera, servizio o fornitura”.
L'ANAC, con Deliberazione n. 26 del 22.05.2013, ha chiarito
che le informazioni oggetto di pubblicazione sui siti web
istituzionali da parte dei soggetti indicati -relativamente
ai “Tempi di completamento dell’opera, servizio o
fornitura”- sono le “Date di effettivo inizio lavori,
servizi o forniture” e “di ultimazione lavori,
servizi o forniture”.
Per quanto concerne la data di ultimazione lavori, servizi o
forniture, deve intendersi quella del rilascio del
Certificato di ultimazione dei lavori di cui all'art. 199
d.P.R. 207/2010 (o Certificato di ultimazione delle
prestazioni, ex art. 309 d.P.R. cit.), da parte del
direttore dei lavori (o del direttore dell’esecuzione)
all'appaltatore, in doppio esemplare, secondo le modalità
previste per il verbale di consegna.
Si evidenzia, infatti, che fino alla data di entrata in
vigore del decreto del Ministro delle infrastrutture e
trasporti, di cui all'articolo 111, comma 1, che approva le
linee guida che individuano le modalità e la tipologia di
atti attraverso i quali il direttore dei lavori effettua la
sua attività, continuano ad applicarsi le disposizioni di
cui alla Parte II, Titolo IX, Capi I e II del decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207 (tra cui il
richiamato art. 199 "Certificato di ultimazione dei
lavori”).
L’art. 309 invece è abrogato, tuttavia le linee guida Anac
sul Direttore dell’Esecuzione continuano a prevedere, tra le
sue funzioni, il rilascio del certificato attestante
l’avvenuta ultimazione delle prestazioni
(link
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PATRIMONIO:
L'indennità di avviamento commerciale.
DOMANDA:
Questo Comune detiene in proprietà due unità immobiliari,
appartenenti al patrimonio disponibile, destinati ad
attività commerciali (tabaccheria e attività di
somministrazione).
Nel corso degli anni, questi beni sono stati concessi in
locazione con affidamento diretto. Gli attuali contratti
scadono (fine dei dodici anni) il 31/12/2016. Il contratto
prevedeva l'estinzione del medesimo alla seconda scadenza
sessennale. Ai conduttori è stata comunicata un anno prima
della scadenza l'intenzione dell'Amministrazione di
procedere con la stipula di un nuovo contratto.
L'Amministrazione ha poi legittimamente deciso di pubblicare
un bando per il reperimento del nuovo conduttore, nel quale
è previsto il diritto di prelazione a favore dei conduttori
uscenti ai sensi dell'art. 40 della legge 392/1978.
L'attuale conduttore del bar rivendica, in caso di mancata
aggiudicazione, la corresponsione dell'indennità per perdita
di avviamento pari a 18 mensilità, elevabili a 36 nel caso
in cui il nuovo aggiudicatario apra un'attività equivalente
entro l'anno.
Con la presente, si chiede se effettivamente tale indennità
sia dovuta, anche nel caso in cui il contratto sia giunto a
naturale scadenza e sulla base che il Comune non possa
rinnovare tacitamente il contratto, in quanto dovuta la
forma scritta.
RISPOSTA:
Il conduttore di un locale ad uso commerciale ha diritto
all'"indennità per la perdita di avviamento", ai
sensi dell’art. 34 della l. n. 392/1978, solo in caso di
recesso anticipato del locatore. La previsione legislativa
mira, infatti, a tutelare il conduttore, dai disagi e dalle
difficoltà derivanti alla sua attività commerciale a causa
della disdetta del contratto di locazione da parte del
proprietario/locatore e a disincentivare il locatore dal
recesso anticipato spingendolo ad attendere la scadenza
naturale del contratto per evitare di incorrere nell'obbligo
del versamento delle somme a titolo di indennità.
Il pagamento dell'indennità di avviamento commerciale,
pertanto, riveste una funzione riparatoria, mirando a
compensare i disagi e i costi che il conduttore dovrà
affrontare, a causa della volontà di recesso del locatore,
per la perdita della sede in cui viene esercitata l'attività
quale elemento fondamentale dell'azienda.
Nel caso concreto, in cui il contratto è giunto a naturale
scadenza, l’indennità non è dovuta, mancando il presupposto
del recesso unilaterale (ed improvviso) del locatore e
quindi la conseguente esigenza di tutela e risarcimento del
conduttore (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
NEWS |
APPALTI: Appalti
a pubblicità capillare. Avvisi e bandi sui quotidiani e
sulla piattaforma Anac. In Gazzetta Ufficiale il decreto
delle Infrastrutture attuativo del Codice dei contratti.
Confermata la pubblicità sui quotidiani per appalti di
lavori oltre i 500 mila euro e per quelli di forniture e
servizi di importo superiore ai 209 mila; per gli appalti
sotto soglia di servizi e forniture sarà un altro decreto
ministeriale, d'intesa con Anac (l'Autorità nazionale
anticorruzione) a definire le modalità.
Quando sarà attiva la piattaforma Anac andrà in soffitta la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Lo prevede il decreto Infrastrutture 02.12.2016,
pubblicato in G.U. n. 20 del 25.01.2017, attuativo
dell'articolo 73, comma 4, del nuovo codice dei contratti
pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Il provvedimento stabilisce innanzitutto che le stazioni
appaltanti e le centrali di committenza pubblichino gli
avvisi e bandi di gara con le modalità di cui agli articoli
72 e 73 del Codice (Gazzetta europea e nazionale) e poi
sulla piattaforma Anac e, non oltre due giorni lavorativi
successivi alla pubblicazione sulla piattaforma Anac, sul
«profilo di committente». Spetterà poi all'Anac definire con
proprio atto le soglie d'importo, le modalità operative e i
tempi per il funzionamento della piattaforma. Ogni altra
pubblicazione, a regime, avverrà «esclusivamente in via
telematica, sul profilo del committente», non dovrà
comportare oneri finanziari a carico delle stazioni
appaltanti e dovrà essere liberamente accessibile in via
telematica.
Confermata la disciplina attuale per la pubblicità sui
quotidiani che dovrà avvenire per estratto dopo 12 giorni
dalla trasmissione alla Gazzetta europea (o dopo cinque
giorni in caso di riduzione dei termini di cui agli articoli
da 60 a 63 del Codice). Per gli appalti di lavori di importo
superiore a 500 mila euro e inferiore a 5,2 milioni, la
pubblicazione dovrà avvenire entro cinque giorni dalla
pubblicazione avente valore legale.
Le modalità di
pubblicità sono differenziate per tipologie di appalto o
concessione e per importi: per gli avvisi e i bandi relativi
ad appalti pubblici di lavori o di concessioni di importo
compreso tra 500 mila euro e 5,2 milioni, per estratto su
almeno uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale
e su almeno uno a maggiore diffusione locale nel luogo ove
si eseguono i contratti. Per lavori, servizi e forniture di
importo superiore alle soglie di cui all'art. 35, commi 1 e
2, del codice (5,2 milioni di euro per i lavori, 209 mila
per servizi e forniture), per estratto su almeno due dei
principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due
a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i
contratti.
Il decreto chiarisce anche che per area
interessata si intende «il territorio della provincia cui
afferisce l'oggetto dell'appalto e nell'ambito del quale si
esplicano le competenze della stazione appaltante». Prevista
la pubblicità sui quotidiani anche per la post informazione
(risultati della gara) che, oltre che sulla piattaforma Anac,
se il contratto è di rilievo comunitario, dovrà essere
effettuata anche per estratto su almeno due quotidiani a
diffusione nazionale e su almeno due quotidiani a diffusione
locale dopo 12 giorni, o cinque giorni in caso di urgenza,
dalla trasmissione alla Gazzetta Ufficiale delle Comunità
Europee.
Per i contratti sotto soglia Ue (5,2 milioni per
lavori e 209 mila per servizi e forniture) la pubblicità
sarà effettuata per estratto su almeno un quotidiano a
diffusione nazionale e su almeno un quotidiano a diffusione
locale nel luogo dove si esegue il contratto. Esentati
soltanto i contratti di importo inferiore a 500 mila che
andranno soltanto sull'albo pretorio del comune dove si
eseguono i lavori entro 30 giorni dal decreto di
aggiudicazione. Viene confermata la norma di legge
introdotta nel 2013 per cui le spese per la pubblicazione
obbligatoria degli avvisi e dei bandi di gara sono
rimborsate alla stazione appaltante dall'aggiudicatario
entro il termine di 60 giorni dall'aggiudicazione.
Un
ulteriore decreto dovrà poi definire le modalità di
pubblicazione degli avvisi e dei bandi di gara relativi agli
appalti di lavori di importo inferiore a euro 500 mila e di
servizi e forniture di importo inferiore a 209 mila per i
quali si continua ad applicare la norma attuale che non
prevede la pubblicità sui quotidiani
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2017
- tratto da
www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Bonifica
amianto, aiuti fino a 15 mila euro.
Procedura pubblica per il finanziamento destinato a coprire,
integralmente o parzialmente, i costi di progettazione
preliminare e definitiva degli interventi di bonifica di
edifici pubblici contaminati da amianto. Le agevolazioni
economiche possono coprire costi fino ad un massimo,
complessivamente inteso, di 15 mila euro. Le richieste di
finanziamento potranno essere presentate dal 30.01.2017 fino
al 30.03.2017.
È con il comunicato (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.
19 del 24.01.2017) che il ministero dell'ambiente dà
notizia del bando per l'accesso alle agevolazioni per la
bonifica degli edifici pubblici contaminati da amianto.
Le
richieste di accesso alle agevolazioni dovranno essere
necessariamente presentate tramite l'applicativo informatico
disponibile sul sito del ministero dell'ambiente
www.amiantopa.minambiente.ancitel.it. L'intervento
presentato dovrà essere necessariamente essere corredato da:
• relazione tecnica asseverata da professionista abilitato
in cui devono essere specificati: della destinazione d'uso
dei beni o dei siti sede dell'intervento, la localizzazione
e la destinazione d'uso dei manufatti contenenti amianto, la
tipologia, la quantità e lo stato di conservazione dei
materiali;
• le modalità di intervento di bonifica proposto;
• la stima dei lavori da eseguire con dettaglio dei costi di
progettazione soggetti a finanziamento;
• il cronoprogramma orientativo delle attività, incluse le
fasi progettuali.
Ciascun ente potrà presentare una sola richiesta di
finanziamento per la progettazione di un singolo intervento
ma l'intervento potrà riguardare anche più edifici o unità
locali, sempre nel rispetto del limite complessivo di 15
mila euro. Dopo la presentazione delle domande, il ministero
dell'ambiente, a seguito dell'istruttoria condotta dall'Ispra,
disporrà di una graduatoria delle richieste ammesse al
contributo. Il contributo è erogato con decreto del
direttore generale del ministero ambiente a seguito
dell'inclusione dell'intervento in graduatoria.
La liquidazione è accordata con le seguenti modalità: il 30%
della somma al momento dell'ammissione al finanziamento e
dell'impegno del soggetto beneficiario ad utilizzare
esclusivamente le risorse per gli interventi di bonifica di
edifici pubblici contaminati da amianto, il 40% delle somme
ammesse al finanziamenti al momento dell'approvazione del
progetto definitivo da parte dell'ente richiedente e il 30%
della somma ammessa a finanziamento al momento della
rendicontazione finale, operata attraverso la trasmissione
all'ente erogante della documentazione di impegno e spese
dell'intero ammontare
(articolo ItaliaOggi del 26.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA
- LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Vas
e Via, le istruzioni per versare il contributo.
Pronte per le imprese le istruzioni per versare il
contributo per la copertura dei costi sopportati
dall'Autorità statale per l'organizzazione e lo svolgimento
delle attività istruttorie, di monitoraggio e controllo
delle procedure di valutazione di impatto ambientale e di
valutazione ambientale strategica.
È infatti in corso di pubblicazione il decreto direttoriale
del ministero dell'ambiente che fissa i criteri per il
calcolo degli oneri economici e le modalità di presentazione
comprovante l'avvenuto pagamento, oltre che la relativa
documentazione. Segue il dm 25.10.2016 n. 245
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 2 gennaio scorso.
Quest'ultimo prevedeva che dal 17 gennaio il sistema per la
copertura degli oneri economici fosse a carico dei
proponenti. L'art. 5 del dm del 25 ottobre prevede che le
modalità di versamento degli oneri economici dovuti ai sensi
del decreto fossero disciplinate con decreto del ministero
dell'ambiente da adottarsi entro 90 giorni dall'emanazione
del regolamento.
Il decreto direttoriale in parola colma
questa mancanza: esso disciplina anche le modalità di
presentazione dell'istanza di Via e dell'avvenuto versamento
degli oneri. Lo stesso decreto disciplina anche il caso in
cui si tratti di opere pubbliche o private. Cambiano,
infatti, i documenti da allegare. Il decreto, inoltre,
determina gli oneri economici anche la valutazione
ambientale strategica (Vas), quella cioè che viene
utilizzata per i più ampi piani e programmi edilizi o per le
infrastrutture di rete. Ma come calcolare gli oneri?
Il decreto del 25 ottobre disciplina, ad esempio, quanti
sono quelli per la Via: 0,5 per mille del valore delle opere
da realizzare per le procedure di Via e 0,25 per mille del
valore dell'opera da realizzare e, comunque, nel limite
massimo dell'importo di euro 10.000,00 per le procedure
preliminari di verifica di assoggettabilità a Via.
Il decreto direttoriale in corso di pubblicazione prevede
che gli importi vadano calcolati seguendo il Format M2 per
la predisposizione del quadro economico generale il valore
complessivo dell'opera pubblica o quello M3 per l'opera
privata. Tre le macrovoci previste sono: costo dei lavori,
spese generali e eventuali altre imposte e contributi dovuti
per legge. La loro somma porterà al valore complessivo
dell'opera su cui applicare le relative percentuali
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2017). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Seminterrati
abitabili nei condomìni lombardi.
È stato presentato
in Regione Lombardia il
progetto di legge n. 258 di iniziativa consiliare
relativo al «Recupero dei piani seminterrati esistenti».
Si tratta di «piani la cui superficie laterale si
presenta come parzialmente controterra, in misura comunque
non superiore ai 2/3 della superficie laterale totale» e
già realizzati in forza di un titolo concessorio legittimo.
Devono anche: far parte di edifici serviti da tutte le
urbanizzazioni primarie; rispettare tutte le prescrizioni
igieniche (tranne l’altezza che, in ogni caso, deve essere
almeno m. 2,40 e comunque non sembra ammissibile eseguire
uno scavo per aumentarla); essere dotati di parcheggi
pertinenziali.
Infine devono essere provvisti di isolamento termico e avere
realizzato l'abbattimento delle barriere architettoniche ai
sensi di quanto disposto dalla legge regionale 6/1989.
Tale intervento di recupero non si configura esclusivamente
come mutamento di destinazione dell'unità di seminterrato
ma, quel che più conta, determina un incremento di
volumetria abitabile, in ogni caso legittimata, che,
diversamente da quanto prevede la disciplina di recupero dei
sottotetti, può essere destinata non solo ad abitazione ma
anche a uso terziario e commerciale.
La legittimazione dell'intervento è determinata
esclusivamente dal consenso del Comune, che dovrà
certificare la rispondenza dell'opera alle prescrizioni
tutte dettate dalla norma: e questo nell'ipotesi si tratti
di un seminterrato di un edificio appartenente ad un unico
proprietario.
Ma nell'ipotesi di seminterrato di proprietà di un singolo
condòmino posto in un edificio condominiale l'interveniente,
prima di dare corso al procedimento di consenso comunale,
dovrà accertarsi della inesistenza di impedimenti alla
trasformazione o di speciali obblighi determinati a suo
carico in forza della disciplina condominiale.
Vediamo i principali:
1) eventuali prescrizioni di un regolamento contrattuale escludenti
determinate destinazioni delle unità immobiliari (non
superabili neppure con il sì del Comune);
2 l'opera non deve procurare un danno alle parti comuni e non deve
neppure determinare un pregiudizio alla stabilità, alla
sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio; il
condomino deve darne notizia all'amministratore, che
riferirà poi all' assemblea e il condominio potrà esercitare
i suoi controlli;
3) i progetti che incidono sull'aspetto esteriore di luoghi ed
edifici sono soggetti al preliminare benestare di
compatibilità paesaggistica;
4) devono essere previste idonee opere di isolamento termico;
5) l'assemblea condominiale potrà rettificare la tabella, con la
maggioranza degli intervenuti in assemblea e almeno la metà
del valore dell'edificio, se si sia verificata l'alterazione
per più di 1/5 del valore proporzionale di una unità
immobiliare.
Se invece il seminterrato è proprietà condominiale indivisa
la trasformazione deve essere deliberata all'unanimità.
L'intervento, infatti, non si configura come un semplice
mutamento di destinazione d'uso ma come creazione
sull'edificio di una nuova volumetria, per la quale andranno
corrisposti oneri di urbanizzazione e costo di costruzione
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Sotto
i 4 mesi installazioni liberalizzate.
Installazioni temporanee liberalizzate se di durata
inferiore a quattro mesi, oltre ad altri trenta interventi;
procedura libera anche laddove la pianificazione regionale
ha definito le prescrizioni per l'uso del bene vincolato;
procedura semplificata da concludere entro 60 giorni.
Sono questi i principali contenuti del regolamento
(Atto
del Governo n. 336
- Schema di decreto del Presidente della Repubblica
recante regolamento relativo all'individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata)
, giunto dopo quasi due anni, che snellisce e semplifica i
casi di autorizzazione per gli interventi nelle zone
vincolate, approvato dal Consiglio dei ministri del
20.01.2017 (si veda ItaliaOggi dello stesso giorno) e che
prevede l'esclusione dall'autorizzazione paesaggistica, o
una procedura autorizzatoria semplificata in attuazione
dell'articolo 12 del decreto-legge 83/2014.
Il provvedimento si fonda sul presupposto di considerare non
rilevanti ai fini paesaggistici gli interventi che: non sono
percepibili dall'esterno, oppure che sono insuscettibili di
recare pregiudizio anche in astratto al paesaggio, o ancora
che risultano caratterizzati dalla facile amovibilità o
dalla sicura temporaneità del manufatto così da escludere
che si tratti di una trasformazione stabile e permanente.
In realtà, poi, il dpr esenta dalla previa autorizzazione
paesaggistica anche una serie di interventi che pur non
riconducibili alla categoria precedente sono caratterizzati
dall'essere duraturi (esempio gli impianti di
climatizzazione esterna, i microimpianti eolici e i pannelli
solari sui tetti facendo leva sulla forza delegificante del
provvedimento e a seguito di un bilanciamento di interessi
pubblici meritevoli di tutela.
Il dpr individua quindi, nell'allegato A, un complesso di
interventi cosiddetti «liberi» cioè di modesta
rilevanza che, anche se realizzati su beni vincolati,
risultano esclusi dall'autorizzazione paesaggistica. Tra
questi trentuno interventi ci sono, per citare qualche
esempio, i lavori per il superamento delle barriere
architettoniche, quelli per il consolidamento statico, per
il miglioramento della prestazione energetica che non
comportano modifiche sostanziali.
Dopo il parere del Consiglio di Stato e delle commissioni
parlamentari sono stati inseriti anche gli interventi
consistenti nell'integrazione o sostituzione di vetrine,
posa dei cavi di fibra ottica, gli interventi di aumento di
altezza degli edifici fino a 50 centimetri e quelli relativi
all'occupazione temporanea dei suoli anche a scopo di
vendita. Stesso regime «libero», in base ai principi
citati, per i Sarà libera anche chioschi e le opere
stagionali (meno di quattro mesi, se si supera questo
periodo e fino a sei mesi, si avvia la procedura
semplificata).
Ammessi al regime libero, con una sorta di premialità per
legge, gli interventi per i quali le Regioni hanno approvato
approvano i piani paesaggistici e hanno definito, nell'atto
istitutivo del vincolo, le specifiche prescrizioni per l'uso
del bene vincolato. Gli interventi considerati «semplificati»,
in quanto ad impatto lieve, che accedono ad una procedura
semplificata da concludersi in 60 giorni (attivabile
utilizzando due allegati al decreto, C e D), sono elencati
nell'allegato B; come ad esempio gli interventi antisismici
e di miglioramento energetico che comportano innovazioni
nelle caratteristiche morfologiche dell'edificio, ma anche
della realizzazione di tettoie e porticati.
Il dpr esenta inoltre dalla indizione della Conferenza di
servizi se, per la realizzazione dell'intervento, oltre
all'autorizzazione paesaggistica non debbano essere chiesti
altri titoli abilitativi; oppure se occorre acquisire titoli
abilitativi semplificati, come la Scia (Segnalazione
certificata di inizio attività) e la Cila (Comunicazione di
inizio lavori asseverata).
Il dpr rinvia anche a un regolamento ministeriale per la
definizione della struttura e dei contenuti precettivi degli
accordi di collaborazione fra ministero, regioni e enti
locali
(articolo ItaliaOggi del 24.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Procedure
più snelle per le zone con vincoli. Autorizzazioni.
Raggio d’azione più
ampio per l’autorizzazione paesaggistica semplificata.
Ieri il Consiglio
dei ministri ha, infatti, approvato in via definitiva il
regolamento
(Atto
del Governo n. 336
- Schema di decreto del Presidente della Repubblica
recante regolamento relativo all'individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata)
che estende i casi in cui il via libera per gli
interventi nelle zone vincolate può essere ottenuto con
procedure più snelle e tempi ridotti.
Si tratta di un provvedimento atteso da tempo e che ha avuto
diverse fasi di messa a punto. In teoria, sarebbe dovuto
arrivare due anni fa, perché la norma che lo ha previsto -l’articolo 12 del Dl Cultura 83/2014- aveva stabilito che
avrebbe dovuto veder la luce entro la fine del 2014.
Il provvedimento va ad aggiungersi al decreto 139 del 2010,
che ha fatto da battistrada nella materia e che aveva già
indicato 39 interventi di lieve entità per i quali si può
ricorrere all’autorizzazione paesaggistica semplificata.
Il regolamento approvato ieri compie, però, un passo avanti.
Non solo amplia il novero degli interventi di lieve entità
che possono usufruire di procedure veloci, ma -così come
richiesto dallo stesso articolo 12 del Dl 83- individua le
tipologie di interventi per i quali l’autorizzazione
paesaggistica non è necessaria e indica quelli per i quali
il via libera paesaggistico può essere regolato anche
attraverso accordi di collaborazione tra il ministero, le
regioni e gli enti locali. In entrambi i casi deve trattarsi
di interventi di lieve entità.
Con il regolamento approvato ieri si completa il quadro del
sistema di autorizzazioni delineato dall’articolo 12, il
quale -oltre a essere intervenuto ulteriormente sugli
interventi di lieve entità- ha anche dettato nuovi criteri
sulle procedure delle soprintendenze quando sono chiamate a
esprimersi su progetti che riguardano le aree protette.
Per garantire l’imparzialità e il buon andamento dei
procedimenti, la norma del Dl 83 ha previsto che i pareri e
i nullaosta paesaggistici possano essere riesaminati -d’ufficio
o su segnalazione delle amministrazioni interessate- da
apposite commissioni di garanzia, le quali devono esprimersi
entro dieci giorni. In caso di silenzio, l’atto si intende
confermato (articolo Il Sole 24 Ore del
21.01.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
l’Rc diventa vincolante. L’efficacia deve essere estesa agli
eredi e anche dopo la chiusura dello studio.
Attività forense. Dall’11 ottobre per oltre 235mila iscritti
alla Cassa di previdenza scatta la necessità di stipulare un
contratto con massimali minimi previsti per legge.
Se è vero che
ad oggi, dicono le stime più attendibili, la metà degli
avvocati in attività non è ancora provvista di una copertura
professionale, il 2017 si avvia ad essere l’anno delle
polizze di massa. A prevedere l’ombrello assicurativo -una
tappa fondamentale nel progresso della figura del legale- è
la legge di riforma professionale approvata nel dicembre del
2012 (la numero 147), ma con un cronoprogramma per l’entrata
in vigore della "Rc" che andrà a compimento solo l’11
ottobre.
Il decreto del ministero della Giustizia richiamato
all’origine dalla norma, e a cui era stata rimessa la
fissazione dei massimali minimi della polizze -in aggiunta
alle loro condizioni contrattuali essenziali- è stato
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 238 dell’11 ottobre
scorso, e fissa appunto in un anno dalla pubblicazione
l’entrata in vigore per tutta la platea dei professionisti
interessati (235.055, secondo l’ultimo dato disponibile).
Novità che non risparmiano neppure quella metà di avvocati
che, previdentemente, negli anni già aveva pensato di
coprire il rischio insito -come è naturale- nell’esercizio
della professione: il Dm 22.09.2016 in questione
prevede infatti un allineamento obbligatorio di tutte le
polizze già attivate con i requisiti minimi standard
stabiliti dal decreto (articolo 5: Le polizze assicurative
stipulate in epoca antecedente all’entrata in vigore del
presente decreto dovranno essere adeguate alle disposizioni
in esso dettate).
L’assicurazione deve coprire la responsabilità civile
dell’avvocato per tutti i danni colposi causati a clienti
e/o a terzi nello svolgimento dell’attività professionale,
si tratti di danno patrimoniale, non patrimoniale,
indiretto, permanente, temporaneo, futuro, spiega il Dm. La
copertura assicurativa -che non può ovviamente spingersi
fino a neutralizzare il dolo- si estende però fino alla
colpa grave del legale, ma non arriva a indennizzare i
collaboratori e i familiari dell’assicurato.
L’ombrello della polizza relativo all’attività professionale
copre l’attività di rappresentanza e difesa in tribunale o
davanti agli arbitri (rituali e irrituali), e gli atti
preordinati, connessi o conseguenziali, come l’iscrizione a
ruolo della causa o l’esecuzione delle notifiche; la
consulenza o l’assistenza stragiudiziali; la redazione di
pareri o contratti; l’assistenza del cliente nello
svolgimento delle attività di mediazione o di negoziazione
assistita.
Se questo è il perimetro minimo di legge del contratto,
avvocato e compagnia assicurativa possono comunque pattuire
un’estensione della copertura a ogni altra attività per la
quale l’avvocato sia abilitato.
Il cliente di studio e/o eventuali terzi devono essere
risarciti dalla compagnia firmataria del contratto anche per
danni provocati da fatti colposi o dolosi di collaboratori,
praticanti, dipendenti e sostituti processuali (si veda al
proposito anche la rassegna di massime nella grafica a
lato).
Ancora, il contratto standard deve coprire la responsabilità
per danni derivanti dalla (mancata) custodia di documenti,
somme di denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai
clienti o dalle controparti processuali.
Nel caso i danni abbiano una "paternità" condivisa -cioè se
si tratta di un’obbligazione solidale- in cui si sommino la
responsabilità del legale e di altri soggetti, assicurati e
non, l’assicurazione dell’avvocato deve prevedere la
copertura dell’intero danno, salvo poi come è regola il
diritto di regresso nei confronti dei condebitori solidali.
Quanto all’efficacia nel tempo della polizza standard, deve
essere prevista anche a favore degli eredi l’obbligatoria
retroattività illimitata e l’ultrattività della copertura
del rischio almeno decennale per gli avvocati che cessano
l’attività nel periodo di vigenza della polizza; la polizza
deve inoltre escludere il diritto di recesso
dell’assicuratore a seguito della denuncia di un sinistro o
del suo risarcimento, nel corso di durata dello stesso o del
periodo di ultrattività. Chiaro lo scopo del vincolo di
legge, che è di non consentire alle assicurazioni
l’abbandono del cliente-avvocato che si dimostri un cattivo
affare.
La parte caratterizzante del Dm è comunque quella dei
massimali minimi, fissati alla fine dello scorso anno e che
saranno oggetto di revisione quinquennale in un confronto
con l’organismo di rappresentanza della categoria. I
massimali minimi sono distinti per fascia di rischio a
seconda della forma individuale o associata dell’esercizio
dell’attività e del fatturato dell’ultimo esercizio chiuso,
come si può vedere nelle tabelle a lato. In caso di
franchigie e scoperti l’assicuratore dovrà comunque
risarcire il terzo per l’intero importo dovuto. Le parti
possono inoltre prevedere clausole di adeguamento del
premio, nel caso di incremento del fatturato anche a
contratto in corso.
Capitolo infortuni.
L’assicurazione deve essere prevista a
favore degli avvocati e anche dei loro collaboratori,
praticanti e dipendenti per i quali non sia attiva la
copertura assicurativa obbligatoria Inail. La copertura è
estesa agli infortuni occorsi durante lo svolgimento
dell’attività professionale e a causa o durante essa, che
provochino la morte, l’invalidità permanente o l’invalidità
temporanea, nonché delle spese mediche; è incluso
l’infortunio in itinere o per le trasferte lavorative.
Le somme assicurate minime sono di 100mila euro di capitale
in caso di morte, stessa cifra per il caso di invalidità
permanente, mentre è prevista una diaria giornaliera di 50
euro per inabilità temporanea.
Per tutte le polizze obbligatorie è previsto un regime di
pubblicità sia fisica (Ordini e Cnf) sia digitale, sui
rispettivi siti internet (articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
terremotati costretti al gelo. Mentre i moduli promessi
dallo Stato sono insufficienti. Vietate le casette di legno
fai-da-te, chi le ha messe in cortile denunciato per abuso
edilizio.
Il terremotato fai-da-te: senza casa, perché distrutta, ma
multato, perché si è costruito un provvisorio alloggio di
fortuna per ripararsi dal freddo.
Con la casa ridotta in macerie, la neve che cade, lo sciame
sismico che continua lui doveva chiedere la certificazione
di impatto ambientale (poiché molte zone fanno parte del
Parco naturale dei Monti Sibillini) per la casetta di legno
che ha messo in giardino.
Senza autorizzazione sarà colpito da dure sanzioni e da un
trattamento giuridico come se il terremotato fosse colpevole
di abusivismo edilizio.
La Regione Marche è inflessibile: «Si invitano i Comuni
interessati dagli eventi sismici ad attenersi alla normativa
statale in merito alle soluzioni alloggiative». Una
reprimenda ai sindaci, per altro stressati dagli eventi
sismici e che alle prese coi problemi dei loro territori
disastrati hanno incominciato a tollerare, non potendo
autorizzare, che in mancanza dell'arrivo delle promesse case
di legno fornite dalla Protezione civile si potesse far
fronte all'emergenza comprando e installando nei pressi
delle macerie una propria casetta di legno.
La Regione però li bacchetta: «Sono attribuite alle Province
–aggiunge la delibera inviata ai sindaci e ai presidenti
delle Province- le funzioni in materia urbanistica e in
particolare i poteri di sospensione o demolizione di opere
difformi dal piano regolatore generale e l'annullamento di
concessioni e autorizzazioni comunali. L'esecuzione di opere
edilizie in assenza del titolo abitativo previsto per legge
configura il reato di costruzione abusiva».
C'è però chi si ribella, come Gabriele Santamarianova,
sindaco di Serravalle del Chienti, 300 abitanti,
parzialmente distrutto e dove vi sono 40 famiglie senza
casa. Dice: «Stiamo preparando un regolamento per il
posizionamento delle strutture temporanee, anche perché è la
prima richiesta che i cittadini ci presentano quando entrano
in Comune. Sono convinto sia giusto, e andremo avanti.
Molti hanno acquistato casette amovibili. Vanno per la
maggiore le casette con le ruote, un boom, dal costo di
9.000 euro circa. Ce ne sono anche a Muccia e Pieve Torina.
Queste persone non solo non hanno più la casa, ma hanno
anche speso soldi per sistemarsi alla meno peggio.
Figuriamoci se adesso le faccio rimuovere o addirittura
demolire.
C'è gente poi che si è arrangiata con questa soluzione
perché ha paura di dormire in casa, ma vuole restare vicino
alla propria abitazione. Non ci stiamo a una decisione
calata dall'alto, non su questo tema».
Maurizio Serafini, un artista di Macerata che insieme ad
altri ha costituito Epicentro, associazione che non solo
aiuta i terremotati ma si propone di essere «un contenitore
di cultura che rivitalizzerà queste aree» non nasconde il
suo disappunto: «Sta avvenendo questo: ho la casa inagibile
o crollata, ho un lavoro nel cratere ed ho magari anche gli
animali, tutta la mia roba è dentro casa, o forse voglio
semplicemente restare vicino alla mia terra, al mio paese,
alla mia vita.
Guarda caso ho un giardino o uno spazio privato, con i miei
soldi compro una casetta di legno e la Regione ora mi chiede
di smantellarla o di abbatterla. Anzi dovrebbero venire gli
operai del Comune, che sono magari anche miei amici, per
farlo. A questo punto credo che oltre a far incazzare le
persone avrete anche le amministrazioni comunali contro.
Della serie più si decide lontano e meno la politica sta
dalla parte dei cittadini».
In una radura del bosco, tra Amatrice e Accumoli, resiste,
con la famiglia, Antonio Guerrini, un allevatore che non
vuole abbandonare i suoi animali. Gli è arrivata la casetta
di legno, dono dell'associazione La Via del Sale Onlus.
Gliel'hanno montata e hanno effettuato, non senza problemi,
gli allacci. Non ha fatto in tempo a festeggiare questo
riparo di fortuna. Il giorno dopo è arrivato il tecnico del
Comune con l'ordine di sgombro. Lui ha provato a fare
presente che si tratta con evidenza di una situazione
provvisoria, che il terreno è suo, che gli animali debbono
essere accuditi. Niente da fare. Se non smonterà la casetta
sarà denunciato.
Il bello è che mentre la Regione si accanisce contro le
casette, il commissario alla ricostruzione, Vasco Errani,
rimborserà le spese per il loro acquisto. Lo spiega la Cgil
in un documento: «Le temperature glaciali di queste ultime
ore hanno portato allo stremo tutti coloro che hanno scelto
di non abbandonare la propria terra e il bestiame, per molti
unica fonte di sostentamento. Sempre più alto, inoltre, è il
numero di cittadini che provvedono a dotarsi, a proprie
spese, di casette di legno e/o di stalle per ricoverare gli
animali. Abbiamo appreso, in queste ultime ore, che il
commissario straordinario Vasco Errani ha previsto la
possibilità di un rimborso per chi ha sostenuto questi costi
autonomamente».
Non sarebbe opportuno fare un po' d'ordine?
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia
semplice per 31 lavori. Efficienza energetica, statica e
barriere architettoniche.
AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA/ In preconsiglio dei ministri
il dpr sugli interventi.
Autorizzazione paesaggistica esclusa per 31 piccoli
interventi, tra cui quelli volti a migliorare l'efficienza
energetica e il consolidamento statico degli edifici e le
opere indispensabili per il superamento delle barriere
architettoniche. La condizione è che queste misure non
comportino modifiche sostanziali agli edifici.
Lo prevede il dpr sulla individuazione degli interventi
esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata (articolo 12 del dl
83/2014), che, dopo aver superato, con alcuni rilievi, il
vaglio del Consiglio di stato (si veda ItaliaOggi del 2 e
03/09/2016 e del 02/11/2016) è andato ieri in preconsiglio dei
ministri ed è quindi pronto per l'approvazione definitiva.
Il provvedimento
(Atto
del Governo n. 336
- Schema di decreto del Presidente della Repubblica
recante regolamento relativo all'individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata)
individua anche 42 tipologie di interventi
considerati ad impatto lieve sul territorio come quelli
antisismici e di miglioramento energetico. L'esonero
dall'autorizzazione deve essere dunque appannaggio degli
interventi privi di rilevanza paesaggistica. E questo si
verifica, ad esempio, per le opere interne che non alterano
l'aspetto esteriore degli edifici. Ma anche quando le opere,
per la loro dimensione o le modalità della loro
realizzazione, non assumano una specifica lesività nei
confronti del contesto tutelato dal vincolo, rispettando gli
eventuali piani colore vigenti nel comune e le
caratteristiche architettoniche, morfotipologiche, dei
materiali e delle finiture esistenti.
Altri interventi pure
liberalizzati, ma che, in astratto, sembrano poter incidere
in maniera lesiva sul contesto paesaggistico, sono quelli
«indispensabili per l'eliminazione delle barriere
architettoniche», e quello concernente l'installazione di
«micro generatori eolici» di altezza inferiore a metri 1,5.
Anche in relazione a tali interventi, il ministero precisa
che la liberalizzazione opera per rispettare l'interesse
della tutela della salute e dei soggetti diversamente abili
e la promozione dell'utilizzo di fonti rinnovabili di
produzione dell'energia.
Il decreto in esame, oltre a
interventi e opere non soggetti ad autorizzazione
paesaggistica, individua gli interventi, di regola inseriti
fra quelli che necessitano di un'esplicita autorizzazione
paesaggistica, che, però, possono essere realizzati senza
l'acquisizione di tale provvedimento, nel caso in cui il
decreto di vincolo o il piano paesaggistico prevedano
specifiche prescrizioni d'uso.
Poi ci sono interventi che
non necessitano di autorizzazione paesaggistica, perché
compresi nell'ambito applicativo di specifici «accordi di
collaborazione» fra ministero, regione ed enti locali. Il
decreto elenca, infine, interventi e opere di lieve entità
soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato. Per il
procedimento autorizzatorio semplificato sono previste tre
diverse modalità di presentazione dell'istanza: l'invio,
anche telematico, allo Sportello unico per l'edilizia (Sue)
nel caso di interventi edilizi; l'invio, anche telematico,
allo Sportello unico per le attività produttive (Suap);
l'invio all'autorità procedente nei casi residuali.
Il
termine «tassativo» di conclusione del procedimento autorizzatorio semplificato è di 60 giorni dal ricevimento
della domanda da parte dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Capacità
assunzionali triple. Nel programmare le assunzioni sì al
cumulo di tre quote. Rimosso il blocco per ricollocare i
lavoratori provinciali, tornano le regole generali.
Gli enti locali possono programmare le nuove assunzioni del
triennio 2017-2019 cumulando le capacità assunzionali
derivanti dalle cessazioni intervenute nel 2016 con i
«resti» derivanti dagli esercizi anteriori e con le
cessazioni previste nei prossimi due anni.
Con la quasi completa rimozione del «blocco» imposto per
agevolare la ricollocazione dei lavoratori in esubero delle
province (che rimane in vigore solo in Liguria), tornano ad
applicarsi le regole generali, in base alle quali la
capacità assunzionale è quella che risulta dalla sommatoria
di tre quote.
La prima quota è quella derivante dalle
cessazioni intervenute nell'anno precedente: per il 2017,
quindi, occorre fare riferimento al 2016. Il budget,
tuttavia, si calcola secondo regole differenziate. Per gli
enti già soggetti al patto di Stabilità interno, esso è pari
ad una percentuale della spesa dei cessati, che in generale
è fissata al 25%, anche se si punta almeno a triplicarla
(attraverso emendamenti al disegno di legge di conversione
del Milleproroghe o inserendo un correttivo in un decreto ad
hoc); il turnover è già al 75% per i comuni fino a 10.000
con rapporto dipendenti/popolazione inferiore ai parametri
ministeriali relativi agli enti deficitari e dissestati,
mentre i comuni istituiti mediante fusione hanno il 100%.
Per gli enti che non erano soggetti al patto, invece, il
budget si calcola «per teste» ed è pari al 100% dei cessati
dell'anno precedente (indipendentemente dalla relativa
spesa). Un regime particolare interessa le unioni di comuni,
che possono scegliere fra il turnover al 100% della spesa e
quello al 100% per teste.
La seconda quota è rappresentata dai «resti» di capacità assunzionale
inutilizzati e «trascinati» da esercizi precedenti a
quello appena trascorso. Anche qui occorre distinguere fra
enti che erano soggetti ed enti che erano esclusi dal patto
di Stabilità.
I primi possono utilizzare solo i resti del triennio
immediatamente precedente: nel 2017, quindi, è disponibile
la parte non spesa dei budget relativi agli anni
2014-2015-2016, calcolati sulle rispettive cessazioni degli
anni 2013-2014-2015; rispetto al 2016, quindi, sono persi
gli eventuali resti del 2013, derivanti dalle cessazioni del
2012. Gli enti che erano esclusi dal patto, invece, possono
utilizzare i resti anche trascinati da esercizi anteriori,
purché successivi al 2007.
La terza quota, infine, è quella derivante dal c.d.
cumulo triennale diretto al futuro, che consente di
programmare le assunzioni sommando nel piano del fabbisogno
triennale i budget derivanti dalle cessazioni attese.
Per la programmazione 2017-2019, quindi, si possono
considerare i budget 2018 e 2019, quantificati in base alle
cessazioni ipotizzate nel 2017 e nel 2018. L'ente potrà
esperire i concorsi ma le assunzioni dovranno rispettare le
regole del turnover, per cui avverranno solo nell'anno
successivo a quello in cui le cessazioni ipotizzate si sono
effettivamente verificate
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017). |
APPALTI: Qualificazione
Pa, albo a 4 fasce. Dal 2019 modelli di costruzione
obbligatori oltre i cento milioni.
Contratti pubblici. Ultimi ritocchi alla bozza di Dpcm sul
sistema di abilitazione delle stazioni appaltanti.
È pronto a compiere
l'ultimo miglio verso Palazzo Chigi il decreto che definirà
il nuovo sistema di qualificazione delle stazioni
appaltanti. Si tratta di uno dei pilastri della riforma dei
contratti pubblici, che ha tra i suoi primi obiettivi quello
di ridurre il numero e innalzare le competenze delle decine
di migliaia di enti abilitati a gestire le gare d’appalto
(nessuno conosce il numero preciso, le stime più accreditate
dicono 35mila).
Forse non si scenderà ai circa 200 centri di
spesa annunciati nelle prime fasi di definizione del codice,
ma la scelta di organizzare la qualificazione delle Pa per
fasce di importo garantirà perlomeno che ciascun ente possa
occuparsi solo degli appalti che riesce a gestire in forza
dell’esperienza acquisita, del personale a disposizione,
delle ore dedicate a formare i propri dipendenti.
L’iscrizione all’albo sarà necessaria per tutti gli appalti
di lavori di importo superiore a 150mila euro e per tutti
gli acquisti di beni e servizi oltre 40mila euro, a meno di
non affidarsi a una centrali di committenza. L’elenco sarà
distribuito su quattro livelli. Nel campo delle opere
pubbliche, il livello minimo consentirà di gestire solo
appalti di manutenzione fino all’importo massimo di un
milione. Il secondo gradino («livello base») permetterà di
gestire appalti fino alla soglia comunitaria, che per i
lavori si attesta a 5,2 milioni di euro.
Si passa poi al
«livello alto» che permette di gestire gare di lavori fino a
20 milioni. Mentre all’ultimo gradino si attesteranno le
stazioni appaltanti qualificate per gestire lavori oltre i
20 milioni e i cosiddetti «lavori complessi», vale a dire
interventi di importo superiore a 15 milioni, di notevole
complessità tecnologica o “territoriale” (geologia,
sismicità, ecc.) oltre a concessioni e affidamenti a general
contractor.
Per ognuno dei quattro livelli di qualificazione previsti il
decreto imporrà un numero minimo di personale interno
qualificato. Il numero esatto, da definire, è uno dei punti
più delicati del provvedimento perché da qui passerà la
"tagliola" che metterà in fuorigioco migliaia di enti che
ora possono gestire appalti senza limiti di importo.
La
proposta contenuta nella bozza messa a punto dai tecnici
delle Infrastrutture tiene conto dei numeri a disposizione
delle maggiori stazioni appaltanti italiane (Anas e Rfi su
tutte) e di quelle qualificate di diritto (come Consip e
Invitalia). Inoltre è stata inserita una norma di
"salvataggio", una sorta di iscrizione con riserva che
permetterà alle Pa di continuare a bandire gli appalti in
proprio dimostrando di avere a disposizione il personale
necessario a gestire le gare già programmate
Insieme alla qualificazione delle stazioni appaltanti hanno
fatto passi avanti altri due provvedimenti di rilievo nel
complesso sistema di attuazione del codice. Il primo
riguarda l’introduzione delle piattaforme Bim (Building
information modelling) per la gestione dei cantieri. La
commissione nominata dal Mit punta a renderlo obbligatorio
dal 2019 per le opere sopra i cento milioni, rendendolo
facoltativo per i lavori più semplici.
Vicino al traguardo
finale è poi il decreto sulla pubblicazione dei bandi di
gara. Il provvedimento firmato dal ministro Graziano Delrio,
cancella la necessità di pubblicazione in Gazzetta dal
momento in cui sarà operativa la piattaforma telematica
gestita dall’Anac. Confermato, come previsto dal codice,
l’obbligo di pubblicazione sui quotidiani (articolo Il Sole 24 Ore del
18.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole,
non vale il distacco. Riscaldamento.
Una sentenza della Cassazione impone di dimostrare l’assenza
di squilibrio termico.
Le spese per l’adeguamento entro il 30 giugno sono a carico
di tutti.
Il decreto
milleproroghe (244/2016) ha prorogato al 30.06.2017
l’installazione nel condominio di sistemi di
contabilizzazione del calore in ossequio alla normativa
europea, la direttiva 2012/27/Ue, alla norma tecnica Uni
10200 ed alle leggi regionali.
Tuttavia il quesito che spesso ricorre nelle assemblee è se
un condòmino possa non aderire a tale obbligo mediante il
distacco dall’impianto termico comune, a prescindere dalle
sanzioni amministrative previste in caso di mancata adozione
dei sistemi.
In tale materia è intervenuta la Corte di Cassazione con la
sentenza 23756/2016. La Cassazione ha affermato che per
costante sua giurisprudenza il condòmino è sempre obbligato
a pagare le spese di conservazione dell’impianto di
riscaldamento anche quando sia stato autorizzato a
rinunziare all’uso del riscaldamento centralizzato e a
distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare
dall’impianto comune.
Allo stesso modo il condòmino è tenuto a concorrere alla
spesa anche quando abbia offerto la prova che dal distacco
non derivino né un aggravio di gestione o un suo squilibrio
termico: in tali casi è esonerato soltanto dall’obbligo
delle spese occorrenti per il suo uso, se il contrario non
risulta dal regolamento condominiale.
È quindi lecita la delibera condominiale che ponga a carico
anche dei condòmini che sia siano distaccati dall’impianto
di riscaldamento le spese occorrenti per la sostituzione
della caldaia in quanto «l’impianto centralizzato
costituisce un accessorio di proprietà comune, al quale i
predetti potranno comunque allacciare la propria unità
immobiliare».
La Corte afferma che al fine di consentire il distacco «occorre
verificare se, con gli stessi periodi di accensione tutti
gli altri restanti appartamenti fruissero della stessa
quantità di calore goduta prima del distacco, e dei medesimi
tempi di erogazione del servizio di acqua calda».
Quindi la Corte sostiene che il diritto all’esonero dalle
spese di gestione per il condòmino che si è munito di
impianto termico autonomo non può basarsi unicamente su
un’attestazione rilasciata da un tecnico specializzato,
priva di adeguata prova dell’inesistenza dello squilibrio
termico con i restanti appartamenti.
Pertanto i condòmini “dissenzienti ed autonomi”
devono provare l’assenza di squilibrio termico conseguente
al distacco dei loro impianti, e comunque non sono esonerati
dal concorso alle spese per consentire l’adeguamento
dell’impianto centrale condominiale, entro il 30.06.2017, al
sistema di contabilizzazione del calore secondo la direttiva
2012/27/Ue e norma tecnica Uni 10200.
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La Lombardia non riconosce la proroga.
Conflitto tra poteri. La Regione sostiene la prevalenza
della «sua» legge rispetto al Dl 244/2016.
La proroga al 30.06.2017 per l’installazione dei sistemi di
contabilizzazione e termoregolazione non vale per la Regione
Lombardia.
È quanto sostiene la Regione
stessa sulla pagina
internet www.curit.it.
La proroga è prevista nel Dl 244/2016 (il “milleproroghe”),
mentre il termine del 31.12.2016 (quindi già scaduto) è
previsto in Lombardia dalla Legge Regionale 24/2006,
articolo 9, comma 1, lettera c). Per la Regione, quindi, la
Legge Regionale prevale sulla norma nazionale.
Va però fatta qualche considerazione. Si ricordi, infatti,
che dallo spirare del termine derivano due importanti
conseguenze:
a) migliaia di cittadini lombardi potrebbero vedersi destinatari
della sanzione amministrativa da 500 a 3000 euro per ogni
unità immobiliare, come previsto dalla Dgr Lombarda n.
1118/2013 articolo 25, comma 5, lettera q);
b) decadenza di tutti i contratti stipulati con un terzo
responsabile, ai sensi dell’articolo 11, comma 5, della
medesima Dgr 1118/2013, in quanto l’impianto non sarebbe più
conforme alle disposizioni di legge.
La legge 24/2006 Regione Lombardia prevedeva inizialmente la
scadenza per la termoregolazione al al 01.08.2014.
Successivamente, con la legge 20/2015, la Regione decise di
uniformarsi alla normativa nazionale richiamando
espressamente il Dlgs 102/2014, che all’articolo 9, comma 5,
prevedeva la scadenza al 31.12.2016. Apparirebbe chiaro,
quindi, l’intento del legislatore lombardo di uniformarsi
alla scadenza nazionale e prevedere che la delibera di
giunta sia idonea a contenere le disposizioni attuative per
il rispetto del termine.
In questo contesto si inserisce il decreto legge così detto
“milleproroghe” che rinvia la scadenza per l’adozione
dei sistemi di contabilizzazione e di termoregolazione al
30.06.2017.
Pur nell’incertezza interpretativa, anche in riferimento
alla possibile incompatibilità tra le nuove disposizioni di
legge e le precedenti, nonché ai rapporti tra le diverse
potestà legislative esercitate dallo Stato e dalle Regioni
(le une fatte proprie dalle altre), non apparirebbe arduo
interpretare le norme citate nel senso che la proroga al
30.06.2017, atteso il richiamo, possa trovare applicazione
anche in Lombardia.
Visti gli aspetti economici (sanzioni amministrative) e
contrattuali (decadenza dei contratti stipulati con i terzi
responsabili), potrebbe essere utile un pronunciamento del
Consiglio Regionale Lombardo (articolo Il Sole 24 Ore del
17.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Elettrosmog,
cambiano le misure. Le valutazioni dei gestori di impianti
devono considerare la schermatura di pareti e finestre.
Inquinamento. La fissazione dei valori di assorbimento delle
strutture permette di valutare la contaminazione degli spazi
interni.
Con il decreto
05.10.2016, il ministero dell’Ambiente ha fissato i valori
di assorbimento del campo elettromagnetico da parte delle
strutture di edifici, ai fini della misura previsionale e
della valutazione dell’impatto all’interno degli immobili.
Si tratta dei valori predefiniti che devono essere presi in
considerazione dai gestori di impianti di telecomunicazioni
che vogliono installare o potenziare l’apparato. E che
devono perciò allegare all’istanza autorizzativa una
relazione circa l’effetto elettromagnetico sui “recettori”
(case, edifici pubblici, ospedali, eccetera) che si trovano
attorno all’impianto stesso.
Se prima le valutazioni erano eseguite in corrispondenza
dell’involucro degli edifici, adesso ne prendono infatti in
esame lo spazio interno: motivo per cui va incluso nel
calcolo l’assorbimento determinato dalle “schermature” delle
pareti.
Linee guida attuative
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 252 del 27.10.2016,
il Dm 05.10.2016 è un provvedimento attuativo delle linee
guida previste dalla legge che regola i criteri di
protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed
elettromagnetici (Cem). Nasce dal cosiddetto decreto
Crescita 2.0 (Dl 179/2012 convertito dalla legge 221/2012),
che ha introdotto all’articolo 14, comma 8, alcune
disposizioni integrative alle norme tecniche in materia di
elettrosmog (Dpcm 08.07.2003).
Le linee guida fanno seguito all’altro decreto ministeriale
già approvato (Dm Ambiente 02.12.2014) relativo sia alle
modalità con cui gli operatori forniscono all’Ispra e alle
Arpa i dati di potenza degli impianti, sia ai fattori di
riduzione della potenza da applicare nelle stime
previsionali (per considerare la variabilità dell’emissione
nell’arco delle 24 ore). Le tecniche di misurazione e
rilevamento, e di calcolo previsionale, sono quelle indicate
dalle norme Cei.
I valori di assorbimento
La definizione dei valori di assorbimento –come ha spiegato
il ministero dell’Ambiente– è il risultato di una
sperimentazione effettuata dai tecnici dell’Ispra e delle
Arpa Liguria, Piemonte, Umbria e Veneto. Con lo scopo di
misurare il valore di attenuazione del campo
elettromagnetico (generato da impianti di
teleradiocomunicazione) in presenza di pareti e coperture
con finestre, o altre aperture analoghe.
Dunque, le facciate delle case vicine all’impianto quanto
possono attenuare le onde elettromagnetiche? Per tener conto
«delle differenti proprietà schermanti offerte dai
materiali in funzione della frequenza» –si legge nel Dm–
vengono adottati tre fattori di riduzione:
- 6 decibel, per pareti e coperture senza finestra, o altre
aperture simili, in prossimità di impianti con frequenza di
trasmissione superiori a 400 MHz (ad esempio: telefonia
mobile, wi-fi, digitale terrestre);
- 3 decibel, per pareti e coperture senza finestra o simili,
in presenza di segnali inferiori a 400 MHz (ad esempio:
radio Fm);
- zero decibel, invece, per pareti e coperture con finestre,
indipendentemente dalla frequenza di funzionamento degli
impianti («in considerazione della possibilità di
esposizione nella condizione a “finestre aperte”»).
In quest’ultimo caso, e solo «nelle situazioni di
criticità legate alla progettazione e alla realizzazione di
reti mobili», il gestore può usare fattori di
attenuazione diversi da zero, ma comunque compresi
nell’intervallo tra 0 e 3 decibel. Deve però giustificare,
certificare e documentare tale scelta con prospetti e
fotografie, realizzati da un professionista.
A quel punto, le agenzie potranno quindi rilasciare il
parere ambientale di propria competenza, ma vincolandone la
validità alle misurazioni con l’impianto attivo, per
verificare il rispetto dei limiti e la correttezza dei
documenti presentati.
Definizione delle aree
Per parete con finestra si intende qualunque porzione di un
edificio, in corrispondenza di un piano, dove siano presenti
delle aperture. E l’attenuazione pari a zero decibel è da
considerare nel calcolo del campo elettromagnetico nelle
aree: direttamente in linea di vista con l’antenna; ovvero
per le quali la retta che congiunge l’antenna e un punto
interno all’edificio non intercetta altro ostacolo se non la
parete stessa.
Quando invece la porzione di edificio al piano non presenta
aperture, «dovrà essere applicata l’attenuazione da
parete senza finestra per il calcolo del campo
elettromagnetico (…) ad una quota di 1,5 m dal piano di
calpestio».
---------------
Ma all’appello manca il Dm che definisce
le pertinenze abitative. L’attuazione. Il mosaico disegnato
dal Dl 179/2012.
Manca ancora un
decreto attuativo per completare il quadro disegnato dal Dl
179/2012: le linee guida sulla definizione delle pertinenze
esterne con dimensioni abitabili. Il provvedimento
rappresenta l’ultimo tassello operativo richiesto
dall’articolo 14, comma 8, del Dl Crescita 2.0, che ha
integrato le norme in materia di elettrosmog dettate dal
Dpcm 08.07.2003.
Quest’ultimo –in attuazione della legge quadro 36/2001– ha
fissato i limiti di esposizione e i valori di attenzione per
prevenire gli effetti a breve termine e i possibili effetti
a lungo termine sulla popolazione, dovuti all’esposizione di
campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (Cem)
generati da sorgenti fisse ad alta frequenza (compresa tra
100 kHz e 300 GHz). Ad esempio, gli impianti per diffusione
radiotelevisiva, telefonia mobile o rete wi-fi.
Lo stesso Dpcm ha anche definito gli obiettivi di qualità,
ai fini della progressiva minimizzazione dell’esposizione ai
Cem e individuato le tecniche di misurazione dei livelli
espositivi.
Modificando tale provvedimento, il Dl 179/2012 ha delimitato
il campo applicativo dei valori di attenzione (per prevenire
gli effetti anche a lungo termine), specificando che questi
valori debbano assumersi all’interno di edifici usati come
ambienti abitativi con permanenze continuative non inferiori
a 4 ore giornaliere, incluse le pertinenze esterne con
dimensioni abitabili.
Il decreto prevede quindi che, anche in fase autorizzativa
(cioè nelle istanze per l’installazione degli impianti), la
verifica attraverso la stima previsionale del valore di
attenzione e dell’obiettivo di qualità sia basata su valori
medi nelle 24 ore, ricavati con precisi fattori di riduzione
della potenza massima al connettore d’antenna, che
considerino la variabilità temporale dell’emissione dei
segnali generati dagli impianti (cioè dei campi
elettromagnetici). In assenza di pertinenze esterne
abitabili, i calcoli previsionali dovranno quindi includere
i valori di assorbimento del campo elettromagnetico da parte
delle strutture di edifici.
In sintesi, il Dl 179/2012 affida alle linee guida
predisposte dall’Ispra e dalle Arpa/Appa (e che possono
essere aggiornate ogni sei mesi) il compito di definire:
- le modalità per la fornitura dei dati di potenza degli
impianti da parte degli operatori;
- i fattori di riduzione della potenza massima al connettore
di antenna;
- i valori di assorbimento del campo elettromagnetico da
parte delle strutture di edifici;
- la nozione di pertinenze esterne con dimensioni abitabili,
per permanenze continuative giornaliere non inferiori a 4
ore.
I primi due aspetti (dati e fattori di riduzione) sono stati
precisati dal Dm 02.12.2012; mentre il terzo (valori di
assorbimento) è stato specificato dal recente Dm 05.10.2016.
Si attende dunque, dopo il parere delle commissioni
parlamentari, il decreto che definisca gli ambienti
abitativi e le dimensioni minime delle pertinenze esterne
abitabili come balconi, terrazzi e cortili (sono esclusi i
tetti anche se ci sono lucernai ed i lastrici solari con
funzione prevalente di copertura e di proprietà comune dei
condomini) (articolo Il Sole 24 Ore del
16.01.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente
premi ai dirigenti se manca il «bilancio arboreo».
Adempimenti. Obbligo di piantare un albero per ogni nuovo
nato.
Due mesi prima della scadenza naturale del loro mandato, i
sindaci devono «rendere noto» il bilancio arboreo del
Comune. È un obbligo di pubblicità vero e proprio che
comporta per gli inadempienti le pesanti sanzioni previste
dalle norme sulla trasparenza.
Lo ricorda il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico (delibera
12.12.2016 n. 17/2016), istituito presso il ministero
dell’Ambiente con il compito di vigilare sul rispetto della
normativa che stabilisce per i Comuni sopra i 15mila
abitanti di piantare un albero per ogni bambino registrato
all’anagrafe o adottato, di redigere un bilancio arboreo che
evidenzi il rapporto fra il numero degli alberi piantati in
aree urbane di proprietà pubblica rispettivamente al
principio e al termine del mandato stesso, dando conto dello
stato di consistenza e manutenzione delle aree verdi urbane
di propria competenza e di rendere pubbliche tutte queste
informazioni.
La normativa, nata per incentivare gli spazi verdi urbani,
esiste in realtà da venticinque anni. L’obbligo di piantare
un albero per ogni neonato era stato introdotto in Italia
con la legge Cossiga-Andreotti n. 113/1992. Poi, la legge 10
del 2013 ha introdotte modifiche operative.
L’obbligo non si applica più a tutti i Comuni ma solo quelli
con una popolazione superiore ai 15mila abitanti e non
interessa solo le nascite, ma anche i bambini adottati. Un
altro cambiamento riguarda i tempi: la piantumazione dovrà
avvenire entro sei mesi, e non più dodici, dalla nascita o
dall’adozione.
Obbligo di pubblicazione
Con la delibera 17/2016, il Comitato per lo sviluppo del
verde pubblico ricorda che si tratta di un vero e proprio
obbligo di pubblicazione. Per gli inadempienti dunque sono
previste le sanzioni stabilite dal Dlgs 33/2013 in base al
quale tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di
pubblicazione obbligatoria vanno diffusi sui siti web
istituzionali delle amministrazioni perché sono dati
pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli e di
utilizzarli gratuitamente.
Le sanzioni
In caso di inosservanza, le sanzioni sono quelle stabilite
dall’articolo 46 dello stesso decreto legislativo secondo il
quale l’inadempimento degli obblighi di pubblicazione
comporta la valutazione della responsabilità dirigenziale,
eventuale causa di responsabilità per danno all’immagine
dell’amministrazione e conta comunque ai fini della
corresponsione della retribuzione di risultato e del
trattamento accessorio collegato alla performance
individuale dei responsabili (articolo Il Sole 24 Ore del
16.01.2017). |
APPALTI SERVIZI: Tripla
verifica sul controllo analogo.
Affidamenti in house. Le Linee guida dell’Anac.
L’articolo 192,
comma 1, del Codice degli appalti prevede, che sia «istituito
presso l’Anac, anche al fine di garantire adeguati livelli
di pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici, l’elenco
delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti
aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei
confronti di proprie società in house» e affida all’Anac
stessa un compito di riscontro dell’effettiva «esistenza
dei requisiti, secondo le modalità e i criteri che
l’Autorità definisce con proprio atto».
Da qui nascono le «linee guida di attuazione del Dlgs
50/2016 che riguardano l’iscrizione nell’elenco delle
amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori
che operano con affidamenti diretti nei confronti di proprie
società in house» e si concretizzano in un’attività di
controllo che va ad aggiungersi alle altre già previste dal
legislatore, finendo per immaginare la strada per
l’efficienza come una sorta di oneroso percorso a ostacoli.
Comunque, per comprendere le linee guida dell’Anac, ora in
attesa del parere del Consiglio di Stato, è bene leggere la
Relazione Air, da cui risulta chiara l’intenzione di Anac di
non limitarsi a un ruolo meramente notarile.
La premessa della Relazione, infatti, è che «contesto e
obiettivi dell’intervento dell’Autorità» corrispondono
alle finalità della normativa, cioè «alla
razionalizzazione del sistema delle partecipazioni pubbliche
e alla riduzione della spesa pubblica». In realtà, dal
tenore delle linee guida parrebbe che le verifiche si
concentreranno sugli aspetti statutari e documentali. Anche
per quanto riguarda l’attività prevalente (il famoso 80%)
l’impressione è che, almeno in questa prima fase, Anac si
limiterà a prendere atto di quanto dichiarato.
Opportunamente, invece, particolare attenzione viene data
all’esercizio del controllo analogo.
Sul punto sia le Linee Guida sia la Relazione Air si
dilungano in modo particolare, riconoscendone le diverse
forme e, soprattutto, delineando quali siano le modalità che
ne consentano l’esercizio e delle quali, per evitare
incomprensioni e problemi, è bene tenere conto. Si immagina
un controllo ex ante, esercitabile attraverso atti di
programmazione e di preventiva approvazione delle decisioni
societarie; un controllo contestuale, che si concretizza
nella richiesta di relazioni periodiche e di verifica dello
stato di attuazione dei programmi e, infine, un controllo
ex post, esercitabile in fase di approvazione del
rendiconto.
Vengono anche considerati idonei all’esercizio del controllo
analogo, ad esempio l’attribuzione all’amministrazione
aggiudicatrice del potere di nomina e revoca della
maggioranza degli amministratori, il vincolo per questi
ultimi al rispetto delle prescrizioni impartite in sede di
controllo analogo e il divieto di cessione delle quote a
privati fatte salve le eccezioni di legge.
Questo controllo, in fase di iscrizione nel registro, non
potrà che essere essenzialmente documentale, ma Anac prevede
di fare successivamente verifiche a campione, che saranno
forse più significativi della mera iscrizione all’elenco.
Si noti, per inciso, che nella prima parte della Relazione
Air si dà un’interpretazione molto restrittiva
dell’ammissibilità dell’ingresso dei privati nel capitale,
leggendola come consentita solo nei casi in cui questa venga
imposta dalla legge.
Vedremo che cosa verrà fatto in concreto. L’auspicio è che
si operi con buonsenso, svolgendo un ruolo di impulso alla
correttezza amministrativa, senza eccedere negli
appesantimenti burocratici ed evitando per quanto possibile
contenziosi che non sono utili a nessuno (articolo Il Sole 24 Ore del
16.01.201). |
SEGRETARI COMUNALI: Aran
vs giudici sugli stipendi dei segretari in convenzione.
L’Aran ritiene che la popolazione delle
segreterie in convenzione vada calcolata con riferimento a
quella del Comune capofila e non possa essere calcolata come
somma degli abitanti degli enti aderenti.
In tal modo si riprendono le indicazioni dettate dalla
Ragioneria generale dello Stato e dal ministero dell’Interno
e si contraddicono i principi contenuti nella sentenza
n. 203/2016 del Tribunale di Como.
Siamo così dinanzi all’ennesimo contrasto sull’applicazione
delle disposizioni sui segretari comunali: va ricordato sul
tema anche il contrasto che divide i pareri delle sezioni di
controllo della Corte dei Conti e la magistratura ordinaria
sulla possibilità che i segretari inquadrati nelle fasce A e
B possano percepire i diritti di rogito nei Comuni in cui
non vi sono dirigenti, possibilità negata dai pareri dei
giudici contabili e ammessa dalle sentenze dei giudici
ordinari.
Per l’Aran la popolazione delle convenzioni di segreteria
deve essere calcolata sulla base di quella del solo Comune
capofila in quanto ciò corrisponde alle previsioni del
contratto collettivo nazionale di lavoro, con particolare
riferimento agli articoli 37, 41 e 45 del contratto del
16.05.2001 e all’articolo 3 del contratto del 01.03.2011.
Il parere dell’Aran mette inoltre in evidenza gli effetti
paradossali che potrebbero determinarsi nel caso in cui si
calcoli la popolazione residente delle convenzioni di
segreteria come somma degli abitanti dei Comuni aderenti: il
trattamento economico del segretario potrebbe infatti
raggiungere una cifra più elevata di quanto egli ha diritto
a percepire in base alla fascia di inquadramento.
Il parere smentisce quindi la sentenza del giudice del
lavoro comasco su un punto essenziale: non vi è alcuna
novità interpretativa, conclusione che la sentenza aveva
giudicato illegittima, in quanto non sono intervenute a
suggerire la stessa nuove disposizioni né legislative né
contrattuali.
L’Aran rivendica invece che l’interpretazione del dettato
contrattuale che individua il criterio di calcolo della
popolazione delle convenzioni di segreteria non poteva ab
origine che essere quello da essa suggerita. A sostegno
del rilievo che ha questa tesi si deve ricordare che la
stessa Aran è una delle due parti che hanno sottoscritto il
contratto nazionale.
E che nel nostro ordinamento si applica ancora oggi il
divieto di estensione del giudicato, anche di quello che ha
carattere definitivo.
Senza volere entrare nel merito delle argomentazioni Aran,
non si può però mancare di ricordare che l’interpretazione
sul calcolo della popolazione della convenzione di
segreteria, facendo riferimento a quella dei Comuni aderenti
e non del solo ente capofila, era stata fatta propria da una
pluralità di soggetti che rivestono un ruolo istituzionale,
a partire dalla disciolta Agenzia per la gestione dell’Albo
dei segretari, cioè dal soggetto che fino agli anni scorsi
era il datore di lavoro dei segretari comunali e
provinciali.
Di sicuro c’è la constatazione che ancora una volta le
indicazioni operative fornite da vari livelli istituzionali
nella applicazione del dettato legislativo e di quello
contrattuale vanno spesso in direzione completamente
diversa, e che tutto ciò pesa non poco sulla credibilità
complessiva delle istituzioni (articolo Il Sole 24 Ore del
16.01.2017). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI SERVIZI:
Qualificazione dei Consorzi stabili negli appalti servizi.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Consorzi
stabili – Qualificazione – Disciplina – Appalto servizi –
Nelle more dell’adozione delle Linee guida – Individuazione.
L’art. 83, comma 2, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 non disciplina in modo compiuto
qualificazione dei Consorzi stabili nelle procedure di
affidamento pubbliche, rimettendo alla predisposizione di
Linee-guida da parte dell’Anac; nelle more della loro
adozione la partecipazione alle gare dei Consorzi stabili
trova ancora, ai sensi dell’art. 216, comma 4, dello stesso
nuovo Codice dei contratti pubblici le proprie disposizioni
di riferimento nel precedente ordinamento di settore,
estensibili anche all’affidamento di servizi (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che nel previgente ordinamento, dettato
dal d.lgs. 12.04.2006, n. 163, non è rinvenibile alcuna
differenziazione tra appalti di lavori e appalti di servizi
in ordine ai requisiti di partecipazione alle gare dei
Consorzi stabili. Non è dunque implausibile, sempre ad
avviso del Tar, ritenere che le future Linee-guida Anac, in
disparte ogni questione in ordine alla loro formale
riferibilità a una specifica tipologia di gara, siano
suscettibili di concretare indicazioni di carattere
generale, destinate, in quanto tali, a conformare l’intera
materia.
Del resto, in tale scenario, la scelta operata dal nuovo
Codice dei contratti con il comma 2 dell’art. 83 è di fare
salve, temporaneamente, le regole antecedenti, e tale
scelta, ancorché espressa immediatamente dopo la rimessione
all’Anac del compito di predisporre le Linee guida “per i
lavori”, è, però, di carattere assoluto (“Fino
all'adozione di dette linee guida, si applica l'art. 216,
comma 14”), non essendo stata richiamata, anche in tal
caso, la delimitazione che connota il periodo precedente (“per
i lavori”).
Ha chiarito il Tar che la conclusione cui è pervenuto trova
conforto in un dato di sistema e in un elemento testuale. In
primo luogo proprio l’Anac ha spiegato (Faq predisposte
dall’ANAC “sulle questioni interpretative relative
all’applicazione delle disposizioni del d.lgs. 50 del 2016
nel periodo transitorio”, di cui al Comunicato
08.06.2016, punto 3), in relazione al quesito su quali siano
le norme applicabili alla qualificazione dei Consorzi sino
all’adozione delle Linee-guida previste dall’art. 82, comma
2, d.lgs. n. 50 del 2016, che i requisiti sono individuati
in linea generale dall’art. 47 del nuovo Codice, e, sul
rilievo che “l’art. 261, comma 14, prevede che fino
all’adozione delle Linee-guida previste dall’art. 83, comma
2, del Codice (che attengono anche ai requisiti e alle
capacità che devono essere posseduti dai consorzi) si
applica la parte II, titolo III, d.P.R. 05.10.2010, n. 207
(Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163). Tra queste disposizioni
sono ricomprese anche quelle che disciplinano la
qualificazione dei Consorzi e, in particolare, l’art. 81,
che, attraverso un rinvio recettizio, dispone che la
qualificazione dei Consorzi stabili avviene secondo le
disposizioni dell’art. 36, comma 7, del Codice”.
L’Anac, ad avviso del Tar Lazio, non risulta, quindi, aver
in alcun modo limitato il periodo transitorio di
ultravigenza delle previgenti disposizioni agli appalti di
lavori.
Quanto al criterio teleologico, l’art. 83 del nuovo Codice,
nel prescrivere che i requisiti e le capacità per le
qualificazioni devono essere attinenti e proporzionali
all'oggetto dell'appalto, richiama l’interesse pubblico “ad
avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel
rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”. Tale
finalità risulterebbe compromessa laddove –in presenza di un
nuovo quadro normativo che non offre una compiuta
regolamentazione delle modalità di partecipazione alle gare
dei consorzi stabili, in quanto destinato a essere integrato
da disposizioni di carattere secondario non ancora
predisposte e di cui non si è in grado di apprezzare, allo
stato, la latitudine, e in vista delle quali ricorre a un
periodo transitorio di ultravigenza delle norme anteriori–
dovesse ritenersi, in assenza di inequivocabili previsioni
in tal senso, che, solo per una parte della materia, il
nuovo codice abbia previsto il repentino e generale
sovvertimento delle norme previgenti.
Da tutto quanto sopra argomentato il Tar ha concluso nel
senso che la locuzione di cui all’art. 83, comma 2, d.lgs.
n. 50 del 2016 (“Fino all'adozione di dette linee guida,
si applica l'articolo 216, comma 14”) si interpreta nel
senso dell’applicabilità della disposizione anche agli
appalti di servizi (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 25.01.2017 n. 1324 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Spoils
system, pietra tombale. Dirigenti, no alla cessazione
automatica generalizzata. La
Consulta affossa la norma del dl Monti sulla decadenza
anzitempo e immotivata.
Pietra tombale sullo spoils system. Sono infatti
incostituzionali i meccanismi di decadenza automatica degli
incarichi dirigenziali prima del termine e slegati dalla
valutazione, perfino se si tratta di dirigenti assunti con
contratto a tempo determinato.
La Corte costituzionale torna sull'orma antica questione
dell'incompatibilità dello spoils system con la Costituzione
italiana, mediante la
sentenza 24.01.2017 n. 15, che
ha il ruolo di vero e proprio de profundis su norme tendenti
a far scadere i dirigenti prima del tempo previsto e senza
motivazioni connesse ai risultati conseguiti.
La sentenza della Consulta dichiara incostituzionale l'art.
2, co. 20, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2012 (la
spending review di Monti), ai sensi del quale in conseguenza
del processo di riorganizzazione imposto dal decreto legge
alla Presidenza del consiglio, in base a criteri di
contenimento della spesa e di ridimensionamento strutturale,
e comunque non oltre il 01.11.2012, sarebbero cessati
tutti gli incarichi in corso a quella data, di prima e
seconda fascia, conferiti ai sensi dell'art. 19, co. 6, del
dlgs 165/2001.
Si tratta di una delle tante norme (statali e
regionali) che la Consulta, come scrive espressamente nella
pronuncia 15/2017, è stata chiamata più volte a valutare
negli ultimi anni, introducenti meccanismi di decadenza
automatica di incarichi dirigenziali. La sentenza richiama
l'ormai copiosa e costante produzione giurisprudenziale
costantemente contraria alla decadenza automatica degli
incarichi dirigenziali.
L'ormai consolidato indirizzo
giurisprudenziale della Consulta bolla come incostituzionali
norme che dispongono la cessazione anticipata degli
incarichi «dovuta a cause estranee alle vicende del rapporto
d'ufficio, sottratta a qualsiasi valutazione dei risultati
conseguiti, qualora tali meccanismi siano riferiti a
titolari di incarichi dirigenziali che comportino
l'esercizio di funzioni amministrative attuative degli
indirizzi politici».
La decadenza automatica degli incarichi può valere solo per
gli uffici di staff degli organi politici o per i dirigenti
apicali di cui all'art. 19, co. 3, del dlgs 165/2001,
perché, secondo la Consulta, occorre rispettare la necessità
«per l'organo di vertice di assicurare, intuitu personae,
una migliore fluidità e correttezza di rapporti con diretti
collaboratori quali sono i dirigenti apicali e ovviamente il
personale di staff, funzionali allo stesso miglior andamento
dell'attività amministrativa».
Ciò non può valere, invece, per i dirigenti preposti alla
gestione: infatti, «la previsione di una anticipata
cessazione ex lege del rapporto in corso (in assenza di una
accertata responsabilità dirigenziale) impedisce che
l'attività del dirigente possa espletarsi in conformità al
modello di azione della pubblica amministrazione», che misura
l'osservanza del canone dell'efficacia e dell'efficienza
alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire,
«nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico,
avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato». La
cessazione automatica degli incarichi generalizzata ex lege,
in carenza di idonee garanzie procedimentali, lede «i
principi costituzionali di buon andamento e imparzialità e,
in particolare, il principio di continuità dell'azione
amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon
andamento», anche laddove le disposizioni di decadenza
anticipata riguardino gli incarichi a contratto.
Nel caso di
specie, l'art. 2, co. 20, del dl Monti, osserva la Consulta,
non ha in realtà nemmeno perseguito l'obiettivo della
riduzione della spesa e della razionalizzazione dei costi,
limitandosi, piuttosto, a introdurre un'acritica
«ghigliottina» a tutti gli incarichi a termine alla data
01.11.2012: sicché la vicenda giuridica, sancisce la
Corte costituzionale «è, dunque, assimilabile in termini
sostanziali al fenomeno dello spoils system e, pertanto,
incorre nelle stesse censure» ripetutamente avanzate dalla
giurisprudenza costituzionale maturata a partire dalla
sentenza 103/2007.
La conclusione inevitabile è che la norma
viola i principi posti dagli art. 3, 97 e 98 Costituzione.
Indirettamente, la sentenza può essere un indirizzo al
governo che pare ancora intenzionato a rimettere in pista la
riforma della dirigenza pubblica, arenatasi a seguito della
sentenza della Consulta 251/2016, che però non ha valutato
il merito della legge Madia.
È facile constatare come detta legge avesse previsto
esattamente una decadenza automatica degli incarichi,
completamente slegata dalla valutazione dell'operato dei
dirigenti. Difficile immaginare che quell'impostazione possa
considerarsi rispettosa delle regole costituzionali, alla
luce anche della sentenza 15/2017
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2017). |
APPALTI: La
mancata dichiarazione di un precedente penale a carico di
uno dei concorrenti alla gara, in forma individuale o
associata, costituisce di per sé -a prescindere dalla
gravità del fatto sul piano penalistico- un elemento atto a
incidere negativamente sul giudizio di affidabilità del
concorrente.
Invero, “nelle gare pubbliche, nel caso di omessa
dichiarazione di condanne penali riportate dal concorrente,
è legittimo il provvedimento di esclusione non sussistendo
in capo alla stazione appaltante l'ulteriore obbligo di
vagliare la gravità del precedente penale di cui è stata
omessa la dichiarazione, conseguendo il provvedimento
espulsivo alla omissione della prescritta dichiarazione, che
invece deve essere resa completa ai fini dell'attestazione
del possesso dei requisiti di ordine generale con
particolare riferimento alla lett. c) del comma 1 dell'art.
38 d.lgs. n. 163 del 2006 e deve contenere tutte le sentenze
di condanna subite, a prescindere dalla gravità del reato e
dalla sua connessione con il requisito della moralità
professionale, la cui valutazione compete esclusivamente
alla stazione appaltante”.
---------------
Nel caso di specie, la dichiarazione resa è stata,
letteralmente, nel senso di escludere l’esistenza di
controindicazioni di rilievo penale a proprio carico: essa
dunque è una dichiarazione non incompleta, ma mendace ai
sensi e per gli effetti di cui all’art. 75 d.p.r. 445/2000
laddove: “le dichiarazioni mendaci sulle condanne riportate
sono soggette all'apposito corredo sanzionatorio di cui
all'art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000, che commina la
decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al
provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera. In particolare, il mendacio sulle condanne
riportate, determina una situazione di reticenza o di
inaffidabilità dell'impresa, risultando irrilevante che
quanto non dichiarato sia eventualmente inidoneo ad incidere
sulla moralità professionale”.
---------------
Parte ricorrente ha partecipato alla procedura aperta per
l’affidamento dell’appalto integrato avente ad oggetto il
servizio di architettura e ingegneria per la progettazione
definitiva edile e impiantistica dei lavori, il
coordinamento per la sicurezza in fase di progettazione dei
lavori e il coordinamento per la sicurezza in fase di
esecuzione dei lavori e per le funzioni di Direttore
Operativo per l’assistenza alla Direzione lavori, con
importo a base d’asta di € 46.800,00, ivi compresi
l’onorario e le spese e da aggiudicarsi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Risultata aggiudicataria in via definitiva dell’appalto,
l’aggiudicazione è stata poi revocata (rectius,
annullata) dalla stazione appaltante perché, seguito della
verifica circa il possesso dei requisiti di carattere
generale dichiarati in sede di partecipazione alla gara, è
emerso che uno dei professionisti del raggruppamento
temporaneo di professionisti (RTP), designato per l’attività
di progettazione, aveva un precedente penale (una
fattispecie contravvenzionale), che non aveva dichiarato
nell’autocertificazione allegata alla domanda di
partecipazione.
Con i tre motivi di ricorso che, per la loro connessione,
possono essere esaminati congiuntamente, la difesa attorea
lamenta che il provvedimento di esclusione adottato dalla
stazione appaltante, una volta emersa questa circostanza,
sarebbe illegittimo perché, nel caso di specie, non si
sarebbe trattato di una dichiarazione mendace, ma,
piuttosto, di una dichiarazione solo incompleta e la cui
incompletezza sarebbe stata dovuta ad un errore materiale,
nonché per il carattere solo formale del fatto, attesa la
tenuità del reato.
Il ricorso è infondato e va respinto.
Il Tribunale condivide, infatti, l’orientamento consolidato
nella giurisprudenza amministrativa, secondo il quale la
mancata dichiarazione di un precedente penale a carico di
uno dei concorrenti alla gara, in forma individuale o
associata, costituisce di per sé -a prescindere dalla
gravità del fatto sul piano penalistico- un elemento atto a
incidere negativamente sul giudizio di affidabilità del
concorrente: “nelle gare pubbliche, nel caso di omessa
dichiarazione di condanne penali riportate dal concorrente,
è legittimo il provvedimento di esclusione non sussistendo
in capo alla stazione appaltante l'ulteriore obbligo di
vagliare la gravità del precedente penale di cui è stata
omessa la dichiarazione, conseguendo il provvedimento
espulsivo alla omissione della prescritta dichiarazione, che
invece deve essere resa completa ai fini dell'attestazione
del possesso dei requisiti di ordine generale con
particolare riferimento alla lett. c) del comma 1 dell'art.
38 d.lgs. n. 163 del 2006 e deve contenere tutte le sentenze
di condanna subite, a prescindere dalla gravità del reato e
dalla sua connessione con il requisito della moralità
professionale, la cui valutazione compete esclusivamente
alla stazione appaltante” (TAR Lazio, Roma, II, 01.07.2016 n. 7586; cfr. anche Id.,
08.06.2016 n, 6687; Cons.
Stato, IV, 03.05.2016 n. 1717; TAR Umbria, I, 26.02.2016 n. 200; TAR Basilicata, I, 24.02.2016 n. 136; TAR
Campania, Napoli, I, 01.12.2015, n. 6488).
Non merita condivisione neppure la prospettazione difensiva
attorea, secondo la quale, nel caso di specie, l’omessa
indicazione del precedente penale a carico dell’ing. Pu.
sarebbe stata dovuta ad un mero errore materiale che avrebbe
dato luogo ad una dichiarazione incompleta.
Va, invece, evidenziato, in contrario che la dichiarazione
resa dall’ing. Pu. è stata, letteralmente, nel senso di
escludere l’esistenza di controindicazioni di rilievo penale
a suo carico: essa dunque è una dichiarazione non
incompleta, ma mendace ai sensi e per gli effetti di cui
all’art. 75 d.p.r. 445/2000: “le dichiarazioni mendaci
sulle condanne riportate sono soggette all'apposito corredo
sanzionatorio di cui all'art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000,
che commina la decadenza dai benefici eventualmente
conseguenti al provvedimento emanato sulla base della
dichiarazione non veritiera. In particolare, il mendacio
sulle condanne riportate, determina una situazione di
reticenza o di inaffidabilità dell'impresa, risultando
irrilevante che quanto non dichiarato sia eventualmente
inidoneo ad incidere sulla moralità professionale” (TAR
Lazio, Roma, II, 06.06.2016 n. 6488; cfr. anche TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 01/09/2016 n. 4142).
Il gravame va, pertanto, respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 23.01.2017 n. 451 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
decadenza del permesso di costruire per mancato inizio
lavori.
Secondo il comune risulta che il
muro di nuova realizzazione in effetti ci sia, ma esso non
potrebbe essere valorizzato, ai fini della valutazione
dell’inizio dei lavori, perché la sua edificazione non
risultava prevista dal titolo edilizio della cui decadenza
si tratta.
Tuttavia, una circostanza come quella di cui si discute
nella presente controversia (realizzazione di opere non
ricomprese nel titolo) non è di per sé sufficiente ad
escludere l’avvenuto inizio dei lavori, ai sensi dell’art.
15 del DPR n. 380 del 2001.
Invero, quella che rileva, infatti, ai fini della pronuncia
di decadenza, è l’inerzia rispetto al titolo ottenuto,
indice di mancanza di volontà di dar corso ai lavori
assentiti, laddove invece una difformità tra opere assentite
e opere realizzate potrà semmai condurre al altri
provvedimenti dell’Amministrazione, ma non ad una pronuncia
di decadenza.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del 28.10.2016,
comunicato in pari data via pec, con cui il Responsabile del
Servizio Urbanistica e Edilizia del Comune di San Casciano
Val di Pesa ha dichiarato la società ricorrente decaduta dal
diritto di costruire in forza del permesso di costruire n.
2011/0424 del 18.05.2011; nonché di ogni altro atto
presupposto, conseguente e/o comunque connesso, ancorché
allo stato ignoto fra cui i verbali di sopralluogo del
21.03.2014, del 19.05.2016 e del 27.10.2016 nonché il
provvedimento prot. 14648/2016 di avvio del procedimento per
la dichiarata decadenza, richiamati o meno nel provvedimento
di cui al capoverso che precede.
...
Con il ricorso introduttivo del giudizio la società De.Co.
s.r.l. impugna il provvedimento del 28.10.2016 con il quale
il Comune di San Casciano V.P. ha dichiarato la decadenza
del permesso di costruire n. 424 del 2011 rilasciato alla
società, a causa del mancato rispetto del termine di inizio
dei lavori di cui all’art. 133, comma 3, della legge
regionale Toscana n. 65 del 2014.
...
La censura è fondata.
Nel provvedimento di decadenza impugnato l’Amministrazione
comunale, richiamando in particolare il sopralluogo svolto
in data 21.03.2014, evidenzia come la società ricorrente, in
esecuzione del titolo edilizio che le era stato rilasciato,
abbia posto in essere la “esecuzione dello scavo”, la
“posa in opera di una recinzione di cantiere (sebbene
parziale)” e la “parziale demolizione del muro su via
delle Massucce”; al contrario il Comune di Sana Casciano
V.P., prendendo posizione sulla memoria partecipativa
presentata dalla società nel corso del procedimento, nega
che sia stato realizzato, come invece afferma la società
stessa, un “muro in c.a. parzialmente interrato, posto
lungo il confine ovest dotato armature visibili anche
dall’esterno, muri di circa cm 17”.
Osserva preliminarmente il Collegio che la questione
fattuale attinente alla avvenuta o meno realizzazione del
muro assume specifica importanza al fine della decisione
della presente controversia, poiché si tratterebbe di opera
edificatrice di una certa consistenza che, posta assieme
agli adempimenti esecutivi già accertati dal Comune di San
Casciano, potrebbe integrare “l’inizio dei lavori” di
cui parla l’art. 15 del DPR n. 380 del 2001.
L’Amministrazione comunale, nel difendersi in giudizio, ha
evidenziato di avere effettuato in data 13.12.2016, quindi
dopo l’instaurazione del giudizio, ulteriore sopralluogo
(cfr. doc. 11), all’esito del quale è risultato che in
effetti “all’interno del cantiere De.Co. srl si rileva
presenza di muro in cls. armato lungo il confine di
proprietà a valle, a fianco del muro di confine esistente
(spessore cm 25)”; nella propria memoria
l’Amministrazione comunale, prendendo atto di ciò, afferma
tuttavia che “il muro in c.a. realizzato nel lotto non
risulta essere opera prevista nel progetto assentito con il
permesso a costruire oggetto del provvedimento di decadenza”.
Dunque la posizione finale dell’Amministrazione, all’esito
della parziale rinnovata istruttoria, è che il muro di nuova
realizzazione in effetti ci sia, ma che esso non potrebbe
essere valorizzato, ai fini della valutazione dell’inizio
dei lavori, perché la sua edificazione non risultava
prevista dal titolo edilizio della cui decadenza si tratta.
La Sezione ha tuttavia anche recentemente affermato
(sentenza n. 1537 del 2016) che una circostanza come quella
di cui si discute nella presente controversia (realizzazione
di opere non ricomprese nel titolo) non è di per sé
sufficiente ad escludere l’avvenuto inizio dei lavori, ai
sensi dell’art. 15 del DPR n. 380 del 2001; quella che
rileva, infatti, ai fini della pronuncia di decadenza, è
l’inerzia rispetto al titolo ottenuto, indice di mancanza di
volontà di dar corso ai lavori assentiti, laddove invece una
difformità tra opere assentite e opere realizzate potrà
semmai condurre al altri provvedimenti dell’Amministrazione,
ma non ad una pronuncia di decadenza.
Ciò anche alla luce della ulteriore considerazione che,
nella specie, nell’accertamento di compatibilità
paesaggistica presentato dalla società ricorrente
nell’ottobre del 2012 (doc. 13 della difesa comunale) si dà
atto della avvenuta realizzazione di “muro di sostegno al
ridosso del confine dell’area occupata da terzi”,
evidenziandone la realizzazione in connessione con
l’esecuzione dei lavori di cui al permesso di costruire n.
424 del 2011
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 23.01.2017 n. 128 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Si
rammenta la consolidata giurisprudenza che pone in capo al
proprietario (o al responsabile dell'abuso) assoggettato a
ingiunzione di demolizione l'onere di provare il carattere
risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con
riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge "ponte" n.
761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza
edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di
fuori del perimetro del centro urbano.
Ma questa stessa, prevalente opinione giurisprudenziale
ammette tuttavia un temperamento secondo ragionevolezza nel
caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della
propria tesi sulla realizzazione dell’intervento prima del
1967 elementi non implausibili (la dichiarazione sostitutiva
di edificazione ante 01.09.1967) e, dall’altro, il Comune
fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data
della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio,
o con variazioni essenziali sulla base del combinato
disposto di cui agli articoli 32 e 10 del d.P.R. n. 327 del
2001 [ … omissis …]; fermo rimanendo che incombe
sull’autorità che adotta l’ingiunzione di demolizione
l’onere di comprovare in maniera adeguata la propria pretesa
demolitoria (soprattutto se, come si ritiene che sia
avvenuto nel caso di specie, sia trascorso moltissimo tempo
dalla edificazione asseritamente abusiva.
---------------
1 - Con ricorso notificato il 17/12/2015 e depositato il
23/12/2015, Fe.Ma.Gi. ha impugnato l’ordinanza a firma del
dirigente del Settore Urbanistica del Comune di S. Giovanni
Rotondo con cui è stata ingiunta la demolizione dell’opera
abusiva realizzata in agro comunale al fg. n. 40 part. 3633,
consistente in un rudere costituito da blocchi di tufo
poggiati sul terreno, privo di fondazioni e di malta tra i
vari strati, del tutto sfornito di copertura.
...
5 – Il ricorso è meritevole di accoglimento.
5.1 - Dirimente ai fini della decisione è stabilire l’epoca
di realizzazione del manufatto.
Sul punto, si rammenta la consolidata giurisprudenza che
pone in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso)
assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare
il carattere risalente del manufatto della cui demolizione
si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge
"ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di
previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni
realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano (TAR
Campania, Napoli, sez. VII, sent. 18/02/2016 n. 882, TAR
Puglia, Bari, sez. III, sent. 28/01/2015 n. 149, TAR Umbria,
17.06.2013, n. 346; TAR Campania, Napoli, III, 08.03.2013,
n. 1374; TAR Molise, 07.02.2013, n. 85; TAR Campania,
Napoli, II, 07.05.2012, n. 2083).
“Ma questa stessa, prevalente opinione giurisprudenziale
ammette tuttavia un temperamento secondo ragionevolezza nel
caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della
propria tesi sulla realizzazione dell’intervento prima del
1967 elementi non implausibili (la dichiarazione sostitutiva
di edificazione ante 01.09.1967) e, dall’altro, il Comune
fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data
della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio,
o con variazioni essenziali sulla base del combinato
disposto di cui agli articoli 32 e 10 del d.P.R. n. 327 del
2001 [ … omissis …]; fermo rimanendo che incombe
sull’autorità che adotta l’ingiunzione di demolizione
l’onere di comprovare in maniera adeguata la propria pretesa
demolitoria (soprattutto se, come si ritiene che sia
avvenuto nel caso di specie, sia trascorso moltissimo tempo
dalla edificazione asseritamente abusiva …” (Consiglio
di Stato, sez. VI, sent. 18/07/2016 n. 3177).
Tanto premesso in diritto, osserva il Collegio che a fronte
della dichiarazione risultante dall’atto pubblico di cui
innanzi (che costituisce quanto meno un principio di prova
dell’esistenza –fin dal 1955- di un manufatto con
caratteristiche equiparabili a quelle proprie della “costruzione”
attualmente esistente), sarebbe stato onere del Comune
compiere un’accurata istruttoria al fine di verificare la
tipologia e la datazione dei materiali costruttivi in
essere, essendo evidente che le sole fotografie (aeree, ma
non solo) non consentono di documentare in modo certo
l’esistenza del manufatto: va, infatti, rimarcato che
trattasi di un “opus” costituito da tufi sovrapposti
di non rilevante altezza che risultano completamente coperti
da vegetazione anche di alto fusto.
Non appaiono, inoltre, conferenti –ai fini della questione
della datazione- le deduzioni comunali circa i possibili
utilizzi passati del rudere, in considerazione del suo
posizionamento su terreno scosceso.
Quanto poi alla paventata diversa ubicazione (pur
nell’ambito della particella considerata) del manufatto
esistente nel 1955, si osserva che detta deduzione comunale:
- è evidentemente tardiva, nella misura in cui non emerge in
alcun modo dall’impianto motivazionale dell’atto;
- è frutto di una mera asserzione del perito di parte
incaricato dal Comune resistente di descrivere lo stato dei
luoghi e le caratteristiche del manufatto, priva di
qualsiasi verificabile supporto logico.
Né va tralasciato di considerare che neppure su espressa
sollecitazione del Collegio il Comune (nonostante il nuovo
accesso sui luoghi di causa) ha ritenuto di compiere
accertamenti e, quindi, di dedurre compiutamente in merito
alla datazione dei materiali utilizzati.
5.2 - In questo contesto acquista rilievo in via anche
autonoma la violazione dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990,
nel senso che se è vero che, almeno di regola, in tema di
impugnazione di ingiunzione di demolizione non è
obbligatoria la previa comunicazione dell’avvio del
procedimento (v. ex multis, Cons. Stato, VI, n. 13
del 2015), nel caso di specie l’apporto partecipativo che
con l’omessa comunicazione di avvio è stato pretermesso
avrebbe consentito al Comune di condurre un’istruttoria più
accurata.
6 - Per le suesposte ragioni, assorbita ogni altra censura,
il ricorso va accolto e, per l’effetto, annullata
l’ordinanza di demolizione impugnata
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 23.01.2017 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Contenuto del contratto di avvalimento fra requisiti
generali e risorse e responsabilità solidale tra concorrente
e ausiliario.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento –
Contenuto del contratto – Distinzione tra requisiti generali
e risorse.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento –
Contenuto del contratto – In attesa dell’entrata in vigore
dei “pertinenti atti attuativi”, previsti dall’art. 217,
comma 1, lett. u) n. 1, d.lgs. n. 50 del 2016 – Art. 88,
comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 – E’ in vigore.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento –
Responsabilità solidale tra concorrente e ausiliario –
Mancata espressa previsione - Esclusione dalla gara –
Difetto di motivazione – Illegittimità.
●
In sede di gara pubblica, ai fini del contenuto del
contratto di avvalimento occorre distinguere fra requisiti
generali (requisiti di carattere economico, finanziario,
tecnico-organizzativo) e risorse, per le quali soltanto si
giustifica l’esigenza di una messa “a disposizione” in modo
specifico, con la conseguenza che il contratto di
avvalimento dovrà per ciò stesso essere ad oggetto
necessariamente determinato, piuttosto che semplicemente
determinabile.
●
In sede di gara pubblica, ai fini del contenuto del
contratto di avvalimento poiché non sono ancora entrati in
vigore i “pertinenti atti attuativi”, previsti dall’art.
217, comma 1, lett. u) n. 1, del nuovo Codice dei contratti
-“atti attuativi” ai quali è subordinata la cedevolezza
delle disposizioni del regolamento al previgente Codice dei
contratti (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), approvato con d.P.R.
05.10.2010, n. 207- deve a tutt’oggi ritenersi in vigore la
previsione del comma 1 dell’art. 88 del citato Regolamento,
secondo cui il contratto di avvalimento “deve riportare in
modo compiuto, esplicito ed esauriente: a) oggetto: le
risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico”
(1).
●
E’ illegittimo il provvedimento con il quale la Stazione
appaltante esclude un concorrente dalla gara per il fatto
che nel contratto di avvalimento manca l’assunzione della
solidarietà, tra concorrente e ausiliario, del vincolo in
punto di solidarietà, senza che sia stato indicato il motivo
per il quale non è stata ritenuta sufficiente l’eterointegrazione
del contratto in base al combinato disposto degli artt. 89,
comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e 1374 cod. civ. (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il distinguo fra requisiti generali e
risorse, oltre che discendere in modo lapalissiano
dall’applicazione dell’art. 88, d.P.R. 05.10.2010, n. 207,
corrisponde altresì all’esigenza di ordine generale di
ancorare la dimostrazione dell’effettività delle messa a
disposizione che sia intercorsa fra impresa avvalente ed
impresa avvalsa a cose, in base al loro poter essere
considerate o meno beni in senso tecnico-giuridico.
E’ infatti evidente che la certificazione di qualità o il
fatturato, generale o specifico, non corrispondono in alcun
modo alla definizione di “bene” in senso
tecnico-giuridico: ovvero di “cose che possono formare
oggetto di diritti” ex art. 821 cod. civ..
Più in particolare ad essi non preesiste una utilità
spendibile al di fuori ed a prescindere dallo svolgersi di
una pubblica gara; al contrario essi acquistano una
giuridica esistenza solo in relazione allo svolgersi di una
determinata procedura di evidenza pubblica.
Ha aggiunto il Tar che ove ciò rettamente si consideri, è
facile comprendere come soltanto dalla eguaglianza “risorsa
eguale bene” in senso tecnico giuridico possano
discendere quelle incomprimibili esigenze di determinatezza
nella struttura del contratto di avvalimento che l’art. 88,
d.P.R. n. 207 del 2010 prescrive; e che altrettanto
chiaramente per le risorse si tratta di una esigenza
ineludibile in base alla natura specifica delle “cose”
oggetto del contratto di avvalimento, quando esse già di per
sé costituiscano beni per l’Ordinamento giuridico e non
vivano dell’effimera vita riflessa dello svolgersi di una
specifica procedura di gara.
(2) Il Tar ha ricordato che il comma 5 dell’art. 89, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 prevede che “il concorrente e l'impresa
ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della
stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto
del contratto. Gli obblighi previsti dalla normativa
antimafia a carico del concorrente si applicano anche nei
confronti del soggetto ausiliario, in ragione dell'importo
dell'appalto posto a base di gara”.
Ad avviso del Tribunale, tale essendo la portata della norma
le parti del contratto di avvalimento non devono assumere un
impegno nei confronti della stazione appaltante per
garantire la responsabilità solidale “in relazione alle
prestazioni oggetto del contratto”.
Opera, infatti, ad integrazione del predetto atto negoziale
in forza della previsione dell’art. 1374 cod. civ., alla cui
stregua “il contratto obbliga le parti non solo a quanto
è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che
ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli
usi e l'equità”– proprio il citato comma 5 dell’art. 89,
che arricchisce il contenuto degli obblighi a carico delle
parti del contratto di avvalimento senza che rilevi in alcun
modo la volontà da esse manifestata in proposito.
Aggiungasi che, una previsione delle parti del contratto di
avvalimento in deroga alle disposizioni del comma 5
dell’art. 89, d.lgs. n. 50 del 2016 in punto di
responsabilità solidale costituirebbe la violazione di una
norma inderogabile a tutela di pubblici interessi.
Le parti non potrebbero decidere, con uno specifico accordo
negoziale, di non osservare tale norma: un eventuale accordo
renderebbe nullo il contratto di avvalimento che lo contiene
per violazione di norma imperativa ex art. 1418 cod. civ. (TAR
Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 20.01.2017 n. 122
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Per
il risarcimento i danni da rumore vanno provati. Condominio.
Si consolida l’orientamento «rigoroso».
A distanza di pochi giorni la Cassazione torna ad occuparsi
del “rumore” in condominio e sembra trovare conferma, in
entrambe le decisioni, quell’orientamento un po’ più
rigoroso (del passato) che richiede la prova concreta del
danno provocato dalle immissioni sonore perché possa essere
concesso un risarcimento al presunto danneggiato.
In particolare, in un caso (Sez. II civile,
sentenza 12.01.2017 n. 661) il risarcimento era
stato negato perché con riferimento al caso concreto ed alle
risultanze istruttorie che ne erano derivate, si riteneva
non vi fosse un nesso causale tra le lamentate immissioni
sonore rumorose (scorrere dell’acqua etc…) ed il malessere
ansioso depressivo del quale soffrono da anni gli attori.
Nel secondo caso (Sez. II civile,
sentenza 19.01.2017 n. 1363) il risarcimento era
stato ancora una volta negato in quanto il condòmino –che
asseriva di aver patito un danno a causa di attività
rumorose poste in essere dal vicino delle quali chiedeva la
cessazione– non aveva fornito prova adeguata in tal senso.
In prima battuta il Giudice di Pace di Pescara, rilevato che
i testi avevano riferito dell’esistenza dei rumori dovuti a
lavori di ristrutturazione, accoglieva la domanda disponendo
sia la cessazione delle molestie che la condanna del
convenuto al pagamento della somma di 1000 euro a titolo di
risarcimento. La motivazione riteneva accoglibile la domanda
in quanto «in materia di immissioni sonore, di vibrazioni e
di scuotimenti atti a turbare il bene della tranquillità nel
godimento degli immobili adibiti ad uso di abitazione, il
danno è in re ipsa e va valutato con prudente
apprezzamento».
Il Tribunale, quale giudice dell’appello, ribaltava tale
decisione perché «Non solo gravità e serietà del danno non
trovano riscontro concreto, ma è carente la stessa deduzione
specifica di una incidenza delle immissioni rumorose sulla
vita di relazione dell’attore tale da determinare un danno
serio e grave».
La decisione del Tribunale veniva in seguito confermata
dalla Cassazione, che in particolare rilevava come la
motivazione espressa nella sentenza impugnata apparisse
condivisibile e comunque priva di quei vizi che dopo
l’entrata in vigore del nuovo dettato dell’articolo 360, n.
5 del Codice di procedura civile si possono definire come
una anomala motivazione della sentenza impugnata.
Si può quindi dire che non qualunque immissione sonora può
dar vita ad una richiesta di risarcimento danni, essendo
anzi necessario che il danneggiato fornisca in giudizio la
prova concreta, circostanziata e convincente, della lesione
subita (articolo Il Sole 24 Ore del
20.01.2017). |
APPALTI:
Motivi aggiunti nel rito appalti e rito applicabile in caso
di cumulo di domande di annullamento ex commi 6 e 6-bis
dell’art. 120 c.p.a..
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Contratti della Pubblica amministrazione
– Processo amministrativo – Rito appalti – Esperibilità
motivi aggiunti – Art. 120, comma 7, c.p.a. –
Interpretazione.
Contratti della Pubblica amministrazione – Processo
amministrativo – Rito appalti - Introdotto dall’art. 204,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione soggette ai diversi
riti ex commi 6 e 6 bis dell’art. 120 c.p.a. – Rito
applicabile – Individuazione.
Il comma 7 dell’art. 120 c.p.a., secondo cui “ad eccezione
dei casi previsti dal comma 2-bis, i nuovi atti attinenti la
stessa procedura di gara devono essere impugnati con ricorso
per motivi aggiunti”, deve essere interpretato nel senso di
riconoscere alla parte ricorrente, nel caso in cui seguito
della proposizione del ricorso avverso un provvedimento
previsto dal comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. sopraggiunga
l’aggiudicazione della gara, la facoltà -e non l’obbligo- di
proporre autonoma impugnativa avverso il provvedimento di
aggiudicazione della gara, ove questo sia sopraggiunto
all’introduzione del non ancora definito giudizio ex art.
120, comma 6-bis, c.p.a., senza in assoluto escludere né la
possibilità di un’impugnativa congiunta né la proposizione
successiva di motivi aggiunti (1).
In presenza di domande di annullamento di provvedimenti
afferenti la medesima materia “appalti”, assoggettate a riti
caratterizzati da un diverso grado di specialità (commi 6 e
6-bis dell’art. 120 c.p.a.) si applica all’intera
controversia il rito disciplinato dal comma 6 e non quello
“superaccelerato” introdotto dal successivo comma 6-bis (2).
---------------
(1)
Per un precedente in termini v. TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 07.12.2016 n. 1367.
Ha chiarito il Tar che la previsione di un rito
superaccelerato per l’impugnativa dei provvedimenti di
esclusione o ammissione è evidentemente volta, nella sua
ratio legis, a consentire la definizione del giudizio
prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione;
ovverosia, in sostanza, a definire la platea dei soggetti
ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle
offerte e alla conseguente aggiudicazione (Cons. St., comm.
spec., 01.04.2016, n. 855).
Una volta, tuttavia, che il provvedimento di aggiudicazione
intervenga in corso di causa, non appare logico, né utile ai
fini delle ragioni di economia processuale, precludere
l’impugnativa di quest’ultimo provvedimento con motivi
aggiunti.
Anzi appare del tutto contrario ai principi di economia e
concentrazione processuale, oltre che foriero di possibili
contrasti tra giudicati, sostenere che il provvedimento di
aggiudicazione sopravvenuto debba necessariamente essere
impugnato con ricorso autonomo e che le due impugnative non
possano confluire in un unico giudizio.
In questo senso depone fra l’altro il principio generale
della cumulabilità delle azioni connesse soggette a riti
diversi di cui all’art. 32, comma 1 c.p.a., a mente del
quale “È sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo
di domande connesse proposte in via principale o
incidentale. Se le azioni sono soggette a riti diversi, si
applica quello ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V
del Libro IV”.
Nella stessa direzione sostanziale l’art. 43 c.p.a. prevede
il principio, anch’esso generale, della proponibilità dei
motivi aggiunti per l’impugnativa dei nuovi atti connessi
con quelli del giudizio già in corso, contemplando altresì
che, se la domanda nuova è stata proposta con ricorso
separato davanti allo stesso tribunale, il giudice provvede
alla riunione dei ricorsi.
Il principio di cumulabilità delle azioni è volto a
garantire l’unitarietà del giudizio, in coerenza con il
principio di effettività e completezza della tutela
giurisdizionale, assicurando la valutazione complessiva
della vicenda sostanziale portata all’attenzione del
giudice.
Tale principio viene talmente valorizzato nell’ambito del
diritto processuale amministrativo sino, ad esempio, ad
ammettere la cumulabilità di due azioni ontologicamente
diverse e assoggettate a due riti ben distinti quali quella
di esecuzione del giudicato (azione di giurisdizione di
merito, di natura prevalentemente esecutiva e soggetta a un
rito abbreviato) e quella di legittimità (assoggetta al rito
ordinario). Per gli atti posti in essere dalla P.A.
successivamente al giudicato viene, infatti, ammesso che
l’azione per far valere l’illegittimità di tali atti venga
cumulata con quella volta a far valere la violazione del
giudicato e alla sua esecuzione (Cons. St., A.P.,
15.01.2013, n. 2; id., sez. V, 09.04.2015, n. 1806 e 1808;
id. 23.02.2015, n. 854).
Tale esigenza di unitarietà non può non trovare eco anche in
materia di impugnativa delle procedure di gara, per
provvedimenti, come quelli in esame, in stretta connessione
tra loro, anzi uno condizionante l’altro, come l’esclusione
o l’ammissione di concorrenti e l’aggiudicazione definitiva.
Fatta questa premesso, il Tar ha concluso che il comma 7
dell’art. 120 c.p.a. debba essere interpretato nel senso di
riconoscere alla parte ricorrente la facoltà (e non
l’obbligo) di proporre autonoma impugnativa avverso il
provvedimento di aggiudicazione della gara, ove questo sia
sopraggiunto all’introduzione del non ancora definito
giudizio ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a., senza in assoluto
escludere né la possibilità di un’impugnativa congiunta, né
la proposizione successiva di motivi aggiunti.
(2) Ad avviso del Tar si deve desumere, in base all’art. 32 c.p.a.,
l’esistenza di un principio di prevalenza del rito che si
presti a fornire maggiori garanzie per tutte le parti
coinvolte nell’unica vicenda processuale, in ragione della
necessità di individuare tra più discipline confliggenti
quella che fissi regole e termini processuali in grado di
offrire una maggiore salvaguardia del diritto di difesa.
Tale rito deve individuarsi in quello disciplinato dal comma
6 dell’art. 120 c.p.a., che ormai in maniera consolidata e “ordinariamente”
si applica all’impugnativa di provvedimenti concernenti le
procedure di affidamento relative a pubblici lavori, servizi
o forniture, tanto da prevalere anche sul rito ordinario
(come ad es. in caso di proposizione congiunta di domanda di
annullamento di atti della procedura e domanda risarcitoria)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 19.01.2017 n. 434
- commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla
necessità, o meno, anche del permesso di costruire per
l'installazione di un impianto pubblicitario oltre
all'autorizzazione prevista dall’art. 23, comma 4, del
codice della strada.
Ricostruendo -nei suoi tratti essenziali- la specifica
disciplina vigente in materia di impianti pubblicitari, la
stessa si esercita nel rispetto delle indicazioni e dei
vincoli contenuti in due importanti strumenti di pianificazione e
programmazione generale: il regolamento comunale ed il
piano
generale degli impianti pubblicitari.
Infatti, in questa materia, l’art. 3 del decreto legislativo
n. 507 del 1993 ha previsto in capo ai Comuni l’obbligo di
adottare un «apposito regolamento» per l’applicazione
dell'imposta sulla pubblicità e per l’effettuazione del
servizio delle pubbliche affissioni. Attraverso tale
strumento, i Comuni sono tenuti a disciplinare le modalità
di effettuazione della pubblicità e possono stabilire
limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in
relazione ad esigenze di pubblico interesse.
I contenuti essenziali del regolamento, indicati dalla
legge, sono i seguenti:
1) determinare la tipologia e la
quantità degli impianti pubblicitari;
2) stabilire le
modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione;
3)
indicare i criteri per la realizzazione del piano generale
degli impianti pubblicitari;
4) fissare la ripartizione
della superficie degli impianti pubblici da destinare alle
affissioni di natura istituzionale, sociale o comunque prive
di rilevanza economica e quella da destinare alle affissioni
di natura commerciale, nonché la superficie degli impianti
da attribuire a soggetti privati, per l’effettuazione di
affissioni dirette.
Con l’adozione del piano generale degli impianti
pubblicitari, il Comune provvede alla razionale
distribuzione sul territorio degli impianti pubblicitari,
indicando i siti ove è possibile collocare gli stessi.
Come ha precisato dalla Consulta: «La
tutela interessi pubblici presenti nella attività
pubblicitaria effettuata mediante l’installazione di
cartelloni si articola dunque, nel decreto legislativo n.
507 del 1993, in un duplice livello di intervento: l’uno, di
carattere generale e pianificatorio, mirante ad escludere
che le autorizzazioni possano essere rilasciate dalle
amministrazioni comunali in maniera causale, arbitraria e
comunque senza una chiara visione dell’assetto del
territorio e delle sue caratteristiche abitative, estetiche,
ambientali e di viabilità; l'altro, a contenuto particolare
e concreto, in sede di provvedimento autorizzatorio, con il
quale le diverse istanze dei privati vengono ponderate alla
luce delle previsioni di piano e solo se sono conformi a
tali previsioni possono essere soddisfatte».
---------------
La “specialità” della disciplina di settore (codice della
strada e decreto legislativo n. 507/1993), come
riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, prescrive
regole e obblighi pianificatori specifici volti a tutelare,
anche, le esigenze “dell’assetto del territorio e delle sue
caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di
viabilità”.
Di conseguenza, prescrivere in aggiunta
all’autorizzazione di settore, anche il rilascio del
permesso di costruire si tradurrebbe in una duplicazione del
sistema autorizzatorio e sanzionatorio che risulterebbe
sproporzionata, perché non giustificata dall’esigenza, già
salvaguardata in base alla disciplina speciale (cfr. art. 3
d.lgs. n. 507 del 1993), di tutelare l’interesse al corretto
assetto del territorio.
L’inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi
della duplicazione dei titoli autorizzatori risulta in netta controtendenza rispetto all’esigenza,
fortemente perseguita dal legislatore anche nei più recenti
interventi legislativi (cfr., ad esempio, d.lgs. 30.06.2016, n. 126), di semplificare i procedimenti
amministrativi, convogliando i titoli abilitativi necessari
allo svolgimento di un’attività privata all’interno di un
procedimento unitario.
Gli interessi legati all’assetto urbanistico, pertanto,
devono essere perseguiti dal Comune non attraverso la
duplicazione dei titoli autorizzatori, ma vanno, al
contrario, valutati, nel rispetto del principio di
semplificazione e unicità del procedimento amministrativo,
all’interno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione
prevista dall’art. 23, comma 4, codice della strada, con la
conseguenza che quest’ultima autorizzazione dovrà essere
negata nel caso in cui l’installazione risulti incompatibile
con le esigenze urbanistico-edilizie.
Ulteriori elementi interpretativi a sostegno di questa
tesi si desumono poi dall’art. 168 d.lgs. 22.01.2004,
n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che
testualmente dispone “Chiunque colloca cartelli o altri
mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni di cui
all’art. 153 è punito con le sanzioni previste dal decreto
legislativo 30.04.1992, n. 285 e successive
modificazioni”.
In tal modo la norma ha sottratto i cartelli pubblicitari
alla disciplina generale prevista per le costruzioni e le
opere in genere, assoggettandoli, ove sprovvisti del nulla
osta paesaggistico, alle sanzioni amministrative previste
dal codice della strada e non già alle sanzioni penali
previste per le costruzioni abusive.
Ancora, in tale direzione depone l’orientamento delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali,
pronunciando in tema di riparto della giurisdizione in
materia di determinazioni di rimozione di impianti
pubblicitari, hanno in più occasioni
escluso o che il provvedimento con il quale un Comune intima
la rimozione coattiva di un impianto pubblicitario rientri
nella categoria degli «atti e provvedimenti» in materia di
urbanistica ed edilizia - la cui cognizione, com’è noto, è
devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, affermando espressamente che non si verte
“in tema di uso del territorio, ma di godimento abusivo di
beni demaniali, con riferimento al quale il legislatore
detta una disciplina specifica”.
---------------
... per la riforma della
sentenza
26.01.2012 n. 57 del TAR CALABRIA-CATANZARO:
SEZ. I, resa tra le parti, concernente
demolizione impianto pubblicitario e ripristino stato dei
luoghi.
...
1. Viene in decisione l’appello proposto dalla società Af.Ou.
s.r.l. per ottenere la riforma della sentenza, di estremi
indicati in epigrafe, con la quale il Tar per la Calabria
ha respinto il ricorso proposto in primo grado per
l’annullamento dell’ordinanza con la quale il Comune di Vibo
Valentia ha ordinato alla ricorrente la demolizione di un
impianto pubblicitario perché realizzato in assenza del
permesso di costruire.
2. Secondo la sentenza appellata, in sintesi, il decreto
legislativo 15.11.1993, n. 507 (in particolare l’art.
3 che disciplina l’installazione degli impianti
pubblicitari), non prevede che l’Amministrazione comunale,
nel rilasciare l’autorizzazione all’installazione degli
impianti, svolga anche valutazioni edilizie relative
all’impatto della struttura sul territorio. Pertanto, è
necessario, secondo il Tar, che il procedimento
autorizzatorio sia “doppiato” dal procedimento, disciplinato
dal decreto legislativo 06.06.2001, n. 380, volto ad
ottenere il titolo edilizio prescritto in relazione alla
natura e alle caratteristiche delle strutture.
3. L’appellante sostiene, invece, che i titoli abilitativi
previsti dalla disciplina speciale (ovvero dal codice della
strada e dal citato d.lgs. n. 507 del 1993) assolvono
integralmente le esigenze proprie del settore e quelle
territoriali affidate alla cura degli enti locali, sicché
non vi sarebbe spazio per l’applicazione della normativa
edilizia dettata dal d.lgs. n. 380 del 2001.
...
6. L’appello merita accoglimento.
7. Occorre, preliminarmente, ricostruire nei suoi tratti
essenziali la specifica disciplina vigente in materia di
impianti pubblicitari.
Il riferimento va, in primo luogo, alle norme del Codice
della strada (d.lgs. 30.04.1992 n. 285), alle quali si
sono presto affiancate quelle di cui al d.lgs. 15.11.1993 n. 507 («Revisione ed armonizzazione dell'imposta
comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche
affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree
pubbliche dei comuni e delle province»).
L’attività pubblicitaria è regolamentata dall’art. 23, comma
4, del Codice della strada, il quale prevede che la
collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari lungo
le strade o in vista di esse sia «soggetta in ogni caso ad
autorizzazione da parte dell’ente proprietario della
strada».
All'interno del perimetro dei centri abitati, la competenza
al rilascio dell’autorizzazione è, in tutti i casi, dei
Comuni, fatto salvo il preventivo nulla osta dell'ente
proprietario nei casi in cui la strada appartenga al demanio
statale, regionale o provinciale. Nella sostanza, chi
intende esporre un mezzo pubblicitario «deve presentare la
relativa domanda» all’Ente proprietario della strada, il
quale rilascia apposita autorizzazione al posizionamento
dello stesso (art. 53, comma 3, regolamento di attuazione
del Codice della strada, approvato con d.P.R. 16.12.1992 n. 495).
Lo stesso regolamento di attuazione del Codice della strada
fissa, poi, i requisiti tipologici degli impianti
pubblicitari da allocare lungo le strade e le fasce di
pertinenza (art. 48, comma 1), demandando alla potestà
regolamentare dei Comuni la possibilità di prevedere
ulteriori «limitazioni dimensionali» (art. 48, comma 2).
Va ancora evidenziato che l’attività pubblicitaria, infatti,
si esercita nel rispetto delle indicazioni e dei vincoli
contenuti in due importanti strumenti di pianificazione e
programmazione generale: il regolamento comunale ed il
piano
generale degli impianti pubblicitari.
Infatti, in questa materia, l’art. 3 del decreto legislativo
n. 507 del 1993 ha previsto in capo ai Comuni l’obbligo di
adottare un «apposito regolamento» per l’applicazione
dell'imposta sulla pubblicità e per l’effettuazione del
servizio delle pubbliche affissioni. Attraverso tale
strumento, i Comuni sono tenuti a disciplinare le modalità
di effettuazione della pubblicità e possono stabilire
limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in
relazione ad esigenze di pubblico interesse.
I contenuti essenziali del regolamento, indicati dalla
legge, sono i seguenti:
1) determinare la tipologia e la
quantità degli impianti pubblicitari;
2) stabilire le
modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione;
3)
indicare i criteri per la realizzazione del piano generale
degli impianti pubblicitari;
4) fissare la ripartizione
della superficie degli impianti pubblici da destinare alle
affissioni di natura istituzionale, sociale o comunque prive
di rilevanza economica e quella da destinare alle affissioni
di natura commerciale, nonché la superficie degli impianti
da attribuire a soggetti privati, per l’effettuazione di
affissioni dirette.
Con l’adozione del piano generale degli impianti
pubblicitari, il Comune provvede alla razionale
distribuzione sul territorio degli impianti pubblicitari,
indicando i siti ove è possibile collocare gli stessi.
Come ha precisato Corte cost., 17.07.2002 n. 455: «La
tutela interessi pubblici presenti nella attività
pubblicitaria effettuata mediante l’installazione di
cartelloni si articola dunque, nel decreto legislativo n.
507 del 1993, in un duplice livello di intervento: l’uno, di
carattere generale e pianificatorio, mirante ad escludere
che le autorizzazioni possano essere rilasciate dalle
amministrazioni comunali in maniera causale, arbitraria e
comunque senza una chiara visione dell’assetto del
territorio e delle sue caratteristiche abitative, estetiche,
ambientali e di viabilità; l'altro, a contenuto particolare
e concreto, in sede di provvedimento autorizzatorio, con il
quale le diverse istanze dei privati vengono ponderate alla
luce delle previsioni di piano e solo se sono conformi a
tali previsioni possono essere soddisfatte».
8. Questa ricostruzione del panorama legislativo vigente
consente di ritenere che l’autorizzazione all’installazione
degli impianti pubblicitari rilasciata dai Comuni in base
alla disciplina speciale (segnatamente in base all’art. 23
del Codice della Strada), nel rispetto dei criteri e dei
vincoli fissati nell’apposito regolamento comunale e nel
piano generale degli impianti pubblicitari (a loro volta
previsti dall’art. 3 d.lgs. n. 507/1993) abbia anche una
valenza edilizia-urbanistica ed assolva, pertanto, alle
esigenze di tutela sottesa al rilascio di un ulteriore
titolo abilitativo rappresentato, secondo la tesi del Comune
(fatta propria dal Tar) dal rilascio del titolo edilizio
secondo la disciplina di cui al d.lgs. n. 380 del 2001.
9. Il Collegio è consapevole che una parte della
giurisprudenza amministrativa in passato (cfr. Cons. St.,
sez. V, 17.05.2007 n. 2497) ha accolto una tesi
contraria, che non esclude in assoluto la necessità del
titolo edilizio per l’installazione degli impianti
pubblicitari, ma richiede anche il permesso di costruire
allorché vi sia un sostanziale mutamento del territorio nel
suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico
che sotto quello edilizio (in tal senso anche la prevalente
giurisprudenza penale: cfr., da ultimo Cass. Pen. Sez. III,
08.05.2015, n. 19185).
10. Tale tesi non appare, tuttavia, condivisibile alla luce
delle seguenti considerazioni.
10.1. In primo luogo, essa non sembra tenere conto della
“specialità” della disciplina di settore (codice della
strada e decreto legislativo n. 507 del 1993) la quale, come
riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, prescrive
regole e obblighi pianificatori specifici volti a tutelare,
anche, le esigenze “dell’assetto del territorio e delle sue
caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di
viabilità”. Di conseguenza, prescrivere in aggiunta
all’autorizzazione di settore, anche il rilascio del
permesso di costruire si tradurrebbe in una duplicazione del
sistema autorizzatorio e sanzionatorio che risulterebbe
sproporzionata, perché non giustificata dall’esigenza, già
salvaguardata in base alla disciplina speciale (cfr. art. 3
d.lgs. n. 507 del 1993), di tutelare l’interesse al corretto
assetto del territorio.
10.2. L’inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi
della duplicazione dei titoli autorizzatori risulta,
peraltro, in netta controtendenza rispetto all’esigenza,
fortemente perseguita dal legislatore anche nei più recenti
interventi legislativi (cfr., ad esempio, d.lgs. 30.06.2016, n. 126), di semplificare i procedimenti
amministrativi, convogliando i titoli abilitativi necessari
allo svolgimento di un’attività privata all’interno di un
procedimento unitario.
Gli interessi legati all’assetto urbanistico, pertanto,
devono essere perseguiti dal Comune non attraverso la
duplicazione dei titoli autorizzatori, ma vanno, al
contrario, valutati, nel rispetto del principio di
semplificazione e unicità del procedimento amministrativo,
all’interno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione
prevista dall’art. 23, comma 4, codice della strada, con la
conseguenza che quest’ultima autorizzazione dovrà essere
negata nel caso in cui l’installazione risulti incompatibile
con le esigenze urbanistico-edilizie.
10.3. Ulteriori elementi interpretativi a sostegno di questa
tesi si desumono poi dall’art. 168 d.lgs. 22.01.2004,
n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che
testualmente dispone “Chiunque colloca cartelli o altri
mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni di cui
all’art. 153 è punito con le sanzioni previste dal decreto
legislativo 30.04.1992, n. 285 e successive
modificazioni”. In tal modo, come evidenziato da parte
appellante, la norma ha sottratto i cartelli pubblicitari
alla disciplina generale prevista per le costruzioni e le
opere in genere, assoggettandoli, ove sprovvisti del nulla
osta paesaggistico, alle sanzioni amministrative previste
dal codice della strada e non già alle sanzioni penali
previste per le costruzioni abusive.
10.4. Ancora, in tale direzione depone l’orientamento delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali,
pronunciando in tema di riparto della giurisdizione in
materia di determinazioni di rimozione di impianti
pubblicitari (in questo processo sulla giurisdizione si è
formato il giudicato implicito), hanno in più occasioni
escluso o che il provvedimento con il quale un Comune intima
la rimozione coattiva di un impianto pubblicitario rientri
nella categoria degli «atti e provvedimenti» in materia di
urbanistica ed edilizia - la cui cognizione, com’è noto, è
devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, affermando espressamente che non si verte
“in tema di uso del territorio, ma di godimento abusivo di
beni demaniali, con riferimento al quale il legislatore
detta una disciplina specifica” (cfr. Cass. Sez. Un. 14.01.2009, n. 563; 18.11.2008 n. 27334,
06.06.2007 n. 13230, 17.07.2006 n. 16129 e 19.11.1998 n.
11721).
11. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della
sentenza appellata, deve essere accolto il ricorso di primo
grado (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.01.2017 n. 244 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
ritardato versamento del contributo di costruzione
rateizzato.
Il sistema di pagamento del contributo di costruzione è
caratterizzato dalla presenza solo eventuale di una garanzia
prestata per l’adempimento del debito principale e di un
parallelo strumento a sanzioni crescenti, con chiara
funzione di deterrenza dell’inadempimento, che trova
applicazione, in base alla legge, al verificarsi
dell’inadempimento dell’obbligato principale.
In tale sistema, l’Amministrazione comunale, allo scadere
del termine originario di pagamento della rata ha solo la
facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde
ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non
accada, l’Amministrazione avrà comunque il dovere/potere di
sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del
contributo a percentuali crescenti all’aumentare del
ritardo. Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini
fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver
applicato le massime maggiorazioni di legge),
l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della
riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore
principale (art. 43 d.P.R. n. 380 del 2001).
La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da
ritenere che l’Amministrazione, se pure non è impedita dallo
svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti (senza
attingere al rimedio straordinario della riscossione
coattiva) in occasione delle scadenze dei termini intermedi
cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo
secondo il già indicato modello, è certo facultata ad
attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e
eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso
restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di
legge per il ritardato pagamento.
---------------
5. L’appello merita accoglimento.
6. La questione di diritto oggetto del presente giudizio è
se, alla scadenza dei termini previsti per il pagamento
rateale del contributo di costruzione, sia individuabile un
onere collaborativo in capo alla Amministrazione concedente,
desumibile dai principi generali in tema di buona fede e
correttezza nei rapporti obbligatori di matrice civilistica
ovvero dal principio di leale collaborazione proprio dei
rapporti intersoggettivi di diritto pubblico, che si spinga
fino al punto di ritenere che l’Amministrazione sia
obbligata alla sollecita escussione della garanzia
fideiussoria, al fine di non aggravare la posizione del
soggetto obbligato, tenuto altrimenti al pagamento (oltre
che delle rate non corrisposte) delle sanzioni di legge per
omesso o ritardato pagamento.
7. La questione è stata oggetto di un contrasto
giurisprudenziale recentemente composto dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 07.12.2016, n. 24.
In detta sentenza, l’Adunanza plenaria ha enunciato il
seguente principio di diritto: “un’amministrazione comunale
ha il pieno potere di applicare, nei confronti
dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione
pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo
ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al
contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento
dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la
garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei
singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di
svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il
debitore principale”.
In particolare, l’Adunanza plenaria ha ritenuto sfornita di
base normativa ogni opzione interpretativa che correli il
potere sanzionatorio del Comune al previo esercizio
dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il
debitore principale ovvero presso il fideiussore.
Ed invero il sistema di pagamento del contributo di
costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale
di una garanzia prestata per l’adempimento del debito
principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti,
con chiara funzione di deterrenza dell’inadempimento, che
trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi
dell’inadempimento dell’obbligato principale.
In tale sistema, l’Amministrazione comunale, allo scadere
del termine originario di pagamento della rata ha solo la
facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde
ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non
accada, l’Amministrazione avrà comunque il dovere/potere di
sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del
contributo a percentuali crescenti all’aumentare del
ritardo. Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini
fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver
applicato le massime maggiorazioni di legge),
l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della
riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore
principale (art. 43 d.P.R. n. 380 del 2001).
La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da
ritenere che l’Amministrazione, se pure non è impedita dallo
svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti (senza
attingere al rimedio straordinario della riscossione
coattiva) in occasione delle scadenze dei termini intermedi
cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo
secondo il già indicato modello, è certo facultata ad
attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e
eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso
restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di
legge per il ritardato pagamento.
Secondo la sentenza n. 24 del 2016, la lettera della legge è
chiara nell’assegnare all’Amministrazione il potere/dovere
di applicare le sanzioni al verificarsi di un unico
presupposto fattuale, e cioè il ritardo nel pagamento da
parte dell’intestatario del titolo edilizio (o di chi gli
sia subentrato secundum legem).
La stretta osservanza del principio di legalità, imposta
dalla rigorosa applicazione del canone
interpretativo-letterale delle disposizioni richiamate,
comporta, pertanto, che va ritenuta legittima l’applicazione
delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di
pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo
fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo
edilizio.
In definitiva, la facoltà per l’amministrazione di
escutere direttamente il fideiussore (nei casi, quali quello
di specie, in cui non è stato convenuto il beneficium
excussionis) non può tradursi, in difetto di espressa
previsione normativa, in una decadenza dell’amministrazione
dal potere di sanzionare il pagamento tardivo
dell’obbligato.
Tali conclusioni risultano coerenti con l’affermazione
secondo cui il principio di legalità che connota l’azione
dei pubblici poteri va letto in una duplice declinazione: in
senso proprio, secondo cui non può darsi esercizio legittimo
di potere senza che sussista una specifica fonte legislativa
legittimante; ma anche nel senso che, ove detta fonte
legislativa sussista e, come nella fattispecie oggetto di
causa, l’esercizio del potere (sanzionatorio) sia vincolato
al verificarsi di taluni presupposti fattuali,
l’Amministrazione non potrebbe, dopo aver riscontrato la
ricorrenza delle condizioni previste dalla legge, sottrarsi
legittimamente al suo esercizio.
8. L’applicazione al caso di specie dei suddetti principi
implica l’accoglimento dell’appello proposto dal Comune di
Olbia e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata,
il rigetto del ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.01.2017 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Differenza tra sottotetto e intercapedine ai fini
dell'applicazione della norma che consente la
sopraelevazione per il recupero abitativo.
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Ristrutturazione edilizia – Recupero a fini abitativi dei
sottotetti – Presupposto – Individuazione.
Presupposto per il recupero a fini
abitativi dei sottotetti è che sia identificabile come già
esistente un volume sottotetto passibile di recupero, cioè
di riutilizzo a fini abitativi; ciò richiede che il
sottotetto abbia, in partenza, dimensioni tali da essere
praticabile e da poter essere abitabile, sia pure con gli
aggiustamenti che occorrono per raggiungere i requisiti
minimi di abitabilità (1).
---------------
(1)
Il TRGA Trento richiama l’iter argomentativo di Tar Milano,
sez. II, 15.04.2003, n. 1007 (ma v. anche id. 02.04.2010, n.
970), secondo cui non può ravvisarsi l’esistenza di un
sottotetto laddove l’ultimo piano abitabile sia sormontato
da uno spazio, compreso tra la soletta e la copertura in
tegole, di entità tale da presentarsi come una mera
intercapedine, di guisa che la realizzazione di vani
abitabili finirebbe per risolversi non già nel recupero di
uno spazio già esistente, ma nella sopraelevazione di un
piano ulteriore.
Ha aggiunto il Tar, richiamando la tesi (accolta) di parte
ricorrente, che non una qualsiasi parte di edificio
immediatamente inferiore al tetto può ritenersi un “sottotetto”
sfruttabile ai fini abitativi, ma solo quella parte che, a
seconda dell’altezza, della praticabilità del solaio, delle
modalità di accesso, dell’esistenza o meno di finestre e di
vani interni, integra un volume già di per sé utilizzabile,
praticabile ed accessibile, quantomeno come deposito o
soffitta (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 19.01.2017 n. 20 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2. Ciò premesso il Collegio ritiene che -anche a voler
ritenere applicabile alla fattispecie in esame (ossia ad un
edificio ricadente in Zona B-1) la disposizione dell’art.
87, comma 1, delle NTA, che consente “la sopraelevazione
al fine di ricavare o migliorare unità abitative nei
sottotetti esistenti”- colgano nel segno i ricorrenti
quando affermano, con il primo motivo, che nella fattispecie
in esame lo spazio esistente fra il terzo e ultimo piano ed
il tetto dell’edificio non rientra tra i “sottotetti
esistenti” ai quali si riferisce il predetto art. 87,
comma 1, configurandosi piuttosto come una «mera
intercapedine».
3. Come ricordato dai ricorrenti, il tema dei requisiti
necessari alla definizione di “sottotetto esistente”,
suscettibile di recupero a fini abitativi, è stato già
affrontato dalla giurisprudenza (TAR Lombardia Milano, Sez.
II, 15.04.2003, n. 1007; id., 02.04.2010, n. 970) con
riferimento all’art. 1 della legge regionale lombarda
15.07.1996, n. 15 (in materia di recupero a fini abitativi
dei sottotetti esistenti), il quale stabilisce che “negli
edifici destinati in tutto o in parte a residenza è
consentito il recupero volumetrico a solo scopo residenziale
del piano sottotetto esistente” (secondo comma) e
definisce come sottotetti “i volumi sovrastanti l’ultimo
piano degli edifici di cui al comma 2”.
In particolare il TAR Lombardia (nella seconda delle due
pronunce innanzi richiamate) -dopo aver affermato che «presupposto
per il recupero abitativo dei sottotetti è che sia
identificabile come già esistente un volume sottotetto
passibile di recupero, cioè di riutilizzo a fini abitativi.
Ciò richiede che il sottotetto abbia, in partenza,
dimensioni tali da essere praticabile e da poter essere
abitabile, sia pure con gli aggiustamenti che occorrono per
raggiungere i requisiti minimi di abitabilità (altezza media
ponderale m. 2.40: cfr. art. 2 l.r. 15.07.1996 n. 15, oggi
art. 63, ultimo comma, legge regionale n. 12/2005). Solo a
queste condizioni il “recupero”, che la legge regionale
classifica come “ristrutturazione” (art. 3, secondo comma),
è effettivamente ascrivibile a tale categoria di interventi,
come definita dall’art. 31 della legge n. 457/1978 (oggi,
art. 3 d.p.r. 380/2001), la quale postula che il nuovo
organismo edilizio corrisponda a quello preesistente, senza
alterarne in misura sostanziale sagoma, volume e superficie;
diversamente l’intervento si risolverebbe non già nel
recupero di un piano sottotetto, ma nella realizzazione di
un piano aggiuntivo, che eccede i caratteri della
ristrutturazione per integrare un intervento di nuova
costruzione»-
è pervenuto alla conclusione che «non
può ravvisarsi l’esistenza di un sottotetto laddove
-come nella fattispecie- l’ultimo piano
abitabile sia sormontato da uno spazio, compreso tra la
soletta e la copertura in tegole, di entità tale da
presentarsi come una mera intercapedine, di guisa che la
realizzazione di vani abitabili finirebbe per risolversi non
già nel recupero di uno spazio già esistente, ma nella
sopraelevazione di un piano ulteriore. Nel caso in esame è
incontestato che l’altezza massima dello spazio sottostante
la copertura dell’edificio non raggiunge 1 (un) metro, cioè
una misura insufficiente ad integrare un sottotetto
suscettibile di recupero».
4. Nel caso qui in esame, è ben vero che l’art. 87 delle NTA
del PRG, nel disciplinare gli interventi di recupero dei
sottotetti a fini abitativi, non prevede espressamente le
misure o altezze minime del volume esistente, né indica le
caratteristiche tecnico-costruttive del relativo solaio,
limitandosi a sancire (al comma 4) quali condizioni per la
sopraelevazione, che: A) la stessa possa essere assentita “per
una sola volta”; B) “la zona sia adeguatamente
urbanizzata in relazione all’intervento edilizio previsto
tanto sotto il profilo della viabilità quanto sotto il
profilo delle reti tecnologiche”; C) l’intervento non
superi il limite di “m 2,20 misurati all’imposta del
tetto”; D) le falde di copertura abbiano “pendenze
riferibili al contesto edilizio dell’intervento”.
Pur tuttavia si deve necessariamente ritenere che anche per
gli interventi disciplinati dal predetto art. 87 debbano
valere le suesposte considerazioni svolte dal TAR Lombardia
in ordine alla riconducibilità degli interventi di recupero
a fini abitativi dei sottotetti esistenti agli interventi di
ristrutturazione edilizia (come definiti dall’art. 77, comma
1, della legge provinciale trentina 04.08.2015, n. 15,
secondo il quale si configurano come interventi di
ristrutturazione edilizia “quelli volti ad adeguare
l’unità edilizia o una sua parte a nuove e diverse esigenze,
anche con cambio della destinazione d’uso con o senza opere”),
con l’ulteriore conseguenza che, per essere assentito, il
nuovo organismo edilizio deve corrispondere sostanzialmente
a quello preesistente.
Diversamente opinando, «l’intervento si risolverebbe non
già nel recupero di un piano sottotetto, ma nella
realizzazione di un piano aggiuntivo, che eccede i caratteri
della ristrutturazione per integrare un intervento di nuova
costruzione» (cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. II, n.
970/2010 cit.).
Colgono, quindi, nel segno i ricorrenti quando affermano che
«non una qualsiasi parte di edificio
immediatamente inferiore al tetto può ritenersi un
“sottotetto” sfruttabile ai fini abitativi, ma solo quella
parte che, a seconda dell’altezza, della praticabilità del
solaio, delle modalità di accesso, dell’esistenza o meno di
finestre e di vani interni, integra un volume già di per sé
utilizzabile, praticabile ed accessibile, quantomeno come
deposito o soffitta. In altri termini, presupposto per il
recupero abitativo dei sottotetti è che sia identificabile
come già esistente un volume sottotetto passibile di
recupero, ovvero di riutilizzo a fini abitativi, in quanto
avente caratteristiche dimensionali (altezza, volume e
superficie) e funzionali (utilizzabile), tali da risultare
già praticabile ed abitabile, seppure con gli adattamenti
necessari per raggiungere i requisiti minimi di abitabilità».
Né rileva in senso contrario il chiarimento interpretativo
reso con la circolare interpretativa del Comune di Trento
del 30.09.2013 (invocata dal Comune stesso nelle proprie
difese) secondo la quale l’art. 87 delle NTA non porrebbe
limiti di sorta con riferimento all’altezza del sottotetto
esistente. E’ sufficiente ricordare che,
secondo pacifica giurisprudenza
(ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 13.09.2012,
n. 4859), la circolare interpretativa non è
vincolante per i soggetti estranei all’amministrazione e, se
contra legem, ben può essere disapplicata, anche
d’ufficio, dal Giudice investito dell’impugnazione dell’atto
che ne fa applicazione.
Inoltre, opinando nel senso indicato dalla predetta
circolare, anche uno spazio avente un’altezza di soli 20 o
30 cm, ricompreso tra l’ultimo piano ed il tetto di un
edificio, sarebbe qualificabile come un sottotetto
suscettibile di recupero a fini abitativi mediante
sopraelevazione: l’assurdità della conseguenza evidenzia
l’erroneità della premessa.
5. Il primo motivo è, in conclusione, fondato in quanto,
come evidenziato dai ricorrenti, nel caso in esame l’altezza
media interna dello spazio tra il terzo piano ed il tetto
dell’edificio in questione è di soli 50/80 cm e
l’impossibilità di configurare un “sottotetto esistente”
è confermata dal fatto che: A) il solaio esistente non ha
una funzione portante, essendo spesso solo 20 cm, a
differenza di tutti gli altri solai dei piani intermedi, che
misurano 40 cm; B) il predetto spazio è posto in
comunicazione col piano sottostante solo con una scala
retrattile, verosimilmente per operazioni di manutenzione e
pulizia; C) dello spazio in questione non vi è alcuna
evidenza a livello tavolare.
6. Come già evidenziato in precedenza l’accoglimento del
primo motivo è, di per sé, idoneo a determinare
l’annullamento integrale dell’impugnata concessione
edilizia, stante il carattere unitario dell’intervento
assentito con tale provvedimento, e quindi risulta
pienamente satisfattivo per i ricorrenti, con la duplice
ulteriore conseguenza di: A) consentire l’assorbimento delle
restanti censure dedotte dai ricorrenti; B) rendere
inaccoglibile la domanda del Comune di Trento di fare
applicazione del principio utile per inutile non vitiatur. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
titolare paga per il cattivo odore. Cassazione. Anche per
emissioni nei limiti.
È tenuto a risarcire le persone
offese il legale rappresentante dell’azienda che “produce”
gas maleodoranti, anche se le emissioni sono nei limiti di
legge.
La Corte di
Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 18.01.2017 n. 2240,
respinge il ricorso del titolare di una società a
responsabilità limitata, contro la decisione del tribunale
di condannarlo alla pena dell’ammenda e al risarcimento
della parti civili, da stabilire in separata sede.
Il ricorrente, condannato per il reato di getto di cose
pericolose (articolo 674 del Codice penale) riteneva di
essere nel giusto. La fabbrica, finita nel mirino per le
“esalazioni”, era situata in una zona artigianale, le
emissioni olfattive provenivano da un impianto autorizzato,
rientravano nei limiti previsti dalla legge ed erano il
risultato della lavorazione a caldo di prodotti plastici,
contemplati dall’allegato al testo unico ambientale.
Per il
titolare dell’azienda, trattandosi di composti organici, era
ovvio che non poteva trattarsi di sostanze inodori. Inoltre
il legale rappresentante contestava la condanna perché
basata solo sulle testimonianze delle parti offese, in
particolare due, mentre altre persone che abitavano nei
pressi dell’impianto non si erano lamentate.
Secondo la difesa, l’immissione autorizzata di determinati
tipi e quantità di sostanze volatili, comprenderebbe, negli
stretti limiti “legali” anche la “produzione” di odori
percepibili perché, una diversa conclusione, sarebbe in
contrasto con la ragionevolezza: l’ordinamento permetterebbe
un comportamento per poi punirlo.
Per finire, secondo il ricorrente l’unico criterio da
utilizzare, oltre a quanto previsto dalla legge, sarebbe il
criterio della «normale tollerabilità» dettato dall’articolo
844 del Codice civile. Una strada che imporrebbe di
verificare se esistono accorgimenti tecnici trascurati o se,
invece, le stesse persone offese sono troppo “sensibili”.
La Cassazione respinge il ricorso. I giudici della terza
sezione penale ricordano che anche nel caso di impianto
autorizzato, il reato di getto di cose pericolose per
emissioni olfattive è sempre comunque configurabile, perché
non esiste una normativa statale che preveda disposizioni
specifiche e valori limite in materia di odori.
La regolarità dell’impresa non è dunque in automatico una
scriminante. Né passa la tesi dell’“incoerenza”
dell’ordinamento che punisce ciò che al tempo stesso
consente, visto che l’attività autorizzata può essere
realizzata «con modalità tali da garantire grazie
all’adozione di puntuali accorgimenti tecnici, il mancato
prodursi di emissioni moleste o fastidiose». In assenza di
una normativa statale, la Cassazione, in fatto di cattivi
odori, ritiene inadeguato a proteggere l’ambiente e la
salute umana il criterio della «normale tollerabilità» ,
individuando invece la tutela nel principio della «stretta
tollerabilità».
Per finire, il reato di getto di cose pericolose, può
legittimamente essere riscontrato sulla base delle sole
testimonianze delle persone offese, senza accertamento
tecnico. Il giudice può, infatti, concludere per la
sussistenza del reato ascoltando solo alcuni “interessati”,
a prescindere dal fatto che altri, pur coinvolti nel
fenomeno, non l’abbiano percepito affatto
(articolo Il Sole 24 Ore del
25.01.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere
integralmente rigettato.
2. Con i primi due motivi il ricorrente sostiene per
un verso che l'autorizzazione a immettere, nell'aria,
determinate sostanze chimiche si estenderebbe anche alle
relative emissioni odorigene; e, per altro verso, che la
configurabilità del reato di getto pericoloso di cose
dovrebbe essere esclusa in caso di emissioni provenienti da
attività autorizzata, ovviamente a condizione che esse siano
contenute nei limiti dell'autorizzazione.
La tesi difensiva, tuttavia, non può essere condivisa.
Questa stessa Sezione della Suprema Corte, infatti, si è già
pronunciata, in passato, sull'argomento, affermando che
anche nel caso in cui un impianto sia munito di
autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in caso di
produzione di "molestie olfattive" il reato di getto
pericoloso di cose è, comunque, configurabile, non esistendo
una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e
valori limite in materia di odori
(così Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015,
Maroni, Rv. 265188; Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, dep.
17/01/2008, Alghisi e altro, Rv. 238447).
Ne consegue che non può riconoscersi
automatica valenza scriminante alla produzione di emissioni
odorigene pur realizzata nell'ambito dell'ordinario ciclo
produttivo dell'impresa, ancorché regolarmente autorizzato.
Né può condividersi l'assunto difensivo secondo cui
l'unicità e la coerenza dell'ordinamento non potrebbero
consentire che da un lato sia permesso e, dall'altro, sia
punito uno stesso identico comportamento, atteso che
l'attività autorizzata potrebbe essere in ogni caso
realizzata con modalità tali da garantire, grazie
all'adozione di puntuali accorgimenti tecnici, il mancato
prodursi di emissioni moleste o fastidiose
(in termini, v. Sez. 3, n. 15734 del 12/02/2009, dep.
15/04/2009, Schembri e altro, Rv. 243387).
3. Sempre nell'ambito del secondo motivo di ricorso,
la difesa dell'imputato deduce che, anche a voler ritenere
astrattamente configurabile la contravvenzione di cui
all'art. 674 cod. pen. nel caso in cui ricorra un
provvedimento che autorizzi determinate emissioni, nondimeno
per ritenere integrata la fattispecie in esame dovrebbe
farsi ricorso, al fine di valutare la liceità delle
emissioni olfattive, al criterio della normale tollerabilità
di cui all'art. 844 cod. civ..
Nondimeno, discende dalla premessa sviluppata al § 2,
secondo cui non esiste una normativa
statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite
in materia di odori, la coerente affermazione, che si
rinviene nell'indirizzo qui condiviso, secondo cui il
parametro alla stregua del quale valutare la legittimità
dell'emissione deve essere individuato nel criterio della "stretta
tollerabilità", attesa la inidoneità di quello della "normale
tollerabilità" previsto dall'art. 844 cod. civ., ad
assicurare una protezione adeguata all'ambiente ed alla
salute umana (Sez.
3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni, Rv.
265188; Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, dep. 17/01/2008,
Alghisi e altro, Rv. 238447; Sez. 3, n. 11556 del
21/02/2006, dep. 31/03/2006, Davito Bava, Rv. 233565; Sez.
3, n. 19898 del 21/04/2005, Pandolfini, Rv. 231651).
4. Da ultimo il ricorrente censura il fatto che il tribunale
abbia ritenuto di ravvisare l'intollerabilità delle
emissioni odorigene unicamente alla stregua delle
dichiarazioni delle persone offese. E tuttavia, anche con
riferimento a tale profilo deve ritenersi che le doglianze
difensive non possano essere accolte.
Sul punto giova, infatti, premettere che ai
fini della sussistenza del reato di cui all'art. 674 cod.
pen. è necessario che le condotte consistenti nel gettare o
versare abbiano attitudine concreta a molestare persone, non
essendo sufficiente una attitudine potenzialmente idonea
alla molestia
(Sez. 3, n. 25175 del 11/05/2007, dep. 03/07/2007, Gagliardi
e altro, Rv. 237137).
Tuttavia, la natura di reato di pericolo
concreto e il peculiare criterio di valutazione della
tollerabilità delle emissioni olfattive, comporta che sia
sufficiente l'apprezzamento diretto delle conseguenze
moleste da parte anche solo di alcune persone, dalla cui
testimonianza il giudice può logicamente trarre elementi per
ritenere l'oggettiva sussistenza del reato, a prescindere
dal fatto che tutte le persone siano state interessate o
meno dallo stesso fenomeno o che alcune non l'abbiano
percepito affatto; non essendo nemmeno necessario un
accertamento tecnico
(Sez. 3, n. 36905 del 18/06/2015, dep. 14/09/2015, Maroni,
Rv. 265188; in termini sostanzialmente analoghi v. Sez. 3,
n. 12019 del 10/02/2015, dep. 23/03/2015, Pippi, Rv. 262710,
secondo cui ai fini dell'accertamento può farsi riferimento
al fastidio dichiarato dai testimoni che hanno una
percezione quotidiana dell'intensità dello stesso, nonché
Sez. 3, n. 19206 del 27/03/2008, Crupi, Rv. 239874). |
APPALTI:
Cauzione per costituendo raggruppamento di imprese.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione -
Cauzioni - Per l’esecuzione del contratto - Costituendo
raggruppamento di imprese - Cauzione provvisoria -
Riferimento a tutte le imprese componenti il raggruppamento
- Art. 93, commi 1 e 8, d.lgs. n. 50 del 2016 - Necessità.
●
Contratti della Pubblica amministrazione -
Cauzioni - Per l’esecuzione del contratto - Costituendo
raggruppamento di imprese - Cauzione provvisoria -
Riferimento a tutte le imprese componenti il raggruppamento
- Mancanza - Soccorso istruttorio ex art. 80, d.lgs. n. 50
del 2016 – Esclusione.
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Offerte -
Offerte anomale - Gara con due concorrenti – Criterio
dell’offerta al prezzo più basso - Verifica - Sorteggio
metodi ex art. 97, comma 2, lett. c) e d), d.lgs. n. 50 del
2016.
●
In sede di gara pubblica, ai sensi del combinato disposto
dei commi 1 e 8 dell'art. 93 del nuovo Codice dei contratti
pubblici, l’impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia
per l’esecuzione del contratto deve riferirsi a tutte le
imprese costituenti il costituendo raggruppamento temporaneo
di imprese.
●
In sede di gara pubblica, in caso di mancata produzione
della garanzia ex art. 93 del nuovo Codice dei contratti
pubblici per tutte le imprese costituenti un costituendo
raggruppamento temporaneo di imprese non può farsi ricorso
al soccorsi istruttorio ai sensi dell’art. 80 dello stesso
Codice, trattandosi di produzione prevista dal citato art.
93 a pena di esclusione (1).
●
In sede di gara pubblica da aggiudicare con il sistema del
prezzo più basso, ai fini della verifica dell’anomalia
dell’offerta, se le offerte sono due si deve estrarre il
metodo da quello indicato sub c) (media aritmetica dei
ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse,
incrementata del 20 per cento) del comma 2 dell’art. 97,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 o sub d) dello stesso comma (media
aritmetica dei ribassi in termini assoluti di tutte le
offerte ammesse, decurtata del 20 per cento), non trovando
invece applicazione quanto previsto alla lett. e) del citato
comma 2 (media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte
le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento,
arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle
offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso,
incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi
percentuali che superano la predetta media, moltiplicato per
un coefficiente sorteggiato dalla commissione giudicatrice
all'atto del suo insediamento tra i seguenti valori: 0,6;
0,8; 1; 1,2; 1,4).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che dal combinato disposto dei commi 1 e 8
dell’art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 si desume che rispetto
all’impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia
fideiussoria per l’esecuzione del contratto, è posto, in
capo alle ditte partecipanti alle gare per l’aggiudicazione
dei contratti pubblici, un preciso obbligo, a pena di
esclusione.
Trattandosi dunque di elemento richiesto a pena di
esclusione non è possibile attivare il soccorso istruttorio.
Infatti l’art. 83 del nuovo Codice dei contratti prevede il
soccorso istruttorio solo per “le carenze di qualsiasi
elemento formale della domanda”, e tale non si può
qualificare la mancanza della garanzia (TAR
Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 18.01.2017 n. 878 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’
noto che in materia di abusivismo edilizio la relazione
redatta dalla polizia municipale in esito ad un sopralluogo
costituisce atto pubblico ed ha efficacia di piena prova,
fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c.
relativamente alla provenienza dell'atto dal pubblico
ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni delle parti
e agli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti
avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
Di talché, è evidente come non possa che ritenersi
irrilevante la dichiarazione sostitutiva e contraria
depositata e, ciò, considerando che per privare di efficacia
gli accertamenti posti in essere dall’Amministrazione i
ricorrenti avrebbero dovuto proporre una querela di falso ai
sensi dell'art. 77 del D.Lgs. n. 104/2010.
---------------
1.1 A seguito dei successivi accertamenti posti in essere
dal Comune di Piombino, in data 09/11/2015, risultano
smentite le argomentazioni contenute nel primo motivo e
dirette ad affermare che il manufatto di cui si tratta
corrisponderebbe a quello del 1982, senza che la ricorrente
abbia provveduto a demolirlo e a realizzarne uno diverso,
argomentazioni poi reiterate in una perizia di parte
depositata nel presente giudizio.
Contrariamente a quanto sostenuto, dall’esame della
documentazione in atti è possibile evincere che il
fabbricato oggetto del provvedimento ora impugnato
differisce dal preesistente, sia per superficie (circa mq.
50,00 a fronte dei mq. 42,69 dichiarati nella richiamata
scheda descrittiva), che per numero delle aperture esterne,
che, ancora, per i materiali e la struttura.
Anche dalla documentazione fotografica emerge con chiarezza
che in luogo della struttura originaria in materiali precari
è ora presente una costruzione in legno con materiali e una
struttura definita che non può essere ritenuta compatibile
con il manufatto originario.
L’esistenza di dette diversità, interessanti elementi e
caratteristiche essenziali, non poteva che portare
l’Amministrazione a ritenere verosimile che il manufatto
originario fosse stato demolito e successivamente
ricostruito con uno nuovo.
1.2 A fronte di detti riscontri è evidente come non possa
che ritenersi irrilevante la dichiarazione sostitutiva e
contraria depositata e, ciò, considerando che per privare di
efficacia gli accertamenti posti in essere
dall’Amministrazione i ricorrenti avrebbero dovuto proporre
una querela di falso ai sensi dell'art. 77 del D.Lgs. n.
104/2010.
E’, infatti, noto che in materia di abusivismo edilizio la
relazione redatta dalla polizia municipale in esito ad un
sopralluogo costituisce atto pubblico ed ha efficacia di
piena prova, fino a querela di falso, ai sensi dell'art.
2700 c.c. relativamente alla provenienza dell'atto dal
pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni
delle parti e agli altri fatti che il pubblico ufficiale
attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (TAR
Piemonte Torino Sez. II, 27.07.2016, n. 1073 e TAR Campania
Salerno Sez. II, 19.05.2015, n. 1036).
Il primo motivo è, pertanto, infondato e va respinto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 18.01.2017 n. 58 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Italia
Nostra è legittimata ad agire in giudizio in quanto
riconosciuta ai sensi degli artt. 13 e 18, comma 5, della
legge 08.07.1986, n. 349, ed anche gli atti di
pianificazione urbanistica funzionali a definire e
contemperare tutti gli interessi presenti sul territorio,
devono ritenersi impugnabili dalle Associazioni
ambientaliste qualora, come nel caso di specie, si deduca
che incidano negativamente sugli interessi ambientali.
---------------
1. Con il primo motivo del ricorso introduttivo
l’Associazione ricorrente lamenta la violazione dell’art.
38, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267, perché il
Piano di assetto del territorio è stato adottato
successivamente alla convocazione dei comizi elettorali in
mancanza dei presupposti di improrogabilità ed urgenza
richiesti dalla norma.
1.1 Le Amministrazioni resistenti ed i controinteressati
eccepiscono l’inammissibilità dell’impugnazione della
deliberazione per difetto di legittimazione di Italia Nostra
che non può ritenersi abilitata ad impugnare deliberazioni
di carattere urbanistico prive di valenza ambientale, e per
l’omessa impugnazione della direttiva n. 169977/63 del 07.04.2011 del Dirigente regionale della Direzione difesa
del suolo, con la quale il Consiglio comunale è stato
invitato ad individuare urgentemente nel Piano di assetto
del territorio l’area interessata alla realizzazione di un
bacino di laminazione, al fine di velocizzare l’iter di
realizzazione dell’opera necessaria a mettere in sicurezza
dal punto di vista idrogeologico il territorio interessato
dai recenti fenomeni dell’alluvione dell’autunno 2010.
Entrambe le eccezioni devono essere respinte.
Infatti Italia Nostra è legittimata ad agire in giudizio in
quanto riconosciuta ai sensi degli artt. 13 e 18, comma 5,
della legge 08.07.1986, n. 349, ed anche gli atti di
pianificazione urbanistica funzionali a definire e
contemperare tutti gli interessi presenti sul territorio,
devono ritenersi impugnabili dalle Associazioni
ambientaliste qualora, come nel caso di specie, si deduca
che incidano negativamente sugli interessi ambientali (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV 14.04.2011 n. 2329; Tar
Toscana, Sez. I, 23.06.2008 n. 1651).
1.2 Anche l’eccezione relativa all’omessa impugnazione della
nota n. 169977/63 del 07.04.2011, della Regione non può
essere accolta, perché, benché si tratti di una formale
sollecitazione ad inserire al più presto possibile nel Piano
di assetto del territorio la previsione dell’opera
necessaria alla messa in sicurezza idrogeologica di un vasto
territorio idonea ad assumere un importante rilievo nella
procedura sia per l’autorevolezza della fonte da cui
proviene, sia per i contenuti che rappresenta, non
costituisce tuttavia un provvedimento che manifesti una
qualche cogenza per il Comune o che sia ascrivibile al
potere di direttiva in materia urbanistica di cui è titolare
la Regione.
La sua omessa impugnazione deve pertanto ritenersi priva di
rilievo
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 18.01.2017 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: L’art.
38, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267, prevede che i Consigli comunali dopo la
pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, devono limitarsi ad adottare gli atti urgenti e
improrogabili.
Come è noto la limitazione delle potestà consiliari trova la
sua ratio nella necessità di prevenire da parte del
Consiglio Comunale uscente la possibilità di condizionare il
corpo elettorale attraverso una captatio benevolentiae
motivata dalla finalità di ottenere maggiori consensi
anziché di salvaguardare l’interesse pubblico.
Pertanto l’analisi circa la sussistenza dei presupposti di
improrogabilità ed urgenza che giustificano l’esercizio di
tale potere deve essere condotta con particolare rigore.
Tuttavia una volta che l’Amministrazione abbia dato una
descrizione analitica delle ragioni di opportunità ed
indifferibilità con una motivazione stringente ed
approfondita, i presupposti dell’urgenza ed improrogabilità
costituiscono un apprezzamento di merito insindacabile in
sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il
limitato profilo della palese irrazionalità od illogicità
della motivazione addotta.
Inoltre va osservato che l’urgenza e l’improrogabilità di
procedere all’approvazione di atti consiliari non può essere
negata a priori neppure con riguardo agli atti di
pianificazione urbanistica, rispetto ai quali, in casi
particolari, come osservato in giurisprudenza, la
circostanza che i tempi di attuazione siano lunghi, non
esclude di per sé l'urgenza di darvi avvio.
---------------
1. Con il primo motivo del ricorso introduttivo
l’Associazione ricorrente lamenta la violazione dell’art.
38, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267, perché il
Piano di assetto del territorio è stato adottato
successivamente alla convocazione dei comizi elettorali in
mancanza dei presupposti di improrogabilità ed urgenza
richiesti dalla norma.
...
2. Nel merito il primo motivo deve essere respinto.
Sul punto va premesso che l’art. 38, comma 5, del Dlgs. 18.08.2000, n. 267, prevede che i Consigli comunali dopo la
pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, devono limitarsi ad adottare gli atti urgenti e
improrogabili.
Come è noto la limitazione delle potestà consiliari trova la
sua ratio nella necessità di prevenire da parte del
Consiglio Comunale uscente la possibilità di condizionare il
corpo elettorale attraverso una captatio benevolentiae
motivata dalla finalità di ottenere maggiori consensi
anziché di salvaguardare l’interesse pubblico.
Pertanto l’analisi circa la sussistenza dei presupposti di
improrogabilità ed urgenza che giustificano l’esercizio di
tale potere deve essere condotta con particolare rigore.
Tuttavia una volta che l’Amministrazione abbia dato una
descrizione analitica delle ragioni di opportunità ed
indifferibilità con una motivazione stringente ed
approfondita, i presupposti dell’urgenza ed improrogabilità
costituiscono un apprezzamento di merito insindacabile in
sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il
limitato profilo della palese irrazionalità od illogicità
della motivazione addotta (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia,
Sez. I, 30.08.2006, n. 585).
Inoltre va osservato che l’urgenza e l’improrogabilità di
procedere all’approvazione di atti consiliari non può essere
negata a priori neppure con riguardo agli atti di
pianificazione urbanistica, rispetto ai quali, in casi
particolari, come osservato in giurisprudenza (cfr. Tar
Lombardia, Milano, Sez. II, 02.07.2014, n. 1717;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.06.2003, n. 3894), la
circostanza che i tempi di attuazione siano lunghi, non
esclude di per sé l'urgenza di darvi avvio.
Ciò premesso, nel caso all’esame, tenuto conto della
motivazione che sorregge la deliberazione e
dell’integrazione motivazionale effettuata dallo stesso
Consiglio comunale con la deliberazione n. 50 del 28.11.2012, impugnata con i primi motivi aggiunti, le
valutazioni dell’Amministrazione circa il ricorrere dei
presupposti dell’urgenza ed improrogabilità risultano
sufficientemente motivate e prive di vizi logici
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 18.01.2017 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 149 del D.Lgs. 42/2004 l’autorizzazione
paesaggistica non è necessaria per gli interventi inerenti
l’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale che non
comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con
costruzioni edilizie ed altre opere civili.
Sicché, una recinzione di facile asportazione costituita con
pali infissi al suolo e senza opere murarie rientra nel
regime di esenzione previsto da tale norma in quanto non
costituisce opera edilizia comportante apprezzabile
trasformazione del territorio essendo, invece,
estrinsecazione delle comuni facoltà d’uso inerenti il
diritto di proprietà, che comprende lo jus excludendi alios.
---------------
Il ricorso ha per oggetto l’impugnazione del provvedimento
con cui il comune resistente ha ordinato la demolizione di
recinzioni abusivamente apposte dalla ricorrente su aree
rurali di sua proprietà in funzione della coltivazione di
tartufi e dello svolgimento di una attività di allevamento
di lumache.
Il Comune ritiene che l’intervento avrebbe richiesto il
rilascio di una autorizzazione paesaggistica.
Su tale asserzione il Collegio non concorda in quanto ai
sensi dell’art. 149 del D.Lgs. 42/2004 l’autorizzazione non
è necessaria per gli interventi inerenti l’esercizio
dell’attività agro-silvo-pastorale che non comportino
alterazione permanente dello stato dei luoghi con
costruzioni edilizie ed altre opere civili.
Una recinzione di facile asportazione costituita con pali
infissi al suolo e senza opere murarie rientra nel regime di
esenzione previsto da tale norma in quanto non costituisce
opera edilizia comportante apprezzabile trasformazione del
territorio essendo, invece, estrinsecazione delle comuni
facoltà d’uso inerenti il diritto di proprietà, che
comprende lo jus excludendi alios (TAR Perugia, sez.
I, 18/08/2016, n. 571; TAR Bari, sez. III, 16/09/2015, n.
1254).
A nulla vale il rilievo secondo cui l’apposizione di
recinzioni è considerata fra le opere necessitanti di
autorizzazione da rilasciarsi con procedimento semplificato
alla stregua del d.p.r. 139/2010 atteso che l’autorizzazione
ancorché semplificata non è comunque dovuta nelle
particolari ipotesi previste dall’art. 149 del Codice del
Paesaggio e dei beni culturali.
Tantomeno può essere accolta la tesi secondo cui anche la
realizzazione di opere esenti richiederebbe un previo nulla
osta della p.a., atteso che l’art. 146 del Codice lungi dal
contenere una siffatta previsione si limita a stabilire che
l’esame delle pratiche di autorizzazione debba essere
preceduto da una preistruttoria finalizzata a verificare se
il privato (per errore o per scrupolo) abbia richiesto il
permesso paesaggistico rispetto ad opere che, ai sensi
dell’art. 149, ne sarebbero esenti.
Anche la contestata violazione della normativa urbanistica
che, al fine di consentire il passaggio della piccola fauna,
impone il distacco da terra di 15 cm. delle recinzioni dei
terreni adibiti ad allevamento appare inapplicabile alla
specie, in quanto incompatibile con la specifica attività
(di allevamento di lumache) svolta dalla ricorrente.
Fondata è invece la contestata violazione della norma del
regolamento edilizio che, a tutela del decoro, impone che le
recinzioni debbano avere una certa altezza massima e debbano
essere costituite da siepi vive o da staccionate in legno.
Invero, l’asserita incompatibilità anche di tale previsione
con l’attività elicola e di coltivazione di tartufi non è
stata dimostrata.
Il ricorso deve, quindi essere respinto, ferma restando la
facoltà della ricorrente di utilizzare per la propria
attività agricola recinzioni compatibili con la normativa
edilizia vigente nel comune di Sesto Fiorentino
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 18.01.2017 n. 49 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Due
opzioni per rilanciare la riforma della dirigenza.
Rilanciare la riforma della dirigenza pubblica e dei servizi
pubblici locali mediante la riproposizione di una delega
legislativa o di un disegno di legge governativo.
Il Consiglio di stato, col
parere 17.01.2017 n. 83,
traccia al ministro Marianna Madia la strada per provare a
«riesumare» le due riforme oggetto della delega legislativa
contenuta nella legge 124/2015, decadute a seguito della
sentenza della Consulta 251/2016.
Palazzo Spada, investito della questione da un apposito
quesito posto da Palazzo Vidoni, premette di condividere
l'importanza delle riforme decadute e sottolinea anche
l'urgenza di intervenire in questo campo, nel paragrafo 9
del lungo parere. Tra i punti considerati rilevanti delle
riforme fermate dalla sentenza della Consulta, «l'importanza
di una riforma organica della dirigenza pubblica, oppure i
positivi effetti economici, ambientali e sociali che l'avvio
di una regolazione indipendente per il settore dei rifiuti
avrebbe potuto, potrebbe ancora, e dovrebbe apportare al
sistema paese».
Come procedere? Il governo, nella richiesta di parere,
afferma che l'unico intervento possibile sarebbe adottare
una nuova legge delega conforme ai vincoli procedimentali
sanciti dalla sentenza della Corte costituzionale.
Il Consiglio di stato consiglia un intervento tempestivo, ma
sottolinea che oltre alla delega legislativa sono
ipotizzabili anche altre modalità di intervento a livello
primario, come per esempio un disegno di legge del governo,
da sottoporre all'approvazione del Parlamento, che potrebbe
avere, almeno in parte, il contenuto del decreto delegato
decaduto. Palazzo Spada evidenzia che quel decreto mai
entrato in vigore, nella versione finale, recepiva anche i
pareri delle Commissioni parlamentari, fornendo
implicitamente una valutazione di merito positiva.
In realtà, il testo finale dello schema di decreto era
parecchio difforme dal parere reso dallo stesso Consiglio di
stato 2213/2016.
Sul piano politico, poi, occorrerebbe verificare se davvero
il parlamento, concentrato in modo prevalente sulla riforma
elettorale (come del resto il governo) abbia la forza e il
tempo, nello scorcio di legislatura rimanente, per dedicarsi
alle riforme della dirigenza e dei servizi pubblici locali.
Resta in sospeso, poi, il problema della relazione con le
regioni.
Mentre l'intesa si rende necessaria qualora si decidesse di
ripartire seguendo la strada della delega legislativa; se,
invece, il governo scegliesse di attivarsi con disegno di
legge non risulta nemmeno chiaro a palazzo Spada quali
potrebbero essere le relazioni di «leale collaborazione»
con le regioni, necessarie a evitare che le riforme possano
incappare nuovamente in vizi di legittimità costituzionale,
sul piano procedurale
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Riforma
Madia, via ai correttivi. Cds: decreti validi ed efficaci ma
il governo faccia presto. Parere di palazzo Spada al
ministero. Su dirigenza e spl nuova delega o disegno di
legge.
Via libera alle correzioni dei decreti legislativi,
attuativi della legge Madia, a rischio dopo la sentenza
della Consulta. I dlgs su dirigenza sanitaria, licenziamenti
disciplinari e società partecipate sono vigenti ed efficaci
perché la Corte costituzionale, con la sentenza n. 251/2016,
non ne ha affermato l'illegittimità, censurando solo la
legge delega per la mancata previsione di un'intesa con le
regioni.
Tuttavia, senza un «tempestivo intervento correttivo» da
parte del governo che applichi «la disciplina della delega,
come modificata dalla sentenza della Corte, al processo di
riforma in corso», la Consulta potrebbe essere chiamata a
giudicare i tre dlgs e a quel punto a dichiararli
illegittimi. Un'ipotesi che sembra, tuttavia, solo di scuola
visto che l'esecutivo ha già pronti i tre decreti correttivi
attesi in uno dei prossimi consigli di ministri, con
l'obiettivo di arrivare all'approvazione definitiva entro la
fine di febbraio.
Per quanto riguarda invece i dlgs su servizi pubblici locali
e dirigenza, non più adottati dopo la sentenza della
Consulta, essendo la delega scaduta, il governo potrebbe
chiedere al parlamento una nuova delega oppure presentare un
disegno di legge avente lo stesso contenuto del dlgs che
andrebbe a sostituire.
A tracciare gli scenari dell'attuazione della legge Madia
dopo la mannaia caduta sulla riforma lo scorso 25 novembre è
il Consiglio di Stato, Sez. consultiva, che ieri ha reso
noto il
parere 17.01.2017 n. 83 (Presidenza del
Consiglio dei Ministri - Ufficio legislativo del Ministro
per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione -
Quesito sugli adempimenti da compiere a seguito della
sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016) sul
quesito posto dal ministero per la semplificazione e la p.a..
Palazzo Vidoni ha riconosciuto che il processo riformatore
della pubblica amministrazione deve essere portato a termine
perché «i dlgs interessati dalla sentenza costituiscono non
solo misure di grande rilievo di per sé, ma anche elementi
di una riforma complessiva che risulterebbe meno incisiva se
limitata ad alcuni settori».
Nel merito dei quesiti posti, il Consiglio di stato ha
innanzitutto sgombrato il campo da dubbi sulla necessità di
intervenire nuovamente sulla delega (legge 124/2015): non
serve alcun intervento, ha detto il Cds, perché la legge 124
«deve ritenersi già riscritta dalla Corte in conformità al
dettato costituzionale con la previsione dell'intesa al
posto del parere». La sentenza n. 251 è infatti una pronuncia
«manipolativa» che ha già di per sé fornito «una lettura adeguatrice della legge» prevedendo l'intesa con le regioni
in luogo del parere.
Questa intesa ora potrà essere raggiunta in Conferenza
stato-regioni o in Unificata, a seconda dei casi, e poi
confluire nei decreti correttivi dei tre dlgs già vigenti
per sanare il vizio procedimentale di illegittimità
costituzionale. L'intesa, precisa il Consiglio di stato,
dovrà riferirsi al decreto «nel suo complesso» e non solo
alle norme lesive delle competenze regionali. La ragione è
presto detta. «Il giudizio di costituzionalità», osservano i
giudici amministrativi, «ha riguardato la legge delega e non
il decreto legislativo, con la conseguenza che non è
possibile identificare con certezza le disposizioni
attuative suscettibili di essere coinvolte in un eventuale
futuro giudizio di costituzionalità».
Sull'efficacia temporale dell'intesa, il Consiglio di stato
ha aperto alla possibilità che la sanatoria abbia natura
retroattiva, eliminando quindi i vizi dei decreti «ex tunc».
Sarebbe infatti un non senso, osserva palazzo Spada, «che la
legge delegata corregga una disposizione che si palesa
illegittima, lasciandola in vigore per le situazioni
perfezionatesi anteriormente ma ancora non esaurite».
Infine, per quanto riguarda i decreti sulla dirigenza e sui
servizi pubblici locali, per i quali la delega è scaduta, il
Cds non condivide la tesi che l'unico intervento possibile
sia quello di adottare una nuova legge delega conforme ai
principi dettati dalla Consulta, ma ritiene ipotizzabili
altre modalità di intervento quale potrebbe essere un ddl
governativo avente, almeno in parte, il contenuto del
decreto delegato che andrebbe a sostituire
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2017). |
APPALTI:
Natura e oggetto dell'avvalimento.
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Contratti della Pubblica amministrazione
– Avvalimento – Oggetto – Individuazione – Con riferimento
alle ulteriori dichiarazioni versate agli atti di gara –
Possibilità.
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento –
Natura – Individuazione.
L'oggetto dell’avvalimento, menzionato in via meramente
generica nel contratto, può essere specificamente
individuato mediante il riferimento alle ulteriori
dichiarazioni versate agli atti di gara ai sensi degli artt.
1362 e 1366 c.c.: la Stazione appaltante, infatti, è tenuta
ad applicare i canoni ermeneutici dell'interpretazione
sistematica e secondo buona fede in ragione del principio
della doverosità della lettura sostanziale degli atti di
gara (1).
Il rapporto di avvalimento si sostanzia in una fattispecie
complessa di natura negoziale, incentrata sulla promessa del
fatto del terzo di cui alla dichiarazione di avvalimento,
secondo una logica analoga al cd. contratto “sul patrimonio
del terzo”: il collegamento negoziale tra la dichiarazione
ed il contratto di avvalimento con le (pur formalmente
separate) dichiarazioni rese dalla ausiliaria è conseguenza
dall’applicazione delle regole ermeneutiche scolpite dagli
artt. 1366 c.c. (declinato come obbligo di buona fede teso a
salvaguardare l’utilità che la parte ritrae dal contratto)
nonché dall’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, (declinato sia come
ricerca della comune intenzione delle parti in senso
sostanziale ed al di là del testo letterale, sia come
valutazione del comportamento complessivo insito pure in
ulteriori dichiarazioni rese dalle parti stesse).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la determinabilità dell’oggetto nell’avvalimento
è imposto dalla doverosità di una lettura sostanziale degli
atti di gara, secondo una interpretazione non formalistica
del rapporto di avvalimento, teso a tutelare il principio
dalla massima concorrenzialità.
Ha aggiunto che l'individuazione del requisito prestato
dalla avvalsa afferisce non ad un profilo di determinabilità
dell’oggetto del contratto di avvalimento, bensì di mera
identificazione del bene oggetto di prestazione, che ben può
avvenire per relationem mediante l’esame congiunto
delle dichiarazioni rese dall'ausiliata e dall'ausiliaria.
Ha infine concluso il Tribunale che ove il concorrente abbia
fornito un sufficiente principio di prova circa il possesso
del requisito, nel dubbio e a fini di maggiore chiarezza,
l’Amministrazione deve comunque attivare il doveroso “soccorso
istruttorio” (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 17.01.2017 n. 26
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche, ai sensi dell'art. 46, comma
1-bis, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, la carenza della cauzione
provvisoria ovvero la mancata proroga dalla validità della
stessa costituiscono mere irregolarità sanabili.
Nella fattispecie, le irregolarità della cauzione
provvisoria, riferite alla durata della polizza, alla
mancata previsione di rinuncia alle eccezioni, alla mancata
previsione del pagamento a semplice richiesta, alla mancata
rinuncia al beneficio della preventiva escussione del
debitore, sono tutte agevolmente sanabili mediante
l'applicazione dell'articolo 46, comma 1, del dlgs n. 163
del 2006, il cosiddetto soccorso istruttorio, che consente
alle stazioni appaltanti di invitare, se necessario, i
concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine
al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni
presentati; il limite del soccorso istruttorio è dato dalle
cause di esclusione tassativamente previste dalla legge.
Tale affermazione si colloca in una ormai collaudata linea
interpretativa, in base al quale, “in coerenza con
l'indirizzo sostanzialistico, che connota le gare pubbliche
d'appalto e in applicazione del principio di tassatività
delle cause di esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, le irregolarità concernenti la
cauzione provvisoria comunque prestata nei termini previsti
dalla lex specialis sono sanabili mediante il potere di
soccorso istruttorio”.
----------------
Devono intendersi “irregolarità essenziali non sanabili”
soltanto quelle che non consentano neppure di ricostruire il
contenuto o di risalire all'autore delle dichiarazioni, come
nel caso della mancanza di sottoscrizione, risultando in tal
caso sostanzialmente inesistenti e perciò prive di quelle
connotazioni minime per poter essere oggetto di
regolarizzazione.
---------------
Considerato lo scopo dell'autenticazione della firma, è
legittimo e proporzionato richiedere, nel bando di una gara
d'appalto, la piena prova della provenienza della cauzione
da parte del sottoscrittore e, dunque, l'autenticazione
della firma, perché ai sensi dell'art. 75, comma 4, d.lgs.
12.04.2006 n. 163, la cauzione è azionabile a prima
richiesta da parte della stazione appaltante, che ha
interesse a non vedersi opporre il disconoscimento della
sottoscrizione.
----------------
... per l'annullamento, previa adozione di adeguate misure
cautelari, anche inaudita altera parte, della:
a) comunicazione del 02.12.2016, recante esclusione dalla
partecipazione alle successive fasi di gara - Lotto 4;
b) se e in quanto occorra dell'art. 23, punto b, lett. c),
della lettera di invito-disciplinare di gara, nella parte in
cui fonda il provvedimento di esclusione adottato dalla
stazione appaltante;
c) se e in quanto occorra di ogni altro atto, connesso,
presupposto e/o consequenziale, lesivo degli interessi della
società cooperativa ricorrente.
...
Il ricorso è fondato.
Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento pretorio
richiamato in ricorso (TAR Campania Napoli, sez. I,
25.02.2015, n. 1237), secondo cui “Nelle gare pubbliche,
ai sensi dell'art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006 n. 163,
la carenza della cauzione provvisoria ovvero la mancata
proroga dalla validità della stessa costituiscono mere
irregolarità sanabili. Nella fattispecie, le irregolarità
della cauzione provvisoria, riferite alla durata della
polizza, alla mancata previsione di rinuncia alle eccezioni,
alla mancata previsione del pagamento a semplice richiesta,
alla mancata rinuncia al beneficio della preventiva
escussione del debitore, sono tutte agevolmente sanabili
mediante l'applicazione dell'articolo 46, comma 1, del
decreto legislativo numero 163 del 2006, il cosiddetto
soccorso istruttorio, che consente alle stazioni appaltanti
di invitare, se necessario, i concorrenti a completare o a
fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati,
documenti e dichiarazioni presentati; il limite del soccorso
istruttorio è dato dalle cause di esclusione tassativamente
previste dalla legge”.
Tale affermazione si colloca in una ormai collaudata linea
interpretativa, in base al quale, “in coerenza con
l'indirizzo sostanzialistico, che connota le gare pubbliche
d'appalto e in applicazione del principio di tassatività
delle cause di esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, le irregolarità concernenti la
cauzione provvisoria comunque prestata nei termini previsti
dalla lex specialis sono sanabili mediante il potere di
soccorso istruttorio” (TAR Puglia Lecce, sez. I,
24.11.2016, n. 1791; Consiglio di Stato sez. V, 26.07.2016,
n. 3372).
Tale orientamento, che per vero non trova consensi unanimi
(si veda, in relazione a fattispecie del tutto analoga, TAR
Sicilia Catania, sez. I, 16.06.2016 n. 1624), va confermato
anche alla luce delle disposizioni contenute nel nuovo
Codice Appalti (d.lgs. n. 50/2016), al cui alveo applicativo
la procedura in esame è attratta, avuto riguardo a quanto
stabilito dall’art. 83, comma 8 (“I bandi e le lettere di
invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena
di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice
e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni
sono comunque nulle”), in punto di tassatività delle
cause di esclusione, e all’ampia latitudine riservata al
rimedio del soccorso istruttorio dal comma 9 del medesimo
articolo (“Le carenze di qualsiasi elemento formale della
domanda possono essere sanate attraverso la procedura di
soccorso istruttorio di cui al presente comma”).
Invero, tale disposizione pone limiti all’operatività
dell’istituto, laddove prevede la sua esclusione in caso di
irregolarità “afferenti all'offerta tecnica ed economica”
ovvero quando “le carenze della documentazione (che) non
consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto
responsabile della stessa”, ma ritiene il Collegio che
la fattispecie escludente applicata nel caso di specie non
esorbiti da tali confini normativamente tracciati.
Fermo restando che la mancanza di legalizzazione della firma
da parte di un notaio che attesti i poteri dell’agente
sottoscrittore della polizza fideiussoria, valevole quale
cauzione provvisoria, di certo non afferisce all’offerta
tecnica o economica, occorre verificare se tale mancanza sia
in grado di impedire “l'individuazione del contenuto o
del soggetto responsabile” della documentazione
prodotta.
Tale disposizione, collocata in calce al comma in commento,
non può essere interpretata in maniera da contraddire la
stentorea affermazione di principio introdotta ab initio,
che, mediante l’uso della più ampia locuzione “qualunque”,
intende senza dubbio configurare l’istituto quale rimedio
generale a presidio della prevalenza della sostanza sulla
forma nelle pubbliche gare; ne discende che devono
intendersi “irregolarità essenziali non sanabili”,
soltanto quelle che non consentano neppure di ricostruire il
contenuto o di risalire all'autore delle dichiarazioni, come
nel caso della mancanza di sottoscrizione, risultando in tal
caso sostanzialmente inesistenti e perciò prive di quelle
connotazioni minime per poter essere oggetto di
regolarizzazione.
La norma cioè consacra la regola generale della sanabilità
delle carenze della domanda in coerenza con le indicazioni
della L. delega n. 11/2016, che all'art. 1, comma 1, lett.
z), aveva indicato come obiettivo per il legislatore
delegato non solo la riduzione degli oneri documentali a
carico dei concorrenti, ma soprattutto la "attribuzione a
questi ultimi della piena possibilità di integrazione
documentale non onerosa di qualsiasi elemento di natura
formale della domanda".
Il caso di specie non esorbita quindi dall’ampio alveo della
norma, in quanto il difetto rilevato dalla Stazione
appaltante attiene alla sola legalizzazione della firma (e
non alla mancanza di questa), atteggiandosi così ad
irregolarità formale suscettibile di regolarizzazione
postuma. Non sfugge al Collegio che il Massimo Consesso di
GA, in analoga vicenda, ha ritenuto che “Considerato lo
scopo dell'autenticazione della firma, è legittimo e
proporzionato richiedere, nel bando di una gara d'appalto,
la piena prova della provenienza della cauzione da parte del
sottoscrittore e, dunque, l'autenticazione della firma,
perché ai sensi dell'art. 75, comma 4, d.lgs. 12.04.2006 n.
163, la cauzione è azionabile a prima richiesta da parte
della stazione appaltante, che ha interesse a non vedersi
opporre il disconoscimento della sottoscrizione” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 21/10/2014, n. 5192).
Nella controversia all’esame dell’autorevole Collegio, è
stato quindi ritenuto legittimo il provvedimento di
esclusione emesso sulla base della mancanza di tale elemento
formale, facendo leva proprio sulla espressa sanzione
escludente prevista dalla lex specialis.
Ebbene, il Collegio non revoca in dubbio che tale
prescrizione sottenda un preciso e rilevante interesse della
Stazione appaltante, così come evidenziato nella menzionata
pronuncia; va tuttavia rilevato che la sua immediata portata
escludente sia nel caso in esame disattivata dal generale
rimedio del soccorso istruttorio, tant’è che le statuizioni
del giudice di seconde cure si sono fondate sul
riconoscimento della inapplicabilità ratione temporis
dell’art. 46 comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 oltre che
della sua inattitudine applicativa anche in chiave
interpretativa della legge di gara.
Va conclusivamente rilevato che pur essendo la previsione di
lex specialis, presidiata da espressa sanzione
escludente, “espressiva di un interesse rilevante e
qualificato della amministrazione aggiudicatrice in ordine
alla piena affidabilità della cauzione provvisoria quanto
alla provenienza da soggetto certo e munito dei poteri
rappresentativi”, la sua violazione non integra una
irregolarità non sanabile nelle ipotesi normativamente
previste in quanto afferente alla certezza della provenienza
del documento e della riferibilità della polizza alla
società emittente, ma non tale da non consentire, in termini
assoluti, “l'individuazione del contenuto o del soggetto
responsabile”, come statuito dall’evidenziato art. 83.
Il ricorso va quindi accolto, di tal che dell’atto impugnato
occorre disporre l’annullamento (TAR Campania-Salerno, Sez.
I,
sentenza 16.01.2017 n. 106 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Pianificazione urbanistica e rapporti tra Piano strutturale
e Regolamento urbanistico.
---------------
●
Pianificazione – Piano strutturale e Regolamento
urbanistico – Contrasto tra i contenuti – Prevalenza del
Piano strutturale sul Regolamento urbanistico – Autotutela
del Comune – Necessità.
●
Pianificazione – Piano attuativo – Approvazione –
Obbligo – Esclusione.
●
Pianificazione – Scelta destinazione aree –
Motivazione – Esclusione – Limiti.
●
Pianificazione – Ripubblicazione a seguito di
modifiche introdotte in sede di approvazione – Quando
occorre.
●
Nella gerarchia delle fonti regolanti la disciplina di
pianificazione del territorio il Piano strutturale prevale
sul Regolamento urbanistico, essendo il primo lo strumento
di indirizzo programmatico che detta le linee generali e i
principi ispiratori della pianificazione urbanistica
comunale con una durata tendenzialmente indeterminata; tanto
in considerazione del fatto che il Piano strutturale è uno
degli strumenti della pianificazione territoriale, mentre il
Regolamento urbanistico è qualificato come atto di “governo
del territorio” alla stregua dei piani complessi di
intervento e dei piani attuativi; pertanto, una volta che,
in sede di riesame, il Comune constati che le previsioni del
Regolamento urbanistico non sono conformi a quelle dettate
dal Piano strutturale, risulta doveroso l’intervento in
autotutela volto ad annullare eventuali assensi a piani
attuativi redatti nell’erroneo presupposto di tale
conformità.
●
Pur in presenza di un provvedimento di adozione dello
strumento urbanistico attuativo, non sussiste un obbligo per
l’amministrazione di disporne l’approvazione, pure
nell’ipotesi di conformità agli atti pianificatori generali
essendo l’approvazione medesima sempre espressione di potere
discrezionale dell'organo deputato a valutare l'opportunità.
●
Non è ravvisabile un obbligo di specifica motivazione sulle
scelte assunte in ordine alle destinazioni delle singole
aree, atteso che nella formazione dello strumento
urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione
di varianti generali del regolamento urbanistico
l’amministrazione ha di regola un’ampia potestà
discrezionale, non assumendo rilievo a tal fine l’esistenza
di un piano di lottizzazione o di altro strumento attuativo,
se questo non è stato già approvato; pertanto, in assenza di
un piano attuativo approvato e convenzionato, nessun
affidamento deriva dalla diversa destinazione urbanistica
pregressa di un’area, rispetto alla quale l’amministrazione
conserva ampia discrezionalità, ben potendo apportare
modificazioni peggiorative rispetto agli interessi del
proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che
una generica aspettativa al mantenimento della destinazione
urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius,
analoga a quella di ogni altro proprietario di aree, che
aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile.
●
Sussiste l’obbligo di ripubblicare lo strumento urbanistico
a seguito delle modifiche che possono essere introdotte in
sede di approvazione solo nel caso di modifiche facoltative
(consistenti in innovazioni non sostanziali) concordate, ove
superino il limite di rispetto dei canoni guida del piano
adottato; diversamente, per le modifiche obbligatorie (in
quanto indispensabili per assicurare il rispetto delle
previsioni del piano territoriale di coordinamento, la
razionale sistemazione delle opere e degli impianti di
interesse dello Stato, la tutela del paesaggio e dei
complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici,
l'adozione di standard urbanistici minimi ed in genere
l'osservanza della normativa urbanistico-edilizia) non sorge
tale obbligo, poiché proprio il carattere dovuto
dell'intervento provinciale o regionale rende superfluo
l'apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso
nelle scelte pianificatorie operate in sede di adozione ed
approvazione del piano regolatore generale (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 16.01.2017 n. 38
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
3.2. In ordine al secondo profilo il collegio, premesso
che non è contestato, sul piano fattuale, lo sforamento in
parola, osserva che nella gerarchia delle
fonti regolanti la disciplina di pianificazione del
territorio non può porsi in dubbio la prevalenza del Piano
strutturale sul Regolamento urbanistico essendo il primo lo
strumento di indirizzo programmatico che detta le linee
generali e i principi ispiratori della pianificazione
urbanistica comunale con una durata tendenzialmente
indeterminata (TAR
Toscana, sez. I, 27.06.2016 n. 1090).
Tanto alla luce del fatto che il Piano
strutturale è uno degli strumenti della pianificazione
territoriale (art.
9 l. reg. n. 1/2005), mentre il Regolamento
urbanistico è qualificato come atto di “governo del
territorio” alla stregua dei piani complessi di
intervento e dei piani attuativi
(art. 10 l. reg. citata).
Ne segue che, una volta che, in sede di
riesame, il Comune constati che le previsioni del RU non
sono conformi a quelle dettate dal PS, risulta doveroso
l’intervento in autotutela volto ad annullare eventuali
assensi a piani attuativi redatti nell’erroneo presupposto
di tale conformità, restando la tutela dell’affidamento del
privato assegnata a strumenti differenti
che nella censura all’esame non sono in discussione.
...
Come condivisibilmente rilevato da controparte, le pur
suggestive argomentazioni appena rassegnate non possono
eludere la decisiva circostanza che il piano in questione
era stato solamente adottato dall’amministrazione e, dunque,
in capo alla ricorrente poteva configurarsi solo un
affidamento di fatto insuscettibile, cioè, di tutela
giuridica.
Si è infatti ritenuto che non può
rinvenirsi un ragionevole affidamento o aspettativa da parte
del privato sulla adozione della disposizione particolare
nel caso in cui non rivesta alcuna posizione differenziata e
qualificata, che può sorgere solo a seguito di un piano
attuativo approvato e convenzionato ovvero di un permesso di
costruire già rilasciato oppure in esito a sentenza di suo
annullamento o dichiarativa dell'obbligo di suo rilascio
(Cons. Stato, sez. VI, 04.11.2013, n. 5292; TAR Lombardia,
Brescia, sez. I, 04.10.2016 n. 1282; TAR Sardegna,
06.08.2003 n. 1010).
Per altro verso va rammentato che, pur in
presenza di un provvedimento di adozione dello strumento
urbanistico attuativo, non v’è obbligo per l’amministrazione
di disporne l’approvazione, pure nell’ipotesi di conformità
agli atti pianificatori generali essendo l’approvazione
medesima sempre espressione di potere discrezionale
dell'organo deputato a valutare l'opportunità
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.09.2012, n. 4977).
Si palesa, quindi, immune da tale censura il provvedimento
avversato, sorretto, come si è visto, da un più approfondito
scrutinio che ha condotto all’emersione di vizi e mende del
piano attuativo che non avrebbero potuto consentirne la sua
definitiva approvazione. Né può essere ritenuto motivo di
sviamento la circostanza che il Comune abbia tenuto conto
delle osservazioni proposte dalla Provincia, da vari
Comitati sorti in opposizione al progetto e dalla
Confesercenti, atteso che le osservazioni dei privati
svolgono pacificamente proprio tale funzione collaborativa
nei riguardi dell’amministrazione alla quale possono
segnalare incongruenze o illegittimità prima facie
non percepite dal soggetto emanante.
...
Come già diffusamente esposto, a fronte
della mera adozione del piano attuativo il privato non può
vantare alcun affidamento atteso che esso presuppone quanto
meno l’approvazione del piano stesso ed il relativo
convenzionamento.
Neppure può sostenersi che il rafforzamento di tale
aspettativa derivi dal fatto che le previsioni del PN5
fossero state confermate in sede di adozione della Variante
al Regolamento urbanistico.
8.2. Il Collegio richiama in proposito quanto già ritenuto
dalla sezione con la sentenza n. 892/2015 secondo cui
non è ravvisabile un “obbligo di
specifica motivazione sulle scelte assunte in ordine alle
destinazioni delle singole aree” dal momento che per
consolidata giurisprudenza nella formazione dello strumento
urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione
di varianti generali del regolamento urbanistico
l’amministrazione ha di regola un’ampia potestà
discrezionale non assumendo rilievo a tal fine l’esistenza
di un piano di lottizzazione (o come nel caso di specie di
altro strumento attuativo) se questo non è stato già
approvato (TAR
Puglia Bari, sez. I, 26/09/2012, n. 1683; ex multis:
Cons. St., Sez. IV, 07.04.2015, n. 1767).
Ne segue che, in assenza di un piano
attuativo approvato e convenzionato, “nessun affidamento
deriva dalla diversa destinazione urbanistica pregressa
della medesima area, rispetto alla quale l’amministrazione
conserva ampia discrezionalità, ben potendo apportare
modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del
proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che
una generica aspettativa al mantenimento della destinazione
urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius,
analoga a quella di ogni altro proprietario di aree, che
aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile”
(TAR Toscana, Sez. I, 28.01.2016, n. 146).
...
9.2. Per consolidato orientamento quanto
all'obbligo di ripubblicazione del piano a seguito delle
modificazioni che possono essere introdotte in sede di
approvazione provinciale o regionale, occorre distinguere le
modifiche obbligatorie (in quanto indispensabili per
assicurare il rispetto delle previsioni del piano
territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione
delle opere e degli impianti di interesse dello Stato, la
tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali,
ambientali ed archeologici, l'adozione di standard
urbanistici minimi ed in genere l'osservanza della normativa
urbanistico-edilizia) da quelle facoltative
(consistenti in innovazioni non sostanziali) e da quelle
concordate.
Mentre,
infatti, per le modifiche facoltative e
concordate, ove superino il limite di rispetto dei
canoni guida del piano adottato, sussiste l'obbligo della
ripubblicazione da parte del comune, diversamente, per le
modifiche obbligatorie non sorge tale obbligo, poiché
proprio il carattere dovuto dell'intervento provinciale o
regionale rende superfluo l'apporto collaborativo del
privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie
operate in sede di adozione ed approvazione del PRG
(Cons. St., sez. IV, 25.11.2003 n. 7782; id., sez. VI,
23.09.2009 n. 5671; TAR Napoli, sez. I, 11.03.2015 n. 1510,
id. sez. VIII, 07.03.2013 n. 12879). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il potere di revoca è connotato da un'ampia
discrezionalità.
Invero, differenza del potere di annullamento d'ufficio, che
postula l'illegittimità dell'atto rimosso d'ufficio, quello
di revoca esige solo una valutazione di opportunità, seppur
ancorata alle condizioni legittimanti dettagliate all'art.
21-quinquies l. 07.08.1990, n. 241, sicché il valido
esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso a un
apprezzamento ampiamente discrezionale dell'Amministrazione
procedente.
---------------
Come è noto, il
potere di revoca è connotato da un'ampia discrezionalità.
Infatti a differenza del potere di annullamento d'ufficio,
che postula l'illegittimità dell'atto rimosso d'ufficio,
quello di revoca esige, infatti, solo una valutazione di
opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti
dettagliate all'art. 21-quinquies l. 07.08.1990, n. 241,
sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque,
rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale
dell'Amministrazione procedente (Cons. Stato, sez. III,
29.11.2016 n. 5026) (TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 16.01.2017 n. 38
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Se è vero che il risarcimento del danno a carico
della pubblica amministrazione non è conseguenza automatica
e costante dell'annullamento giurisdizionale dell'atto
amministrativo, posto che si richiede invece a questo fine
la verifica, oltre che della lesione della situazione
soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della
sussistenza della colpa in capo all'Amministrazione e del
nesso causale tra provvedimento illegittimo e danno
sofferto, è però indubitabile che, ai fini
dell'ammissibilità del risarcimento dell'interesse
legittimo, risulta necessario e vincolante il previo e/o
contestuale accertamento dell'illegittimità dell'atto
impugnato nella specie non intervenuto.
---------------
13. Quanto, infine,
alla domanda di risarcimento del danno (quantificato nella
misura massima di € 40.100.000,00) il Collegio osserva che
se è vero che il risarcimento del danno a carico della
pubblica amministrazione non è conseguenza automatica e
costante dell'annullamento giurisdizionale dell'atto
amministrativo, posto che si richiede invece a questo fine
la verifica, oltre che della lesione della situazione
soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della
sussistenza della colpa in capo all'Amministrazione e del
nesso causale tra provvedimento illegittimo e danno
sofferto, è però indubitabile che, ai fini
dell'ammissibilità del risarcimento dell'interesse
legittimo, risulta necessario e vincolante il previo e/o
contestuale accertamento dell'illegittimità dell'atto
impugnato nella specie non intervenuto (tra le tante, TAR
Lombardia, Milano, sez. III, 06.02.2015 n. 413, TAR Lazio,
sez. I, 29.10.2013 n. 9229, TAR Basilicata, 09.11.2016 n.
1031) (TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 16.01.2017 n. 38
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Termine per impugnare l’ammissione alla gara del concorrente
e appalto lavori di notevole contenuto tecnologico o di
rilevante complessità tecnica.
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●
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione alla
gara di concorrente poi risultato aggiudicatario –
Impugnazione – Termine – Decorrenza ex art. 120, comma
2-bis, c.p.a. – Mancata pubblicazione sul sito del
committente dell’ammissione – Inapplicabilità.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto lavori
- Di notevole contenuto tecnologico o di rilevante
complessità tecnica - Lavori di importo pari o inferiore a
150.000 euro – Condizione – Prima dell’entrata in vigore del
d.m. ex art. 89, comma 11, d.lgs. n. 50 del 2016 – Normativa
applicabile – Individuazione.
●
Qualora l’atto di ammissione alla gara dell’impresa
risultata poi aggiudicataria non sia stato pubblicato sul
profilo committente della stazione appaltante ex art. 29,
comma 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il termine decadenziale
di 30 giorni di impugnazione di tale atto inizia a decorrere
non immediatamente (senza attendere la conclusione della
gara), come previsto dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.
(aggiunto dall’art. 204, d.lgs. n. 50 del 2016), da tale
pubblicazione ma dalla ricezione, mediante posta
elettronica, del provvedimento di aggiudicazione definitiva,
conclusivo del procedimento.
●
Ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 89, comma
11, e 216, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fino alla
data di entrata in vigore del decreto del Ministro delle
infrastrutture e trasporti, con il quale deve essere
definito l’elenco delle opere, per le quali sono necessari
lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di
rilevante complessità tecnica, quali strutture, impianti e
opere speciali, nonché i requisiti di specializzazione
richiesti per la loro esecuzione, “continuano ad applicarsi
le disposizioni di cui all’art. 12, d.l. 28.03.2014, n. 47”;
da tale norma, in combinato disposto con gli artt. 92, comma
7, e 90, comma 1, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, si desume che
un’impresa edile può eseguire lavori di importo pari o
inferiore a 150.000 euro, se è in possesso della
attestazione SOA per lavori analoghi, che risulta
sufficiente a comprovare il possesso dei requisiti della
diversa categoria di valore pari o inferiore a 150.000 euro
(1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar
che l’art. 90, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, al comma 1
statuisce che “gli operatori economici possono
partecipare agli appalti di lavori pubblici di importo pari
o inferiore a 150.000 euro qualora in possesso dei seguenti
requisiti di ordine tecnico-organizzativo:
a) importo dei lavori analoghi eseguiti direttamente nel
quinquennio antecedente la data di pubblicazione del bando
non inferiore all’importo del contratto da stipulare;
b) costo complessivo sostenuto per il personale dipendente non
inferiore al quindici per cento dell'importo dei lavori
eseguiti nel quinquennio antecedente la data di
pubblicazione del bando; nel caso in cui il rapporto tra il
suddetto costo e l’importo dei lavori sia inferiore a quanto
richiesto, l’importo dei lavori è figurativamente e
proporzionalmente ridotto in modo da ristabilire la
percentuale richiesta; l’importo dei lavori così
figurativamente ridotto vale per la dimostrazione del
possesso del requisito di cui alla lettera a);
c) adeguata attrezzatura tecnica”;
specificando espressamente che “nel caso di imprese già
in possesso dell’attestazione SOA relativa ai lavori da
eseguire, non è richiesta ulteriore dimostrazione circa il
possesso dei requisiti” (TAR
Basilicata,
sentenza 13.01.2017 n. 24
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Nel merito, il presente ricorso è infondato (per un
precedente analogo, relativo ad un procedimento indetto
quando era in vigore il D.Lg.vo n. 163/2006, cfr. TAR
Basilicata Sent. n. 303 dell’01.04.2016).
Infatti, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt.
89, comma 11, e 216, comma 15, D.Lg.vo n. 50/2016,
fino alla data di entrata in vigore del Decreto del
Ministro delle Infrastrutture e Trasporti, con il quale deve
essere definito l’elenco delle opere, per le quali sono
necessari lavori o componenti di notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità tecnica, quali
strutture, impianti e opere speciali, nonché i requisiti di
specializzazione richiesti per la loro esecuzione, “continuano
ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 12 D.L. n.
47/2014 conv. nella L. n. 80/2014”,
il quale: al comma 1 individua i lavori “di notevole
contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica,
quali strutture, impianti e opere speciali”,
comprendendo anche quelli della categoria OG11, di cui è
causa, ed alla lett. b) del comma 2 statuisce che, se tali
lavori sono superiori al 15% dell’importo totale
dell’appalto, sono subappaltabili entro il limite massimo
del 30%, facendo però salva l’applicazione dell’art. 92,
comma 7, DPR n. 207/2010, il quale stabilisce che il
concorrente, non in possesso della qualificazione nei citati
lavori, “deve possedere i requisiti mancanti con
riferimento alla categoria prevalente”, puntualizzando
che, il bando di gara, se prevede le suindicate lavorazioni
“di importo non superiore a 150.000 euro e singolarmente
superiore al quindici per cento” dell’importo totale
dell’appalto, deve indicare “per ciascuna di esse i
requisiti di qualificazione ai sensi dell’art. 90” del
DPR n. 207/2010.
Quest’ultima norma, inserita nel Capo III (artt. 76-91)
relativo ai requisiti di qualificazione che devono essere
accertati dalle SOA, al comma 1, statuisce che “gli
operatori economici possono partecipare agli appalti di
lavori pubblici di importo pari o inferiore a 150.000 euro
qualora in possesso dei seguenti requisiti di ordine
tecnico-organizzativo:
a) importo dei lavori analoghi eseguiti direttamente nel
quinquennio antecedente la data di pubblicazione del bando
non inferiore all’importo del contratto da stipulare;
b) costo complessivo sostenuto per il personale dipendente non
inferiore al quindici per cento dell'importo dei lavori
eseguiti nel quinquennio antecedente la data di
pubblicazione del bando; nel caso in cui il rapporto tra il
suddetto costo e l’importo dei lavori sia inferiore a quanto
richiesto, l’importo dei lavori è figurativamente e
proporzionalmente ridotto in modo da ristabilire la
percentuale richiesta; l’importo dei lavori così
figurativamente ridotto vale per la dimostrazione del
possesso del requisito di cui alla lettera a);
c) adeguata attrezzatura tecnica”;
specificando espressamente che “nel caso di imprese già
in possesso dell’attestazione SOA relativa ai lavori da
eseguire, non è richiesta ulteriore dimostrazione circa il
possesso dei requisiti”. |
LAVORI PUBBLICI: Project
finance in gara anche senza cauzione.
Per lavori non programmati.
La mancanza della cauzione in una proposta di project
finance per lavori non programmati non può determinare il
rigetto della proposta.
È quanto ha affermato il TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
con la
sentenza 13.01.2017 n. 110
con riguardo a
una proposta avanzata da parte di un privato a fronte di una
lettera, avviso esplorativo emessa da un comune e
finalizzata a ricevere manifestazione di interesse per la
realizzazione di lavori non previsti negli atti di
programmazione.
L'amministrazione ha ritenuto di non
prendere in considerazione la proposta del privato in quanto
aveva «prodotto in luogo della cauzione una
autodichiarazione in cui si impegnava a prestare idonee
garanzie e fideiussioni così come previsto dall'art. 93 del dlgs n. 50/2016».
I giudici innanzitutto hanno rilevato che la procedura si
configura come un'ipotesi intermedia tra quelle prefigurate
dal codice all'articolo 183 «senza che, per tale ragione,
possa ritenersi illegittima», in quanto l'iniziativa è stata
assunta dal comune di Valderice.
Nel merito i giudici hanno
affermato che in realtà il comma 15 dell'art. 183 del nuovo
codice prevede che la proposta sia corredata «dalla cauzione
di cui all'art. 103», cioè dalla cauzione definitiva, ma che
l'appaltatore, nell'ordinario appalto di lavori, deve
possederla all'atto della stipula del contratto e
nell'ipotesi di finanza di progetto per lavori programmati
deve essere presentata dopo l'aggiudicazione, come prevede
il comma 13 dello stesso art. 183.
Nella vicenda esaminata, invece, dicono i giudici, il
meccanismo disciplinato dal comma 15 non prevede alcuna gara
nella sua fase iniziale, ma l'inoltro di una proposta di un
privato a una amministrazione aggiudicatrice. E nel caso in
cui l'amministrazione ritenga che la proposta pervenuta sia
carente di un allegato indefettibilmente previsto per legge,
potrà chiedere al proponente di integrare la proposta,
avvertendolo che in mancanza non potrà essere presa in
considerazione, ma non ne disporrà l'esclusione.
D'altro canto, dice la sentenza, le garanzie espressamente
previste a pena di esclusione (art. 93, comma 8) non possono
costituire oggetto di soccorso istruttorio, ex art. 83,
comma 9, potendo essere considerate parti integranti
dell'offerta economica presentata che, per espressa
indicazione di legge, non può formare oggetto di soccorso
istruttorio
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Manca la fidejussione ma project financing salvo.
Impossibile bocciare il project financing proposto dall'impresa soltanto
perché l'offerta non contiene la fideiussione prevista dall'articolo 93 del
decreto legislativo 5012016 a garanzia della partecipazione alle procedure
pubbliche.
E ciò perché non costituisce affatto una gara la fattispecie di finanza di
progetto delineata dall'articolo 183, comma 15, del nuovo codice degli
appalti: si tratta infatti di una proposta che il privato formula
all'amministrazione aggiudicatrice.
E quanto emerge dalla
sentenza 13.01.2017 n. 110, pubblicata dalla III Sez. del TAR
Sicilia-Palermo.
Procedimento ibrido
- Accolto il ricorso dell'impresa: la sua offerta per la realizzazione di
loculi nel cimitero in finanza di progetto non viene affatto presa in
considerazione dal Comune perché manca la garanzia provvisoria. E' vero, la
nuova norma non risulta chiara in proposito, ma l'amministrazione stessa non
richiede la fideiussione nell'avviso esplorativo che manda alle imprese
quando apre la procedura. D'altronde la norma del decreto legislativo
50/2016 prevede testualmente soltanto la cauzione definitiva che
l'appaltatore deve possedere all'atto della stipula di un contratto.
Insomma: è il Comune che dà luogo a un procedimento ibrido, inviando le
lettere alle imprese per farsi fare proposte relative all'ampliamento del
cimitero cittadino. E quindi non avrebbe potuto escludere l'azienda senza
consentirle di integrare la proposta con la garanzia fideiussoria, che fra
l'altro non risulta richiesta in modo esplicito dalla disposizione di legge.
Motivi avulsi -
L'esclusione dell'azienda risulta decisa dall'amministrazione sulla base di
motivi che sono del tutto avulsi dal modello del project financing. E
ciò anzitutto sul piano logico prima ancora che su quello giuridico.
In ogni caso lo stop imposto all'impresa per la mancata allegazione della
garanzia provvisoria non si può ritenere compatibile con una procedura che
nasce su impulso dello stesso Comune, sulla base dell'avviso esplorativo:
sarebbe bastato un contatto informale oltre che un atto formale per poter
ottenere l'integrazione della documentazione che tanto stava a cuore
all'amministrazione locale.
Non resta dunque che pagare le spese di giudizio (articolo
ItaliaOggi del 18.01.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
concessione edilizia può essere rilasciata a chi abbia
titolo per richiederla, salvi i diritti dei terzi. Tuttavia,
un intervento edilizio conforme alle prescrizioni
urbanistiche può trovarsi in contrasto con la disciplina
civilistica.
Nel procedimento di rilascio della concessione edilizia
l'amministrazione ha il potere di verificare l'esistenza di
un idoneo titolo sul bene oggetto della richiesta, mediante
attività istruttoria che non è diretta a risolvere i
conflitti tra i privati ma ad accertare il requisito della
legittimazione soggettiva del richiedente.
---------------
E’ nozione acquisita peraltro, che la concessione edilizia
può essere rilasciata a chi abbia titolo per richiederla,
salvi i diritti dei terzi. Tuttavia, un intervento edilizio
conforme alle prescrizioni urbanistiche può trovarsi in
contrasto con la disciplina civilistica. Nel procedimento di
rilascio della concessione edilizia l'amministrazione ha il
potere di verificare l'esistenza di un idoneo titolo sul
bene oggetto della richiesta, mediante attività istruttoria
che non è diretta a risolvere i conflitti tra i privati ma
ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva
del richiedente
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 13.01.2017 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le distanze stabilite dal D.M. 1444/1968
costituiscono valori minimi che devono essere rispettati
anche dai regolamenti comunali. I
l Decreto ministeriale 1444/1968 stabilisce le distanze
minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali
omogenee, prevedendo che per i nuovi edifici è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di 10 m tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti.
Il Consiglio di Stato ha ribadito la natura di norma
primaria imperativa dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n.
1444.
Le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono
immediatamente applicabili ai rapporti privati: l'art. 9
d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti,
va rispettata in tutti i casi.
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi.
---------------
E' pacifico che in tema di distanze nelle costruzioni, ai
sensi dell'articolo 873 c.c., è irrilevante l'esistenza di
un dislivello tra i fondi confinanti ai fini del calcolo
delle distanze delle costruzioni dal confine.
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La Corte di Cassazione ha costantemente affermato, infatti,
che le distanze stabilite dal D.M. 1444/1968 costituiscono
valori minimi che devono essere rispettati anche dai
regolamenti comunali. Il Decreto ministeriale 1444/1968
stabilisce le distanze minime tra fabbricati per le diverse
zone territoriali omogenee, prevedendo che per i nuovi
edifici è prescritta in tutti i casi la distanza minima
assoluta di 10 m tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti.
Il Consiglio di Stato (Sezione IV, decisione del 02.11.2010,
n. 7731) ha ribadito la natura di norma primaria imperativa
dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Le distanze legali previste dagli standards urbanistici sono
immediatamente applicabili ai rapporti privati: l'art. 9
d.m. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra le pareti finestrate di edifici antistanti,
va rispettata in tutti i casi (Cassazione civile, Sez. II,
29.05.2006, n. 12741).
Pertanto, le distanze tra le costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della disciplina in materia di equo contemperamento degli
opposti interessi (Consiglio Stato , sez. IV, 05.12.2005, n.
6909).
Peraltro, con riferimento alla fattispecie in causa, va
rilevato che è inoltre pacifico che in tema di distanze
nelle costruzioni, ai sensi dell'articolo 873 c.c., è
irrilevante l'esistenza di un dislivello tra i fondi
confinanti ai fini del calcolo delle distanze delle
costruzioni dal confine (Cass. civ., sez. II, 05.12.2007, n.
25393)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 13.01.2017 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
il reato di cui
all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, per la
realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, di un
piazzale mediante spianamento di un terreno agricolo, con un
riempimento sovrastante di circa 10.000 metri cubi (con
materiale edile di risulta misto a terreno).
La giurisprudenza penale distingue tra diverse ipotesi
di scavo, sbancamenti, livellamenti di terreno.
Tale tipologia di intervento può essere infatti così
suddivisa: interventi finalizzati ad attività agricole,
interventi finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli
che incidono sul tessuto urbanistico del territorio,
interventi prodromici alla realizzazione di un immobile.
Nel primo caso non si ritiene necessario il permesso
di costruire che, al contrario, è richiesto negli altri
due casi.
Conseguentemente va affermato che integra
un illecito edilizio l'esecuzione, in assenza del permesso
di costruire, di interventi finalizzati a realizzare un
piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e
successivo sbancamento e livellamento del terreno, in quanto
tale attività, pur non comportando un'edificazione in senso
stretto, determina una modificazione permanente dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso da quello che gli è proprio.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del
15/10/2013 ha confermato la decisione con la quale, in data
16/10/2009, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere —
Sezione Distaccata di Aversa, aveva affermato la
responsabilità penale di Ca.PA. in ordine al reato di cui
all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, per la
realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, di un
piazzale mediante spianamento di un terreno agricolo, con un
riempimento sovrastante di circa 10.000 metri cubi (in Villa
Literno, accertato il 20/01/2009).
Avverso tale pronuncia la predetta propone ricorso per
cassazione tramite il proprio difensore di fiducia,
deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, ai sensi
dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la
violazione di legge, rilevando che i giudici del merito
l'avrebbero erroneamente condannata anche in relazione alla
realizzazione di opere in cemento armato, pur riferendosi
l'imputazione alla mera realizzazione di un piazzale
mediante riempimento con materiale di risulta.
La sentenza, inoltre, farebbe contraddittoriamente
riferimento anche ad attività di sbancamento, nonostante
l'imputazione riguardasse l'attività di riempimento.
3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta, invece,
la violazione dell'art. 175 cod. pen., avendo la Corte
territoriale negato il beneficio della non menzione della
condanna nel certificato penale in relazione alla gravità
del fatto e non anche formulando un giudizio prognostico sul
futuro reinserimento del condannato.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
4. Il procedimento, a seguito di esame preliminare, veniva
assegnato alla Settima Sezione Penale di questa Corte,
rilevando la inammissibilità, per genericità, dei motivi di
ricorso.
All'udienza camerale del 10/04/2015 la Settima Sezione,
rilevata la non manifesta infondatezza del primo motivo di
ricorso, disponeva rimettersi gli atti a questa Terza
Sezione, competente secondo i criteri ordinari, ai sensi
dell'art. 610, comma 1, ultima parte cod. proc. pen..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, sebbene non generico, come rilevato dalla
Settima Sezione penale, è comunque inammissibile perché
basato su motivi manifestamente infondati.
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo
di ricorso che la condanna della ricorrente è intervenuta
per la sola violazione urbanistica contestata al capo A)
della rubrica, come emerge chiaramente dall'intestazione
della sentenza impugnata, che indica espressamente detto
capo della sentenza.
Nella sentenza di primo grado è, inoltre, chiaramente
indicata in dispositivo l'assoluzione dal capo B) della
rubrica, quella concernente la violazione delle disposizioni
in materia di opere in cemento armato, della quale viene
dato conto in motivazione.
Quanto all'ulteriore censura, concernente il
riferimento, ritenuto errato e contraddittorio, all'attività
di sbancamento, va rilevato che la stessa è manifestamente
infondata.
Il capo di imputazione chiaramente si riferisce alla
realizzazione, in assenza di permesso di costruire, di un
piazzale realizzato mediante "riempimento sovrastante di
circa mc. 10.000 con materiale edile di risulta misto a
terreno".
La sentenza impugnata rileva che l'opera abusiva veniva
realizzata "mediante spianamento di un terreno agricolo,
in cui si riveniva materiale inerte, alterando l'andamento
naturale dello stesso e delle sistemazioni idrauliche ed
agrarie esistenti", dando altresì atto dell'avvenuta
trasformazione del fondo.
3. In tali affermazioni non si rinviene alcuna
contraddizione, atteso che l'attività edilizia abusiva
risulta compiutamente descritta e risulta pacificamente
effettuata attraverso l'apporto di materiale edile di
risulta e terra per un quantitativo di 10.000 mc., poi
definitivamente collocato in modo tale da realizzare un
piazzale.
E' dunque di tutta evidenza che il materiale, evidentemente
trasportato nell'area interessata dall'intervento abusivo
nella quantità indicata, sia stato poi predisposto
conformemente allo scopo mediante un'attività che può
senz'altro definirsi di "sbancamento" e "livellamento",
così come l'utilizzo del termine "riempimento"
risulta pacificamente riferito all'apporto di terreno e
materiali inerti.
I termini utilizzati, dunque, paiono chiaramente rivolti
alla descrizione delle singole fasi dell'intervento che
hanno comportato il conferimento del materiale necessario e
la sua successiva lavorazione finalizzata alla realizzazione
del piazzale, determinando, cosa che maggiormente rileva,
quella trasformazione permanente dell'originario assetto
dell'area che correttamente i giudici del merito hanno
ritenuto penalmente rilevante in quanto eseguita in assenza
di permesso di costruire.
La giurisprudenza penale distingue tra
diverse ipotesi di scavo, sbancamenti, livellamenti di
terreno. Tale tipologia di intervento può essere infatti
così suddivisa: interventi finalizzati ad attività
agricole, interventi finalizzati ad usi diversi da
quelli agricoli che incidono sul tessuto urbanistico del
territorio, interventi prodromici alla realizzazione di
un immobile.
Nel primo caso non si ritiene necessario il permesso
di costruire che, al contrario, è richiesto negli altri
due casi (cfr.
Sez. 3, n. 17114 del 16/12/2014 (dep. 2015), Bettoni, non
massimata: Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015),
Agostini, Rv. 262475 Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep.
2009), RG. in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741, Sez. 3,
n. 45492 del 29/10/2008, Marinangeli, non massimata).
4. Va conseguentemente affermato, in relazione alle opere
per cui è processo, che integra un illecito
edilizio l'esecuzione, in assenza del permesso di costruire,
di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante
apporto di terreno e materiale inerte e successivo
sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale
attività, pur non comportando un'edificazione in senso
stretto, determina una modificazione permanente dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso da quello che gli è proprio.
5. Quanto al secondo motivo di ricorso va ricordato,
come hanno fatto anche i giudici del gravame, che il
beneficio della non menzione della condanna di cui all'art.
175 cod. pen. è fondato sul principio dell"emenda" e
tende a favorire il processo di recupero morale e sociale,
sicché la sua concessione è rimessa all'apprezzamento
discrezionale del giudice di merito, che è tenuto ad
indicare le ragioni della mancata concessione sulla base
degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n.
34380 del 14/07/2011, Allegra, Rv. 251509; Sez. 2, n. 6949
del 12/03/1998, Pennisi S, Rv. 211100).
La Corte territoriale risulta aver fatto uso adeguato del
richiamato principio, motivatamente escludendo la
concedibilità del beneficio in considerazione della gravità
del fatto accertato (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2017 n. 1308). |
EDILIZIA PRIVATA: L’iscrizione
di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta,
ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del
Comune e come tale non necessita di autonoma impugnazione.
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Affinché una strada possa rientrare nella categoria delle
vie vicinali pubbliche, devono sussistere tre presupposti:
a) il passaggio esercitato "iure servitutis publicae" da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale;
b) la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze
d'interesse generale;
c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione di uso
pubblico, che può identificarsi nella protrazione dell'uso
stesso da tempo immemorabile.
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L'appartenenza di una strada ad un ente pubblico
territoriale può essere desunta da una serie di elementi
presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e
concordanza prescritti dall'art. 2729 cod. civ..
A tal fine non può considerarsi elemento da solo
sufficiente, l’inclusione o meno della strada stessa nel
relativo elenco, previsto dall'art. 8 della legge n. 126 del
1958, posta la sua natura meramente dichiarativa e non
costitutiva, ed avendo carattere relativo la presunzione di
demanialità di cui all'art. 22 della legge n. 2248 del 1865,
all. F) (in una fattispecie, la Suprema Corte aveva
confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto ad
una strada la natura comunale in forza di plurime
circostanze e, segnatamente, della sua inclusione nelle
mappe catastali, dalla classificazione come comunale da
parte del Consiglio dell'ente territoriale, dall'attività di
manutenzione effettuata dall'ente, dall'inclusione nella
toponomastica cittadina con attribuzione di numerazione
civica e, infine, dalla mancanza di elementi validi a
sostegno del contrario assunto sulla natura privata della
strada medesima).
---------------
La destinazione delle strade vicinali ad un uso pubblico,
indicata dal Codice della strada (Dlgs 285/1992), implica
necessariamente il loro coinvolgimento in un transito
generalizzato e, dunque, a fronte della proprietà privata
del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze,
il Comune può vantare sulle predette strade, ai sensi
dell'art. 825 c.c., un diritto reale di transito, con
correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione
della stessa.
Del pari, già alla luce del tuttora vigente (in forza
dell'art. 1, comma 1 del Dlgs 01.12.2009, n. 179) art. 51,
comma 1, della l. 20.03.1865 n. 2248 All. F), “... la
riparazione e conservazione delle strade vicinali sta a
carico di quelli che ne fanno uso per recarsi alle loro
proprietà, sia che queste si trovino o no contigue alle
strade stesse...". Sicché per esse l'onere di loro
manutenzione (e più in generale, dei lavori che le
interessino) non è posto a carico del Comune, salvo quanto
dipenda dalla costituzione di un consorzio o nei limiti
d'una compartecipazione da parte di esso.
A ciò fa eco la giurisprudenza civile secondo cui, fermo il
principio vigente nell'ordinamento circa l'obbligo del
soggetto cui la strada appartiene in materia di oneri
manutentivi, non sussiste in capo al Comune la
responsabilità per i danni derivanti dalla mancata
manutenzione d'una strada vicinale privata. Invero, ai soli
fini della definizione di “strada”, ai sensi dell’art. 2,
comma 1, d.lgs. n. 285/1992 rileva la destinazione all'uso
pubblico d'una data superficie e non anche la sua proprietà
(la quale può esser pubblica o privata); pertanto, al di là
dei compiti di vigilanza e polizia spettanti al Comune su
dette strade per ragioni di sicurezza collettiva, ai sensi
dell'art. 14 del menzionato d.lgs. n. 285/1992 (p.es., di
polizia stradale, d'apposizione cartelli, di eseguire opere
di ripristino a spese degli interessati, ecc.), non
implicano anche l'obbligo di provvedere a quella
manutenzione, facente carico in primo luogo ai proprietari
interessati e, se del caso e nei limiti di cui all’art. 3
del D.lgt. 01.09.1918, n. 1446, anche al Comune.
---------------
2.- Le censure di parte ricorrente non sono accoglibili ed
il ricorso appare fondato.
2.1.- Come chiarito dalla giurisprudenza, anche di questo
TAR (Cons. Stato 02.03.2001, n. 1155; Tar Campania, sez. VI,
03.03.2016, n. 4013), l’iscrizione di una strada nell'elenco
delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura
costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione
puramente dichiarativa della pretesa del Comune e come tale
non necessita di autonoma impugnazione.
Su questo punto, pertanto, pur condividendo le premesse
delle argomentazioni di parte ricorrente, tuttavia, il
Collegio ritiene di dovere pervenire a conclusioni del tutto
opposte; fermo restando peraltro che la questione sulla
sussistenza e delimitazione dei rispettivi diritti rientra
nella giurisdizione del giudice civile (cfr. Cass. Ss.uu.,
17/03/2010, n. 6406) e può essere conosciuta dal giudice
amministrativo solo incidenter tantum, nella misura
in cui è necessario per decidere la domanda di annullamento
dell’atto impugnato.
2.2.- Affinché una strada possa rientrare nella categoria
delle vie vicinali pubbliche, devono sussistere tre
presupposti:
a) il passaggio esercitato "iure servitutis publicae" da una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un
gruppo territoriale;
b) la concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze
d'interesse generale;
c) un titolo valido a sorreggere l'affermazione di uso pubblico,
che può identificarsi nella protrazione dell'uso stesso da
tempo immemorabile (Cons. Stato 1155/2001 citato).
2.3.- Come chiarito inoltre dalla Suprema Corte (Cass. civ.,
sez. II, 09.11.2009, n. 23705), l'appartenenza di una strada
ad un ente pubblico territoriale può essere desunta da una
serie di elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità,
precisione e concordanza prescritti dall'art. 2729 cod. civ..
A tal fine non può considerarsi elemento da solo
sufficiente, l’inclusione o meno della strada stessa nel
relativo elenco, previsto dall'art. 8 della legge n. 126 del
1958, posta la sua natura meramente dichiarativa e non
costitutiva, ed avendo carattere relativo la presunzione di
demanialità di cui all'art. 22 della legge n. 2248 del 1865,
all. F) (in quella fattispecie, la Suprema Corte aveva
confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto ad
una strada la natura comunale in forza di plurime
circostanze e, segnatamente, della sua inclusione nelle
mappe catastali, dalla classificazione come comunale da
parte del Consiglio dell'ente territoriale, dall'attività di
manutenzione effettuata dall'ente, dall'inclusione nella
toponomastica cittadina con attribuzione di numerazione
civica e, infine, dalla mancanza di elementi validi a
sostegno del contrario assunto sulla natura privata della
strada medesima).
3.- Ciò chiarito, nel caso controverso, Via Masseria Monaco
Aiello è una piccola strada vicinale esistente almeno dal
1956 la quale, pur essendo di proprietà privata, collega di
fatto le terre coltivate del Comune di S. Giorgio a Cremano
con il territorio del Comune di Ercolano, con transito nella
parte posta di fronte alla Masseria Mo.Ai., da cui prende il
nome, e con doppio senso di circolazione.
3.1.- Circa l’uso pubblico indiscriminato depongono i
seguenti fattori:
1) la strada è inclusa nei toponimi attribuiti alle piazze, vie,
viali, vialetti e rampe dello stradario di San Sebastiano al
Vesuvio, approvato con delibera consiliare n. 185 del
13.09.1984 e confermato dalla delibera consiliare n. 13 del
15.01.1988, le quali, quantunque assumano carattere
meramente dichiarativo e non costitutivo, valenza che il
Collegio non mette in dubbio, dimostrano tuttavia, con
presunzione iuris tantum, la presenza di un passaggio
pubblico indifferenziato;
2) come chiarisce la stessa relazione tecnica asseverata di parte e
come emerge dalle fotografie planimetriche della zona, nel
1956 via degli Astronauti, la strada comunale di
collegamento, non esisteva ancora, sicché Via Masseria
Monaco Aiello costituiva di fatto l’unico mezzo necessitato
per consentire il collegamento tra le terre coltivate del
Comune di S. Giorgio a Cremano ed il Comune di Ercolano.
3.2.- Quanto sopra, sebbene non sottragga la strada vicinale
della qualifica di proprietà privata, non esclude ed anzi
conferma che la stessa sia soggetta ad un’indifferenziata
destinazione pubblica, risalente ad un tempo indeterminato
ed, in quanto tale, fondante le premesse per costituire una
servitù di uso pubblico.
La circostanza della destinazione pubblica non è smentita
dai ricorrenti, i quali non solo non adducono alcun elemento
di prova in senso contrario ma anzi finiscono col
confermarla, tant’è che l’istanza rivolta al comune di
apporre una sbarra di ferro all’ingresso di Via Monaco
Aiello lato Via Astronauti ha come intento proprio quello di
impedire la circolazione di veicoli indeterminati.
4.- Né può costituire circostanza significativa che si
oppone all’esistenza della servitù pubblica di passaggio, il
fatto che i ricorrenti si siano accollati le spese per
realizzare talune opere (collettore fognario, illuminazione
e bitumatura della strada a fini manutentivi) nonché, in
negativo, l’assenza di una segnaletica stradale verticale ed
orizzontale.
4.1.- Le opere realizzate attestano soltanto che, a fronte
dell’inadempienza dell’amministrazione comunale di attendere
a determinati compiti ad essa parzialmente spettanti in
virtù dell’uso pubblico indeterminato della strada, i
proprietari si sono fatti carico in proprio di effettuarle.
D’altronde come chiarito dalla giurisprudenza (cfr., Cons.
St., V, 23.05.2005 n. 2584; id., 19.04.2013 n. 2218, id.,
21.09.2015, n. 4398) la destinazione delle strade vicinali
ad un uso pubblico, indicata dal Codice della strada (Dlgs
285/1992), implica necessariamente il loro coinvolgimento in
un transito generalizzato e, dunque, a fronte della
proprietà privata del sedime stradale e dei relativi
accessori e pertinenze, il Comune può vantare sulle predette
strade, ai sensi dell'art. 825 c.c., un diritto reale di
transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di
manutenzione della stessa.
4.2.- Del pari, già alla luce del tuttora vigente (in forza
dell'art. 1, comma 1 del Dlgs 01.12.2009, n. 179) art. 51,
comma 1, della l. 20.03.1865 n. 2248 All. F), “... la
riparazione e conservazione delle strade vicinali sta a
carico di quelli che ne fanno uso per recarsi alle loro
proprietà, sia che queste si trovino o no contigue alle
strade stesse...". Sicché per esse l'onere di loro
manutenzione (e più in generale, dei lavori che le
interessino) non è posto a carico del Comune, salvo quanto
dipenda dalla costituzione di un consorzio o nei limiti
d'una compartecipazione da parte di esso.
4.3.- A ciò fa eco la giurisprudenza civile (cfr., p. es.,
Cass. civ., III, 25.02.2009 n. 4480), secondo cui, fermo il
principio vigente nell'ordinamento circa l'obbligo del
soggetto cui la strada appartiene in materia di oneri
manutentivi, non sussiste in capo al Comune la
responsabilità per i danni derivanti dalla mancata
manutenzione d'una strada vicinale privata. Invero, ai soli
fini della definizione di “strada”, ai sensi
dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 285/1992 –come sopra
ampiamente illustrato- rileva la destinazione all'uso
pubblico d'una data superficie e non anche la sua proprietà
(la quale può esser pubblica o privata: cfr., p. es., Cass.,
II, 25.06.2008 n. 17350); pertanto, al di là dei compiti di
vigilanza e polizia spettanti al Comune su dette strade per
ragioni di sicurezza collettiva, ai sensi dell'art. 14 del
menzionato d.lgs. n. 285/1992 (p.es., di polizia stradale,
d'apposizione cartelli, di eseguire opere di ripristino a
spese degli interessati, ecc.), non implicano anche
l'obbligo di provvedere a quella manutenzione, facente
carico in primo luogo ai proprietari interessati e, se del
caso e nei limiti di cui all’art. 3 del D.lgt. 01.09.1918,
n. 1446, anche al Comune.
5.- Per quanto sopra il ricorso va respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.01.2017 n. 316 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ciò
che rileva ai fini della qualificazione dell’intervento come
urbanisticamente rilevante in quanto comportante una
trasformazione permanente del suolo non è la maggiore o
minore amovibilità del manufatto ma la sua attitudine a
soddisfare esigenze di carattere non meramente temporaneo.
Infatti per l’art. 3, comma 1, lett. e.5), del DPR
06.06.2001, n. 380, sono interventi di nuova costruzione
“l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati,
e di strutture di qualsiasi genere quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee", con la conseguenza che
l’esecuzione di tale tipo di interventi, che nel caso
all’esame ha comportato la stabile realizzazione di un
insediamento abitativo abusivo come denota l’allacciamento
alla rete elettrica, comporta necessariamente l’ordine di
ripristino.
---------------
Il secondo motivo, con il quale i ricorrenti sostengono la
non sanzionabilità con l’ordine di demolizione dei manufatti
perché si tratta di opere facilmente rimovibili, è
infondato.
Come recentemente affermato anche da questa stessa Sezione
in un caso analogo, ciò che rileva ai fini della
qualificazione dell’intervento come urbanisticamente
rilevante in quanto comportante una trasformazione
permanente del suolo, non è la maggiore o minore amovibilità
del manufatto, ma la sua attitudine a soddisfare esigenze di
carattere non meramente temporaneo (cfr. Tar Veneto, Sez. II,
21.01.2016, n. 57; nello stesso senso, ex pluribus,
cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 01.04.2016, n. 1291).
Infatti per l’art. 3, comma 1, lett. e.5), del DPR 06.06.2001, n. 380, sono interventi di nuova costruzione
“l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati,
e di strutture di qualsiasi genere quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee", con la conseguenza che
l’esecuzione di tale tipo di interventi, che nel caso
all’esame ha comportato la stabile realizzazione di un
insediamento abitativo abusivo come denota l’allacciamento
alla rete elettrica, comporta necessariamente l’ordine di
ripristino
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la controversa
possibilità di poter conoscere anche il verbale di
sopralluogo inviato dalla Polizia locale alla Procura della
Repubblica, risulta condivisibile la tesi
dell’Amministrazione comunale circa la sua ascrivibilità
agli atti di accertamento di polizia giudiziaria per i quali
il diritto di accesso può essere soddisfatto solo
presentando apposita istanza all’autorità giudiziaria penale
alla quale spetta in via esclusiva, tenendo conto in
concreto del contenuto degli atti coperti dal segreto ai
sensi degli artt. 329 e 114 c.p.p., il compito di bilanciare
le contrapposte esigenze di carattere investigativo e
concernenti il diritto di difesa che sono coinvolte (infatti
ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.p., sulla relativa
richiesta provvede “il pubblico ministero o il giudice che
procede al momento della presentazione della domanda”).
---------------
Quanto al terzo motivo, con il quale i ricorrenti ai sensi
dell’art. 116, comma 2, cod. proc. amm., chiedono sia
accertato il diritto di accedere agli atti e documenti
indicati nelle due istanze presentate, va osservato che la
produzione documentale effettuata in giudizio
dall’Amministrazione ha soddisfatto l’interesse dei
ricorrenti a conoscere il contenuto delle ordinanze n. 43
del 14.09.2015 e n. 15 del 14.04.2016, aventi ad
oggetto la rimozione di un cavo elettrico, mentre le domande
aventi ad oggetto l’ostensione degli atti relativi a
procedimenti sanzionatori riguardanti l’area non hanno
trovato riscontro in quanto, come indicato nel diniego,
nulla risulta agli atti.
Resta controversa la possibilità di poter conoscere anche il
verbale di sopralluogo inviato dalla Polizia locale alla
Procura della Repubblica, rispetto al quale risulta
condivisibile la tesi dell’Amministrazione comunale circa la
sua ascrivibilità agli atti di accertamento di polizia
giudiziaria per i quali il diritto di accesso può essere
soddisfatto solo presentando apposita istanza all’autorità
giudiziaria penale alla quale spetta in via esclusiva,
tenendo conto in concreto del contenuto degli atti coperti
dal segreto ai sensi degli artt. 329 e 114 c.p.p., il
compito di bilanciare le contrapposte esigenze di carattere
investigativo e concernenti il diritto di difesa che sono
coinvolte (infatti ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.p.,
sulla relativa richiesta provvede “il pubblico ministero o
il giudice che procede al momento della presentazione della
domanda”), fermo restando che nel caso all’esame
l’Amministrazione comunale negli scritti difensivi e nel
corso della trattazione orale ha precisato che l’ordinanza
impugnata nella parte motiva nella sostanza reca ad ogni
effetto quanto accertato in data 28.01.2016
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 25 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
L'impresa che non ha partecipato alla
gara può comunque accedere ai relativi atti per tutelarsi in
sede giurisdizionale.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 08.07.2016, prot.
n. 21369 del Dirigente Settore Uso e Assetto del Territorio
del Comune rif. prot. 19293 del 21.06.2016 - Domanda di
riesame e nuova istanza di accesso recante diniego
all'accesso documentale formulato dalla ricorrente.
...
Nel merito il ricorso è fondato.
La società ricorrente ha manifestato di essere società
operante in un settore turistico analogo a quello degli
stabilimenti balneari e, quindi, potenzialmente concorrente
con l’attività della società controinteressata. A tale
titolo ha, in precedenza, chiesto l’accesso agli atti
relativi alla concessione rilasciata alla medesima
controinteressata e l’Amministrazione comunale ha consentito
l’accesso. La nuova richiesta di accesso riguarda anch’essa
documenti posti a base della concessione e attinenti al
possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi richiesti al
concessionario in base all’art. 38 del codice dei contratti.
Si tratta di documenti acquisiti nell’ambito di una
procedura a evidenza pubblica espletata dalla P.A. che è
stata resa conoscibile all’interno del medesimo procedimento
di selezione. La circostanza che la ricorrente non abbia
partecipato in concorrenza alla selezione non può costituire
motivo ostativo all’accesso alla documentazione di che
trattasi in quanto la richiedente ha motivato la propria
richiesta con fini di tutela giurisdizionale suffragata
dalle iniziative processuali promosse dalla stessa avverso
l’atto di concessione rilasciato a conclusione della
predetta procedura di selezione.
Sul punto va osservato che un orientamento giurisprudenziale
pacifico ha da tempo affermato il principio che non spetta
all’Amministrazione valutare nell’ambito del procedimento di
accesso la fondatezza o meno delle ragioni poste a base
della tutela che l’interessato intende perseguire, essendo
bastevole la dimostrazione di un interesse personale e
diretto alla conoscenza della documentazione richiesta.
Peraltro, la decisione dell’Amministrazione manifesta
un’evidente contraddittorietà rispetto all’accesso
consentito in precedenza agli atti della concessione
rilasciata.
Non potrebbe giustificare il diniego di accesso neppure la
presenza di dati riservati e/o sensibili, quali il
certificato del casellario giudiziale, in quanto, a parte
che si tratta di documentazione ostensibile nell’ambito di
una procedura di selezione pubblica ai partecipanti alla
selezione stessa, le esigenze di riservatezza sono recessive
rispetto alle esigenze di tutela degli interessi giuridici
di chi richiede l’accesso alla documentazione di che
trattasi.
In conclusione, il ricorso va accolto. Le spese seguono la
soccombenza secondo la liquidazione di cui al dispositivo (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 10.01.2017 n. 16 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'Amministrazione può avviare il procedimento disciplinare
senza attendere l'esito di quello penale
A seguito della c.d. "privatizzazione"
del rapporto di pubblico impiego, l'Amministrazione ha
facoltà di avviare il procedimento disciplinare senza
attendere l'esito di quello penale concernente i medesimi
fatti, come pure di sospendere l'uno fintantoché non si sia
concluso l'altro.
---------------
5. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass.,
n. 11985 del 2016 e n. 11635 del 2016), a
seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro dei
dirigenti pubblici, essendo divenuto inapplicabile l'art.
117 del d.P.R. 10.01.1957, n. 3
(cfr. allegato a, sub VI, "Scuola", del d.lgs. n. 165
del 2001), che stabiliva il divieto di
avvio di un procedimento disciplinare in pendenza di quello
penale, all'amministrazione è data facoltà in ogni tempo di
scegliere se avviare il procedimento disciplinare o
attendere l'esito del giudizio penale
(v., Cass., n. 9458 del 2009),
Nella vigenza del regime di pubblico
impiego "privatizzato" la regola è costituita dalla
possibilità -e non più dall'obbligo- di attendere l'esito
del processo penale in ordine all'accertamento dei fatti
prima di avviare il procedimento disciplinare, così come è
facoltà dell'Amministrazione sospendere il procedimento già
avviato in attesa dell'esito del giudizio penale: una volta
optato per l'attesa dell'esito definitivo
-come è avvenuto nella specie- la
fattispecie restava regolata dalla stessa disciplina
contrattuale per tutta la durata del procedimento.
La P.A. aveva optato per il differimento dell'iniziativa
disciplinare, né poteva incidere sulla situazione così
determinatasi il sopravvenire delle nuove regole introdotte
dal d.lgs. 150 del 2009, che non prevedono una disciplina
transitoria, per cui deve trovare applicazione il generale
principio per cui i procedimenti sono regolati dalla
normativa del tempo in cui gli atti sono posti in essere.
In relazione all'epoca dell'inizio del procedimento penale a
carico della docente (2007 misura interdittiva del GIP,
limitatamente al reato di cui all'art. 609-quater c.p.; 2008
richiesta del P.M. di rinvio a giudizio per il delitto di
cui agli artt. 81, 609-quater, comma 1, n. 2, c.p. -il cui
capo di imputazione è riportato nella sentenza di appello-
in relazione alla quale veniva chiesta l'applicazione
dell'art. 444 c.p.p., ritenendosi la fattispecie di cui
all'art. 609-bis, c.3, c.p.) doveva farsi applicazione della
disciplina contrattuale (l'art. 93 del CCNL comparto scuola
2002-2005, e l'art. 96 del CCNL del comparto scuola
2006-2009, prevedono al comma 1, in modo analogo «Nel
caso di commissione in servizio di gravi fatti illeciti,
commessi in servizio, di rilevanza penale l'amministrazione
inizia il procedimento disciplinare ed inoltra la denuncia
penale. Il procedimento disciplinare rimane tuttavia sospeso
fino alla sentenza definitiva. Analoga sospensione è
disposta anche nel caso in cui l'obbligo della denuncia
penale emerga nel corso del procedimento disciplinare già
avviato»), che ha certamente natura di norma
procedimentale.
La circostanza della introduzione medio tempore di nuove
regole del procedimento disciplinare non poteva incidere
sulla situazione determinatasi al tempo della vigenza del
precedente regime; ciò in forza del generale principio per
cui i procedimenti sono regolati dalla normativa del tempo
in cui gli atti sono posti in essere, non esclusa,
ovviamente, quella che consentiva di differire la
contestazione disciplinare all'esito del giudizio penale
(cfr., pure Cass. n. 21032 del 2006).
Pertanto, non vi era alcun onere della P.A. di avviare il
procedimento disciplinare o comunque di riattivarsi una
volta entrato in vigore il d.lgs. 150 del 2009, che,
all'art. 55-ter (rapporti fra procedimento disciplinare e
procedimento penale), ha definitivamente soppresso la regola
della pregiudizialità penale in favore di quella della
autonomia dei due procedimenti, prevedendo che il
procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o
in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità
giudiziaria, "è proseguito e concluso anche in pendenza
del procedimento penale".
Come affermato nella giurisprudenza di legittimità sopra
richiamata, la nuova disciplina procedurale
si applica a tutti i fatti disciplinarmente rilevanti per i
quali la notizia dell'infrazione sia acquisita dagli organi
dell'azione disciplinare dopo l'entrata in vigore della
riforma, ossia dal 16.11.2009 e restano regolati dalla
disciplina previgente al d.lgs. n. 150 del 2009 i casi in
cui la notizia dell'infrazione è stata acquisita
anteriormente.
Ne discende che, sopravvenuta la normativa di cui al d.lgs.
150 del 2009, l'amministrazione non aveva l'onere di inviare
la contestazione disciplinare, né di rinnovare la sua
volontà successivamente all'entrata in vigore della novella.
Né l'attesa avrebbe potuto pregiudicare il diritto alla
difesa, considerato che tale diritto viene in considerazione
dal momento della contestazione, in questo caso avvenuta
dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale di
condanna.
Pertanto, in ragione della disciplina sopra richiamata che
regola la fattispecie, non è ravvisabile alcuna violazione
della buona fede e dell'affidamento da parte
dell'amministrazione, che ha effettuato tempestivamente la
contestazione (Corte di Cassazione, Sez. IV civile,
sentenza
09.01.2017 n. 209). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è
rilasciato esclusivamente per impianti ed edifici pubblici o
di interesse pubblico –tra cui sono ricompresi gli edifici
alberghieri e turistici– previa deliberazione del consiglio
comunale.
Ebbene, se da un lato la deliberazione preliminare
del consiglio comunale costituisce un elemento (decisorio)
necessario del procedimento amministrativo destinato a
sfociare nel rilascio o nel diniego del titolo edilizio in
deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il
procedimento stesso, dall’altro lato la norma in
commento non innova sul punto che l’atto terminale del
procedimento è rappresentato dal permesso di costruire in
deroga rilasciato dall’organo dirigenziale, mentre la previa
deliberazione del consiglio comunale (salvo il caso di
determinazione negativa adottata in quella sede) si atteggia
ad atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo,
impugnabile solo congiuntamente all’atto finale, una volta
emanato.
Ne discende che mentre la delibera consiliare è deputata
soltanto ad esprimere valutazioni discrezionali in ordine
agli interessi pubblici e privati in conflitto e a dettare
gli indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato
il rilascio del permesso di costruire, al competente ufficio
dirigenziale restano demandati gli accertamenti, di tipo
vincolato, diretti ad appurare la fattibilità del progetto,
sotto il profilo eminentemente tecnico-giuridico, posto a
base della richiesta del titolo edilizio in deroga:
accertamenti che possono essere effettuati in fase di
iniziale e sommaria delibazione dell’istanza, rendendo così
superfluo, in caso di esito negativo, l’avvio della fase
procedimentale innanzi al consiglio comunale, oppure
all’esito del passaggio consiliare laddove si profilasse
necessario l’espletamento di ulteriori approfondimenti.
Di talché, correttamente l’amministrazione comunale non ha
investito della delibazione dell’istanza il consiglio
comunale, chiudendo il procedimento in fase iniziale innanzi
all’organo dirigenziale, dal momento che già in tale fase
erano stati accertati elementi impeditivi, di carattere
vincolato (come la contrarietà all’art. 26 delle NTA e la
non completa urbanizzazione dell’ambito territoriale di
riferimento), che rendevano concretamente non accoglibile la
richiesta di permesso di costruire in deroga presentata
dalla ricorrente.
---------------
Dall’interpretazione sistematica dell’art. 14 del d.P.R. n.
380/2001 si desume facilmente che il permesso di costruire
in deroga non può essere rilasciato se contrastante con le
norme e le prescrizioni urbanistiche diverse da quelle in
tema di densità edilizia, di altezza e di
distanza dai fabbricati (e, in caso di ristrutturazione
edilizia, di destinazione d’uso), come per esempio
quelle in materia di doverosa preventiva approvazione degli
strumenti urbanistici attuativi.
---------------
1. La presente controversia si incentra sulla contestazione
di provvedimenti dirigenziali del Comune di Comiziano
(unitamente alla relativa nota di comunicazione dei motivi
ostativi), con i quali è stato denegato il permesso di
costruire, richiesto dalla società ricorrente in deroga agli
strumenti urbanistici, finalizzato alla realizzazione di due
edifici ad uso produttivo, turistico e commerciale.
In particolare, sia con la nota dirigenziale prot. n. 4074
del 15.07.2014 sia con la nota dirigenziale di conferma prot.
n. 5433 del 22.09.2014, il rilascio del titolo edilizio è
stato rifiutato essenzialmente per i seguenti motivi:
i) il progettato intervento si pone in contrasto con l’art. 26
delle norme di attuazione (NTA) del vigente piano regolatore
generale, che prevede per la zona interessata dalla
richiesta (zona D3: attività produttiva,
turistico-commerciale esistente da potenziare)
l’intermediazione di strumenti urbanistici attuativi (P.P.E.,
P.I.P. o P. di L.) estesi all’intero ambito, allo stato non
ancora approvati;
ii) l’intero ambito territoriale di riferimento, non risultando
completamente urbanizzato, rende comunque necessaria
l’approvazione dei piani attuativi prima del rilascio del
titolo edilizio (anche in deroga).
...
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate.
3. L’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001, per la parte di odierno
interesse, così recita: comma 1: “Il permesso di
costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali è
rilasciato esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o
di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio
comunale, nel rispetto comunque delle disposizioni contenute
nel decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, e delle altre
normative di settore aventi incidenza sula disciplina
dell’attività edilizia.”; comma 3: “La deroga, nel
rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza,
può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia,
di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme
di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed
esecutivi, nonché, nei casi di cui al comma 1-bis
(interventi di ristrutturazione edilizia, ndr.), le
destinazioni d’uso, fermo restando in ogni caso il rispetto
delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444.”.
3.1 Rileva il Collegio che il permesso di costruire in
deroga agli strumenti urbanistici è rilasciato
esclusivamente per impianti ed edifici pubblici o di
interesse pubblico –tra cui sono ricompresi gli edifici
alberghieri e turistici– previa deliberazione del consiglio
comunale.
Ebbene, se da un lato la deliberazione preliminare
del consiglio comunale costituisce un elemento (decisorio)
necessario del procedimento amministrativo destinato a
sfociare nel rilascio o nel diniego del titolo edilizio in
deroga, con la conseguenza che la sua assenza vizia il
procedimento stesso, dall’altro lato la norma in
commento non innova sul punto che l’atto terminale del
procedimento è rappresentato dal permesso di costruire in
deroga rilasciato dall’organo dirigenziale, mentre la previa
deliberazione del consiglio comunale (salvo il caso di
determinazione negativa adottata in quella sede) si atteggia
ad atto interno del procedimento, non immediatamente lesivo,
impugnabile solo congiuntamente all’atto finale, una volta
emanato.
Ne discende che mentre la delibera consiliare è deputata
soltanto ad esprimere valutazioni discrezionali in ordine
agli interessi pubblici e privati in conflitto e a dettare
gli indirizzi al soddisfacimento dei quali viene subordinato
il rilascio del permesso di costruire, al competente ufficio
dirigenziale restano demandati gli accertamenti, di tipo
vincolato, diretti ad appurare la fattibilità del progetto,
sotto il profilo eminentemente tecnico-giuridico, posto a
base della richiesta del titolo edilizio in deroga:
accertamenti che possono essere effettuati in fase di
iniziale e sommaria delibazione dell’istanza, rendendo così
superfluo, in caso di esito negativo, l’avvio della fase
procedimentale innanzi al consiglio comunale, oppure
all’esito del passaggio consiliare laddove si profilasse
necessario l’espletamento di ulteriori approfondimenti (cfr.
TAR Lombardia Milano, Sez. I, 15.10.2013 n. 2305; TAR
Sardegna, Sez. II, 04.06.2012 n. 556).
3.2 Applicando le superiori coordinate ermeneutiche al caso
di specie, è agevole notare che correttamente
l’amministrazione comunale non ha investito della
delibazione dell’istanza il consiglio comunale, chiudendo il
procedimento in fase iniziale innanzi all’organo
dirigenziale, dal momento che già in tale fase erano stati
accertati elementi impeditivi, di carattere vincolato (come
la contrarietà all’art. 26 delle NTA e la non completa
urbanizzazione dell’ambito territoriale di riferimento), che
rendevano concretamente non accoglibile la richiesta di
permesso di costruire in deroga presentata dalla ricorrente.
4. Come risulta dalla puntuale ricostruzione in fatto
contenuta nella nota dirigenziale di conferma del diniego
del 22.09.2014 (la quale peraltro disconosce che parte
ricorrente abbia effettuato un regolare accesso
documentale), rimasta nello specifico incontestata, il testo
vigente dell’art. 26 delle NTA, risalente al 17.12.2001 dopo
le modifiche apportate dall’amministrazione provinciale in
sede di approvazione, prevede effettivamente che nella zona
D3 ogni intervento “si attua a mezzo di strumenti
urbanistici attuativi P.P.E., P.I.P. o P. di L., estesi
all’intero ambito”, escludendo così che possa darsi
luogo all’intervento edilizio diretto. Ne deriva che la
versione dell’art. 26 delle NTA propugnata dalla ricorrente
non può che riferirsi ad un testo non aggiornato,
presumibilmente confezionato prima della definitiva
approvazione con modifiche intervenuta a livello
provinciale.
5. I provvedimenti di diniego appaiono diffusamente motivati
e dallo loro piana lettura si evincono, senza particolare
sforzo interpretativo, le ragioni ostative all’accoglimento
della richiesta di permesso di costruire in deroga, già
sufficientemente enucleate al precedente par. 1.
Le pronunce giurisprudenziali richiamate
dall’amministrazione comunale, lungi dall’essere state
affastellate in maniera confusa, hanno avuto la funzione di
chiarire i termini del contrasto individuato tra istanza
della ricorrente e normativa urbanistica, rendendo, al
contrario di quanto opinato in gravame, più agevole la
comprensione dell’iter argomentativo seguito dall’organo
decidente.
6. Dall’interpretazione sistematica dell’art. 14 del d.P.R.
n. 380/2001 si desume facilmente che il permesso di
costruire in deroga non può essere rilasciato se
contrastante con le norme e le prescrizioni urbanistiche
diverse da quelle in tema di densità edilizia, di altezza e
di distanza dai fabbricati (e, in caso di ristrutturazione
edilizia, di destinazione d’uso), come per esempio quelle in
materia di doverosa preventiva approvazione degli strumenti
urbanistici attuativi (cfr. in tal senso TAR Basilicata,
Sez. I, 21.10.2011 n. 531).
Ne discende che la procedura attivata dalla ricorrente non
poteva condurre alla deroga anche dell’art. 26 delle NTA,
laddove connette il rilascio del permesso di costruire alla
previa approvazione dei piani attuativi
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 09.01.2017 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il ritardo dell’amministrazione comunale
nell’adozione dei piani attuativi non può comportare
l’illegittimità dei gravati provvedimenti di diniego,
valendo il principio generale secondo cui lo sforamento dei
termini previsti dalla legge per la definizione del
procedimento amministrativo non determina l’illegittimità
del provvedimento finale, trattandosi di termini ordinatori
(salvo rari casi, insussistenti nella specie, di termini
perentori) ed essendo predisposti dall’ordinamento appositi
strumenti per contrastare l’inerzia dell’amministrazione.
---------------
Ai sensi dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, le
memorie e le osservazioni prodotte dal privato nel corso del
procedimento devono essere effettivamente valutate
dall’amministrazione ed è necessario che di tale valutazione
resti traccia nella motivazione del provvedimento finale, ma
ciò non comporta la necessità di confutare puntualmente
tutte le argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo
sufficiente una motivazione sintetica al fine di
giustificarne il rigetto, come puntualmente avvenuto nel
caso di specie.
---------------
7. Il ritardo dell’amministrazione comunale nell’adozione
dei piani attuativi non può comportare l’illegittimità dei
gravati provvedimenti di diniego, valendo il principio
generale secondo cui lo sforamento dei termini previsti
dalla legge per la definizione del procedimento
amministrativo non determina l’illegittimità del
provvedimento finale, trattandosi di termini ordinatori
(salvo rari casi, insussistenti nella specie, di termini
perentori) ed essendo predisposti dall’ordinamento appositi
strumenti per contrastare l’inerzia dell’amministrazione
(cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.01.2009 n.
140).
8. Non è parimenti ravvisabile alcuna violazione dell’art.
10 della legge urbanistica regionale n. 16/2004, poiché le
misure di salvaguardia concernono propriamente la fase
intercorrente tra l’adozione e l’entrata in vigore degli
strumenti urbanistici, mentre la fattispecie in esame ha
riguardo ad una fase in cui ancora non risultano adottati i
prescritti strumenti urbanistici di tipo attuativo.
Ne deriva, pertanto, la palese inconferenza della
disposizione invocata dalla ricorrente.
9. Infine, ai sensi dell’art. 10-bis della legge n.
241/1990, le memorie e le osservazioni prodotte dal privato
nel corso del procedimento devono essere effettivamente
valutate dall’amministrazione ed è necessario che di tale
valutazione resti traccia nella motivazione del
provvedimento finale, ma ciò non comporta la necessità di
confutare puntualmente tutte le argomentazioni svolte dalla
parte privata, essendo sufficiente una motivazione sintetica
al fine di giustificarne il rigetto, come puntualmente
avvenuto nel caso di specie (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. II,
05.03.2012 n. 2214; TAR Campania Napoli, Sez. VIII,
08.04.2011 n. 2055).
10. In conclusione, resistendo gli atti impugnati a tutte le
censure prospettate, il ricorso deve essere respinto siccome
infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 09.01.2017 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
base al consolidato orientamento della giurisprudenza,
“l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio
richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione
delle opere della cui demolizione di tratta e sulla
legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e
non sulla P.A.”.
Spetta quindi agli odierni ricorrenti dimostrare che le
opere siano state effettivamente eseguite prima dell’entrata
in vigore della legge n. 765 del 1967.
---------------
Con riferimento alle dichiarazioni sostitutive dell’atto di
notorietà, sottoscritte dal ricorrente e dalla madre, con le
quali si afferma la realizzazione dell’opera in epoca
anteriore al 1967 giova ricordare che secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza, infatti, la dichiarazione
sostitutiva dell’atto di notorietà “non costituisce elemento
probatorio dirimente in ordine alla data di ultimazione dei
lavori, dovendo essere supportata da ulteriori elementi,
anche indiziari, purché altamente probanti”.
Più in dettaglio, le dichiarazioni sostitutive, rese dalla
parte interessata o da terzi, non hanno alcun “valore”
certificativo o probatorio nei confronti della pubblica
amministrazione. Esse, inoltre, non sono utilizzabili nel
processo amministrativo e non rivestono alcun effettivo
valore probatorio in ambito processuale, potendo costituire
eventualmente soltanto indizi, che comunque, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano
ex se idonei a scalfire l'attività istruttoria
dell’amministrazione, ovvero le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l’inattendibilità di quanto
rappresentato dall’interessato.
---------------
L’Amministrazione ha dimostrato, in particolare, che la
cartografia del Piano Regolatore Generale del 1980, redatta
sulla base del rilievo aerofotogrammetrico del 1977, non
riporta la porzione immobiliare oggetto dell’ordinanza di
demolizione, e che l’ampliamento compare invece, per la
prima volta, nel rilievo aerofotogrammetrico del 1990.
A fronte di tali precisi elementi, la realizzazione
dell’immobile in epoca anteriore al 1967 risulta dunque
smentita.
---------------
Il Collegio non ignora che, secondo un’opinione minoritaria,
la legge n. 1150 del 1942 avrebbe dispiegato una valenza
abrogatrice nei confronti dei regolamenti edilizi ad essa
precedenti, consentendo l’edificazione senza previo rilascio
della licenza edilizia fuori dai centri storici e delle zone
di espansione, anche in presenza di contrarie previsioni
nella disciplina previgente contenuta nei predetti
regolamenti.
Tuttavia, deve ritenersi preferibile la tesi maggioritaria
che, negando la possibilità di riconoscere all’articolo 31
della legge n. 1150 del 1942 una portata abrogante o
disapplicativa della normativa edilizia, ha ritenuto
l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le
costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche
se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di
espansione, ove l’obbligo fosse previsto dai regolamenti
edilizi comunali.
Deve quindi concludersi che, nel caso di specie,
l’ampliamento oggetto dell’ordinanza di demolizione sarebbe
da reputare illecitamente edificato anche ove ne fosse stata
effettivamente dimostrata la realizzazione in epoca
anteriore al 1967.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 4424 del 28.05.2012
di rimozione di opere realizzate in assenza di idoneo titolo
abilitativo e conseguente ripristino dello stato dei luoghi
e della comunicazione di avvio del procedimento prot. n.
13906 in data 11.05.2012;
...
1. I ricorrenti sig.ri Gi.Fu. e La.Fu.
sono comproprietari di un’unità immobiliare sita nel
territorio del Comune di Cantù, costituita da un
appartamento e dalla relativa area di pertinenza esterna,
che hanno ricevuto a titolo di successione ereditaria dal
padre, sig. Em.Fu..
Con la proposizione del presente giudizio, essi impugnano
l’ordinanza del Comune di Cantù n. 4424 del 28.05.2012, con
la quale è stata ordinata la rimozione del manufatto,
realizzato senza titolo abilitativo, consistente in un “ampliamento
del fabbricato esistente sull’adiacente mappale n. 11328
costituito da struttura verticale in muratura e copertura in
lastre ondulate di fibrocemento, delle dimensioni di circa
m. 2.00 x 6.00 e altezza di m 3.00 circa”.
I ricorrenti allegano che l’aggiunta al corpo di fabbrica
colpita dall’ordinanza di demolizione sarebbe stata
realizzata dal loro padre (e dante causa) negli anni ’50 del
secolo scorso e ospiterebbe da oltre trent’anni il locale
cucina dell’unità immobiliare.
2. Secondo i signori Fu., il provvedimento comunale
impugnato sarebbe illegittimo, in quanto l’opera sarebbe
stata realizzata fuori dal centro abitato, in epoca
anteriore all’entrata in vigore della legge n. 765 del 1967.
La costruzione non avrebbe richiesto, quindi, alcun titolo
abilitativo.
3. Sotto altro profilo, i ricorrenti affermano che, stante
il decorso di un lungo lasso di tempo dal concretizzarsi
dell’abuso edilizio, e in considerazione del protrarsi
dell’inerzia dell’Amministrazione, sarebbe maturato in ogni
caso un affidamento tutelabile al mantenimento dell’opera.
L’emissione di un provvedimento sanzionatorio avrebbe
richiesto, pertanto, una specifica motivazione, ulteriore
rispetto al mero ripristino della legalità violata. Tale più
intenso onere motivatorio non sarebbe stato, tuttavia,
assolto nel caso di specie.
...
7. Come detto, i signori Fu. affermano che l’opera
sarebbe stata realizzata in epoca anteriore al 1967 e che,
per tale ragione, essa non avrebbe richiesto alcun titolo
edilizio.
8. I ricorrenti fanno implicitamente riferimento alla
circostanza che soltanto con l’entrata in vigore
dell’articolo 10 della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge
ponte”) è stato novellato l’articolo 31 della legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150, mediante l’introduzione
dell’obbligo generalizzato di munirsi della licenza edilizia
per tutte le trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite
nell’intero territorio comunale. In precedenza, tale obbligo
aveva invece una portata limitata, in quanto il richiamato
articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque
intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare
quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei
centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale,
anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art.
7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
9. Al riguardo, deve però anzitutto ricordarsi che, in base
al consolidato orientamento della giurisprudenza, “l’onere
della prova sul possesso del titolo edilizio richiesto e,
più in generale, circa l’epoca di realizzazione delle opere
della cui demolizione di tratta e sulla legittimità degli
interventi effettuati grava sul privato e non sulla P.A.”
(in questo senso, ex multis: Cons. Stato, Sez. VI,
05.01.2015, n. 13).
Spetta quindi agli odierni ricorrenti dimostrare che le
opere siano state effettivamente eseguite prima dell’entrata
in vigore della legge n. 765 del 1967.
9.1 Ciò posto, deve anzitutto rilevarsi che, secondo quanto
risulta agli atti del giudizio, i signori Fu., pur
avendo ricevuto la comunicazione di avvio del procedimento,
non sono intervenuti al fine di allegare la realizzazione
dell’opera in epoca risalente, né –tanto meno– hanno fornito
all’Amministrazione alcun elemento in tal senso, nella
dovuta sede procedimentale.
9.2 Inoltre, anche gli elementi prodotti in giudizio non
consistono in dati di particolare rilevanza probatoria, tali
da far emergere, di per sé, la carenza dell’istruttoria
svolta dal Comune.
9.2.1 Ciò vale anzitutto per le fotografie prodotte che
–secondo la prospettazione di parte ricorrente–
ritrarrebbero gli stessi signori Fu. in giovane età,
accanto a una costruzione che sarebbe identificabile
nell’ampliamento oggetto dell’ordinanza di demolizione.
Non è infatti provata né la datazione delle fotografie, né
l’identità delle persone ritratte. Neppure risulta
dimostrata, poi, l’effettiva corrispondenza della
costruzione sullo sfondo con l’ampliamento oggetto
dell’ordinanza di demolizione.
9.2.2 Parimenti è a dirsi per le dichiarazioni sostitutive
dell’atto di notorietà, sottoscritte dal ricorrente sig.
Gi.Fu. e dalla madre sig.ra An.Ca., con le
quali si afferma la realizzazione dell’opera in epoca
anteriore al 1967.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza,
infatti, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà
“non costituisce elemento probatorio dirimente in ordine
alla data di ultimazione dei lavori, dovendo essere
supportata da ulteriori elementi, anche indiziari, purché
altamente probanti” (Cons. Stato, Sez. VI, 24.05.2016,
n. 2179).
Più in dettaglio, le dichiarazioni sostitutive, rese dalla
parte interessata o da terzi, non hanno alcun “valore”
certificativo o probatorio nei confronti della pubblica
amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2014, n. 2782).
Esse, inoltre, non sono utilizzabili nel processo
amministrativo e non rivestono alcun effettivo valore
probatorio in ambito processuale, potendo costituire
eventualmente soltanto indizi, che comunque, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano
ex se idonei a scalfire l'attività istruttoria
dell’amministrazione, ovvero le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l’inattendibilità di quanto
rappresentato dall’interessato (in questo senso: Cons.
Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3666; cfr. anche, ex
multis: Cass. Civ., Sez. III, 28.04.2010 n. 10191; Cons.
Stato, Sez. IV, n. 2782 del 2014, cit.; Id., 03.08.2011, n.
4641).
9.3 D’altra parte, il Collegio ritiene di non dover
accogliere la richiesta dei ricorrenti di disporre la prova
per testi o la consulenza tecnica d’ufficio. E ciò per due
ordini di ragioni.
9.3.1 Anzitutto, perché l’epoca di realizzazione del
manufatto avrebbe dovuto essere allegata e dimostrata
nell’ambito del procedimento amministrativo, sottoponendola
al vaglio dell’Amministrazione, e non invece raggiunta
eventualmente, per la prima volta, nel processo, avvalendosi
dell’esercizio dei poteri istruttori del giudice, senza che
tale circostanza sia stata neppure prospettata nel corso
dell’iter che ha condotto all’assunzione dell’ordinanza di
demolizione.
9.3.2 In secondo luogo, perché la difesa comunale ha invece
prodotto agli atti del giudizio elementi documentali
decisivi, che contraddicono in ogni caso l’assunto secondo
il quale la realizzazione dell’opera sarebbe avvenuta prima
del 1967.
L’Amministrazione ha dimostrato, in particolare, che la
cartografia del Piano Regolatore Generale del 1980, redatta
sulla base del rilievo aerofotogrammetrico del 1977, non
riporta la porzione immobiliare oggetto dell’ordinanza di
demolizione, e che l’ampliamento compare invece, per la
prima volta, nel rilievo aerofotogrammetrico del 1990.
A fronte di tali precisi elementi, la realizzazione
dell’immobile in epoca anteriore al 1967 risulta dunque
smentita.
10. D’altra parte, anche laddove fosse provata la
realizzazione dell’opera negli anni ’50 del secolo scorso,
come asseriscono i ricorrenti, tale circostanza sarebbe
comunque irrilevante, poiché a quell’epoca, nel Comune di
Cantù, l’edificazione su tutto il territorio comunale era
subordinata in ogni caso al rilascio del titolo edilizio.
10.1 Come comprovato dalla difesa comunale, infatti, già il
Regolamento edilizio del 1923 stabiliva, all’articolo 7, che
“Chiunque intenda intraprendere nuove fabbriche o fare
restauri che rechino modificazioni alle già esistenti;
chiunque intenda demolire una o più case per non più
ricostruirle, od aggregare case segnate con distinti numeri
comunali, deve farne preventiva dichiarazione
all’Amministrazione comunale, accompagnata dal relativo
progetto”.
Allo stesso modo, anche il Regolamento edilizio del 1939
recava, all’articolo 8, la previsione per cui “Chiunque
voglia intraprendere la costruzione di un edificio nuovo, la
parziale ricostruzione o modificazione di un edificio
esistente o qualsiasi altra opera edilizia, anche
manutentiva, di qualunque natura dovrà prima chiederne
licenza al Podestà.”.
Analoghe previsioni si rinvengono, infine, nel Regolamento
edilizio del 1962, il quale disponeva, all’articolo 5, la
necessità di munirsi di apposita licenza del Sindaco a
carico di chiunque avesse voluto “intraprendere la
costruzione di un edificio nuovo, la parziale ricostruzione
o modificazione di un edificio esistente o qualsiasi altra
opera edilizia, anche manutentiva, di qualunque natura”
(primo comma). E ciò con la precisazione che, per le sole “opere
di lievissima entità come piccole trasformazioni interne ad
edifici esistenti”, “a giudizio del Sindaco”
potesse “essere tollerata la mancanza della presentazione
dei disegni” e potesse “bastare la denuncia con una
pura descrizione delle opere da eseguire e col relativo
estratto mappale precisante l’ubicazione dell’opera”.
L’obbligo di munirsi, per tutte le trasformazioni operate
sull’intero territorio comunale, del titolo edilizio
–consistente nell’approvazione del progetto in base al
Regolamento del 1923, e nella licenza edilizia in base ai
Regolamenti del 1939 e del 1962– risulta dunque sancito e
reiterato da tutti i Regolamenti edilizi avvicendatisi fino
all’entrata in vigore della c.d. “legge ponte”.
10.2 Al riguardo, Il Collegio non ignora che, secondo
un’opinione minoritaria, la legge n. 1150 del 1942 avrebbe
dispiegato una valenza abrogatrice nei confronti dei
regolamenti edilizi ad essa precedenti, consentendo
l’edificazione senza previo rilascio della licenza edilizia
fuori dai centri storici e delle zone di espansione, anche
in presenza di contrarie previsioni nella disciplina
previgente contenuta nei predetti regolamenti.
Tuttavia,
deve ritenersi preferibile la tesi maggioritaria che,
negando la possibilità di riconoscere all’articolo 31 della
legge n. 1150 del 1942 una portata abrogante o disapplicativa della normativa edilizia, ha ritenuto
l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le
costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche
se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di
espansione, ove l’obbligo fosse previsto dai regolamenti
edilizi comunali (v. Cons. Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n.
3899; Id., Sez. IV, 21.10.2008, n. 5141).
10.3 Deve quindi concludersi che, nel caso di specie,
l’ampliamento oggetto dell’ordinanza di demolizione sarebbe
da reputare illecitamente edificato anche ove
–contrariamente a quanto sopra riscontrato– ne fosse stata
effettivamente dimostrata la realizzazione in epoca
anteriore al 1967.
11. Le censure dirette a dimostrare il carattere non abusivo
dell’opera vanno, quindi, respinte.
...
13. In definitiva, per tutte le considerazioni sin qui
esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.01.2017 n. 37 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; e
non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva che il
tempo non può avere legittimato, né l’interessato può
dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in
data antecedente i dovuti atti repressivi (idem).
---------------
L’illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae
e che conserva nel tempo la sua natura, e l’interesse
pubblico alla repressione dell’abuso è “in re ipsa”.
L’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è
necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico
all’osservanza della normativa urbanistico–edilizia e al
corretto governo del territorio. Non sussiste alcuna
necessità di motivare in modo particolare un provvedimento
col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto,
quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca
della commissione dell’abuso e la data dell’adozione
dell’ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela
l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore “contra legem”.
Non può ammettersi cioè un affidamento meritevole di tutela
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
---------------
D’altra parte, ammettere la sostanziale “estinzione” di un
abuso per il decorso del tempo vorrebbe dire accettare una
sorta di sanatoria “extra ordinem”, di fatto, che opererebbe
anche quando l’interessato non ha ritenuto di avvalersi del
corrispondente istituto previsto e disciplinato dalla
normativa di sanatoria di cui alle leggi nn. 47/1985,
724/1994 e 326/2003; senza neanche pagare le somme dovute a
titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata,
il che non sarebbe conforme a principi basilari di
ragionevolezza e parità di trattamento nell’esercizio del
potere amministrativo.
---------------
Tali principi sono pienamente applicabili nel caso di
specie. Né può assumere alcuna rilevanza la circostanza che
l’abuso non sia stato realizzato direttamente dai
ricorrenti, bensì dal padre di essi. La successione nella
titolarità dell’immobile fa subentrare, infatti,
l’acquirente nella medesima situazione giuridica del proprio
dante causa.
Il proprietario dell’opera abusiva acquistata dall’autore
dell’illecito edilizio non può perciò distinguere la propria
posizione da quella del soggetto cui è succeduto, al fine di
farne discendere un proprio affidamento tutelabile al
mantenimento del manufatto.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 4424 del 28.05.2012
di rimozione di opere realizzate in assenza di idoneo titolo
abilitativo e conseguente ripristino dello stato dei luoghi
e della comunicazione di avvio del procedimento prot. n.
13906 in data 11.05.2012;
...
12. Deve pure respingersi l’ulteriore doglianza prospettata
nel ricorso, secondo la quale il lungo tempo trascorso dalla
commissione dell’illecito avrebbe comportato, a carico
dell’Amministrazione, l’onere di una più intensa motivazione
del provvedimento sanzionatorio.
12.1 E invero, secondo il prevalente orientamento della
giurisprudenza, che il Collegio condivide, “l’ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede
una specifica valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione (es. Cons. Stato, VI,
31.05.2013, n. 3010); e non può ammettersi alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva che il tempo non può avere legittimato, né
l’interessato può dolersi del fatto che l’amministrazione
non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti
repressivi (idem)” (così, ex multis: Cons. Stato,
Sez. VI, 14.03.2014, n. 1292).
Nello stesso senso, e ancor più esplicitamente, la
giurisprudenza ha avuto modo di illustrare i principi che
reggono l’esercizio della potestà sanzionatoria, affermando
che “l’illecito edilizio ha carattere permanente, che si
protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e
l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso è “in re
ipsa”. L’interesse del privato al mantenimento dell’opera
abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse
pubblico all’osservanza della normativa urbanistico–edilizia
e al corretto governo del territorio. Non sussiste alcuna
necessità di motivare in modo particolare un provvedimento
col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto,
quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca
della commissione dell’abuso e la data dell’adozione
dell’ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela
l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore “contra legem”. Non può
ammettersi cioè un affidamento meritevole di tutela alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva” (Cons.
Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Il Collegio condivide inoltre pienamente e fa propri gli
indirizzi esposti nella sentenza ora richiamata, laddove,
quale ulteriore argomento a sostegno della tesi sopra
illustrata, vi si sottolinea che “d’altra parte,
ammettere la sostanziale “estinzione” di un abuso per il
decorso del tempo vorrebbe dire accettare una sorta di
sanatoria “extra ordinem”, di fatto, che opererebbe anche
quando l’interessato non ha ritenuto di avvalersi del
corrispondente istituto previsto e disciplinato dalla
normativa di sanatoria di cui alle leggi nn. 47/1985,
724/1994 e 326/2003; senza neanche pagare le somme dovute a
titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata,
il che non sarebbe conforme a principi basilari di
ragionevolezza e parità di trattamento nell’esercizio del
potere amministrativo”.
12.2 Tali principi sono pienamente applicabili nel caso di
specie. Né può assumere alcuna rilevanza la circostanza che
l’abuso non sia stato realizzato direttamente dai
ricorrenti, bensì dal padre di essi. La successione nella
titolarità dell’immobile fa subentrare, infatti,
l’acquirente nella medesima situazione giuridica del proprio
dante causa (v. Cons. Stato, Sez. V, 11.07.2014, n. 3565).
Il proprietario dell’opera abusiva acquistata dall’autore
dell’illecito edilizio non può perciò distinguere la propria
posizione da quella del soggetto cui è succeduto, al fine di
farne discendere un proprio affidamento tutelabile al
mantenimento del manufatto.
13. In definitiva, per tutte le considerazioni sin qui
esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.01.2017 n. 37 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalto
caro? È annullabile. Sentenza del Tar Campania.
La stazione appaltante annulla in autotutela
l'aggiudicazione all'impresa del servizio che pure ha messo
a gara perché adesso non lo trova più conveniente.
Possibile? Sì, perché in linea di principio l'art.
21-quinquies della legge 241/1990 ammette un ripensamento da
parte dell'amministrazione, ad esempio laddove la tariffa
offerta dall'aggiudicataria si rivela al di sopra degli
standard di mercato. Ma l'impresa deve essere indennizzata
col 10% del valore della parte di servizio ancora da gestire
(art. 158 codice appalti).
Così la
sentenza
03.01.2017 n. 56 della I Sez. del TAR Campania-Napoli.
A essere revocata è la gestione di un impianto di
trattamento del percolato nel Napoletano. I costi di
smaltimento sono scesi rispetto all'epoca in cui è stata
chiusa la gara: l'aggiudicatario offre 36 euro al metro cubo
mentre ora la media si attesta a 27. E ben può scattare
l'annullamento in autotutela se l'interesse pubblico
all'appalto risulta venuto meno.
Di più: l'amministrazione può ripensarci anche quando manca
la copertura finanziaria per l'erogazione del servizio
oppure non ci sono le risorse per la realizzazione
dell'opera. Proprio perché sussistono i presupposti di legge
per la revoca dell'aggiudicazione non può dunque trovare
ingresso la domanda di risarcimento presentata dalla
società.
L'ente appaltante, tuttavia, ha novanta giorni per formulare
all'impresa una congrua proposta di indennizzo, commisurato
alle spese sostenute dalla società per l'autorizzazione e la
gestione dell'impianto, al netto di quanto liquidato finora
(articolo ItaliaOggi del 18.01.2017).
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MASSIMA
La prima questione da scrutinare attiene alla
legittimità dell’atto di revoca.
Nello specifico, il provvedimento di secondo grado è stato
adottato dalla stazione appaltante in quanto,
successivamente all’aggiudicazione definitiva della
concessione in favore della ricorrente, l’amministrazione ha
registrato un sensibile abbattimento del costo di
smaltimento del percolato rispetto all’importo offerto dalla
società aggiudicataria, circostanza che avrebbe reso
svantaggiosa la stipula della convenzione.
Svolta tale preliminare considerazione, non è condivisibile
l’argomentazione di parte ricorrente, secondo cui, per
rimediare a tale sopravvenienza, la stazione appaltante non
aveva altra strada che procedere alla stipula della
convenzione e procedere poi alla revisione ai sensi
dell’art. 143, commi 8 ed 8-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.
L’art. 143, comma 8, dopo aver precisato che la stazione
appaltante, al fine di assicurare il perseguimento
dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti del
concessionario, può stabilire che la concessione abbia una
durata superiore a trenta anni (tenendo conto del rendimento
della concessione, della percentuale del prezzo rispetto
all’importo totale dei lavori e dei rischi connessi alle
modifiche delle condizioni di mercato), stabilisce che le
variazioni apportate dalla stazione appaltante ai
presupposti o alle condizioni di base che determinano
l’equilibrio economico–finanziario degli investimenti e
della connessa gestione, nonché “le norme legislative e
regolamentari che stabiliscano nuovi meccanismi tariffari o
nuove condizioni per l’esercizio delle attività previste
nella concessione, quando determinano una modifica
dell’equilibrio del piano, comportano la sua necessaria
revisione, da attuare mediante rideterminazione delle nuove
condizioni di equilibrio, anche tramite la proroga del
termine di scadenza delle concessioni”.
Invero, lo strumento delineato consente, in via di
principio, di rideterminare l’equilibrio delle concessioni
per fatti sopravvenuti; i casi nei quali la norma consente
la modifica dei termini del rapporto, essendo palesemente
eccezionali, non consentono applicazioni estensive, e sono
accomunati dal fatto di avere alla base circostanze di
particolare rilevanza che sopravvenendo alla stipula del
contratto ne modificano nella sostanza l'attuazione.
La norma non è applicabile nella presente controversia
poiché, nel caso specifico, l’evento che ha reso
antieconomico per la stazione appaltante la stipula della
convenzione (abbattimento del costo di smaltimento del
percolato) si è verificato prima della stipula della
convenzione medesima e non in costanza del rapporto
concessorio.
Inoltre, non persuade la tesi di parte ricorrente, secondo
cui tale disposizione consentirebbe di modificare il
contenuto dell’offerta economica presentata in sede di gara
dall’aggiudicatario che deve essere poi trasfusa nel
contratto d’appalto; difatti, tale ermeneutica consentirebbe
di aggirare agevolmente il principio di necessaria
corrispondenza del prezzo all’offerta economica presentata
in sede di gara dalla società aggiudicataria.
Tale conclusione risulta altresì confermata nella
fattispecie in esame dall’art. 31 della bozza di convenzione
che, nel disciplinare le condizioni economico–finanziarie e
i casi di revisione della concessione, prevede espressamente
che la tariffa iniziale offerta dal concessionario “si
intende fissa sino al compimento del primo periodo temporale
in cui è articolato il PEF. A partire dal 2° periodo
temporale in cui è articolato il PEF, la tariffa iniziale
sarà adeguata per ciascun periodo temporale attraverso
l’applicazione della variazione dell’indice dei prezzi (NIC)
per l’intera collettività nazionale pubblicato dall’ISTAT
per l’anno precedente”.
Non è poi predicabile la dedotta violazione dell’obbligo di
motivazione. Difatti, l’amministrazione ha giustificato il
proprio ripensamento con l’antieconomicità dello stipulando
contratto poiché la tariffa offerta dalla ricorrente per il
trattamento del percolato si attestava su una soglia
significativamente più alta rispetto ai prezzi di mercato
(euro 36/mc contro euro 27/mc).
Sotto tale profilo, in omaggio a consolidata giurisprudenza,
deve ritenersi legittima la revoca dell’aggiudicazione
motivata con riferimento al risparmio economico che
deriverebbe dalla revoca stessa ovvero per carenza di
copertura finanziaria e sopravvenuta mancata corrispondenza
della procedura alle esigenze dell'interesse pubblico
(ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, n.
3748/2015; n. 4809/2013; n. 2418/2013)
e l'art. 21-quinquies della L. n. 241/1990 ammette in via di
principio un ripensamento da parte dell'amministrazione a
seguito di una nuova valutazione dell'interesse pubblico
originario
(Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2400/2013; Sez. III, n.
6039/2011).
Deve essere ribadito, inoltre, il consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale,
nei contratti pubblici, anche dopo l'intervento
dell'aggiudicazione definitiva, non è precluso
all'amministrazione appaltante di revocare l'aggiudicazione
stessa, in presenza di un interesse pubblico individuato in
concreto, che ben può consistere nella mancanza di risorse
economiche idonee a sostenere la realizzazione dell'opera
(Consiglio di Stato, Sez. III, 11.07.2012 n. 4116; Sez. IV,
19.03.2003 n. 1457).
Sono privi di pregio gli ulteriori motivi che attengono alla
mancata indicazione dell’Autorità giurisdizionale e del
termine cui ricorrere e alla presunta violazione delle
garanzie procedimentali.
Come noto,
la mancata indicazione dell'Autorità, giudiziaria o
amministrativa, e del termine entro il quale effettuare
l'eventuale impugnazione, non incide sulla legittimità
dell'atto, ma può solo eventualmente dare titolo al
destinatario dell'atto ad ottenere la concessione
dell'errore scusabile
(ex multis, TAR Campania, Napoli, n. 2207/2008).
Inoltre, dall’esame degli atti di causa emerge che
l’amministrazione ha inoltrato rituale comunicazione di
avvio del procedimento di revoca, in relazione al quale la
ricorrente, anziché esibire deduzioni, ha preferito
richiedere un colloquio per concordare la quantificazione
dell’indennizzo dovuto ex art. 21-quinquies della L. n.
241/1990.
Infine,
il mancato riconoscimento di un indennizzo giammai sarebbe
idoneo ad inficiare la legittimità del provvedimento di
revoca
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 4616/2012).
Le svolte considerazioni conducono alla reiezione della
domanda impugnatoria proposta contro il provvedimento di
revoca dell’aggiudicazione.
Quanto alla domanda impugnatoria avanzata con i motivi
aggiunti depositati il 07.11.2016, occorre prendere atto
che, come dedotto dall’amministrazione resistente, la nuova
gara indetta da S.A.P.NA. è andata deserta con la
conseguenza che alcuna utilità potrebbe derivare dalla
ricorrente dall’eventuale accoglimento; per l’effetto, si
impone la declaratoria di improcedibilità per carenza di
interesse alla relativa decisione.
Non possono trovare accoglimento le richieste risarcitorie.
La domanda di risarcimento dei danni ex art. 30 c.p.a. va
respinta difettando il presupposto della illegittimità
provvedimentale, sussistendo le condizioni di legge per la
revoca dell’aggiudicazione.
Quanto alla richiesta di risarcimento del danno a titolo di
responsabilità precontrattuale, non persuade l’eccezione in
rito sollevata dalla difesa dell’amministrazione circa il
presunto difetto di giurisdizione di questo Tribunale.
Al riguardo,
va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo, ai
sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., che
attribuisce al giudice amministrativo la cognizione sulle
procedure di affidamento di appalti pubblici, ivi incluse le
cause risarcitorie e dunque anche le controversie relative
alla responsabilità precontrattuale dell’amministrazione
pubblica per atti e comportamenti tenuti nella fase della
procedura di affidamento.
Venendo al merito, rileva il Collegio che
in via generale, anche in caso di revoca legittima degli
atti di aggiudicazione di una gara può sussistere la
responsabilità precontrattuale dell'amministrazione che
abbia tenuto un comportamento contrario ai canoni di buona
fede e correttezza soprattutto qualora, accortasi delle
ragioni che consigliavano di procedere in via di autotutela
mediante la revoca della già disposta aggiudicazione, non
abbia immediatamente ritirato i propri provvedimenti,
prolungando inutilmente lo svolgimento della gara, così
inducendo le imprese concorrenti a confidare nella chance
di conseguire l'appalto
(Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1797/2016).
Ne consegue che appare dirimente, al fine di verificare
eventuali violazioni ai principi di correttezza e buona
fede, accertare la tempestività o meno dell’atto di revoca
rispetto al momento in cui l’amministrazione ha assunto
piena consapevolezza della antieconomicità dell’offerta, per
la tariffa relativa allo smaltimento del percolato proposta
dalla ricorrente.
Ebbene, dall’esame degli atti emerge che:
- con nota del 28.07.2015 la S.A.P.NA. sollecitava alla ricorrente
l’invio della verifica/aggiornamento del PEF presentato in
sede d’offerta, già richiesto con nota del 02.04.2015 e
12.06.2015, alla luce dei costi di prelievo, trasporto e
smaltimento del percolato;
- il nuovo PEF veniva trasmesso alla stazione appaltante il
10.08.2015 (con una tariffa di conferimento di euro 27/mc);
- con successiva nota del 12.11.2015 la società ricorrente
manifestava la propria disponibilità a stipulare la
convenzione di concessione nei termini di cui alla bozza e
al PEF presentati in sede di gara (che prevedeva una tariffa
di conferimento di 36 euro/mc); in altri termini, con tale
missiva la società aggiudicataria ritirava la propria
disponibilità (manifestata con l’invio del PEF non
asseverato del 10.08.2015) ad una variazione/aggiornamento
del PEF ritenendo di dover stipulare la convenzione alle
medesime condizioni economiche fissate in sede di
aggiudicazione;
- a quel punto, la S.A.P.NA. inviava specifica istanza di
precontenzioso all’ANAC, cui seguiva nell’ordine, il
relativo parere (07.03.2016), la comunicazione di avvio del
procedimento di revoca (21.06.2016) e l’atto conclusivo di
revoca dell’aggiudicazione (14.07.2016).
La descritta successione di eventi consente di escludere un
ragionevole affidamento della società ricorrente nella
stipula della convenzione. Difatti, benché vi sia stata
consegna anticipata dei lavori, la ricorrente era stata resa
edotta da tempo dello scostamento tra i costi di smaltimento
del percolato offerti in gara rispetto alle condizioni di
mercato e della opportunità di procedere ad un
aggiornamento/revisione del PEF. Peraltro, tale richiesta,
come si è visto, era stata anche assecondata dalla medesima
società che, prima inviava un nuovo PEF non asseverato e,
solo in un secondo momento, tornava sui propri passi per
rivendicare la validità delle condizioni economiche offerte
in sede di gara.
Quindi l’atto di autotutela è stato adottato solo dopo aver
constatato l’indisponibilità della aggiudicataria ad un
aggiornamento del PEF e al conseguente riallineamento delle
tariffe di conferimento al prezzo di mercato e, dopo un
breve lasso temporale impegnato dalla proposizione di una
istanza di precontenzioso all’ANAC e dal disbrigo della
partecipazione procedimentale.
Peraltro, il carteggio tra la stazione appaltante e
l’aggiudicataria circa l’aggiornamento del PEF consente di
escludere che possa ritenersi radicato nell’aggiudicataria
un ragionevole affidamento nella stipulazione della
convenzione secondo le condizioni originariamente pattuite.
Difatti, si è visto che l’amministrazione richiedeva e
sollecitava invano tale aggiornamento del PEF e, solo dopo
aver appreso della indisponibilità dell’aggiudicataria,
procedeva al ritiro in autotutela dell’aggiudicazione al
fine di evitare la stipulazione di un contratto
antieconomico e pregiudizievole per le finanze pubbliche.
La domanda di risarcimento del danno a titolo di
responsabilità precontrattuale deve essere pertanto
respinta.
Inoltre, non può essere accolta l’ulteriore richiesta
avanzata dalla parte ricorrente con l’ultimo atto di motivi
aggiunti, concernente il pagamento dell’indennizzo di cui
all’art. 158 del D.Lgs. n. 163/2006; tanto esime il Collegio
dallo scrutinio dell’eccezione di irricevibilità sollevata
dalla difesa di S.A.P.NA. s.p.a..
Tale art. 158 prevede, in caso di risoluzione di un rapporto
di concessione per inadempimento del soggetto concedente
ovvero in caso di revoca della concessione per motivi di
pubblico interesse, il pagamento di un indennizzo in favore
del concessionario commisurato al valore delle opere
realizzate, penali e costi sostenuti o da sostenere in
conseguenza della risoluzione e al mancato guadagno pari al
10 per cento del valore delle opere ancora da eseguire
ovvero della parte del servizio ancora da gestire valutata
sulla base del piano economico-finanziario.
Il presupposto operativo di tale indennizzo è costituito
dall’avvenuto rilascio del titolo concessorio
(Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1315/2013),
provvedimento che, nel caso in esame, non è stato adottato
dall’amministrazione concedente poiché, come si è visto,
nelle more è intervenuto il ritiro in autotutela
dell’aggiudicazione. La richiesta quindi non può trovare
accoglimento.
Resta infine da scrutinare la richiesta di indennizzo ex
art. 21-quinquies della L. n. 241/1990 di cui al ricorso
introduttivo, avanzata dalla parte ricorrente in via gradata.
La domanda di indennizzo deve essere accolta e, ai fini
della liquidazione, ritiene la Sezione che nella specie
debba farsi applicazione del disposto di cui all’art. 34,
comma 4, c.p.a. che consente al giudice, in caso di condanna
pecuniaria, di stabilire i criteri in base ai quali il
debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento
di una somma entro un congruo termine ("In caso di
condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di
opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai
quali il debitore deve proporre a favore del creditore il
pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti
non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli
obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso
previsto dal Titolo I del Libro IV, possono essere chiesti
la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento
degli obblighi ineseguiti").
Per giurisprudenza consolidata,
l'indennizzo spettante al soggetto direttamente pregiudicato
dalla revoca di provvedimento va circoscritto al solo danno
emergente e deve essere commisurato, secondo l’art.
21-quinquies citato, ai costi sostenuti dalla società fino
al momento della revoca, sia per la partecipazione alla
gara, sia per le lavorazioni preliminari eventualmente
effettuate, con esclusione di qualsiasi altro pregiudizio
(Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 5993/2012).
Pertanto, il Collegio fissa il termine di giorni 90 a
decorrere dalla comunicazione/notificazione della presente
sentenza affinché l'amministrazione, valutato in
contraddittorio con la ricorrente il danno emergente,
proponga alla stessa un congruo indennizzo.
Nello specifico, l’indennizzo andrà commisurato alle spese
di seguito indicate:
I) costi di partecipazione alla gara;
II) spese connesse all’iter autorizzativo del progetto svoltosi in
seno alla conferenza di servizi concluso con il decreto
dirigenziale n. 1415 del 09.10.2014;
III) costi di gestione dell’impianto non compensati dagli importi
liquidati da S.A.P.NA. (cfr. allegato n. 10 alla produzione
S.A.P.NA. del 30.11.2016; verbale di consegna anticipata del
12.10.2012 secondo cui “Nel caso di mancato
perfezionamento della stessa (convenzione) alla Sled Servizi
Srl competerà il rimborso delle spese sostenute per le
attività gestionali poste in essere”).
Il quantum sarà liquidato secondo una rigorosa
verifica del nesso causale, previa esibizione ad opera della
ricorrente delle relative fatture; l’amministrazione
procederà inoltre a verificare la rispondenza degli importi
oggetto di esborso da parte della ricorrente con le
scritture contabili in possesso della medesima che la stessa
avrà cura di allegare.
Poiché tale indennizzo assolve ad una funzione di
reintegrazione della perdita subita dal patrimonio della
società istante, sul predetto importo andrà calcolata anche
la rivalutazione monetaria nel periodo intercorrente tra la
data di adozione del provvedimento di revoca fino alla data
di deposito della presente decisione; sulla somma così
rivalutata si computeranno gli interessi legali calcolati
dalla data di deposito della presente decisione fino
all'effettivo soddisfo. |
APPALTI: Va
fuori gara chi taglia troppo il costo del lavoro.
Annullata l'aggiudicazione dell'appalto perché l'offerta
dell'impresa vincitrice taglia troppo il costo del lavoro
rispetto alle tabelle orarie ministeriali. E ciò in quanto
il ribasso risulta fondato su ore di lavoro supplementare,
che tuttavia costituiscono un dato aleatorio anche dopo il
Jobs Act: il personale part-time, infatti, ben può rifiutare
la prestazione quando va oltre il 25% delle ore di lavoro
settimanali; non è dunque su quello che la società può
fondare la convenienza della sua offerta rispetto ai suoi
competitor.
È quanto emerge dalla
sentenza 30.12.2016 n. 12873, pubblicata dalla
Sez. I-ter del TAR Lazio-Roma.
Accolto il ricorso dell'azienda che ha perso la gara
d'appalto per aggiudicarsi il servizio di pulizia delle
caserme di polizia, messo a gara dalla prefettura e dal
ministero dell'Interno. Non c'è dubbio che anche con il
nuovo codice degli appalti le tabelle orarie ministeriali
del costo del lavoro costituiscono soltanto un parametro di
riferimento per valutare se l'offerta proposta per l'appalto
risulta anomala o meno.
L'amministrazione ha poteri
discrezionali e il giudice può sindacarne l'esercizio
soltanto valutando se la stazione appaltante è stata
attendibile nell'applicazione delle norme tecniche. E in
questo caso il placet della prefettura è sbagliato perché il
lavoro supplementare, diverso dal tradizionale
straordinario, riguarda i contratti part-time e deve essere
concordato fra il datore e il personale: il fatto che il
lavoratore possa evitare di svolgere la prestazione
supplementare per comprovate esigenze rende inaffidabile
l'offerta proposta dall'azienda vincitrice.
In base all'articolo 6, comma 2, del decreto legislativo
81/2015, appunto provvedimento attuativo della riforma Jobs
Act, il personale può addurre ragioni «esigenze
lavorative, di salute, familiari o di formazione
professionale» per essere esentato dagli ulteriori
carichi di servizio chiesti dall'azienda.
E dunque il datore non può fondare il ribasso nell'offerta
all'amministrazione sul calcolo di ore di lavoro delle quali
non può disporre con certezza. Alle amministrazioni non
resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 25.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO: Responsabilità
del committente. La Corte di
cassazione sugli infortuni sul lavoro.
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il
committente, anche in caso di affidamento dei lavori a
un'unica ditta appaltatrice, è titolare di una posizione di
garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per
l'infortunio, sia per la scelta dell'impresa sia in caso di
omesso controllo all'adozione, da parte dell'appaltatore,
delle misure generali di tutela della salute e della
sicurezza sui luoghi di lavoro.
Dal committente non può
tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e
capillare sull'organizzazione e l'andamento dei lavori, con
la conseguenza che, ai fini della configurazione della sua
responsabilità, occorre verificare in concreto quale sia
stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia
dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della
ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo
alla specificità dei lavori da eseguire, alla sua ingerenza
nell'esecuzione dei lavori oggetto d'appalto, nonché alla
agevole ed immediata percepibilità da parte del committente
di situazioni di pericolo.
Il principio è reso nella
sentenza
29.12.2016 n. 55180
della Corte di Cassazione, Sez. IV penale.
Il caso esaminato dalla suprema Corte ha riguardato la
condanna per il reato di omicidio colposo di un privato
cittadino proprietario di un immobile che aveva
commissionato ad una ditta i lavori di rimozione di pannelli
solari.
Nel corso di tali lavori si era verificato un incidente
mortale per un lavoratore addetto all'opera commissionata,
per il quale il datore di lavoro era stato a sua volta
condannato per l'aver omesso di redigere il piano operativo
di sicurezza in relazione alla valutazione di tutti i rischi
presenti in cantiere; l'aver omesso di adottare, per
l'esecuzione dei lavori in quota, effettuati sulla copertura
dell'edificio, adeguate impalcature atte a eliminare i
pericoli di caduta di persone o di cose; l'aver omesso di
impartire ai lavoratori dipendenti un programma di
informazione sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro
connessi all'attività svolta; ancora, l'aver omesso di
impartire ai lavoratori dipendenti una formazione
sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza in
riferimento ai concetti di rischio, danno, prevenzione e
rischi riferiti alle mansioni.
Pur tuttavia, in sede di appello, specifiche responsabilità
venivano attribuite al committente dei lavori atteso che il
committente avrebbe facilmente accertato che la ditta agiva
in spregio delle norme in materia di prevenzione e non aveva
adottato alcuna regola a tutela della salute e della
sicurezza dei lavoratori, tanto che i lavori in quota
venivano eseguiti senza alcun presidio di protezione.
Quanto alla consapevolezza di tale situazione di
pericolosità, la Corte territoriale aveva valorizzato la
circostanza che il committente aveva immediata percezione
delle condizioni in cui lavoravano gli operai, per la sua
costante ingerenza nello svolgimento dei lavori e la sua
assidua presenta sul cantiere. Sul ricorso dell'imputato, la
suprema Corte ha osservato che era provato il committente
dei lavori e proprietario dell'immobile, si recava
frequentemente sul cantiere, concordando e dando direttive
al titolare della ditta in ordine ai lavori da svolgere, ed
avendo così modo di percepire direttamente le modalità di
esecuzione.
In particolare proprio il giorno dell'infortunio l'imputato
aveva modo di apprezzare di persona le modalità di
svolgimento delle varie attività lavorative e l'assoluta
assenza di dispositivi di sicurezza, ed in particolare,
recatosi sul posto, aveva verificato direttamente l'assenza
di ponteggi o dispositivi di sicurezza idonei a prevenire il
rischio di cadute o precipitazioni di cose o persone, e la
circostanza che i lavoratori fossero saliti sul tetto
servendosi solo di una scala appoggiata alla parete, senza
il montaggio di impalcature e l'utilizzo di imbracature.
Inoltre, le irregolarità presenti in cantiere sarebbero
state immediatamente appurate dal committente qualora egli
avesse verificato in primo luogo l'idoneità
tecnico-professionale della ditta appaltatrice, mediante la
richiesta di esibizione della documentazione prevista, e ciò
perché dalla mancanza di tale documentazione avrebbe con
immediatezza colto le gravi carenze ed omissioni rispetto
agli obblighi di prevenzione e tutela dei lavoratori.
Rigettato quindi il ricorso e confermata la responsabilità
penale del committente
(articolo ItaliaOggi del 20.01.2017).
---------------
MASSIMA
3. Quanto al secondo motivo, va affermato
preliminarmente in diritto che in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, il committente,
anche in caso di affidamento dei lavori ad un'unica ditta
appaltatrice, è titolare di una posizione di garanzia idonea
a fondare la sua responsabilità per l'infortunio, sia per la
scelta dell'impresa -essendo tenuto agli obblighi di
verifica imposti dall'art. 3, comma ottavo, D.Lgs.
14.08.1996 n. 494- sia in caso di omesso controllo
all'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure
generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi
di lavoro
(Sez. 4, 09.02.2016 n. 23171 Rv. 266963).
Dal committente non può tuttavia esigersi un controllo
pressante, continui e capillare sull'organizzazione e
l'andamento dei lavori, con la conseguenza che, ai fini
della configurazione della sua responsabilità, occorre
verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua
condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità
organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei
lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da
eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la
scelta dell'appaltatore, alla sua ingerenza nell'esecuzione
dei lavori oggetto d'appalto, nonché alla agevole ed
immediata percepibilità da parte del committente di
situazioni di pericolo
(Sez. 3, 24.04.2016 n. 35185, Rv 267744; Sez. 4, 15.07.2015
n. 44131, Rv 264974).
Orbene, i giudici di merito hanno fatto corretta
applicazione di tali principi, evidenziando che il Ce.,
committente dei lavori e proprietario dell'immobile, si
recava frequentemente sul cantiere, concordando e dando
direttive al titolare della ditta in ordine ai lavori da
svolgere, ed avendo così modo di percepire direttamente te
modalità di esecuzione.
In particolare il giorno dell'infortunio -secondo la
ricostruzione dei fatti esposta in sentenza, non censurabile
in questa sede di legittimità- il Celesti si era recato
personalmente all'interno dell'immobile per verificare lo
stato dei pannelli solari e, dopo essere salito sul tetto
attraverso la scala ed aver constatato che i pannelli erano
danneggiati, aveva dato direttive al Sa., titolare della
ditta appaltatrice, per la rimozione dei pannelli medesimi e
la sostituzione con apposite tegole.
Dunque l'imputato aveva modo di apprezzare di persona le
modalità di svolgimento delle varie attività lavorative e
l'assoluta assenza di dispositivi di sicurezza, ed in
particolare, la mattina dell'infortunio, recatosi sul posto,
aveva verificato direttamente l'assenza di ponteggi o
dispositivi di sicurezza idonei a prevenire il rischio di
cadute o precipitazioni di cose o persone, e la circostanza
che i lavoratori fossero saliti sul tetto servendosi solo di
una scala appoggiata alla parete, senza il montaggio di
impalcature e l'utilizzo di imbracature.
Inoltre, le plurime e gravi irregolarità presenti in
cantiere -ha osservato la Corte di Messina- sarebbero state
immediatamente appurate dal Ce. qualora egli avesse
rispettato l'obbligo normativamente previsto di verificare
in primo luogo l'idoneità tecnico professionale della ditta
appaltatrice, mediante la richiesta di esibizione della
documentazione prevista, e ciò perché dalla mancanza di tale
documentazione avrebbe con immediatezza colto le gravi
carenze ed omissioni del Sa. rispetto agli obblighi di
prevenzione e tutela dei lavoratori.
Le argomentazioni svolte nella impugnata sentenza sono
immuni da vizi logici e giuridici, conformi ai principi di
diritto affermati da questa Corte in materia e pertanto le
censure del ricorrente sono manifestamente destituite di
fondamento. |
EDILIZIA PRIVATA:
Mentre l'ingiunzione a demolire costituisce il primo,
doveroso passaggio del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone una mera valutazione di tipo
analitico e ricognitivo circa l'abuso commesso, il giudizio
sintetico-valutativo, di natura tecnico-discrezionale circa
la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria –in applicazione
dell’invocato art. 33, comma 2, DPR n. 380/2001- può essere
effettuato solo in una seconda fase, allorquando il
destinatario dell’ingiunzione a demolire non vi abbia
spontaneamente adempiuto.
In questi casi, l'organo competente emana l'ordine di
esecuzione in danno delle opere realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto in questa seconda fase non può ritenersi legittima
l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione
intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile
sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria,
sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal
senso.
---------------
La natura di illecito permanente degli abusi edilizi
comporta l'applicabilità agli stessi della disciplina
esistente al momento dell'adozione del provvedimento
sanzionatorio e la vetustà dell'opera non esclude il potere
di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia
urbanistico-edilizia, perché l'esercizio di tale potere non
è soggetto a prescrizione o decadenza.
Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo
e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire
anche a notevole distanza di tempo dalla commissione
dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della
sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o
situazioni consolidate e un obbligo di motivazione a carico
dell'Amministrazione sull'attualità e concretezza
dell’interesse pubblico alla demolizione, dovendo un tale
interesse ritenersi sussistente in re ipsa.
---------------
La sanzione edilizia non necessita di alcuna motivazione
ulteriore, oltre alla descrizione dell'abuso. In questo
senso, la buona fede, il tempo trascorso e la valutazione
dell'attualità dell'interesse pubblico vengono in
considerazione nei procedimenti di autotutela decisoria,
ossia quando l’amministrazione intenda rimuovere un
precedente provvedimento che abbia già dispiegato effetti
favorevoli.
Una volta che sia contestata l’attività edilizia sine titulo,
l’amministrazione è tenuta ad applicare la conseguente
sanzione edittale, mentre incombe sull’interessato l'onere
di provare la ricorrenza dei presupposti per l'applicazione
della misura pecuniaria sostitutiva.
---------------
3.- Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione dell’art.
33 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di potere per carenza di
presupposti, violazione del giusto procedimento,
perplessità.
3.1.- Rilevano peraltro che, ove in ipotesi dovesse
ritenersi che le opere siano abusive, quantunque non recanti
alcun incremento di volumetria e considerata la peculiarità
della loro carattere solo interno, la demolizione delle
stesse arrecherebbe grave pregiudizio e renderebbe
inutilizzabili le parti già assentite e, comunque, l’intera
unità immobiliare di loro proprietà.
In tal senso, sottolineano l’omissione ad opera del
competente UTC del preventivo e necessario accertamento
tecnico attestante, ai sensi dell’art. 33 DPR n. 380/2001, la
possibilità di demolire le opere e di ripristinare lo stato
dei luoghi senza arrecare pregiudizio alle opere già
esistenti ed assentite, senza arrecare danni alla restante
parte del fabbricato legittimante realizzato.
3.2.- Il motivo è infondato.
Mentre l'ingiunzione a demolire costituisce il primo,
doveroso passaggio del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone una mera valutazione di tipo
analitico e ricognitivo circa l'abuso commesso, il giudizio
sintetico-valutativo, di natura tecnico-discrezionale circa
la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria –in applicazione
dell’invocato art. 33, comma 2, DPR n. 380/2001- può essere
effettuato solo in una seconda fase, allorquando il
destinatario dell’ingiunzione a demolire non vi abbia
spontaneamente adempiuto.
In questi casi, l'organo competente emana l'ordine di
esecuzione in danno delle opere realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto in questa seconda fase non può ritenersi legittima
l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione
intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile
sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria,
sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal
senso (Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 09.06.2015, n.
3120; Idem, sez. VII, 14.06.2010 n. 14156).
4.- Con il terzo motivo, parte ricorrente censura il difetto
di motivazione sulla persistenza di un interesse pubblico
alla demolizione delle opere asseritamente abusive.
4.1.- Il motivo non può essere preso in considerazione posto
che, in materia edilizia, giurisprudenza ormai pacifica ha
chiarito che la natura di illecito permanente degli abusi
edilizi comporta l'applicabilità agli stessi della
disciplina esistente al momento dell'adozione del
provvedimento sanzionatorio e la vetustà dell'opera non
esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del
Comune in materia urbanistico-edilizia, perché l'esercizio
di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza; ne
consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e
l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche
a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso,
senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti
sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni
consolidate e un obbligo di motivazione a carico
dell'Amministrazione sull'attualità e concretezza
dell’interesse pubblico alla demolizione, dovendo un tale
interesse ritenersi sussistente in re ipsa (cfr. ex multis,
questa stessa Sezione 06.07.2016, n. 3367; Consiglio di
Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393).
4.2.- Deve peraltro osservarsi che la sanzione edilizia non
necessita di alcuna motivazione ulteriore, oltre alla
descrizione dell'abuso. In questo senso, la buona fede, il
tempo trascorso e la valutazione dell'attualità
dell'interesse pubblico vengono in considerazione nei
procedimenti di autotutela decisoria, ossia quando
l’amministrazione intenda rimuovere un precedente
provvedimento che abbia già dispiegato effetti favorevoli.
Non è questo il caso, posto che le opere interne sono state
realizzate in assenza di un titolo edilizio, e non è
dimostrata la loro preesistenza all’acquisto dell’immobile
da parte dei ricorrenti.
A tal fine, non appare idonea, nemmeno come principio di
prova, l’autodichiarazione del 28.12.2005, proveniente
dal ricorrente Fo. ed allegata agli atti della causa; né
tantomeno può costituire il titolo originario la DIA,
presentata in data 25.11.2004, in quanto la stessa,
come emerge dalla relazione del tecnico di parte, concerneva
lavori di diversa specie, senza che venisse contemplato
alcuna creazione di un soppalco.
Per questo, una volta che sia contestata l’attività edilizia
sine titulo, l’amministrazione è tenuta ad applicare la
conseguente sanzione edittale, mentre incombe
sull’interessato l'onere di provare la ricorrenza dei
presupposti per l'applicazione della misura pecuniaria
sostitutiva.
Non rileva, infine, la circostanza che trattasi
esclusivamente di opere interne, non recanti alcun
incremento di volumetria e di sagome e, comunque, non
rilevabili dall' esterno, tali da costituire un’eventuale
lesione del bene paesaggistico; nel caso specifico è
determinante il fatto che il territorio del Comune di
Portici è sottoposto ad una molteplicità di vincoli di
inedificabilità assoluta i quali, sulla base delle normative
statale e regionale, impediscono anche interventi che
comportino incrementi della superficie (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
27.12.2016 n. 5973 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che i soppalchi sono sottratti
al regime del permesso di costruire, in quanto qualificabili
come interventi di restauro o
risanamento conservativo, solo ove siano di modeste
dimensioni e non siano idonei a creare un ambiente abitativo
(ad esempio, deposito, ripostiglio).
Al contrario, la realizzazione di un soppalco rientra nel
novero degli interventi di ristrutturazione edilizia,
qualora lo stesso determini una modifica della superficie
utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico
urbanistico, com’è nel caso di specie dove sono state
realizzate ulteriori vani abitativi.
---------------
5.- Può passarsi ora all’esame del quarto, quinto e
sesto
motivo di ricorso i quali, per gli aspetti di connessione
argomentativa negli stessi presenti, possono ricevere
trattazione congiunta.
5.1.- Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono la
violazione degli art. 33, comma 6-bis, e 22, comma 3, d.p.r.
380/2001, in relazione all’art 25 RUEC; l’eccesso di potere
per violazione del giusto procedimento, illogicità,
perplessità, travisamento, contraddittorietà.
Evidenziano l’illegittimità dell’impugnato provvedimento
demolitorio nella parte in cui l’ente comunale ha affermato
la presunta abusività delle sopradescritte opere per
intervenuta violazione dell'art. 33 d.p.r. 380/2001, sul
presupposto, a loro avviso erroneo, che la realizzazione del
soppalco costituisse opera di ristrutturazione edilizia
eseguita in assenza di permesso di costruire.
Emergerebbe allora la contraddittorietà dell’ordinanza di
demolizione, considerato che, per quanto si rileva dalla
stessa relazione tecnica dell' UTC di Portici in data 06.11.2009, costituente parte integrante dell’ordinanza
di demolizione, le opere realizzate concernono, come
emergerebbe dai grafici allegati alle integrazioni
documentali della D.I.A. del 25.11.2004, presentate
dai ricorrenti medesimi il 30 gennaio e 22.02.2006,
“mere opere di risanamento di un soppalco già preesistente,
come ricavabile dallo stato di ossidazione degli elementi in
ferro”.
Pertanto, concludono i ricorrenti, quantunque si aderisse
all’assunto circa il carattere abusivo delle opere in
questione, la fattispecie in esame sarebbe riconducibile
semmai alla categoria degli interventi di manutenzione
straordinaria o di risanamento conservativo -di cui
all’art. 3, comma 1, lett. b) e c), d.p.r. 380/2001–
realizzabili mediante D.I.A., ai sensi dell’art. 22, comma
1, lett. a).
Ne
deriva che la presunta, parziale difformità dalla D.I.A.
originaria impedirebbe l’adozione di un’ordinanza di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi,
provvedimento affittivo sancito dal legislatore
esclusivamente per le ipotesi di cui agli art. 31
(interventi eseguiti in assenza o in totale difformità dal
permesso di costruire) o 33 d.p.r. 380/2001
(ristrutturazione edilizia eseguita in assenza di permesso
di costruire ovvero in mancanza di denuncia di inizio
attività o in totale difformità dalla stessa cfr. rubricato
ad. 33, comma 6-bis, d.p.r. 380/2001).
5.2.- Con il quinto motivo i ricorrenti deducono, altresì,
la violazione degli artt. 3 e 10 d.p.r. 380/2001, in
relazione all'art. 22, comma 3, e 33, comma 6, medesimo
d.p.r. 380/2001; nonché la violazione del giusto
procedimento, illogicità, perplessità, contraddittorietà,
sviamento, irragionevolezza. Sostengono che, nel caso
dovesse ritenersi correttamente espletata la fase
istruttoria tesa a qualificare le opere in oggetto alla
stregua di una mera manutenzione straordinaria con opere
interne, la parziale presunta difformità dall’originaria D.I.A degli interventi eseguiti imporrebbe, nell’ipotesi più
restrittiva, l’applicazione della sanzione pecuniaria
prescritta dall'art. 37, comma 1, d.p.r. 380/2001.
5.3.- Con il sesto motivo i ricorrenti deducono la
violazione degli artt. 3 e 10 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di
potere per violazione del giusto procedimento, illogicità,
perplessità, contraddittorietà, sviamento irragionevolezza,
violazione del principio del buon andamento dell’azione
amministrativa.
Ribadiscono che le opere edilizie in esame non potrebbero
essere correttamente ricondotte nella categoria descritta
dall'art. 3, comma 1, lett. e), coincidente con
l’“intervento di nuova costruzione”, assoggettabile, ai
sensi dell’art. 10, comma 1, lett. a), al rilascio del
preventivo permesso di costruire, in considerazione della
loro incontestabile natura di opere minori interne
(sistemazione di un preesistente soppalco).
5.4.- Gli argomenti esposti nei tre motivi di cui sopra, per
quanto suggestivi, non sono condivisibili e non possono
ricevere accoglimento.
In primo luogo, in senso contrario a quanto dai ricorrenti
sostenuto, la giurisprudenza ha chiarito che i soppalchi
sono sottratti al regime del permesso di costruire, in
quanto qualificabili come interventi di restauro o
risanamento conservativo, solo ove siano di modeste
dimensioni e non siano idonei a creare un ambiente abitativo
(ad esempio, deposito, ripostiglio).
Al contrario, la realizzazione di un soppalco rientra nel
novero degli interventi di ristrutturazione edilizia,
qualora lo stesso determini una modifica della superficie
utile dell'appartamento, con conseguente aggravio del carico
urbanistico, com’è nel caso di specie dove sono state
realizzate ulteriori vani abitativi (TAR Lazio, Roma,
sez. I, 11.09.2015, n. 11214).
Né vale la considerazione del dato testuale contenuto nel
menzionato art. 25 RUEC, comma 4, secondo cui “...gli
interventi relativi a soppalchi di immobili residenziali
ricadenti nel territorio di Portici…non rientrano nella
ristrutturazione edilizia, bensì nella categoria del
risanamento conservativo…”, perché quest’ultima ipotesi,
come illustrato nell’esame del primo motivo, ricorre solo
nel caso in cui siano rispettate i limiti massimi nel
rapporto tra superfici del solaio e dell’appartamento
sottostante.
Nel caso di specie, si ribadisce, il superamento dei limiti
fissati dall’art. 25 del RUEC comporta che l’intervento si
manifesti in via irrimediabile difforme dalla DIA
originaria, a fronte del quale l’unico rimedio sanzionatorio
è la demolizione, in applicazione dell’art. 33 d.p.r.
380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza
27.12.2016 n. 5973 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
ex 104, non sono ferie. Vanno usati per assistere il parente
disabile, non per i viaggi. La
Cassazione e la Corte dei conti chiariscono contro gli abusi
la portata delle agevolazioni.
Rischia il risarcimento danni il docente o Ata che utilizza
i permessi per assistere parenti disabili come se fossero
ferie.
Nel dibattito in corso da diversi mesi in merito alle
modalità di utilizzo dei permessi per l'assistenza ai
parenti disabili in situazione di gravità, di cui all'art.
33 della legge 104/1992 e all'art. 42, comma 5, del decreto
legislativo 151/2001, fanno rumore due recenti sentenze: la
sentenza 13.09.2016 n. 17968 della Corte di
Cassazione, Sez. lavoro, e la
sentenza 21.09.2016 n. 238 della Corte dei Conti
della Toscana sembravano confermare la prevalente tesi
giurisprudenziale secondo la quale un uso improprio tanto
dei tre giorni di permesso mensile quanto dei periodi del
congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, entrambi
retribuiti, arreca un danno patrimoniale all'amministrazione
scolastica per il quale il dipendente è tenuto al
risarcimento nella misura di quanto indebitamente riscosso.
Tra il personale docente o Ata che chiede di fruire
soprattutto dei tre giorni di permesso mensile per assistere
un parente disabile in situazione di gravità è frequente la
seguente domanda: nei giorni di permesso l'assistenza al
disabile deve essere assicurata per tutta la giornata o solo
per il numero di ore del lavoro scolastico in calendario per
quel giorno? Una domanda fino ad oggi rimasta senza una
chiara e univoca risposta.
La recente
sentenza 23.12.2016 n. 54712 della Sez. II penale
della Corte di Cassazione sembra ora fornire, seppure
implicitamente, una risposta alla domanda. Una sentenza che,
in ogni caso, merita di essere conosciuta anche perché, per
quanto riguarda in particolare la fruizione dei tre giorni
di permesso mensili, indica da un lato modalità e tempi di
assistenza meno cogenti e dall'altro ipotizzando, a fronte
di un uso improprio del permesso, il delitto di truffa
anziché solo quello di danno patrimoniale.
I permessi, si legge tra l'altro nelle motivazioni della
sentenza, non possono e non devono essere considerati come
giorni di ferie (perché a tal fine è preposto un ben preciso
e determinato istituto giuridico), ma solo come una
agevolazione che il legislatore ha concesso a chi si è fatto
carico di un gravoso compito, di poter svolgere l'assistenza
in modo meno pressante e, quindi, in modo da potersi
ritagliare in quei giorni in cui non è obbligato a prestare
servizio, delle ore da poter dedicare esclusivamente alla
propria persona.
I giudici della sezione penale della Corte di Cassazione
sostengono pertanto che colui che usufruisce dei permessi
retribuiti ex art. 33, comma 3, della legge 104/1992, pur
non essendo obbligato a prestare assistenza alla persona
handicappata nelle ore in cui avrebbe dovuto svolgere
attività lavorativa (un non obbligo non sottolineato a
sufficienza tanto dalla giurisprudenza quanto dai
chiarimenti ministeriali), non può, tuttavia, utilizzare
quei giorni come se fossero giorni di ferie senza, quindi,
prestare alcuna assistenza alla persona handicappata.
Se li utilizza, ad esempio, per recarsi all'estero in
viaggio di piacere, deve rispondere del delitto di truffa.
Questa nuova sentenza dovrebbe contribuire, per un verso, a
porre un ulteriore freno all'uso improprio o comunque
distorto dei permessi e dei congedi di cui trattasi, per
l'altro costituire l'ennesimo campanello di allarme nei
confronti di quanti chiedono di utilizzare una o entrambe le
categorie di permessi e di congedi non sempre per
inderogabili doveri di assistenza.
Nel comparto scuola sarebbe complessivamente il 13 per cento
del personale in servizio sia docente che amministrativo,
tecnico ed ausiliario, quest'ultimo in proporzione maggiore
rispetto ai primi
(articolo ItaliaOggi del 24.01.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi legge 104 - Truffa - Art. 640 c.p. - Mancata
assistenza familiare disabile per viaggio all'estero.
Colui
che usufruisce dei permessi retribuiti ex art. 33/3 L.
104/1992, pur non essendo obbligato a prestare assistenza
alla persona handicappata nelle ore in cui avrebbe dovuto
svolgere attività lavorativa, non può, tuttavia, utilizzare
quei giorni come se fossero giorni feriali senza, quindi,
prestare alcuna assistenza alla persona handicappata. Di
conseguenza, risponde del delitto di truffa il lavoratore
che, avendo chiesto ed ottenuto di poter usufruire dei
giorni di permesso retribuiti, li utilizzi per recarsi
all'estero in viaggio di piacere, non prestando, quindi,
alcuna assistenza».
---------------
La condotta di chi, durante il periodo
in cui usufruisce dei permessi retribuiti ex art. 33/3 L.
104/1992 si rechi all'estero in gita di piacere, commettendo
quindi il reato di truffa, non può essere considerato un
fatto di particolare tenuità.
---------------
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. LA VIOLAZIONE DELL'ART. 33 L. 104/1992: pacifici
il fatto, la questione di diritto sottoposta dalla
ricorrente a questa Corte consiste nello stabilire se i
permessi retribuiti di cui all'art. 33 L. 104/1992 devono
essere utilizzati per assistere la persona handicappata
(come hanno ritenuto entrambi i giudici di merito), oppure
se, essendo destinati al recupero delle energie
psico-fisiche del fruitore dei permessi, questi li può
utilizzare anche come «tre giorni feriali di libertà».
Questa Corte ritiene infondata l'interpretazione proposta
dalla ricorrente per le ragioni di seguito indicate.
1.2. IL QUADRO NORMATIVO
Il testo originario dell'art. 33/3 legge cit. disponeva: «Successivamente
al compimento del terzo anno di vita del bambino, la
lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre,
anche adottivi, di minore con handicap in situazione di
gravità, nonché colui che assiste una persona con handicap
in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo
grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso
mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione
che la persona con handicap in situazione di gravità non sia
ricoverata a tempo pieno».
Successivamente, l'art. 20/1 della L. 08.03.2000, n. 53,
dispose che «Le disposizioni dell'articolo 33 della legge
05.02.1992, n. 104, come modificato dall'articolo 19 della
presente legge, si applicano anche qualora l'altro genitore
non ne abbia diritto nonché ai genitori ed ai familiari
lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che
assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un
affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché
non convivente»: com'è evidente, la novità di questa
norma consisteva nell'aver introdotto la locuzione:
«[...] che assistono con continuità e in via esclusiva un
parente [...]». E' questa, dunque, la norma che,
all'epoca dei fatti (settembre-ottobre 2008) si applicava.
L'art. 24 della legge n. 183 del 2010 (quindi
successivamente al fatto commesso dall'imputata), eliminò i
requisiti della "continuità ed esclusività"
dell'assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti.
Attualmente, la norma -a seguito dell'art. 6 dlgs 119/2011-
così dispone «A condizione che la persona handicappata
non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente,
pubblico o privato, che assiste persona con handicap in
situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il
secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i
genitori o il coniuge della persona con handicap in
situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni
di età oppure siano anche essi affetti da patologie
invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire
di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da
contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa».
Peraltro, va segnalato che la Corte Cost. con sentenza n.
213/2016, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, come
modificato dall'art. 24, comma 1, lettera a), della legge
04.11.2010, n. 183, nella parte in cui non include il
convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso
mensile retribuito per l'assistenza alla persona con
handicap in situazione di gravità, in alternativa al
coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
1.3. LA RATIO LEGIS
E' molto importante stabilire quale sia la ratio legis
perché essa può contribuire alla corretta interpretazione
della norma.
Sul punto, questa Corte ritiene di far proprie le
considerazioni da ultimo
effettuate sul punto, dalla Corte Cost. che, con la sentenza
213/2016, alla
stregua dell'evoluzione della normativa, ha rilevato che «Il
permesso mensile
retribuito di cui al censurato art. 33, comma 3, è, dunque,
espressione dello
Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta,
tramite facilitazioni e
incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza
di un parente disabile
grave. Trattasi di uno strumento di politica
socio-assistenziale, che, come quello
del congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del
d.lgs. n. 151 del 2001,
è basato sul riconoscimento della cura alle persone con
handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e
sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà
interpersonale ed intergenerazionale.
3.3.- La tutela della salute psico-fisica del disabile,
costituente la finalità
perseguita dalla legge n. 104 del 1992, postula anche
l'adozione di interventi
economici integrativi di sostegno alle famiglie "il cui
ruolo resta fondamentale
nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di
handicap" (sentenze n. 203
del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del
2005).
Nel novero di tali interventi si iscrive il diritto al
permesso mensile retribuito
in questione.
Infatti, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende
normative che lo hanno
caratterizzato, la ratio legis dell'istituto in esame
consiste nel favorire
l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in
ambito familiare.
Risulta, pertanto, evidente che l'interesse primario cui è
preposta la norma
in questione -come già affermato da questa Corte con
riferimento al congedo
straordinario di cui all'art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151
del 2001- è quello di
"assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e
nell'assistenza del disabile
che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente
dall'età e dalla
condizione di figlio dell'assistito" (sentenze n. 19 del
2009 e n. 158 del 2007).
Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap
in situazione di
gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità
fisiche, psichiche e
sensoriali tale da «rendere necessario un intervento
assistenziale permanente,
continuativo e globale nella sfera individuale o in quella
di relazione», secondo
quanto letteralmente previsto dall'art. 3, comma 3, della
legge n. 104 del 1992.
L'istituto del permesso mensile retribuito è dunque in
rapporto di stretta e
diretta correlazione con le finalità perseguite dalla legge
n. 104 del 1992, in
particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica
della persona portatrice di
handicap».
Si può, quindi, affermare, sulla base delle chiare parole
della Corte Cost.,
condivise da questa Corte di legittimità, che
la norma ha
una duplice finalità:
a) in primo luogo, è preposta ad «assicurare in via
prioritaria la continuità
nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino
in ambito familiare,
indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio
dell'assistito»;
b) in secondo luogo, costituisce, contemporaneamente, un
intervento
economico integrativo di sostegno alle famiglie «il cui
ruolo resta fondamentale
nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di
handicap».
L'istituto del permesso mensile retribuito è, dunque, in
rapporto di stretta e
diretta correlazione «con la finalità di tutela della salute
psico-fisica della persona
portatrice di handicap».
1.4. LA SENTENZA N. 4106/2016 DI QUESTA CORTE
Questa Corte, con la sentenza n. 4106/2016, decidendo in una
fattispecie
(parzialmente) assimilabile a quella in esame, ha
interpretato l'art. 33 legge cit.,
nei seguenti termini: «La suddetta legge è tutta parametrata
sugli interessi della
persona handicappata e su una serie di benefici a favore
delle persone che ad
essa si dedicano.
In tale ottica, i suddetti permessi lavorativi, sono
soggetti ad una duplice
lettura: a) vengono concessi per consentire al lavoratore di
prestare la propria
assistenza con ancora maggiore "continuità"; b) vengono
concessi per consentire
al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo
al famigliare
handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per
provvedere ai propri
bisogni ed esigenze personali.
Qualunque sia la lettura che si voglia dare della suddetta
normativa (e,
comunque, l'una non esclude l'altra), quello che è certo è
che, da nessuna parte
della legge, si evince che, nei casi di permesso, l'attività
di assistenza dev'essere
prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe
dovuto svolgere la propria
attività lavorativa.
Anzi, tale interpretazione si deve escludere laddove si
tenga presente che,
per la legge, l'unico presupposto per la concessione dei
permessi è che il
lavoratore assista il famigliare handicappato "con
continuità e in via esclusiva":
ma, è del tutto evidente che tale locuzione non implica
un'assistenza
continuativa di 24 ore, per la semplice ed assorbente
ragione che, durante le ore
lavorative, il lavoratore non può contemporaneamente
assistere il parente.
E' evidente, quindi, che la locuzione va interpretata cum
grano salis, nel
senso che è sufficiente che sia prestata con modalità
costanti e con quella
flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore.
Di conseguenza, se è considerata assistenza continua quella
che il lavoratore
presta nei giorni in cui lavora (e, quindi, l'assistenza che
presta dopo l'orario di
lavoro, al netto, pertanto, delle ore in cui, lavorando, non
assiste il parente
handicappato), ne consegue che non vi è ragione per cui tale
nozione debba
mutare nei giorni in cui il lavoratore usufruisce dei
permessi: infatti, anche in
quei giorni egli è libero di graduare l'assistenza al
parente secondo orari e
modalità flessibili che tengano conto, in primis, delle
esigenze dell'handicappato;
il che significa che nei giorni di permesso, l'assistenza,
sia pure continua, non
necessariamente deve coincidere con l'orario lavorativo,
proprio perché tale
modo di interpretare la legge andrebbe contro gli stessi
interessi
dell'handicappato (come ad es. nelle ipotesi in cui
l'handicappato, abbia bisogno
di minore assistenza nelle ore in cui il lavoratore presta
la propria attività
lavorativa)».
Sulla base delle suddette considerazioni, questa Corte,
quindi, disattese
l'interpretazione restrittiva che della norma era stata data
dai giudici di merito secondo i quali, invece, il lavoratore
che usufruiva dei permessi doveva prestare
l'assistenza alla persona handicappata proprio negli orari
lavorativi.
1.5. LA FATTISPECIE IN ESAME
Questa Corte, nel confermare e ribadire il proprio
precedente appena citato, osserva che il caso di specie è
diverso da quello deciso nella sentenza n. 4106/2016.
Infatti, nel caso in esame, si discute se sia lecito, per il
lavoratore che chieda di usufruire dei permessi retribuiti,
di non assistere la persona handicappata e, quindi, per
usare le stesse parole della ricorrente, di utilizzare quei
giorni come se fossero giorni feriali da utilizzare come
meglio gli aggrada.
Ora, per quanto detto, non vi è alcun dubbio che la norma in
commento, sia una norma che prevede un'agevolazione anche
per chi assiste una persona handicappata: ma, tale
agevolazione, presuppone, pur sempre, che chi ne usufruisce,
continui a prestare assistenza.
L'agevolazione (peraltro notevole), consiste, quindi, nel
fatto che il beneficiario del premesso ha a disposizione
l'intera giornata per programmare al meglio l'assistenza in
modo tale da potersi ritagliare uno spazio per compiere
quelle attività che non sono possibili (o comunque
difficili) quando l'assistenza è limitata in ore
prestabilite e cioè dopo l'orario di lavoro.
In altri termini, i permessi servono a chi svolge quel
gravoso di assistenza a persona handicappate, di poter
svolgere un minimo di vita sociale, e cioè praticare quelle
attività che non sono possibili quando l'intera giornata è
dedicata prima al lavoro e, poi, all'assistenza.
Ma, è ovvio che l'assistenza dev'esserci.
La ricorrente, a favore della propria tesi, osserva che,
sebbene successivamente, la locuzione che richiedeva
l'assistenza continuativa ed esclusiva è stata eliminata: il
che, starebbe a significare che, i permessi andrebbero
considerati come veri e propri periodi feriali dei quali il
lavoratore potrebbe disporre a suo piacimento.
La suddetta tesi non è condivisibile.
In primo luogo, perché, come si è detto, all'epoca dei
fatti, la normativa prevedeva proprio che i permessi
potevano essere concessi a coloro che assistevano con
continuità e in via esclusiva le persone handicappate.
In secondo luogo, a ben vedere, la suddetta condizione fu,
successivamente, abrogata, molto probabilmente per evitare
interpretazioni restrittive ed eccessivamente fiscali, come
quella secondo la quale il lavoratore doveva utilizzare il
permesso solo per prestare assistenza, sicché, se nelle ore
in cui avrebbe dovuto lavorare, era sorpreso, a svolgere
altre attività (anche di svago) invece che a curare
l'handicappato, era imputabile di truffa: interpretazione
questa che questa Corte, con la sentenza n. 4106/2016 cit.,
ha disatteso.
Tutto ciò sta, quindi, a significare che l'abrogazione della
condizione dell'assistenza con continuità e in via
esclusiva, è servita solo a chiarire la norma ma non a
mutare e a stravolgerne l'essenza e la ratio che consiste,
pur sempre, nell'assicurare «in via prioritaria la
continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si
realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e
dalla condizione di figlio dell'assistito».
E' evidente, infatti, che l'assistenza non è fattualmente
ipotizzabile nelle ipotesi in cui, come quello in esame, il
fruitore dei permessi, si disinteressi completamente
dell'assistenza, partendo per l'estero: i permessi, infatti,
non possono e devono essere considerati come giorni di ferie
(perché a tal fine è preposto un ben preciso e determinato
istituto giuridico), ma solo come un'agevolazione che il
legislatore ha concesso a chi è si è fatto carico di un
gravoso compito, di poter svolgere l'assistenza in modo meno
pressante e, quindi, in modo da potersi ritagliarsi in quei
giorni in cui non è obbligato a recarsi al lavoro, delle ore
da poter dedicare esclusivamente alla propria persona.
In conclusione, la censura dev'essere disattesa alla stregua
del seguente principio di diritto: «colui
che usufruisce dei permessi retribuiti ex art. 33/3 L.
104/1992, pur non essendo obbligato a prestare assistenza
alla persona handicappata nelle ore in cui avrebbe dovuto
svolgere attività lavorativa, non può, tuttavia, utilizzare
quei giorni come se fossero giorni feriali senza, quindi,
prestare alcuna assistenza alla persona handicappata. Di
conseguenza, risponde del delitto di truffa il lavoratore
che, avendo chiesto ed ottenuto di poter usufruire dei
giorni di permesso retribuiti, li utilizzi per recarsi
all'estero in viaggio di piacere, non prestando, quindi,
alcuna assistenza».
2. L'APPLICAZIONE DELL'ART. 131-BIS COD. PEN.
Anche la suddetta richiesta va disattesa.
La condotta dell'imputata, in sé, è grave e, quindi, non può
essere ritenuta di particolare tenuità sia perché è una
condotta che è gravata sulla collettività, sia perché, come
ha stigmatizzato la Corte territoriale, «dimostra la
strumentalizzazione della malattia della madre per allungare
una programmata vacanza per la quale non le restavano più
giornate di ferie [....] tale comportamento è espressione di
un illegittimo malcostume, conseguenza di una mal riposta
fiducia nella lealtà del dipendente che dimostra che
l'omissione dell'effettuazione di controlli può essere
facilmente utilizzata dal dipendente che se ne voglia
approfittare per proprio tornaconto personale [...]».
La richiesta va, quindi, respinta alla stregua del seguente
principio di diritto: «la condotta di
chi, durante il periodo in cui usufruisce dei permessi
retribuiti ex art. 33/3 L. 104/1992 si rechi all'estero in
gita di piacere, commettendo quindi il reato di truffa, non
può essere considerato un fatto di particolare tenuità»
(Corte di
Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 23.12.2016 n. 54712). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è granitica nel ritenere che in presenza di
abusi edilizi l’obbligatorietà dell’intervento repressivo
consenta di prescindere dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza prot. gen. 235192
datata 30.12.2015 con la quale il Comune di Parma ha
ordinato alla ricorrente la demolizione di n. 2 baracche da
cantiere, un container in lamiera di modeste dimensioni, un
manufatto in lamiera chiuso su tre lati, una gru, del
materiale in lavorazione e/o magazzino (tubi in ferro,
pallet);
...
Con ordinanza n. 235192 del 30.12.2015 il Comune di Parma,
richiamati gli esiti dell’accesso effettuato dalla Polizia
Municipale su di un’area di proprietà della ricorrente che
accertava la presenza di manufatti realizzati “in assenza
di titolo abilitativo all’interno della fascia di rispetto
dei corsi d’acqua” (indicati in “due baracche da
cantiere, un container in lamiera di modeste dimensioni, un
manufatto in lamiera chiuso su tre lati, una gru” nonché
il deposito di “un consistente quantitativo di materiale
in lavorazione e/o magazzino (tubi in ferro, pallet”),
ordinava di procedere alla demolizione/rimozione delle opere
e manufatti abusivi entro il termine perentorio di 90
giorni.
La ricorrente impugnava il citato provvedimento deducendo
l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento e
l’erroneità dei presupposti di fatto e di diritto.
...
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce
la violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990 per omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento.
L’Amministrazione si difende richiamando l’orientamento
giurisprudenziale in base al quale in materia di repressione
di abusi edilizi la natura vincolata dei provvedimenti
escluderebbe la necessità di tale adempimento (TAR Campania,
n. 2103/2015).
La censura è fondata nei seguenti termini.
E’ noto al Collegio che la giurisprudenza è granitica nel
ritenere che in presenza di abusi edilizi l’obbligatorietà
dell’intervento repressivo consenta di prescindere dalla
comunicazione di avvio del relativo procedimento (ex
multis, TAR Calabria, Reggio Calabria, Sez. I,
26.01.2016, n. 83).
Tuttavia, come si argomenterà di seguito, nel caso di specie
l’ordinanza repressiva interessa beni mobili e manufatti in
alcun modo qualificabili come fabbricati ed in relazione ai
quali il contraddittorio avrebbe consentito alla ricorrente
di portare all’attenzione dell’Amministrazione le proprie
ragioni fatte, invece, valere in prima battuta in giudizio)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 20.12.2016 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non possono essere considerate opere
suscettibili di essere oggetto di valutazione di conformità
agli strumenti urbanistici vigenti beni mobili, peraltro
strumentali, all’esercizio dell’attività d’impresa svolta
dalla ricorrente.
Il ricorso deve pertanto essere accolto con riferimento alla
“gru” ed ai “tubi e pallets” menzionati nell’ordinanza
impugnata in relazione ai quali sono fatti salvi gli
ulteriori eventuali provvedimenti della competente autorità
qualora sino posizionati nell’area di rispetto del corso
fluviale.
Analoghe considerazioni valgono, altresì, relativamente al
c.d. “manufatto in lamiera chiuso su tre lati”, indicato
dalla ricorrente come macchinario utilizzato nell’esercizio
delle attività della Ditta e protetto mediante pannelli di
lamiera è posizionato su ruote al fine di poter essere
agevolmente trasportato sull’area di lavoro.
---------------
A diverse conclusioni il Collegio perviene con riferimento
ai residui manufatti (le “baracche di cantiere” e il
container).
Invero, l’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 classifica
come "interventi di nuova costruzione, quelli di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti”
precisando che “sono comunque da considerarsi tali: … e.5)
l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Ai fini della valutazione della precarietà del fabbricato,
come riconciato dalla prevalente giurisprudenza, non rileva
la oggettiva consistenza del medesimo (materiale, struttura,
ancoraggio al suolo) ma la sua destinazione funzionale con
la conseguenza che detta precarietà deve essere esclusa
qualora si tratti di manufatti destinati ad utilità
prolungata.
Si è altresì sottolineato in giurisprudenza che produce
trasformazione urbanistica ogni intervento che alteri in
maniera rilevante e duratura lo stato del territorio, a
nulla rilevando l'eventuale precarietà strutturale (e
l'amovibilità), ove ad essa non si accompagni un uso
assolutamente temporaneo e per fini contingenti e specifici.
Nessun dubbio può sussistere nel caso di specie circa la
stabile collocazione delle baracche e del container in
questione sull’area di proprietà della ricorrente per
soddisfare esigenze durature trattandosi, come già
evidenziato, di circostanza riconosciuta dalla stessa a pag.
5 del ricorso affermando che detti manufatti “esistono da
decenni e sono funzionali all’attività produttiva” con ciò
escludendo quell’utilizzo temporaneo e contingente di cui
alla richiamata norma che consentirebbe di prescindere dal
titolo edilizio.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza prot. gen. 235192
datata 30.12.2015 con la quale il Comune di Parma ha
ordinato alla ricorrente la demolizione di n. 2 baracche da
cantiere, un container in lamiera di modeste dimensioni, un
manufatto in lamiera chiuso su tre lati, una gru, del
materiale in lavorazione e/o magazzino (tubi in ferro,
pallet);
...
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente, con
un primo ordine di censure, deduce l’erroneità dei
presupposti di fatto e di diritto allegando che l’area in
questione non ricadrebbe in fascia vincolata ex L. n.
431/1985, recante “disposizioni urgenti per la tutela
delle zone di particolare interesse ambientale”, poiché
esterna alla perimetrazione operata dagli strumenti
urbanistici vigenti e, in ogni caso, l’Amministrazione non
avrebbe specificato l’esatto posizionamento sul fondo delle
strutture in questione.
Sul punto l’Amministrazione replica richiamando l’art. 142
del D.Lgs. n. 42/2004 laddove dispone che “sono comunque
di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle
disposizioni di questo Titolo: … c) i fiumi, i torrenti, i
corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo
unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti
elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775,
e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di
150 metri ciascuna” (negli stessi termini si esprime
l’art. 82 del d.P.R. n. 616/1977, nel testo modificato
dall’art. 1, del D.L. n. 312/1985 convertito in L. n.
431/1985) e precisando che il provvedimento impugnato
sarebbe riferito alla sola area cortilizia (sulla quale
insisterebbero i pretesi “manufatti”) e non anche
all’area in cui insiste il fabbricato adibito a sede della
Ditta che, è riconosciuto, non ricade in area sottoposta
vincolo.
La censura coglie nel segno solo in parte.
Come reso evidente dalla planimetria depositata
dall’Amministrazione l’area in esame si colloca nella
immediate vicinanze della sponda del torrente Baganza ma
(come si rileva dalla scala ivi riportata) si estende per
oltre 150 metri dall’argine e non vi è prova che i manufatti
contestati siano posizionati entro il limite interessato al
vincolo.
In ogni caso deve rilevarsi che il Comune, con riferimento
alle “opere realizzate” nell’area in questione,
contestava alla ricorrente il difetto del titolo abilitativo
esplicitando in tal modo l’esercizio del potere di vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia del quale è titolare.
Che di tale potere sia espressione il provvedimento
impugnato è reso peraltro palese dall’espresso richiamo
all’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001 in esso contenuto (unica
base normativa).
Con un secondo ordine di censure sviluppate nell’ambito del
medesimo capo d’impugnazione la ricorrente, relativamente
alla natura delle opere oggetto del provvedimento impugnato,
precisa che:
- le “due baracche di cantiere” si trovano
posizionate nell’area di proprietà in attesa di essere
utilizzate, appunto in cantieri e, ai sensi dell’art. 7,
comma 1, lett. f), della L.R. n. 15/2003, non
richiederebbero alcuna autorizzazione (“nel rispetto
della disciplina dell’attività edilizia di cui all’articolo
9, comma 3, sono attuati liberamente, senza titolo
abilitativo edilizio:… f) le opere dirette a soddisfare
obiettive esigenze contingenti, temporanee e stagionali e ad
essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e,
comunque, entro un termine non superiore a sei mesi compresi
i tempi di allestimento e smontaggio delle strutture”);
- il “manufatto in lamiera chiuso su tre lati”
sarebbe dotato di ruote per poter essere agevolmente
spostato sul piazzale e per tale caratteristica non potrebbe
ritenersi un’opera edilizia;
- la “gru” è uno strumento di lavoro e non potrebbe
essere ritenuta una costruzione;
- il container è anch’esso uno strumento per il trasporto di
cose e ad esso sarebbe applicabile quanto prescritto dal già
richiamato art. 7, comma 1, lett. f), della L.R. n. 15/2003;
- i tubi e pallets non sono costruzioni.
L’Amministrazione, sotto un primo profilo, contesta la
natura precaria dei manufatti censiti su detta area poiché,
come avrebbe ammesso la stessa ricorrente “esistono da
decenni e sono funzionali all’attività produttiva” (pag.
5 del ricorso); sotto altro profilo richiama il consolidato
principio giurisprudenziale in base al quale “la
precarietà va esclusa ogni qualvolta l’opera sia destinata a
dare un’utilità prolungata nel tempo” (Cons. Stato, Sez.
VI, n. 419/2003; Sez. V, n. 3321/2000; TAR Emilia Romagna,
Bologna, Sez. II, n. 19/2009)
Il motivo è fondato in parte.
In primis il Collegio rileva che, come già affermato dal
Consiglio di Stato in sede di appello cautelare, non possono
essere considerate opere suscettibili di essere oggetto di
valutazione di conformità agli strumenti urbanistici vigenti
beni mobili, peraltro strumentali, all’esercizio
dell’attività d’impresa svolta dalla ricorrente.
Il ricorso deve pertanto essere accolto con riferimento alla
“gru” ed ai “tubi e pallets” menzionati
nell’ordinanza impugnata in relazione ai quali sono fatti
salvi gli ulteriori eventuali provvedimenti della competente
autorità qualora sino posizionati (e ciò non emerge dal
provvedimento impugnato) nell’area di rispetto del corso
fluviale.
Analoghe considerazioni valgono, altresì, relativamente al
c.d. “manufatto in lamiera chiuso su tre lati”,
indicato dalla ricorrente come macchinario utilizzato
nell’esercizio delle attività della Ditta e protetto
mediante pannelli di lamiera è posizionato su ruote al fine
di poter essere agevolmente trasportato sull’area di lavoro
(qualificazione non smentita dall’Amministrazione).
A diverse conclusioni il Collegio perviene con riferimento
ai residui manufatti (le “baracche di cantiere” e il
container).
La ricorrente, come anticipato, richiama l’art. 7, comma 1,
della L.R n. 15/2003 che, relativamente ad “opere dirette
a soddisfare obiettive esigenze contingenti, temporanee e
stagionali e ad essere immediatamente rimosse al cessare
della necessità e, comunque, entro un termine non superiore
a sei mesi compresi i tempi di allestimento e smontaggio
delle strutture” non richiederebbe il previo rilascio di
alcun titolo abilitativo.
La censura infondata.
L’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 classifica come "interventi
di nuova costruzione, quelli di trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie
definite alle lettere precedenti” precisando che “sono
comunque da considerarsi tali: … e.5) l'installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad
eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee”.
Ai fini della valutazione della precarietà del fabbricato,
come riconciato dalla prevalente giurisprudenza, non rileva
la oggettiva consistenza del medesimo (materiale, struttura,
ancoraggio al suolo) ma la sua destinazione funzionale con
la conseguenza che detta precarietà deve essere esclusa
qualora si tratti di manufatti destinati ad utilità
prolungata (Consiglio di Stato, Sez. V, 28.03.2008 n. 1354).
Si è altresì sottolineato in giurisprudenza che produce
trasformazione urbanistica ogni intervento che alteri in
maniera rilevante e duratura lo stato del territorio, a
nulla rilevando l'eventuale precarietà strutturale (e
l'amovibilità), ove ad essa non si accompagni un uso
assolutamente temporaneo e per fini contingenti e specifici
(v. TAR Puglia, Bari, Sez. III, 10.06.2010, n. 2406).
Nessun dubbio può sussistere nel caso di specie circa la
stabile collocazione delle baracche e del container in
questione sull’area di proprietà della ricorrente per
soddisfare esigenze durature trattandosi, come già
evidenziato, di circostanza riconosciuta dalla stessa a pag.
5 del ricorso affermando che detti manufatti “esistono da
decenni e sono funzionali all’attività produttiva” con
ciò escludendo quell’utilizzo temporaneo e contingente di
cui alla richiamata norma che consentirebbe di prescindere
dal titolo edilizio.
Per quanto precede il ricorso deve essere accolto in parte
nei suesposti termini
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 20.12.2016 n. 360 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendente pubblico, incarico senza sanzioni.
Cassazione. Per mancata comunicazione del compenso.
La Cassazione cancella le sanzioni
applicate ai soggetti che, avendo conferito un incarico
professionale a un dipendente pubblico, non hanno comunicato
i compensi erogati. Per i giudici di legittimità, l’omessa
comunicazione dei compensi ai dipendenti pubblici non è
punibile.
La
sentenza 14.12.2016 n. 25752
della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, potrebbe servire per
eliminare il contenzioso che negli ultimi anni ha creato
molta confusione tra gli addetti ai controlli, Guardia di
Finanza e uffici dell’agenzia delle Entrate. Confusione che
ha interessato anche le modalità di applicazione della
sanzione, che possono arrivare al doppio degli emolumenti
corrisposti al dipendente pubblico.
Per la Cassazione è
sbagliata la pretesa dell’Agenzia, che ritiene di dovere
applicare due sanzioni, una per la mancata comunicazione di
autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza e
l’altra per la mancata comunicazione dei compensi
corrisposti. Come riportato al punto 3 della sentenza
25752/2016: «Con sentenza n. 98 del 2015 la Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 53, comma 15, del decreto legislativo n. 165
del 2001, nella parte in cui prevede che “i soggetti di cui
al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11
incorrono nella stessa sanzione di cui allo stesso comma
9”».
Il richiamato comma 9 dispone che «gli enti pubblici
economici e i soggetti privati non possono conferire
incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa
autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei
dipendenti stessi». Le comunicazioni di cui al comma 11
riguardano l’ammontare dei compensi erogati ai dipendenti
pubblici che devono fare i soggetti pubblici o privati
all’amministrazione di appartenenza dei dipendenti pubblici.
Nella predetta sentenza si legge che «questa Corte, con
sentenza n. 13474 del 2016, ha, quindi, affermato che in
materia di sanzioni amministrative, l’omessa comunicazione
dei corrispettivi per l’espletamento di incarichi non
autorizzati dall’amministrazione di appartenenza non è
soggetta alla sanzione di cui all’articolo 53, comma 15, del
decreto legislativo n. 165 del 2001, attesa l’intervenuta
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma
(Corte costituzionale, n. 8 del 2015) per essere la condotta
già ricompresa nel divieto di conferimento di incarichi
senza autorizzazione, risolvendosi la sua autonoma sanzionabilità in una duplicazione raccordata a un
adempimento formale».
Grazie alla sentenza della Cassazione
si può sperare che gli uffici abbandonino il contenzioso in
corso (articolo Il Sole 24 Ore del
26.01.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Asili
nido? Non in condominio. Prevale il regolamento che
impedisce le attività rumorose. Una
sentenza della Corte di cassazione sul servizio all'interno
delle unità immobiliari.
Asili nido vietati in condominio se il regolamento
contrattuale impedisce lo svolgimento di attività rumorose
nelle unità immobiliari che compongono l'edificio.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 06.12.2016 n. 24958 con la quale sono
state confermate le precedenti sentenze di merito del
tribunale e della Corte di appello di Roma.
Il caso concreto.
Nella specie l'assemblea di un condominio aveva deliberato
di vietare a un condomino la continuazione dell'attività di
asilo nella propria unità immobiliare sita al primo piano
dello stabile, richiamandosi alla vigenza di una
disposizione regolamentare che impediva lo svolgimento di
attività rumorose.
Il condomino aveva allora impugnato la delibera dinanzi al
tribunale capitolino e il condominio si era ritualmente
costituito in giudizio per mezzo del proprio amministratore,
chiedendo il rigetto dell'impugnativa e, in via
riconvenzionale, l'ordine di chiusura dell'asilo nido.
Il tribunale, espletata una consulenza tecnica d'ufficio per
l'accertamento del grado di rumorosità dell'attività
esercitata nell'immobile, aveva dichiarato la legittimità
della delibera impugnata e, in accoglimento della domanda
riconvenzionale azionata dal condominio convenuto, aveva
ordinato al proprietario dell'appartamento di far cessare
immediatamente la predetta attività, in quanto esercitata
contrariamente a quanto previsto dal regolamento
condominiale di natura contrattuale.
La sentenza era stata allora impugnata dinanzi alla Corte di
appello, che aveva a sua volta confermato la legittimità
della decisione assembleare. Quest'ultimo provvedimento era
stato quindi portato all'esame della Cassazione.
La decisione della Suprema corte.
Nella sentenza in questione i giudici di legittimità hanno
ritenuto di essere stati impropriamente chiamati a valutare
nel merito la decisione assunta dalla Corte di appello
capitolina, con particolare riferimento all'interpretazione
del regolamento condominiale.
La seconda sezione civile della Cassazione ha infatti
ricordato come l'interpretazione dei contratti costituisca
attività riservata ai giudici di merito e sia censurabile in
sede di legittimità soltanto per violazione dei relativi
criteri legali previsti dagli artt. 1362 ss. del codice
civile ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa
risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non
consentire il controllo del procedimento logico seguito per
giungere alla decisione.
In particolare, la difesa del condomino ricorrente aveva
eccepito il fatto che il divieto regolamentare vietasse
espressamente un utilizzo degli appartamenti «contrario
alla tranquillità dell'intero fabbricato», laddove
all'esito della consulenza tecnica d'ufficio disposta dal
tribunale era emerso che il rumore proveniente dall'asilo
nido risultasse non tollerabile soltanto con riferimento a
due appartamenti sui 26 che componevano l'edificio.
La Suprema corte, come detto, ha però ritenuto che la
questione posta dalla difesa di parte ricorrente si
risolvesse niente altro che nella richiesta di
un'interpretazione del disposto regolamentare differente da
quella sposata dai giudici di merito, attività però preclusa
al giudice di legittimità.
I divieti imposti dal regolamento
condominiale. La
Cassazione si è occupata di recente più volte del tema dei
divieti posti dai regolamenti condominiali di natura
contrattuale al libero esercizio delle facoltà comprese nel
diritto di proprietà dei singoli condomini sulle rispettive
unità immobiliari. Si tratta indubbiamente di un argomento
per così dire sdrucciolevole, per il quale è necessario
prendere posizione caso per caso, previa analisi e
interpretazione dell'effettivo dettato regolamentare, con la
conseguente difficoltà di stabilire criteri generali e
univoci.
Su ItaliaOggi Sette si è per esempio data notizia delle due
sentenze con le quali la Suprema corte, nello spazio di
appena poco più di un anno, ha assunto posizioni difformi in
merito a un altro tema spinoso analogo a quello della
compatibilità dell'asilo nido con la serena convivenza in un
edificio condominiale, ovvero quello dell'esercizio
dell'attività di bed & breakfast.
I giudici di legittimità, infatti, mentre in un primo
momento avevano fatto rientrare tale ipotesi nell'ambito
dell'utilizzo a fini abitativi delle unità immobiliari site
in condominio, con conseguente inapplicabilità dei divieti
regolamentari relativi all'esercizio di hotel e
affittacamere (sentenza n. 24707 del 20/11/2014),
successivamente, in una fattispecie per molti versi analoga,
aveva invece ritenuto di vietarla per la tutela del decoro e
della tranquillità dell'edificio imposta dal regolamento
condominiale (sentenza n. 109 del 07/01/2016).
Identico discorso può farsi per la possibilità di aprire
degli asili nei condomini nei quali il regolamento vieti
attività contrarie alla tranquillità della vita quotidiana.
Non mancano, infatti, i precedenti di merito e di
legittimità con i quali i giudici hanno dovuto scegliere tra
il sacrificio dell'interesse di un condomino allo
svolgimento di detta attività imprenditoriale e quello della
restante compagine condominiale alla serenità della propria
abitazione.
Allorché il regolamento condominiale non contenga un elenco
espresso delle attività vietate in condominio, ma si limiti
a individuare gli interessi che si intendono tutelare o,
detto in altro modo, i pregiudizi che si intendono evitare
alla compagine condominiale, è come detto necessaria una più
attenta analisi interpretativa del divieto.
Sul punto vi è da osservare come in una recente decisione
(sentenza n. 21307 del 20/10/2016, in ItaliaOggi Sette del
31/10/2016), dopo avere evidenziato come il regolamento
contrattuale possa imporre limitazioni alle facoltà di
godimento dei condomini sulle proprietà esclusive sia
mediante elencazione di attività vietate sia con riferimento
ai pregiudizi che si intendono evitare, la Cassazione abbia
ritenuto che in questo secondo caso, proprio per meglio
circoscrivere l'ambito applicativo dei predetti limiti, i
divieti debbano risultare da disposizioni chiare e
specifiche, che facciano riferimento alle attività e ai
correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende
evitare, in modo da consentire una verifica a posteriori
sulla meritevolezza dell'interesse al quale si intende
sacrificare la compressione del diritto di proprietà.
Di conseguenza, come sottolineato dalla Suprema corte,
nell'interpretazione dei divieti regolamentari deve farsi
riferimento al tenore letterale delle singole disposizioni,
evitando interpretazioni estensive, e verificare la
chiarezza e specificità, dunque l'effettiva applicabilità,
delle singole clausole.
L'interpretazione del divieto regolamentare in alcuni casi
può quindi risultare agevole (si pensi al classico divieto
di attività notturna e alla conseguente impossibilità di
adibire le unità immobiliari a uso panetteria con annesso
laboratorio), mentre il più delle volte affatica non poco
quanti siano chiamati a verificarne la concreta
applicabilità. Si pensi, appunto, alla predetta clausola di
salvaguardia della tranquillità dell'edificio e alla
compatibilità con essa dello svolgimento di attività che
possano creare un abnorme afflusso di pubblico o generare
abnormi immissioni rumorose.
In ogni caso è bene ricordare come sia del tutto
irrilevante, da un punto di vista giuridico, l'eventuale
tolleranza manifestata per anni all'esercizio di attività
vietate dal regolamento condominiale, poiché questo tipo di
clausole, per la loro evidente natura contrattuale, possono
essere modificate soltanto con il consenso scritto
dell'intera compagine condominiale
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vecchio abuso resta in piedi. Addio demolizione se il
privato fa affidamento sull'opera.
Tar Lombardia: il comune deve motivare l'interesse pubblico
dopo il trascorrere del tempo.
Stop alle ruspe. Non devono essere abbattute le piscine
interrate e le altre vecchie opere abusive del centro
fitness se il comune non spiega perché persista l'interesse
pubblico alla demolizione benché sia passato tanto tempo
dalla realizzazione dei manufatti; nel frattempo si è
infatti formato nel privato un affidamento sulla situazione.
È quanto emerge dalla
sentenza 06.12.2016 n. 2307, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Lombardia-Milano, che si pone in contrasto con
l'orientamento prevalente della giurisprudenza
amministrativa.
Legalità e sacrificio.
Accolto il ricorso del centro sportivo: le opere che
l'amministrazione vuol far rimuovere risalgono a quasi
cinquant'anni or sono e sorgono fuori dal centro urbano, in
una zona rurale, dove all'epoca non serviva la licenza
edilizia. Il tutto mentre gli strumenti urbanistici che
risultano vigenti al momento dell'ordine di demolizione
consentono la destinazione sportiva nell'area.
Secondo l'indirizzo interpretativo prevalente fra i giudici
amministrativi il semplice decorso del tempo non può sanare
l'opera abusiva: l'ordine di demolizione del manufatto
contro legge, spiegano, resta comunque un atto dovuto.
Stavolta però il collegio sostiene che non si può ordinare
di abbattere piscine, spogliatoi e servizi che risalgono
agli anni Sessanta senza motivare la prevalenza
dell'interesse pubblico a ripristinare la legalità rispetto
al sacrificio imposto al centro sportivo. E ciò perché le
difformità rilevate sono di lieve entità e soprattutto in
considerazione del tempo che è passato. Senza dimenticare il
protrarsi dell'inerzia da parte dell'amministrazione, che si
accorge dagli abusi a mezzo secolo dalla realizzazione. Il
Comune paga le spese di giudizio al centro sportivo.
Giudizio di difformità.
In altre circostanze, invece, i giudici amministrativi
hanno invece sostenuto che il mero decorso del tempo non
solo sana l'abuso, ma lo rafforza. E dunque hanno deciso che
l'opera abusiva va demolita anche se è stata realizzata
oltre 15 anni prima: il tutto perché il comune non ha
discrezionalità in materia né si configura alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
contro legge.
È quanto emerge dalla sentenza 1448/2016, pubblicata
dalla I Sez. del TAR per il Piemonte.
Niente da fare per il responsabile degli abusi: si tratta di
manufatti senza titolo che pure sono stati costruiti
presuntivamente fra il 2009 e il 2001. Il responsabile del
servizio tecnico dell'ente rileva che la copertura del
deposito è più alta del dovuto, mentre il muro esterno è
avanzato di qualche metro.
Inconferente risulta la censura del proprietario
dell'immobile secondo cui le opere sono state sì realizzate
senza titolo, ma risulterebbero comunque conformi alla
disciplina edilizia e urbanistica: il fatto è che il
provvedimento sanzionatorio della pubblica amministrazione
ha natura vincolata e scatta unicamente dopo l'accertamento
di fatto secondo cui l'intervento edilizio non è ritenuto
conforme al titolo abilitativo rilasciato.
Il mero decorso del tempo dall'abuso non può mai essere
utilizzato in favore dell'abuso né è richiesta una
valutazione sull'interesse pubblico ad abbattere il
manufatto. Sul muro esterno, invece, il ricorso risulta
improcedibile perché è stata chiesta la sanatoria:
l'ordinanza di demolizione sarà sostituita da una
concessione in sanatoria o da un nuovo provvedimento
sanzionatorio.
Assetto violato.
Neppure i piccoli manufatti si salvano. Va abbattuta la
veranda realizzata chiudendo il balconcino della cucina
senza permesso di costruire. E ciò anche se il Comune ci ha
messo tre anni per accorgersene: il titolo edilizio risulta
necessario pure di fronte a un'opera di modeste dimensioni
perché in campo urbanistico la nozione di pertinenza
dell'immobile è più rigorosa rispetto a quella squisitamente
civilistica.
È quanto emerge dalla sentenza 1601/2016, pubblicata
dalla terza sezione del TAR Puglia, Sez. distaccata di
Lecce.
Il proprietario deve rassegnarsi a demolire l'opera, anche
se il balconcino che ha chiuso è meno di un metro e mezzo
per ottantacinque centimetri (e tre metri d'altezza).
Inutile sostenere che si tratti di un intervento di restauro
e risanamento conservativo che non sarebbe soggetto al
permesso di costruire: la veranda può sì essere considerata
un bene pertinenziale secondo la normativa privatistica, ma
assume comunque una funzione autonoma rispetto all'immobile
principale. E soprattutto incide sull'assetto edilizio
preesistente in quanto determina un incremento del carico
urbanistico: ecco perché il titolo abilitativo risulta
necessario.
D'accordo, ma i tre anni aspettati dal Comune senza nulla
eccepire? Il tempo, concludono i giudici, non può
legittimare in via di fatto il responsabile dell'abuso,
mentre il potere dell'amministrazione di intervenire e
sanzionare deve ritenersi inesauribile.
Legittimo affidamento.
Attenzione, però. Ci sono anche altri casi in cui
l'inerzia sull'abuso può costare cara all'amministrazione.
Per il Comune la serra realizzata sul terrazzo è contro
legge e deve essere abbattuta. Ma resta dov'è, almeno per
ora, perché l'ente locale ha emesso l'ordine di demolizione
senza prima rimuovere il titolo che si è formato nel
frattempo grazie alla segnalazione certificata d'inizio
attività.
È quanto emerge dalla sentenza 2557/2014, pubblicata
dalla II Sez. del TAR Lombardia.
Accolto il ricorso del proprietario
dell'immobile.
Sbaglia l'amministrazione che con i suoi atti difensivi
cerca di dimostrare che vi sarebbe contrasto fra le opere
realizzate e la Scia, oltre che irregolarità progettuali. E
ciò perché nel processo amministrativo per l'integrazione
motivazionale serve un provvedimento ad hoc dell'ente
e non si può battere la strada delle con mere argomentazioni
difensive.
Nel nostro caso l'atto di sospensione dei lavori e l'ordine
di abbattere la serra non indicano in maniera chiara e
puntuale dove sta il contrasto fra opere effettivamente
realizzate dal ricorrente e opere autorizzate. Insomma:
manca la prova che il manufatto incriminato non sia conforme
al titolo e il Comune non può esercitare il potere
sanzionatorio, cioè adottare l'ordine di demolizione, a meno
che non provveda a «rimangiarsi» il titolo edilizio
esercitando i suoi poteri di autotutela.
Ma al momento in cui l'ente locale blocca i lavori e dispone
che il manufatto sia abbattuto risulta già scaduto da molto
tempo il termine di trenta giorni entro il quale è
consentito l'esercizio del potere di autotutela, previsto
dall'articolo 19, comma 6-bis, della legge 241/1990; si
sarebbe comunque trattato di un'autotutela sui generis:
un vero e proprio provvedimento amministrativo di primo
grado non c'è, ma con lo spirare del termine concesso dalla
legge per l'esercizio del potere inibitorio si consolida in
capo al privato una situazione di particolare affidamento
che può essere sacrificata solo attraverso l'esercizio di un
potere assimilabile a quello previsto in presenza di un
provvedimento esplicito.
In soldoni: non si può costringere il proprietario a
demolire la serra realizzata sul terrazzo laddove l'ente
locale non rimuove prima il titolo formatosi nel frattempo
con la segnalazione certificata d'inizio attività.
Azione e condizioni.
Ancora. La Scia è spia d'abuso. Deve ritenersi che la
segnalazione certificata di inizio attività abbia valore
confessorio dell'irregolarità edilizia commessa: se quindi
il Comune non interviene entro trenta giorni, scatta il
titolo abilitativo in sanatoria come effetto previsto dalla
legge, indipendentemente da un'eventuale diversa volontà
delle parti. Risultato: è sanato l'abuso che aveva fatto
scattare l'ordine di demolizione del solaio, risultato più
alto di 60 centimetri rispetto al dovuto, e l'ente locale
non ha più interesse ad agire.
Lo precisa il Consiglio di Stato con la sentenza
1534/2014, pubblicata dalla V Sez..
È dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza
d'interesse il ricorso proposto dall'amministrazione. Il
Comune non contesta che sia effettivamente decorso il
termine di 30 giorni dalla presentazione della Scia senza
che sia stato adottato e comunicato alcun provvedimento di
divieto di prosecuzione dell'attività: ne consegue che oggi
il solaio un tempo abusivo dispone di un titolo abilitativo,
sia pure in sanatoria dell'attività edilizia originariamente
abusiva.
Sono quindi venute meno nelle more del giudizio le
condizioni dell'azione che devono persistere per tutto il
tempo della lite. Spese compensate per la peculiarità della
questione
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.01.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Raccomandata
in posta: la notifica si perfeziona al più tardi in 10
giorni.
Procedimento. Termini più stretti per la compiuta giacenza
rispetto a quelli previsti dal regolamento postale in caso
di mancato recapito.
In caso di mancato recapito di una
raccomandata contenente un avviso di accertamento per
temporanea assenza del destinatario, la tentata notifica si
perfeziona al più tardi entro dieci giorni anziché entro il
maggior termine di 30 giorni. Il minor regime della compiuta
giacenza previsto dalla legge sulla notificazione prevale,
infatti, sul maggior termine previsto dal regolamento
postale.
Così si è espressa
la Ctr Lombardia con sentenza n. 6278/28/2016
(presidente Malaspina, relatore Ramondetta).
L’amministrazione finanziaria tramite servizio postale “tenta
la notifica” di due atti il 30 e 31.10.2013 nei
confronti di una società di automazione industriale, che li
ritira entrambi alla posta il 21.11.2013 e li impugna poi il
20.01.2014.
Secondo l’ufficio i due ricorsi proposti sono tardivi,
perché secondo la norma della notificazione tramite servizio
postale (articolo 8, legge 890/1992):
-
in caso di ritiro del plico entro dieci giorni dalla data
della tentata notifica, il ricorso si presenta entro 60
giorni dalla data di ritiro dell’atto;
-
in caso di ritiro del plico oltre i dieci giorni dalla data
della tentata notifica, si impugna entro 60 giorni dal
decimo giorno successivo a quello della tentata notifica.
In base alla tesi dell’ufficio, dunque, i termini per il
ritiro del plico sarebbero stati il 9 e 10.11.2013 e i
ricorsi avrebbero dovuto essere presentati entro l’8 e il
09.01.2014, anziché il 20.
Eppure la notificazione tramite servizio postale prevede che
la raccomandata ordinaria non consegnata possa restare in
giacenza per un periodo di 30 giorni (articolo 40, Dpr
655/1982). Secondo la società contribuente, infatti,
nonostante il primo tentativo di fine ottobre, la notifica
si sarebbe perfezionta il giorno del ritiro, cioè il
21.11.2013 (entro il termine massimo del 29 e 30 novembre),
e l’impugnazione del 20 gennaio sarebbe tempestiva perché
nei 60 giorni.
Secondo i giudici di merito, in conclusione, i due ricorsi
sono tardivi. La Ctr ricorda che, in caso di mancato
recapito per temporanea assenza del destinatario di una
raccomandata contenente un avviso di accertamento, si
ricorre entro 60 giorni dal ritiro se questo avviene entro
dieci giorni dalla data di tentata notifica, ovvero entro 60
giorni dal decimo giorno successivo alla data di notifica se
il ritiro avviene oltre il decimo giorno. Questo perché il
regime della compiuta giacenza (legge 890/1982) si applica
anche alle raccomandate ordinarie per atti giudiziari.
Trascorsi, pertanto, inutilmente dieci giorni dalla
spedizione del plico senza ritiro da parte del destinatario,
l’avviso di ricevimento è restituito al mittente con
annotazione in calce sottoscritta dall’agente postale della
data di avvenuto deposito e l’indicazione: «Atto non
ritirato entro il termine di dieci giorni»
(articolo Il Sole 24 Ore del
16.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Gonfaloni
pubblicitari a ostacoli. Sentenza
Cds.
I gonfaloni pubblicitari da installare sui pali elettrici
possono essere vietati dal regolamento comunale. Per
assumere questa determinazione l'ente locale gode infatti di
ampia facoltà discrezionale.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con
sentenza 17.11.2016 n. 4794.
Il comune di Firenze dopo un intenso contenzioso con ditte
interessate all'installazione di impianti promozionali ha
deciso di modificare il regolamento sulla pubblicità
eliminando i gonfaloni dal novero dei mezzi pubblicitari
utilizzabili sul territorio comunale anche in relazione ad
evidenti problemi di statica dei pali di appoggio.
Contro questa determinazione alcuni interessati hanno
proposto con successo ricorso al Tar ma i giudici di palazzo
Spada hanno ribaltato la vicenda. La liberalizzazione
dell'attività di impresa non può essere incondizionata. I
pali dell'illuminazione pubblica, di proprietà comunale,
possono sicuramente essere ritenuti non idonei
all'installazione di impianti pubblicitari.
Quindi i privati non possono rivendicare alcun diritto di
installazione di gonfaloni
(articolo ItaliaOggi del 24.01.2017). |
APPALTI: Senza
cauzione? Non si esce dalla gara.
La mancata presentazione dell'impegno del fideiussore a
rilasciare la cauzione definitiva in caso di aggiudicazione
dell'appalto non comporta l'esclusione dalla gara, ma fa
scattare il soccorso istruttorio a pagamento.
Questo è il principio espresso dal TAR Liguria, Sez. II,
con la
sentenza
17.10.2016 n. 1023.
Il collegio ha affermato che tutti gli elementi che
influiscono sul contenuto dell'offerta nelle sue componenti
di offerta tecnica ed economica, ovvero sulla prestazione o
bene proposto dal concorrente non possono essere sanati
mediante il ricorso al soccorso istruttorio.
Inoltre si sottolinea che l'istituto del soccorso, trova
comunque il limite della par condicio tra i concorrenti, e
tuttavia limita l'operatività della par condicio al
contenuto dell'offerta. Tutti gli altri elementi invece
possono essere sanati con conseguenze negative, previste e
accettate dal legislatore, sulla par condicio stessa.
Quindi, prosegue la sentenza, la possibilità di applicare il
soccorso istruttorio dipende dalla qualifica o meno di
elemento che attiene al contenuto dell'offerta e che, se
fatto conoscere successivamente rispetto alla presentazione
delle offerte, è idoneo a violare il principio della par
condicio tra i concorrenti.
L'organo giudicante ha concluso nel senso che la
presentazione della polizza fideiussoria è un elemento
essenziale ma non attiene al contenuto dell'offerta: quindi,
nel caso in cui manchi, è applicabile il soccorso
istruttorio ai sensi dell'art. 46, comma 1-ter, decreto
legislativo n. 163 del 2006
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.01.2017).
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MASSIMA
Nel merito il ricorso è fondato.
L’art. 46 d.lgs. 163/2006, applicabile ratione temporis
alla fattispecie, stabiliva “1. Nei limiti previsti dagli
articoli da 38 a 45, le stazioni appaltanti invitano, se
necessario, i concorrenti a completare o a fornire
chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati,
documenti e dichiarazioni presentati.
1-bis. La stazione appaltante esclude i candidati o i
concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni
previste dal presente codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza
assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali
ovvero in caso di non integrità del plico contenente
l'offerta o la domanda di partecipazione o altre
irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e
le lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono
comunque nulle. 1-ter. Le disposizioni di cui all'articolo
38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza,
incompletezza o irregolarità degli elementi e delle
dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere
prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al
disciplinare di gara”.
A sua volta l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 163/2006
stabiliva: “2-bis. La mancanza, l'incompletezza e ogni
altra irregolarità essenziale degli elementi e delle
dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il
concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore
della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno
per mille e non superiore all'uno per cento del valore della
gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui
versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal
caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un
termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie,
indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere.
Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza
o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la
stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né
applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del
termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso
dalla gara. Ogni variazione che intervenga, anche in
conseguenza di una pronuncia giurisdizionale,
successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o
esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di
medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia
di anomalia delle offerte.”
L’ambito dell’istituto del soccorso istruttorio dipende dal
discrimine tra la qualifica di essenzialità o non
essenzialità dell’offerta tale da ingenerare, o meno, una
situazione di incertezza sul contenuto dell’offerta e cioè
sull’idoneità a garantire alla stazione appaltante il
raggiungimento del perseguito con la gara indetta dalla
stazione appaltante.
Tale conclusione è ritraibile dal comma 1-bis dell’art. 46
che fa riferimento al contenuto dell’offerta, di talché
tutti gli elementi che influiscono sul contenuto
dell’offerta nelle sue componenti di offerta tecnica ed
economica, ovvero sulla prestazione o bene proposto dal
concorrente non possono essere sanati mediante il ricorso al
soccorso istruttorio.
L’istituto, seppur
oggetto di numerose modifiche legislative,
trova comunque il limite della par condicio tra i
concorrenti e tuttavia limita l’operatività della par
condicio al contenuto dell’offerta così inteso. Tutti
gli altri elementi, al contrario, possono essere sanati con
conseguenze negative sulla par condicio conseguenze
tuttavia che il legislatore ha previsto e accettato.
In altre parole,
il discrimine tra la possibilità di esercitare il soccorso
istruttorio da parte delle stazioni appaltanti oppure no è
dato dalla qualifica o meno di elemento che attiene al
contenuto dell’offerta e che, se fatto conoscere o messo a
disposizione della stazione appaltante, in un momento
successivo rispetto alla presentazione delle offerte, è
chiaramente idoneo a violare il principio della par
condicio tra i concorrenti.
Nel caso di specie Ba.Ca. avrebbe omesso di depositare la
dichiarazione di impegno di cui all’art. 75, comma 8, D.Lgs.
n. 163 dl 2006 “l’offerta è altresì corredata, a pena di
esclusione, dall’impegno di un fideiussore a rilasciare
garanzia fideiussoria per l’esecuzione del contratto, di cui
all’art. 113, qualora l’offerente risultasse affidatario”,
disposizione richiamata nel Disciplinare di gara all’art. 9.
Il dettato dell’art. 75, comma 8, D.Lgs. n. 163 del 2006 e
del conforme art. 9 del disciplinare di gara non lasciano
spazio a dubbi quando annoverano la mancata allegazione di
tale dichiarazione di impegno tra le cause tassative che
legittimano la stazione appaltante all’esclusione di una
partecipante da una procedura ad evidenza pubblica.
L’allegazione di una dichiarazione da parte di una soggetto
terzo in ordine alla presentazione di una cauzione
definitiva è volta, da un lato, a ulteriormente rafforzare
la complessiva affidabilità dell’offerta formulata
dall’altra, in via mediata, a garantire l’amministrazione
circa la corretta esecuzione del servizio in vista della
tutela dell’interesse pubblico perseguito dalla stessa.
Tale elemento se pur essenziale non attiene al contenuto
dell’offerta.
E’ lo stesso tenore letterale della norma trascritta ad
escludere che l’impegno del fideiussore costituisca elemento
attinente al contenuto dell’offerta.
Invero l’elemento in questione è proveniente da un terzo ed
è previsto quale corredo dell’offerta stessa, con ciò
evidenziando come tale elemento non costituisca parte
integrante e costitutiva né dell’offerta economica né di
quella tecnica, conclusione quest’ultima che, se pure
intuitivamente raggiungibile, non pertinendo l’impegno del
fideiussore né all’offerta tecnica né a quella economica e
non influendo sulla quantità e qualità dei beni e servizi
offerti, è stata resa esplicita dalla norma mediante la
previsione che l’impegno del fideiussore sia posto a corredo
dell’offerta.
Sul punto non assume rilevanza la circostanza che la norma
sanzioni l’omessa produzione dell’impegno con l’esclusione.
Deve, infatti, rilevarsi come la norma sia stata introdotta
precedentemente alle modifiche all’art. 46 d.lgs. 163/2006
da ultimo intervenute di talché l’essenzialità o meno di un
elemento ai fini nell’economia dell’offerta non può trarsi
dalla sanzione che presidia la mancata produzione
dell’elemento stesso.
Una volta acclarato che l’impegno del fideiussore non
attiene al contenuto dell’offerta non sussistono dubbi sulla
piena operatività dell’istituto del soccorso istruttorio,
come previsto, nella sua amplissima latitudine dall’art. 46,
comma 1-ter, d.lgs. 163/2006.
Il Collegio non ignora le possibili ricadute negative sulla
par condicio che l’applicazione del soccorso
istruttorio, inteso in questa latissima accezione, può
comportare. Si pensi solo per restare alla presente
fattispecie, la diversa urgenza che si traduce
inevitabilmente in un diverso costo per il reperimento di un
fideiussore tra il concorrente che diligentemente rispetta i
termini del bando e il concorrente che, infrangendoli,
invece attende fino alla richiesta della stazione
appaltante.
E, tuttavia, il Collegio ritiene che il
legislatore, con
scelta insindacabile in questa sede siccome immune da vizi
di ragionevolezza,
abbia inteso, in tutte le ipotesi in cui il difetto degli
elementi non attenga al contenuto dell’offerta, sostituire
la sanzione espulsiva con una sanzione pecuniaria, quella
prevista dall’art. 38, comma 1-bis, d.lgs. 163/2006 articolo
espressamente richiamato dall’art. 46, comma 1-ter, d.lgs.
163/2006.
Pertanto,
per tutti gli elementi essenziali ma non attinenti al
contenuto dell’offerta, tra i quali ovviamente anche
l’impegno del fideiussore, la cui essenzialità nell’ottica
della previsione di cui all’art. 38, comma 2-bis, d.lgs.
163/2006, deriva dalla previsione normativa dell’esclusione
in caso di mancata produzione deve ritenersi la sostituzione
della sanzione espulsiva con quella pecuniaria.
Ne consegue che, nella specie, la ricorrente dovrà essere
ammessa al prosieguo della procedura previa applicazione da
parte della stazione appaltante della sanzione di cui
all’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 163/2006. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Antincendio,
l’«esiguità» si valuta. Sicurezza. Le omissioni non sono mai
del tutto «inoffensive».
Le compagnie assicurative, al
momento di sottoscrivere la polizza globale antinfortuni e
di responsabilità civile, richiedono agli amministratori dei
condomìni il certificato antincendio. Questo, secondo
l’articolo 4 del Dlgs 139/2006, attesta il rispetto delle
prescrizioni previste dalla normativa di prevenzione
antincendi e la sussistenza dei requisiti di sicurezza
antincendio in determinati locali. Sono anche previste
misure per prevenire incendi e tutelare l’incolumità dei
lavoratori. Questi provvedimenti vanno inserite nel
documento di valutazione dei rischi.
La Corte di Cassazione - Sez. III penale, con la
sentenza 22.03.2016 n. 12188, ha trattato il caso
di un soggetto che, in qualità di titolare di un serbatoio
di gas liquido , aveva omesso di richiedere il prescritto
certificato di prevenzione incendi e di segnalare l’inizio
dell’attività.
La Corte ha dichiarato la sussistenza della contravvenzione
prevista dagli articoli 4 e 5 del Dlgs 139/2006 a causa
della piena disponibilità del serbatoio e del gas liquido in
esso depositato «da cui deriva l’obbligo di osservanza
delle norme di esercizio e dei divieti, limiti e misure di
sicurezza antincendio contemplati dalla legislazione
vigente. Ne consegue, trattandosi di fattispecie
contravvenzionale, punita anche a titolo di colpa,
l’insussistenza (...) del vizio di motivazione denunciati
dal ricorrente, essendo stata correttamente ravvisata la
responsabilità del ricorrente quale destinatario delle
prescrizioni antincendio e rimanendo, di conseguenza,
irrilevante la mancata consegna delle documentazione
necessaria dal fornitore».
La Cassazione ha quindi annullato (con rinvio al Tribunale)
la sentenza di condanna perché sia valutata l’esclusione
della punibilità, ai sensi dell’articolo 131-bis del Codice
penale, essendo stava accertata dal Tribunale l’incensuratezza
del ricorrente ed il suo positivo comportamento successivo.
La Cassazione ha affermato che l’articolo 131-bis si
riferisce anche ai reati di pericolo, senza distinguere tra
pericolo astratto o pericolo concreto, «sicché non si
pone un problema di inoffensività del fatto ma di
irrilevanza dello stesso. La esiguità del danno o (come nel
caso di specie) del pericolo va valutata sulla base di
elementi oggettivamente apprezzabili, dai quali ricavare la
minima entità delle conseguenza o del pericolo e, dunque, la
loro irrilevanza in sede penale» (articolo Il Sole 24 Ore del
24.01.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: MATERIALI PROVENIENTI DA DEMOLIZIONI.
Rifiuti - Sono rifiuti i materiali provenienti da
demolizioni -
Abbandono di detti materiali - Realizzazione di discarica
abusiva - Accertamento - Necessità di consulenza tecnica
- Esclusione.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
I materiali provenienti da demolizioni
rientrano nel novero
dei rifiuti in quanto oggettivamente destinati all'abbandono
e l'eventuale recupero è condizionato a
precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali
vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore
ha l'intenzione di disfarsi.
Ne deriva che l’abbandono
di materiale proveniente da demolizione di strutture
edili, misto a terre e rocce da scavo, livellato ed
accumulato
nel corso degli anni, integra il reato di discarica
abusiva per il cui accertamento non occorre alcuna
consulenza
tecnica che stabilisca la composizione morfologica
dei materiali rinvenuti.
Il Tribunale del riesame confermava il sequestro preventivo
avente ad oggetto un'area di circa 4.000 mq. in relazione al
reato di cui all'art. 256, commi 1 e 3, D.Lgs. n. 152/2006.
Nel proposto ricorso per cassazione, gli imputati
lamentavano
che la motivazione dell'ordinanza impugnata era apparente,
illogica ed incoerente e che il Tribunale aveva
omesso di considerare le allegazioni difensive, concernenti
l'insussistenza di una discarica, per essere il terreno
interessato
dalla sola presenza di rocce, utilizzate per lavori di
piccola manutenzione del fondo.
Sostenevano, inoltre, che la composizione morfologica dei
materiali rinvenuti non era stata accertata, come
necessario,
mediante consulenza tecnica e che non si era tenuto
conto della natura di sottoprodotto dei materiali rinvenuti
sull'area in sequestro, provenienti da attività di
escavazione
effettuata in fondi limitrofi di proprietà e al riutilizzo
in successivi
processi di produzione.
Sostenevano, infine, che, nella fattispecie, mancavano i
requisiti,
individuati dalla giurisprudenza per la configurabilità
del reato di discarica abusiva.
Il ricorso è stato respinto.
In primo luogo, la Corte ha rilevato che il Tribunale aveva
evidenziato come, dal verbale di sequestro e dalla
documentazione
fotografica acquisita, risultava che l'area sottoposta
a sequestro, soggetta a vincolo idrogeologico, ZPS e
ubicata in zona B del Parco dei Nebrodi, era interessata
dalla presenza di materiale proveniente da di strutture
edili
misto a terre e rocce da scavo, per un volume di circa 350 mc, livellato ed accumulato, nel corso degli anni, con
l'apparente
ausilio di mezzi meccanici.
I giudici del riesame avevano spiegato che le emergenze
indiziarie smentivano le contrarie allegazioni difensive,
volte
a sostenere la provenienza dei materiali dall'attività di
scavo e la successiva utilizzazione in successive attività.
La sentenza in epigrafe ha poi chiarito che, ai fini della
configurabilità
del reato ipotizzato, non è affatto necessario
l'espletamento
di una consulenza tecnica per accertare la natura
e la composizione dei rifiuti né, tanto meno, per
verificarne
la quantità esatta, quando, come nel caso di specie,
tali dati erano verificabili attraverso l'esame diretto.
Infatti, l'art. 184, comma 3, lett. b), D.Lgs. n. 152/2006
definisce
come rifiuti speciali quelli derivanti dalle attività di
demolizione
e costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle
attività di scavo e pertanto, tenuto conto delle
caratteristiche
dei materiali presenti sull’area, non erano necessarie
particolari verifiche o analisi, essendo immediatamente
rilevabile
la provenienza del rifiuto trattandosi di materiali del
quale solitamente ci si disfa.
La Corte ha poi osservato che i ricorrenti si erano riferiti
del
tutto incidentalmente ad una non meglio specificatività del
deposito» ed avevano anche affermato che i materiali erano
classificabili come sottoprodotti.
Tali circostanze risultavano, però, platealmente smentite
da un dato fattuale inequivocabile posto in evidenza dai
giudici del riesame e cioè che i rifiuti risultavano
livellati ed
accumulati sul posto nel corso degli anni, verosimilmente
mediante l'ausilio di mezzi meccanici. Una simile evenienza
era, da sola, chiaramente sintomatica della definitiva
collocazione
dei rifiuti sull'area sequestrata.
La Cassazione, conseguentemente, ha affermato il principio
secondo il quale i materiali provenienti da demolizioni
rientrano nel novero dei rifiuti in quanto oggettivamente
destinati all'abbandono, l'eventuale recupero è condizionato
a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali
vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore
ha l'intenzione di disfarsi; l'eventuale assoggettamento di
detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano
alla
disciplina ordinaria implica la dimostrazione, da parte di
chi invoca la deroga, della sussistenza di tutti i
presupposti
previsti dalla legge.
In ordine alla contestata sussistenza del fumus del reato di
discarica abusiva, la sentenza in rassegna ha ribadito che
la discarica abusiva deve presentare, orientativamente, una
o più tra le seguenti caratteristiche, la presenza delle
quali
costituisce valido elemento per ritenere configurata la
condotta
vietata: accumulo, più o meno sistematico, ma comunque
non occasionale, di rifiuti in un'area determinata;
eterogeneità dell'ammasso dei materiali; definitività del
loro
abbandono; degrado, quanto meno tendenziale, dello stato
dei luoghi per effetto della presenza dei materiali (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
08.07.2015 n. 29084 - Ambiente &
sviluppo 11-12/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
LAVANDERIA INDUSTRIALE: SCARICO DI REFLUI.
Acque - Scarico di reflui provenienti da attività di
lavanderia
industriale - Natura di acque reflue industriali
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
Lo scarico dei reflui provenienti da attività di lavanderia
industriale, eseguito in assenza di autorizzazione, integra
il reato di cui all'art. 137, comma 1, D.Lgs. n.
152/2006 non potendo tali acque essere assimiliate a
quelle domestiche.
A seguito della condanna per il reato di
cui all'art. 137,
comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, per aver effettuato nuovi
scarichi di acque reflue industriali senza autorizzazione,
la
prevenuta si rivolgeva alla Cassazione asserendo che il
giudice
di merito era in errore nel ritenere che la ricorrente
avesse dato corso ad un'attività di lavanderia, con
conseguente
utilizzazione di macchine lavatrici e produzione di
acque reflue industriali scaricate senza una preventiva
autorizzazione dell'ASL territorialmente competente; di
contro, a detta della ricorrente, non sussistevano elementi
né per ascrivere alla medesima l'attività di lavanderia né
l'uso
di lavatrici.
La tesi accusatoria, anzi, avrebbe trovato una palese
smentita
nel fatto che gli agenti, giunti sul posto, avevano
accertato
che le lavatrici non erano in funzione ed erano disattivate,
tant'è che non era stato possibile procedere a verifica
degli scarichi di acque reflue.
Secondo la ricorrente, sarebbe stata necessaria una più
specifica indagine, anche al fine di verificare di quale
tipologia
di autorizzazione la ricorrente fosse dotata, in quanto
la stessa era titolare di una licenza di lavanderia e
stireria e,
pur avendo inoltrato domanda per ottenere la licenza per
lavanderia dotata di macchinari per lavaggio, la stessa mai
aveva posto in essere quest'ultima attività.
Il ricorso è stato ritenuto manifestamente infondato.
La sentenza in rassegna ha premesso che, a seguito di un
sopralluogo eseguito da personale ARPA e polizia locale
presso la lavanderia della ricorrente, era stata appurata la
presenza all'interno di quattro lavatrici di tipo
industriale. Al
momento del sopralluogo, nessuna autorizzazione allo scarico
era stata rilasciata; d’altro canto, la stessa non poteva
nemmeno essere ottenuta, come chiarito dalle note ACEA
ed ARPA richiamate in sentenza.
A fronte di tali elementi di indubbia valenza indiziaria, la
Cassazione ha ritenuto che la ricorrente si era limitata a
svolgere censure di tipo puramente contestativo, evocando
un inesistente vizio di "illogicità manifesta" della
sentenza,
in sostanza offrendo una sua personale rilettura degli
elementi
di fatto, non consentita davanti alla Corte suprema.
Il riferimento, in particolare, era all'affermazione secondo
cui le lavatrici non erano in uso al momento del sopralluogo
o alla critica di non aver verificato quale fosse la licenza
di cui la ditta della ricorrente era titolare, avendo
peraltro
ammesso in ricorso che la stessa non era munita di
autorizzazione
allo scarico industriale.
Diversamente, del tutto “illogica”, ove non utilizzate,
sarebbe
stata -trovando invece una spiegazione nel fatto che
l'attività di lavanderia industriale era svolta abusivamente-
la presenza all'interno dei locali della ditta della
ricorrente
di ben quattro macchine per lavanderia industriale.
La Corte ha colto perciò l’occasione per ribadire che lo
scarico
dei reflui provenienti da attività di lavanderia
industriale,
eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di
cui all'art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, non potendo
tali acque essere assimiliate a quelle domestiche (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
02.07.2015 n. 27887 - Ambiente &
sviluppo 11-12/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
MOLESTIA LEGATA AL CICLO PRODUTTIVO.
Emissioni in atmosfera - Molestia connessa all'esercizio di
attività economiche e legata al ciclo produttivo - Natura
permanente del reato - Cessazione della permanenza.
Art. 674 cod. pen.
La contravvenzione prevista dall'art.
674 cod. pen.,
quando abbia per oggetto l'illegittima emissione di gas,
vapori, fumi atti ad offendere o imbrattare o molestare
le persone e sia connessa all'esercizio di attività
economiche
e quindi legata al ciclo produttivo, assume il carattere
di reato permanente, non potendosi ravvisare la
consumazione di definiti episodi in ogni singola emissione
di durata temporale non sempre individuabile.
Ne
segue che, se con sentenza di primo grado, sia accertata
la permanente attualità dell'attività produttiva in termini
non diversi da quelli del momento della contestazione,
la permanenza nel reato deve ritenersi cessata
con la pronuncia di detta sentenza.
Nella specie, era risultato che l'imputato, nell'esercizio
dell'attività
di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande,
avesse provocato l'emissione nell'atmosfera di fumi
e vapori nauseabondi, al punto da determinare disagio in
tutti i condomini dello stabile, che erano costretti a
tenere
le finestre chiuse.
Sia in primo grado che in Appello il predetto era stato
condannato
per il reato di cui all’art. 674 cod. pen.
Nel ricorrere per Cassazione, il prevenuto denunciava, prima
di tutto, la violazione dell'art. 649 cod. proc. pen.:
infatti,
premesso che secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione l'illegittima emissione di gas, vapori, fumi,
connessa
all'esercizio di attività economiche si configura come
reato permanente, sosteneva di essere stato tratto a
giudizio
per aver provocato emissione di vapori e fumo accertata
il 30 giugno ed il 03.11.2009; trattandosi però di
una pizzeria funzionante ininterrottamente, il reato
ipotizzato
doveva considerarsi di natura permanente; poiché le date
indicate nel capo di imputazione non corrispondevano
all'effettivo tempus commissi delicti, ma al controllo
operato
dagli agenti di polizia e poiché tali fatti erano stati già
giudicati
con la sentenza della Corte di Appello dell’08.03.2012, ci si trovava in presenza della violazione del
principio
del ne bis in idem.
In secondo luogo, denunciava la violazione degli artt. 81 e
674 cod. pen.: da tutti gli accertamenti disposti dall'Arpa,
era infatti emerso il buon funzionamento delle attrezzature
poste in essere per la riduzione e prevenzione degli odori e
dei fumi (impianto di areazione e deodorizzazione dei fumi
prodotti).
Il ricorso è stato respinto.
Quanto all'eccepita violazione del principio del ne bis in
idem, la Corte suprema ha osservato che la contravvenzione
prevista dall'art. 674 cod. pen., quando abbia per oggetto
l'illegittima emissione di gas, vapori, fumi atti ad
offendere
o imbrattare o molestare le persone, connessa all'esercizio
di attività economiche e legata al ciclo produttivo,
assume il carattere della permanenza, non potendosi
ravvisare
la consumazione di definiti episodi in ogni singola
emissione di durata temporale non sempre individuabile.
Ne consegue che, se la sentenza di primo grado abbia
accertato
la permanente attualità dell'attività produttiva in termini
non diversi da quelli del momento della contestazione,
la permanenza nel reato deve ritenersi cessata con la
pronuncia
di detta sentenza.
A questo punto, la Corte ha rilevato che il ricorrente aveva
omesso di considerare che la sentenza passata in giudicato
aveva ad oggetto fatti commessi fino all'11.12.2007,
e perciò, trattandosi di contestazione “chiusa”, la
permanenza
doveva ritenersi cessata (già prima della sentenza)
alla data indicata nell'imputazione. I fatti per cui si
procedeva
nel giudizio sfociato in Cassazione risultavano accertati,
invece, il 30 giugno ed il 03.11.2009: si trattava
pertanto
di una condotta successiva che, come tale, non era
coperta dal precedente giudicato.
In ordine al secondo motivo, la Cassazione ha ricordato
che per l’integrazione del reato di cui all'art. 674 cod.
pen.
l'evento dì molestia provocato dalle emissioni di gas, fumi
o vapori è apprezzabile a prescindere dal superamento di
eventuali limiti previsti dalla legge, essendo sufficiente
il
superamento del limite della normale tollerabilità ex art.
844 cod. civ..
In questa prospettiva, la Corte ha osservato che i Giudici
di
merito avevano ampiamente argomentato in ordine al
superamento
di siffatta normale tollerabilità: infatti, il Tribunale
aveva accertato che l'imputato aveva provocato l'emissione
di fumi e vapori nauseabondi in base alla diretta
constatazione
anche di due Agenti di Polizia municipale, uno
dei quali, nel corso del sopralluogo, era stato addirittura
colto da un attacco di nausea
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
01.07.2015 n. 27562 - Ambiente & sviluppo 11-12/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: TARIFFA PER IL SERVIZIO IDRICO DI DEPURAZIONE.
Tariffa per il servizio idrico di depurazione, fognatura
sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o con
impianti inattivi, non debenza.
Art. 14, comma 1, legge 05.01.1994, n. 36; art. 155,
comma 1, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152.
Non è dovuto il pagamento della quota di
tariffa relativa
al servizio di depurazione “nel caso in cui la fognatura
sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione
o questi siano temporaneamente inattivi" in ragione
della c.d. efficacia retroattiva delle sentenze di
accoglimento
della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della citata regola, comportante
l’applicazione del canone di depurazione anche in assenza
del servizio.
Veniva domandato di dichiarare non dovuta, per l'inesistenza
del servizio, la quota di tariffa per il servizio di
depurazione
richiesta dal Comune.
Il Tribunale adito concludeva per la reiezione della domanda
e tale pronuncia veniva confermata in appello.
In particolare, il giudice di merito, quanto alla questione
della debenza della quota di tariffa relativa al servizio di
depurazione
"anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista
di impianti centralizzati di depurazione o questi siano
temporaneamente
inattivi" (legge 05.01.1994, n. 36, art.
14, comma 1), come nella specie, aveva affermato
l'applicabilità
della legge n. 36 del 1994, art. 14, comma 1 e,
quindi, "l'applicazione del canone di depurazione anche in
assenza del servizio".
Ciò (richiamando le sentenze della
Corte di Cassazione n. 96 del 2005 e n. 15885 del 2007) in
quanto "il presupposto di fatto legittimante l'applicazione
della quota di tariffa di depurazione in questione è dato
proprio ed unicamente dall'allacciamento degli utenti alla
pubblica fognatura a prescindere dall'esistenza e dal
funzionamento
in concreto di un depuratore centralizzato".
Veniva dunque proposto ricorso in Cassazione, denunciando
violazione e falsa applicazione della legge n. 36 del
1994 ed in particolare dell'art. 14, comma 1, dichiarato
incostituzionale.
La Suprema Corte accoglie il ricorso.
I Giudici di legittimità richiamano innanzitutto la sentenza
della Corte costituzionale n. 335 del 10.10.2008
(sopravvenuta
alla pubblicazione della sentenza impugnata),
con la quale è stata dichiarata:
- l'illegittimità costituzionale della legge 05.01.1994,
n.
36, art. 14, comma 1 (Disposizioni in materia di risorse
idriche),
sia nel testo originario, sia nel testo modificato dalla
legge 31.07.2002, n. 179, art. 28 (Disposizioni in
materia
ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di
tariffa
riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti
"anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di
impianti
centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente
inattivi";
- l'illegittimità costituzionale del D.Lgs. 03.04.2006,
n.
152, art. 155, comma 1, primo periodo (Norme in materia
ambientale), nella parte in cui prevede che la quota di
tariffa
riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti
"anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o
questi siano temporaneamente inattivi”.
Tale decisione, spiega la Cassazione, è applicabile al caso
di specie, in quanto la pronuncia di illegittimità
costituzionale
è sopravvenuta alla pubblicazione della sentenza impugnata;
ciò in forza del principio della cosiddetta "efficacia
retroattiva" delle sentenze di accoglimento della Corte
costituzionale (cfr., da ultimo, la sentenza della Corte
costituzionale
n. 10 del 2015, n. 7); principio che ha i seguenti limiti,
non sussistenti nel caso di specie:
- dette sentenze non retroagiscono fino al punto di
travolgere
le situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili
ovvero i rapporti esauriti;
- ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di
illegittimità
costituzionale possono derivare dalla necessità di
salvaguardare
principi o diritti di rango costituzionale che altrimenti
risulterebbero irreparabilmente sacrificati (tramite
l'attività di bilanciamento tra valori di rango
costituzionale).
Ciò posto, la Cassazione conferma che la pronuncia di
incostituzionalità
della legge n. 36 del 1994, art. 14, comma
1, è applicabile alla fattispecie, in quanto il rapporto
dedotto
in giudizio è certamente ancora pendente ed è ancora sub judice la questione relativa alla debenza al Comune del
corrispettivo per il servizio di depurazione in questione.
Pertanto, dal momento che la ratio decidendi della sentenza
impugnata si fonda sull'applicazione della norma dichiarata
incostituzionale (legge n. 36 del 1994, art. 14, comma 1,
appunto), la stessa deve essere annullata (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 08.05.2015 n. 9396 - Ambiente &
sviluppo 11-12/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
SOTTOPRODOTTI.
Rifiuti - Materiali derivanti da demolizione - Sottoprodotti
- Riutilizzo degli stessi - Necessità di una trasformazione
preliminare - Frantumazione - Normale pratica industriale
- Esclusione.
Artt. 184-bis, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Non può parlarsi di sottoprodotto se il
materiale inerte
derivante da attività di demolizione, per essere
reimpiegato,
richieda trasformazioni preliminari, come la frantumazione,
in quanto questa operazione non rientra
nella normale pratica industriale.
Nella specie, il Tribunale aveva accertato che presso un
cantiere erano iniziati lavori di costruzione di alcuni
fabbricati
per civile abitazione, che il suolo era di proprietà della
società D. s.a.s. di tal Z., che al momento dell'accertamento
erano presenti sul posto alcuni dipendenti della ditta,
esecutrice
dei lavori, che nell'area risultavano sparsi a terra kg
4.860,00 di materiale consistente “in inerti derivanti da
attività
di demolizione ed in particolare coppi, mattoni, ritagli
di guaina bituminosa e parti in calcestruzzo” (tale
materiale
non ancora sbriciolato, era stato trasportato sul posto
senza
alcun formulario).
Richiamata la distinzione tra rifiuto e sottoprodotto, il
Tribunale
aveva ritenuto che, nel caso di specie, essendo emerso
che il materiale, per essere utilizzato per la realizzazione
di una stradina, doveva essere preventivamente frantumato,
non poteva essere qualificato sottoprodotto, ma costituiva
un rifiuto.
Lo Z. ricorreva in Cassazione denunciando la violazione degli
artt. 184-bis e 256 D.Lgs. n. 152/2006 con riferimento
all’elemento della “normale pratica industriale”: riteneva,
infatti, che in essa fosse da ricomprendersi anche
l'attività
di frantumazione necessaria al riutilizzo degli inerti per
la
realizzazione di una stradina.
La Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo che non
poteva
parlarsi di sottoprodotto, non ricorrendo tutte le
condizioni
richieste dalla normativa: infatti, il Tribunale aveva
evidenziato
che il materiale richiedeva, per essere reimpiegato,
di trasformazioni preliminari, consistenti nella
frantumazione
del medesimo, operazione non rientrante nella normale
pratica industriale.
Inoltre, non era stata fornita alcuna
allegazione in ordine alla “rispondenza della destinazione
agli standard merceologiche e alle norme tecniche”
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17126
- Ambiente & sviluppo 11-12/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
NOZIONE.
Rifiuti - Nozione di rifiuto - Scarti di lavorazione
odontoiatrica
- Rifiuti derivanti da attività sanitarie - Trasporto
abusivo
- Reato.
Artt. 183, 184, 227, 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 2,
D.P.R. n. 254/2003.
Per qualificare un materiale di scarto
come rifiuto non è
rilevante il suo valore economico né il fatto che sia utile
a chi potrebbe farne commercio giacché questa impostazione
contiene un errore di prospettiva in quanto attribuisce
all’attuale detentore, invece che all'originario
detentore della cosa, l'assenza della volontà di disfarsi.
Ne consegue che la natura di rifiuto non è esclusa neppure
dalla presenza nel materiale di metalli nobili perché
la loro estrazione configura un trattamento e non
un riutilizzo del materiale quale».
La vicenda oggetto della decisione riportata è alquanto
singolare.
L’imputato, infatti, di ritorno da un viaggio aereo,
veniva controllato dopo lo sbarco risultando detenere nel
proprio bagaglio scarti di lavorazione odontoiatrica e
protesi
dentarie in mancanza della prescritta autorizzazione e
senza documentazione che ne giustificasse il possesso o il
trasporto essendo solo in possesso di documentazione
attinente
l'attività dell'impresa "omissis" esercente attività
recupero
cascami.
Nel giudizio di merito, l’imputato si era difeso affermando
che si trattava di vecchie protesi ritirate presso studi
dentistici
e odontotecnici per poterle rivendere.
Insoddisfatto della condanna riportata per il reato di cui
all'art.
256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, il N adiva la Cassazione
eccependo che le cose sequestrate non potevano
definirsi rifiuti sia perché avevano un valore economico
non indifferente (tant'è che non ne era stata ordinata la
distruzione),
sia perché non era stata accertata la propria intenzione
di disfarsene, sia perché dovevano ritenersi sottoprodotti.
La Cassazione ha ritenuto che l'argomento difensivo, secondo
il quale un oggetto non può essere considerato rifiuto
solo perché utile a chi potrebbe farne commercio, non
ha alcun fondamento perché trovava smentita sia nella
stessa lettera della norma incriminatrice (che sanziona
penalmente
anche il (...) di rifiuti), sia nella definizione stessa
di, secondo cui è tale l'oggetto di cui il detentore si
disfi o
abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsene (art. 183,
comma
1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006).
In questa tesi, secondo la Corte, si coglieva l'errore di
prospettiva
in cui cadeva il ricorrente che attribuiva a sé stesso
piuttosto che all'originario detentore/produttore l'assenza
della volontà di disfarsi dei materiali, in considerazione
del valore di mercato dei metalli nobili contenuti al loro
interno.
Ponendosi, invece, nella corretta prospettiva, gli scarti di
che trattasi, nella loro oggettiva consistenza, costituivano
rifiuti derivanti da attività sanitarie di cui agli artt.
184,
comma 3, lett. h), 227, lett. c), D.Lgs. n. 152/2006, 2,
D.P.R. 15.07.2003, n. 254, allegati I, sub voce di
gabinetti
dentistici, o allegato II, sub voce di amalgama prodotti
da interventi odontotecnici, o comunque, e limitatamente
agli scarti di lavorazione odontotecnica, di da lavorazioni
artigianali (art. 184, comma 3, lett. d), D.Lgs. n.
152/2006).
Né valeva ad escludere la natura di rifiuto la presenza nei
materiali di metalli nobili la cui estrazione ne comportava
il
trattamento e non il riutilizzo tal quale, il che impediva
che
fossero qualificabili come di un processo produttivo
inesistente o del quale non si conosceva alcunché (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.04.2015 n. 15447
- Ambiente & sviluppo 11-12/2015) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RACCOLTA E TRASPORTO IN FORMA AMBULANTE.
Rifiuti - Raccolta e trasporto in forma ambulante o
itinerante
- Deroga al regime ordinario - Condizioni
Artt. 256, 266, D.Lgs. n. 152/2006
Nel caso della raccolta e trasporto dei
rifiuti in forma
ambulante, il giudice è chiamato a verificare la
sussistenza,
l’efficacia e la validità di un titolo abilitativo e
verificare che l'attività sia circoscritta ai soli rifiuti
che
formano oggetto del commercio del soggetto abilitato.
Ecco i fatti oggetto della sentenza che si riporta.
I Carabinieri durante un servizio mirato alla tutela della
ambiente
e della salute pubblica, notavano transitare un autocarro
Fiat Ducato trasportante, sul cassone posteriore, del
materiale ferroso, in buona parte arrugginito. L’automezzo
era condotto da C. e quale passeggero si trovava G.,
successivamente
indagati per il reato di cui all'art. 6, comma
1, lett. d), legge n. 210/2008 “perché, in concorso morale e
materiale tra loro, essendo stato dichiarato lo stato
d'emergenza
nel settore dello smaltimento dei rifiuti nel territorio
della regione siciliana con D.P.C.M. del 09.07.2010 ai
sensi della legge n. 225/1992, effettuavano attività di
raccolta,
trasporto e smaltimento di rifiuti non autorizzata, in
particolare avendo provveduto a caricare su un autocarro
Fiat Ducato materiale ferroso vario classificabile come
rifiuti,
in assenza delle autorizzazioni relative”.
Il GIP disponeva il sequestro preventivo del mezzo
osservando
da un lato che il ricorrente aveva documentato di essere
titolare di autorizzazione per il commercio su aree
pubbliche tipo C) itinerante, settore non alimentare, svolta
con l'ausilio di banco mobile, con attività secondaria di
commercio su aree pubbliche itinerante di elettrodomestici
usati, ricambi usati per elettrodomestici, pedane di legno,
rottami di plastica, parti usate di carrozzeria per auto,
ricambi
auto usati e copertoni usati, e dall’altro lato che la
tipologia
dei rifiuti trasportati sul cassone del veicolo (che
dovevano però ritenersi anche raccolti, dato che la natura
composita dei materiali faceva ritenere che si trattasse di
rifiuti raccolti nel territorio ove il mezzo era stato
fermato)
era del tutto diversa, trattandosi di veri e propri rifiuti
ferrosi
abbandonati, insuscettibili di un commercio ambulante
del tipo indicato in autorizzazione. Perciò era necessaria
l'iscrizione
nell’Albo di cui all'art. 212 non posseduta dagli indiziati.
I due soggetti proponevano richiesta di riesame deducendo
l'insussistenza del reato atteso che G. era fornito di
autorizzazione
rilasciata dalla CCIAA di Palermo per il commercio
ambulante di materiale ferroso e che, a norma dell'art. 266,
comma 5, D.Lgs. n. 152/2006, non era necessaria l’iscrizione
all'Albo nazionale dei gestori ambientali in quanto i
rifiuti
rinvenuti sul cassone rientravano nella tipologia per la
quale era stata autorizzata la raccolta. Allegavano all'uopo
attestazione dell'iscrizione del Comune di Palermo e copia
di circolare assessoriale attestante l'estensione
territoriale
della concessione rilasciata dal Sindaco di Palermo.
Avverso l’ordinanza del Tribunale di Trapani, che aveva
rigettato
la richiesta di riesame, veniva proposto ricorso da
entrambi gli interessati i quali lamentavano che il
Tribunale
non aveva considerato la documentata attività prevalente
di commerciante di rottami metallici esercitata dal G.,
menzionando
nel suo provvedimento soltanto l'attività secondaria
di commerciante su aree pubbliche itinerante di
elettrodomestici
usati, ricambi usati per elettrodomestici, pedane
di legno, rottami di plastica, parti usate di carrozzeria
per
auto, ricambi auto usati e copertoni usati.
La Corte ha annullato l'ordinanza impugnata con rinvio
evidenziando
che, nel caso in esame, sussisteva il lamentato
vizio motivazionale.
Dopo aver ricordato che la giurisprudenza ha già affermato
che l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non
pericolosi
prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante, non
integra
il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti a
condizione,
da un lato, che il soggetto sia in possesso del titolo
abilitativo
per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante
e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto
del commercio autorizzato, la Corte di Cassazione ha
richiamato, condividendolo integralmente, un proprio
precedente
(sentenza n. 29992 del 24.06.2014, PM in
proc. Lazzaro) in cui viene operato un ampio excursus
sull'evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria
della materia giungendo a queste conclusioni:
a. la condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, D.Lgs. n.
152/2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del
prescritto
titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle
assentibili ai sensi degli artt. 208, 209, 210, 211, 212,
214,
215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in
modo secondario o consequenziale all'esercizio di una
attività
primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno
dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata
da
assoluta occasionalità;
b. la deroga prevista dall'art. 266, comma 5, D.Lgs. n.
152/2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti
prodotti
da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora
ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in
possesso
del titolo abilitativo per l'esercizio di attività
commerciale in
forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114
e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto
del
suo commercio.
Dunque, nel caso degli ambulanti, il giudice è chiamato a
verificare l’eventuale sussistenza di un titolo abilitativo,
la
sua efficacia e validità, considerata, peraltro, la natura
personale
del suddetto titolo che presuppone il possesso di
determinati requisiti per l'esercizio dell'attività di
commercio;
deve perciò operare una ulteriore verifica nel caso in
cui detta attività non sia svolta direttamente da colui che
è
abilitato, finalizzata alla corretta individuazione del
rapporto
effettivamente intercorrente tra i diversi soggetti; deve
infine
verificare che l'attività sia circoscritta, comunque, ai
soli
rifiuti che formino oggetto del commercio del soggetto
abilitato.
In assenza di tale duplice presupposto, deve ritenersi che
non possa trovare applicazione la citata disciplina
derogatoria.
Sulla scorta di queste puntualizzazioni, la Corte ha
concluso
che il provvedimento impugnato forniva una motivazione
apparente rispetto al caso concreto: infatti, il Tribunale
non aveva risposto all’obiezione sollevatagli e documentata
da G.V., attraverso la visura della CCIAA di Palermo, dalla
quale risultava che egli era autorizzato quale attività
primaria
al "commercio su aree pubbliche itinerante di rottami
metallici, carta e cartone". Inoltre, non era stata valutata
l'incidenza che poteva avere avuto la prodotta circolare n.
5 del 22.10.2013 dell'Assessorato alle Attività
Produttive
della Regione Siciliana.
Da qui l’annullamento dell’ordinanza con rinvio al Tribunale
per nuovo esame della fattispecie (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.03.2015 n. 8981 - Ambiente &
sviluppo 10/2015) |
AGGIORNAMENTO AL
17.01.2017 |
ã |
Incarico al legale per resistere in giudizio:
il Giudice
contabile, dopo l'entrata in vigore del nuovo codice
dei contratti pubblici, statuisce che "il
patrocinio legale è occasionato da esigenze
contingenti di difesa in giudizio, che non è
predeterminabile nei suoi aspetti temporali,
economici e sostanziali della prestazione, che è
sempre un’obbligazione di mezzi. A ciò si aggiunga
anche la natura strettamente fiduciaria della
prestazione che non è compatibile con una procedura
concorsuale e/o comparativa per la scelta del
difensore". |
QUINDI?? |
Parrebbe di capire che si possa procede in maniera
fiduciaria, siccome sempre operato ante D.Lgs. n.
50/2016, per quanto statuito dalla notoria
sentenza 11.05.2012 n. 2730 del Consiglio di
Stato, Sez. V, senza tener conto di quanto disposto
dall'art.
4 del nuovo codice il quale così recita: "Art.
4. (Principi relativi all’affidamento di contratti
pubblici esclusi)
1. L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad
oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in
tutto o in parte, dall'ambito di applicazione
oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto
dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed
efficienza energetica.".
Comunque, a breve -si spera- dovrebbe intervenire il
riscontro da parte dell'A.N.AC. su uno specifico
quesito in materia, sicché Vi terremo aggiornati su
questi schermi quanto prima.
Ecco, a seguire, le due sentenze di nostra conoscenza. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla
natura del conferimento della difesa legale da parte
della pubblica amministrazione a liberi professionisti.
Sussiste
un terzo orientamento,
maggiormente condiviso in giurisprudenza secondo il quale occorre partire dalla differenza
ontologica tra l’affidamento di un incarico di patrocinio
legale “occasionato da puntuali esigenze di difesa
dell’ente in giudizio” e l’attività di assistenza e
consulenza giuridica “caratterizzata dalla
sussistenza di una specifica organizzazione, dalla
complessità dell’oggetto e dalla predeterminazione della
durata”.
Solo quest’ultimo affidamento,
caratterizzato da “un quid pluris per prestazione o
modalità organizzativa” rispetto al patrocinio legale, e
che richiede l’inserimento nell’apparato amministrativo
dell’Ente, rientra nel novero del “servizio legale”
di cui al punto 21 dell’allegato B del d.lgs. 163/2006 e, in
quanto tale, è soggetto alla disciplina dell’appalto dei
servizi.
Per converso, il contratto di conferimento
di incarico legale, finalizzato esclusivamente alla difesa
tecnica dell’ente in giudizio, rientra nel contratto di
prestazione d’opera intellettuale disciplinato dall’art.
2230 del c.c., e, in quanto tale, non soggiace alla
normativa dell’evidenza pubblica.
Esplicativa, in proposito, è la
deliberazione 03.04.2009 n. 19 resa dalla Sezione
Regionale di controllo per la Basilicata, ove è affermato “Appare
senz’altro preferibile, pur tra le varie opzioni
scrutinabili dall’interprete, la tesi che riconduce il
contratto di patrocinio legale –tanto circoscritto alla
rappresentanza in giudizio, quanto esteso anche alla difesa
giudiziale- nell’ambito del contratto d’opera intellettuale
regolato dall’art. 2230 c.c. e ss.".
Detta interpretazione è preferibile anche a parere di questo
Collegio, ove si consideri che il
patrocinio legale è occasionato da esigenze contingenti di
difesa in giudizio, che non è predeterminabile nei suoi
aspetti temporali, economici e sostanziali della
prestazione, che è sempre un’obbligazione di mezzi. A ciò si
aggiunga anche la natura strettamente fiduciaria della
prestazione che non è compatibile con una procedura
concorsuale e/o comparativa per la scelta del difensore.
Queste considerazioni trovano peraltro
conforto nella
direttiva 2014/24/UE relativa ai contratti di
appalto ove al punto 25 del considerato viene evidenziato
che “Taluni servizi legali….. comportano la
rappresentanza dei clienti in procedimenti giudiziari da
parte di avvocati,……. Tali servizi legali sono di solito
prestati da organismi o persone selezionate o designate
secondo modalità che non possono essere disciplinate da
norme di aggiudicazione degli appalti (….). Tali servizi
legali dovrebbero pertanto essere esclusi dall'ambito di
applicazione della presente direttiva”.
Così come l’art.
10, alla lettera i), esclude l’applicazione della
disciplina degli appalti nei confronti della rappresentanza
legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi
dell’art. 1 della direttiva 77/249/CEE del Consiglio:
— in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato
membro, un paese terzo o dinanzi a un'istanza arbitrale o
conciliativa internazionale; oppure
— in procedimenti giudiziari dinanzi a organi
giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o
un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o
istituzioni internazionali.
Tutto ciò considerato l’affidamento di
incarichi legali per la difesa in giudizio non è soggetto
alla normativa del codice degli appalti e, segnatamente, ai
richiamati articoli 20 e 27 del d.lgs. 163/2006.
---------------
La SS.RR. della Corte dei conti, in sede di controllo, con la
delibera 15.02.2005 n. 6/2005,
relativa alle modalità per il conferimento degli incarichi
di studio, ricerca ovvero di consulenza,
ha chiarito che
dagli stessi restano esclusi “gli incarichi di
rappresentanza in giudizio ed il patrocinio
dell’amministrazione” in quanto “conferiti per gli
adempimenti obbligatori per legge, mancando, in tali
ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale
dell’amministrazione”.
Ma anche in questo senso si è espressa la Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008; peraltro,
così come evidenziato dal
parere
03.04.2009 n. 8
della Sezione Basilicata “Si aggiunge in questa sede,
inoltre, con riferimento ai
presupposti di legittimità indicati dall’art. 7, comma 6,
del D.Lgs. n. 165/2001,
che la prestazione di patrocinio legale
per la difesa giudiziale dell’Ente non sembra possa essere
ricondotta nell’ambito delle competenze istituzionali
attribuite all’ente stesso dall’ordinamento, né (soprattutto
per le ipotesi di incarichi episodici) possa costituire
obiettivo o progetto specifico e determinato, come richiesto
dalla norma. In effetti, la difesa giudiziale
rappresenta l’esercizio di un diritto-dovere mediante il
quale affermare, di regola, la rispondenza degli atti
(negoziali e provvedimentali), attraverso i quali si
estrinseca l’attività funzionalizzata dell’ente, ai
paradigmi di liceità e legittimità fissati dalla norma, che
quel potere attribuisce. Per lo stesso motivo, pur essendo
astrattamente possibile ricondurre la locazione d’opera
intellettuale nell’ambito delle attività di cooperazione,
non appare configurabile il mero patrocinio legale
alla stregua del contratto di collaborazione autonoma, al
quale fa riferimento il citato art. 46, comma 2, del D.L. n.
112/2008, tale essendo quello riferibile alle attività
istituzionali stabilite dalla legge o dall’apposito
programma, approvato dal Consiglio dell’Ente ai sensi
dell’art. 42, comma 2, del T.U.E.L.“.
Tutto ciò premesso, questo Collegio
ritenendo la natura fiduciaria e personale del rapporto che
intercorre tra assistito e difensore e la non
riconducibilità della difesa legale tra le funzioni
istituzionali dell’Asp, esclude che tale tipo di incarico
rientri nella categoria di cui all’art. 46 del d.l. 112/2008
e quindi alla procedura comparativa di cui all’art. 7, comma
6-bis, del d.lgs. 165/2001.
---------------
Ebbene, rispetto ai conferimenti legali, la Procura contesta
ai convenuti, in primo luogo, di non aver seguito alcuna
procedura comparativa o di evidenza pubblica, in violazione
degli art. 20 e 27 del d.lgs. 163/2006, ma di aver affidato
gli incarichi con modalità strettamente fiduciaria.
Detto assunto non è condiviso dal Collegio.
Invero, sulla natura del conferimento degli
incarichi professionali, e, segnatamente, del conferimento
della difesa legale da parte della pubblica amministrazione
a liberi professionisti, vi sono difformi indirizzi
giurisprudenziali.
- Secondo un primo orientamento, non definibile come
prevalente, tutte le prestazioni rese dagli avvocati in
favore delle amministrazioni sono da considerarsi come “servizi”,
quindi riconducibili, tutti, nel settore indicato al punto
21 dell’allegato II B del d.lgs. 163/2006 (codice degli
appalti).
Tale impostazione scaturisce dall’ampia definizione offerta
dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 59 del 26.03.2010, secondo
la quale il servizio è qualunque attività economica,
imprenditoriale o professionale svolta senza vincolo di
subordinazione, diretta alla fornitura anche di prestazione
intellettuale.
E’ evidente che, in tale ottica, costituisce affidamento di
un servizio anche l’affidamento di incarico ad avvocato per
la difesa in giudizio dell’amministrazione.
Conseguentemente, secondo questo orientamento,
l’amministrazione è tenuta, anche per il patrocinio legale,
alla necessaria osservanza delle disposizioni contenute
negli art. 20, 65, 68, 225 e 27 del codice degli appalti (si
veda TAR Lazio, Latina, sez. I, sentenza n. 606/2011, TAR
Calabria, Reggio Calabria, sentenza n. 330/2008, TAR Puglia,
Lecce, sentenza 25.10.2006).
- Ma in giurisprudenza si è affermato, invero
occasionalmente, anche un opposto orientamento
secondo il quale, tutte le prestazioni professionali degli
avvocati in favore delle amministrazioni, e quindi sia la
difesa legale che l’affidamento di rapporti più complessi
che presuppongono l’inserimento del prestatore nella
struttura amministrativa, sono da qualificarsi come opera
intellettuale ex art. 2230 del c.c.; tale esegesi scaturisce
dalla considerazione che l’appaltatore deve essere per forza
un imprenditore e non un libero professionista iscritto
negli appositi albi (si veda TAR Campania, sentenza n.
4855/2008).
- Vi è, infine, un terzo orientamento,
maggiormente condiviso in giurisprudenza, e anche da questo
Collegio, secondo il quale, occorre partire dalla differenza
ontologica tra l’affidamento di un incarico di patrocinio
legale “occasionato da puntuali esigenze di difesa
dell’ente in giudizio” e l’attività di assistenza e
consulenza giuridica “caratterizzata dalla
sussistenza di una specifica organizzazione, dalla
complessità dell’oggetto e dalla predeterminazione della
durata”.
Solo quest’ultimo affidamento,
caratterizzato da “un quid pluris per prestazione o
modalità organizzativa” rispetto al patrocinio legale, e
che richiede l’inserimento nell’apparato amministrativo
dell’Ente, rientra nel novero del “servizio legale”
di cui al punto 21 dell’allegato B del d.lgs. 163/2006 e, in
quanto tale, è soggetto alla disciplina dell’appalto dei
servizi
(determinazione n. 4 del 07.07.2011 dell’Autorità per a
Vigilanza dei contratti Pubblici di Lavori Servizi e
Forniture, al punto 4.3).
Per converso, il contratto di conferimento
di incarico legale, finalizzato esclusivamente alla difesa
tecnica dell’ente in giudizio, rientra nel contratto di
prestazione d’opera intellettuale disciplinato dall’art.
2230 del c.c., e, in quanto tale, non soggiace alla
normativa dell’evidenza pubblica.
Esplicativa, in proposito, è la
deliberazione 03.04.2009 n. 19 resa dalla Sezione
Regionale di controllo per la Basilicata, ove è affermato “Appare
senz’altro preferibile, pur tra le varie opzioni
scrutinabili dall’interprete, la tesi che riconduce il
contratto di patrocinio legale –tanto circoscritto alla
rappresentanza in giudizio, quanto esteso anche alla difesa
giudiziale- nell’ambito del contratto d’opera intellettuale
regolato dall’art. 2230 c.c. e ss.".
Detta interpretazione è preferibile anche a parere di questo
Collegio, ove si consideri che il
patrocinio legale è occasionato da esigenze contingenti di
difesa in giudizio, che non è predeterminabile nei suoi
aspetti temporali, economici e sostanziali della
prestazione, che è sempre un’obbligazione di mezzi. A ciò si
aggiunga anche la natura strettamente fiduciaria della
prestazione che non è compatibile con una procedura
concorsuale e/o comparativa per la scelta del difensore.
Queste considerazioni trovano peraltro
conforto nella
direttiva 2014/24/UE relativa ai contratti di
appalto ove al punto 25 del considerato viene evidenziato
che “Taluni servizi legali….. comportano la
rappresentanza dei clienti in procedimenti giudiziari da
parte di avvocati,……. Tali servizi legali sono di solito
prestati da organismi o persone selezionate o designate
secondo modalità che non possono essere disciplinate da
norme di aggiudicazione degli appalti (….). Tali servizi
legali dovrebbero pertanto essere esclusi dall'ambito di
applicazione della presente direttiva”.
Così come l’art.
10, alla lettera i), esclude l’applicazione della
disciplina degli appalti nei confronti della rappresentanza
legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi
dell’art. 1 della direttiva 77/249/CEE del Consiglio:
— in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato
membro, un paese terzo o dinanzi a un'istanza arbitrale o
conciliativa internazionale; oppure
— in procedimenti giudiziari dinanzi a organi
giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o
un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o
istituzioni internazionali.
Tutto ciò considerato l’affidamento di
incarichi legali per la difesa in giudizio non è soggetto
alla normativa del codice degli appalti e, segnatamente, ai
richiamati articoli 20 e 27 del d.lgs. 163/2006.
Né tale conclusione può essere revocata dal fatto che gli
incarichi affidati all’avv. Ni. siano stati numerosi.
In proposito si evidenzia che al suddetto difensore, così
come ad altri numerosi professionisti, sono stati affidati
incarichi di patrocinio solo in occasione di esigenze
contingenti di difese in giudizio, che, seppure numerosi,
gli incarichi non erano predeterminabili sotto il profilo
temporale ed economico.
Infine, il numero cospicuo non ne modifica la natura
intellettuale e fiduciaria.
IV) La Procura contesta altresì ai convenuti di non aver
osservato, nella scelta del difensore, le disposizioni
contenute negli art.li 6-bis e 7 del d.lgs. 165/2001.
Anche detto assunto non è condiviso.
Invero, indubbiamente, il fatto di inquadrare il contratto
di patrocinio (inteso appunto come quello volto solo a
soddisfare il circoscritto bisogno di difesa giudiziale
dell’ente) nell’ambito del contratto di prestazione d’opera
intellettuale, pone un ulteriore problema e cioè se detto
rapporto rientri o meno nella disciplina delle
collaborazioni autonome, come da ultimo disciplinate
dall’art. 46 del d.l. 112/2008; e conseguentemente se
l’affidamento del patrocinio legale debba sottostare al
conferimento procedimentalizzato e dalla previa procedura
comparativa prevista dall’art. 7, comma 6, e 6-bis del
d.lgs. 165/2001.
A tale legittimo quesito ha risposto la SS.RR. della Corte
dei conti, in sede di controllo, con la
delibera 15.02.2005 n. 6/2005,
relativa alle modalità per il conferimento degli incarichi
di studio, ricerca ovvero di consulenza, ove
ha chiarito che
dagli stessi restano esclusi “gli incarichi di
rappresentanza in giudizio ed il patrocinio
dell’amministrazione” in quanto “conferiti per gli
adempimenti obbligatori per legge, mancando, in tali
ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale
dell’amministrazione”.
Ma anche in questo senso si è espressa la Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008; peraltro,
così come evidenziato dal
parere
03.04.2009 n. 8
della Sezione Basilicata “Si aggiunge in questa sede,
inoltre, con riferimento ai
presupposti di legittimità indicati dall’art. 7, comma 6,
del D.Lgs. n. 165/2001,
che la prestazione di patrocinio legale
per la difesa giudiziale dell’Ente non sembra possa essere
ricondotta nell’ambito delle competenze istituzionali
attribuite all’ente stesso dall’ordinamento, né (soprattutto
per le ipotesi di incarichi episodici) possa costituire
obiettivo o progetto specifico e determinato, come richiesto
dalla norma. In effetti, la difesa giudiziale
rappresenta l’esercizio di un diritto-dovere mediante il
quale affermare, di regola, la rispondenza degli atti
(negoziali e provvedimentali), attraverso i quali si
estrinseca l’attività funzionalizzata dell’ente, ai
paradigmi di liceità e legittimità fissati dalla norma, che
quel potere attribuisce. Per lo stesso motivo, pur essendo
astrattamente possibile ricondurre la locazione d’opera
intellettuale nell’ambito delle attività di cooperazione
(Cass. Civ., III, 26.07.2005, n. 15607),
non appare configurabile il mero patrocinio legale
alla stregua del contratto di collaborazione autonoma, al
quale fa riferimento il citato art. 46, comma 2, del D.L. n.
112/2008, tale essendo quello riferibile alle attività
istituzionali stabilite dalla legge o dall’apposito
programma, approvato dal Consiglio dell’Ente ai sensi
dell’art. 42, comma 2, del T.U.E.L.“.
Tutto ciò premesso, questo Collegio
ritenendo la natura fiduciaria e personale del rapporto che
intercorre tra assistito e difensore e la non
riconducibilità della difesa legale tra le funzioni
istituzionali dell’Asp, esclude che tale tipo di incarico
rientri nella categoria di cui all’art. 46 del d.l. 112/2008
e quindi alla procedura comparativa di cui all’art. 7, comma
6-bis, del d.lgs. 165/2001.
V) Le considerazioni innanzi evidenziate inducono ad
escludere anche l’assunta violazione dell’art. 16 della l.
9/2007 a cagione del quale “nelle aziende del servizio
sanitario regionale l'indizione e l’espletamento di
concorsi, le assunzioni, anche a tempo determinato, i
trasferimenti, la mobilità, i comandi ed ogni altra forma di
copertura di posti della dotazione organica anche mediante
forme di lavoro flessibile, collaborazione coordinata e
continuativa o a progetto, sono soggette a preventiva
autorizzazione regionale”.
E’ evidente, infatti, che l’affidamento di
incarichi legali non rientra nelle ipotesi disciplinate
dalla disposizione in esame
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria,
sentenza 27.12.2016 n. 344). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Gli
incarichi
legali costituiscono mere prestazioni di lavoro autonomo
professionale essendo l’affidamento caratterizzato
dall’elemento della fiduciarietà il quale preclude la
riconduzione della fattispecie negoziale all’appalto di
servizi (che potrebbe sussistere, con obbligo di gara
pubblica, solo ove la prestazione richiesta al
professionista non si esaurisca nel patrocinio legale a
favore dell’ente, configurandosi quale modalità
organizzativa di un servizio più complesso ed articolato.
Tale interpretazione tesa all’esclusione
dell’obbligo di gara pubblica è stata avallata dall’art. 17,
comma 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il quale ha escluso che
si possano applicare le disposizioni del Codice gli appalti
persino agli incarichi legali qualificabili come appalti di
servizi.
Dunque gli incarichi legali non sono equiparabili
alle mere consulenze esterne, con conseguenziale
inapplicabilità dei limiti per esse previsti, tra cui i
presupposti di legittimità per il ricorso nonché l’obbligo
di procedura ad evidenza pubblica.
---------------
3. Venendo al merito del ricorso l’azione è solo
parzialmente fondata nei limiti di seguito indicati.
...
3.2. Attribuzione di incarichi all’Avv. Cu. in relazione
alle controversie relative alla stabilizzazione del
personale stagionale
Si è contestato al Ma. e al Da., nella qualità di
commissario straordinario e di direttore generale firmanti,
l’attribuzione di incarichi di difesa legale all’Avv. Cu. in
relazione a controversie aventi ad oggetto richieste di
stabilizzazione di operai avventizi assunti a tempo
determinato (pag. 5, 6, e 24 della citazione).
Come emerge dal corpo dell’atto di citazione la
responsabilità potrebbe essere ascritta al funzionario
esecutivo che non avrebbe fatto sottoscrivere i contratti di
lavoro a tempo determinato per gli operai che avevano
lavorato da maggio a novembre senza contratto.
In più la scelta di difendersi in giudizio non può essere,
in ragione delle circostanze del caso concreto, imputata a
colpa grave dei convenuti i quali hanno cercato di evitare
gli effetti prodotti dalla decisione dell’A.G.O., anche alla
luce dei gravi problemi finanziari in cui versava l’ente,
mentre la responsabilità amministrativa non può sorgere
secundum eventum litis, essendo la valutazione in ordine
all’elemento soggettivo essere effettuata ex ante
alla luce delle circostanze di fatto e di diritto esistenti
al tempo dell’azione.
A ciò si aggiunga che al tempo del conferimento
dell’incarico non poteva effettuarsi un affidamento
cumulativo trattandosi di ricorsi incardinati come cause
isolate, solo successivamente riunite dal giudicante. Del
resto i problemi evidenziati con l’Avv. De Ro., dal quale
deriva la denuncia di danno erariale, che hanno condotto al
licenziamento confermato dalla magistratura ordinaria,
avevano fatto venir meno ogni relazione fiduciaria con il
legale interno.
Né gli incarichi legali sono equiparabili alle c.d.
consulenze esterne alle quali si applica il regime degli
art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001 e 110, comma 6, d.lgs.
267/2000.
Sia la giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730) che gli indirizzi dell’Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici (determinazione 07.07.2011,
n. 4) hanno affermato che
gli incarichi
legali costituiscono mere prestazioni di lavoro autonomo
professionale essendo l’affidamento caratterizzato
dall’elemento della fiduciarietà il quale preclude la
riconduzione della fattispecie negoziale all’appalto di
servizi (che potrebbe sussistere, con obbligo di gara
pubblica, solo ove la prestazione richiesta al
professionista non si esaurisca nel patrocinio legale a
favore dell’ente, configurandosi quale modalità
organizzativa di un servizio più complesso ed articolato
– così C. conti, sez. contr. Basilicata,
deliberazione 03.04.2009 n. 19;
C. conti., sez. contr. Umbria,
parere
19.12.2013 n. 137).
Tale interpretazione tesa all’esclusione
dell’obbligo di gara pubblica è stata avallata dall’art. 17,
comma 1, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il quale ha escluso che
si possano applicare le disposizioni del Codice gli appalti
persino agli incarichi legali qualificabili come appalti di
servizi.
Dunque gli incarichi legali non sono equiparabili
alle mere consulenze esterne, con conseguenziale
inapplicabilità dei limiti per esse previsti, tra cui i
presupposti di legittimità per il ricorso nonché l’obbligo
di procedura ad evidenza pubblica
(aspetto comunque non contestato dalla Procura regionale;
del resto i vari incarichi in questione sono certamente
sotto soglia).
La
sentenza 11.05.2012 n. 2730 del Consiglio di
Stato, Sez. V (in termini
TAR Campania, Napoli, n. 1197/2015), pur escludendo
l’obbligo di gara, ha comunque precisato che l’affidamento
dell’incarico legale è comunque soggetto ai principi
generali dell’azione amministrativa in materia di
imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde
rendere possibile la decifrazione della congruità della
scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di
difesa da appagare.
Nella specie le difese dei convenuti hanno fatto emergere le
ragioni chiare dell’affidamento degli incarichi ad avvocati
esterni alla luce delle criticità che connotavano i rapporti
tra consorzio e Avv. De Ro. (le quali avrebbero condotto al
licenziamento del legale interno) con pieno rispetto dei
sovra menzionati principi.
Ciò premesso, tuttavia, il Collegio ritiene che
la
liquidazione delle parcelle all’Avv. Cu. avrebbe dovuto
tenere conto del carattere seriale delle controversie, con
la conseguente applicazione dell’art. 5, comma 4, d.m.
127/2004 (aumento sull’onorario unico della controversia
pilota).
Tale danno deve essere equitativamente (art. 1226 c.c.)
liquidato in € 15.000,00, anche tenendo conto della
compensatio lucri cum damno nonché esercitando
ampiamente il potere riduttivo dell’addebito, e posto a
carico del solo Ma. (non avendo il direttore generale alcuna
competenza al riguardo)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania,
sentenza
14.12.2016 n. 635). |
17.01.2017
- LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
Si rischia grosso a "disturbare"
la Corte dei Conti con interrogativi impertinenti... |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Sindaco, con particolare riguardo al costo di
costruzione, premette che esso andrebbe adeguato in base
alle determinazioni dell’assemblea legislativa dell’Emilia
Romagna e, nei periodi intercorrenti tra le determinazioni
regionali, in base all’intervenuta variazione dei costi di
costruzione accertati dall’ISTAT.
Soggiunge che il
richiamato costo di costruzione per quanto riguarda il
proprio comune “non è stato adeguato per gli anni
2009-2013”.
Evidenzia che copiosa giurisprudenza
amministrativa ritiene illegittimo il conguaglio del costo
di costruzione in quanto le relative deliberazioni (di
adeguamento) vanno applicate solo a titoli rilasciati dopo
la loro adozione. Sicché, rimette, conclusivamente, al
parere della Sezione valutazioni circa la possibilità per il
Comune di deliberare, a distanza di diversi anni,
l’adeguamento del costo di costruzione ovvero circa la
possibilità che tale determinazione risulti illegittima.
Ebbene, la Corte dei Conti non solo (giustamente) non
risponde ma, nel contempo, dispone che
copia della presente deliberazione sia trasmessa, per le
valutazioni di competenza, alla Procura regionale della
Corte dei conti per la Regione Emilia Romagna in relazione a
quanto rappresentato circa i mancati adeguamenti del costo
di costruzione nel periodo 2009-2013.
---------------
FATTO
Il Sindaco del Comune di Camugnano (Bo) ha inoltrato
a questa Sezione una richiesta di parere riguardante il “contributo
di costruzione”, una locuzione che, in punto di
regolazione dei permessi per costruire, sintetizza l’obbligo
di corresponsione di cifre sia per il cosiddetto “costo
di costruzione” che per gli “oneri di urbanizzazione”,
entrambi disciplinati dall’art. 16 del DPR del 06.06.2001,
n. 380 e dall’art. 31 della Legge Regionale 30.07.2013, nr.
15.
Il richiedente, con particolare riguardo al costo di
costruzione, parafrasando i contenuti della citata
normativa, premette che esso andrebbe adeguato in base
alle determinazioni dell’assemblea legislativa dell’Emilia
Romagna e, nei periodi intercorrenti tra le determinazioni
regionali, in base all’intervenuta variazione dei costi di
costruzione accertati dall’ISTAT; soggiunge che il
richiamato costo di costruzione per quanto riguarda il
Comune di Camugnano “non è stato adeguato per gli anni
2009-2013”; evidenzia che copiosa giurisprudenza
amministrativa ritiene illegittimo il conguaglio del costo
di costruzione in quanto le relative deliberazioni (di
adeguamento) vanno applicate solo a titoli rilasciati dopo
la loro adozione (ex multis Consiglio di Stato n.
1504 del 19.03.2015); rimette, conclusivamente, al
parere della Sezione valutazioni circa la possibilità per il
Comune di deliberare, a distanza di diversi anni,
l’adeguamento del costo di costruzione ovvero circa la
possibilità che tale determinazione risulti illegittima,
alla stregua della giurisprudenza richiamata.
DIRITTO
1. L’articolo 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003
-disposizione che costituisce il fondamento normativo della
funzione consultiva intestata alle Sezioni regionali di
controllo della Corte dei conti- attribuisce alle Regioni e,
tramite il Consiglio delle Autonomie locali, se istituito,
anche ai Comuni, Province e Città metropolitane la facoltà
di richiedere alla Corte dei Conti pareri in materia di
contabilità pubblica.
Preliminarmente, la Sezione è chiamata a verificare i
profili di ammissibilità soggettiva (legittimazione
dell’organo richiedente) e oggettiva (attinenza del quesito
alla materia della contabilità pubblica, generalità ed
astrattezza del quesito proposto, mancanza di interferenza
con altre funzioni svolte dalla magistratura contabile o con
giudizi pendenti presso la magistratura civile o
amministrativa).
2. In relazione al primo profilo, si ritiene che la
richiesta di parere sia ammissibile, in quanto proveniente
dall’organo rappresentativo dell’Ente, il Sindaco.
3. Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo,
occorre anzitutto evidenziare che la disposizione contenuta
nel comma 8 dell’art. 7 della legge 131 del 2003, deve
essere raccordata con il precedente comma 7, norma che
attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare
il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento
degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di
principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli
enti locali.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il
comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a
quelle del precedente comma rese esplicite, in particolare,
Sull’esatta individuazione di tale locuzione e, dunque,
sull’ambito di estensione della funzione consultiva
intestata alle Sezioni di regionali di controllo della Corte
dei conti, che non può essere intesa quale una funzione di
carattere generale, sono intervenute sia le Sezioni riunite
sia la Sezione delle autonomie con pronunce di orientamento
generale, rispettivamente, ai sensi dell’articolo 17, comma
31, d.l. n. 78/2009 e dell’articolo 6, comma 4, d.l. n.
174/2012.
Con deliberazione 17.11.2010, n. 54, le Sezioni riunite
hanno chiarito che la nozione di contabilità pubblica
comprende, oltre alle questioni tradizionalmente ad essa
riconducibili (sistema di principi e norme che regolano
l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli
enti pubblici), anche i “quesiti che risultino connessi
alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche nel quadro
di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti
da principi di coordinamento della finanza pubblica (….),
contenuti nelle leggi finanziarie, in grado di ripercuotersi
direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui
pertinenti equilibri di bilancio”.
Di recente, la Sezione delle autonomie, con la deliberazione
n. 3/2014/SEZAUT, ha operato ulteriori ed importanti
precisazioni rilevando come, pur costituendo la materia
della contabilità pubblica una categoria concettuale
estremamente ampia, i criteri utilizzabili per valutare
oggettivamente ammissibile una richiesta di parere possono
essere, oltre “all’eventuale riflesso finanziario di un
atto sul bilancio dell’ente” (criterio in sé riduttivo
ed insufficiente), anche l’attinenza del quesito proposto ad
“una competenza tipica della Corte dei conti in sede di
controllo sulle autonomie territoriali”.
E’ stato, altresì, ribadito come “materie estranee, nel
loro nucleo originario alla contabilità pubblica –in una
visione dinamica dell’accezione che sposta l’angolo visuale
dal tradizionale contesto della gestione del bilancio a
quello inerente ai relativi equilibri– possono ritenersi ad
essa riconducibili, per effetto della particolare
considerazione riservata dal Legislatore, nell’ambito della
funzione di coordinamento della finanza pubblica”: solo
in tale particolare evenienza, una materia comunemente
afferente alla gestione amministrativa può venire in rilievo
sotto il profilo della contabilità pubblica.
Al contrario, la presenza di pronunce di organi
giurisdizionali di diversi ordini, la possibile interferenza
con funzioni requirenti e giurisdizionali delle sezioni
giurisdizionali della Corte dei conti o di altra
magistratura, nonché il rischio di un inserimento nei
processi decisionali degli enti territoriali, che ricorre
quando le istanze consultive non hanno carattere generale e
astratto, precludono alle sezioni regionali di controllo la
possibilità di pronunciarsi nel merito.
Sulla base di quanto appena sopra evidenziato,
la richiesta
di parere dev’essere considerata oggettivamente
inammissibile, per le ragioni di seguito esposte.
A questo punto, preliminarmente, è indispensabile un breve
excursus delle norme in materia edificatoria
riguardanti la specifica questione.
Superando in parte la legge 28.01.1977, n. 10
sull’edificabilità dei suoli, il d.P.R. 06.06.2001, n. 380 –
“Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia”, per quel che qui
occupa, all’art. 16 ha raccolto le disposizioni sul
“contributo per il rilascio del permesso di costruire” e
segnatamente:
- “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il
rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, secondo le modalità indicate nel presente
articolo” (comma 1);
- “La quota di contributo relativa al costo di
costruzione, determinata all'atto del rilascio, è
corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla
ultimazione della costruzione” (comma 3);
- “Il costo di costruzione per i nuovi edifici è
determinato periodicamente dalle regioni con riferimento ai
costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata…………..Nei
periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali,
ovvero in eventuale assenza di tali determinazioni, il costo
di costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in
ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione
accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT)"
(comma 9).
Inoltre va osservato che, prima dell’entrata in vigore della
legge regionale Emilia Romagna n. 15 del 30.07.2013 recante
“Semplificazione della disciplina edilizia” rilevava
-ed ai fini di specie continua a rilevare- la precedente
legge regionale, la L. n. 31 del 25.11.2002, n. 31 recante “Disciplina
generale dell’edilizia”.
Questa, all’art. 27 (“Contributo di costruzione”)
disponeva che: “…………il proprietario dell'immobile o colui
che ha titolo per chiedere il rilascio del permesso o per
presentare la denuncia di inizio attività è tenuto a
corrispondere un contributo commisurato all'incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”
(comma 1); “Il contributo di costruzione è quantificato
dal Comune per gli interventi da realizzare attraverso il
permesso di costruire ovvero dall'interessato per quelli da
realizzare con denuncia di inizio attività” (comma 2);
“La quota di contributo relativa al costo di costruzione
è corrisposta in corso d'opera, secondo le modalità e le
garanzie stabilite dal Comune” (comma 4).
Al successivo art. 29, la stessa legge regionale prevedeva
che “Il costo di costruzione per i nuovi edifici è
determinato almeno ogni cinque anni dal Consiglio regionale
con riferimento ai costi parametrici per l'edilizia
agevolata" (comma 1) ... e “Nei periodi intercorrenti
tra le determinazioni regionali, il costo di costruzione è
adeguato annualmente dai Comuni, in ragione dell'intervenuta
variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istituto
nazionale di statistica” (comma 3).
Tutto ciò premesso e circostanziato, va rilevato che
nel
caso concretamente sottoposto al parere della Sezione, la
funzione consultiva viene esplicitamente rivolta ad un
quesito in materia di contributo per i costi di costruzione
che, in disparte dal particolare che ricade nella specifica
materia para-tributaria e non direttamente in quella
contabile, implica una anticipata valutazione di legittimità
riguardo futuri comportamenti amministrativi (per il caso
fossero oggetto di successive iniziative legali, anche in
sede di giurisdizione amministrativa) e richiede altresì
soluzioni che potrebbero interferire con successive pronunce
giurisdizionali.
In conclusione il quesito formulato
ipotizza una ben definita attività gestionale
(dunque non pone una questione né generale né astratta)
come risulta quella di assoggettare ora per allora,
cioè retroattivamente ed attraverso conguaglio, i titolari
dei permessi di costruire ad un (tardivo) adeguamento del
costo di costruzione; tale ipotesi, da un lato,
poggia su premesse di diritto dichiaratamente
controvertibili, tali da aver effettivamente suscitato, in
casi analoghi, contenzioso per l’annullamento dei relativi
provvedimenti nel solco di ripetute ed univoche pronunce di
accoglimento dei relativi ricorsi dal Consiglio di Stato
(ad es. sentenze Sez. IV, n. 3009 e 3010 del 12.05.2014)
e, dall’altro, manifesta per tabulas,
quale suo logico presupposto, una precisa fattispecie
caratterizzata da inadempimento, quella del mancato
adeguamento annuale dei costi di costruzione, anch’essa
oggetto di diverse pronunce di responsabilità per danno
erariale da parte della Corte dei Conti
(ad es. Sezione giurisdizionale per la Regione Marche,
sentenza 24.10.2014 n. 101; Sezione giurisdizionale per la
Regione Emilia Romagna, sent. n. 265 del 31.05.2014; Sezione
giurisdizionale per la regione Puglia,
sentenza 29.06.2016 n. 224).
Ne consegue l’impossibilità, per la Sezione, di entrare nel
merito del quesito.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile la richiesta di parere del Comune di
Camugnano (BO).
DISPONE
- che, a cura della Segreteria di questa Sezione regionale
di controllo, copia della presente deliberazione sia
trasmessa -mediante posta elettronica certificata– al
Sindaco di Camugnano e al Presidente del Consiglio delle
autonomie locali della Regione Emilia-Romagna;
- che copia della presente deliberazione
sia trasmessa, per le valutazioni di competenza, alla
Procura regionale della Corte dei conti per la Regione
Emilia Romagna in relazione a quanto rappresentato circa i
mancati adeguamenti del costo di costruzione nel periodo
2009-2013 (Corte
dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 19.12.2016 n. 141). |
IN EVIDENZA |
APPALTI: Convegno
gratuito dal titolo:
Tradizione e innovazione nella disciplina dei contratti
pubblici (Brescia, venerdì 10.02.2017
-
Auditorium di Santa Giulia, Via Piamarta n. 4). |
UTILITA' |
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BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia
delle Entrate, gennaio 2017). |
TRIBUTI:
IL CONTENZIOSO TRIBUTARIO (Agenzia
delle Entrate, gennaio 2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Guida alle nuove disposizioni in materia di SCIA e di
individuazione dei regimi amministrativi.
Cittadini e imprese, anche per le pratiche più semplici,
devono orientarsi in una babele di adempimenti burocratici:
regole, moduli, documentazione da presentare sono diversi a
seconda della Regione e del Comune; spesso sono costretti a
rivolgersi ad amministrazioni diverse.
I decreti legislativi n. 126 e n. 222 del 2016 prevedono:
• certezza sulle regole da seguire per avviare un’attività e
sui regimi ad essa applicabili
• tempi certi;
• un unico sportello a cui rivolgersi;
• l’amministrazione che chiede "una volta sola".
Si tratta di un pacchetto di misure di semplificazione che:
• attuano ai principi di liberalizzazione e di
semplificazione;
• rafforzano, sviluppano e assicurano effettività a
disposizioni già presenti nel nostro ordinamento (in materia
di SCIA, silenzio assenso e sportello unico), stabilendo
tempi certi, decisioni sicure e responsabilità definite.
Il decreto legislativo n. 222 del 2016 riporta, nella
tabella A allegata, la ricognizione delle attività e dei
procedimenti nei settori del commercio e delle attività
assimilabili, dell’edilizia e dell’ambiente. Sono
individuati, così, e uniformati su tutto il territorio
nazionale, i regimi applicabili.
La Guida, realizzata nelle due versioni “per cittadini e
imprese” e “per gli addetti ai lavori”, è stata
predisposta dal Dipartimento della funzione pubblica per
sostenere l'attuazione della Riforma della Pubblica
amministrazione, nell'ambito delle attività previste
dall'Agenda per la semplificazione. (...continua) (link a
www.italiasemplice.gov.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Appalti,
è sanabile la carenza di legalità.
Delibera Anac ritiene ammissibile il soccorso istruttorio.
Ammesso il soccorso istruttorio per la mancata
presentazione, incompletezza o irregolarità dei protocolli
di legalità o patti di integrità.
È quanto afferma il
Parere sulla Normativa 21.12.2016 n. 1374 - rif. AG/54/16/AP
- URCP 60/2016 dell'Autorità nazionale
anticorruzione resa nota giovedì scorso, che fornisce
chiarimenti in ordine all'applicabilità dell'istituto del
soccorso istruttorio disciplinato e innovato dall'art. 83
del nuovo codice dire contratti pubblici (dlgs 50/2016).
La questione riguardava la possibilità di sanare con il
soccorso istruttorio i casi di mancata presentazione,
incompletezza o altre irregolarità relative ai patti di
integrità di cui all'articolo 1, comma 17, della legge n.
190/2012 che prevede obblighi in materia di contrasto alle
infiltrazioni criminali negli appalti.
Quest'ultima norma in particolare stabilisce espressamente
che «le stazioni appaltanti possono prevedere negli
avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato
rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità
o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione
dalla gara».
Sull'applicazione della norma il ministero dell'interno ha
chiesto all'Anac di chiarire alcuni punti concernenti
soprattutto gli effetti derivanti dalla carenza della
dichiarazione di accettazione del patto di integrità o della
mancata produzione dello stesso debitamente sottoscritto dal
concorrente.
L'Autorità presieduta da Raffaele Cantone ha affermato che
tali fattispecie possono essere considerate «essenziali»
ai sensi dell'articolo 83, comma 9, del decreto 50 in quanto
indispensabili per la partecipazione alla gara. Si tratta
però, dice la delibera, di carenze e/o irregolarità che
possono essere regolarizzate, su istanza del richiedente, ma
applicando la sanzione pecuniaria stabilita dal bando di
gara, a sua volta applicativo dell'articolo 83 del codice.
La delibera afferma infine che, come espressamente chiarito
nell'art. 83, comma 9, del codice dei contratti pubblici, «la
sanzione è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione».
Viene inoltre chiarito che il soccorso istruttorio è
utilizzabile anche perché il riferimento (che è nell'art.
83) agli «elementi» e non solo alle «dichiarazioni»,
lo rende applicabile a tutti i documenti che vengono
prodotti nell'ambito della gara. Inoltre l'Anac specifica
che nel caso in esame i protocolli e i patti di integrità
costituiscono elementi che non afferiscono all'offerta
tecnica ed economica e il soccorso istruttorio non si
applica l'offerta tecnica.
Infine l'Anac fa salvo il contenuto della determina 1/2015
sulla legittimità della prescrizione, a pena di esclusione,
dell'accettazione delle condizioni contrattuali contenute
nella documentazione di gara (compresi gli obblighi in
materia di contrasto alle infiltrazioni criminali negli
appalti previsti nell'ambito di protocolli di legalità/patti
di integrità), ancorché precedente al nuovo codice dei
contratti
(articolo ItaliaOggi del 14.01.2017). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Presidenti non sfiduciabili. La revoca scatta se
non sono più imparziali. Chi guida il consiglio deve
garantire la corretta dialettica tra le parti.
Il consiglio comunale può attivare la mozione di sfiducia
nei confronti del suo stesso presidente?
In merito, l'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo
n. 267/2000 rinvia il funzionamento del consiglio comunale
alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto».
Circa la fattispecie in esame
(nella quale particolare rilievo assume la modalità con cui
la mozione di sfiducia, prevista dallo statuto nei confronti
del presidente del consiglio, possa conciliarsi con la
disposizione regolamentare che limita la possibilità di un
voto all'espressione di «un giudizio su mozione presentata
in merito ad atteggiamenti del sindaco o della giunta
comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo
dell'amministrazione») la norma regolamentare che disciplina
le adunanze affida addirittura al sindaco la presidenza del
consiglio, non contenendo alcuna norma specifica che
disciplini la sfiducia al presidente del consiglio, mentre è
proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale
l'elezione di un presidente del consiglio comunale tra i
propri componenti.
Nonostante la mancanza di una disciplina regolamentare di
dettaglio, il Consiglio ha dunque utilizzato la normativa
statutaria (ritenendola sufficiente) per eleggere il
presidente del consiglio; talché, la richiesta applicazione
di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero
obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare
incoerente rispetto alla pacifica accettazione della sola
norma statutaria per l'elezione del presidente del
consiglio.
In ogni caso, il decreto legislativo n. 267/2000 non prevede
espressamente la possibilità di revoca del presidente del
consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione
statutaria, la giurisprudenza tende ad affermarne
costantemente l'illegittimità (v., tra l'altro, Tar Piemonte
sez. I, 04.09.2009, n. 2248).
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata
disposizione statutaria che disciplina la revoca del
presidente, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del
presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto
funzionamento di detto organo e della corretta dialettica
tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può
essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in
quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata,
perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a
un rapporto di fiducia (conforme, Tar Puglia–Lecce,
sentenza n. 528/2014, Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)».
Lo stesso Tar Piemonte, con la citata sentenza (richiamando
anche Tar Sicilia-Catania, sez. I, 20.04.2007, n. 696;
Tar Sicilia Catania, Sez. I, 18.07.2006, n. 1181), ha
statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere
ipotesi e procedure di revoca del presidente del consiglio
comunale, con riferimento a fattispecie che integrino
comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare
nell'assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania-Napoli sez. I, con decisione
03/05/2012 n. 2013, ribadendo che il ruolo del presidente
del consiglio comunale è strumentale non già all'attuazione
di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al corretto
funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è
neutrale, ma non può restare soggetto al mutevole
atteggiamento fiduciario della maggioranza, ha precisato che
la revoca di detta carica non può essere attivata per
motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la
ripetuta e ingiustificata omissione della convocazione del
Consiglio o le ripetute violazioni dello statuto o dei
regolamenti comunali (v. anche Cons. Stato, sez. V,
18.01.2006, n. 114)
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2017). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO: «Furbetti
Pa», verso stretta sulle malattie.
Assenteisti. Dipendente ospedaliero di Roma licenziato in 30
giorni, altri casi a Siracusa.
Sui licenziamenti sprint per i
dipendenti pubblici che timbrano l’entrata ma disertano
l’ufficio si studiano solo correttivi ai termini “interni”,
senza cancellare l’obbligo di arrivare in 30 giorni
all’uscita del dipendente colto sul fatto. Mentre interventi
più pesanti potrebbero arrivare per l’assenteismo con il
certificato medico, con l’obiettivo soprattutto di limitare
le malattie a inizio e fine settimana.
Le nuove regole saranno scritte nel decreto sul pubblico
impiego atteso per febbraio, e tradotte in pratica nei
contratti nazionali come previsto dall’intesa
governo-sindacati del 30 novembre.
Il primo appuntamento in agenda per l’attuazione della
riforma Madia, però, riguarda appunto i decreti correttivi
che servono a blindare le nuove regole su partecipate,
direttori sanitari e licenziamenti rapidi, in vigore ma
colpite dalla sentenza costituzionale che ha imposto per
queste materie l’«intesa» invece del «parere»
con Regioni ed enti locali.
I nuovi provvedimenti sono attesi al consiglio dei ministri
e poi alle Conferenze Stato-Regioni e Unificata, dove
sbarcheranno entro il 2 febbraio. Sull’anti-assenteismo,
però, il termine dei 30 giorni non è in discussione, e
qualche ritocco potrebbe riguardare le tappe intermedie su
sospensione e convocazione per il contraddittorio.
Ieri è stato segnalato all’Umberto I di Roma il primo caso
di dipendente licenziato in 30 giorni su iniziativa dei
dirigenti, mentre i primi licenziamenti rapidi in seguito a
indagini della Gdf risalgono a ottobre e si sono verificati
alla provincia di Siracusa (articolo Il Sole 24 Ore del
15.01.2017). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
voucher sono banditi nella p.a.. Illegittimi gli incarichi
di ufficio con lavoro accessorio. Coprire posti per poche
ore con i buoni invece che con il part-time viola il Testo
unico.
Illegittimi incarichi per lo svolgimento di compiti di
ufficio delle amministrazioni assegnati tramite lavoro
accessorio, noto come voucher.
Presso le amministrazioni pubbliche si va diffondendo sempre
di più l'impiego del lavoro accessorio, passando da progetti
finalizzati a fornire opportunità di lavoro a disoccupati, a
veri e propri strumenti per coprire esigenze di organico.
È vero che le recenti riforme, dalla legge 92/2012 (legge
Fornero) al Jobs act (dlgs 81/2015) hanno progressivamente
liberalizzato i voucher, che non sono più riferiti a
prestazioni «meramente» occasionali, ma regolano prestazioni
occasionali vere e proprie, per anche un numero di ore
potenzialmente molto ampio, visto che il tetto annuo è di
7.000 euro.
Tuttavia, la liberalizzazione apparente deve fare comunque i
conti con le regole speciali poste dal dlgs 165/2001 alla
disciplina del lavoro pubblico.
Non è un caso che l'articolo 48, comma 7, del dlgs 81/2015,
a proposito dei voucher, conferma espressamente che resta
ferma la particolare e rigorosa disciplina dell'articolo 36,
comma 2, del dlgs 165/2001.
Dalla quale deriva il divieto di utilizzare forme flessibili
di lavoro per far fronte a esigenze stabili. Coprire,
dunque, per esempio, posti di responsabili di uffici anche
per poche ore con i voucher, invece di un part-time,
significherebbe violare proprio l'articolo 36, comma 2.
Ma, in generale, i voucher non possono essere legittimamente
utilizzati per acquisire prestazioni lavorative richiedenti
l'inserimento del lavoratore pubblico nell'organizzazione
interna. Infatti, perché un dipendente pubblico possa
lecitamente svolgere le mansioni previste, come svolgere le
funzioni non solo di direzione di strutture, ma di
responsabile di procedimenti o di istruttorie, ma perfino
solo per accedere agli archivi e trattare i contenuti delle
banche dati, deve necessariamente condurre non solo un
rapporto di servizio con l'ente, ma anche e soprattutto un
rapporto «organico». Il dipendente, cioè, deve
impersonificare la persona giuridica pubblica e agire per
essa.
Il rapporto organico, tuttavia, si costituisce
esclusivamente mediante la costituzione di rapporti di
lavoro subordinato. È anche per questa ragione, per esempio,
che l'articolo 7, comma 6, sempre del dlgs 165/2001 vieta di
utilizzare incarichi di lavoro autonomo, come collaborazioni
ma anche prestazioni occasionali, per lo svolgimento di
attività «ordinarie».
Il lavoro accessorio non è certamente un rapporto di lavoro
subordinato. In quanto tale, non fa venire in essere il
necessario rapporto organico, escludendo qualsiasi
legittimazione del lavoratore accessorio a voucher a
svolgere attività come organo dell'ente, né tanto meno a
utilizzarne mezzi, strumenti, dati e conoscenze.
Col lavoro accessorio è, semmai, possibile acquisire appunto
collaborazioni occasionali di limitata durata. Vista
l'estrema vicinanza che la liberalizzazione dei voucher
determina con le collaborazioni coordinate e continuative o
gli incarichi di lavoro autonomo, per altro una lettura
amplia e prudente del dlgs 165/2001 impone alle
amministrazioni di selezionare i lavoratori accessori
comunque con procedure comparative non dissimili da quelle
previste dal citato articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001
finalizzate all'individuazione dei collaboratori o
prestatori autonomi.
Con la differenza che probabilmente la prestazione mediante
voucher non necessariamente richiede le particolari spiccate
competenze che condizionano la legittimità degli incarichi
regolati dall'articolo 7, comma 6
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2017). |
APPALTI: Codice,
il correttivo slitta ancora. Concessionari:
l'esternalizzazione produrrà 4 mila esuberi.
Il parlamento ha prorogato al 30 giugno il
termine per l'indagine conoscitiva sulle modifiche.
Al via le modifiche al nuovo codice dei contratti pubblici,
ma intanto il parlamento proroga al 30.06.2017 il
termine per la conclusione dell'indagine conoscitiva
riguardante proprio le modifiche al codice che, invece,
andrebbero approvate entro il 19 aprile. Intanto, mentre i
sindacati chiedono la rapida riduzione del numero delle
stazioni appaltanti e modifiche alla disciplina degli
affidamenti a terzi, la cabina di regia attende dalle
stazioni appaltanti elementi sulle criticità del decreto 50.
E' questo il quadro complessivo che si sta delineando
intorno alla predisposizione del decreto correttivo del
nuovo codice dei contratti pubblici, che dovrebbe essere
approvato entro il 19 aprile prossimo.
Il condizionale è
d'obbligo soprattutto dopo che le commissioni lavori
pubblici del senato e ambiente e territorio della camera
hanno deciso, mercoledì scorso, di spostare al 30 giugno il
termine di conclusione dell'indagine conoscitiva sullo stato
di attuazione e sulle possibili modifiche del decreto 50,
avviata a settembre.
Il differimento del termine, oltre a essere un segnale
politico ben chiaro, potrebbe rendere difficile il rispetto
della dead-line del 19 aprile, considerato anche l'iter dei
pareri che saranno resi sul correttivo. La decisione delle
commissioni parlamentari non incide di fatto sull'operato
del governo, anche se occorrerà vedere se una eventuale
proroga del termine del 19 aprile sarà formalizzata in
parlamento nell'ambito dell'esame il decreto Milleproroghe.
Nel frattempo la cabina di regia istituita presso la
presidenza del consiglio ha iniziato ad approfondire la
materia avviando a sua volta una consultazione con la quale
ha chiesto ai Rup (responsabili unici del procedimento)
delle stazioni appaltanti di fare pervenire entro il 18
gennaio osservazioni sul decreto 50/2016 in vista della
predisposizione del decreto correttivo.
C'è poi il tema del completamento dei provvedimenti
attuativi previsti dal decreto 50 fra cui sei dovrebbero
essere adottati entro il 19 aprile: dalle linee guida Anac
sui sistemi di qualificazione e l'avvalimento, al decreto
Mit ex articolo 84, comma 12, sulle modalità di
qualificazione «anche alternative o sperimentali da parte di
stazioni appaltanti ritenute particolarmente qualificate»,
al decreto sul documento pluriennale di programmazione delle
infrastrutture, al Dpcm sul cosiddetto débat public per
l'acquisizione del consenso nelle grandi infrastrutture, al
decreto Mit-Semplificazione sulla informatizzazione delle
procedure di appalto e al Dpcm sulle procedure di appalto
delle centrali di committenza.
Nel merito delle modifiche al correttivo, dopo le numerose
richieste avanzate in questi ultimi mesi dai rappresentanti
degli operatori economici, va segnalato come anche i
sindacati confederali (nell'audizione parlamentare del 10
gennaio), dopo avere espresso apprezzamento per diversi
punti della riforma varata l'anno scorso (in particolare su
programmazione, progettazione esecutiva, subappalto), hanno
posto l'accento sulla disciplina delle stazioni uniche
appaltanti (la proposta è di portarle a un livello
fisiologico non superiore alle 250).
E su quella degli affidamenti a terzi dei concessionari
autostradali (che impongono l'esternalizzazione per una
quota dell'80% di servizi, lavori e forniture). Per i
sindacati, visto che la norma ha già determinato
quattrocento licenziamenti e che l'esubero stimato come
effetto della disposizione si attesterebbe intorno ai 4mila
dipendenti delle società concessionarie, occorrerebbe
valutare l'esclusione per i contratti attinenti il settore
della manutenzione e della progettazione, i più colpiti
dalla norma entrata in vigore ad aprile 2016
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2017). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
virtuosi possono assumere. Contratti a termine negli enti
che non hanno speso nulla. La
sezione autonomie: una lettura diversa finirebbe per
premiare gli enti meno oculati.
Assunzioni a termine possibili anche per gli enti che non
hanno sostenuto spese a tale titolo né nel 2009, né nel
triennio 2007-2009.
Lo chiarisce la Sez. autonomie della Corte dei Conti nella
delibera 05.01.2017 n. 1 resa nota ieri.
La delibera risponde in primo luogo al problema di alcuni
enti locali: trovarsi nelle condizioni di dover assumere con
contratti a tempo determinato (o comunque flessibili) in
assenza del presupposto finanziario previsto dalla normativa
del 2010.
L'articolo 9, comma 28, infatti, consente di assumere con le
forme flessibili entro un tetto di spesa pari al 50% di
quella sostenuta al medesimo titolo nel 2009, tetto che sale
al 100% per gli enti in regola con l'obbligo di riduzione
delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562
dell'articolo 1 della 296/2007.
Tuttavia, come accaduto al comune di Caldogno autore del
quesito che ha indotto la sezione regionale di controllo per
il Veneto a investire la sezione autonomie, può capitare che
qualche ente non abbia affrontato alcuna spesa né nel 2009,
né nel triennio 2007-2009.
Questa condizione di fatto può portare alla conclusione che
per tali enti sussista un divieto assoluto di assumere con
forme flessibili?
La sezione autonomie risponde di no: «Una simile opzione,
infatti, finirebbe per premiare gli enti meno oculati, che
hanno realizzato ampi volumi di spesa da prendere a
riferimento ai fini del relativo contenimento, a discapito
di quelli più virtuosi, i quali non hanno sostenuto alcuna
spesa per contratti a tempo determinato o di tipo flessibile».
Pertanto, la delibera 1/2017 si sforza di fornire
un'interpretazione estensiva, secondo la quale tali enti
possono con un provvedimento accuratamente motivato «individuare
un nuovo parametro di riferimento, costituito dalla spesa
strettamente necessaria per far fronte ad un servizio
essenziale per l'ente». In sostanza, possono assumere
con contratti flessibili, fermi restando i presupposti
previsti dall'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001,
laddove dimostrino che l'assunzione flessibile sia
indispensabile e necessitata, per non ledere la funzionalità
dei servizi.
La sezione autonomie sottolinea come tale interpretazione si
riveli particolarmente necessaria agli enti locali di
piccole dimensioni, particolarmente esposti a contingenze
che potrebbero privarli di energie lavorative
imprescindibili per i servizi
(articolo ItaliaOggi del 14.01.2017).
---------------
MASSIMA
1. “Ai fini della
determinazione del limite di spesa previsto dall’art. 9,
comma 28, del d.l. 78/2010 e s.m.i., l’ente locale che non
abbia fatto ricorso alle tipologie contrattuali ivi
contemplate né nel 2009, né nel triennio 2007-2009, può, con
motivato provvedimento, individuare un nuovo parametro di
riferimento, costituito dalla spesa strettamente necessaria
per far fronte ad un servizio essenziale per l’ente. Resta
fermo il rispetto dei presupposti stabiliti dall’art. 36,
commi 2 e ss., del d.lgs. n. 165/2001 e della normativa
–anche contrattuale– ivi richiamata, nonché dei vincoli
generali previsti dall’ordinamento”.
2. “La spesa per l’integrazione salariale dei lavoratori
socialmente utili rientra nell’ambito delle limitazioni
imposte dall’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, nei
termini ivi previsti, ove sostenuta per acquisire
prestazioni da utilizzare nell’organizzazione delle funzioni
e dei servizi dell’ente”. |
CONSIGLIERI COMUNALI: Comuni,
doppio regime sui rimborsi di viaggio. Corte conti. Gli
indennizzi per gli spostamenti degli amministratori verso
l’ente in cui sono stati eletti e in missione.
I viaggi degli amministratori locali
che vivono fuori dai Comuni in cui sono eletti e si spostano
per partecipare all’attività istituzionale sono diversi da
quelli che invece si muovono dal Comune per andare in
missione.
I primi spostamenti sono più “importanti”, perché servono
«all’effettivo esercizio costituzionalmente tutelato della
funzione», e quindi meritano il rimborso integrale del
trasporto pubblico oppure quello classico per le auto, un
quinto del costo di un litro di benzina, se i mezzi pubblici
non sono funzionali. Per le missioni, invece, c’è il
rimborso a forfait in base alle tabelle ministeriali.
A spiegarlo è la sezione Autonomie della Corte dei conti,
nella
delibera 29.12.2016 n. 38
assunta nell’adunanza del 20 dicembre scorso ma pubblicata
ieri.
A motivare i rimborsi degli amministratori residenti in
Comuni diversi da quelli in cui sono eletti, spiegano i
magistrati contabili, è la necessità di garantire la loro
partecipazione alle riunioni degli organi istituzionali. Per
questo motivo, aggiunge la delibera, l’indennizzo è escluso
per le presenze in ufficio negli altri giorni: se per
esempio un assessore decide di andare in Comune quando non
giunta, lo fa a sue spese, e queste devono «considerarsi
coperti dall’indennità di funzione».
Da segnalare è anche un’altra delibera diffusa ieri dalla
sezione delle Autonomie, la 1/2017. La decisione si occupa
dell’applicazione dei limiti alla spesa per i contratti
flessibili posti dal Dl 78/2010 (articolo 9, comma 28), che
impone di dimezzare i costi di questa voce rispetto al 2009,
o rispetto al triennio 2007/09 se nel solo 2009 non c’erano
contratti flessibili.
Chi non ha avuto spese nemmeno nel triennio può fissare con
delibera motivata un parametro autonomo, legato alla «spesa
strettamente necessaria per far fronte ad un servizio
essenziale per l’ente». Nel conto entra anche
l’integrazione salariale ai lavoratori socialmente utili
(articolo Il Sole 24 Ore del
14.01.2017). |
APPALTI SERVIZI: Servizio
rifiuti: passaggio da gestione diretta a appalto.
Un sindaco ha chiesto un parere in merito alla possibilità
di affidare all’esterno il servizio di raccolta
(differenziata) dei rifiuti e del loro trasporto prevedendo
che l’appaltatore, oltre ai mezzi, alle attrezzature e al
personale aziendale, utilizzi anche le attrezzature, i mezzi
e il personale nella disponibilità del Comune (che dunque si
farebbe carico degli oneri retributivi, assistenziali e
assicurativi del proprio personale impiegato, delle spese di
conferimento in discarica, nonché delle spese di bollo e di
assicurazione dei mezzi propri forniti, oltre ad altre voci
di spesa).
I magistrati contabili della Basilicata, con la
deliberazione 47/2016, pubblicata sul sito della sezione
regionale di controllo il 16 dicembre, hanno evidenziato che
la raccolta, lo spazzamento e il trasporto dei
rifiuti solidi urbani è un servizio ad alta intensità di
manodopera, dove cioè è maggiore la spesa per il personale
impiegato rispetto agli investimenti richiesti in mezzi e
infrastrutture.
Pertanto l’intenzione del Comune
committente di mantenere a proprio carico la spesa del
personale dipendente già adibito al servizio, unitamente al
costo del materiale, agli oneri di manutenzione
straordinaria dei mezzi dati in comodato gratuito
all’appaltatore, manifesta alcuni aspetti critici.
In primo luogo, se il valore dell’appalto è
determinato soltanto dal corrispettivo pattuito, al netto
delle spese che restano a carico del committente, il rischio
è quello di distorcere artificiosamente il valore
complessivo dell’appalto ai fini di determinarne la soglia
di rilevanza (in
violazione dell’articolo 35, comma 6, del d.lgs. 50/2016).
Tale soluzione,
inoltre, oltre a configurare una sorta di società di fatto
tra il Comune e l’impresa affidatari, non
consente all’impresa di poter organizzare autonomamente il
lavoro per adempiere gli obblighi contrattuali assunti,
rispondendone per l’inadempimento
(infatti, non è dato comprendere come l’impresa affidataria
possa utilizzare personale alle dipendenze altrui senza
poter esercitare i poteri propri del datore di lavoro).
Si consideri, inoltre, che in tal modo
l’ente, nonostante l’esternalizzazione del servizio,
manterrebbe la stessa dotazione organica, senza subirebbe
alcuna variazione in diminuzione sulla spesa di personale.
Come evidenziato dai magistrati contabili l’art. 6-bis del
d.lgs. 165/2001, consente alle p.a. di cui all’articolo 1,
comma 2 (tra cui gli Enti Locali), di acquistare sul mercato
i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, “a
condizione di ottenere conseguenti economie di gestione e di
adottare le necessarie misure in materia di personale e di
dotazione organica”.
Spetta, poi ai collegi dei revisori dei conti e agli organi
di controllo interno delle amministrazioni che attivano i
processi di esternalizzazione, dare evidenza, nei propri
verbali, dei risparmi derivanti dall’adozione dei
provvedimenti in materia di organizzazione e di personale,
anche ai fini della valutazione del personale con incarico
dirigenziale di cui all’articolo 5 del d.lgs. 286/1999
(commento tratto da www.self-entilocali.it).
---------------
Il Comune di Carbone (PZ) assicura il servizio di
raccolta, trasporto e conferimento in discarica dei rifiuti
solidi urbani, il servizio di giardinaggio e i servizi
manutentivi del patrimonio comunale, mediante personale
assunto a tempo pieno e indeterminato, avendo, come sole
attrezzature disponibili, dei cassonetti per la raccolta
indifferenziata dei rifiuti, attrezzature varie per la
manutenzione e la pulizia e un compattatore concesso in uso
gratuito da altro Ente; non sono invece nella disponibilità
dell’Ente le attrezzature per la raccolta differenziata dei
rifiuti, né per il loro conferimento presso centri
autorizzati di recupero.
Il servizio finora assicurato presenta –secondo quanto
rappresentato- criticità sul piano qualitativo e
quantitativo e, d’altra parte, è sorta la necessità di
provvedere alla raccolta differenziata dei rifiuti.
Pertanto, il Comune avrebbe ipotizzato di abbandonare il
modello della gestione diretta in economia per conferire il
servizio a ditte specializzate mediante appalto. Tale
soluzione, tuttavia, presenta il problema che il personale
fino ad oggi adibito di raccolta rifiuti, pulizia e
giardinaggio e manutenzione, potrebbe risultare eccedente
rispetto ai mutati, in diminuzione, fabbisogni dell’Ente.
Tanto esposto, l’istante chiede se sia possibile affidare
i servizi in questione mediante appalto, prevedendo che
l’appaltatore, oltre ai mezzi, alle attrezzature e al
personale aziendale, utilizzi anche le attrezzature, i mezzi
e il personale già nella disponibilità del Comune, che si
farebbe carico degli oneri retributivi, assistenziali e
assicurativi del proprio personale impiegato, delle spese di
conferimento in discarica, nonché delle spese di bollo e di
assicurazione dei mezzi propri forniti, oltre ad altre voci
di spesa. Rimarrebbero, invece, a carico dell’appaltatore
gli altri costi per la raccolta e il trasporto dei rifiuti,
gli oneri per i dispositivi di protezione individuale, ed
altre spese relative al funzionamento e alla manutenzione
ordinaria dei mezzi di trasporto comunali.
...
3. Il Comune di Carbone (PZ), che dichiara di provvedere in
via diretta, con proprio personale assunto a tempo
indeterminato, al servizio di raccolta, trasporto e
conferimento in discarica dei rifiuti solidi urbani,
vorrebbe passare a una diversa modalità del servizio,
affidandolo, mediante appalto, a una ditta specializzata,
anche al fine di realizzare la raccolta differenziata.
Poiché nella situazione descritta vi sono tre unità di
personale di categoria A, assunte a tempo indeterminato,
adibite al servizio di raccolta e trasporto rifiuti, al
servizio di spazzamento strade, ai servizi di giardinaggio e
manutentivi e di pulizia del patrimonio comunale, che
risulterebbero, in conseguenza della esternalizzazione del
servizio, eccedenti il fabbisogno, il Comune si interroga
se, sul piano della sana gestione, sia possibile convenire,
in sede di appalto, che il Comune metta a disposizione
dell’appaltatore le attrezzature, i mezzi e il personale
fino ad ora utilizzato in via diretta, i cui oneri
assistenziali, assicurativi e retributivi resterebbero a
carico del Comune stesso, che si farebbe altresì carico
degli oneri di bollo e di assicurazione dei mezzi, del
materiale di pulizia per gli uffici e materie prime per la
manutenzione esterna e il corrispettivo per il conferimento
in discarica. Rimarrebbero esclusi gli altri costi per la
raccolta e per il trasporto dei rifiuti.
4. L’Ente, in altre parole, si interroga se l’affidamento in
appalto a ditta privata del servizio di raccolta
(differenziata) dei rifiuti e del loro trasporto, del
servizio di spazzamento strade e, come sembra di capire,
anche di giardinaggio, di manutenzione e pulizia del
patrimonio comunale, sia compatibile con i principi di sana
gestione nel caso il Comune partecipasse con personale
proprio, con mezzi propri e con i relativi oneri a proprio
carico, all’esercizio dell’attività di impresa svolta
dall’appaltatore affidatario.
4.1 Preliminarmente si ritiene opportuno richiamare
brevemente (e per quanto qui di interesse) le fonti
normative, statali e regionali, che concorrono a definire il
quadro normativo di riferimento per la “gestione” dei
rifiuti solidi urbani, intendendosi:
i) per “gestione” la
raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei
rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni;
ii) per “raccolta”, il prelievo dei rifiuti, compresi la
cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta,
ivi compresa la gestione dei centri di raccolta, ai fini del
loro trasporto in un impianto di trattamento;
iii) per “raccolta differenziata”, la raccolta in cui un
flusso di rifiuti è tenuto separato in base al tipo ed alla
natura dei rifiuti al fine di facilitarne il trattamento
specifico;
iv) per “gestione integrata dei rifiuti”, il complesso delle
attività, ivi compresa quella di spazzamento delle strade
volte ad ottimizzare la gestione dei rifiuti;
v) per “spazzamento delle strade”, le modalità di raccolta
dei rifiuti mediante operazione di pulizia delle strade,
aree pubbliche e aree private ad uso pubblico escluse le
operazioni di sgombero della neve dalla sede stradale e sue
pertinenze, effettuate al solo scopo di garantire la loro
fruibilità e la sicurezza del transito (art. 183, D.Lgs. n.
152/2006).
4.1.1 In questo contesto, l’art. 177 del D.Lgs. ult. cit.,
ha espressamente sancito che “La gestione dei rifiuti
costituisce attività di pubblico interesse” (comma 2); per
conseguire le finalità e gli obiettivi indicati, “lo Stato,
le regioni, le province autonome e gli enti locali
esercitano i poteri e le funzioni di rispettiva competenza
in materia di gestione dei rifiuti in conformità alle
disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto,
adottando ogni opportuna azione ed avvalendosi, ove
opportuno, mediante accordi, contratti di programma o
protocolli d'intesa anche sperimentali, di soggetti pubblici
o privati (comma 5)”.
Più nello specifico, ai Comuni è attribuito, tra gli altri,
il compito di concorrere, “nell'ambito delle attività svolte
a livello degli ambiti territoriali ottimali di cui
all'articolo 200 e con le modalità ivi previste, alla
gestione dei rifiuti urbani ed assimilati. Sino all'inizio
delle attività del soggetto aggiudicatario della gara ad
evidenza pubblica indetta dall'Autorità d'ambito ai sensi
dell'articolo 202, i comuni continuano la gestione dei
rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo
smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui
all'articolo 113, comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (art. 198, comma 1)”.
Ai comuni è data, anche, potestà regolamentare per la
disciplina della gestione dei rifiuti solidi urbani, nel
rispetto dei principi di trasparenza, efficienza, efficacia
ed economicità e in coerenza con i piani d'ambito adottati
ai sensi dell'articolo 201, comma 3, potendo stabilire in
particolare, tra l’altro, le modalità del servizio di
raccolta e trasporto dei rifiuti urbani, le modalità del
conferimento, della raccolta differenziata e del trasporto
dei rifiuti urbani ed assimilati al fine di garantire una
distinta gestione delle diverse frazioni di rifiuti e
promuovere il recupero degli stessi (comma 2). I Comuni,
ancora, vengono sentiti per la predisposizione dei “piani
regionali” (art. 199).
L’art. 200 del citato decreto legislativo prescrive che la
gestione dei rifiuti urbani sia organizzata sulla base di
ambiti territoriali ottimali, di seguito anche denominati
ATO, delimitati dal piano regionale di cui all'art. 199, nel
rispetto delle linee guida di cui all'art. 195, comma 1,
lettere m), n) ed o). In ogni caso, le regioni possono
adottare modelli alternativi o in deroga al modello degli
Ambiti Territoriali Ottimali laddove predispongano un piano
regionale dei rifiuti che dimostri la propria adeguatezza
rispetto agli obiettivi strategici previsti dalla normativa
vigente, con particolare riferimento ai criteri generali e
alle linee guida riservati, in materia, allo Stato ai sensi
dell'art. 195.
Al fine dell'organizzazione del servizio di <gestione
integrata dei rifiuti urbani> (secondo la definizione sopra
data dal testo normativo), il comma 1 dell’art. 201 aveva
imposto alle regioni e alle province autonome di Trento e di
Bolzano di disciplinare le forme e i modi della cooperazione
tra gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale,
prevedendo che gli stessi costituissero le <Autorità
d'ambito> alle quali demandare, nel rispetto del principio
di coordinamento con le competenze delle altre
amministrazioni pubbliche, “l'organizzazione, l'affidamento
e il controllo del servizio di gestione integrata dei
rifiuti”.
Tuttavia, il comma 186-bis dell’art. 2 della legge n.
191/2009 (introdotto dall’art. 1, comma 1-quinquies, del
D.L. n. 2/2010), ha disposto, prima, la soppressione delle
Autorità d'ambito territoriale di cui al citato art. 201,
demandando alle regioni di attribuire con legge regionale le
funzioni già esercitate dalle Autorità d’ambito, nel
rispetto dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza; poi (con termine di volta in volta prorogato
fino al 31.12.2012), ha disposto la definitiva abrogazione
dello stesso art. 201.
In tema di affidamento del servizio l’art. 202 disponeva, al
comma 1, che “L'Autorità d'ambito aggiudica il servizio di
gestione integrata dei rifiuti urbani mediante gara
disciplinata dai principi e dalle disposizioni comunitarie,
secondo la disciplina vigente in tema di affidamento dei
servizi pubblici locali in conformità ai criteri di cui
all'articolo 113, comma 7, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché con riferimento all'ammontare del
corrispettivo per la gestione svolta, tenuto conto delle
garanzie di carattere tecnico e delle precedenti esperienze
specifiche dei concorrenti, secondo modalità e termini
definiti con decreto dal Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio e del mare nel rispetto delle
competenze regionali in materia”.
Detto comma 1, tuttavia, è stato abrogato dall’art. 12 del
D.P.R. 07/09/2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi
pubblici locali di rilevanza economica, a norma
dell'articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge
06.08.2008, n. 133), ad eccezione della parte in cui
individua[va] (e conserva[va]) la competenza dell'Autorità
d'ambito per l'affidamento e l'aggiudicazione. D’altra
parte, come sopra detto, <l’Autorità d’ambito> cui si
riferisce il citato art. 202 è stata, poi, definitivamente
soppressa a decorrere dal 31.12.2012.
Restano ferme, comunque, le ulteriori disposizioni
precettive del citato art. 202 a tenore delle quali, “I
soggetti partecipanti alla gara devono formulare, con
apposita relazione tecnico-illustrativa allegata
all'offerta, proposte di miglioramento della gestione, di
riduzione delle quantità di rifiuti da smaltire e di
miglioramento dei fattori ambientali, proponendo un proprio
piano di riduzione dei corrispettivi per la gestione al
raggiungimento di obiettivi autonomamente definiti (comma
2). Nella valutazione delle proposte si terrà conto, in
particolare, del peso che graverà sull'utente sia in termini
economici, sia di complessità delle operazioni a suo carico
(comma 3). Gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali di
proprietà degli enti locali già esistenti al momento
dell'assegnazione del servizio sono conferiti in comodato ai
soggetti affidatari del medesimo servizio” (comma 4).
Di particolare interesse è il successivo comma 6: “Il
personale che, alla data del 31.12.2005 o comunque
otto mesi prima dell'affidamento del servizio, appartenga
alle amministrazioni comunali, alle aziende ex
municipalizzate o consortili e alle imprese private, anche
cooperative, che operano nel settore dei servizi comunali
per la gestione dei rifiuti sarà soggetto, ferma restando la
risoluzione del rapporto di lavoro, al passaggio diretto ed
immediato al nuovo gestore del servizio integrato dei
rifiuti, con la salvaguardia delle condizioni contrattuali,
collettive e individuali, in atto. Nel caso di passaggio di
dipendenti di enti pubblici e di ex aziende municipalizzate
o consortili e di imprese private, anche cooperative, al
gestore del servizio integrato dei rifiuti urbani, si
applica, ai sensi dell'articolo 31 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, la disciplina del trasferimento del
ramo di azienda di cui all'articolo 2112 del codice civile”.
Si aggiunge, per completezza, che il comma
4 dell’art. 25 del D.L. n. 1/2012, ha previsto che sono
affidate ai sensi dell’art. 202, e nel rispetto della
normativa sull’evidenza pubblica, le seguenti attività
funzionali alla gestione ed erogazione integrata dei rifiuti
urbani: “a) la gestione ed
erogazione del servizio che può comprendere le attività di
gestione e realizzazione degli impianti; b) la raccolta, la
raccolta differenziata, la commercializzazione e l'avvio a
smaltimento e recupero, nonché, ricorrendo le ipotesi di cui
alla lettera a), smaltimento completo di tutti i rifiuti
urbani e assimilati prodotti all'interno dell'ATO. Nel caso
in cui gli impianti siano di titolarità di soggetti diversi
dagli enti locali di riferimento, all'affidatario del
servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani devono
essere garantiti l'accesso agli impianti a tariffe regolate
e predeterminate e la disponibilità delle potenzialità e
capacità necessarie a soddisfare le esigenze di conferimento
indicate nel piano d'ambito”.
Occorre, tuttavia, non cadere nell’equivoco che con la
soppressione delle “Autorità d’ambito”, previste dalla
normativa di settore sopra riportata, si sia voluto compiere
un arretramento rispetto alle finalità di cui era strumento.
Ed invero l’art. 3-bis, D.L. n. 138/2011, introdotto
dall’art. 25, comma 1, lett. a), D.L. n. 1/2012, le cui
prescrizioni espressamente si intendono riferite, salvo
deroghe espresse, anche al settore dei rifiuti urbani (comma
6-bis), ha stabilito, in via generale e per lo svolgimento
di tutti i servizi pubblici locali a rete di rilevanza
economica, che, a tutela della concorrenza e dell'ambiente,
le regioni (…) definiscano il perimetro degli ambiti o
bacini territoriali ottimali e omogenei tali da consentire
economie di scala e di differenziazione idonee a
massimizzare l'efficienza del servizio.
La dimensione degli ambiti o bacini territoriali ottimali di
norma deve essere non inferiore almeno a quella del
territorio provinciale, salvo che le regioni individuino
specifici bacini territoriali di dimensione diversa, anche
in relazione alle caratteristiche del singolo servizio,
purché siano rispettati i principi di proporzionalità,
adeguatezza ed efficienza. Ciò che qui mette conto rilevare
è che le funzioni di <scelta della forma di gestione,
(scelta della forma) di determinazione delle tariffe
all'utenza per quanto di competenza, (scelta della forma) di
affidamento della gestione e relativo controllo> anche dei
servizi appartenenti al settore dei rifiuti urbani (in
quanto servizi pubblici locali a rete di rilevanza
economica), <sono esercitate unicamente dagli enti di
governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e
omogenei>, già in precedenza istituiti o di nuova
designazione, cui gli enti locali partecipano
obbligatoriamente.
Detti enti di governo devono effettuare la relazione
prescritta dall'articolo 34, comma 20, del decreto-legge 18.10.2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla
legge 17.12.2012, n. 221, <e le loro deliberazioni
sono validamente assunte nei competenti organi degli stessi
senza necessità di ulteriori deliberazioni, preventive o
successive, da parte degli organi degli enti locali. Nella
menzionata relazione, gli enti di governo danno conto della
sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo
per la forma di affidamento prescelta e ne motivano le
ragioni con riferimento agli obiettivi di universalità e
socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del
servizio>. In sede di affidamento del servizio mediante
procedura ad evidenza pubblica, l'adozione di strumenti di
tutela dell'occupazione costituisce elemento di valutazione
dell'offerta.
4.1.2 A livello regionale, la Regione Basilicata, con legge
n. 1/2016, ha rideterminato, come già aveva stabilito in
precedenza (cfr. L.R. n. 6/2001), la istituzione di una sola
ATO coincidente con il territorio regionale (art. 2), alla
quale devono partecipare obbligatoriamente tutti i comune
della regione (art. 21, L.R. n. 4/2015), ed ha istituito
l’<Ente di Governo per i Rifiuti e le risorse Idriche della
Basilicata>, di seguito anche "E.G.R.I.B.", al fine di
procedere (tra l’altro) al riordino della disciplina
regionale sulla Gestione Integrata dei Rifiuti, in linea con
quanto disposto dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 ed in
attuazione dell'articolo 21 della legge regionale 27.01.2015, n. 4. Infine, con deliberazione di Giunta n. 961 del
09.08.2016, è stato adottato definitivamente il “Piano
Regionale di gestione dei rifiuti”.
L'E.G.R.I.B., nel rispetto delle competenze ed attribuzioni
spettanti per legge ad altri soggetti, è responsabile del
governo, tra l’altro, della Gestione Integrata dei Rifiuti,
subentrando e svolgendo le funzioni già svolte dalla
Conferenza Interistituzionale di Gestione dei Rifiuti, già
Autorità d'Ambito Rifiuti, di cui alla legge regionale 02.02.2001, n. 6 e successive modifiche, nonché quelle
previste per l'autorità dell'ambito dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 e successive modifiche.
In precedenza, con la citata legge regionale n. 6/2001, e
successive modifiche, si era disciplinata l’organizzazione e
la gestione dei rifiuti distinguendo le competenze della
Regione da quelle attribuite ai comuni (rispettivamente
artt. 4 e 6) e si era istituita una unica ATO (art. 14) in
sostituzione delle precedenti due (coincidenti con le
province). L’art. 15 della citata L.R. n. 6/2001, nel testo
previgente, aveva configurato lo svolgimento del servizio di
gestione integrata dei rifiuti in forma associata e unitaria
da parte dei comuni lucani ricadenti nell’(unica) ATO,
lasciando alla Regione le funzioni di coordinamento e (art.
16-bis) demandando all’Autorità d’ambito territoriale
l’organizzazione del servizio e la determinazione degli
obiettivi da perseguire per garantire l'efficienza,
l'efficacia, l'economicità e la trasparenza nella gestione
integrata dei rifiuti, affidandole le funzioni ed i compiti
ad essa assegnati dal D.Lgs 152/2006 e successive modifiche
ed integrazioni.
Tuttavia, il modello di governo incentrato sull’Autorità
d’ambito è stato abrogato dall’art. 27 della L.R. n.
33/2010, che, nel riformulare, sostituendolo, l’art. 15
della L.R. n. 6/2001, ha trasferito alla Conferenza
Interistituzionale di Gestione dei Rifiuti le funzioni già
esercitate dall'Autorità d'Ambito Rifiuti, alla quale
subentra nei relativi rapporti giuridici in essere, e ha
riferito alla predetta Conferenza tutte le disposizioni
della L.R. n. 6/2001, non abrogate, contenenti richiami
all'Autorità d'Ambito.
La Conferenza Interistituzionale di Gestione dei Rifiuti,
che si configura come una convenzione obbligatoria fra gli
enti locali alla quale aderiscono le Province e l'Ente
Regione, è quindi chiamata a svolgere le funzioni di governo
del sistema regionale di gestione dei rifiuti per un periodo
di anni trenta, con attribuzione, tra gli altri, del compito
di (h) determinare i livelli di imposizione tariffaria del
servizio pubblico di gestione integrata dei rifiuti, secondo
i criteri di economicità, efficacia, efficienza e
sostenibilità, (i) individuare la forma di gestione del
servizio di gestione integrata dei rifiuti e curarne gli
atti di affidamento.
A chiusura di questa disamina delle fonti, la legge
regionale n. 1/2016 ha istituito, come detto, l’E.G.R.I.B.,
che è il nuovo ente responsabile del governo, tra l’altro,
della Gestione Integrata dei Rifiuti, che subentra e svolge
le funzioni già svolte dalla Conferenza Interistituzionale
di Gestione dei Rifiuti, già Autorità d'Ambito Rifiuti, nel
rispetto delle competenze ed attribuzioni spettanti per
legge ad altri soggetti.
4.2 Alla luce di tale necessaria e articolata ricostruzione
del quadro normativo, si evidenzia una prima criticità in
merito a quanto rappresentato dall’Ente istante. Ci si
riferisce, cioè, a quali siano i soggetti istituzionalmente
competenti ad affidare la gestione del servizio e come si
ripartiscano le rispettive competenze.
Sebbene questo aspetto non sia stato (né avrebbe potuto
essere) evocato nella richiesta di parere, non di meno è
opportuno evidenziarlo all’Ente istante.
Da un lato il
Consiglio di Stato, Sez. V, 01/08/2015 n. 3780, sia pure allo
specifico fine di radicare la propria giurisdizione nel caso
concreto, ha affermato che “Il servizio di raccolta e
trasporto dei rifiuti rientra nella definizione di servizio
pubblico. (…) I servizi di igiene urbana attinenti la
raccolta ed il trasporto di rifiuti rientrano nella
qualificazione dell'art. 112 T.U.E.L., ai sensi del quale
"gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze,
provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano
per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a
realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico
e civile delle comunità locali" e che, ai sensi dell'art.
198 d.lgs. 03.04.2006, n. 152, spetti ai Comuni la
gestione dei rifiuti urbani, compresa la disciplina delle
modalità del servizio di raccolta e di trasporto”.
D’altro canto occorre qui richiamare quanto sopra illustrato
circa il fatto che il legislatore statale, con l’art. 1,
comma 1-quinquies, del D.L. n. 2/2010, che ha introdotto il
comma 186-bis dell’art. 2 della legge n. 191/2009, ha
demandato al legislatore regionale di disciplinare e di
attribuire le funzioni già esercitate dalle Autorità
d’ambito, nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza. In questo contesto, la
Regione Basilicata, con le varie leggi che si sono succedute
e di cui si è sopra dato conto, ha scelto il modello della
gestione integrata dei rifiuti per il tramite di un apposito
Ente che riunisce tutti i comuni lucani, al quale è stato
demandato, appunto, il compito di “individuare la forma di
gestione del servizio di gestione integrata dei rifiuti e
curarne gli atti di affidamento”.
Pertanto, per prima cosa, il Comune istante dovrà
verificare, per il rispetto dei principi di legittimità e di
sana gestione, se il modello di servizio e di affidamento
della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, di
trasporto e di spazzamento, che intende adottare sul proprio
territorio, sia conforme e coerente con le prescrizioni
–eventualmente esistenti– assunte dall’Ente di gestione
attuale o da quelli che l’hanno preceduto e ai quali è
subentrato.
4.3.1 Con riguardo all’intenzione di affidare a ditta
privata il servizio di racconta (differenziata) dei rifiuti,
di spazzamento e di trasporto, non è superfluo ricordare che
l’appalto dovrà seguire le regole della evidenza pubblica
contenute nelle vigenti disposizioni, anche con riferimento
alle soglie di rilevanza del valore dell’appalto.
La raccolta, lo spazzamento e il trasporto dei rifiuti
solidi urbani è un servizio ad alta intensità di manodopera,
dove cioè è maggiore la spesa per il personale impiegato
rispetto agli investimenti richiesti in mezzi e
infrastrutture. Pertanto l’intenzione del Comune committente
di mantenere a proprio carico la spesa del personale
dipendente già adibito al servizio, unitamente al costo del
materiale, agli oneri di manutenzione straordinaria dei
mezzi dati in comodato gratuito all’appaltatore, manifesta
alcuni aspetti critici che occorre evidenziare.
In primo luogo, se il valore dell’appalto è determinato
soltanto dal corrispettivo pattuito, al netto delle spese
che restano a carico del committente, il rischio è quello di
distorcere artificiosamente il valore complessivo
dell’appalto ai fini di determinarne la soglia di rilevanza.
A questo proposito è il caso di richiamare l’attenzione del
comune istante sulla disposizione di cui al comma 6
dell’art. 35 del D.Lgs. n. 50/2016, per il quale “La scelta
del metodo per il calcolo del valore stimato di un appalto o
concessione non può essere fatta con l'intenzione di
escluderlo dall'ambito di applicazione delle disposizioni
del presente codice relative alle soglie europee”.
4.3.2 Inoltre, il conferimento da parte del committente, con
oneri a suo carico, di risorse di personale e di mezzi
destinati ad essere impiegati dall’impresa appaltatrice nel
servizio, potrebbe ingenerare il dubbio che si vada a
determinare una sorta di società di fatto tra il Comune e
l’impresa affidataria o, quanto meno, che anche il
committente partecipi all’esercizio dell’impresa nella
misura in cui ne sopporta una parte dei costi di esercizio
o, ancora, che vi sia, più in generale, una qualche
cointeressenza.
In questo senso, la circostanza che il
Comune denuncia di trovarsi, in caso contrario, a dover
mantenere personale dipendente in esubero, rende ancora più
evidente l’esistenza di un interesse concorrente e
convergente dell’Ente al modello di affidamento prescelto
che, tuttavia, di per sé non si qualifica senz’altro come
conforme alla sana gestione.
Del resto, non è dato comprendere come l’impresa affidataria
possa utilizzare personale alle dipendenze altrui, non solo
economicamente, ma anche in termini contrattuali e di
disciplina, senza poter esercitare i poteri propri del
datore di lavoro. Neppure è chiaro come l’impresa, in una
situazione così ibrida, possa organizzare autonomamente il
lavoro per adempiere gli obblighi contrattuali assunti,
rispondendone per l’inadempimento.
4.4 Quanto alla sana gestione delle risorse, che l’Ente già
impiega nel servizio svolto direttamente e in economia, si
osserva che il citato art. 202, commi 4 e 6, del D.Lgs. n.
152/2006, nel dettare le condizioni economiche che gli
aspiranti affidatari del servizio partecipanti alla gara
devono rappresentare, prescrive che “Gli impianti e le altre
dotazioni patrimoniali di proprietà degli enti locali già
esistenti al momento dell'assegnazione del servizio sono
conferiti in comodato ai soggetti affidatari del medesimo
servizio. (…) Il personale che, alla data del 31.12.2005 o comunque otto mesi prima dell'affidamento del
servizio, appartenga alle amministrazioni comunali, alle
aziende ex municipalizzate o consortili e alle imprese
private, anche cooperative, che operano nel settore dei
servizi comunali per la gestione dei rifiuti sarà soggetto,
ferma restando la risoluzione del rapporto di lavoro, al
passaggio diretto ed immediato al nuovo gestore del servizio
integrato dei rifiuti, con la salvaguardia delle condizioni
contrattuali, collettive e individuali, in atto. Nel caso di
passaggio di dipendenti di enti pubblici e di ex aziende
municipalizzate o consortili e di imprese private, anche
cooperative, al gestore del servizio integrato dei rifiuti
urbani, si applica, ai sensi dell'articolo 31 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, la disciplina del
trasferimento del ramo di azienda di cui all'articolo 2112
del codice civile”.
Ciò stante non è stato chiarito come il Comune intenda
superare il dettato normativo, tanto più che, sul punto,
l’art. 6-bis del D.Lgs. 30/03/2001, n. 165, ha stabilito che
le amministrazioni interessate ai processi di
esternalizzazione devono “ottenere conseguenti economie di
gestione e (…) adottare le necessarie misure in materia di
personale e di dotazione organica. Relativamente alla spesa
per il personale e alle dotazioni organiche, le
amministrazioni interessate dai processi di cui al presente
articolo provvedono al congelamento dei posti e alla
temporanea riduzione dei fondi della contrattazione, fermi
restando i conseguenti processi di riduzione e di
rideterminazione delle dotazioni organiche nel rispetto
dell'articolo 6 nonché i conseguenti processi di
riallocazione e di mobilità del personale”.
Nel caso di specie sembra, invece, potersi arguire che la
spesa di personale non subirebbe variazioni in diminuzione.
Ed invero, mantenendo la dotazione organica in essere, il
saldo “spesa di personale”, che l’Ente contabilizza ai fini
del rispetto degli obiettivi di contenimento e della
determinazione dello spazio assunzionale, non verrebbe
migliorato in quanto la spesa per il personale dipendente,
ancorché adibito al servizio di raccolta esternalizzato,
andrebbe comunque imputata all’aggregato “spesa di
personale” dell’Ente.
4.5 Quanto alle condizioni che giustificano
l’esternalizzazione del servizio, si osserva che, nello
specifico settore, il già citato art. 202 D.Lgs. n. 152/2006
ha prescritto che “I soggetti partecipanti alla gara devono
formulare, con apposita relazione tecnico-illustrativa
allegata all'offerta, proposte di miglioramento della
gestione, di riduzione delle quantità di rifiuti da smaltire
e di miglioramento dei fattori ambientali, proponendo un
proprio piano di riduzione dei corrispettivi per la gestione
al raggiungimento di obiettivi autonomamente definiti (comma
2). Nella valutazione delle proposte si terrà conto, in
particolare, del peso che graverà sull'utente sia in termini
economici, sia di complessità delle operazioni a suo carico
(comma 3). Occorre, cioè, che l’impresa partecipante alla
gara illustri il vantaggio economico, in termini di spesa e
di efficienza, che il committente avrebbe rispetto alla
gestione diretta in economia fino ad allora svolta.
In termini più generali, l’art. 6-bis del D.Lgs. 30/03/2001,
n. 165, citato, consente alle pubbliche amministrazioni di
cui all'articolo 1, comma 2, tra cui gli Enti Locali, purché
nel rispetto dei princìpi di concorrenza e di trasparenza,
di acquistare sul mercato i servizi, originariamente
prodotti al proprio interno, “a condizione di ottenere
conseguenti economie di gestione e di adottare le necessarie
misure in materia di personale e di dotazione organica”.
Spetta, poi ai collegi dei revisori dei conti e agli organi
di controllo interno delle amministrazioni che attivano i
processi di esternalizzazione, vigilare sull'applicazione
del presente articolo, dando evidenza, nei propri verbali,
dei risparmi derivanti dall'adozione dei provvedimenti in
materia di organizzazione e di personale, anche ai fini
della valutazione del personale con incarico dirigenziale di
cui all'articolo 5 del decreto legislativo 30.07.1999,
n. 286.
5. Nelle considerazioni che precedono è espresso l’avviso di
questa Sezione regionale di controllo circa alcuni aspetti
di non risolta criticità e di non evidente coerenza con i
principi di sana e legittima gestione delle risorse, in
ordine alla soluzione prospettata dall’Ente istante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
parere 14.12.2016 n. 47). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
PUBBLICO IMPIEGO: Il
carico di lavoro non salva il dirigente dalla colpa da
ritardo. Corte dei conti. Danno erariale.
I dirigenti pubblici sono
responsabili dei danni provocati al proprio ente dai ritardi
che hanno accumulato nella adozione di atti amministrativi;
il carico di lavoro che grava su di loro non costituisce una
circostanza esimente che consente di ridimensionare la colpa
da grave a semplice.
Sono queste le importanti indicazioni dettate dalla
sentenza 19.10.2016 n. 195 della Sez.
giurisdizionale della Sardegna.
La pronuncia evidenzia l’ampiezza della responsabilità
amministrativa che matura in capo ai dirigenti sulla base
della normativa oggi in vigore e, di conseguenza,
ridimensiona in misura assai significativa l’importanza
delle scelte contenute nella riforma Madia, e nello schema
di decreto legislativo sulla dirigenza che sta per essere
adottato. Si conferma che le nuove disposizioni formalizzano
principi che per la giurisprudenza, in particolare
contabile, sono già oggi in vigore e non sono, di
conseguenza, tali da potere essere giudicati come uno
stravolgimento del quadro normativo attualmente in vigore.
Il caso specifico si riferisce al ritardo con cui il
dirigente tecnico di un Comune ha comunicato a una società
la revoca dell’aggiudicazione di un incarico di supporto al
responsabile unico del procedimento, revoca che per la Corte
dei Conti è da giudicare come una scelta legittima, ma che
ha determinato oneri aggiuntivi in capo al Comune per le
spese legali che l’ente è stato chiamato a rifondere a
seguito del contenzioso dinanzi al Tar sul ritardo nella
adozione dell’atto di revoca, nonché da quelli sostenuti per
la transazione cui l’ente è addivenuto.
Il punto centrale della sentenza è senza dubbio costituito
dall’affermazione per cui la condotta del dirigente che
ritarda l’adozione di atti amministrativi non è scusabile,
tanto più nel caso in cui lo stesso aveva indicato la
necessità di dare corso alla revoca della aggiudicazione e,
di conseguenza, l’atto «non presentava profili di
particolare complessità, tali da giustificare un ritardo
così pronunciato». Né vale ad escludere la maturazione della
responsabilità la giustificazione della molteplicità di
impegni del dirigente.
Altro elemento che la sentenza sottolinea e che concorre
alla maturazione dell’elemento psicologico della colpa grave
è costituito dal fatto che il dirigente non poteva non avere
ben chiaro l’elevato rischio di soccombenza a cui
sottoponeva l’ente per il ritardo nell’adozione del
provvedimento in caso di ricorso giurisdizionale. Il fatto
che la revoca risulti ampiamente giustificata, nelle
considerazioni dei giudici contabili, in quanto è venuto
meno l’interesse dell’ente al supporto del Rup, costituisce
solamente un elemento che consente alla Corte di applicare
il “potere riduttivo” e, di conseguenza, di diminuire la
misura della sanzione da irrogare.
Nella quantificazione della sanzione la sentenza ha infine
escluso la possibilità di compensazione in quanto il danno
che è stato provocato all’ente «non è la conseguenza del
provvedimento di revoca, bensì del ritardo con il quale esso
è stato adottato», quindi si è in presenza di elementi
che tra loro non sono comparabili (articolo Il Sole 24 Ore del 21.11.2016).
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MASSIMA
Il Procuratore regionale addebita alla convenuta il
danno derivato all’amministrazione di appartenenza per la
tardiva conclusione di un procedimento amministrativo.
Come detto in narrativa, la convenuta, all’epoca dei fatti
dirigente dell’Area Tecnica del Comune di Assemini, ha
scelto di non addivenire alla stipula del contratto con una
società che era risultata aggiudicataria in via definitiva
di una procedura negoziata per l’affidamento del servizio di
assistenza al responsabile unico del procedimento (RUP),
relativamente a lavori di messa a norma e manutenzione di
alcuni edifici scolastici. La dirigente, reputato che
l’affidamento ad un soggetto terzo di detto servizio non
fosse necessario, potendo l’amministrazione provvedere con
l’utilizzo del personale dell’ente, ha comunicato alla
suddetta società l’avvio del procedimento di revoca
dell’aggiudicazione.
Il relativo provvedimento è però intervenuto a distanza di
oltre nove mesi da tale comunicazione. Nel frattempo, la
società aggiudicataria ha proposto azione innanzi al TAR
Sardegna chiedendo che il giudice amministrativo dichiarasse
l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione
sulla diffida a stipulare il contratto o, in via gradata, in
ordine al procedimento di revoca dell’aggiudicazione, in
entrambi i casi con condanna del Comune al risarcimento dei
danni.
La vertenza si è chiusa con una transazione che ha
riconosciuto alla società in questione la complessiva somma
di euro 4.366,80 a completa tacitazione delle sue pretese,
che, unitamente a quanto speso dal Comune per la sua difesa
innanzi al TAR, costituisce il danno che il Procuratore
regionale chiede sia addebitato alla convenuta, in ragione
della ingiustificata inerzia da essa serbata sino al momento
dell’adozione del provvedimento suddetto.
La domanda è fondata, salvo quanto si dirà appresso in
ordine all’entità del danno risarcibile e della parte di
esso da porre a carico della parte convenuta.
E’ indubitabile che il pregiudizio per l’erario comunale sia
da mettere in relazione causale con l’ingiustificato ritardo
con il quale la dirigente SA. ha concluso il
procedimento di revoca dell’aggiudicazione alla società Te..
E’ evidente che, ove tale provvedimento fosse stato emesso
entro il termine di cui all’art. 2, comma 2, della legge n.
241/1990 (non risultando né essendo stata allegata
l’esistenza di un diverso e più lungo termine per la
conclusione del procedimento) o, comunque, prima che il
ricorso innanzi al TAR da parte della società aggiudicataria
venisse proposto (a distanza, va sottolineato, di circa otto
mesi dalla comunicazione di avvio del procedimento di
revoca, a dimostrazione del fatto che vi era stato un
sufficiente arco di tempo tale da consentire l’utile
adozione del provvedimento, anche successivamente allo
spirare del termine di legge), il Comune non sarebbe stato
costretto al pagamento delle spese legali, così come di
quelle sostenute per la propria difesa.
Certamente, è possibile, per non dire verosimile, che la
Te. potesse proporre ricorso contro il provvedimento di
revoca, ma in tal caso le possibilità del Comune di
risultare vittorioso nella causa (in ragione delle
motivazioni addotte) sarebbero state elevate.
Come sottolineato dal Pubblico ministero,
la convenuta non
ha dato alcuna giustificazione per la tardiva conclusione
del procedimento, se non l’essere stata, nel periodo
interessato, oberata di curare altri, numerosi e importanti
procedimenti amministrativi, talché difetterebbe nella sua
condotta ogni profilo di colpa, quanto meno grave.
Deve però obiettarsi che il provvedimento di che trattasi,
nel momento in cui la dirigente aveva (opportunamente) ormai
individuato le ragioni di pubblico interesse che la
inducevano a revocare l’aggiudicazione definitiva
(valutazione che sicuramente può farsi risalire al momento
in cui venne comunicato l’avvio del relativo procedimento),
non presentava profili di particolare complessità, tali da
giustificare un ritardo così pronunciato, pur considerando
l’intensità del coevo impegno lavorativo della convenuta.
Per converso,
SA. era sicuramente avvertita
dell’importanza di concludere tempestivamente il
procedimento, non solo per ragioni di astratta legittimità
dell’azione amministrativa, ma anche perché l’eventualità di
un’iniziativa giudiziaria della aggiudicataria (alla luce
dello svolgimento della vicenda, come illustrato in
citazione)
era altamente prevedibile, così come lo era il
fatto che, se tale ricorso fosse stato proposto contro il
silenzio dell’amministrazione, quest’ultima avrebbe visto
sicuramente compromessa la sua posizione.
Per il resto, la difesa della convenuta si incentra, in
primo luogo, su un presunto difetto del nesso di causalità
tra la condotta della dirigente e il danno, in quanto
quest’ultimo sarebbe da collegare a fattori causali
sopravvenuti non imputabili a SA..
Per quanto concerne la sentenza del TAR, con la quale venne
dichiarata la cessazione della materia del contendere sulla
domanda di accertamento dell’illegittimità del silenzio
(essendo nelle more intervenuta l’adozione del provvedimento
di revoca dell’aggiudicazione), la difesa ne sostiene
l’erroneità sotto due profili, che avrebbero dovuto
determinare il non accoglimento della domanda stessa. Ove il
giudice amministrativo li avesse riscontrati, si sostiene,
ne avrebbe sicuramente tenuto conto ai fini della decisione
sulle spese, che sarebbero state quanto meno compensate.
Il primo profilo attiene ad un presunto difetto di
giurisdizione del G.A. che riguarderebbe le domande inerenti
a pretese che nascono, in capo all’aggiudicatario, dal
provvedimento di aggiudicazione definitiva, le quali, avendo
consistenza di diritto soggettivo, sarebbero rientranti
nella giurisdizione del giudice ordinario.
La tesi è infondata ed era stata motivatamente e
ripetutamente disattesa già all’epoca della pronuncia del
TAR Sardegna (v. la giurisprudenza citata in TAR Roma,
Sezione II, n. 12400 del 03/11/2015, con particolare
riguardo alle richiamate pronunce della Corte di cassazione,
comprese tra il 2007 e il 2011, le quali avevano chiaramente
stabilito che la posizione dell’aggiudicatario, nella fase
che va dall’aggiudicazione definitiva alla stipula del
conseguente contratto, rimane quella di titolare di
interesse legittimo).
Il secondo profilo di erroneità della sentenza sarebbe da
ricondurre alla non rilevata tardività del ricorso contro il
silenzio dell’amministrazione, proposto dopo la scadenza del
termine annuale previsto dall’art. 31, comma 2, del d.l.vo
n. 104/2010.
Poiché la ricorrente denunciava (con la domanda proposta in
via principale) l’illegittimità del silenzio con riguardo
alla omessa stipulazione del contratto e il termine entro il
quale il Comune avrebbe dovuto procedervi (sessanta giorni
decorrenti dall’aggiudicazione definitiva, ai sensi
dell’art. 11, comma 9, del codice dei contratti pubblici) era
scaduto in data 20.02.2011, il ricorso avverso tale
silenzio, siccome proposto solo il 20.11.2012, sarebbe
stato da giudicare intempestivo.
Va detto, però, che la convenuta, con nota del 28.03.2012, aveva comunicato alla Te. il proprio intento di
non procedere più alla stipulazione del contratto e di dare
invece avvio al procedimento di revoca dell’aggiudicazione.
Tale comunicazione, non meramente interlocutoria, ma anzi
indicativa di un orientamento dell’amministrazione opposto
alla stipula del contratto sollecitata dalla società
aggiudicataria, non può non essere considerato come un fatto
sopravvenuto tale da rendere la successiva istanza-diffida
della Te. del 06.08.2012 come non meramente
riproduttiva delle precedenti istanze e quindi idonea a
riaprire il termine in questione.
Va infatti considerato che la società aveva dovuto, nel
frattempo, valutare la persistenza del proprio interesse
alla stipula del contratto in relazione al fatto nuovo
rappresentato dalla suddetta comunicazione. Prove ne sia
che, nell’istanza da ultimo richiamata, è stata affrontata
anche la questione della supposta inesistenza di motivi
validi per un provvedimento di revoca dell’aggiudicazione
(sino a quel momento e anche in prosieguo non ancora
adottato).
Tanto comporta che, quanto meno con riguardo
all’istanza-diffida del 06.08.2012, il ricorso non
potesse essere dichiarato tardivo (e ciò anche a prescindere
dal fatto che la tesi difensiva, secondo cui istanze
meramente ripetitive di quella iniziale non sarebbero idonee
a riaprire il termine per l’impugnazione del silenzio-rifiuto, è tutt’altro che incontrastata, v. ad es. TAR
Milano, Sezione II, n. 2143 del 12/10/2015).
Ancora, la difesa ritiene che l’importo delle spese
sostenute dal Comune per la propria difesa nel giudizio
innanzi al TAR non possano essere collegate alla condotta di
SA., bensì alla decisione del Comune, e per esso, del
Commissario straordinario che all’epoca era in carica, così
come del legale da esso nominato, di costituirsi nel
giudizio e resistere alle domande della controparte, così
determinando, si afferma, un inutile aggravio di spesa per
l’Ente.
Neppure sarebbero addebitabili alla convenuta le somme
riconosciute alla Te. a seguito di transazione, poiché
su tale accordo, e segnatamente sulle condizioni economiche
dello stesso, SA., che all’epoca si era dimessa dal
Comune già da alcuni mesi, non espresse alcuna valutazione,
limitandosi, con la nota richiamata dal Procuratore
regionale, ad una mera comunicazione interlocutoria e
generica sulla possibilità di chiudere bonariamente il
contenzioso.
La tesi difensiva non può essere accolta.
Entrambi i fatti (la costituzione in giudizio e la
successiva transazione) debbono essere considerati come
sviluppi, rientranti in un ambito di regolarità causale,
della vicenda originata dall’inerzia della convenuta. Gli
stessi non possono essere considerati fatti imputabili al
creditore che hanno comportato un ingiustificato incremento
del danno, che, come tale, non sarebbe addebitabile
all’autore della condotta illecita.
Al riguardo, deve concordarsi con il Pubblico ministero
circa la non illogicità della decisione del Comune di
procedere alla costituzione in giudizio, così come di quella
successiva di transigere.
Naturalmente, possono ipotizzarsi, come ha fatto il
difensore, condotte alternative parimenti rientranti in un
corretto uso della discrezionalità dell’amministrazione, ma
ciò non implica che si debba considerare irrazionale
l’opzione da essa seguita.
Al riguardo, si consideri che la parte ricorrente non si era
limitata a chiedere un accertamento della illegittimità del
silenzio dell’amministrazione, ma aveva altresì chiesto la
condanna del Comune al risarcimento del danno anche per
componenti diverse e ulteriori rispetto a quella, poi
riconosciuta in sede transattiva, relativa alle spese
sostenute per la partecipazione alla gara (v. ricorso, fgl.
16 e sgg. del fascicolo depositato dal Procuratore
regionale, in particolare fgl. 26-27).
Talché non può
disconoscersi che vi fosse (almeno) un giustificato motivo
per il Comune di contrastare l’opposta pretesa, così come di
addivenire alla successiva transazione, con la quale il
Comune ha ottenuto di chiudere la vertenza, circoscrivendo,
come detto, la somma da rifondere alla Te. alle sole
spese da questa sostenute per il giudizio e al danno subito
per la partecipazione alla gara (v. atto di transazione, fgl.
72 e sgg. del fascicolo depositato dal Procuratore
regionale).
La Sezione ritiene invece fondata l’obiezione, sollevata in
dibattimento dal difensore, circa l’addebito a SA. della
somma riconosciuta alla Te. a titolo di danno, pari,
come detto, a quanto speso dalla società per la
partecipazione alla gara.
Infatti, non può ritenersi che il credito della Te. a
tale somma sia da porre in relazione con l’inerzia di
SA., bensì con la decisione della stessa di revocare
l’aggiudicazione della gara alla suddetta società, decisione
che appare legittima e che, del resto, il Pubblico ministero
non ha censurato (sul diritto dell’aggiudicatario ad un
indennizzo, tendenzialmente pari ai costi da esso sostenuti
sino all’adozione di un legittimo atto di revoca
dell’aggiudicazione, v. TAR Firenze, Sezione I, n. 238 del
11/02/2016).
Pertanto, il danno risarcibile va ridotto di euro 1.600,00.
Priva di fondamento è, infine, la tesi difensiva secondo cui
il danno sarebbe abbondantemente compensato dai vantaggi
conseguiti dall’amministrazione come effetto della decisione
della convenuta di revocare l’aggiudicazione (vantaggi
consistenti nel risparmio di spesa che ne è derivato).
Come esattamente replicato dal Pubblico ministero, difettano
i presupposti per l’applicazione della norma sulla
compensatio nel giudizio di responsabilità (art. 1, comma
1-bis, della legge n. 20/1994 e s.m.).
Infatti, il danno contestato non è la conseguenza del
provvedimento di revoca, bensì del ritardo con il quale esso
è stato adottato. E’ evidente quindi che le cause del danno
e del vantaggio sono diverse e pertanto non può affermarsi
che dalla condotta illecita produttiva del primo sia
derivato anche il secondo.
Conclusivamente, il danno risarcibile va quantificato in
euro 5.912,80.
La Sezione ritiene tuttavia di non porre a carico di SA.
l’intera somma, facendo esercizio del potere di riduzione
dell’addebito.
Pur se, per le ragioni esposte, va ritenuto che ricorrano
tutti gli elementi per l’affermazione della responsabilità
della convenuta, non può non disconoscersi che la condotta
illecita da essa tenuta si collochi all’interno di una
vicenda nella quale la dirigente ha svolto un ruolo comunque
positivo (revocando una procedura che avrebbe comportato
un’inutile spesa per l’Ente).
Appare pertanto giusto valutare tale circostanza, non nei
termini e per gli effetti invocati dalla difesa, ma al fine
di attenuare la condanna della convenuta.
Si ritiene pertanto equo limitare detta condanna alle somme
corrisposte dal Comune alla società Te. a titolo di
rifusione delle spese sostenute per il ricorso innanzi al
TAR Sardegna, ovverosia euro 2.766,80.
Sulla somma per cui è condanna è dovuta la rivalutazione
monetaria sulla base dell’indice ISTAT, calcolata dalla data
del pagamento effettuato dal Comune e sino alla data della
presente sentenza. Sono altresì dovuti gli interessi in
misura legale, calcolati sulla somma rivalutata a decorrere
dalla data della presente sentenza e sino al pagamento.
La condanna alle spese del giudizio, liquidate in
dispositivo, segue la soccombenza.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Sardegna,
definitivamente pronunciando, condanna Al.SA. al pagamento,
in favore del Comune di Assemini, della complessiva somma di
euro 2.766,80 (duemilasettecentosessantasei euro e ottanta
centesimi), oltre a rivalutazione monetaria e interessi
legali da calcolare come indicato in parte motiva.
Condanna la suddetta convenuta al pagamento delle spese del
giudizio, che sino alla presente sentenza, si liquidano in
euro 414,18 (diconsi euro quattrocentoquattordici/18). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Secondo
un recente arresto della giurisprudenza amministrativa, che
questa Sezione condivide, gli enti
locali non hanno l’obbligo di esperire una “gara” per
affidare un singolo incarico di patrocinio legale,
poiché sussistono profonde differenze tra i generici servizi
legali e l’incarico di patrocinio/difesa legale, cioè tra
l’attività continuativa o comunque non episodica di
assistenza e consulenza giuridica, caratterizzata dalla
complessità dell’oggetto, da una specifica organizzazione
rapportata alla predeterminazione della durata, dalla
predeterminazione del compenso, e l’espletamento del singolo
incarico di patrocinio legale.
Con la decisione sopra indicata, il giudice amministrativo
di appello, ribaltando la decisione del tribunale di prime
cure, ha infatti ritenuto che il
conferimento del singolo incarico episodico non costituisce
un appalto di servizi, ma integra un contratto d’opera
intellettuale che esula dalla disciplina codicistica in
materia di procedure di evidenza pubblica, precisando in
particolare: “...il servizio legale, per essere
oggetto di appalto, richiede un elemento di specialità, per
prestazione e per modalità organizzativa, rispetto alla mera
prestazione di patrocinio legale. L’affidamento di servizi
legali è, a questa stregua, configurabile allorquando
oggetto del servizio non si esaurisca nel patrocinio legale
a favore dell’Ente, ma si configuri quale modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si
esaurisce....”.
Al contrario, il contratto di conferimento
del singolo e puntuale incarico legale, presidiato
dalle specifiche disposizioni comunitarie volte a tutelare
la libertà di stabilimento del prestatore in quanto
lavoratore, non può soggiacere, neanche nei sensi di cui
all’articolo 27 del codice dei contratti pubblici, ad una
procedura concorsuale di stampo selettivo che si appalesa
incompatibile con la struttura della fattispecie
contrattuale, qualificata, alla luce dell’aleatorietà
dell’iter del giudizio, della non predeterminabilità degli
aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni
e della conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta
delle quali fissare i criteri di valutazione necessari in
forza della disciplina recata dal codice dei contratti
pubblici.
Su posizioni analoghe si era già attestata la Sezione
Autonomie della Corte di conti, osservando, tra l’altro,
come “appare possibile ricondurre la
rappresentanza/patrocinio legale nell'ambito
dell'appalto di servizi, dovendosi fare in generale
riferimento alla tipologia dei "servizi legali" di cui
all'allegato 2B del d.lgs. n. 163/2006, che costituisce, ai
sensi dell'art. 20 del decreto, uno dei contratti d'appalto
di servizi cosiddetti "esclusi", assoggettato alle sole
norme del codice dei contratti pubblici richiamate dal
predetto art. 20, nonché i principi indicati dal successivo
art. 27 (trasparenza, efficacia, non discriminazione)”.
Nella medesima linea interpretativa si colloca l’indirizzo
consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo il
quale “il conferimento dell'incarico di
patrocinio legale comprende normalmente anche quello
di prestare assistenza stragiudiziale alla medesima parte,
in relazione alle medesime vicende cui si riferisce
l'incarico di patrocinio; che anche nell'ambito di una
procedura giudiziale civile il professionista può prestare,
in relazione alla stessa pratica, sia attività giudiziale
sia attività stragiudiziale, comprendendosi in quest'ultima
quelle prestazioni che non risultino strettamente connesse e
strumentali all'attività propriamente processuale”,
nonché la giurisprudenza amministrativa, la quale ha
ritenuto che “Il conferimento
all'avvocato di incarico di patrocinio giudiziale
comprende normalmente anche quello di prestare assistenza
stragiudiziale alla medesima parte, in relazione alle
medesime vicende cui si riferisce l'incarico di patrocinio”.
---------------
Il ricorso alle
collaborazioni esterne (nella specie, ad un avvocato del
libero foro, già avvocato capo del Comune) per la difesa
e la rappresentanza in giudizio dell’ente locale, anche
presso le magistrature superiori, per la gestione di un
contenzioso vasto e non limitato nel tempo, è sottoposto
dalla legge (D.Lgs. 165/2001 e altre leggi sopra indicate) a
precisi limiti e condizioni.
A tale riguardo le SS..RR. della Corte dei
conti in sede di controllo
hanno elaborato i seguenti criteri per valutare la
legittimità degli incarichi e delle consulenze
esterni:
a) rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione;
b) inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della
figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico,
da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
c) indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo
svolgimento dell’incarico;
d) indicazione della durata dell’incarico;
e) proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e
l’utilità conseguita dall’amministrazione.
In conclusione, il conferimento ad un
avvocato del libero foro dell’intero contenzioso dell’ente
già curato dal medesimo professionista in qualità di capo
dell’avvocatura comunale, trattandosi di attività non
riconducibile ad un incarico di studio, ricerca
o consulenza, non soggiace alla normativa
vincolistica contenuta nell’art. 5, comma 9, del D.L. 95 del
2011, ma è subordinata alla sussistenza dei succitati
presupposti di legittimità nonché alla disciplina dettata
dal D.Lgs. 163/2006, Allegato II B, per gli appalti dei
servizi compresi nei cosiddetti settori esclusi.
---------------
Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di
Terni, dopo aver premesso che:
- oggetto della richiesta di parere concerne l'affidamento
di un incarico per la rappresentanza e difesa in giudizio
degli interessi dell'Ente e, in particolare, l'esatta natura
giuridica di tale incarico al fine di escludere o meno
l'applicazione dell'art. 5, comma 9, del D.L. 95/2011;
- l'incarico di cui trattasi avrà ad oggetto il contenzioso
presso le magistrature superiori e il contenzioso già
pendente e attualmente gestito dall'avvocato capo, per il
periodo successivo al suo pensionamento;
- la corretta interpretazione della norma richiamata
implicherà importanti riflessi sulla gestione finanziaria
dell'Ente, in ragione di esigenze di contenimento della
spesa del personale e di mantenimento dei livelli di
efficacia, efficienza e, soprattutto, economicità
dell'avvocatura comunale,
chiede di conoscere se il divieto sancito dall’art. 5,
comma 9, del D.L. 95/2012, "di attribuire incarichi di
studio e di, consulenza a soggetti già appartenenti ai ruoli
delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto,
nel corso dell'ultimo anno di servizio, funzioni e attività
corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di
studio e di consulenza”, riguardi anche gli incarichi
per il patrocinio legale dell'Ente e quindi gli ex
dipendenti che hanno ricoperto il ruolo di avvocati comunali.
...
Quanto al merito, il Comune di Terni intende conoscere
l’avviso di questa Corte in merito alla possibilità di
conferire l’incarico di patrocinio legale di detto
ente all’ex capo dell’avvocatura comunale, per il periodo
successivo al suo pensionamento, per la gestione del
contenzioso presso le magistrature superiori e il
contenzioso già pendente e attualmente gestito dal medesimo
avvocato, in deroga al divieto contenuto nell’art. 5, comma
9, del D.L. 95/2012, "di attribuire incarichi di
studio e di consulenza a soggetti già
appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in
quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell'ultimo anno
di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle
oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza”.
La risposta al quesito induce il Collegio ad approfondire
natura e contenuto dell’incarico di patrocinio legale
e la sua riconducibilità o meno allo schema normativo
dell’incarico di studio o di consulenza, come
disciplinato dall’art. 5, comma 9, del citato D.L. 95/2012,
il quale recita “È fatto divieto alle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001 nonché alle pubbliche
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196
nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione
nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire
incarichi di studio e di consulenza a
soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati
in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell'ultimo
anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a
quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di
consulenza”.
Detto decreto legge chiude un percorso
legislativo,
avviato con l’art. 110, comma 6, del TUEL (D.Lgs.
18.08.2000, n. 267) e proseguito con il D.Lgs. 165 del 2001,
con svariate leggi finanziarie, a partire dalla legge
finanziaria per il 2005 (legge 311 del 2004) passando per la
legge finanziaria per il 2008 e successive,
volto a porre vincoli sempre più stringenti alle
pubbliche amministrazioni, compresi gli enti locali, per
ovvie esigenze di contenimento della spesa pubblica, nel
fare ricorso a collaborazioni esterne per l’assolvimento
delle funzioni istituzionali.
L’art. 110, co. 6, del Tuel stabilisce, infatti, che le
province e i comuni possono inserire, nei propri regolamenti
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, disposizioni
che prevedano “per obiettivi determinati e con
convenzioni a termine” il ricorso a collaborazioni
esterne “ad alto contenuto di professionalità”. Gli
enti locali perciò, oltre al conferimento degli incarichi
esterni ai sensi dell’articolo 7, comma 6, d.lgs. n.
165/2001, possono ricorrere a collaborazioni esterne, nei
casi in cu sia necessario avvalersi di un contributo d’alta
professionalità, a condizione che la facoltà sia stata
prevista nei loro regolamenti.
La legge finanziaria per il 2005 (legge 311 del 2004, art.
1, commi 11 e 42) consente alle amministrazioni pubbliche,
comprese le regioni, le province e i comuni, di conferire,
ai sensi dell’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, corrispondente all’articolo 7 d.lgs. n.
29/1993 e successive modificazioni, incarichi individuali ad
esperti di “provata competenza” per “esigenze cui
non possono far fronte con personale in servizio”.
La legge finanziaria per il 2008 (legge n. 244 del 2007,
art. 3, comma 55) prevede che l'affidamento da parte degli
enti locali di incarichi di studio o di ricerca,
ovvero di consulenze a soggetti estranei
all'amministrazione può avvenire solo nell'ambito di un
programma approvato dal Consiglio ai sensi dell'art. 42,
comma 2, lett. b), T.U.E.L.
Con particolare riferimento all’incarico di patrocinio
legale da conferire ad un avvocato libero
professionista, esterno all'Amministrazione, il Collegio non
può che condividere l’orientamento espresso dalla Sezione
delle Autonomie di questa Corte dei conti con la
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008, nella quale
viene nettamente distinta l'ipotesi della richiesta di una
consulenza, studio o ricerca, destinata
sostanzialmente a sfociare in un parere legale, rispetto
alla rappresentanza e patrocinio giudiziale.
Secondo l’autorevole avviso di detta Sezione, la prima
ipotesi rientra sicuramente nell'ambito di previsione
dell'art. 3, commi da 54 a 57, della legge 244/2007 (legge
finanziaria per il 2008), che disciplina gli incarichi di
studio, ricerca e consulenza. La seconda, invece,
esorbita concettualmente dalla nozione di consulenza, e
quindi ad essa non potrà applicarsi la disciplina della
sopra indicata legge finanziaria.
Nella richiesta di parere oggetto di esame si evince
chiaramente che l’Amministrazione comunale di Terni intende
conferire all’attuale capo dell’Avvocatura comunale, per il
periodo successivo al suo pensionamento, l’intero
contenzioso presso le magistrature superiori e il
contenzioso già pendente e attualmente gestito dal medesimo.
Sicché non si tratta all’evidenza di un incarico episodico
od occasionale, bensì di un vero e proprio rapporto di
collaborazione professionale destinato a durare,
presumibilmente, fino alla conclusione, processuale ed
extraprocessuale, di tutto il contenzioso attualmente
gestito dall’avvocato capo del comune.
Ritiene la Sezione che un incarico di
siffatta portata, sebbene non riconducibile, per quanto
sopra detto, alla tipologia della consulenza, essendo
in esso del tutto preminente l’attività di rappresentanza e
difesa in giudizio, non possa comunque prescindere
dall’osservanza delle norme e delle procedure previste dal
codice dei contratti pubblici
(D.Lgs. 163/2006, Allegato II B) per
l’affidamento dell’appalto di servizi nei ccdd. settori
esclusi, nei quali sono compresi i servizi legali.
Secondo un recente arresto della giurisprudenza
amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.05.2012 n. 2730), che questa Sezione
condivide, gli enti locali non hanno
l’obbligo di esperire una “gara” per affidare un
singolo incarico di patrocinio legale, poiché
sussistono profonde differenze tra i generici servizi legali
e l’incarico di patrocinio/difesa legale, cioè tra
l’attività continuativa o comunque non episodica di
assistenza e consulenza giuridica, caratterizzata dalla
complessità dell’oggetto, da una specifica organizzazione
rapportata alla predeterminazione della durata, dalla
predeterminazione del compenso, e l’espletamento del singolo
incarico di patrocinio legale.
Con la decisione sopra indicata, il giudice amministrativo
di appello, ribaltando la decisione del tribunale di prime
cure, ha infatti ritenuto che il
conferimento del singolo incarico episodico non costituisce
un appalto di servizi, ma integra un contratto d’opera
intellettuale che esula dalla disciplina codicistica in
materia di procedure di evidenza pubblica, precisando in
particolare: “...il servizio legale, per essere
oggetto di appalto, richiede un elemento di specialità, per
prestazione e per modalità organizzativa, rispetto alla mera
prestazione di patrocinio legale. L’affidamento di servizi
legali è, a questa stregua, configurabile allorquando
oggetto del servizio non si esaurisca nel patrocinio legale
a favore dell’Ente, ma si configuri quale modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si
esaurisce....”.
Al contrario, il contratto di conferimento
del singolo e puntuale incarico legale, presidiato
dalle specifiche disposizioni comunitarie volte a tutelare
la libertà di stabilimento del prestatore in quanto
lavoratore, non può soggiacere, neanche nei sensi di cui
all’articolo 27 del codice dei contratti pubblici, ad una
procedura concorsuale di stampo selettivo che si appalesa
incompatibile con la struttura della fattispecie
contrattuale, qualificata, alla luce dell’aleatorietà
dell’iter del giudizio, della non predeterminabilità degli
aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni
e della conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta
delle quali fissare i criteri di valutazione necessari in
forza della disciplina recata dal codice dei contratti
pubblici.
Su posizioni analoghe si era già attestata la Sezione
Autonomie della Corte di conti con la richiamata
deliberazione 24.04.2008 n. 6/2008, osservando,
tra l’altro, come “appare possibile
ricondurre la rappresentanza/patrocinio legale
nell'ambito dell'appalto di servizi, dovendosi fare in
generale riferimento alla tipologia dei "servizi legali" di
cui all'allegato 2B del d.lgs. n. 163/2006, che costituisce,
ai sensi dell'art. 20 del decreto, uno dei contratti
d'appalto di servizi cosiddetti "esclusi", assoggettato alle
sole norme del codice dei contratti pubblici richiamate dal
predetto art. 20, nonché i principi indicati dal successivo
art. 27 (trasparenza, efficacia, non discriminazione)”.
Nella medesima linea interpretativa si colloca l’indirizzo
consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass.,
Sez. II, sent. 16016/2003; Cass., sent. 4411/1979) secondo
il quale “il conferimento dell'incarico
di patrocinio legale comprende normalmente anche
quello di prestare assistenza stragiudiziale alla medesima
parte, in relazione alle medesime vicende cui si riferisce
l'incarico di patrocinio; che anche nell'ambito di una
procedura giudiziale civile il professionista può prestare,
in relazione alla stessa pratica, sia attività giudiziale
sia attività stragiudiziale, comprendendosi in quest'ultima
quelle prestazioni che non risultino strettamente connesse e
strumentali all'attività propriamente processuale”,
nonché la giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.S., Sez.
IV, sent. 825/2007), la quale ha ritenuto che “Il
conferimento all'avvocato di incarico di patrocinio
giudiziale comprende normalmente anche quello di
prestare assistenza stragiudiziale alla medesima parte, in
relazione alle medesime vicende cui si riferisce l'incarico
di patrocinio”.
Va, inoltre, evidenziato che il ricorso alle collaborazioni
esterne (nella specie, ad un avvocato del libero foro, già
avvocato capo del Comune) per la difesa e la
rappresentanza in giudizio dell’ente locale, anche
presso le magistrature superiori, per la gestione di un
contenzioso vasto e non limitato nel tempo, è sottoposto
dalla legge (D.Lgs. 165/2001 e altre leggi sopra indicate) a
precisi limiti e condizioni.
A tale riguardo le SS..RR. della Corte dei
conti in sede di controllo,
con la
delibera 15.02.2005 n. 6/2005,
hanno elaborato i seguenti criteri per valutare la
legittimità degli incarichi e delle consulenze
esterni:
a) rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione;
b) inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della
figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico,
da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
c) indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo
svolgimento dell’incarico;
d) indicazione della durata dell’incarico;
e) proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e
l’utilità conseguita dall’amministrazione.
In conclusione, il conferimento ad un
avvocato del libero foro dell’intero contenzioso dell’ente
già curato dal medesimo professionista in qualità di capo
dell’avvocatura comunale, trattandosi di attività non
riconducibile ad un incarico di studio, ricerca
o consulenza, non soggiace alla normativa
vincolistica contenuta nell’art. 5, comma 9, del D.L. 95 del
2011, ma è subordinata alla sussistenza dei succitati
presupposti di legittimità nonché alla disciplina dettata
dal D.Lgs. 163/2006, Allegato II B, per gli appalti dei
servizi compresi nei cosiddetti settori esclusi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere
19.12.2013 n. 137). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Natura interpretativa e non innovativa dell’art. 83, d.lgs.
n. 50 del 2016 e debenza della sanzione nel caso in cui il
concorrente non usufruisca del soccorso istruttorio.
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Contratti della Pubblica amministrazione
- Soccorso istruttorio - Per carenza e incompletezza
documentale – Rifiuto – Sanzione pecuniaria – Art. 83, comma
9, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione – Natura
interpretativa della pregressa disciplina ex art. 38, comma
2 bis, d.lgs. n. 163 del 2006 – Conseguenza.
L’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in
cui prevede che “la sanzione è dovuta esclusivamente in caso
di regolarizzazione”, ha natura interpretativa, e non
innovativa, della pregressa disposizione contenuta nell’art.
38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n.163; pertanto, anche
in vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006 il pagamento
pecuniario non era una sanzione automatica e non era
irrogabile nel caso in cui il concorrente avesse deciso di
non avvalersi del soccorso istruttorio (1).
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(1)
Ha chiarito la Sezione che nonostante la portata
apparentemente innovativa, il comma 9 dell’art. 83, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 ha carattere interpretativo e consente,
quindi, di orientare una corretta esegesi in merito alla
portata e al contenuto della disciplina pregressa. L’assunto
è corroborato dall’identità della disposizione rispetto alla
precedente formulazione, con eccezione della sola parte in
cui si prevede che “la sanzione è dovuta esclusivamente
in caso di regolarizzazione“. Tale conclusione, ad
avviso della Sezione, è in linea con il principio di
proporzionalità, in quanto evita l’applicazione di una
misura volta a colpire, anche in assenza di colpa, la mera
condotta violativa di obblighi formali e documentali.
Peraltro la Sezione ha dato atto di un proprio recente
orientamento contrario. Con sentenza 22.08.2016, n. 3667 è
stato infatti affermato che l’introduzione (ad opera del
d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla
l. 11.08.2014, n. 114) dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n.
163 del 2006, con la sanzione pecuniaria proporzionale per
il caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma
2, ha inteso prevenire, nella fase del controllo delle
dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle
offerte presentate, il fenomeno delle esclusioni dalla
procedura causate da mere carenze documentali; di fronte
alla semplice mancanza, incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale di cui sopra ha quindi imposto uno
spedito sub-procedimento –il “soccorso istruttorio”–
ordinato alla produzione, integrazione o regolarizzazione
delle dichiarazioni necessarie, e ha previsto l’esclusione
solamente quale conseguenza dell’inosservanza, da parte
dell’impresa concorrente, dell’obbligo di integrazione
documentale entro il termine perentorio accordato, a tale
fine, dalla stazione appaltante.
Corollario di tale innovazione è, si legge nella sentenza n.
3667 del 2016, una sostanziale dequalificazione, in
principio, delle “irregolarità” dichiarative da cause
escludenti a carenze regolarizzabili. In tale contesto, ad
evitare l’abuso del ricorso al soccorso istruttorio e il
conseguente aggravamento complessivo delle procedure, si
pone a contrappeso la previsione della speciale sanzione
pecuniaria: scopo di questa misura è dunque l’assicurare la
serietà e la completezza originaria delle offerte, e il
responsabilizzare a questi fini i partecipanti alla gara.
Detta sanzione, come si evince dalla lettera della
disposizione (“la mancanza, l’incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni
sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi
ha dato causa al pagamento, in favore della stazione
appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di
gara…”), colpisce dunque il semplice fatto dell’aver
presentato una dichiarazione difettosa: resta irrilevante
che l’omissione venga poi sanata dall’impresa interessata o
che questa, benché richiestane, rinunzi a regolarizzarla.
La norma a questi fini nulla dice riguardo alla condotta
successiva dell’offerente, sia in punto di avvenuta
regolarizzazione, sia in punto di abbandono della gara
mediante il comportamento concludente della non risposta
alla richiesta di regolarizzazione: sicché si deve rilevare
che per la sanzione pecuniaria la legge non contempla una
causa estintiva successiva.
La sanzione insomma non è alternativa o sostitutiva alla
esclusione per insufficiente regolarizzazione o
all’abbandono volontario della gara. L’esclusione dalla gara
è altra cosa rispetto alla sanzione, la cui fattispecie
costitutiva è ormai già perfetta, ed è la conseguenza
procedimentale della mancata corrispondenza al soccorso
istruttorio. Nel sistema del comma 2-bis, l’irregolarità
essenziale porta di suo all’applicazione della sanzione
pecuniaria. Rispetto alla sanzione resta così ultroneo il
diverso profilo funzionale del determinare l’avvio del
procedimento di soccorso istruttorio.
L’esclusione dalla gara si colloca in una successiva fase
procedimentale, quale esito della mancata o insoddisfacente
risposta al soccorso istruttorio, e risulta pertanto
distinta, strutturalmente e funzionalmente, dalla sanzione
pecuniaria, che è conseguenza del mero inadempimento
iniziale. Così, l’abbandono volontario della gara determina
l’esclusione, ma non influisce sulla già consumata
fattispecie da sanzionare.
La distinzione tra le due fattispecie è in qualche misura
confermata dalla disposizione contenuta nel terzo periodo
del comma 2-bis, la quale, per l’ipotesi di “irregolarità
non essenziali”, prevede che la stazione appaltante non
ne richieda la regolarizzazione, né applichi la sanzione,
evidenziando come il soccorso istruttorio e la sanzione
pecuniaria si pongano su due piani diversi, seppure
originanti da un unico fatto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.01.2017 n. 92 -
commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste l’assenza di una portata lesiva
correlata al verbale gravato (di accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione) e, dunque, la
carenza di un interesse attuale e concreto all’impugnazione
dello stesso in sede giurisdizionale laddove:
- l’esame del verbale consente di rilevare la valenza
meramente endoprocedimentale di tale atto, strumentale alle
successive determinazioni dell'ente locale; sicché lo stesso
ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni
effettuate dall’ufficio della Polizia Municipale, alla quale
non è attribuita la competenza all'adozione di atti di
amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la
competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito
delle predette operazioni attraverso un formale atto di
accertamento;
- ai fini della sopra indicata qualificazione, risultano
particolarmente indicative l’assenza di una concreta
determinazione dell’area oggetto del (successivo)
provvedimento acquisitivo e la trasmissione del verbale “per
gli ulteriori provvedimenti” al Dirigente dell’Ufficio
Tecnico Comunale.
---------------
... per l'annullamento:
- del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di demolizione redatto in data 12.01.2015 con il quale gli
agenti della polizia municipale hanno attestato l’omessa
esecuzione del provvedimento prot. n. 08/09;
- del provvedimento acquisitivo;
...
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio Ma.
De Ro. e Ma.Lu.Ca. hanno impugnato il verbale di
accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione
redatto in data 12.01.2015 con il quale gli agenti della
polizia municipale hanno attestato l’omessa esecuzione
dell’ordinanza di demolizione n. 08/09 unitamente al
provvedimento di acquisizione.
Con unico motivo di ricorso, è stata contestata l’omessa
notificazione dell’atto prodromico del provvedimento e,
cioè, dell’ordinanza di demolizione sopra indicata, con la
quale l’amministrazione comunale ha sanzionato
l’edificazione abusiva di un immobile abitativo su due
livelli mansardato.
Con ordinanza collegiale n. 2706 del 2015 ha disposto
incombenti istruttori, valutando necessaria l’acquisizione
dal Comune intimato di copia dell’ordinanza di demolizione
n. 08/09 del 13/01/2009, con la prova degli estremi di sua
notificazione ai relativi destinatari, nonché ogni altro
atto o documento ritenuto utile ai fini di causa. L’ordine
di produzione è stato reiterato con ordinanza n. 3651 del
2015, stante la riscontrata inottemperanza
dell’amministrazione.
...
Il ricorso non merita accoglimento.
Il Collegio reputa necessario in primo luogo chiarire che
l’amministrazione resistente ha fornito prova della
ritualità e correttezza delle notificazioni dell’ordinanza
di demolizione sia alla Signora Ca. sia al coniuge, Ma. De
Ro., dimostrando, dunque, anche con riferimento a
quest’ultimo ed in relazione alle dedotte violazioni
dell’art. 140 c.p.c., l’invio della raccomandata n. 1371 del
04.02.2009 e la sussistenza del correlato avviso di
ricevimento.
Da ciò consegue, dunque, che i ricorrenti, contrariamente a
quanto sostenuto dal difensore dei medesimi, hanno avuto
piena conoscenza dell’ordinanza di demolizione presupposta
all’atto gravato, la quale, tuttavia, non risulta aver
costituito oggetto di alcuna impugnazione entro i termini
decadenziali prescritti.
Da ciò consegue l’inammissibilità sia del ricorso
introduttivo sia del ricorso per motivi aggiunti,
meritando accoglimento l’eccezione sollevata dalla difesa
dell’ente resistente a motivo della omessa impugnazione nei
termini di decadenza dell’ordinanza di demolizione ed in
considerazione dell’assenza, allo stato, di un provvedimento
acquisitivo.
L’esame del verbale, infatti, consente di rilevare la
valenza meramente endoprocedimentale di tale atto,
strumentale alle successive determinazioni dell'ente locale;
sicché lo stesso ha efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate dall’ufficio della Polizia Municipale,
alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di
atti di amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la
competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito
delle predette operazioni attraverso un formale atto di
accertamento (cfr. anche Cons. Giust. Amm. Sicilia, Sez.
Giur., 12.11.2008 n. 930; TAR Campania Napoli, Sez. VII,
16.12.2009 n. 8816; Sez. II, 18.05.2005 n. 6525 e 21.11.2006
n. 10110; Sez. IV, 26.06.2008 n. 6254; Sez. VII, 13.05.2009
n. 2592 e 08.07.2011 n. 3647; TAR Valle d'Aosta, 24.07.2012
n. 74).
Ai fini della sopra indicata qualificazione, risultano
particolarmente indicative l’assenza di una concreta
determinazione dell’area oggetto del (successivo)
provvedimento acquisitivo e la trasmissione del verbale “per
gli ulteriori provvedimenti” al Dirigente dell’Ufficio
Tecnico Comunale.
Da ciò consegue l’assenza di una portata lesiva correlata al
verbale gravato e, dunque, la carenza di un interesse
attuale e concreto all’impugnazione dello stesso in sede
giurisdizionale (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 13.01.2017 n. 330 - link a
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LAVORI PUBBLICI:
Finanza di progetto e garanzia da presentare.
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Contratti della Pubblica amministrazione
– Finanza di progetto – Iniziativa assunta
dall’amministrazione avente ad oggetto lavori non previsti
negli atti di programmazione – Art. 183, d.lgs. n. 50 del
2016 – Possibilità.
Contratti della Pubblica amministrazione – Finanza di
progetto – Garanzia – Mancata produzione garanzia ex art.
93, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione – Illegittimità -
Ratio.
La circostanza che l’art. 183, d.lgs. 18.07.2016, n. 50
preveda due ipotesi di finanza di progetto -la prima
nella quale, ad iniziativa dell’ente pubblico, viene posto a
base di gara un progetto di fattibilità, predisposto
dall’amministrazione aggiudicatrice, per la realizzazione di
lavori già inseriti negli strumenti di programmazione (commi
da 1 a 14) e la seconda nella quale gli operatori
economici possono presentare alle amministrazioni
aggiudicatrici proposte relative alla realizzazione in
concessione di lavori pubblici non presenti negli strumenti
di programmazione approvati dall’amministrazione
aggiudicatrice (comma 15)- non esclude una terza ipotesi
nella quale l’iniziativa è stata assunta
dall’amministrazione ma ha quale oggetto lavori non previsti
negli atti di programmazione, per la realizzazione dei quali
detta amministrazione ha predisposto una lettera–avviso
esplorativo, al fine di individuare, ai sensi del comma 15
del cit. art. 183, gli operatori economici interessati a
produrre proposte.
E’ illegittima l’esclusione della proposta di finanza di
progetto presentata ai sensi dell’art. 183, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, disposta per mancata produzione della
garanzia ex art. 93 dello stesso Codice, e ciò in quanto il
cit. comma 15 dell’art. 183 prevede che la proposta ivi
disciplinata sia corredata “dalla cauzione di cui all’art.
103”, cioè dalla cauzione definitiva, che l’appaltatore deve
–nell’ordinario procedimento di aggiudicazione di un
appalto- possedere all’atto della stipula del contratto (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il meccanismo regolato dal comma 15
dell’art. 183 del nuovo Codice dei contratti pubblici
contempla ordinariamente la possibilità del soccorso
istruttorio, indipendentemente dall’applicabilità del comma
9 dell’art. 83, secondo cui “Le carenze di qualsiasi
elemento formale della domanda possono essere sanate
attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al
presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza
e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del
documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con
esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed
economica, obbliga il concorrente che vi ha dato causa al
pagamento, in favore della stazione appaltante, della
sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura
non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per
cento del valore della gara e comunque non superiore a 5.000
euro. In tal caso, la stazione appaltante assegna al
concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché
siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni
necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le
devono rendere, da presentare contestualmente al documento
comprovante l'avvenuto pagamento della sanzione, a pena di
esclusione. La sanzione e' dovuta esclusivamente in caso di
regolarizzazione. Nei casi di irregolarità formali, ovvero
di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali,
la stazione appaltante ne richiede comunque la
regolarizzazione con la procedura di cui al periodo
precedente, ma non applica alcuna sanzione. In caso di
inutile decorso del termine di regolarizzazione, il
concorrente é escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità
essenziali non sanabili le carenze della documentazione che
non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto
responsabile della stessa”.
Il Tar ha anzi escluso che tale norma abbia attinenza alla
questione oggetto della controversia, in quanto è più che
dubbio che, nelle ordinarie gare di appalto, le garanzie
espressamente previste a pena di esclusione (art. 93, comma
8) possano costituire oggetto di soccorso istruttorio, ex
art. 83, comma 9, potendo essere considerate parti
integranti dell’offerta economica presentata che, per
espressa indicazione di legge, non può formare oggetto di
soccorso istruttorio.
Ma il punto decisivo, ad avviso del Tar, è che il meccanismo
disciplinato dal comma 15 dell’art. 183 non prevede alcuna
gara nella sua fase iniziale, ma l’inoltro di una proposta
di un privato ad una amministrazione aggiudicatrice. E nel
caso in cui l’amministrazione ritenga che la proposta
pervenuta sia carente di un allegato indefettibilmente
previsto per legge (quale, ad esempio, una garanzia od un
impegno ad una garanzia), attraverso un atto formale, o un
contatto informale, potrà chiedere al proponente di
integrare la proposta, avvertendolo che in mancanza non
potrà essere presa in considerazione, ma non ne disporrà
l’esclusione. Conclusione questa confermata, sempre ad
avviso del Tribunale, dal fatto che la mancata allegazione
degli atti che devono essere presentati con l’offerta, non è
prevista a pena di esclusione, conseguenza che invero male
si concilia con un procedimento ad impulso dello stesso
proponente.
La circostanza che nella vicenda in questione
l’amministrazione abbia seguito una sorta di procedimento
ibrido, predisponendo un avviso esplorativo per stimolare
l’inoltro di proposte -comunque espressamente ricondotte
nell’ambito del comma 15 dell’art. 183, d.lgs. n. 50 del
2016- non muta la natura della proposta inoltrata, e non può
quindi determinare l’introduzione di motivi di non presa in
considerazione della proposta- non previsti dalle norme di
legge o dall’avviso esplorativo e avulsi dal modello di
finanza di progetto che si intende attuare (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza
13.01.2017 n. 110 -
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APPALTI:
Affidamento di appalto sotto soglia di servizio ad elevata
manodopera con prestazione fortemente ripetitiva.
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Contratti della Pubblica amministrazione
– Offerta – Criterio di affidamento - Appalto sotto soglia
comunitaria – Servizio ad elevata manodopera con prestazione
fortemente ripetitiva – Criterio di aggiudicazione – Sistema
del minor prezzo – Art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Legittimità.
Ai sensi dell'art. 95, commi 2, 3 e 4, d.lgs. 18.04.2106, n.
50, legittimamente la stazione appaltante fa ricorso al
criterio del minor prezzo per affidare un appalto sotto
soglia comunitaria (nella specie, relativo al servizio di
vigilanza antincendio dei presidi ospedalieri di una Azienda
sanitaria) che, pur relativo a servizio ad elevata
manodopera, ha per oggetto una prestazione fortemente
ripetitiva (1).
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(1)
La controversia presa in esame dal Tar L’Aquila ha ad
oggetto l’affidamento, mediante procedura negoziata senza
pubblicazione del bando, di un appalto di servizi appunto
sotto-soglia, caratterizzato da alta ripetitività,
trattandosi di prestazioni ripetitive di sorveglianza,
controllo e presidio. Oggetto dell’appalto, ai sensi
dell’art. 1 del capitolato speciale, infatti, era “l’affidamento
delle attività di sorveglianza antincendio”, integrativo
rispetto al sistema in essere. Trattandosi di prestazione
avente ad oggetto, essenzialmente, la vigilanza e il
presidio fisico essa è caratterizzata da alta ripetitività.
Tanto premesso, ha ritenuto il Tar, in ordine al rapporto
tra le prescrizioni dei commi 3 e 4 dell’art. 95, d.lgs. n.
50 del 2016, che esse si trovano in rapporto di
complementarietà.
In un sistema in cui il criterio di aggiudicazione
dell’offerta economicamente più vantaggiosa è quello che la
Stazione appaltante deve di regola seguire, il comma 3
stabilisce i casi in cui gli appalti “sono aggiudicati
esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa”. Si tratta, tra l’altro,
dei contratti relativi a “servizi ad alta intensità di
manodopera, come definiti all'art. 50, comma 1”.
Il successivo comma 4, però, prevede una deroga al sistema
delineato dai commi 2 e 3 dell’art. 95 citato, ammettendo il
criterio del minor prezzo, tra l’altro, per l’affidamento di
“servizi e forniture di importo inferiore alla soglia di
cui all’art. 35, caratterizzati da elevata ripetitività,
fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico
o che hanno un carattere innovativo”.
Insomma, qualora l’appalto rientri in uno dei casi di cui al
comma 4 del citato art. 95 è aggiudicabile con il criterio
del massimo ribasso.
Se poi l’appalto presenta, come nel caso di specie, entrambe
le caratteristiche, nel senso che, in forza del suo oggetto,
rientra tanto nell’ambito di applicazione del comma 3, tanto
nell’ambito di applicazione del comma 4, la previsione di
esclusività del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa cede il passo alla possibilità di aggiudicare
l’appalto al massimo ribasso.
In tal caso, cioè se ad avviso del Tar, la disposizione
derogatoria del comma 4 consente di aggiudicare l’appalto
con il criterio del prezzo più basso.
È quanto accade nel caso di specie, ove l’appalto, pur
relativo a servizio ad elevata manodopera, ha ad oggetto una
prestazione fortemente ripetitiva: pertanto era possibile, e
quindi legittimo, il ricorso, da parte della Stazione
appaltante, al criterio di aggiudicazione del prezzo più
basso (TAR
Abruzzo-L’Aquila,
sentenza 13.01.2017 n. 30 -
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APPALTI:
Ricorso all’avvalimento per raggiungere la categoria di
qualificazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione
– Avvalimento – Per raggiungere la categoria di
qualificazione – Legittimità.
E’ legittimo il ricorso all’avvalimento per raggiungere la
categoria di qualificazione richiesta dal bando di gara (1)
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(1)
Ha ricordato il Tar, richiamando principi pacifici nella
giurisprudenza del giudice amministrativo, che l’ambito
applicativo dell’istituto dell’avvalimento è limitato ai
requisiti oggettivi di ordine speciale, economico-finanziari e tecnico-organizzativi.
Giova aggiungere che l’avvalimento è istituto di derivazione
comunitaria di portata generale che, in quanto posto a
presidio della libertà di concorrenza, non tollera comunque
interpretazioni limitative volte a restringerne
l’applicabilità, ad eccezione dei requisiti soggettivi
inerenti alla moralità e alla onorabilità professionale a
tutela della serietà ed affidabilità degli offerenti.
Ha aggiunto il Tribunale che mentre l’iscrizione all’Ente si
caratterizza soggettivamente, con conseguente impossibilità
di sostituzione mediante avvalimento, la determinazione
della fascia di classificazione prende in considerazione
unicamente il volume di affari, e quindi attiene a requisiti
oggettivi speciali.
Ciò risulta, d’altra parte, confermato da una corretta
lettura delle determinazioni e deliberazioni dell’AVCP n. 2
del 2012 e n. 28 del 2013, nonché dalla deliberazione n.
64/2009 dell’AVCP e dal pertinente parere ANAC 23.02.2012,
n. 22.
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MASSIMA
1 . La censura proposta con il primo motivo di ricorso
non merita accoglimento.
In primo luogo la compilazione da parte di CO. Scs
del modello di dichiarazione predisposto dalla stazione
appaltante è corretta e immune da profili di non veridicità.
CO., aggiungendo la chiara e puntuale nota “*vedasi
dichiarazione di avvalimento”, ha infatti integrato,
specificandola, la dichiarazione relativa alla richiesta (e
non posseduta direttamente) qualificazione in fascia H, e
perciò è di tutta evidenza che non ne abbia falsamente
dichiarato il possesso, ma abbia attestato il requisito
mediante l’avvalimento delle qualificazioni possedute dalle
tre imprese ausiliarie.
Quanto poi alla natura del requisito stesso, attinente alla
capacità tecnica ed esperienza come certificate
dall’iscrizione alla C.C.I.A.A nella fascia H, va premesso
che,
per consolidata giurisprudenza, l’ambito applicativo
dell’istituto dell’avvalimento è limitato ai requisiti
oggettivi di ordine speciale, economico-finanziari e
tecnico-organizzativi (per tutte, C.d.S., sez. IV, n.
4406/2012; Id. n. 810/2012).
Giova, peraltro, anche
evidenziare che l’avvalimento è istituto di derivazione
comunitaria di portata generale che, in quanto posto a
presidio della libertà di concorrenza, non tollera comunque
interpretazioni limitative volte a restringerne
l’applicabilità, ad eccezione dei requisiti soggettivi
inerenti alla moralità e alla onorabilità professionale a
tutela della serietà ed affidabilità degli offerenti.
La
giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, d’altra parte,
“definitivamente acquisito la legittimità del c.d. avvalimento frazionato ai sensi dell’art. 49 del codice dei
contratti pubblici” (cfr. sez. V, n. 2200/2014 e n.
277/2015) escludendo unicamente l’avvalimento cosiddetto a
cascata, che elide il necessario rapporto diretto tra
ausiliaria ed ausiliata (cfr. sez. V, n. 1251/2014; sez. III,
1072/2014).
Nella fattispecie in esame vale evidenziare che
l’aggiudicataria possiede l’iscrizione all’Ente camerale, e
che è solo tale iscrizione a caratterizzarsi
soggettivamente, con conseguente impossibilità di
sostituzione mediante avvalimento (cfr. Tar Calabria, n.
1/2014), mentre la determinazione della fascia di
classificazione prende in considerazione unicamente il
volume di affari, e quindi attiene a requisiti oggettivi
speciali.
Ciò risulta, d’altra parte, confermato da una
corretta lettura delle determinazioni e deliberazioni dell’AVCP
n. 2 del 2012 e n. 28 del 2013 e dalla recente sentenza del
TAR Liguria, sez. II, n. 1201/2016 richiamate dalla
ricorrente, nonché dalla deliberazione n. 64/2009 dell’AVCP
e dal pertinente parere ANAC 23.02.2012, n. 22. Ne
consegue, pertanto, sotto l’anzidetto profilo, la
legittimità del ricorso all’avvalimento da parte
dell’aggiudicatario, della relativa dichiarazione e della
sua previsione nella disciplina di gara.
2. Anche il secondo motivo del ricorso è infondato.
Il contratto di avvalimento in esame, comprendente quali
parti integranti dichiarazioni dell’ausiliata e delle
ausiliarie e gli elenchi delle risorse messe a disposizione
da queste ultime, reca in sé gli elementi di determinatezza
dell’oggetto richiesti ai fini della sua validità.
I
requisiti, le risorse e i mezzi messi a disposizione dell’ausiliata,
in quanto specificatamente indicati nelle dichiarazioni ed
elenchi allegati al contratto, risultano determinati in modo
compiuto ed esauriente, e gli impegni assunti, ivi compresa
la solidale responsabilità con l’ausiliata della corretta
esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto, sono
stati indicati in forma non generica come decorrenti dalla
data del contratto e per tutta la durata dell’appalto,
realizzando, pertanto, il trasferimento all’aggiudicataria
di capacità tecniche e di esperienza.
In altri termini, il possesso per relationem dei requisiti
per concorrere, che caratterizza l’istituto dell’avvalimento,
ha comprovato l’effettiva disponibilità dei mezzi da parte
dell’aggiudicataria, coerentemente con quanto chiarito
dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 04.11.2016, n. 23 che, in sintonia con il sopra riportato principio
della portata generale dell'istituto stesso, ha chiarito che
le disposizioni del codice dei contratti pubblici vanno
interpretate nel senso di non configurare la nullità del
contratto di avvalimento nell’ipotesi in cui una parte
dell’oggetto, pur non essendo puntualmente determinata, sia
tuttavia agevolmente determinabile.
In conclusione, la dichiarazione resa dall’aggiudicataria
nella fattispecie in esame deve ritenersi satisfattiva del
requisito posto dal bando, in forza del possesso acquisito
mediante l’avvalimento (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 13.01.2017 n. 9 -commento
tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Affitto di ramo di azienda inferiore alla durata del
contratto e indeterminatezza del soggetto eventualmente
subentrante.
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Contratti della Pubblica amministrazione
– Esclusione dalla gara – Affittuaria di ramo d'azienda con
contratto di durata inferiore a quella della prestazione
oggetto della gara - Indeterminatezza del soggetto
eventualmente subentrante in corso di esecuzione –
Legittimità.
E’ legittima l’esclusione da una gara pubblica del
concorrente in caso di affittuaria di ramo d'azienda con
contratto di durata inferiore a quella della prestazione
oggetto della gara e indeterminatezza del soggetto
eventualmente subentrante in corso di esecuzione del
contatto nella titolarità del ramo d'azienda, anche nel caso
in cui il subentro sia specificamente previsto nell'offerta,
dovendo la stazione appaltante conoscere l'identità
dell'offerente/eventuale contraente fin dal momento della
partecipazione alla gara e per tutta la durata del contratto
(1).
---------------
(1)
Il Tar ha ricordato il recente arresto dell’Adunanza
plenaria del
Consiglio di Stato 20.07.2015 n. 8 secondo cui il
possesso dei requisiti di partecipazione ad una procedura ad
evidenza pubblica “si impone” a partire dall’atto di
presentazione della domanda di partecipazione e in ogni
successiva fase della procedura di evidenza pubblica nonché
per tutta la durata dell’appalto senza soluzione di
continuità. Ciò per assicurare alla stazione appaltante di
contrarre con un soggetto affidabile in quanto provvisto di
tutti i requisiti necessari.
Nel caso all’esame del Tribunale la vigenza limitata a sei
mesi (poi prorogata di altri due) del contratto d’affitto di
ramo d’azienda stipulato dalla concorrente con altra società
risultava incompatibile con la necessità della verifica del
possesso dei requisiti non solo alla data di scadenza del
termine per la presentazione dell’offerta, ma anche e
soprattutto per tutta la durata della procedura di
affidamento fino all’aggiudicazione e alla stipula del
contratto e per tutto il periodo di esecuzione dello stesso
(secondo il bando di durata pari a tre anni eventualmente
rinnovabile per altri tre).
Da ciò la coerente decisione della stazione appaltante di
ritenere la ricorrente non in possesso dei requisiti di
capacità tecnico–organizzativa richiesti dal bando di gara.
---------------
MASSIMA
Occorre in primo luogo considerare, quanto all’impugnata
esclusione della ricorrente dalla procedura di gara, i
contenuti della comunicazione di cui alla nota del
14.11.2016 inviata dall’amministrazione resistente. La non
ammissione alla fase successiva della procedura risulta
motivata dal mancato possesso dei requisiti di capacità
tecnico–organizzativa richiesti dal bando di gara.
Orbene,
l’esigenza di consentire alla
stazione appaltante di aver sempre certezza dell’identità
dei propri contraenti e dei soggetti chiamati ad eseguire il
contratto posto in gara è un principio immanente
nell’ordinamento a cui,
osserva il Collegio, risultano preordinate
in particolare le disposizioni relative ai requisiti di
partecipazione alle procedure di gara.
Coerente corollario di tale principio è
l’ulteriore generale principio della continuità del possesso
dei requisiti di partecipazione affermato da costante
giurisprudenza e,
da ultimo, ribadito nella pronuncia dell’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato n. 8 del 2015.
Secondo quanto rilevato dal giudice di seconda istanza
il possesso dei requisiti suddetti “si impone”
a partire dall’atto di presentazione della domanda di
partecipazione e in ogni successiva fase della procedura di
evidenza pubblica nonché per tutta la durata dell’appalto
senza soluzione di continuità e ciò per assicurare alla
stazione appaltante di contrarre con un soggetto affidabile
in quanto provvisto di tutti i requisiti necessari.
Nel caso di specie vale considerare che la vigenza limitata
a sei mesi (poi prorogata di altri due) del contratto
d’affitto di ramo d’azienda risultava incompatibile con la
necessità della verifica del possesso dei requisiti non solo
alla data di scadenza del termine per la presentazione
dell’offerta, ma anche e soprattutto per tutta la durata
della procedura di affidamento fino all’aggiudicazione e
alla stipula del contratto e per tutto il periodo di
esecuzione dello stesso (secondo il bando di durata pari a
tre anni eventualmente rinnovabile per altri tre).
Da ciò la coerente decisione della stazione appaltante di
ritenere la ricorrente non in possesso dei requisiti di
capacità tecnico–organizzativa richiesti dal bando di gara.
Alla luce di quanto predetto la decisione di esclusione è
immune dalle censure lamentate, non assumendo, inoltre,
particolare rilievo alcuna pretesa discordanza con
l’allegato verbale della commissione di gara e con il parere
dell’Avvocatura della Provincia, di cui alcuni passaggi
risultano riportati nello stesso verbale.
Le ragioni di esclusione dalla procedura di gara della
ricorrente contenute (e derivanti dal loro combinato
disposto) nella nota, nel verbale e nel parere, appaiono
coincidenti. E, d’altra parte, risulta che lo stesso ed
unico motivo di mancanza dei requisiti è quello da sempre
contestato dalla stazione appaltante fin dalla prima
comunicazione, così come nelle successive e nei verbali di
gara.
Invero anche l’acquisizione, poi avvenuta, da parte della
ricorrente del ramo di azienda affittato, pur consolidando i
requisiti di capacità tecnico–organizzativa, non risulta
circostanza sufficiente ad integrarli ai fini di partecipare
alle successive fasi della procedura, dato che tali
requisiti non solo devono essere posseduti con continuità
fin dal momento di presentazione dell’offerta, ma di essi
deve, fin da detto momento, essere possibile la verifica.
Gli atti impugnati risultano quindi legittimi e non viziati
sotto i profili dedotti con il ricorso (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 13.01.2017 n. 8 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Rumori,
niente danni al vicino «ipervigilante». Condominio. Va
insonorizzato l’appartamento del custode con emissioni oltre
soglia ma non spetta il risarcimento.
Il condominio è tenuto a
insonorizzare l’appartamento del custode, ma non deve nessun
risarcimento ai confinanti, per il danno da rumore, se
questi sono un po’ paranoici e maldisposti verso il
prossimo.
La Corte di
Cassazione (Sez. II civile,
sentenza 12.01.2017 n. 661), si allinea alla Corte
d’appello, che aveva annullato il risarcimento riconosciuto
per il danno alla salute derivato dalle immissioni sonore
provenienti dall’appartamento del portiere.
Una consulenza, disposta in primo grado, aveva evidenziato
che dalla casa del custode si sentiva il rumore dell’acqua
dei servizi igienici, della tv e le voci delle persone in
camera da letto, «oltre la soglia di tollerabilità». Il Ctu,
pur non avendo riscontrato nei vicini alcuna malattia
psichiatrica, aveva concluso per l’esistenza di un nesso tra
le immissioni e il malessere ansioso-depressivo lamentato
dagli stessi, madre e figlio.
Un danno non suscettibile di
liquidazione secondo le tabelle milanesi ma quantificabile,
in via equitativa dal giudice. Il Tribunale si era
prontamente adeguato, imponendo al condominio
l’insonorizzazione dell’immobile, riconoscendo una somma di
10mila euro a favore di ciascuno degli attori e rigettando
la sola richiesta di lasciare per sempre “sfitto” il locale
condominiale.
Il condominio ricorre contro la decisione e vince. La Corte
d’appello emette un verdetto sul quale pesa lo studio della
personalità delle “vittime” dei rumori. La Corte
territoriale valorizza proprio un’indagine
psico-diagnostica, condotta dallo stesso Ctu. Dagli atti
acquisiti risultava che la madre aveva una personalità
ossessivo-compulsiva. Il punteggio della scala paranoide,
alto benché sotto soglia, evidenziava che la signora era
«piuttosto vigile ed attenta all’ambiente; le situazioni
sono spesso vissute come pericolose o potenzialmente dannose
e la percezione del mondo tende ad assumere facilmente una
coloritura persecutoria».
Disturbi ancora più accentuati nel figlio che, come
risultato dal test di Rorschah, era «ipervigilante»: una
persona che investe molta energia per mantenere vivo un
continuo stato di allerta. Secondo il perito «tali persone
sono vulnerabili e di conseguenza sempre sulla difensiva,
pronte a controbattere a un attacco. Non hanno fiducia negli
altri, non sentono il bisogno di vicinanza e per questo
evitano di instaurare relazioni intime e profonde con altre
persone».
Per la Corte d’appello è sufficiente per escludere
il nesso causale tra i rumori e il malessere
ansioso-depressivo, che, spiegano i giudici, non va
collegato a fattori ambientali ma a una personalità
disturbata. Turbe dalle quali deriva una reazione abnorme a
modeste sollecitazioni disturbanti, come lo scorrere
dell’acqua nei sanitari, la televisione o la presenza di
persone nell’appartamento accanto.
Per la Cassazione, la signora e il figlio non hanno sofferto
alcuna lesione all’integrità psico-fisica e devono dunque
restituire le somma ottenute in primo grado con gli
interessi, pari a 28 mila euro, oltre a pagare le spese del
giudizio, con il doppio contributo unificato. Il condominio,
se vuole occupare di nuovo l’appartamento lasciato dal
vecchio custode, deve insonorizzarlo (articolo Il Sole 24 Ore del
13.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Spese
di lite, compensazione da motivare. Il principio vale
soprattutto quando è colpevole l’amministrazione.
La compensazione della spese va
adeguatamente motivata dal giudice soprattutto quanto il
giudizio è stato causato da colpa dell’amministrazione.
A fornire questo
chiarimento è la Corte di Cassazione, Sez. V cicile, con la
sentenza 12.01.2017 n. 591.
Una società impugnava una cartella di pagamento lamentando
la notifica oltre i termini di prescrizione. La Ctp
accoglieva il ricorso, compensando le spese di lite e su
tale aspetto la contribuente proponeva appello.
Il collegio regionale confermava tuttavia la decisione,
osservando che il giudice di prime cure, concordando
sull’intervenuta prescrizione dei termini, non aveva deciso
nel merito dell’infrazione e pertanto non aveva
concretamente valutato la responsabilità dell’ufficio.
La società ricorreva così in Cassazione rilevando una
violazione della norma in tema di spese processuali.
L’articolo 92 Cpc in vigore all’epoca del procedimento,
prevedeva la facoltà per il giudice, in presenza di
soccombenza reciproca o altre gravi ed eccezionali ragioni,
esplicitamente indicate nella motivazione, di compensare,
parzialmente o per intero, le spese tra le parti.
La Suprema Corte sul punto ha precisato che in assenza di
soccombenza reciproca, occorre la sussistenza di «gravi ed
eccezionali ragioni». Si tratta di una norma elastica che il
legislatore ha previsto per un adeguamento caso per caso
alle molteplici situazioni che possono verificarsi, non
determinabili a priori.
La valutazione spetta al giudice di merito che incorre nella
violazione di legge laddove indichi ragioni illogiche o
erronee.
Nella specie, il collegio di appello pareva aver
giustificato la compensazione sull’assenza di una
responsabilità grave o un atteggiamento temerario da parte
dell’ufficio nei confronti della contribuente. Tuttavia, una
simile formula, secondo la Cassazione, è inadeguata.
Tanto più che nella causa, oltre a non risultare alcuna
reciproca soccombenza, emergeva la necessità per il privato
di ricorrere al giudice a seguito di una “colpa”
organizzativa dell’amministrazione. Da qui l’accoglimento
del ricorso con il rinvio ad altra sezione della Ctr per la
quantificazione delle spese.
La decisione è particolarmente attuale seppur riferita a una
norma del Cpc ora modificata. Il nuovo articolo 15 del
decreto sul processo tributario precisa che le spese di lite
possono essere compensate soltanto in caso di soccombenza
reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni
da motivare espressamente. Il principio enunciato dalla
Suprema Corte è quindi applicabile anche per la nuova
previsione ed è auspicabile sia concretamente considerato
dai giudici tributari.
Ancora troppo frequentemente si
assiste, infatti, alla compensazione delle spese di lite
anche dinanzi a palesi errori degli uffici. Sembra quasi che
si voglia tutelare la parte pubblica dimenticando forse,
come invece rilevato dalla Cassazione, che in molte ipotesi,
un minimo di organizzazione in più, e anche di buon senso,
avrebbero evitato il contenzioso (articolo Il Sole 24 Ore del
13.01.2017).
---------------
MASSIMA
Con il motivo di ricorso la ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione degli artt. 90, 91, 92, 93,
82, 83, 112, 132 e 139 c.p.c., in relazione all'art. 360
c.p.c., primo comma, n. 3, giacché la CTR, del tutto
illogicamente, ha affermato che sarebbe sufficiente a
giustificare la compensazione delle spese processuali la
circostanza che il giudice di primo grado non ha "deciso
il merito della commissione della infrazione".
Questa Corte, anche di recente, ha avuto modo di precisare
"che l'art. 92, secondo comma, c.p.c. (nella formulazione
introdotta dalla L. n. 263/2005 e poi modificata dalla L. n.
69/2009, ratione temporis applicabile in quanto il
ricorso introduttivo di primo grado è stato proposto
successivamente) ne legittima la compensazione, ove non
sussista reciproca soccombenza, solo in presenza di "gravi
ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella
motivazione"; siffatta disposizione, nella parte in cui
permette la compensazione delle spese di lite allorché
concorrano "gravi ed eccezionali ragioni",
costituisce "una norma elastica, quale clausola generale
che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato
contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non
esattamente ed efficacemente determinabili "a priori", ma da
specificare in via interpretativa da parte del giudice del
merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità,
in quanto fondato su norme giuridiche" (Cass. n.
2883/2014).
La Corte di legittimità ha anche chiarito che, "nell'ipotesi
(quale quella di specie) in cui il
decidente abbia comunque esplicitato in motivazione la
ragioni della propria statuizione, sia comunque necessario
che non siano addotte ragioni illogiche o erronee, dovendosi
ritenere sussistente il vizio di violazione di legge
nell'ipotesi in cui le ragioni addotte si appalesino
illogiche o erronee"
(Cass. n. 2883/2014 citata, conforme a Cass. n. 12893/2011).
Orbene, le suesposte ragioni che giustificano, secondo la
CTR, la compensazione delle spese processuali del giudizio
di primo grado, si appalesano illogiche ed erronee atteso
che i motivi di reiezione della pretesa tributaria -"la
cartella era stata notificata in data 09/01/2011, ossia
oltre il termine triennale di prescrizione decorrente
dall'anno successivo a quello in cui dovevano essere
effettuati i pagamenti"- esulano dalle "gravi ed
eccezionali ragioni" di cui all'esaminato art. 92 c.p.c.,
disposizione che, da ultimo, l'art. 13 D.L. n. 132 del 2014,
convertito con modificazioni nella L. n. 162 del 2014, ha
provveduto anche a tipizzare.
E' censurabile la decisione impugnata allorché il giudice di
appello assume che la operata compensazione delle spese
processuali non richieda una esplicita motivazione in quanto
si giustifica, in base all'intera motivazione della sentenza
ed allo svolgimento della causa, per l'assenza di "una
responsabilità grave o un atteggiamento temerario
dell'Ufficio" nei confronti della contribuente, in
quanto il riferimento ad una simile formula motivazionale
non risulta pertinente.
Nel caso di specie, infatti, è inidoneo ad integrare una
adeguata motivazione dell'esercizio del potere del giudice
di merito di compensare le spese il richiamo al complesso
delle statuizioni adottate nella sentenza di primo grado, da
cui emerge non già la reciproca soccombenza delle parti ma
la soccombenza esclusiva di una di esse, considerato che,
secondo il principio di causalità, la necessità, per il
privato, di ricorrere al giudice è pur sempre derivata da
una colpa organizzativa della Amministrazione.
Alla luce di tali considerazioni, pertanto, in accoglimento
del ricorso, va cassata l'impugnata sentenza, con rinvio
alla CTR del Lazio, altra sezione, che provvederà anche alle
spese del presente giudizio di legittimità. |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: In
applicazione dei principi generali in tema di accesso, ai
sensi degli artt. 22-ss. della legge n. 241 del 1990,
l’interesse può essere riconosciuto in capo all’impresa
seconda classificata che abbia impugnato gli atti di gara,
quando l’istanza sia volta a provare l’inadeguatezza
dell’offerta dell’aggiudicataria; allo stesso modo,
l’interesse alla visione del contratto può sussistere, per
verificarne la corrispondenza esatta all’oggetto della gara,
nel rispetto del principio di par condicio.
Al contrario, la richiesta di documenti contabili attinenti
alla fase esecutiva dell’appalto, per verificare eventuali
inadempienze ai fini della risoluzione e del successivo
interpello, non presenta la connotazione dell’interesse
attuale e concreto ai fini dell’accesso.
---------------
La ricorrente, mandante nell’a.t.i. con la Ve. 2 Mo. s.p.a.,
si è classificata seconda nella gara effettuata da GTT
s.p.a. per l’affidamento del servizio di raccolta,
rendicontazione ed accredito degli incassi da parcometri.
Impugna il diniego all’accesso alla documentazione relativa
alla fase esecutiva del servizio di “smaltimento della
moneta metallica” e, in particolare, alle quietanze dei
bonifici effettuati dall’aggiudicataria Al. s.p.a. ed ai
flussi informatici.
Si è costituita GTT s.p.a., chiedendo il rigetto del
ricorso.
Alla camera di consiglio del 13.12.2016 la causa è passata
in decisione.
Il ricorso è infondato.
Il raggruppamento di cui è parte la ricorrente, secondo
classificato nella gara, non ha mai impugnato
l’aggiudicazione.
In applicazione dei principi generali in tema di accesso, ai
sensi degli artt. 22-ss. della legge n. 241 del 1990,
l’interesse può essere riconosciuto in capo all’impresa
seconda classificata che abbia impugnato gli atti di gara,
quando l’istanza sia volta a provare l’inadeguatezza
dell’offerta dell’aggiudicataria (Cons. Stato, sez. V,
25.02.2009 n. 1115); allo stesso modo, l’interesse alla
visione del contratto può sussistere, per verificarne la
corrispondenza esatta all’oggetto della gara, nel rispetto
del principio di par condicio (Cons. Stato, sez. VI,
12.03.2012 n. 1402).
Al contrario, la richiesta di documenti contabili attinenti
alla fase esecutiva dell’appalto, per verificare eventuali
inadempienze ai fini della risoluzione e del successivo
interpello, non presenta la connotazione dell’interesse
attuale e concreto ai fini dell’accesso (si veda, su
fattispecie analoghe: TAR Veneto, sez. I, 08.08.2013 n.
1057; TAR Liguria, sez. II, 19.06.2015 n. 580).
In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 12.01.2017 n. 58 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul carattere non unitario della gara suddivisa
in più lotti.
Sui casi in cui è inammissibile il ricorso cumulativo
proposto avverso l'aggiudicazione di due o più lotti di una
stessa gara.
Il carattere non unitario della gara suddivisa in più lotti
comporta che il bando di gara si configura quale "atto ad
oggetto plurimo", nel senso che contiene le disposizioni
per lo svolgimento non di un'unica gara finalizzata
all'affidamento di un unico contratto, bensì quelle per
l'indizione e la realizzazione di tante gare contestuali
quanti sono i lotti cui sono connessi i contratti da
aggiudicare e che gli atti di gara relativi al contenuto dei
contratti da aggiudicare devono essere necessariamente
differenziati per ciascun lotto e devono essere tanti quanti
sono i contratti da aggiudicare.
La diversità dei contratti che devono essere aggiudicati in
ciascun lotto della gara, infatti, determina la necessità di
redigere tanti capitolati quanti sono i lotti di gara, così
da assicurare, per ciascun contratto, le diversità di
fabbisogno che lo caratterizzano.
Nonostante la natura plurima della gara, così come il bando,
anche la Commissione giudicatrice deve essere unica, in
conformità con la ratio delle disposizioni che
permettono l'accorpamento di più lotti. L'indizione di una
gara suddivisa, infatti, è finalizzata anche a ridurre i
costi che la stazione appaltante deve sostenere per
l'affidamento di più contratti fra loro analoghi; sarebbe,
dunque, illogico moltiplicare il numero delle Commissioni
giudicatrici e, con queste, le spese necessarie al loro
funzionamento.
---------------
In materia di ricorso cumulativo deve ricordarsi che è
inammissibile il ricorso cumulativo proposto avverso
l'aggiudicazione di due o più lotti di una stessa gara nel
caso in cui, al di fuori della (parziale) connessione
soggettiva: la gara sia unica, ma suddivisa in lotti del
tutto indipendenti e aggiudicabili separatamente; le censure
proposte siano dirette ad avversare l'attività del medesimo
ente appaltante ma in relazione a diverse imprese
concorrenti; i motivi introdotti siano del tutto diversi
(risentendo della specificità della posizione delle singole
imprese meglio classificate), ciò costituendo fattore
certamente ostativo al cumulo, atteso che l'analogia dei
motivi di gravame proposti integra da sempre la condizione
per la proposizione del ricorso cumulativo ed anche per la
riunione di distinti ricorsi.
Infatti, con il termine "gara" deve più propriamente
intendersi ogni singola procedura di affidamento, con
l'effetto che, oltre alla connessione soggettiva (parziale),
non vi sono ragioni perché con un unico procedimento
giudiziale siano impugnati altri (e in specie molti)
provvedimenti distinti per formulare diverse censure nei
confronti di diversi soggetti giuridici (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 12.01.2017 n. 52 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Annullabilità del bando di gara in contrasto con precetti
inderogabili di legge o regolamento in materia di requisiti
di partecipazione alla procedura.
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Contratti della Pubblica amministrazione
- Bando – Clausole escludenti – Annullabilità e non nullità.
L’art. 83, comma 8, secondo e terzo periodo, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 non ha introdotto una disciplina
innovativa del principio di tassatività delle cause di
esclusione già enunciato dall’art. 46, comma 1-bis, d.lgs.
12.04.2006, n. 163, del quale costituisce la sostanziale
riproduzione; conseguentemente, pur nel vigore della nuova
codificazione in materia di contratti pubblici, continua a
dover essere qualificato in termini di annullabilità, e non
di nullità, il vizio della legge di gara che si ponga in
contrasto con precetti inderogabili di legge o regolamento
in materia di requisiti di partecipazione alla procedura,
ovvero detti una disciplina con essi incompatibile, senza
per questo introdurre cause di esclusione violative del
menzionato principio di tassatività.
---------------
MASSIMA
Considerato:
- che, sia pure con i limiti di sommarietà propri della
cognizione cautelare, appare fondata l’eccezione di
irricevibilità e inammissibilità del ricorso sollevata dalla
difesa della stazione appaltante;
- che infatti l’art. 83, co. 8, secondo e
terzo periodo, del D.Lgs. n. 50/2016 non sembra voler
introdurre una disciplina innovativa del principio di
tassatività delle cause di esclusione già enunciato
dall’art. 46, co. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, del quale
costituisce la sostanziale riproduzione
(in ossequio alle indicazioni impartite dalla Commissione
Speciale del Consiglio di Stato con il parere n. 855 del
01.04.2016);
- che conseguentemente, pur nel vigore
della nuova “codificazione” in materia di contratti
pubblici, continua a dover essere qualificato in termini di
annullabilità, e non di nullità, il vizio della legge di
gara che si ponga in contrasto con precetti inderogabili di
legge o regolamento in materia di requisiti di
partecipazione alla procedura, ovvero detti una disciplina
con essi incompatibile, senza per questo introdurre cause di
esclusione violative del menzionato principio di tassatività
(cfr. Cons. Stato, A.P., 25.02.2014, n. 9);
- che, in presenza di clausole
immediatamente escludenti, non sembra potersi dubitare della
sussistenza di un onere di immediata impugnazione in capo a
chi ne contesti la legittimità
(TAR Toscana, Sez.
I,
ordinanza 12.01.2017 n. 24 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dalla Pubblica amministrazione
nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono
apprezzamento di merito sottratto al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di
fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione
data alle singole aree non necessita di apposita motivazione
oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di
ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del
piano, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al
piano regolatore generale, salvo che particolari situazioni
non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di
soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche
considerazioni.
In particolare, in sede di previsione di zona contenuta nel
piano medesimo, la valutazione della idoneità di un immobile
a soddisfare determinati interessi pubblici piuttosto che
altri, costituisce esercizio di un potere discrezionale e
pertanto non può essere sindacato sotto il profilo
dell'eccesso di potere per disparità di trattamento basata
sulla comparazione con la destinazione impressa agli
immobili adiacenti.
---------------
2. Passando quindi all’esame del merito del ricorso, giova
preliminarmente richiamare i principi costantemente
affermati dalla giurisprudenza amministrativa sui limiti del
sindacato giurisdizionale di legittimità sulle scelte di
carattere pianificatorio compiute dall’amministrazione in
sede di piano regolatore generale.
2.1. E’ noto, al riguardo, che “Le scelte effettuate
dalla Pubblica amministrazione nell'adozione degli strumenti
urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto
al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la
destinazione data alle singole aree non necessita di
apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano, essendo sufficiente l'espresso
riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di
modificazione al piano regolatore generale, salvo che
particolari situazioni non abbiano creato aspettative o
affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni" (da ultimo, TAR
Torino, sez. I 15.04.2016 n. 487; Consiglio di Stato sez. IV
12.05.2016 n. 1907).
In particolare, poi, è stato affermato che “in sede di
previsione di zona contenuta nel piano medesimo, la
valutazione della idoneità di un immobile a soddisfare
determinati interessi pubblici piuttosto che altri,
costituisce esercizio di un potere discrezionale e pertanto
non può essere sindacato sotto il profilo dell'eccesso di
potere per disparità di trattamento basata sulla
comparazione con la destinazione impressa agli immobili
adiacenti" (TAR Trento, 06.11.2001 n. 628; in senso
analogo, Consiglio di Stato sez. IV 23.02.1979 n. 111)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sugli accertamenti istruttori che devono compiere
le amministrazioni aggiudicatrici, al fine di verificare la
rispondenza delle varie offerte ai canoni costituzionali di
imparzialità e buon andamento.
In tema di appalti pubblici, le amministrazioni
aggiudicatrici, al fine di verificare la rispondenza delle
varie offerte ai canoni costituzionali di imparzialità e
buon andamento, devono procedere a un progressivo
accertamento dal seguente sviluppo istruttorio:
a) la sussistenza di situazioni di controllo e collegamento ai
sensi dell'art. 2359 Cod. civ.;
b) ove tale indagine abbia dato esito negativo, occorre procedere
all'ulteriore verifica "sulla base di univoci elementi" se
le offerte dei partecipanti alla gara siano "imputabili
ad un unico centro decisionale";
c) quest'ultima verifica avrà, a sua volta, un duplice oggetto,
anch'esso di carattere progressivo: in primo luogo, occorre
verificare preventivamente e ab externo, cioè sulla
base di elementi strutturali o funzionali ricavati dagli
assetti societari e personali delle varie società
partecipanti, se esista, in base ad univoci elementi anche
di natura presuntiva, un unico centro decisionale della
presentazione e del contenuto di più offerte;
d) ove non si raggiunga tale convinzione, occorre procedere ad
un'ulteriore verifica, che si risolva in un attento esame
del contenuto delle offerte, dal quale possa evincersi
l'esistenza dell'unicità soggettiva sostanziale, al di là di
formali distinzioni, della provenienza delle offerte.
Nel caso di specie, il contenuto delle offerte denuncia la
presenza di una sostanziale identità delle stesse, che oltre
ad avere un'evidenza ontologica, poggia sulla circostanza
emersa che le società, le cui offerte sarebbero
riconducibili ad un unico centro decisionale, avrebbero
utilizzato la stessa società di progetto.
Da qui la sufficiente presenza di elementi, che attestando
la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla procedura
ad un unico centro decisionale causano o possono causare la
vanificazione dei principi generali in tema di par condicio,
segretezza delle offerte e trasparenza della competizione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 10.01.2017 n. 39 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Soggetti obbligati alla realizzazione di opere di
urbanizzazione e accollo esterno.
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Edilizia – Piani di lottizzazione –
Opere di urbanizzazione – Soggetto obbligato –
Individuazione.
L’obbligazione assunta per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione ha natura ropter rem, nel senso che va
adempiuta non solo da colui che ha stipulato la convenzione
edilizia, ma anche da colui, se soggetto diverso, che
richiede la concessione edilizia e da colui che realizza
opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi
della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa.
L’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e la natura reale di tale obbligazione
riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione,
quelli che richiedono la concessione, e quelli che
realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa (1).
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(1)
Il Tar Napoli ha espresso importanti principi in tema di
soggetti obbligati alla realizzazione di opere di
urbanizzazione in occasione del ricorso proposto dalla
società Ikea contro il Comune di Afragola, che l’aveva
diffidata a provvedere all’adempimento degli obblighi di
realizzazione delle opere di urbanizzazione (in particolare,
opere di urbanizzazione esterna relative a svincoli
autostradali) oggetto di convenzioni urbanistiche.
In punto di fatto era accaduto che la Nac Costruzioni s.r.l.
aveva richiesto al Comune di Afragola la concessione
edilizia per la realizzazione di un complesso costituito da
una grande struttura di vendita al dettaglio e da una
stazione di servizio per la vendita di carburanti, in
località Cantariello, a sud del centro urbano di Afragola.
Con convenzione stipulata tra il Comune Afragola e la
società Nac quest’ultima si obbligava, per sé e per i suoi
aventi causa, a titolo oneroso o gratuito, alla
realizzazione di opere di urbanizzazione esterne relative a
svincoli autostradali. Il Comune aveva quindi rilasciato a
Nac Costruzioni s.r.l. la concessione edilizia per la
realizzazione della grande struttura di vendita.
Successivamente al rilascio del titolo edilizio, la società
Ikea aveva acquistato la proprietà della porzione di terreno
di Nac Costruzioni S.r.l. relativa all'intervento di
edificazione della grande struttura di vendita.
Ciò chiarito in punto di fatto, il Tar ha premesso che le
convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che
all'edificazione del territorio corrisponda non solo
l'approvvigionamento delle dotazioni minime di
infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato
inserimento in rapporto al contesto di zona che,
nell'insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in
un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente,
individuato dall'autorità preposta alla gestione del
territorio (Cons. St., sez. IV, 06.11.2009, n. 6947).
Ha poi dichiarato, in considerazione della situazione in
fatto e del rapporto tra le due società –Nac e Ikea– che
entrambe sono obbligate nei confronti dell’amministrazione
comunale in relazione agli obblighi nascenti dalla
convenzione. La fattispecie deve essere qualificata,
infatti, in termini di accollo esterno –e, dunque, destinato
a produrre effetti nei confronti del creditore– non
liberatorio e cumulativo.
Ha sottolineato il Tribunale che l'art. 1273 c.c. nel
disciplinare l'istituto dell'accollo, al comma 2 dispone
espressamente che l'adesione del creditore all'accordo
bilaterale fra accollante e accollato "importa
liberazione del debitore originario solo se ciò costituisce
condizione espressa della stipulazione o se il creditore
dichiara espressamente di liberarlo". Dunque, l'accollo
esterno si può ritenere liberatorio per il debitore ceduto
al ricorrere di due condizioni alternative fra di loro:
l'inserimento, nella convenzione fra accollante e debitore
originario, di una specifica condizione in tal senso, ovvero
l'accettazione inequivoca e specifica, rilasciata dal
creditore, di voler liberare l'originario debitore.
Nella fattispecie non emerge dalla documentazione in atti
che l’amministrazione comunale abbia mai accettato di voler
liberare l’originario debitore e, anzi, le pretese sono
state sempre avanzate dall’amministrazione comunale nei
confronti di entrambe le società, le quali, dunque, restano
nei confronti del Comune solidalmente obbligate, ferme le
tutele riferite ai rapporti interni che intenderanno
azionare nella pertinente sede giurisdizionale.
In relazione all’eccepita prescrizione della pretesa vantata
dall’amministrazione comunale, il Tar ha ricordato che la
scadenza del termine decennale per l'ultimazione
dell'esecuzione delle opere di urbanizzazione non fa venire
meno la relativa obbligazione, la quale, al contrario,
diventa esigibile proprio da tale momento, dal quale inizia
a decorrere l'ordinario termine di prescrizione.
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MASSIMA
Questione prioritaria al fine del decidere è la
corretta individuazione degli obblighi assunti con le
convenzioni sottoscritte nel 2001 e nel 2003 dal Comune di
Afragola e la Nac Costruzioni S.r.l..
Nelle premesse della convenzione stipulata nel 2001, al
punto m) si evidenzia che: "(...) in data 26.03.2001 Prot.
n. 74/UTC il Dirigente U.T.C. del Comune di Afragola ha
comunicato alla NAC Costruzioni S.r.l. che il nuovo
strumento urbanistico, in corso di redazione, prevederà una
nuova viabilità e collegamenti agli assi autostradali per il
collegamento delle zone Est e Ovest della città secondo
quanto riportato nelle planimetrie ad essa allegate e
riproposto nei progetti di cui ai punti] e k che precedono"
ed all’art. 5 della medesima convenzione si prevede quanto
segue: “Il Comune di Afragola, con la stipula della
presente Convenzione, si obbliga ad indire apposita
Conferenza dei Servizi, al fine di pervenire alla
realizzazione della viabilità di cui al punto m) della
premessa, trattandosi di opera di urbanizzazione da
realizzarsi a cura del Concessionario, così come si evince
dal relativo progetto”.
Ai fini che in questa sede rilevano, inoltre, l’art. 7 della
convenzione ha stabilito, tra l’altro, l’obbligo della
concessionaria “per sé e per gli altri aventi causa a
qualsiasi titolo, oneroso o gratuito:
a) a realizzare tutte
le opere di urbanizzazione primaria e di allacciamento ai
pubblici servizi e consistenti: - nella costruzione delle
sedi stradali e passaggio pedonale; - nella costruzione
della rete di fognatura; - nella costruzione della rete
idrica; - nella costruzione della rete di distribuzione
dell'energia elettrica e del gas; - nella costruzione del
servizio di pubblica illuminazione; - nella costruzione
della rete di canalizzazione telefonica; meglio descritti
nei relativi progetti;
b) e una volta realizzate, a cederle
gratuitamente in proprietà al Comune, dietro richiesta (…)”.
Non può revocarsi in dubbio che con la convenzione la
società si è impegnata a realizzare le opere indicate
ottenendo, come emerge dalla convenzione stessa, il
vantaggio di beneficiare di un consistente scomputo di larga
parte degli oneri concessori; a fronte, dunque, del
rilevante impatto dell’intervento sul piano urbanistico e
sulla viabilità, per un verso l’amministrazione comunale ha
valutato conforme agli interessi pubblici implicati
dall’intervento assentire il progetto prevedendo uno
scomputo degli oneri di urbanizzazione dietro l’impegno
della società a realizzare le opere contemplate, per altro
verso, la società ha valutato conformi ai propri interessi
l’assunzione di tali impegni.
La formulazione della convenzione non può ritenersi equivoca
sul punto e riflette l’assetto di interessi definito dalle
parti nella configurazione complessiva dell’operazione.
La convenzione integrativa e novativa registrata la n. 702
in data 16/04/2003 ribadisce, all'art. 10, che "le opere di
urbanizzazione esterne (svincoli autostradali) sono a
completo carico del concessionario".
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente l’oggetto
degli obblighi assunti è chiaramente individuato nel suo
contenuto (realizzazione delle opere di urbanizzazione
inclusi i vincoli autostradali) e nel dettaglio
(caratteristiche progettuali e modalità tecniche di
realizzazione) determinabile alla stregua delle valutazioni
da assumere attraverso l’esame congiunto da parte dei
diversi enti ed organi competenti, implicati in ragione
della natura delle opere da realizzare. Del resto, è un dato
di fatto che il progetto è stato elaborato e trasmesso dalle
società e, dunque, esiste, sebbene necessiti di adeguamenti
ed aggiornamenti.
La differente ricostruzione ed interpretazione del contenuto
di tali convenzioni nelle parti di rilievo ai fini del
decidere sostenuta dalla difesa della ricorrente non solo si
pone in contrasto con il tenore delle previsioni sopra
richiamate ma anche con l’assetto di interessi che proprio
tali convenzioni hanno cristallizzato, dovendosi considerare
che in tanto l’edificazione è stata assentita in quanto sono
stati assunti precipui impegni da parte della società al
fine di garantire il raccordo dell’intervento nell’ambito
nel quale si inserisce.
Lungi dal costituire una mera
facoltà o opportunità, la realizzazione di quelle opere
costituisce elemento di centrale rilievo nella
strutturazione dell’operazione; l’opzione interpretativa
prospettata dalla ricorrente porterebbe, peraltro, alla
conclusione, non plausibile, di configurare solo obblighi a
carico dell’amministrazione la quale, oltre a assentire
l’edificazione dovrebbe anche provvedere a fornire le
urbanizzazioni necessarie ad una migliore fruizione
dell’opera onerandosi delle conseguenti esternalità.
A
prescindere da tali considerazioni, il contenuto delle
convenzioni esclude, comunque, in radice ogni differente
opzione interpretativa.
Del resto,
le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di
garantire che all'edificazione del territorio corrisponda,
non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di
infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato
inserimento in rapporto al contesto di zona che,
nell'insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in
un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente,
individuato dall' autorità preposta alla gestione del
territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06.11.2009, n. 6947), ciò con conseguente infondatezza anche delle
deduzioni dirette a contestare la necessità delle opere de quibus e la loro qualificazione, circostanza, pertanto, in
relazione alla quale il Collegio non valuta necessario alcun
approfondimento istruttorio.
Ciò chiarito, lo sviluppo di analisi successivo impone di
verificare se ed in quali termini tale obbligo sia stato
trasferito alla società ricorrente in conseguenza
dell’acquisto da parte di quest’ultima dei terreni sui quali
sorge l’immobile.
L'art. 4.3 l'atto di compravendita rep. n. 50659 stipulato
tra le società Nac Costruzioni ed Ikea in data 21/5/03,
richiama espressamente la convenzione del 2001 e la
convenzione integrativa e novativa del 2003, dando atto che
in tali convenzioni "dopo aver esposto i presupposti
normativi e regolamentari del rapporto e dopo aver
individuato i suoli in località Cantariello oggetto della
convenzione stessa (che le parti riconoscono ricomprendere
le aree oggetto di questo contratto) (…..) sono stati
fissati i criteri per realizzazione dell'insediamento
commerciale, nonché una serie di pattuizioni necessarie per
il corretto insediamento del "megastore".
All’art. 4.5 espressamente si sancisce quanto segue: "in
conseguenza di tutto quanto forma oggetto del presente
contratto l'Ikea, nel dichiarare di conoscere il contenuto
della richiamata convenzione e dei suoi allegati, per quanto
di sua competenza, fa proprie le pattuizioni della stessa
convenzione subentrando nei relativi obblighi".
Degno di nota è anche l’art. 4.4 del medesimo contratto ove
si dà atto che "copia della citata convenzione (la
convenzione del 2003 alla quale è allegata la convenzione
del 2001) viene allegata a questo atto sotto la lettera D".
A luce della formulazione delle previsioni contrattuale il
Collegio non può che rilevare la chiara assunzione da parte
della Ikea di tutti gli obblighi derivanti dalla convenzione
del 2001 come integrata e novata nel 2003, nonché escludere
la non opponibilità ad Ikea delle stesse, dedotta dalla
difesa della ricorrente sulla base della omessa trascrizione
nei registri immobiliari, giacché, dallo stesso art. 4.4.
sopra richiamato emerge la piena conoscenza delle
convenzioni e dalle altre previsioni contrattuali
addirittura l’assunzione degli obblighi previsti nelle
stesse, peraltro, soggette a trascrizione.
Emerge per tabulas, peraltro, che l’assunzione di tali
obblighi ha costituito il presupposto della voltura della
concessione edilizia n. 34 del 09/04/2003 in favore della
ricorrente.
Il Collegio deve, comunque, precisare che le due società
restano entrambe obbligate nei confronti
dell’amministrazione comunale in relazione agli obblighi de quibus.
La fattispecie deve essere qualificata, infatti, in termini
di accollo esterno –e, dunque, destinato a produrre effetti
nei confronti del creditore– non liberatorio e cumulativo.
A tale riguardo il Collegio sottolinea che l'art. 1273 c.c.
nel disciplinare l'istituto dell'accollo, al comma secondo
dispone espressamente che l'adesione del creditore
all'accordo bilaterale fra accollante e accollato "importa
liberazione del debitore originario solo se ciò costituisce
condizione espressa della stipulazione o se il creditore
dichiara espressamente di liberarlo".
Dunque, l'accollo
esterno si può ritenere liberatorio per il debitore ceduto
al ricorrere di due condizioni alternative fra di loro:
l'inserimento, nella convenzione fra accollante e debitore
originario, di una specifica condizione in tal senso, ovvero
l'accettazione inequivoca e specifica, rilasciata dal
creditore, di voler liberare l'originario debitore.
Orbene, nella fattispecie non emerge dalla documentazione in
atti che l’amministrazione comunale abbia mai accettato di
voler liberare l’originario debitore e, anzi, le pretese
sono state sempre avanzate dall’amministrazione nei
confronti di entrambe le società, le quali, dunque, restano
nei confronti dell’amministrazione solidalmente obbligate,
ferme le tutele riferite ai rapporti interni che
intenderanno azionare nella pertinente sede giurisdizionale.
Giova precisare, peraltro, che il giudice amministrativo, in
relazione all’obbligazione assunta di provvedere alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione, ha chiarito che
essa deve qualificarsi "propter rem" nel senso che va
adempiuta non solo da colui che ha stipulato la convenzione
edilizia, ma anche da colui, se soggetto diverso, che
richiede la concessione edilizia e da colui che realizza
opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi
della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa.
L’obbligazione in solido per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione e la natura reale dell'obbligazione in esame
riguarda dunque i soggetti che stipulano la convenzione,
quelli che richiedono la concessione, e quelli che
realizzano l'edificazione, ed i loro aventi causa (TAR
Sicilia Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011; TAR
Campania Napoli, VIII, 16.04.2014, n. 2170).
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della
ricorrente, inoltre, non è maturata alcuna prescrizione in
relazione alla pretesa vantata dall’amministrazione
comunale.
Secondo orientamento giurisprudenziale prevalente -da cui
il Collegio non ha ragione per discostarsi-
la scadenza del
termine decennale per l'ultimazione dell'esecuzione delle
opere di urbanizzazione non fa venire meno la relativa
obbligazione, la quale, al contrario, diventa esigibile
proprio da tale momento, dal quale inizia a decorrere
l'ordinario termine di prescrizione (ex multis TAR
Lombardia Brescia 03.02.2003, n. 65; TAR Lombardia
Milano sez. III, 06.11.2013, n. 2428; TAR Abruzzo
L'Aquila 12.09.2013, n. 747).
Nella fattispecie,
anche a prescindere dagli effetti novativi della convenzione
sottoscritta nel 2003 (come pure dalle ulteriori pertinenti
e corrette deduzioni delle amministrazioni resistenti e
della controinteressata), e considerando, dunque, quale dies
a quo per il compunto la scadenza del termine di efficacia
di otto previsto dalla convenzione del 14.06.2001, è
evidente che non è ancora intervenuta alcuna prescrizione.
Il protocollo d’intesa del 2004, inoltre, non ha determinato
nessuno degli effetti pretesi dalla ricorrente emergendo per tabulas dalla documentazione prodotta in giudizio: che anche
tale protocollo si riferisce agli obblighi di cui alle
convenzioni del 2001 e del 2003; che Ikea ha fattivamente
collaborato alle attività dirette alla definizione ed
elaborazione del progetto, comunicando solo con nota prot.
n. 11727 del 23/04/2010 la propria volontà di non partecipare
alla conferenza di servizi convocata per il 19/04/2010,
ritenendo che tale procedimento esulasse dagli obblighi
scaturenti dalle convenzioni urbanistiche del 2001 e del
2003; che sino alla trasmissione della sopra indicata nota
non solo la ricorrente ha manifestato la propria volontà e
l’impegno anche finanziario alla realizzazione del progetto
ed alla risoluzione delle problematiche inerenti alla
viabilità ma ha addirittura proceduto essa stessa a
trasmettere atti integrativi e sostitutivi
all’amministrazione comunale.
Né per le ragioni sopra esposte è possibile sostenere il
venir meno degli obblighi per omessa e tempestiva
approvazione del progetto definitivo in specie considerando
che la conferenza di servizi non ha concluso i propri lavori
escludendo la fattibilità delle opere ma, come emerge dal
verbale del 29.04.2014, si è espressa nel senso di un
adeguamento del progetto definitivo per i lavori per la
realizzazione dello svincolo autostradale stanti i pareri
negativi espressi da alcuni partecipanti.
In tale quadro, il Collegio non può esimersi dal rilevare la
singolarità delle difese articolate dalla società Autostrade
–che si è costituita in giudizio concludendo per
l’accoglimento del ricorso– tenuto conto dei compiti
demandati a tale società, della circostanza che in sede di
conferenza di servizi non ha escluso la possibilità di
realizzare le opere in esito al superamento delle criticità
pure chiaramente dalla medesima evidenziate, dell’impegno
profuso dal Comune di Afragola al fine di addivenire alla
approvazione definitiva dei progetti.
In conclusione, per le ragioni sopra espose, il ricorso va
rigettato (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 09.01.2017 n. 187 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Questo
Consiglio ha già chiarito, in merito alla portata precettiva
dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, che la
regola da esso fissata, per la quale i componenti della
commissione di gara vanno scelti fra soggetti dotati di
competenza tecnica adeguata alle peculiarità dello specifico
settore interessato dall’appalto da assegnare, costituisce
espressione di principi generali, costituzionali ed europei,
volti ad assicurare il buon andamento e l’imparzialità
dell’azione amministrativa.
Il requisito enunciato dell’esperienza «nello specifico
settore cui si riferisce l’oggetto del contratto» deve,
tuttavia, essere inteso in modo coerente con la poliedricità
delle competenze spesso richieste in relazione alla
complessiva prestazione da affidare, non solo tenendo conto,
secondo un approccio formale e atomistico, delle strette
professionalità tecnico-settoriali implicate dagli specifici
criteri di valutazione, la cui applicazione sia prevista
dalla lex specialis, ma considerando, secondo un approccio
di natura sistematica e contestualizzata, anche le
professionalità occorrenti a valutare sia le esigenze
dell’Amministrazione, alla quale quei criteri siano
funzionalmente preordinati, sia i concreti aspetti
gestionali ed organizzativi sui quali gli stessi siano
destinati ad incidere.
Non è, in particolare, necessario che l’esperienza
professionale di ciascun componente copra tutti gli aspetti
oggetto della gara, potendosi le professionalità dei vari
membri integrare reciprocamente, in modo da completare ed
arricchire il patrimonio di cognizioni della commissione,
purché idoneo, nel suo insieme, ad esprimere le necessarie
valutazioni di natura complessa, composita ed eterogenea.
---------------
18. Anche infondato è il quarto motivo (pp. 28-30 del
ricorso), con il quale l’appellante ha contestato la
composizione della commissione giudicatrice assumendo che
essa sarebbe formata da soggetti non in possesso delle
necessarie competenze specialistiche afferenti alle scienze
dell’informatica e della tecnologie per l’automazione dei
servizi di prenotazione, oggetto della gara.
18.1. Oltre il 50% dei punti da assegnare per gli elementi
qualitativi, sostiene l’appellante, erano strettamente
connessi alla componente tecnologica dei servizi, sicché si
rendeva assolutamente indispensabile il coinvolgimento, in
misura prevalente, di tecnici esperti nel settore
informatico e nel settore delle nuove tecnologie, in grado,
quindi, si saggiare la bontà delle soluzioni ipotizzate.
18.2. Nel caso di specie, al contrario, solo un membro su
cinque risultava essere in possesso delle necessarie
competenze specialistiche afferenti al campo di interesse
(e, segnatamente, l’ing. El.So., dirigente
responsabile del servizio per l’informativa), mentre gli
altri quattro componenti svolgono ruoli sanitari e
amministrativi.
18.3. Sotto tale aspetto l’appellante deduce la violazione
dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 laddove
impone che la commissione giudicatrice sia inderogabilmente
composta da un numero dispari di componenti, non superiori a
cinque, «esperti nello specifico settore cui si riferisce
l’oggetto del contratto».
18.4. L’inadeguatezza dei commissari avrebbe inciso sui
risultati raggiunti dall’appellante, determinando evidenti
incongruenze nei giudizi espressi, che una commissione
ritualmente formata avrebbe certamente evitato.
18.5. Il motivo va pure esso respinto.
18.6. Questo Consiglio ha già chiarito, in merito alla
portata precettiva dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163
del 2006, che la regola da esso fissata, per la quale i
componenti della commissione di gara vanno scelti fra
soggetti dotati di competenza tecnica adeguata alle
peculiarità dello specifico settore interessato dall’appalto
da assegnare, costituisce espressione di principi generali,
costituzionali ed europei, volti ad assicurare il buon
andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa.
18.7. Il requisito enunciato dell’esperienza «nello
specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto»
deve, tuttavia, essere inteso in modo coerente con la
poliedricità delle competenze spesso richieste in relazione
alla complessiva prestazione da affidare, non solo tenendo
conto, secondo un approccio formale e atomistico, delle
strette professionalità tecnico-settoriali implicate dagli
specifici criteri di valutazione, la cui applicazione sia
prevista dalla lex specialis, ma considerando, secondo un
approccio di natura sistematica e contestualizzata, anche le
professionalità occorrenti a valutare sia le esigenze
dell’Amministrazione, alla quale quei criteri siano
funzionalmente preordinati, sia i concreti aspetti
gestionali ed organizzativi sui quali gli stessi siano
destinati ad incidere.
18.8. Non è, in particolare, necessario che l’esperienza
professionale di ciascun componente copra tutti gli aspetti
oggetto della gara, potendosi le professionalità dei vari
membri integrare reciprocamente, in modo da completare ed
arricchire il patrimonio di cognizioni della commissione,
purché idoneo, nel suo insieme, ad esprimere le necessarie
valutazioni di natura complessa, composita ed eterogenea
(v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 10.06.2013, n.
3203; Cons. St., sez. III, 17.12.2015, n. 5706).
19. Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, che devono
correttamente orientare l’applicazione dell’art. 84, comma
2, del d.lgs. n. 163 del 2006, il TAR per il Veneto ha
correttamente respinto la censura perché ha rilevato che la
commissione è «formata da dirigenti aziendali, ossia da
soggetti aventi le necessarie competenze a valutare il
servizio in questione» (p. 7 della sentenza impugnata)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 09.01.2017 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sicurezza
aziendale, oneri integrabili in gara.
Se non richiesti nel bando di gara.
Illegittima l'esclusione di un concorrente che non ha
indicato, in assenza di previsione nel bando di gara, gli
oneri per la sicurezza aziendale; necessaria la richiesta di
integrazione.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III,
nella
sentenza
09.01.2017 n. 30 relativamente a una
fattispecie sulla quale in primo grado il Tar Marche aveva
ritenuto che il concorrente dovesse essere escluso dalla
gara perché, in violazione dell'art. 87, comma 4, del dlgs
n. 163 del 2006, non aveva indicato gli oneri di sicurezza
aziendali nella propria offerta.
Si trattava di ipotesi in
cui l'obbligo di indicazione dei costi della sicurezza
aziendale non era stato specificato nella legge di gara e
non era stato contestato, dal punto di vista sostanziale,
che l'offerta rispettasse i costi minimi della sicurezza. I
giudici richiamano la sentenza n. 19 del 27.07.2016
dell'Adunanza plenaria che aveva mitigato il rigore
applicativo della disciplina al ricorrere di alcune
circostanze fattuali.
I giudici di Palazzo Spada avevano precisato che
l'automatica esclusione dell'impresa sarebbe risultata
contrastante con i principi eurounitari della tutela
dell'affidamento, della certezza del diritto, della parità
di trattamento, della non discriminazione, della
proporzionalità e della trasparenza.
In particolare, quando,
come nella controversia esaminata dal Consiglio di stato,
una condizione per la partecipazione alla procedura di
aggiudicazione, pena l'esclusione da quest'ultima, non sia
stata espressamente prevista dai documenti dell'appalto e
possa essere identificata solo con un'interpretazione
giurisprudenziale del diritto nazionale, l'amministrazione
aggiudicatrice può accordare all'offerente escluso un
termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione.
Pertanto per le gare anteriori all'entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs n. 50 del 2016)
nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione dei costi
della sicurezza aziendale non sia stato specificato nella
legge di gara, l'esclusione della concorrente non può essere
disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a
regolarizzare l'offerta della stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi del 13.01.2017).
---------------
MASSIMA
5. Il TAR per le Marche ha accolto il primo motivo del
ricorso proposto in primo grado da CNS ed ha ritenuto che
Siram s.p.a. dovesse esclusa dalla gara perché essa, in
violazione dell’art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del
2006, non avrebbe indicato gli oneri di sicurezza aziendali
nella propria offerta economica.
5.1. Il primo giudice ha ritenuto di dover aderire
all’orientamento, espresso da questo Consiglio di Stato
nelle sentenze n. 3 e n. 9 del 2015 dell’Adunanza plenaria,
in riferimento alla mancata indicazione degli oneri della
sicurezza aziendale nell’offerta di Si. s.p.a.
5.2.
La motivazione del primo giudice, nel nuovo quadro
interpretativo nel frattempo maturato, non è condivisibile.
6. Questo Consiglio di Stato ha infatti precisato di recente
il proprio orientamento nella recente sentenza n. 19 del
27.07.2016 dell’Adunanza plenaria e, pur mantenendo fermi i
principî affermati nelle sentenze n. 3 e n. 9 del 2015, ne
ha mitigato il rigore applicativo al ricorrere di alcune
circostanze fattuali, che rendono l’automatica esclusione
dell’impresa contrastante con i principî eurounitari della
tutela dell’affidamento, della certezza del diritto, della
parità di trattamento, della non discriminazione, della
proporzionalità e della trasparenza.
6.1.
L’Adunanza plenaria,
più in particolare,
ha ritenuto che, per le gare anteriori all’entrata in vigore
del d.lgs. n. 50 del 2016, nelle ipotesi in cui l’obbligo di
indicazione dei costi della sicurezza aziendale non sia
stato specificato nella legge di gara e non sia contestato,
dal punto di vista sostanziale, che l’offerta rispetti i
costi minimi della sicurezza aziendale, l’esclusione della
concorrente non possa essere disposta se non dopo che lo
stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta della
stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri del
soccorso istruttorio
(Adunanza plenaria, 27.07.2016, n. 19).
6.2. Tali principi si attagliano perfettamente al caso di
specie in quanto:
a) è pacifico che l’offerta dell’appellante principale, Si. s.p.a.,
è stata presentata non solo prima dell’entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici, ma anche prima delle
precedenti sentenze n. 3 e n. 9 del 2015 in una fase di
incertezza interpretativa riguardante le disposizioni
rilevanti nel presente giudizio;
b) la legge di gara non ha specificato ai concorrenti che vi fosse
un loro obbligo di indicare nell’offerta, a pena di
esclusione, gli oneri della sicurezza aziendale né tale
specificazione era stata fornita con la predisposizione di
moduli e formulari particolari che li contenessero;
c) l’offerta economica di Si. s.p.a., da un punto di vista
sostanziale, rispetta i costi minimi della sicurezza
aziendale perché tale dato non è mai stato posto in
discussione né confutato da CNS ed è stato acclarato dalla
stazione appaltante nel giudizio di anomalia, non impugnato
da CNS, con la conseguenza che questa ha già verificato, in
concreto, la congruità e l’affidabilità dell’offerta
presentata dall’aggiudicataria, dal punto di visto
sostanziale, rispetto al profilo in esame.
6.3.
Non può che discenderne, pertanto, l’illegittimità della
esclusione disposta dal TAR per le Marche nella sentenza qui
impugnata.
7. Tale conclusione, deve qui solo aggiungersi, è
confermata, confortata e necessitata, anzi, dalla recente
ordinanza della Corte di Giustizia UE, sez. VI, 10.11.2016,
in C-140/16, in C-697/15 e in C-162/16, la quale ha
affermato che «il principio della parità
di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati
dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, devono essere
interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un
offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto
offerente, dell’obbligo di indicare separatamente
nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro,
obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con
l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente
dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì
emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal
meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice
nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali
documenti».
7.1. Secondo il giudice europeo, infatti, «i
principi della parità di trattamento e di proporzionalità
devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano
al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di
rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro
un termine fissato dall’amministrazione».
7.2.
Nell’ipotesi in cui infatti, come nella controversia in
oggetto, una condizione per la partecipazione alla procedura
di aggiudicazione, pena l’esclusione da quest’ultima, non
sia espressamente prevista dai documenti dell’appalto e
possa essere identificata solo con un’interpretazione
giurisprudenziale del diritto nazionale, «l’amministrazione
aggiudicatrice può accordare all’offerente escluso un
termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione»
(Corte di Giustizia UE, 27.06.2016, in C-27/15).
7.3. Il giudice europeo, tanto nell’ordinanza del 10.11.2016
che nella sentenza del 27.06.2016, ha ribadito che
i principî di trasparenza e della parità di trattamento
richiedono, infatti, che le condizioni sostanziali e
procedurali relative alla partecipazione a un appalto siano
chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche, in
particolare gli obblighi a carico degli offerenti, affinché
questi ultimi possano conoscere esattamente i vincoli
procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi
vincoli valgono per tutti i concorrenti.
7.4. Questo Consiglio, come ha già statuito, del resto, in
altre più recenti pronunce (v. Cons. St., sez. III,
27.10.2016, n. 4527; Cons. St., sez. V, 23.12.2016, n. 5444)
in applicazione di quanto ha chiarito l’Adunanza plenaria e,
ora, ha anche stabilito la Corte di Giustizia, non può
pertanto che affermare la illegittimità dell’esclusione
dell’impresa che non abbia indicato nella propria offerta
economica gli oneri della sicurezza aziendale, al cospetto
dalla loro mancata predeterminazione negli atti di gara, e
conseguentemente non può che ritenere erronea l’esclusione
di Si. s.p.a., disposta dal TAR per le Marche, con
conseguente riforma in parte qua della sentenza
impugnata, laddove essa ha accolto il primo motivo
dell’originario ricorso proposto da CNS.
7.5. L’offerta presentata da Si. s.p.a., sul piano
sostanziale, risulta essere rispettosa degli obblighi
stabiliti in materia di sicurezza aziendale, come è
soprattutto emerso, in modo incontestabile e non contestato
da CNS (con i conseguenti effetti ai sensi dell’art. 64,
comma 2, c.p.a.), in sede di verifica dell’eventuale
anomalia dell’offerta, laddove Si. s.p.a., nelle proprie
giustificazioni a conferma della congruità dell’offerta, si
è fatta carico di spiegare e documentare, nello specifico,
anche i costi della sicurezza, indicando un importo di €
29.913,00, che risulta superiore a quello dichiarato dalla
stessa CNS, pari ad € 16.000,00.
7.6. Le ragioni sin qui espresse, per l’accertata e
incontestabile legittimità dell’offerta economica presentata
da Si. s.p.a., sono assorbenti di ogni altro motivo e/o
questione, sia sul piano giuridico che fattuale, proposto
dagli odierni appellanti principali. |
APPALTI:
I bandi di gara possono prevedere requisiti di
capacità particolarmente rigorosi, purché non siano
discriminanti e abnormi rispetto alle regole proprie del
settore.
I bandi di gara possono prevedere requisiti di capacità
particolarmente rigorosi, purché non siano discriminanti e
abnormi rispetto alle regole proprie del settore, giacché
rientra nella discrezionalità dell'Amministrazione
aggiudicatrice di fissare requisiti di partecipazione ad una
singola gara anche molto rigorosi e superiori a quelli
previsti dalla legge.
Il che in punto di adeguatezza corrisponde a un corretto uso
del principio di proporzionalità nell'azione amministrativa:
le credenziali e le qualificazioni pregresse debbono infatti
-ai fini dell'efficiente risultato del contratto e dunque
dell'interesse alla buona amministrazione mediante una tale
esternalizzazione- essere attentamente congrue rispetto
all'oggetto del contratto.
Sicché tanto più questo è particolare, tanto più il livello
dei requisiti da richiedere in concreto deve essere
particolare. Errerebbe l'amministrazione pubblica che, non
facendosi carico di un tale criterio di corrispondenza,
aprisse incautamente la via dell'aggiudicazione a chi non
dimostri inerenti particolari esperienze e capacità.
Naturalmente, sempre in ragione del criterio
dell'adeguatezza, stavolta congiunto a quello della
necessarietà, tali particolari requisiti vanno parametrati
all'oggetto complessivo del contratto di appalto ed essere
riferiti alle sue specifiche peculiarità, al fine di
valutarne la corrispondenza effettiva e concreta alla gara
medesima, specie con riferimento a quei requisiti che
esprimono la capacità tecnica dei concorrenti (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 04.01.2017 n. 9 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla ratio della norma di cui all'art. 80
(Motivi di esclusione) del d.lgs. n. 50/2016.
Sull'illegittimità dell'esclusione di un concorrente da una
gara in considerazione del provvedimento sanzionatorio
dell'Antitrust per la realizzazione di una presunta
un'intesa restrittiva della concorrenza in occasione di una
gara Consip.
La ratio della norma di cui all'art. 80 d.lgs. n.
50/2016, risiede nell'esigenza di verificare l'affidabilità
complessivamente considerata dell'operatore economico che
andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon
andamento dell'azione amministrativa, che quest'ultima entri
in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e
professionale.
L'art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, ripropone il contenuto
dell'art. 38 del d.lgs. n. 163/2016, apportando però
significative modifiche al testo originario anche per quanto
attiene al più specifico ambito dei comportamenti incidenti
sulla moralità professionale delle imprese concorrenti.
La diversità del tratto testuale della norma oggi vigente
non è tale da escludere una precisa linea di continuità tra
le due previsioni, atteso che persiste in capo alla Stazione
appaltante un coefficiente di discrezionalità (cosiddetta
monobasica), il cui esercizio comporta la esatta
riconduzione della fattispecie astratta contemplata dalla
norma (grave illecito professionale) a quella concretamente
palesatasi nella singola gara.
---------------
La sanzione irrogata ad un operatore economico dall'Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per la
realizzazione di una intesa restrittiva della concorrenza in
occasione di una gara Consip, non può essere astrattamente
ricondotta all'art. 80, c. 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016,
n. 50, laddove discorre di "altre sanzioni" tra le
conseguenze che possono derivare dalla violazione dei doveri
professionali e segnatamente dalle "significative carenze
nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione".
Come precisato nel parere n. 2286/2016 in data 03.11.2016,
reso dalla commissione speciale del C.d.S. (in relazione
alle redigende Linee guida ANAC “indicazione dei mezzi di
prova adeguati e delle carenze nell'esecuzione di un
precedente contratto di appalto che possano considerarsi
significative per la dimostrazione delle circostanze di
esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c) del codice”)
<<possono essere considerate come “altre sanzioni”,
l’incameramento delle garanzie di esecuzione o
l’applicazione di penali, fermo che la sola applicazione di
una clausola penale non è di per sé sintomo di grave
illecito professionale, specie nel caso di applicazione di
penali in misura modesta>>.
Inoltre, la previsione di cui all'art. 80 ha una portata
molto più ampia, in quanto, da un lato, non si opera alcuna
distinzione tra precedenti rapporti contrattuali con la
medesima o con diversa stazione appaltante, e, dall'altro
lato, non si fa riferimento solo alla negligenza o errore
professionale, ma, più in generale, all'illecito
professionale, che abbraccia molteplici fattispecie, anche
diverse dall'errore o negligenza, e include condotte che
intervengono non solo in fase di esecuzione contrattuale,
come si riteneva nella disciplina previgente, ma anche in
fase di gara (le false informazioni, l'omissione di
informazioni, il tentativo di influenzare il processo
decisionale della stazione appaltante).
In tale ventaglio di ipotesi non possono tuttavia rientrare,
anche i comportamenti anti-concorrenziali, in quanto di per
sé estranei al novero delle fattispecie ritenute rilevanti
dal legislatore, in attuazione peraltro di una precisa
scelta, se si pensi che non sono state riprodotte, nell'àmbito
del vigente ordinamento nazionale, le ipotesi di cui alla
lett. d) della direttiva 2014/24, relativa agli accordi
intesi a falsare la concorrenza.
La norma non si presta ad una interpretazione estensiva o
analogica, in quanto risulterebbe in contrasto con le
esigenze di favor partecipationis che ispirano
l'ordinamento in subiecta materia. L'irrogazione di
una sanzione da parte dell'Authorithy Antitrust non può
quindi consolidare alcuna fattispecie escludente di conio
normativo e pertanto si configura la lamentata violazione
del principio di tassatività delle cause di esclusione (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 02.01.2017 n. 10 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione piscina - Zona sottoposta a vincolo
paesaggistico - Permesso di costruire e senza autorizzazione
- Natura pertinenziale - Giurisprudenza penale e
amministrativa - Artt. 3, 22, 44, c. 1, lett. e), d.P.R. n.
380/2001 - Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004.
La natura pertinenziale deve essere esclusa per le opere
prive del requisito dell'individualità fisica e strutturale,
che costituiscano parte integrante dell'edificio sul quale
sono realizzate (Cass., sez. 3, 26/062013, n. 42330; sez. 3,
06/05/2010, n. 21351; sez. 3, 18/05/2006 n. 17083; sez. 3,
09/01/2003, n. 239).
Pertanto, una piscina posta al servizio esclusivo di una
residenza privata legittimamente edificata non è di per sé
estranea al concetto di "pertinenza urbanistica".
Tale nozione ha peculiarità sue proprie, che la distinguono
da quella civilistica: deve trattarsi, invero, di un'opera
-che abbia comunque una propria individualità fisica ed una
propria conformazione strutturale e non sia parte integrante
o costitutiva di altro fabbricato- preordinata ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale,
funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello
stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato, non
valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un
volume minimo (non superiore, in ogni caso, al 20% di quello
dell'edificio principale) tale da non consentire, in
relazione anche alle caratteristiche dell'edificio
principale, una sua destinazione autonoma e diversa da
quella a servizio dell'immobile cui accede.
E la relazione con la costruzione preesistente deve essere,
in ogni caso, non di integrazione ma "di servizio",
allo scopo di renderne più agevole e funzionale l'uso;
sicché non potrebbe ricondursi alla nozione in esame la
realizzazione di una piscina privata che, per le sue
caratteristiche oggettive, fosse suscettibile di
utilizzazione (anche economica) autonoma.
Il manufatto pertinenziale, inoltre: a) deve accedere ad un
edificio preesistente edificato legittimamente; b) deve
necessariamente presentare la caratteristica della ridotta
dimensione anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con
l'edificio principale; c) non deve essere in contrasto con
gli strumenti urbanistici.
Tali principi trovano applicazione, secondo la
giurisprudenza amministrativa, anche per le piscine di
modeste dimensioni che siano asservite ad edifici a
destinazione residenziale (Cons. Stato, sez. 5, 16/04/2014,
n. 1951; Cons. Stato, sez. 4, 08/08/2006, n. 4780), anche
indipendentemente dal fatto se l'area nella quale insistono
sia un'area a destinazione agricola o a destinazione
residenziale, purché abbiano limitata rilevanza sul piano
urbanistico e non influiscano negativamente sull'assetto
territoriale agricolo (Tar Piemonte, 16/11/2009, n. 2552;
Tar Veneto, 16/11/1998, n. 2069) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.12.2016 n. 52835
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EDILIZIA PRIVATA:
Fiscalizzazione dell’abuso edilizio -
Responsabilità del committente del direttore dei lavori e
del legale rappresentante della impresa esecutrice -
Demolizione ed integrale riedificazione di murature esterne
in assenza di permesso a costruire - Revoca dell'ordine di
demolizione - Artt. 31,32, 34, 44, lettera a), dPR n.
380/2001.
L'operatività della cosiddetta fiscalizzazione dell'illecito
edilizio, prevista in via generale dall'art. 34 del dPR n.
380 del 2001, non incide sulla legittimità dell'ordine di
demolizione adottato ai sensi dell'art. 31 del dPR n. 380
del 2001, ma semplicemente in ordine alla sua perdurante
efficacia e, in definitiva, sulla sua eseguibilità coattiva.
Inoltre la possibilità di procedere alla fiscalizzazione e,
pertanto, alla sospensione e all'eventuale revoca
dell'ordine di demolizione, non deve occuparsene il giudice
del processo principale detta valutazione rientrando nella
competenza funzionale del giudice della esecuzione (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 03/05/2013, n. 19090) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.12.2016 n. 52832 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Raccolta e smaltimento di rifiuti non
pericolosi - Sfabbricidi - Mancanza della prescritta
autorizzazione - Natura del reato di illecita gestione -
Qualifica rivestita dall'agente - Art. 256, c. 1, dlgs n.
152/2006.
La configurabilità della violazione dell'art. 256, comma 1,
del dlgs n. 152 del 2006, prescinde dalla qualifica
rivestita dall'agente, non trattandosi di un reato
cosiddetto proprio, essendo invece un reato comune, che può
pertanto, essere commesso anche da chi si trovi a realizzare
la condotta incriminata non nello svolgimento di un'attività
primaria ma in maniera occasionale e consequenziale ad altra
attività principale (Corte di cassazione, Sez. III penale,
09/07/2013, n. 29077).
RIFIUTI - Deposito temporaneo -
Requisiti - Gestione illecita dei rifiuti - Art. 183 d.L.vo
n. 152/2006.
In tema di
gestione dei rifiuti, deve intendersi per deposito
temporaneo ogni raggruppamento di rifiuti, e tali sono senza
dubbio gli "sfabbricidi", effettuato prima della
raccolta nel luogo in cui gli stessi sono stati prodotti e
nel rispetto delle condizioni di cui all'art. 183 del dlgs
n. 152 del 2006; laddove difetti anche uno dei requisiti
richiesti il deposito, non potendosi questo ritenere
temporaneo, esso può essere di volta in volta qualificato
come preliminare, se prodromico ad una successiva operazione
di smaltimento, può integrare gli estremi della messa in
riserva, se il materiale depositato è in attesa di
operazioni di recupero, ovvero dell'abbandono, laddove non
sia prevista alcuna successiva operazione, o, infine, può
essere considerato come attività di gestione, ove il
deposito sia stato reiterato nel tempo ed abbia acquisito,
perciò, una significativa rilevanza sia in relazione alla
entità dello spazio occupato dai rifiuti che con riferimento
alla quantità di questi ultimi (Corte di cassazione, Sezione
III penale, 23/09/2014, n. 38676), dovendosi, propendere per
la rilevanza penale del fatto, fra gli altri indici
rilevatori, laddove la attività di abbandono di rifiuti sia
caratterizzata da una certa sistematicità, desumibile ad
esempio dalla significativa quantità di rifiuti depositati
in un'unica porzione di terreno nonché dalla inerenza della
tipologia del rifiuto rispetto alla attività ordinariamente
svolta dal soggetto depositante (Corte di cassazione,
Sezione III penale, 15/07/2014, n. 3910) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.12.2016 n. 52829
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EDILIZIA PRIVATA:
Opere edili in zona paesaggisticamente vincolata
- Distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o
parziale ovvero in variazione essenziale - Ininfluenza.
In materia paesaggistica, a prescindere dalla entità
(parziale o totale) della variazione fra quanto realizzato e
quanto precedentemente assentito dagli organi posti a tutela
dell'ordinato assetto urbanistico del territorio, laddove ci
si trovi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della
loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della
sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione
tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale
ovvero in variazione essenziale, in quanto l'art. 32, comma
terzo, del dPR 06.06.2001, n. 380, prevede espressamente che
tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo,
inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità totali ex lege, sono sanzionati ai sensi
della lettera e) dell'art. 44 del dPR n. 380 del 2001 (Corte
di cassazione, Sezione III penale, 05/09/2014, n. 37169) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.12.2016 n. 52832 -
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PUBBLICO IMPIEGO: In materia di sanzioni
amministrative, l'omessa comunicazione dei corrispettivi per
l'espletamento di incarichi non autorizzati
dall'amministrazione di appartenenza non è soggetta alla
sanzione di cui all'art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del
2001, attesa l'intervenuta declaratoria di illegittimità
costituzionale della norma per essere la
condotta già ricompresa nel divieto di conferimento di
incarichi senza autorizzazione, risolvendosi la sua autonoma
sanzionabilità in una duplicazione raccordata ad un
inadempimento meramente formale.
---------------
Nel pubblico
impiego contrattualizzato l'art. 53 d.lgs. n. 165/2001, nel suo insieme, non
vieta l'esperimento di incarichi extraistituzionali
retribuiti, ma li consente solo ove gli stessi siano "conferiti"
dall'Amministrazione di provenienza ovvero da questa
preventivamente autorizzati, rimettendo al datore di lavoro
pubblico la valutazione della legittimità dell'incarico e
della sua compatibilità, soggettiva ed oggettiva, con i
compiti propri dell'ufficio.
All'applicazione di tale disciplina
concorre il comma 9 dell'art. 53, che fa carico agli enti
pubblici economici e ai datori di lavoro privato di chiedere
la preventiva autorizzazione dell'Amministrazione di
appartenenza del lavoratore.
---------------
Anche il lavoratore concorre all'attuazione
della disciplina sulla incompatibilità, cumulo di impieghi e
incarichi, ma la norma di riferimento per quest'ultimo va
individuata nell'art. 53, comma 7, che prende in esame le
conseguenze per il lavoratore della mancanza di
autorizzazione a svolgere l'incarico extraistituzionale.
Correttamente, quindi, la Corte d'Appello, ha affermato che
sussiste a carico del datore di lavoro, con relativo
onere della prova, senza che ne siano tipizzate le modalità,
un obbligo di verifica delle condizioni che escludono la
richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso
rimettere unicamente a quanto eventualmente dichiarato
sponte sua dal lavoratore.
---------------
In tema di violazioni amministrative,
l'errore sulla liceità del fatto giustifica l'esclusione
della responsabilità solo quando risulti inevitabile,
occorrendo a tal fine un elemento positivo, estraneo
all'autore dell'infrazione, idoneo ad ingenerare in lui la
convinzione della stessa liceità, oltre alla condizione che,
da parte sua, sia stato fatto tutto il possibile per
osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli
mosso, così che l'errore sia stato incolpevole, non
suscettibile, cioè, di essere impedito dall'interessato con
l'ordinaria diligenza.
---------------
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d'Appello di Ancona, con la sentenza n. 607/14,
pronunciando sulla impugnazione proposta dalla Agenzia delle
Entrate, Direzione provinciale di Ancona, nei confronti di
Ass. Coop Cooperativa sociale, avverso la sentenza emessa,
tra le parti dal Tribunale di Ancona n. 1288/13, in parziale
riforma della sentenza appellata, riduceva la sanzione (art.
53 d.lgs. n. 165 del 2001, commi 9, 11 e 15, per avere
conferito incarico per lo svolgimento di prestazioni
infermieristiche a Od.Gi., dipendente della Marina militare,
senza autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza e
senza successiva comunicazione dei compensi corrisposti
negli anni 2005 e 2006) irrogata con l'ordinanza ingiunzione
n. 132940/2010/AC3/T6, emessa dall'Agenzia delle Entrate di
Ancona in data 03.10.2010, dalla somma di euro 69.247,70,
all'importo di complessivi euro 34.001,14 (somma degli
importi di euro 7.552,34 e di euro 26.448,80, irrogati per
l'omissione della richiesta di autorizzazione).
2. La Corte di Appello affermava che l'omissione della
richiesta di autorizzazione era punita anche a titolo di
colpa, per cui per escluderne la sussistenza occorreva che
l'ignoranza della qualità del dipendete non fosse colpevole,
e riteneva che l'omessa comunicazione dei compensi fosse
assorbita dall'omessa richiesta di autorizzazione, e quindi
ricompresa nella sanzione prevista per la prima omissione.
3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello
ricorre l'Agenzia delle Entrate, prospettando un motivo di
ricorso.
4. Resiste la Ass. Coop Cooperativa sociale con
controricorso e ricorso incidentale articolato in tre
motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il Collegio ha autorizzato la redazione della sentenza in
forma semplificata, ai sensi del decreto del Primo
Presidente della Corte di cassazione in data 14.09.2016.
2. Con l'unico motivo di ricorso l'Agenzia delle
Entrate ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione
dell'art. 66, comma 6-bis, del d.l. n. 331 del 1993,
convertito dalla legge n. 427 del 1993, in relazione
all'art. 360, n. 3, cpc.
Benché, come sopra riportato, nell'epigrafe del motivo sia
richiamata disciplina dettata in materia di imposte di bollo
e di registro prevista, tra l'altro, per le società
cooperative, le argomentazioni della censura e, dunque, la
censura stessa, attengono come precisato nelle conclusioni
del motivo medesimo, alla errata applicazione dell'art. 53,
commi 9, 11 e 15, del d.lgs. n. 165 del 2001.
La ricorrente, infatti, censura la statuizione con la quale
la Corte d'Appello ha ridotto la sanzione irrogata alla
Cooperativa ritenendo che la mancata comunicazione dei
compensi fosse assorbita dalla mancata comunicazione di
autorizzazione.
Ed infatti, ad avviso dell'Agenzia si tratterebbe di due
distinte sanzioni.
3. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato in
ragione di quanto statuito dalla Corte costituzionale e da
questa Corte, come di seguito precisato.
Con la sentenza n. 98 del 2015,
intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso
principale per cassazione, la Corte
costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella
parte in cui prevede che "I soggetti di cui al comma 9
che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono
nella sanzione di cui allo stesso comma 9".
Il Giudice delle Leggi ha tra l'altro statuito "La
sanzione, in altri termini, per la violazione di un obbligo
che appare del tutto "servente" rispetto a quello relativo
alla comunicazione del conferimento di un incarico -previsto
in funzione delle esigenze conoscitive della pubblica
amministrazione, connesse, come si è più volte sottolineato,
al funzionamento della anagrafe delle prestazioni, tenuto
anche conto delle modifiche apportate all'art. 53 del d.lgs.
n. 165 del 2001 ad opera dell'art. 1, comma 42, della legge
06.11.2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell'illegalità nella
pubblica amministrazione)- viene a sovrapporsi
irragionevolmente -perequando fra loro situazioni del tutto
differenziate, per gravità e natura- a quella prevista per
la violazione di un obbligo di carattere sostanziale".
Questa Corte, con la sentenza n. 13474 del 2016, ha, quindi,
già affermato che in materia di sanzioni
amministrative, l'omessa comunicazione dei corrispettivi per
l'espletamento di incarichi non autorizzati
dall'amministrazione di appartenenza non è soggetta alla
sanzione di cui all'art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del
2001, attesa l'intervenuta declaratoria di illegittimità
costituzionale della norma
(Corte cost., n. 98 del 2015) per essere la
condotta già ricompresa nel divieto di conferimento di
incarichi senza autorizzazione, risolvendosi la sua autonoma
sanzionabilità in una duplicazione raccordata ad un
inadempimento meramente formale.
4. Pertanto, il ricorso principale deve essere rigettato.
5. Con il ricorso incidentale, è censurata attraverso più
motivi, la statuizione con la quale la Corte d'Appello ha
affermato che la disciplina legislativa punisce l'omissione
della richiesta di autorizzazione per il conferimento
dell'incarico a dipendente pubblico e la fattispecie è
punita anche a titolo di colpa.
Per escluderne la sussistenza, dunque, occorre che
l'ignoranza della qualità di dipendente pubblico non sia a
sua volta colpevole, mentre la mancata specificazione dei
mezzi di accertamento di tale circostanza significa solo che
la parte deve adibire la diligenza concretamente esigibile
ed è discolpata solo ove dimostri che, nonostante questa,
non ha avuto conoscenza ella qualità dell'incarica e,
dunque, della sussistenza del proprio obbligo.
La Corte d'Appello ha affermato, altresì, che non sono
trascurabili i limiti alla rilevanza della buona fede in
materia di elemento soggettivo dell'illecito amministrativo
e la conseguenza della ripartizione degli oneri probatori.
Ha concluso, quindi, che la mancata tipizzazione dei mezzi
per compiere la dovuta verifica implicava che essi, pur non
tipizzati astrattamente, dovevano essere apprezzati in
termini di esigibilità, che le supposizioni fatte
dall'opponente non adempivano all'obbligo di diligente
verifica delle condizioni che escludevano la comunicazione,
e che nella specie non risultavano neppure richieste
specifiche dichiarazioni ai soggetti cui si conferiva
l'incarico, né assunte informazioni in altro modo.
6. Con il primo motivo del ricorso incidentale è
prospettata la violazione e falsa applicazione dell'art. 53,
commi 9, 11 e 15, del d.lgs. n. 165 del 2001, con
riferimento agli artt. 1, 2 e 3, della legge n. 689 del
1981, anche in riferimento all'art. 25 Cost.
Ad avviso della ricorrente l'art. 53 non vieta di assumere,
tout court, ai soggetti pubblici o privati, pubblici
dipendenti, ma si limita a porre una prescrizione, e cioè
che occorre chiedere il nulla osta. Ciò presuppone la
consapevolezza della qualità del lavoratore quale dipendente
pubblico.
Poiché ai sensi dell'art. 3 della legge n. 689 del 1991 per
la violazione colpita da sanzione amministrativa occorre la
coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva,
l'obbligo in questione sussiste solo quando l'incarico sia
conferito ad un soggetto che sia dipendete pubblico e si
qualifichi come tale.
La norma, infatti, prescrive di chiedere il nulla osta, ma
non di accertare lo status di dipendente pubblico del
lavoratore, con la conseguenza che non si può richiedere in
capo al datore di lavoro di dimostrare la buona fede
incolpevole.
7. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cc, in
relazione all'applicazione del combinato disposto dell'art.
3 della legge n. 689 del 1981, e dell'art. 53, commi 9 e 11,
del d.lgs. n. 165 del 2001. Errato riparto dell'onere della
prova.
Assume la ricorrente che il nulla osta non è stato richiesto
non per errore scusabile, ma perché ha come presupposto un
accertamento che nessuna norma pone a carico al datore di
lavoro.
8. Con il terzo motivo del ricorso incidentale è
dedotta la violazione dell'art. 2697 cc.
Spettava all'Amministrazione dimostrare che, nonostante il
datore di lavoro fosse a perfetta conoscenza dello status di
dipendente pubblico del lavoratore, ometteva di chiedere il
nulla osta.
9. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente
in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono
fondati.
L'art. 53, comma 9, primo periodo, del d.lgs. n. 165 del
2001, sancisce "Gli enti pubblici economici e i soggetti
privati non possono conferire incarichi retribuiti a
dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi".
Il terzo periodo del medesimo comma stabilisce che "In
caso di inosservanza si applica la disposizione
dell'articolo 6, comma 1, del decreto legge 28.03.1997, n.
79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.05.1997,
n. 140, e successive modificazioni".
L'art. 3, comma, 1 della legge n. 689 del 1981 stabilisce
che "Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione
amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione
od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o
colposa."
Osserva il Collegio che nel pubblico
impiego contrattualizzato l'art. 53, nel suo insieme, non
vieta l'esperimento di incarichi extraistituzionali
retribuiti, ma li consente solo ove gli stessi siano "conferiti"
dall'Amministrazione di provenienza ovvero da questa
preventivamente autorizzati, rimettendo al datore di lavoro
pubblico la valutazione della legittimità dell'incarico e
della sua compatibilità, soggettiva ed oggettiva, con i
compiti propri dell'ufficio.
All'applicazione di tale disciplina
concorre il comma 9 dell'art. 53, che fa carico agli enti
pubblici economici e ai datori di lavoro privato di chiedere
la preventiva autorizzazione dell'Amministrazione di
appartenenza del lavoratore.
Tale previsione, la cui violazione dà luogo a sanzione
amministrativa, sarebbe priva di effettività se, come deduce
la ricorrente, nessun onere sussistesse a carico del datore
di lavoro in ordine alla verifica dell'assenza delle
condizioni per cui è prevista l'autorizzazione. Né, quanto
richiesto al datore di lavoro dal citato comma 9, può essere
trasferito a carico del lavoratore (assumendo la ricorrente
che sarebbe quest'ultimo a dover informare il datore di
lavoro della propria qualità di dipendente pubblico, per
cui, in mancanza di ciò, nessun addebito potrebbe essere
mosso al datore di lavoro).
Ed infatti, anche il lavoratore concorre
all'attuazione della disciplina sulla incompatibilità,
cumulo di impieghi e incarichi, ma la norma di riferimento
per quest'ultimo va individuata nell'art. 53, comma 7, che
prende in esame le conseguenze per il lavoratore della
mancanza di autorizzazione a svolgere l'incarico
extraistituzionale.
Correttamente, quindi, la Corte d'Appello, ha affermato che
sussiste a carico del datore di lavoro, con relativo
onere della prova, senza che ne siano tipizzate le modalità,
un obbligo di verifica delle condizioni che escludono la
richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso
rimettere unicamente a quanto eventualmente dichiarato
sponte sua dal lavoratore.
Né ciò contrasta con quanto previsto dall'art. 3 del d.lgs.
n. 689 del 1981.
Come questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass., n.
19759 del 2015), in tema di violazioni
amministrative, l'errore sulla liceità del fatto giustifica
l'esclusione della responsabilità solo quando risulti
inevitabile, occorrendo a tal fine un elemento positivo,
estraneo all'autore dell'infrazione, idoneo ad ingenerare in
lui la convinzione della stessa liceità, oltre alla
condizione che, da parte sua, sia stato fatto tutto il
possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero
possa essergli mosso, così che l'errore sia stato
incolpevole, non suscettibile, cioè, di essere impedito
dall'interessato con l'ordinaria diligenza.
Nella specie, tale obbligo, afferma la Corte d'Appello, con
statuizione che non è stata adeguatamente censurata, non è
stato adempiuto, atteso che non risultavano richieste
specifiche dichiarazioni ai soggetti cui si conferiva
l'incarico, né assunte informazioni in altro modo.
10. Il ricorso incidentale deve essere rigettato
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 14.12.2016 n. 25752). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione e rimessione in pristino
dello stato dei luoghi - Ingiustificata inottemperanza -
Conseguenze - Automatica acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'opera e dell'area pertinente - Notifica
all'interessato dell'accertamento formale
dell'inottemperanza - Effetti - Effetto ablatorio si
verifica ope legis - Scadenza del termine per la demolizione
- Artt. 31, 44, d.P.R. n. 380/2001.
L'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione
dell'opera abusiva ed alla rimessione in pristino dello
stato dei luoghi entro novanta giorni dalla notifica
dell'ingiunzione a demolire emessa dall'Autorità
amministrativa determina l'automatica acquisizione gratuita
al patrimonio comunale dell'opera e dell'area pertinente,
indipendentemente dalla notifica all'interessato
dell'accertamento formale dell'inottemperanza ed invero,
questa notifica -prevista dall'art. 31, comma 4, d.P.R. n.
380/2001- costituisce soltanto titolo necessario per
l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, e deve esser disposta allorquando, pur dopo il
trasferimento di proprietà, il responsabile dell'abuso non
voglia spogliarsi del bene.
L'effetto ablatorio, quindi, si verifica ope legis,
alla scadenza del termine fissato per ottemperare
all'ingiunzione di demolire (Cass. Sez. 3, n. 45705 del
26/10/2011, Perticaroli; Sez. 3, n. 22237 del 22/04/2010,
Gotti; Sez. 3, n. 39075 del 21/05/2009, Bifulco; Sez. 3, n.
1819 del 02/10/2008, dep. 19/01/2009, Ercoli).
Ordine di demolizione imposto con
sentenza - Istanza di condono o sanatoria successiva al
passaggio in giudicato della sentenza di condanna - Effetti
- Esecuzione sospensione o revoca - Verifiche obbligatorie
del Giudice dell'esecuzione.
L'ordine di demolizione imposto con sentenza passata in
giudicato può essere revocato in sede esecutiva allorquando
non sia più compatibile con situazioni di fatto o di diritto
sopravvenute, quali ad esempio atti amministrativi che
abbiano assegnato al bene una diversa destinazione, o
l'abbiano sanato.
Tale incompatibilità deve peraltro essere effettiva ed
attuale, non già futura e meramente eventuale, non essendo
consentito paralizzare in modo indefinito il ripristino
dell'assetto urbanistico violato; ne consegue che il Giudice
dell'esecuzione -investito della richiesta di revoca o di
sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive
di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 in conseguenza
della presentazione di una istanza di condono o sanatoria
successiva al passaggio in giudicato della sentenza di
condanna- è tenuto ad esaminare possibili esiti ed i tempi
di conclusione del procedimento amministrativo e, in
particolare:
a) il prevedibile risultato dell'istanza e la sussistenza di
eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata necessaria per la definizione della procedura,
che può determinare la sospensione dell'esecuzione solo nel
caso di un suo rapido esaurimento.
Manufatto abusivo - Ordine di
demolizione - Pena emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc.
pen. (cd. patteggiamento) - Natura di sanzione
amministrativa a carattere ripristinatorio.
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è
sottoposto alla disciplina della prescrizione di cui
all'art. 173 cod. pen. in tema di arresto ed ammenda, avendo
natura di sanzione amministrativa a carattere
ripristinatorio del bene-interesse violato, imposta per
ragioni di tutela del territorio e con carattere reale, come
tale priva di finalità punitive.
Con la conseguenza, peraltro, che i relativi effetti
ricadono sul soggetto che è in rapporto con il bene,
indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso, anche quando l'ordine medesimo sia emesso
dall'autorità giudiziaria (tra le altre, Sez. 3, n. 49331
del 10/11/2015, Delorier; Sez. 3, n. 36387 del 07 /07/2015,
Formisano; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio); e con
l'ulteriore conseguenza che tale ordine può essere emesso
anche nell'ipotesi dell'applicazione della pena ai sensi
dell'art. 444 cod. proc. pen. indipendentemente dall'accordo
delle parti ed eseguibile a prescindere dal decorso del
termine previsto dall'art. 445, comma secondo, cod. proc.
pen. (Cass. Sez. 3, n. 18533 del 23/3/2011, Abbate),
dovendosi escludere la sua natura di pena accessoria (Sez.
3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli; Sez. 6, n. 2880 del
10/06/2002 (dep. 2003), Gobbi).
Ordine di demolizione emesso dal Giudice
- Natura di provvedimento accessorio rispetto alla condanna
principale - Potere sanzionatorio autonomo rispetto a quelli
dell'autorità amministrativa - Non costituisce bis in idem -
Necessità di coordinamento in sede esecutiva.
L'ordine di demolizione emesso dal Giudice, è un
provvedimento accessorio rispetto alla condanna principale e
costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non
residuale o sostitutivo ma autonomo rispetto a quelli
dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al
Giudice penale.
Per cui l'ordine emesso dal Giudice non costituisce giammai
bis in idem rispetto a quello eventualmente disposto
dall'autorità amministrativa, operando i due su distinti
livelli e necessitando di un doveroso coordinamento,
all'evidenza, soltanto in sede esecutiva.
Ordine di demolizione dell'immobile
abusivo - Prescindendo del tutto dall'individuazione di
responsabilità soggettive - DIRITTO PROCESSUALE EUROPEO -
Differenza tra demolizione e confisca - Diritto europeo CEDU,
giurisprudenza EU e diritto italiano - Funzione e
collocamento dell'intervento del giudice penale - Effetti su
terzi estranei al reato.
La demolizione, a differenza della confisca, non può
considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7
della CEDU, perché essa tende alla riparazione effettiva di
un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per
impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni
stabilite dalla legge.
Sicché, l'ordine di demolizione dell'immobile abusivo
impartito dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9,
d.P.R. 380/2001, non ha affatto natura di sanzione penale
nel senso individuato dalla normativa CEDU, in quanto non ha
finalità punitive.
L'intervento del giudice penale si colloca a chiusura di una
complessa procedura amministrativa finalizzata al ripristino
delle originario assetto del territorio alterato
dall'intervento edilizio abusivo, nell'ambito del quale
viene considerato il solo oggetto del provvedimento
(l'immobile da abbattere), prescindendo del tutto
dall'individuazione di responsabilità soggettive, tanto che
la demolizione si effettua anche in caso di alienazione del
manufatto abusivo a terzi estranei al reato, i quali
potranno poi far valere in altra sede le proprie ragioni.
L'intervento del giudice penale, inoltre, non è neppure
scontato, dato che egli provvede ad impartire l'ordine di
demolizione se la stessa ancora non sia stata altrimenti
eseguita (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.12.2016 n. 51709 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione di opere in conglomerato cementizio
armato in zona sismica - Procedure e preventivi controlli -
Inefficacia deroghe adottate dalle Regioni - Pericolo per la
pubblica incolumità - Disciplina antisismica - Artt. 44, 83,
93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
Ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione
ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica,
comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato
cementizio armato, deve essere previamente denunciato al
competente ufficio al fine di consentire i preventivi
controlli; necessita, inoltre, del rilascio del preventivo
titolo abilitativo; il relativo progetto deve essere redatto
da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di
esecuzione dei lavori; questi ultimi devono essere parimenti
diretti da un professionista abilitato, conseguendone, in
difetto, la violazione del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art.
95 (Cass., Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano; Sez.
3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi; Sez. 3, n. 34604 del
17/06/2010, Todaro) e ciascuna violazione, risolvendosi
nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un
titolo autonomo di reato.
Pertanto, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 è configurabile in relazione a qualsiasi
opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione
antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica
incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via
amministrativa deroghe per particolari categorie di
interventi (Cass. Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano
relativa alla realizzazione di opere di sostegno di
cartellonistica pubblicitaria di rilevanti dimensioni,
illegittimamente qualificate da delibera della regione
Calabria come "opere minori" sottratte alle leggi
nazionali e regionali in materia di edilizia sismica).
Realizzazione di opere abusive -
Rilascio della autorizzazione in sanatoria - Violazioni
urbanistico-edilizie - Diritto al risarcimento dei danni -
Sopravvivenza all'estinzione del reato per intervenuta
sanatoria.
Le violazioni
urbanistico-edilizie determinano, pacificamente, l'insorgere
di un danno risarcibile a favore dell'ente comunale, perché
incidono negativamente sull'interesse dell'ente pubblico al
libero esercizio della propria posizione funzionale, così
come su quello alla realizzazione del programmato sviluppo
urbanistico.
Il diritto al relativo risarcimento non è, poi, escluso dal
rilascio della autorizzazione in sanatoria, in quanto tale
diritto discende dalla lesione dell'interesse giuridico
all'integrità ed inviolabilità della sfera funzionale del
Comune nonché all'ordinata realizzazione del programmato
assetto urbanistico del territorio, e tale lesione non viene
eliminata dal rilascio della autorizzazione in sanatoria,
essendosi irrimediabilmente verificata con la realizzazione
delle opere abusive, con la conseguenza che il diritto al
relativo risarcimento sopravvive alla estinzione del reato
per intervenuta sanatoria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.12.2016 n. 51683
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianto fotovoltaico in area agricola: il diniego del
Comune è sindacabile solo in caso di illogicità.
Tar Emilia-Romagna: il giudizio di
compatibilità dell'impianto, espresso dal Comune, è
sindacabile dal giudice amministrativo solo per profili che
attengano all'evidente illogicità.
La disciplina
introdotta dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003 al comma 1
prevede che “le opere per la realizzazione degli impianti
alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e
le infrastrutture indispensabili alla costruzione e
all'esercizio degli stessi impianti, autorizzate ai sensi
del comma 3, sono di pubblica utilità ed indifferibili ed
urgenti”.
Il comma 3 prevede che “la costruzione e l'esercizio
degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati
da fonti rinnovabili, gli interventi di modifica,
potenziamento, rifacimento totale o parziale e
riattivazione, come definiti dalla normativa vigente, nonché
le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla
costruzione e all'esercizio degli impianti stessi, sono
soggetti ad una autorizzazione unica, rilasciata dalla
regione o dalle province delegate dalla regione, nel
rispetto delle normative vigenti in materia di tutela
dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio
storico-artistico, che costituisce, ove occorra, variante
allo strumento urbanistico”.
Il 7° comma stabilisce che “Gli impianti di produzione di
energia elettrica, di cui all'articolo 2, comma 1, lettere
b) e c) […], possono essere ubicati anche in zone
classificate agricole dai vigenti piani urbanistici (…)”.
SENTENZA DEL TAR EMILIA ROMAGNA-PARMA.
Con la
sentenza 18.11.2016 n. 326, il Tar Emilia Romagna
(sezione staccata di Parma) richiama il consolidato
orientamento, dal quale il Collegio non ravvede ragioni per
discostarsi, secondo il quale la norma derogatoria dettata
dall'art. 12, settimo comma, del d.lgs. 29.12.2003, n. 387,
è stata sicuramente introdotta per consentire in via
eccezionale la costruzione in zona agricola di impianti,
quali quello di produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili che, per loro natura, sarebbero incompatibili
con la predetta destinazione (cfr. Cons. St., Sez. V,
26.09.2013, n. 4755).
Essa, tuttavia, prevede, altresì, che si tenga conto delle
disposizioni in materia di sostegno nel settore agricolo,
con particolare riferimento alla valorizzazione delle
tradizioni agroalimentari locali, alla tutela della
biodiversità, così come del patrimonio culturale e del
paesaggio rurale (cfr. Tar Lazio II-quater 12754/2014).
Anche la Corte Costituzionale (sentenza 166/2014), nel
ricordare che lo sviluppo della rete energetica resta
l'interesse prioritario, evidenzia la necessità di trovare “un
contemperamento nella possibilità di sottrarre limitate
porzioni di territorio agricolo all'insediamento
dell'impianto, ove esse meritino cure particolari, connesse
alle tradizioni agroalimentari locali, alla biodiversità, al
patrimonio culturale e al paesaggio rurale”.
Ne consegue che, ai sensi dell'art. 12, c. 7, d.lgs. n.
387/2003, i Comuni possono esprimere, nell'esercizio della
propria discrezionalità in materia di governo del
territorio, quel giudizio di compatibilità dell'impianto
nelle aree suindicate, sindacabile dal giudice
amministrativo solo per profili che attengano all'evidente
illogicità.
Nell’ambito di tali principi si deve pertanto escludere che,
nello specifico caso in esame, il diniego di DIA da parte
del comune di Parma per la realizzazione di un campo
fotovoltaico da 999 kW in area agricola sottoposta alle
tutele del PSC, per le quali è richiesta autorizzazione
paesaggistica, si configuri come manifestamente illogica,
anche in considerazione della consistenza dell’impianto
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento, previa sospensione
dell'efficacia, - del provvedimento del Comune di Parma,
Settore Controlli, prot. gen. n. 132086 del 23.07.2010, con
cui si ordina alla società ricorrente di non effettuare
l'intervento previsto nel titolo abilitativo relativo a posa
di impianto fotovoltaico “in quanto inammissibile” e
che “contestualmente, archivia la d.i.a. n. 1855/2010 per
le motivazioni esposte in premessa”;
...
Con ricorso, spedito per la notifica il 09.11.2010 e
depositato il successivo 24 novembre, la società Biobuilding
Engineering srl (d’ora in poi Biobuilding) impugna il
provvedimento del Comune con il quale viene impedito
l’intervento di cui alla DIA (centrale fotovoltaica da
999KW), presentata il 05/07/2010, in quanto inammissibile,
nonché le disposizioni di cui agli strumenti urbanistici
nella parte in cui precludono la realizzazione di impianti
da fonte rinnovabile su terreni agricoli.
...
Il ricorso è infondato e ciò esime il Collegio dallo
scrutinio della eccezione in rito proposta dal Comune.
Oggetto dell’odierno gravame è il diniego di DIA,
tempestivamente adottato dal Comune di Parma il 23.07.2010,
su denuncia presentata il 05.07.2010 per la realizzazione di
Campo Fotovoltaico da 999,6 KW con Cabina prefabbricata di
trasformazione, nonché le previsioni di cui alle NTA del
Comune di Parma nelle parti in cui individuano le zone
idonee per l’installazione di impianti di produzione di
energia da fonte rinnovabile ammettendo su tutto il
territorio comunale solo impianti di potenza fino a 50 KWp.
La vicenda per cui è causa ha avuto il seguente svolgimento:
- in data 05.07.2010 la società ricorrente ha presentato DIA
per la realizzazione di un campo fotovoltaico da 999,6 KW in
area agricola sottoposta alle tutele di PSC (da reperire
nelle tavole CTG1 e CTHG2) in base a quanto si legge a p. 11
della DIA;
- nel termine di trenta giorni dalla presentazione di detta
denuncia, il 23.07.2010, il Comune ha ordinato di non
effettuare l’intervento, in quanto inammissibile, ed ha
contestualmente archiviato la d.i.a. in quanto l’area
interessata non risulta classificata come “Attrezzature
tecnologiche per la produzione di energia da fonte
rinnovabile”;
- il 13.10.2010 la ricorrente ripresenta alla Provincia
nuova istanza di autorizzazione unica per la realizzazione
dell’impianto, dopo una prima rinuncia alla precedente
istanza (v. allegazioni della Provincia convenuta in
giudizio);
- il 18.10.2010 la Provincia chiede integrazioni alla
società che, in data gennaio 2011, la ricorrente non aveva
ancora presentato;
- nel dicembre 2010 la Regione emana le Linee Guida.
Questi alcuni dei fatti salienti.
Tanto premesso, con un unico articolato motivo, la
ricorrente deduce l’erroneità del presupposto posto a base
del diniego (qualificazione dell’intervento come volumi
tecnici e non come opere di pubblica utilità), nonché la
violazione della normativa di cui all’art. 12 del d.lgs.
387/2003, al D.M. 10.09.2010 (Linee Guida per
l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti
rinnovabili) Allegato 1, paragrafo 1 e 12, Allegato 3,
paragrafo 17 ed all’art. 28 della legge regionale Emilia
Romagna n. 20 del 24/3/2000, assumendo l’illegittimità delle
previsioni di NTA ove limitano la realizzazione degli
impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile,
confinando a determinate aree la loro realizzazione e
ponendo un tetto di potenza su tutto il territorio comunale.
Il motivo è infondato.
Viene innanzitutto in evidenza la disciplina introdotta
dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003 ove al comma 1, prevede
che:
“le opere per la realizzazione degli impianti
alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e
le infrastrutture indispensabili alla costruzione e
all'esercizio degli stessi impianti, autorizzate ai sensi
del comma 3, sono di pubblica utilità ed indifferibili ed
urgenti”;
al comma 3, che:
“la costruzione e l'esercizio degli
impianti di produzione di energia elettrica alimentati da
fonti rinnovabili, gli interventi di modifica,
potenziamento, rifacimento totale o parziale e
riattivazione, come definiti dalla normativa vigente, nonché
le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla
costruzione e all'esercizio degli impianti stessi, sono
soggetti ad una autorizzazione unica, rilasciata dalla
regione o dalle province delegate dalla regione, nel
rispetto delle normative vigenti in materia di tutela
dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio
storico-artistico, che costituisce, ove occorra, variante
allo strumento urbanistico”;
al 7° comma, che:
“Gli impianti di produzione di energia
elettrica, di cui all'articolo 2, comma 1, lettere b) e c)
[…], possono essere ubicati anche in zone classificate
agricole dai vigenti piani urbanistici (…)”.
Secondo un consolidato orientamento, dal quale il Collegio
non ravvede ragioni per discostarsi, la
norma derogatoria dettata dall'art. 12, settimo comma, del
d.lgs. 29.12.2003, n. 387, è stata sicuramente introdotta
per consentire in via eccezionale la costruzione in zona
agricola di impianti, quali quello di produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili che, per loro natura,
sarebbero incompatibili con la predetta destinazione
(cfr. Cons. St., Sez. V, 26.09.2013, n. 4755).
Essa, tuttavia, prevede, altresì, che si
tenga conto delle disposizioni in materia di sostegno nel
settore agricolo, con particolare riferimento alla
valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, alla
tutela della biodiversità, così come del patrimonio
culturale e del paesaggio rurale
(cfr. Tar Lazio II-quater 12754/2014).
Il quadro normativo inerente la materia dell’energia si
rinviene nel combinato disposto del d.lgs. n. 387 del 2003,
di recepimento della Direttiva 2001/77/CE relativa alla
promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti
energetiche rinnovabili nel mercato interno
dell'elettricità, come modificato, da ultimo, dal d.lgs. n.
28 del 2011, di attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla
promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, e
dalla legge n. 239 del 2004 di “riordino” del settore
energetico.
In detto contesto la direttiva comunitaria 2001/77/CE, nel
determinare gli obiettivi indicativi nazionali di energia
elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili per
ciascuno Stato membro, impone ad ognuno di essi di
verificare l’assetto regolativo vigente per conformarlo al
fine di «ridurre gli ostacoli normativi e di altro tipo
all’aumento della produzione di elettricità da fonti
energetiche rinnovabili», «razionalizzare e
accelerare le procedure all’opportuno livello amministrativo»
e «garantire che le norme siano oggettive, trasparenti e
non discriminatorie e tengano pienamente conto delle
particolarità delle varie tecnologie per le fonti
energetiche rinnovabili» (articolo 6).
Pertanto, in esecuzione della fonte comunitaria, con
l’articolo 4 del d.lgs, n. 387 del 2003, l’Italia si è
prefissata lo scopo di incrementare la quota minima di
elettricità prodotta da fonte rinnovabile da immettere nel
sistema elettrico nazionale dello 0,35% annuo, per il
periodo 2004/06 e dello 0,75% annuo, per il periodo 2007/12;
ma tanto «nel rispetto delle tutele di cui all’articolo 9
della Costituzione».
Anche la Corte Costituzionale (sent.
166/2014), nel ricordare che lo sviluppo della rete
energetica resta l'interesse prioritario, evidenzia la
necessità di trovare “un contemperamento nella
possibilità di sottrarre limitate porzioni di territorio
agricolo all'insediamento dell'impianto, ove esse meritino
cure particolari, connesse alle tradizioni agroalimentari
locali, alla biodiversità, al patrimonio culturale e al
paesaggio rurale”.
La rilevanza costituzionale del paesaggio
se giustifica un sacrificio parziale di tale valore, in
un'ottica di contemperamento con altri interessi di pari
rilevanza, quali l'ambiente e la tutela della salute, in
ogni caso impone di ricercare un limite di compatibilità che
impedisca di annullare i valori identitari e culturali per
rendere il territorio compatibile con altre forme di
utilizzo necessarie alla salvaguardia di interessi di pari
rango, per evitare che i richiamati caratteri identitari,
spirituali e culturali, già in precedenza compromessi
dall'intervento dell'uomo, possano venire definitivamente
cancellati (cfr.
Tar Lazio II-quater n. 12754/2015).
Ne consegue che, ai sensi dell'art. 12,
c.7, d.lgs. n.387/2003, i Comuni possono esprimere,
nell'esercizio della propria discrezionalità in materia di
governo del territorio, quel giudizio di compatibilità
dell'impianto nelle aree suindicate, sindacabile dal giudice
amministrativo solo per profili che attengano all'evidente
illogicità (giur.za
pacifica; cfr., ex plurimis, Tar Lazio II-quater n.
12754/2015, Tar Toscana, Sez. III, 10.03.2015, n. 380; TAR
Puglia Lecce Sez. I, 24.06.2014, n. 1570; TAR Umbria Sez. I,
23.05.2013, n. 303).
Nell’ambito di tali principi deve escludersi che il diniego
di DIA, da parte del comune di Parma, per la realizzazione
di un campo fotovoltaico da 999kw in area agricola
sottoposta alle tutele del PSC, per le quali è richiesta
autorizzazione paesaggistica, si configuri come
manifestamente illogica, anche in considerazione della
consistenza dell’impianto.
Né assume rilevanza l’avere descritto nel provvedimento
impugnato la presenza di volumi tecnici, la cui sussistenza
non è contestabile, alla luce della documentazione allegata
alla DIA presentata (v. manufatto in cemento prefabbricato
per la cabina di trasformazione).
Del pari infondata è la censura con la quale si assume che
gli strumenti urbanistici comunali vieterebbero su tutto il
territorio impianti di potenza superiore a 50 kw, non
ritrovandosi tale estensione del limite nel testo del punto
3 dell’Allegato C, ove sono individuate tipologie di zone
idonee per le quali non si menziona detto limite.
La censura è peraltro inammissibile per carenza di
interesse, in quanto l’area agricola di cui si tratta è
anche area sottoposta alle tutele di PSC e di POC, profilo
sul quale non vi sono censure.
Va, infine, rilevato che nelle more della fissazione del
merito la Regione Emilia Romagna ha approvato, con delibera
n. 28 del 06.12.2010, le Linee Guida regionali in attuazione
di quelle Statali, che, secondo le incontestate deduzioni
del Comune di Parma, introducono limiti ancor più stringenti
alla realizzazione di impianti in area agricola, confermando
quelli qui opposti dal Comune con la gravata DIA.
Atteso che l’art. 12, al comma 3, prevede che “la
costruzione e l'esercizio degli impianti di produzione di
energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, gli
interventi di modifica, potenziamento, rifacimento totale o
parziale e riattivazione, come definiti dalla normativa
vigente, nonché le opere connesse e le infrastrutture
indispensabili alla costruzione e all'esercizio degli
impianti stessi, sono soggetti ad una autorizzazione unica,
rilasciata dalla regione o dalle province delegate dalla
regione, nel rispetto delle normative vigenti in materia di
tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del
patrimonio storico-artistico, che costituisce, ove occorra,
variante allo strumento urbanistico”, e che “l'autorizzazione
di cui al comma 3 è rilasciata a seguito di un procedimento
unico, al quale partecipano tutte le Amministrazioni
interessate, svolto nel rispetto dei princìpi di
semplificazione e con le modalità stabilite dalla legge
07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni e
integrazioni (comma 4)”, deve ritenersi accertato che la
lamentata impossibilità di realizzare l’impianto sia da
imputare al mancato rilascio dell’autorizzazione unica.
La circostanza dedotta da parte ricorrente, ma non provata,
che l’arresto procedimentale nel rilascio
dell’Autorizzazione Unica sia imputabile al diniego di DIA,
è esclusa dalla mancata allegazione di un provvedimento,
anche interlocutorio, in tal senso, della Provincia, ai
sensi dell’art. 3 della legge regionale Emilia-Romagna n.
26/2004, e dalla eventuale mancata impugnazione del silenzio
o, se esistente, del diniego.
Per quanto osservato il gravame va respinto, come anche la
domanda risarcitoria, attesa l’insussistenza del presupposto
della illegittimità degli atti da cui si ritiene di far
discendere l’asserito danno
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 18.11.2016 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Nell’ipotesi
di dissenso espresso dalle amministrazioni titolari dei cd.
interessi sensibili nella conferenza di servizi -nel caso
specifico, era stato espresso un rituale dissenso dall’Ente
Parco del Pollino, ente preposto alla tutela ambientale– il
rimedio previsto per il suo superamento e la composizione
degli interessi in gioco è quello della devoluzione della
decisione al livello amministrativo di vertice, costituto
dal Consiglio dei Ministri, mediante l’attivazione di un
tratto procedimentale connotato dalla funzione “sostitutiva” dell’amministrazione
statale ex art. 120 Cost. (cui rinvia lo stesso articolo 14-quater, co. 3, L. 241/1990) e dalle garanzie procedimentali
ispirate al principio della leale collaborazione tra livelli
di governo diversi.
La manifestazione del dissenso qualificato e l’avvio del
meccanismo preposto al superamento dell’impasse comportano,
pertanto, uno spostamento legalmente previsto della
competenza decisionale, assegnando la correlativa
responsabilità decisionale (e procedimentale) al Consiglio
dei Ministri, cui è attribuito il potere di valutare gli
interessi in gioco nell’esercizio della più ampia
discrezionalità che connotano gli atti di alta
amministrazione (qualificazione espressamente riconosciuta,
nell’art. 14-quater della L. 241/1990 nel testo modificato
dall’art. 25 n. 164 del 2014, alla deliberazione conclusiva,
seppure non più riprodotta nel testo oggi vigente come
novellato dal D.lgs. 30.06.2016 n. 127).
Tanto che, a contrario, all’esito del dissenso cd.
qualificato espresso nella conferenza dei servizi,
l’autorizzazione unica, comunque adottata da parte
dell’amministrazione originariamente procedente, è da
ritenersi illegittima per incompetenza.
---------------
La conferenza di servizi non è un organo autonomo ma un
modulo organizzativo che, nel rispetto delle competenze
attribuite a ciascuna delle amministrazioni coinvolte in una
medesima vicenda procedimentale, si pone quale strumento di
concentrazione in un unico contesto logico e temporale delle
diverse valutazioni imputabili ad una pluralità di
amministrazioni.
---------------
8.1 Come rilevato d’ufficio ai sensi dell’art. 73, co. 3, c.p.a,
il ricorso è inammissibile per difetto di integrità del
contraddittorio ex art. 41, co. 1, c.p.a.
Come già osservato in una analoga vicenda procedimentale
(Tar Lazio sez. II-quater, 09.02.2015 n. 2338),
nell’ipotesi di dissenso espresso dalle amministrazioni
titolari dei cd. interessi sensibili nella conferenza di
servizi -nel caso specifico, era stato espresso un rituale
dissenso dall’Ente Parco del Pollino, ente preposto alla
tutela ambientale– il rimedio previsto per il suo
superamento e la composizione degli interessi in gioco è
quello della devoluzione della decisione al livello
amministrativo di vertice, costituto dal Consiglio dei
Ministri, mediante l’attivazione di un tratto procedimentale
connotato dalla funzione “sostitutiva” dell’amministrazione
statale ex art. 120 Cost. (cui rinvia lo stesso articolo 14-quater, co. 3, L. 241/1990) e dalle garanzie procedimentali
ispirate al principio della leale collaborazione tra livelli
di governo diversi (garanzie affinate dal legislatore
all’esito della sentenza della Corte Costituzionale n.
179/2012).
La manifestazione del dissenso qualificato e l’avvio del
meccanismo preposto al superamento dell’impasse comportano,
pertanto, uno spostamento legalmente previsto della
competenza decisionale, assegnando la correlativa
responsabilità decisionale (e procedimentale) al Consiglio
dei Ministri, cui è attribuito il potere di valutare gli
interessi in gioco nell’esercizio della più ampia
discrezionalità che connotano gli atti di alta
amministrazione (qualificazione espressamente riconosciuta,
nell’art. 14-quater della L. 241/1990 nel testo modificato
dall’art. 25 n. 164 del 2014, alla deliberazione conclusiva,
seppure non più riprodotta nel testo oggi vigente come
novellato dal D.lgs. 30.06.2016 n. 127).
Tanto che, a
contrario, all’esito del dissenso cd. qualificato espresso
nella conferenza dei servizi, l’autorizzazione unica,
comunque adottata da parte dell’amministrazione
originariamente procedente, è da ritenersi illegittima per
incompetenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 21.08.2015,
n. 3971).
8.2 Applicando i principi sopra esposti al caso di specie,
deve dedursi la inammissibilità del ricorso, non notificato,
entro il termine di decadenza, alla Presidenza del Consiglio
dei Ministri cui, in forza del meccanismo di rimessione
previsto dall’art. 14-ter L. 241/1990, è imputabile la
decisione di autorizzare ex art. 12 D.lgs. 387/2003 la
riattivazione della Sezione 2 della Cemtrale del Mercure,
mediante l’adozione della deliberazione dell’11.06.2015
di cui si è dato conto nella parte in fatto (punto 3).
Il Collegio, anche in considerazione della discussione
svoltasi nel corso dell’udienza pubblica del 12.10.2016, ritiene peraltro opportuno aggiungere che, seppure non
si riconoscesse natura sostitutiva straordinaria al
Consiglio dei Ministri, secondo quanto sopra indicato, e si
qualificasse come concorrente con tale potere decisionale
quello delle amministrazioni originariamente coinvolte nella
conferenza dei servizi, la notificazione del ricorso avrebbe
dovuto essere fatta comunque a tutte le Pubbliche
amministrazioni che hanno compiuto atti aventi efficacia
lesiva esterna, contribuendo alla determinazione finale con
cui è stata accolta la richiesta di autorizzazione formulata
da Enel Produzione S.p.A e non solo, tra esse, alla Regione
Calabria, quale amministrazione procedente.
E’ infatti consolidato il principio secondo cui la
conferenza di servizi non è un organo autonomo, ma un modulo
organizzativo che, nel rispetto delle competenze attribuite
a ciascuna delle amministrazioni coinvolte in una medesima
vicenda procedimentale, si pone quale strumento di
concentrazione in un unico contesto logico e temporale delle
diverse valutazioni imputabili ad una pluralità di
amministrazioni (cfr. ex multis Cons. sez. IV, 14.07.2014
n. 3646; Cons., Sez. VI, 03.03.2010 n. 1248).
Nel caso di specie, non vi è alcun dubbio che la
determinazione conclusiva sia stata assunta dal Consiglio
dei Ministri, acquisendo le diverse posizioni favorevoli
imputabili alle altre amministrazioni coinvolte nel
procedimento, e singolarmente citate nella parte motiva
della deliberazione (tra cui la Regione Basilicata e il
Comune di Laino Borgo, la Provincia di Cosenza, l’Arpa
Calabria, l’ANAS spa, la Comunità Montana del Pollino) le
quali avendo adottato atti di assenso lesivi della sfera
giuridica di parte ricorrente avrebbero dovuto comunque
essere parti processuali di questo giudizio. Anche sotto
questo profilo, il ricorso sarebbe pertanto inammissibile.
8.3 Il difetto di integrità del contraddittorio rileva
peraltro anche sotto un altro profilo.
Come eccepito da Enel s.p.a., costituitasi in giudizio, il
ricorso è stato tempestivamente notificato non all’effettivo
controinteressato, ovvero al soggetto beneficiario
dell’autorizzazione, da individuarsi nella società Enel
Produzione s.p.a. (con sede legale in Roma Viale Regina
Margherita 125, come espressamente previsto
nell’Autorizzazione Unica), ma ad Enel s.p.a. (che ha la sua
sede legale in Roma viale Regina Margherita 137), persona
giuridica diversa da quella cui il ricorso avrebbe dovuto
pertanto notificarsi entro il termine di decadenza (cfr. TAR
Lazio, sez. II-quater, 07.07.2015 n. 9044); né la rinotifica effettuata da parte ricorrente in data 24.05.2016 vale a sanare la inammissibilità del ricorso, essendo a
quella data ampiamente spirato il termine di decadenza
(l’autorizzazione unica è stata pubblicata sul BUR Calabria
n. 90 del 22.12.2015).
9. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 17.11.2016 n. 2224 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Per un verso, ila pubblicazione della delibera di
aggiudicazione mediante affissione all'albo pretorio ovvero sul sito web della stazione
appaltante non è idonea a determinare la decorrenza del
termine d'impugnazione.
Per altro verso, «ai fini dell'impugnazione degli atti di
gara, la presenza di un delegato di un'impresa concorrente
alle operazioni di gara di apertura delle offerte tecniche e
di quelle economiche, nonché di aggiudicazione provvisoria,
non determina per la suddetta impresa il dies a quo per la
proposizione del ricorso, atteso che solo l'aggiudicazione
definitiva produce, nei confronti dei partecipanti alla gara
diversi dall'aggiudicatario, un effetto lesivo (consistente
nella privazione definitiva, salvo interventi in autotutela
della stazione appaltante od altre vicende comunque non
prevedibili né controllabili, del "bene della vita"
rappresentato dall'aggiudicazione della gara); sì che solo
dalla piena conoscenza della aggiudicazione definitiva (in
quanto unico atto conclusivo della procedura selettiva, in
relazione al quale sorge un onere di tempestiva impugnazione
da parte dei concorrenti non aggiudicatari) e di tutti gli
elementi di cui al comma 2, lett. c), dell'art. 79, d.lgs.
n. 163/2006 decorrono i termini per l'impugnazione di quegli
atti che hanno portato alla aggiudicazione provvisoria
(avente in ogni caso natura di mero atto endoprocedimentale,
la cui autonoma impugnazione costituisce una mera facoltà)».
---------------
1. L’impugnativa spiegata col ricorso introduttivo è tempestiva.
Per un verso, infatti, la pubblicazione della delibera di
aggiudicazione mediante affissione all'albo pretorio (cfr.
C.d.S., 18.10.2013, n. 5070) ovvero sul sito web (v.
Tar Sardegna, 12.05.2011, n. 478) della stazione
appaltante non è idonea a determinare la decorrenza del
termine d'impugnazione.
Per altro verso, «ai fini dell'impugnazione degli atti di
gara, la presenza di un delegato di un'impresa concorrente
alle operazioni di gara di apertura delle offerte tecniche e
di quelle economiche, nonché di aggiudicazione provvisoria,
non determina per la suddetta impresa il dies a quo per la
proposizione del ricorso, atteso che solo l'aggiudicazione
definitiva produce, nei confronti dei partecipanti alla gara
diversi dall'aggiudicatario, un effetto lesivo (consistente
nella privazione definitiva, salvo interventi in autotutela
della stazione appaltante od altre vicende comunque non
prevedibili né controllabili, del "bene della vita"
rappresentato dall'aggiudicazione della gara); sì che solo
dalla piena conoscenza della aggiudicazione definitiva (in
quanto unico atto conclusivo della procedura selettiva, in
relazione al quale sorge un onere di tempestiva impugnazione
da parte dei concorrenti non aggiudicatari) e di tutti gli
elementi di cui al comma 2, lett. c), dell'art. 79, d.lgs.
n. 163/2006 decorrono i termini per l'impugnazione di quegli
atti che hanno portato alla aggiudicazione provvisoria
(avente in ogni caso natura di mero atto endoprocedimentale,
la cui autonoma impugnazione costituisce una mera facoltà)»
(cfr. C.d.S. 2015, n. 25).
Segnatamente, nel caso di specie, l’odierna ricorrente –la
quale ha dedotto, incontestata, che il provvedimento di
aggiudicazione definitiva le è stato comunicato l’08.04.2016– ha spedito il ricorso per la notifica lunedì
09.05.2016 e, quindi, l’ultimo giorno utile tenuto conto, per gli
effetti dell’art. 52, comma 3, c.p.a., che l’08.05.2016 era
domenica
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza
09.11.2016 n. 11092 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Se
è vero che l'ordinamento in generale, e la regola della
specifica gara, non vietano la cosiddetta ATI
sovrabbondante, vale a dire il raggruppamento di più
soggetti individualmente già in possesso dei requisiti per
partecipare alla selezione (…), è anche vero che l'uso di
strumenti consentiti in via generale non è di per sé neutro,
ben potendo esserne apprezzato il concreto esito, anche e
soprattutto alla luce del principio della tutela della
concorrenza.
Pertanto «ai fini della
verifica di una condotta anticoncorrenziale, è necessario,
da un lato, che venga in rilievo non una isolata condotta,
ma la portata anticoncorrenziale di una serie di atti
rivelatori, anche, in tesi, in sé legittimi dei quali si
faccia tuttavia un uso strumentale, non coerente con il fine
per il quale sono attribuiti i relativi poteri e che si deve
concretizzare nella restrizione della concorrenza per la
partecipazione alla gara. Inoltre, è necessario che di tali
comportamenti si faccia una disamina puntuale e concreta che
sia in grado di connotare con tratto di concretezza e di
incisività la condotta anticoncorrenziale del raggruppamento
nel caso di specie».
--------------
2.3. Quanto alla lamentata sovrabbondanza del raggruppamento
(quarto motivo di ricorso), questa Sezione ha già avuto modo
di rilevare (sent. 26.04.2016, n. 4741), che, «se è vero
che l'ordinamento in generale, e la regola della specifica
gara, non vietano la cosiddetta ATI sovrabbondante, vale a
dire il raggruppamento di più soggetti individualmente già
in possesso dei requisiti per partecipare alla selezione
(…), è anche vero che l'uso di strumenti consentiti in via
generale non è di per sé neutro, ben potendo esserne
apprezzato il concreto esito, anche e soprattutto alla luce
del principio della tutela della concorrenza (così Cd.S.
sent. 04.11.2014, n. 5423)».
Pertanto «ai fini della
verifica di una condotta anticoncorrenziale, è necessario,
da un lato, che venga in rilievo non una isolata condotta,
ma la portata anticoncorrenziale di una serie di atti
rivelatori, anche, in tesi, in sé legittimi dei quali si
faccia tuttavia un uso strumentale, non coerente con il fine
per il quale sono attribuiti i relativi poteri e che si deve
concretizzare nella restrizione della concorrenza per la
partecipazione alla gara. Inoltre, è necessario che di tali
comportamenti si faccia una disamina puntuale e concreta che
sia in grado di connotare con tratto di concretezza e di
incisività la condotta anticoncorrenziale del raggruppamento
nel caso di specie».
Tanto premesso, la ricorrente ha desunto la violazione
dell’art. 8 del disciplinare di gara («sono altresì esclusi
dalla gara i concorrenti coinvolti in situazioni oggettive
lesive della par condicio tra i concorrenti»), quantomeno
sotto il profilo della mancata attivazione della Commissione
per verificare l’allegato vulnus, dal fatto che le società
consorziate siano i gestori uscenti del servizio e,
pertanto, avrebbero scelto la forma associata per
salvaguardare i rispettivi livelli di fatturato, dal mancato
impiego delle economie di scala commisurate al r.t.i. e
dalla posizione di assoluta dominanza dalle stesse rivestita
nel mercato del lavanolo, che sarebbe da queste controllato
nella misura del 40%.
Il complesso di tali elementi ad avviso del Collegio non
vale tuttavia ad integrare un reticolo comportamentale
convergente verso una manifesta finalità anticoncorrenziale,
considerata anche l’assenza di anomalie rivelatrici nel dato
economico dell’offerta ovvero nell’assetto organizzativo del
r.t.i., risultando inoltre alcune delle affermazioni della
ricorrente (in ordine alla finalità unica di salvaguardare i
livelli di fatturato e al mancato impiego di adeguate
economie di scala) ipotetiche ovvero generiche.
Il motivo non può dunque essere accolto
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza
09.11.2016 n. 11092 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le problematiche relative alla motivazione della
anomalia della offerta si pongono in termini notevolmente
diversi a seconda del grado e del tipo di anomalia che abbia
dato luogo alla verifica dell'offerta.
In particolare, «qualora si proceda (…) alla verifica a
norma dell'art. 86, co. 3, del codice dei contratti, recante
l'ipotesi in cui l'offerta migliore ha riportato un
punteggio non inferiore ai quattro quinti del massimo tanto
per l'aspetto tecnico quanto per l'aspetto economico, non
occorre una motivazione particolarmente approfondita, non
potendosi neppure parlare di offerta sospetta di anomalia,
bensì solo di verifica effettuata per scelta discrezionale
dell'Amministrazione; e, com'è noto e come già accennato, il
procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta si
connota per poteri, che, poiché inerenti la verifica
dell'anomalia delle offerte, attengono alla sfera propria di
discrezionalità tecnica della stazione appaltante, sicché il
giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute
dalla p.a. sotto il profilo della loro logicità e
ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non
può operare autonomamente siffatta verifica, pena
l'invasione di quella sfera tipica».
--------------
2.4. Non è accoglibile neppure il
quinto motivo di ricorso
tenuto conto, in linea generale, che «le problematiche
relative alla motivazione della anomalia della offerta si
pongono in termini notevolmente diversi a seconda del grado
e del tipo di anomalia che abbia dato luogo alla verifica
dell'offerta» e che, in particolare, «qualora si proceda (…)
alla verifica a norma dell'art. 86, co. 3, del codice dei
contratti, recante l'ipotesi in cui l'offerta migliore ha
riportato un punteggio non inferiore ai quattro quinti del
massimo tanto per l'aspetto tecnico quanto per l'aspetto
economico, non occorre una motivazione particolarmente
approfondita, non potendosi neppure parlare di offerta
sospetta di anomalia, bensì solo di verifica effettuata per
scelta discrezionale dell'Amministrazione; e, com'è noto e
come già accennato, il procedimento di verifica
dell'anomalia dell'offerta si connota per poteri, che,
poiché inerenti la verifica dell'anomalia delle offerte,
attengono alla sfera propria di discrezionalità tecnica
della stazione appaltante, sicché il giudice amministrativo
può sindacare le valutazioni compiute dalla p.a. sotto il
profilo della loro logicità e ragionevolezza e della
congruità dell'istruttoria, ma non può operare autonomamente
siffatta verifica, pena l'invasione di quella sfera tipica»
(così, ex multis, C.d.S. 09.07.2014, n. 3492).
Ciò posto, nella specie, come considerato dall’Azienda
resistente, risulta dal provvedimento di aggiudicazione
definitiva (n. 269 del 09.03.2016) che «sono state
esperite con esito positivo le verifiche sul possesso dei
requisiti di ordine generale e della capacità
economico-finanziaria e tecnico-professionale, rese in sede
di gara dalle ditte aggiudicatarie»
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza
09.11.2016 n. 11092 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La sottoscrizione dell'offerta, prescritta ai
sensi dell'art. 74 d.lgs. n. 163 del 2006, si configura come
lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la
dichiarazione contenuta nel documento, serve a renderne nota
la paternità ed a vincolare l'autore alla manifestazione di
volontà in esso contenuta.
Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà,
affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce
elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il
profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo
ad essa riconnettere gli effetti dell'offerta come
dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un
rapporto giuridico.
La sua mancanza inficia, pertanto, la validità e la
ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta
nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini
dell'esclusione, una espressa previsione della legge di
gara.
Non può ritenersi equivalente alla sottoscrizione
dell'offerta l'apposizione della controfirma sui lembi
sigillati della busta che la contiene.
--------------
Inoltre, l’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006,
relativo all'incertezza sul contenuto o sulla provenienza
dell'offerta, va letto nel senso che può essere sanzionata
con l'esclusione dalla gara l'offerta che presenti un
margine di incertezza significativo, sia per il contenuto
intrinseco della stessa, sia in relazione all'oggetto
dell'appalto: analogamente, sono da ritenere essenziali
quegli elementi dell'offerta atti ad incidere in maniera
significativa sul contenuto della stessa, tanto che la loro
mancanza renda l'offerta non soddisfacente rispetto alle
richieste della stazione appaltante.
Pertanto, va escluso il concorrente il quale abbia omesso la
sottoscrizione dell'offerta tecnica –la quale non è
negozialmente imputabile ad alcuno– mentre la mancata
esplicita previsione di tale carenza tra le cause di
esclusione è irrilevante "trattandosi di mancanza di un
elemento essenziale dell'offerta che anche nell'attuale
assetto normativo disegnato dall'attuale art. 46, comma
1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il
principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva
quale causa di estromissione del concorrente dalla gara
d'appalto".
--------------
In conclusione, la mancata sottoscrizione dell'offerta
tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la
domanda di partecipazione alla gara, non può essere
considerata, in via di principio, un'irregolarità solo
formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa
fa venire meno la certezza della provenienza e della piena
assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della
dichiarazione nel suo complesso posto che la sottoscrizione
di un documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa
propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso,
consentendo così non solo di risalire alla paternità
dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i
terzi destinatari della manifestazione di volontà (ibidem).
--------------
3. Prima di eventualmente esaminare le censure articolate in
via subordinata col ricorso introduttivo con finalità
demolitoria dell’intera gara, occorre prendere in
considerazione quelle articolate coi motivi aggiunti e
volte, invece, ad ottenere in via principale la mera
esclusione del controinteressato r.t.i. dalla gara.
3.1. Segnatamente col primo dei motivi aggiunti (spediti per
la notifica il 25.07.2016) la ricorrente, che ha versato
in giudizio i relativi atti acquisiti a seguito di accesso
documentale del 28.06.2016, censura la mancata
sottoscrizione dell’offerta tecnica e, in particolare, degli
allegati ai capitoli 2, 3, 4 e 6 contenenti l’elencazione
degli articoli offerti con la descrizione, mediante schede
tecniche, delle caratteristiche di questi e il processo di
sterilizzazione impiegato da controparte.
Si sono difese l’amministrazione e la parte
controinteressata, deducendo che la sottoscrizione, da
apporre peraltro sull’ultima pagina, era prevista dal bando
soltanto per l’offerta economica e non anche per quella
tecnica e che tale carenza rivestirebbe comunque carattere
inessenziale e sarebbe sanabile mediante il soccorso
istruttorio.
La censura è fondata.
Osserva in proposito il Collegio che, nel caso di specie, a
fronte della produzione documentale della ricorrente, non
v’è stata contestazione in ordine alla mancata
sottoscrizione dei documenti in questione i quali, alla
stregua di quanto disposto dall’art. 35 del capitolato
speciale (pagg. 55 ss.), integrano nei suoi elementi
essenziali l’offerta tecnica, costituita da una relazione
tecnica da inserire nella “busta n. 2” che, tra le altre
cose, deve evidenziare «tipologia e caratteristiche degli
articoli proposti».
Ha in proposito chiarito la giurisprudenza che «la
sottoscrizione dell'offerta, prescritta ai sensi dell'art.
74 d.lgs. n. 163 del 2006, si configura come lo strumento
mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione
contenuta nel documento, serve a renderne nota la paternità
ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in
esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare
provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità
dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua
ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello
sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti
dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla
costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza
inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della
manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che
sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa
previsione della legge di gara (Cons. St. Sez. V, 07.11.2008,
n. 5547). Non può ritenersi equivalente alla sottoscrizione
dell'offerta l'apposizione della controfirma sui lembi
sigillati della busta che la contiene» (così C.d.S. 25.01.2011, n. 528).
Inoltre, l’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006,
relativo all'incertezza sul contenuto o sulla provenienza
dell'offerta, va letto nel senso che può essere sanzionata
con l'esclusione dalla gara l'offerta che presenti un
margine di incertezza significativo, sia per il contenuto
intrinseco della stessa, sia in relazione all'oggetto
dell'appalto: analogamente, sono da ritenere essenziali
quegli elementi dell'offerta atti ad incidere in maniera
significativa sul contenuto della stessa, tanto che la loro
mancanza renda l'offerta non soddisfacente rispetto alle
richieste della stazione appaltante.
Pertanto, va escluso il
concorrente il quale abbia omesso la sottoscrizione
dell'offerta tecnica –la quale non è negozialmente
imputabile ad alcuno– mentre la mancata esplicita
previsione di tale carenza tra le cause di esclusione è
irrilevante "trattandosi di mancanza di un elemento
essenziale dell'offerta che anche nell'attuale assetto
normativo disegnato dall'attuale art. 46, comma 1-bis, del
Codice appalti, in cui è stato codificato il principio di
tassatività delle cause di esclusione, rileva quale causa di
estromissione del concorrente dalla gara d'appalto" (in
questi termini Consiglio di Stato, 21.06.2012 n. 3669 e
08.08.2013, n. 727).
In conclusione, la mancata sottoscrizione dell'offerta
tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la
domanda di partecipazione alla gara, non può essere
considerata, in via di principio, un'irregolarità solo
formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa
fa venire meno la certezza della provenienza e della piena
assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della
dichiarazione nel suo complesso posto che la sottoscrizione
di un documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa
propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso,
consentendo così non solo di risalire alla paternità
dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i
terzi destinatari della manifestazione di volontà (ibidem).
Da tanto discende che il r.t.i. aggiudicatario avrebbe
dovuto essere escluso dalla gara e, quanto all’odierno
processo (non risultando che si sia proceduto alla stipula
del relativo contratto), che va accolta la domanda di
annullamento dell’aggiudicazione del lotto 1, fatti salvi
gli ulteriori provvedimenti che l’amministrazione dovrà
adottare in esecuzione della presente sentenza
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza
09.11.2016 n. 11092 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Giurisprudenza
maggioritaria del Consiglio di Stato (condivisa dal
Collegio) colloca il dies a quo del termine di prescrizione
quinquennale per i rapporti “ante c.p.a.” nel momento di
passaggio in giudicato della sentenza di annullamento da cui
scaturisce, in capo all’interessato, il diritto di agire per
il ristoro del pregiudizio derivato dal provvedimento poi
annullato.
---------------
La possibilità di agire per il risarcimento del danno
ingiusto causato da atto amministrativo illegittimo senza la
necessaria pregiudiziale impugnazione dell'atto
lesivo…..comporta che il termine di prescrizione dell'azione
di risarcimento decorre dalla data dell'illecito e non da
quella del passaggio in giudicato della sentenza di
annullamento da parte del giudice amministrativo, non
costituendo l'esistenza dell'atto amministrativo un
impedimento all'esercizio dell'azione.
Peraltro, la domanda di annullamento dell'atto proposta al
giudice amministrativo prima della concentrazione davanti
allo stesso anche della tutela risarcitoria, pur non
costituendo il prodromo necessario per conseguire il
risarcimento dei danni, dimostra la volontà della parte di
reagire all'azione amministrativa reputata illegittima ed è
idonea ad interrompere per tutta la durata di quel processo
il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria proposta
dinanzi al giudice ordinario.
---------------
In conclusione, deve rilevarsi che l’azione risarcitoria
proposta dal ricorrente con il ricorso in esame, in quanto
relativa a fatto illecito risalente ad epoca anteriore
all’entrata in vigore del codice amministrativo, è soggetta
al termine prescrizionale quinquennale ex art. 2947 cod. civ..
---------------
La domanda risarcitoria proposta è infondata e da
disattendere.
Al riguardo si richiama, preliminarmente, l’acquisito
inquadramento della responsabilità da provvedimento
illegittimo della P.A. nell'ambito del modello aquiliano,
per cui il privato non può provare la responsabilità
dell'amministrazione semplicemente dimostrando
l'illegittimità del provvedimento lesivo, ovvero –come nella
fattispecie- richiamando il giudicato accertativo di tale
illegittimità. Quest’ultima non implica, infatti, la
automatica configurabilità dell’elemento soggettivo della
colpa, costituendo un indizio idoneo a fondare una
presunzione (semplice) di colpa, che l'amministrazione può
vincere adducendo concreti elementi di scusabilità
dell'errore.
Ciò premesso, Il Collegio ritiene di poter trarre dagli atti
della presente causa ragioni sufficienti per superare la
presunzione di cui sopra ed affermare la scusabilità
dell’errore che, secondo quanto statuito dal Consiglio di
Stato con la sentenza n. 2706/2013 della Sez. VI, deve
imputarsi all’amministrazione comunale.
Al riguardo si rileva come l’elaborazione giurisprudenziale
della materia abbia evidenziato specifici elementi
distintivi della c.d. responsabilità “d’apparato” che può
essere riconosciuta solo in un contesto di circostanze di
fatto ed in un quadro di riferimento normativo, giuridico e
fattuale da palesare la grave negligenza o l'imperizia,
ovvero l’intenzionalità dell'assunzione del provvedimento
viziato, mentre viene negata ogniqualvolta l'indagine
conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la
sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del
quadro normativo di riferimento, o per la complessità della
situazione di fatto.
---------------
24. Venendo allo scrutinio delle questioni sollevate dalle
parti, si deve muovere dalla preliminare eccezione di
prescrizione dell’azione risarcitoria formulata dalla difesa
del Comune resistente. L’eccezione si basa sul presupposto –condiviso dal Collegio– dell’inapplicabilità
ratione
temporis dell’art. 30 del c.p.a. alla presente fattispecie.
Il contrasto giurisprudenziale sorto in merito
all’applicabilità di tale norma a fatti illeciti anteriori
all’entrata in vigore del codice (16.09.2010) è stato,
infatti, risolto, in senso negativo, dalla giurisprudenza
(v. sent. n. 6/2015 dell’A.P.). Il Collegio, aderisce alla
citata giurisprudenza, che appare conforme anche al dettato
della disposizione di diritto transitorio recata dall’art. 2
dell’allegato 3 al c.p.a. (“per i termini che sono in corso
alla data di entrata in vigore del codice continuano a
trovare applicazione le norme previgenti”).
25. Non viene, pertanto, in rilievo nella presente vertenza
il termine decadenziale di 120 giorni contemplato dalla
disposizione citata, decorrente dal passaggio in giudicato
della sentenza di annullamento dell’atto amministrativo
lesivo, dovendosi fare riferimento alla prescrizione
quinquennale ex art. 2947 cod. civ., come eccepita dal
Comune resistente.
26. Quest’ultimo computa il termine suddetto con decorrenza
dalla data di adozione dell’atto amministrativo lesivo
(delibera della Giunta comunale del 29.09.2004, n. 967).
L’azione risarcitoria risulterebbe, quindi, ampiamente
prescritta, in quanto esercitata a quasi 10 anni
dall’adozione della contestata delibera.
27. L’assunto, tuttavia, non convince, venendo infatti
contraddetto da quella giurisprudenza maggioritaria del
Consiglio di Stato (condivisa dal Collegio), la quale
colloca il dies a quo del termine di prescrizione
quinquennale per i rapporti “ante c.p.a.” nel momento di
passaggio in giudicato della sentenza di annullamento da cui
scaturisce, in capo all’interessato, il diritto di agire per
il ristoro del pregiudizio derivato dal provvedimento poi
annullato (Cons. Stato., Sez. V, sent. 18.02.2013, n. 966;
Sez. III, sent. 12.04.2012, n. 2082; Sez. V, sent.
02.09.2005, n. 4461).
28. Peraltro, anche volendo aderire all’orientamento fatto
proprio dal Comune resistente, che àncora l’esordio del
termine prescrizionale alla verificazione dell’evento
lesivo, l’esito sarebbe comunque il medesimo, essendo i
sostenitori della tesi in esame concordi nell’attribuire
rilievo interruttivo del decorso dei termini prescrizionali
alle impugnative degli atti amministrativi lesivi.
Si
rimanda, a tale proposito, oltre che all’A.P. n. 3/2011,
citata da parte ricorrente, a quanto statuito dalla Sez. IV
del Consiglio di Stato, con sentenza 04.06.2014, n. 2856,
ove, (richiamando anche la pronuncia delle SS.UU. della
Corte di Cassazione del 08.04.2008 n. 9040), si precisa che:
“la possibilità di agire per il risarcimento del danno
ingiusto causato da atto amministrativo illegittimo senza la
necessaria pregiudiziale impugnazione dell'atto
lesivo…..comporta che il termine di prescrizione dell'azione
di risarcimento decorre dalla data dell'illecito e non da
quella del passaggio in giudicato della sentenza di
annullamento da parte del giudice amministrativo, non
costituendo l'esistenza dell'atto amministrativo un
impedimento all'esercizio dell'azione. Peraltro, la domanda
di annullamento dell'atto proposta al giudice amministrativo
prima della concentrazione davanti allo stesso anche della
tutela risarcitoria, pur non costituendo il prodromo
necessario per conseguire il risarcimento dei danni,
dimostra la volontà della parte di reagire all'azione
amministrativa reputata illegittima ed è idonea ad
interrompere per tutta la durata di quel processo il termine
di prescrizione dell'azione risarcitoria proposta dinanzi al
giudice ordinario…”.
29. In conclusione, deve rilevarsi che l’azione risarcitoria
proposta dal ricorrente con il ricorso in esame, in quanto
relativa a fatto illecito risalente ad epoca anteriore
all’entrata in vigore del codice amministrativo, è soggetta
al termine prescrizionale quinquennale ex art. 2947 cod.
civ..
Detta azione non può considerarsi estinta per
intervenuta prescrizione, sia che si faccia decorrere il
suddetto termine dalla data di adozione del provvedimento
lesivo (deliberazione della Giunta n. 967 del 28.09.2004),
sia che detta decorrenza venga riferita alla data di
passaggio in giudicato della sentenza accertativa
dell’illegittimità del provvedimento medesimo (6 mesi dalla
pubblicazione della sent. Cons. Stato n. 2706 del
21.05.2013).
30. Passando al merito dell’azione risarcitoria, si ritiene
che la domanda proposta da parte ricorrente sia infondata e
debba essere disattesa.
31. Al riguardo si richiama, preliminarmente, l’acquisito
inquadramento della responsabilità da provvedimento
illegittimo della P.A. nell'ambito del modello aquiliano,
per cui il privato non può provare la responsabilità
dell'amministrazione semplicemente dimostrando
l'illegittimità del provvedimento lesivo, ovvero –come
nella fattispecie- richiamando il giudicato accertativo di
tale illegittimità. Quest’ultima non implica, infatti, la
automatica configurabilità dell’elemento soggettivo della
colpa, costituendo un indizio idoneo a fondare una
presunzione (semplice) di colpa, che l'amministrazione può
vincere adducendo concreti elementi di scusabilità
dell'errore (sul punto -ex plurimis-: Cons. Stato, Sez. IV,
16.04.2016, n. 1347; id., Sez. VI, 04.09.2015, n. 4115 id.,
Sez. VI, 16.04.2015, n. 1944).
32. Ciò premesso, Il Collegio ritiene di poter trarre dagli
atti della presente causa ragioni sufficienti per superare
la presunzione di cui sopra ed affermare la scusabilità
dell’errore che, secondo quanto statuito dal Consiglio di
Stato con la sentenza n. 2706/2013 della Sez. VI, deve
imputarsi all’amministrazione comunale.
33. Al riguardo si rileva come l’elaborazione
giurisprudenziale della materia abbia evidenziato specifici
elementi distintivi della c.d. responsabilità “d’apparato”
che può essere riconosciuta solo in un contesto di
circostanze di fatto ed in un quadro di riferimento
normativo, giuridico e fattuale da palesare la grave
negligenza o l'imperizia, ovvero l’intenzionalità
dell'assunzione del provvedimento viziato, mentre viene
negata ogniqualvolta l'indagine conduca al riconoscimento di
un errore scusabile, per la sussistenza di contrasti
giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di
riferimento, o per la complessità della situazione di fatto
(cfr. Cons. Stato, Sez. III; 01.04.2015, n. 1717; Sez. III,
11.03.2015, n. 1272; Sez. VI, 05.03.2015, n. 1099)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 09.11.2016 n. 310 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.01.2017 |
ã |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La
Sezione osserva come il principio di buon andamento impegni
la P.A. ad adottare gli atti il più possibile rispondenti ai
fini da conseguire ed autorizzi quindi anche il riesame
degli atti adottati, ove reso opportuno da circostanze
sopravvenute ovvero da un diverso apprezzamento della
situazione preesistente.
In particolare, mentre l’annullamento
“guarda al passato”, nel senso che costituisce un rimedio
volto alla rimozione di un errore commesso nell’esercizio
della funzione di primo grado e quindi opera in una logica
essenzialmente correttiva dell’azione pubblica, la revoca
assume una funzione più propriamente adeguatrice, intesa in
termini di attualizzazione delle modalità di perseguimento
dell’interesse pubblico specifico di cui occorre seguire la
costante dinamica evolutiva.
Pertanto entrambi gli istituti
hanno come oggetto immediato del provvedere l’eliminazione
di un precedente atto o provvedimento di primo grado cui
coniugare l’esigenza di un’azione amministrativa che si
ponga pur sempre come cura attuale dell’interesse pubblico:
esigenza che, in termini funzionali, nelle ipotesi di
annullamento si caratterizza come momento valutativo
ulteriore rispetto al mero accertamento dell’illegittimità
del provvedimento di primo grado, mentre nei casi di revoca
discende proprio dalla necessità di adeguare per il futuro
scelte ormai non più idonee ed efficaci, con inevitabile
eliminazione dei provvedimenti formali che le contenevano.
----------------
Il potere di autotutela decisoria in capo
all'Amministrazione non ha in verità come unica finalità il
mero ripristino della legalità, costituendo una potestà
discrezionale che deve contemplare la verifica di
determinate condizioni, previste dall'ordinamento e
concernenti l'opportunità di correggere l'azione
amministrativa svoltasi illegittimamente.
L'annullamento è stato, pertanto, connotato dall’art.
21-nonies, come modificato da ultimo dalla Legge 07/08/2015,
n. 124, in termini di rinnovata manifestazione, entro un
termine ragionevole, della funzione amministrativa.
In tale ambito rilevano, oltre all'attualità di un interesse
pubblico distinto ed ulteriore rispetto al mero ripristino
della legalità violata, anche gli interessi di tutte le
parti coinvolte e il tempo trascorso dalla determinazione
viziata.
Per effetto dell'art. 21-nonies, l'esercizio della potestà
di autotutela decisoria richiede non solo l'esistenza di un
vizio dell'atto da rimuovere, ma anche la sussistenza di un
interesse pubblico e la sua comparazione con gli interessi
dei destinatari e dei controinteressati, quando, per effetto
del provvedimento reputato illegittimo, siano sorte
posizioni giuridiche qualificate e consolidate nel tempo.
---------------
Circa la asserita “non ragionevolezza del termine" per
l'annullamento della DIA (8 anni), la Sezione è dell’avviso
che, nel caso di annullamento in autotutela di provvedimenti
autorizzativi come i permessi di costruire, deve ritenersi
sicuramente ragionevole un termine di intervento che non
superi, come nella fattispecie, il termine decennale
assegnato in generale all’Amministrazione regionale -ex art.
39 del D.P.R. n. 380/2001- per disporre l’annullamento dei
titoli edilizi comunali contrastanti con la normativa
urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
---------------
Il Catasto nel nostro ordinamento non ha valenza probatoria,
perché non costituisce prova né dei diritti reali in esso
riportati, né della posizione né della regolarità edilizia.
---------------
...
per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento n. 16578 del 27/07/2015 di annullamento in
autotutela della DIA n. 16065 del 19/09/2007 per l’immobile in Arzano di cui al fl. 5, p.lla 488; dell’ordinanza di
demolizione n. 17455 del 06/08/2015; del provvedimento n. 1830
del 19/08/2015 di improcedibilità della SCIA n. 3897 del
20/02/2015.
...
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la
violazione degli artt. 3, 7, 8, 10, 21-quinquies e 21-nonies
della Legge n. 241/1990, dell’art. 97 Cost., dell’art. 9 NTA,
degli artt. 9 e 27-ter del DPR n. 380/2001, dell’art. 2 della L.R. n. 19/2001, nonché il difetto di istruttoria.
2. La Sezione in via preliminare osserva come il principio
di buon andamento impegni la P.A. ad adottare gli atti il
più possibile rispondenti ai fini da conseguire ed autorizzi
quindi anche il riesame degli atti adottati, ove reso
opportuno da circostanze sopravvenute ovvero da un diverso
apprezzamento della situazione preesistente (TAR
Calabria, Reggio Calabria, 24.10.2007, n. 1077; Cons. Stato,
V, n. 508/1999; n. 1263/1996; VI, 29.03.1996, n. 518;
30.04.1994, n. 652).
In particolare, mentre l’annullamento
“guarda al passato”, nel senso che costituisce un rimedio
volto alla rimozione di un errore commesso nell’esercizio
della funzione di primo grado e quindi opera in una logica
essenzialmente correttiva dell’azione pubblica, la revoca
assume una funzione più propriamente adeguatrice, intesa in
termini di attualizzazione delle modalità di perseguimento
dell’interesse pubblico specifico di cui occorre seguire la
costante dinamica evolutiva.
Pertanto entrambi gli istituti
hanno come oggetto immediato del provvedere l’eliminazione
di un precedente atto o provvedimento di primo grado cui
coniugare l’esigenza di un’azione amministrativa che si
ponga pur sempre come cura attuale dell’interesse pubblico:
esigenza che, in termini funzionali, nelle ipotesi di
annullamento si caratterizza come momento valutativo
ulteriore rispetto al mero accertamento dell’illegittimità
del provvedimento di primo grado, mentre nei casi di revoca
discende proprio dalla necessità di adeguare per il futuro
scelte ormai non più idonee ed efficaci, con inevitabile
eliminazione dei provvedimenti formali che le contenevano.
2.1 Con riguardo a quanto reclamato da parte ricorrente, il
potere di autotutela decisoria in capo all'Amministrazione
non ha in verità come unica finalità il mero ripristino
della legalità, costituendo una potestà discrezionale che
deve contemplare la verifica di determinate condizioni,
previste dall'ordinamento e concernenti l'opportunità di
correggere l'azione amministrativa svoltasi
illegittimamente. L'annullamento è stato, pertanto,
connotato dall’art. 21-nonies, come modificato da ultimo
dalla Legge 07/08/2015, n. 124, in termini di rinnovata
manifestazione, entro un termine ragionevole, della funzione
amministrativa.
In tale ambito rilevano, oltre all'attualità
di un interesse pubblico distinto ed ulteriore rispetto al
mero ripristino della legalità violata, anche gli interessi
di tutte le parti coinvolte e il tempo trascorso dalla
determinazione viziata. Per effetto dell'art. 21-nonies,
l'esercizio della potestà di autotutela decisoria richiede
non solo l'esistenza di un vizio dell'atto da rimuovere, ma
anche la sussistenza di un interesse pubblico e la sua
comparazione con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, quando, per effetto del provvedimento
reputato illegittimo, siano sorte posizioni giuridiche
qualificate e consolidate nel tempo.
3. Ora, con riguardo alla fattispecie in esame, si ritiene
di rimarcare che -come evidenziato in sede di consulenza
tecnica dalle cui conclusioni non sussistono motivi per
discostarsi– il fabbricato di cui fa parte l'immobile in
contestazione è stato realizzato con licenza edilizia n.
654/1968 che prevedeva la realizzazione di un fabbricato di
sette piani fuori terra oltre il piano cantinato; con
successiva variante n. 11/1969 si richiedeva la riduzione
del fabbricato nei limiti di altezza e volume con
realizzazione di un piano terra destinato all'industria del
proprietario e n. 4 piani superiori ad uso residenziale.
Premesso che l’ausiliario non ha potuto visionare le piante
allegate alla variante n. 11/1969 che sarebbero state di
fondamentale importanza per verificare la corrispondenza con
l'attuale stato dei luoghi, si è appurato che non sono
state, poi, realizzate altre opere finché il 19/09/2007 con prot. 16065 è stata presentata una D.I.A. per il "cambio di
destinazione d'uso del piano ammezzato adibito ad uffici in
locali da adibire a scuola media secondaria, il tutto senza
opere".
3.1 Dall’esame della documentazione è stato accertato che il
piano dove ha sede la scuola –e dunque interessato dalla
DIA per cambio di destinazione d’uso- risulta essere il
primo del fabbricato, e non l’ammezzato; dalle sezioni della
richiamata variante risulta che il piano ammezzato è parte
integrante del piano terra in quanto sono visibili il solaio
e le scale che consentono l'accesso al detto piano
ammezzato, mentre il piano primo, che come risulta
dall'autorizzazione di abitabilità presentava solo tre vani
destinati a deposito, dalle sezioni sembrerebbe avere una
parte destinata ad abitazione con la stessa distribuzione
interna dei piani superiori ad uso residenziale.
Quanto a strumentazione urbanistica, nel Comune di Arzano è
ancora vigente il Programma di Fabbricazione approvato con
D.P.G.R.C. n. 361 del 04/02/1977, ai sensi del quale il suolo
su cui ricade l'immobile in oggetto, identificato in Catasto
al fl.5 p.lla 448, ha la destinazione d'uso "zona I2 - zona
industriale esistente"; in realtà in sede di consulenza
tecnica si è accertato che l'immobile per cui è controversia
è inserito in un contesto vario e non prettamente
industriale, ove sono ubicati numerosi immobili con diversa
destinazione a prevalenza residenziale oltre che commerciale
e terziaria (es. negozi, bar e alimentari).
4. Ciò premesso, con riguardo ai quesiti posti dal Tribunale
il consulente tecnico ha concluso che l'immobile in oggetto
ha la destinazione d'uso "zona I2 - zona industriale
esistente" del vigente Programma di Fabbricazione; il cambio
di destinazione d'uso ha poi determinato una variazione dei
carichi urbanistici e, quindi, la necessità di adeguamento
degli standard urbanistici previsti dal decreto ministeriale
n. 1444/1968, perché lo stesso è avvenuto tra categorie
funzionali tra loro non compatibili (da uso
deposito/abitazioni a scuola), ragion per cui detto cambio
di destinazione d'uso poteva essere rilasciato solo con un
Permesso di costruire ma non con una semplice DIA.
4.1 Il Collegio ritiene in definitiva che, contrariamente a
quanto pure asserito diffusamente da parte ricorrente
nell’ultima memoria in previsione dell’odierna udienza
pubblica, sia stato del tutto legittimo l’operato
dell’Amministrazione che -accertata fra l’altro la mancanza
agli atti del certificato di agibilità rilasciato al sig.
Bi., ritenendo che il silenzio-assenso del Comune non si
era perfezionato in maniera amministrativamente corretta e
presumendo che alla data della presentazione della DIA i
locali in questione erano stati già destinati a scuola- si
determinava con il provvedimento impugnato all’annullamento
in autotutela della DIA del 19/09/2007.
Effettivamente un
cambio di destinazione per un’attività funzionale, peraltro
incompatibile con la strumentazione urbanistica e le NTA
vigenti all’epoca dei fatti, avrebbe richiesto un apposito
Permesso di costruire; ai sensi delle citate NTA, infatti,
in zona I2 non sarebbe stato possibile realizzare alcuna
scuola privata, né mutare la destinazione d’uso di un
opificio industriale in una scuola secondaria, cioè in una
attività commerciale, che peraltro richiede la realizzazione
di parcheggi privati.
Sotto altro profilo, circa la asserita “non ragionevolezza
del termine" per l'annullamento della DIA (8 anni), la
Sezione è dell’avviso che, nel caso di annullamento in
autotutela di provvedimenti autorizzativi come i permessi di
costruire, deve ritenersi sicuramente ragionevole un termine
di intervento che non superi, come nella fattispecie, il
termine decennale assegnato in generale all’Amministrazione
regionale -ex art. 39 del D.P.R. n. 380/2001- per disporre
l’annullamento dei titoli edilizi comunali contrastanti con
la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della
loro adozione (cfr. Cons. Stato, IV, 03.08.2010, n. 5170; TAR
Campania, Napoli, I, 16.09.2015, n. 4553; VIII, 02.07.2014,
n. 3608).
4.2 Con riguardo ai rilievi mossi da parte ricorrente alla
relazione del CTU, il Collegio evidenzia –se necessario-
che il Catasto nel nostro ordinamento non ha valenza
probatoria, perché non costituisce prova né dei diritti
reali in esso riportati, né della posizione né della
regolarità edilizia.
Ora parte ricorrente nella fattispecie
allega le planimetrie catastali del piano terra e
dell’ammezzato come presentate dopo le variazioni del 1994,
nonché quella attuale del piano primo presentata nel 2014,
ma non anche le planimetrie originarie con la consistenza
del piano primo che consentirebbero un raffronto con lo
stato attuale.
Non possono ritenersi smentite le circostanze
che parte del piano primo era destinata ad abitazione con la
stessa distribuzione interna dei piani superiori ad uso
residenziale e che, pur volendo considerare solo le
destinazioni d'uso assentite con l'Abitabilità n. 39/1973, al
primo piano sede della scuola risultavano solo n. 3 vani per
deposito e dunque, per adibire detti 3 vani a scuola,
occorrevano delle opere anche rilevanti che necessitavano di
Permesso di costruire.
In ogni caso, ove fossero stati
presenti solo vani deposito, è indubbio che la nuova
destinazione d'uso impressa all'immobile -ovvero di una
scuola con la presenza di ben 160 studenti e 32 dipendenti–
ha comportato una variazione del carico urbanistico rispetto
alla precedente destinazione d'uso, con aggravio in termini
di viabilità, trasporto pubblico e fognature, con necessità
di presentare una richiesta di Permesso di costruire.
In
definitiva, la carenza della specifica destinazione
urbanistica del fabbricato -carenza derivante dalla
riscontrata correttezza del provvedimento di annullamento
della DIA- è, appunto, ostativa allo svolgimento della
predetta attività per come estranea alla sua destinazione.
Quanto, poi, all’obiezione della difesa del Comune circa la
tipologia del Permesso di costruire che si sarebbe dovuto
richiedere, va ricordato che costituiva oggetto del mandato
il quesito circa la compatibilità dell’opera con una DIA
ovvero con un Permesso di costruire, senza specificarsi se
quest’ultimo dovesse essere ordinario, in deroga o in
sanatoria; in ogni caso il Collegio ritiene che, anche per
le lacune presenti nella documentazione tecnica reperita,
sono state sicuramente realizzate opere non autorizzate
precedentemente e, pertanto, non è possibile avvalorare
l'ipotesi di un Permesso di costruire in deroga ai sensi
dell'art. 14 DPR n. 380/2001.
5. In conclusione, per le ragioni esposte il ricorso deve
essere rigettato per come infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.07.2016 n. 3335 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
APPALTI: Convegno
gratuito dal titolo:
Tradizione e innovazione nella disciplina dei contratti
pubblici (Brescia, venerdì 10.02.2017
-
Auditorium di Santa Giulia, Via Piamarta n. 4). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 10.01.2017, "Piano
regionale delle attività di previsione, prevenzione e lotta
attiva contro gli incendi boschivi per il triennio 2017-2019
(legge n. 353/2000)" (deliberazione
G.R. 29.12.2016 n. 6093). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 10.01.2017, "Modalità
attuative dell’alienazione e valorizzazione del patrimonio
destinato a servizi abitativi pubblici ai sensi dell’art.
28, comma 1, della legge regionale 08.07.2016, N. 16
«Disciplina regionale dei servizi abitativi»" (deliberazione
G.R. 29.12.2016 n. 6072). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 09.01.2017, "Modifiche
e integrazioni alla d.g.r. VIII/7728/2008 «Approvazione di
criteri e procedure per la redazione e l’approvazione dei
piani di indirizzo forestale», limitatamente all’allegato 1,
parte 3 «Procedure amministrative»" (deliberazione
G.R. 29.12.2016 n. 6089).
---------------
Si legga il testo coordinato:
●
Criteri approvati con deliberazione di Giunta regionale n.
VII/7728 del 24.07.2008 e modificati con deliberazione di
Giunta regionale n. X/6089 del 29.12.2016. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: nuova proroga dell’entrata in vigore
delle sanzioni (ANCE di Bergamo,
circolare 09.01.2017 n. 2). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI
LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO:
Proroga e definizione dei termini: l’analisi della
Fondazione Studi Consulenti del Lavoro
(Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, 02.01.2017).
---------------
D..L. approvato in data 29.12.2016 - DISPOSIZIONI URGENTI
IN MATERIA DI PROROGA DI TERMINI PREVISTI DA DISPOSIZIONI
LEGISLATIVE (...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
VADEMECUM SULL’UTILIZZO DELLA PEC (Consiglio
Nazionale dei Dottori Commercialisti degli Esperti Contabili
- 14.12.2016).
---------------
Al riguardo, si leggano anche:
●
Come dimostrare l’invio di una Pec (08.01.2017
- link a www.laleggepertutti.it).
●
Che differenza c’è tra la Pec e la raccomandata?
(08.01.2017 - link a www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
LINEE GUIDA INFORMATIVE E MODELLI DI RELAZIONE IN MERITO
ALLE VALUTAZIONI TECNICO-ECONOMICHE PER L’INSTALLAZIONE DEI
SISTEMI DI TERMOREGOLAZIONE E CONTABILIZZAZIONE DEL CALORE
DI CUI ALL’ART. 9, COMMA 5, DEL D.LGS. N. 102/2014 COME
MODIFICATO DAL D.LGS. N. 141/2016 (Consiglio
Nazionale degli Ingegneri, dicembre 2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Linee Guida per la verifica della relazione sul
contenimento dei consumi energetici
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 02.12.2016 n. 837).
----------------
Le linee guida intendono essere un concreto aiuto sia per
i tecnici comunali che per i professionisti
nell’applicazione dei DD.MM. 26/06/2015, agevolando, da
una parte, il compito di verifica dei funzionari e,
dall’altra, la verifica della correttezza del proprio
operato dei professionisti che operano nel settore.
L’obbligatorietà della relazione sul contenimento dei
consumi energetici (ex legge 10/1991) e la verifica delle
prescrizioni puntuali da rispettare a seconda dei diversi
tipi di intervento edilizio sono argomentazioni sulle quali
si verifica spesso la disomogeneità sia della documentazione
prodotta dai progettisti sia delle richieste documentali da
parte dei tecnici comunali.
Un chiarimento sul tipo di documentazione e sugli specifici
contenuti si ritiene pertanto utile e doveroso.
(...continua). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INDIRIZZI PER L’APPLICAZIONE DELLA PROCEDURA DI
ESTINZIONE DELLE CONTRAVVENZIONI AMBIENTALI EX PARTE VI-BIS
D.LGS. 152/2006 (ISPRA,
delibera 29.11.2016
Doc 82-16/CF). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
D. Garzia,
Codice dei Contratti Pubblici 2016. Le novità sugli
affidamenti diretti della Pubblica Amministrazione - I
presupposti degli affidamenti “In House” nel Nuovo Codice
dei Contratti Pubblici 2016
(09.01.2017 - link a www.filodiritto.com). |
APPALTI:
Milleproroghe: rimane l'obbligo di pubblicare i bandi di
gara anche sui quotidiani cartacei. Non è stato ancora
pubblicato il decreto del Mit che definirà le modalità di
pubblicazione online in attuazione del nuovo Codice appalti
(05.01.2017 - link a www.casaeclima.com). |
APPALTI:
Appalti: aggiudicazione: sintesi dell'iter e dei tempi da
rispettare ai fini della stipulazione del contratto
(05.01.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G. De Luca,
Il nuovo accesso civico previsto dal decreto legislativo
25.05.2016, n. 97. Le amministrazioni hanno l’obbligo di
adeguarsi
(04.01.2017 - link a www.filodiritto.com). |
COMPETENZE GESTIONALI - ENTI LOCALI:
Contributi (o patrocini onerosi): materiali operativi.
La concessione dei contributi pubblici secondo il
procedimento tratteggiato solo a larghe linee dall’articolo
12 della legge 241/1990 è correttamente inquadrata dalla
giurisprudenza maggioritaria come attività puramente
gestionale. (...continua) (03.01.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Nuovi casi di responsabilità oggettiva negli appalti per i
dirigenti e l’ircocervo Anac: controllore, inquisitore,
giudice giudicante.
Che le “raccomandazioni vincolanti” previste
dall’articolo 211, comma 2, del codice dei contratti fossero
un istituto ad altissimo sospetto di illegittimità di vario
tipo era abbastanza chiaro. (...continua) (03.01.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Modello di contratto di regolazione della Mobilità nel
pubblico impiego.
Chi scrive sostiene, contrariamente alla diffusissima
convinzione presente tanto in giurisprudenza, quanto in
dottrina, che la mobilità volontaria regolata dall’articolo
30, comma 1, del d.lgs. 165/2001 non sia affatto una
cessione del contratto, ai sensi dell’articolo 1406 del
codice civile. (...continua) (31.12.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Camonita,
Le strade vicinali ad uso pubblico
(27.12.2016 - link a www.filodiritto.com). |
APPALTI:
F. Laudante,
Omessa sottoscrizione dell’offerta tecnica ed esclusione
dalle procedure di gara per l’affidamento di appalti
pubblici; panoramica degli orientamenti giurisprudenziali
(13.12.2016 - link a www.filodiritto.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
W. Iaria,
Più decisioni espresse e meno silenzio assenso per gli atti
della P.A. (18.11.2016 - link a www.filodiritto.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. Conigliaro,
L’illegittimità degli atti amministrativi per vizi di forma
del procedimento e la tutela del privato
(28.10.2016 - link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Camonita,
Il passaggio coattivo nel fondo intercluso relativo
(07.01.2014 - link a www.filodiritto.com). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Camonita,
Strade vicinali e regime giuridico-normativo (08.03.2012
- link a www.filodiritto.com). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI: Corretta
interpretazione dell’art. 84, comma 3, del d.lgs. n. 267 del
2000, in merito alle modalità di calcolo per il rimborso
delle spese di viaggio sostenute da un consigliere comunale
residente fuori dal territorio dell’ente, il quale, in
assenza di mezzi di trasporto pubblico idonei, utilizzi il
mezzo di trasporto privato per raggiungere la sede ove
svolge le proprie funzioni politico-istituzionali.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla
Sezione regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione n. 71/2016/QMIG, enuncia il seguente principio
di diritto: “Il rimborso delle specie di
viaggio assume una diversa natura e finalità nelle due
fattispecie contemplate, rispettivamente, dal comma 1 e dal
comma 3 dell’art. 84 del d.lgs. n. 267/2000. Nella seconda
di tali fattispecie, la spesa sostenuta per il rimborso dei
viaggi all’amministratore locale, il quale abbia la
necessità di recarsi dal proprio luogo di residenza all’ente
presso cui esercita il proprio mandato, non configura una
spesa di missione bensì un onere finalizzato all’effettivo
esercizio costituzionalmente tutelato della funzione.
Ai fini del rimborso delle spese di cui all’art. 84, comma
3, del d.lgs. n. 267/2000, l’uso del mezzo di trasporto
personale è da ritenersi “necessitato” soltanto se
finalizzato all’effettivo e obbligatorio svolgimento di
funzioni proprie o delegate, e quando ne sia accertata la
convenienza economica nei casi in cui il servizio di
trasporto pubblico manchi del tutto o non sia idoneo a
consentire l’agevole ed utile svolgimento della funzione.
Ricorrendo tali presupposti, il rimborso della relativa
spesa può essere regolamentato dall’ente anche secondo le
modalità previste dall’art. 77-bis, comma 13, del d.l. n.
112/2008”.
---------------
La questione di massima, deferita all’esame di questo
Collegio, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n.
174/2012, dalla Sezione di controllo per la Liguria con
deliberazione 22.06.2016, n. 71, verte sulle modalità di
calcolo del rimborso delle spese di viaggio sostenute da un
consigliere comunale residente fuori dal territorio
dell’ente, il quale, in assenza di mezzi di trasporto
pubblico idonei, utilizzi il mezzo di trasporto privato per
raggiungere la sede ove svolge le proprie funzioni
politico-istituzionali.
...
Si ritiene condivisibile la ricostruzione del quadro
normativo, nella sua evoluzione storica e nei suoi profili
logici e sistematici, operata dalla Sezione remittente
nell’evidenziare la differenza di natura e funzione tra la
fattispecie di cui al primo comma dell’art. 84 del d.lgs. n.
267/2000, che disciplina le spese sostenute in caso di
missione degli amministratori fuori dal territorio comunale,
e quella di cui al terzo comma della medesima norma, che
concerne gli oneri sostenuti dall’amministratore residente
fuori dal Comune per l’effettivo adempimento del mandato.
Quest’ultima norma regola esplicitamente una fattispecie
relativa ad una spesa per il funzionamento degli organi
politico-amministrativi che risulti necessaria per il
concreto espletamento dei relativi mandati nella condizione,
costituzionalmente garantita, di effettiva libertà e
uguaglianza di accesso. L’altra fattispecie attiene, invece,
ad una spesa diversa per finalità (costituendo un rimborso
delle spese di viaggio per le missioni degli amministratori
e dei dipendenti pubblici) e per connotazione (non essendo
caratterizzata dalla necessarietà).
Appare opportuno precisare che il richiamo di parte della
giurisprudenza contabile in materia consultiva (per tutte:
SRC Emilia Romagna, deliberazione n. 65/PAR/2015) ai
principi affermati dalle Sezioni riunite in sede di
controllo nella deliberazione n. 21/CONTR/2011, non appare
utilizzabile in via estensiva. In quella sede, infatti, si è
inteso dare soluzione al quesito riguardante “la
possibilità, da parte dell’Amministrazione, di continuare ad
autorizzazione l’utilizzo del mezzo proprio anche
successivamente al 31.05.2010 (data di entrata in vigore del
decreto legge n. 78 del 2010) a seguito dell’intervenuta
disapplicazione al personale contrattualizzato di cui al
decreto legislativo n. 165 del 2001, degli articoli 15 della
legge 18.12.1973, n. 836 e 8 della legge 26.07.1978, n. 417 e relative disposizioni di attuazione, nonché
delle analoghe disposizioni contenute nei contratti
collettivi”. Il riferimento al “personale contrattualizzato”
circoscrive, evidentemente, la portata dei suddetti principi
all’ambito della sola casistica riconducibile alla
fattispecie di cui al comma 1 della norma in esame.
La diversa natura e funzione che assume il “rimborso delle
spese di viaggio” nelle due fattispecie normative
soprarichiamate consente anche una distinta configurabilità
dei principi e dei vincoli applicabili a ciascuna di esse.
La spesa sostenuta per il rimborso dei viaggi
all’amministratore locale che ha necessità di recarsi dal
proprio luogo di residenza all’ente presso cui svolge il
mandato (e che si trovi a dover utilizzare il mezzo privato
di trasporto per l’oggettiva mancanza di mezzi di trasporto
pubblico idonei o l'estrema disagevolezza dei collegamenti),
in quanto non costituente spesa di missione, ma onere
finalizzato all’effettivo esercizio della funzione
istituzionale, non rientra nelle limitazioni finanziarie
poste dall’art. 6 del d.l. n. 78/2010, bensì in quelle
eventualmente previste per le spese degli organi elettivi e
di amministrazione.
Va inoltre rilevato che, con l’art. 5 del medesimo d.l. n.
78/2010, il legislatore ha modificato soltanto il primo
comma della norma in esame, eliminando il riferimento alla
possibilità di erogare rimborsi in misura forfettaria
ulteriori rispetto alle spese di viaggio effettivamente
sostenute per missioni istituzionali. Non è, invece,
intervenuto sul terzo comma del medesimo articolo (che,
pure, disciplina il rimborso delle spese di viaggio) e
quindi, per tale fattispecie, non può ritenersi
implicitamente abrogato l’art. 77-bis, comma 13, del d.l. n.
112/2008, il quale prevede che “al fine di assicurare il
raggiungimento degli obiettivi del patto di stabilità
interno, il rimborso per le trasferte dei consiglieri
comunali e provinciali è, per ogni chilometro, pari a un
quinto del costo di un litro di benzina”.
Il ricorso al predetto parametro normativo non appare,
invero, lesivo del principio di effettività della spesa, per
i motivi correttamente indicati anche nella deliberazione
della Sezione remittente. Con il rimborso in misura pari ad
un quinto del prezzo della benzina per chilometro percorso,
il percipiente verrebbe ristorato di una spesa, quella di
trasporto con la propria autovettura, che è stata
“effettivamente sostenuta”. La predetta modalità di rimborso
non costituisce un’indennità differente o aggiuntiva (né una
causa di eventuale guadagno), ma la quantificazione,
oggettiva e predeterminata (nonché ritenuta congrua dal
legislatore) del rimborso in mancanza del pagamento del
biglietto ad un terzo vettore.
Siffatta interpretazione deve comunque ritenersi applicabile
alle sole ipotesi rientranti nella fattispecie di cui al
terzo comma dell’art. 84 più volte citato. Deve ricorrere,
pertanto, una spesa sostenuta dall’amministratore locale per
il rimborso dei viaggi necessari all’esercizio del proprio
mandato.
La “necessità” deve potersi qualificare come tale sia
soggettivamente che oggettivamente.
Sotto il profilo soggettivo, essa ricorre quando la presenza
presso la sede degli uffici sia inerente all’effettivo
svolgimento di funzioni proprie o delegate, come la
partecipazione alle sedute degli organi esecutivi ed
assembleari. In altri termini, è da ritenersi “necessaria”
quella presenza qualificata da un preesistente obbligo
giuridico dell’interessato che non gli consentirebbe una
scelta diversa per l’esercizio della propria funzione, salvo
il non esercizio della funzione stessa (cfr. Cass. Civ.,
Sez. I, n. 19637/2005).
È da escludersi, pertanto, la rimborsabilità delle spese di
viaggio sostenute per le presenze in ufficio
discrezionalmente rimesse alla valutazione soggettiva
dall’amministratore locale (ad esempio, in giorni diversi da
quelli delle sedute degli organi di appartenenza), in quanto
tali costi devono considerarsi coperti dall’indennità di
funzione di cui all’art. 82 del d.lgs. n. 267/2000.
Con riguardo al profilo oggettivo, deve considerarsi
correttamente motivata l’autorizzazione rilasciata dal
Sindaco (o dal soggetto competente a norma dello statuto o
dei regolamenti dell’ente locale) all’uso del mezzo proprio
in assenza di mezzi di trasporto pubblico idonei, ovvero,
quando l’orario degli stessi non ne consenta la fruizione in
tempi conciliabili con l’espletamento delle incombenze
connesse al mandato, nonché ogni volta che l’uso del mezzo
di trasporto privato sia accertato come economicamente più
conveniente o il solo possibile.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla
Sezione regionale di controllo per la Liguria con la
deliberazione n. 71/2016/QMIG, enuncia il seguente principio
di diritto:
“Il rimborso delle specie di viaggio
assume una diversa natura e finalità nelle due fattispecie
contemplate, rispettivamente, dal comma 1 e dal comma 3
dell’art. 84 del d.lgs. n. 267/2000. Nella seconda di tali
fattispecie, la spesa sostenuta per il rimborso dei viaggi
all’amministratore locale, il quale abbia la necessità di
recarsi dal proprio luogo di residenza all’ente presso cui
esercita il proprio mandato, non configura una spesa di
missione bensì un onere finalizzato all’effettivo esercizio
costituzionalmente tutelato della funzione.
Ai fini del rimborso delle spese di cui all’art. 84, comma
3, del d.lgs. n. 267/2000, l’uso del mezzo di trasporto
personale è da ritenersi “necessitato” soltanto se
finalizzato all’effettivo e obbligatorio svolgimento di
funzioni proprie o delegate, e quando ne sia accertata la
convenienza economica nei casi in cui il servizio di
trasporto pubblico manchi del tutto o non sia idoneo a
consentire l’agevole ed utile svolgimento della funzione.
Ricorrendo tali presupposti, il rimborso della relativa
spesa può essere regolamentato dall’ente anche secondo le
modalità previste dall’art. 77-bis, comma 13, del d.l. n.
112/2008”
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
delibera 29.12.2016 n. 38). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L’interpretazione
logico-sistematica dei
commi 2 e 3 dell’art. 113 conduce alla conclusione per cui
“il termine” lavori a base d’asta “utilizzata nel secondo
comma, è da intendere in senso atecnico e quindi non
soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture.
Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone
che il responsabile unico del procedimento controlla
l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore
dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici
sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di
conformità per i servizi e le forniture e disciplina una
serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono
comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto
dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse
figure professionali che dovranno svolgere quelle attività
destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 e
la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare”
---------------
Il Sindaco del Comune di Barletta (BT) formula alcuni
quesiti inerenti alla corretta interpretazione dell’art. 113
dlgs 50/2016 (attuazione delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di
concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure
d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua,
dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché
per il riordino della disciplina vigente in materia di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).
In particolare, il rappresentante dell’ente chiede:
1) se il fondo ex art. 113 d.lgs. 50/2016 debba essere
alimentato dal 2% dell’importo di gara dei soli lavori o
anche dei servizi e delle forniture, e, in quest’ultimo
caso, come si debba comportare l’ente, atteso che le spese
per i servizi e per alcune forniture non sono spese di
investimento;
2) se, nell’ipotesi più restrittiva di alimentazione del fondo
soltanto con il 2% dell’importo di gara dei lavori, sia
possibile incentivare le attività di programmazione ed
esecuzione di servizi e forniture attingendo a quel fondo,
considerando che il comma 3 dell’art. 113 sancisce che il
predetto fondo “è ripartito per ciascuna opera, servizio,
fornitura”;
3) se l’incentivo è applicabile alle fasi relative alla
predisposizione dei diversi livelli di progettazione
(progetto di fattibilità tecnica ed economica, progetto
definitivo e progetto esecutivo), considerato che l’art.
113, comma 1, non lo esclude, anzi fa riferimento “….alle
prestazioni professionali e specialistiche necessarie per la
redazione di un progetto esecutivo…”, mentre le Linee
Guida dell’ANAC n. 1/2016 (delibera n. 973 del 14/09/2016)
lo escludono espressamente.
...
Passando all’esame del merito della richiesta, con il
quesito n. 1 il rappresentante legale dell’ente chiede
se il fondo ex art. 113 dlgs 50/2016 possa essere alimentato
anche con il 2% (in misura massima) sull’importo di gara dei
servizi e forniture, oltre che dei lavori.
Come osservato dalla Sezione Autonomie con
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
la nuova disciplina contenuta nell’art. 113 dlgs 50/2016
abolisce gli incentivi alla progettazione previsti dal
previgente art. 93, comma 7-ter, ed introduce nuove forme di
“incentivazione per funzioni tecniche”, contemplando gli
incentivi per funzioni tecniche svolte da dipendenti
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti
e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche,
prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della
spesa e la realizzazione corretta dell’opera.
La nuova disposizione ha subito suscitato dubbi
interpretativi, al pari di quella precedente che ha
provveduto a sostituire, sollecitando plurimi interventi
chiarificatori delle Sezioni regionali di controllo di
questa Corte (cfr. Sezione controllo Veneto
parere 07.09.2016 n. 353,
Sezione controllo Lombardia
parere 05.07.2016 n. 184 e
parere 16.11.2016 n. 333).
Premesso quanto sopra, il quesito n. 1, prima parte,
formulato dall’istante è stato recentemente affrontato e
risolto dalla Sezione controllo Lombardia, la quale ha
osservato come l’interpretazione logico-sistematica dei
commi 2 e 3 dell’art. 113 conduce alla conclusione per cui
“il termine” lavori a base d’asta “utilizzata nel secondo
comma, è da intendere in senso atecnico e quindi non
soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture.
Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone
che il responsabile unico del procedimento controlla
l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore
dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici
sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di
conformità per i servizi e le forniture e disciplina una
serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono
comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto
dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse
figure professionali che dovranno svolgere quelle attività
destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 e
la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare”
(Sezione controllo Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
La Sezione non ravvisa ragioni per discostarsi
dall’orientamento sopra richiamato.
Quanto alle indicazioni circa le concrete modalità operative
che l’amministrazione dovrebbe adottare, come richiesto
nella seconda parte del quesito n. 1, si tratta di un
profilo dell’istanza di cui non può che essere dichiarata
l’inammissibilità, vertendosi in tema definizione di
parametri di comportamento che sono rimessi alla
discrezionalità nonché alla potestà regolamentare ed alla
capacità negoziale (trattandosi di materia rimessa alla
contrattazione decentrata condotta sulla base di un apposito
regolamento interno: art. 113, comma 3) dell’ente.
La risposta fornita al quesito n. 1 consente a questa Sezione
di considerare assorbito il quesito n. 2 della
richiesta e di procedere direttamente all’esame del
quesito n. 3.
Sotto tale profilo, l’ente chiede se l’incentivo è
applicabile alle fasi relative ai diversi livelli di
progettazione (progetto di fattibilità tecnica ed economica,
progetto definitivo e progetto esecutivo).
Il dubbio discende, a parere della Sezione, da un’imperfetta
formulazione della disposizione che al comma 2 elenca in via
espressa e tassativa (come è rimarcato dall’uso
dell’avverbio “esclusivamente”) le prestazioni finanziabili
con il fondo (tra cui non sono menzionate quelle di
progettazione interna), mentre al comma 3 sancisce che l’80%
della quota di fondo venga ripartita tra “il responsabile
unico del procedimento ed i soggetti che svolgono le
funzioni tecniche di cui al comma 1”.
Il rinvio operato al
comma 1, infatti, include tra le prestazioni finanziabili
con il citato fondo anche le “prestazioni professionali e
specialistiche necessarie per la redazione di un progetto
esecutivo” ivi contemplate.
Sul punto si è espressa, sia pure in via incidentale, la
Sezione delle Autonomie nella già citata
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
in cui -come già osservato- è stato sottolineato che
la nuova
disposizione ha abolito “gli incentivi alla progettazione
previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter”, introducendo
“nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche…….
svolte da dipendenti esclusivamente per le attività di
programmazione della spesa per investimenti e per la
verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le
attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate, tese
ad assicurare l’efficacia della spesa e la realizzazione
corretta dell’opera.”
Gli incentivi, pertanto, riguardano in
via esclusiva e tassativa le attività indicate al comma 2.
Si tratta dell’opzione ermeneutica maggiormente conforme ai
criteri della legge delega del nuovo codice che, nel
contemplare le prestazioni destinatarie del finanziamento,
ha espressamente escluso l’applicazione degli incentivi alla
progettazione (art. 1, lett. rr, l. 11/2016).
L’interpretazione è stata, inoltre, accolta in sede di
lavori preparatori sul nuovo codice degli appalti pubblici,
come confermato dalla scheda di lettura n. 282/1 del
17.03.2016 sullo schema del dlgs 50/2016, ove si legge che
“la nuova disciplina non prevederebbe alcuna forma di
incentivo per la progettazione, come peraltro sembra
confermare il ricorso al termine esclusione contenuto nella
nuova formulazione della medesima lettera rr)” della
legge delega.
In coerenza con l’orientamento sopra delineato, anche l’ANAC
nelle proprie linee guida (delibera n. 973 del 14/09/2016,
citata anche dall’istante) ha ricordato che,
nel caso di progettazione interna, non potrà essere
applicata l’incentivazione del 2%, in quanto espressamente
vietata dalla legge delega con un principio recepito
all’art. 113, co. 2, dlgs 50/2016
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
ATTI AMMINISTRATIVI: Velo
su pareri e scritti difensivi. Neanche il Foia supera la
segretezza degli atti legali. FREEDOM OF INFORMATION ACT/ Le
linee guida dell'Anac sull'accesso civico.
Velo sui pareri legali e sugli atti difensivi. Neanche il
Foia supera la segretezza degli atti degli avvocati.
Le linee guida dell'Autorità nazionale anticorruzione, Anac,
sull'accesso civico generalizzato (articolo 5, comma 2, dlgs
33/2013, modificato dal dlgs 97/2013), approvate con
determinazione 28.12.2016 n. 1309, elencano le
eccezioni alla trasparenza della pubblica amministrazione.
Tra queste un posto di rilievo va assegnato al segreto
professionale degli avvocati.
In generale le eccezioni all'accesso civico generalizzato
possono essere assolute o relative. Vediamo alcuni dei casi
più rilevanti.
Pareri legali
Cominciamo dai pareri legali. L'Anac dichiara sottratti dal
diritto di accesso civico generalizzato i «pareri legali»
che attengono al diritto di difesa in un procedimento
contenzioso (giudiziario, arbitrale o amministrativa). Le
linee guida citano a sostegno gli articoli 2 e 5 del dpcm
del 26.01.1996, n. 200.
Questo articolo, per salvaguardare la riservatezza nei
rapporti fra difensore e difeso, dichiara sottratti
all'accesso i pareri resi in relazione a lite in potenza o
in atto e la inerente corrispondenza; gli atti defensionali;
la corrispondenza inerente agli affari trattati.
La materia dei pareri è stata più volte studiata dalla
giurisprudenza amministrativa, soprattutto con riferimenti
all'articolo 24 della legge 241/1990. Tar e Consiglio di
stato, in proposito, distinguono i pareri resi per un
procedimento amministrativo dai parei resi in relazione a un
contenzioso: i primi assoggettati al diritto di accesso e i
secondi invece esclusi.
Se il parere dell'avvocato mira a risolvere una questione di
diritto interna a un procedimento amministrativo, il parere
fa parte dell'attività istruttoria e gli argomenti del
parere diventano elemento della motivazione del
provvedimento finale.
Se il parere, invece, concerne una linea difensiva da
assumere, magari con segnalazione di criticità fonti di
possibili soccombenze, il diritto di difesa va protetto,
anche per le pubbliche amministrazioni.
Stando alle linee dell'Anac neanche la disciplina
dell'accesso civico generalizzato ha cambiato le carte in
tavola e la sfera della segretezza del legale non è
scalfita.
Altre ipotesi di segreto
Altre ipotesi di segreto tutelati dall'accesso civico
generalizzato sono il segreto bancario previsto
dall'articolo 7 del dlgs 385/1993 e le disposizioni sui
contratti secretati previste dall'articolo 162 del dlgs
50/2016 (codice dei contratti pubblici).
L'elenco delle esclusioni è nutrito: il segreto scientifico
e il segreto industriale di cui all'articolo 623 del codice
penale; il segreto sul contenuto della corrispondenza
(articolo 616 codice penale); il segreto professionale
(articolo 622 codice penale e 200 codice di procedura
penale).
Si prosegue con i divieti di divulgazione connessi al
segreto d'ufficio come disciplinato dall'articolo 15 del dpr
n. 3/1957.
Tra i casi di segreto previsti dall'ordinamento, rientra
anche quello istruttorio in sede penale, delineato dall'art.
329 codice di procedura penale: la disciplina sulla
conoscenza degli atti è regolata esclusivamente dal codice
di procedura penale.
Paradosso trasparenza
Altra fonte di circostanze che non possono essere svelate
neppure con un accesso civico generalizzato, quindi altra
fonte di limiti alla trasparenza è rappresentato, anche se
sembra un gioco di parole, dalla normativa sulla
trasparenza.
Per queste ipotesi la prima scelta è l'accesso parziale, con
oscuramento dei dati.
In ogni caso i divieti di divulgazione previsti dalla
normativa sulla trasparenza riguardano: i dati idonei a
rivelare lo stato di salute, e cioè qualsiasi informazione
da cui si possa desumere, anche indirettamente, lo stato di
malattia o l'esistenza di patologie dei soggetti
interessati, compreso qualsiasi riferimento alle condizioni
di invalidità, disabilità o handicap fisici e/o psichici
(articolo 22, comma 8, del Codice della privacy e articolo
7-bis, comma 6, dlgs n. 33/2013); i dati idonei a rivelare
la vita sessuale (articolo 7-bis, comma 6, dlgs n. 33/2013);
i dati identificativi di persone fisiche beneficiarie di
aiuti economici da cui è possibile ricavare informazioni
relative allo stato di salute ovvero alla situazione di
disagio economico-sociale degli interessati (articolo 26,
comma 4, dlgs n. 33/2013).
L'accesso tradizionale
Attenzione a distinguere l'accesso civico generalizzato
(articolo 5 dlgs 33/2013) dal tradizionale accesso
documentale (legge 241/1990). Le linee guida ricordano che
se non si può avere l'accesso civico, magari si può chiedere
l'accesso documentale, che è riservato a chi ha un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso. Di fatto, conclude sul punto l'Anac, con
riferimento alla conoscenza dei dati personali, l'istanza di
accesso generalizzato si trasforma in un'istanza di accesso
ai sensi della legge 241/1990.
C'è, infine, ancora un caso e cioè il diritto di accesso ai
propri dati personali previsto dall'articolo 7 del codice
della privacy, che ha una sua disciplina speciale anche per
la parte che riguarda i limiti (non si possono ottenere dati
di terzi)
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.01.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Accesso
civico, le partecipate non sfuggono al Foia anche se
quotate.
Società pubbliche controllate e partecipate soggette al
Foia.
Le linee guida dell'Anac (determinazione
28.12.2016 n. 1309 -
LINEE GUIDA RECANTI INDICAZIONI OPERATIVE AI FINI DELLA
DEFINIZIONE DELLE ESCLUSIONI E DEI LIMITI ALL'ACCESSO CIVICO
DI CUI ALL’ART. 5 CO. 2 DEL D.LGS. 33/2013) non escludono le imprese di
diritto privato, neppure quelle quotate, dall'accesso civico
generalizzato, anche se la trasparenza è limitata alle
attività di interesse pubblico. Resta il rischio che
l'accesso civico possa essere la scorciatoia per acquisire
informazioni sulle scelte aziendali in barba alla
concorrenza e con possibili effetti sul mercato borsistico
(per le quotate).
Il decreto legislativo cosiddetto Foia (dall'acronimo
inglese Freedom of information act) e cioè il dlgs
33/2016, modificato dal dlgs. 97/2016, ha disciplinato
l'accesso civico generalizzato (art. 5, comma 2 e seguenti),
che è diventato operativo il 23.12.2016. Accesso civico,
sulla carta, significa possibilità di avere dati e documenti
detenuti da p.a. o enti equiparati, da parte di chiunque,
senza dovere dichiarare un particolare interesse o dover
dare motivazione.
Tuttavia accesso civico non significa assenza assoluta di
limiti. Anzi la legge e le linee guida dell'Anac studiano in
via generale proprio limitazioni ed esclusioni (di interesse
pubblico e di interesse privato). La delibera dell'Anac (determinazione
28.12.2016 n. 1309),
oltre al resto, indica i soggetti cui si applicano gli
obblighi di trasparenza spinta.
Si tratta del paragrafo dell'ambito soggettivo. Sono citati
tre gruppi: pubbliche amministrazioni; enti pubblici
economici, ordini professionali, società in controllo
pubblico ed altri enti di diritto privato assimilati;
società in partecipazione pubblica ed altri enti di diritto
privato assimilati. Al primo gruppo (p.a.) le norme
sull'accesso civico generalizzato si applicano senza filtri.
Al secondo gruppo (enti pubblici economici, ordini,
società controllate) le norme del Foia si applicano in
quanto compatibili. Al terzo gruppo, l'accesso civico
generalizzato si applica in quanto compatibile, e
«limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all'attività
di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
dell'Unione europea».
Si pone dunque il problema in che termini il Foia si
applichi alle controllate e alle partecipate pubbliche.
Verifichiamo che cosa dicono le linee guida.
Controllate.
La disciplina del Foia si applica «in quanto compatibile»,
anche a enti pubblici economici e ordini professionali e a
società in controllo pubblico. Per le controllate si applica
la definizione adottata dal d.lgs. 175/2016 (Testo unico in
materia di società a partecipazione pubblica).
Stessa regola vale per associazioni, fondazioni e enti di
diritto privato comunque denominati, anche privi di
personalità giuridica, con bilancio superiore a
cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in modo
maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi
nell'ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui
la totalità dei titolari o dei componenti dell'organo
d'amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche
amministrazioni.
Partecipate.
Per le partecipate l'accesso civico generalizzato è
subordinato a una doppia verifica: la compatibilità astratta
dell'istituto; l'oggetto della richiesta (deve riguardare
attività di pubblico interesse). Anche per le partecipate,
le linee guida richiamano la definizione del dlgs 175/2016.
La medesima estensione riguarda le associazioni, le
fondazioni e gli enti di diritto privato, anche privi di
personalità giuridica, con bilancio superiore a
cinquecentomila euro, che esercitano funzioni
amministrative, attività di produzione di beni e servizi a
favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di
servizi pubblici.
Compatibilità.
Per le controllate e le partecipate si passa al setaccio
della compatibilità. Questo filtro riguarda, secondo l'Anac,
l'individuazione degli obblighi di pubblicare sul sito
dell'ente particolari notizie (si deve considerare la
singola organizzazione e i singoli organi).
Per l'accesso generalizzato e cioè la conoscibilità di dati
e documenti, non ci sono differenze tra i vari tipi di enti
(ordine, enti pubblici economici, società di diritto
privato). Pertanto, si legge nella deliberazione in
commento, l'accesso generalizzato, è da ritenersi senza
dubbio un istituto «compatibile» con la natura e le finalità
delle partecipate e delle controllate «considerato che
l'attività svolta da tali soggetti è volta alla cura di
interessi pubblici».
Rimane da stabilire i confini dell'attività di pubblico
interesse, entro i quali le partecipate sono soggette al
Foia. Secondo l'Anac possano rientrare le attività
qualificate di pubblico interesse da una norma di legge,
dagli atti costitutivi o dagli statuti delle società,
l'esercizio di funzioni amministrative, la gestione di
servizi pubblici e anche le attività strumentali.
Quotate.
Con riferimento alle partecipate pubbliche quotate, il
documento preparatorio delle linee guida, richiamando la
delibera Anac n. 831/2016 di approvazione del Piano
nazionale anticorruzione, sosteneva che le società quotate
partecipate da pubbliche amministrazioni, che siano o no in
controllo pubblico, sono considerate ai fini
dell'applicazione dell'accesso generalizzato, quali società
in partecipazione pubblica.
Questa constatazione non si trova più nel documento
definitivo, ma l'opzione formulata con la citata delibera
831/2016 non risulta modificata. E neppure vi è una chiara
presa di posizione difforme nel testo definitivo delle Linee
guida nel senso di eliminare le quotate dalla portata del
Foia.
Criticità.
Rimane il rischio della conoscibilità di dati az-iendali con
possibile compromissione della riservatezza di scelte di
impresa. Per le quotate vi è, invece, possibile oggettiva
interferenza tra accesso civico e rischi di turbativa del
mercato finanziario
(articolo ItaliaOggi del 07.01.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Atti
pubblici accessibili a tutti. Possibili documenti con
omissis a tutela della privacy. Pronte le linee guida di
Anac e garante privacy sul Foia (Freedom of information act).
Tutte le p.a. devono dotarsi di un ufficio per l'accesso
civico, istituire un registro delle istanze e devono
aggiornare i propri regolamenti sulla conoscenza di dati e
documenti.
Inoltre per l'accesso civico generalizzato valgono i limiti
della privacy: si devono dare i documenti con gli omissis,
quando è in ballo la riservatezza delle persone.
Sono queste alcune delle precisazioni contenute nelle Linee
guida dell'Autorità nazionale anticorruzione, Anac, redatte
d'intesa con il garante della privacy, recanti indicazioni
operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei
limiti all'accesso civico (Foia italiano, freedom of
information act) (LINEE GUIDA RECANTI INDICAZIONI
OPERATIVE AI FINI DELLA DEFINIZIONE DELLE ESCLUSIONI E DEI
LIMITI ALL'ACCESSO CIVICO DI CUI ALL’ART. 5 CO. 2 DEL D.LGS.
33/2013 -
determinazione 28.12.2016 n. 1309).
Le linee guida conformano il diritto di accesso civico
generalizzato, garantito su tutti i dati e documenti
detenuti dalle p.a. e da imprese pubbliche e società
partecipate, a favore di chiunque e anche senza motivazione
della richiesta. Le linee guida elencano i principi per
l'individuazione dei limiti e delle esclusioni dell'accesso.
Il risultato è che l'accesso civico appare ridimensionato
rispetto a eventuali aspettative di archivi aperti a
semplice richiesta. Per esempio si precisa che non si
possono chiedere alle p.a. la rielaborazione di dati.
In sostanza il materiale informativo non è a disposizione, e
bisogna confrontare il diritto a ottenere dati e documenti
con un numero molto alto di interessi pubblici e privati.
Così il diritto di accesso civico rischia di essere di
minore impatto rispetto al vecchio acceso ai documenti
amministrativi previsto dalla legge 241 del 1990.
Dal verso opposto le linee guida non soddisfano le richieste
delle società partecipate da pubbliche amministrazioni, che
rimangono assoggettate al Foia e temono di dovere essere
costrette a rivelare proprie notizie riservate con rischio
di favorire i propri concorrenti.
Le linee guida in esame danno prime indicazioni operative
per le pubbliche amministrazioni. La prima indicazione è
quella dell'adozione, anche nella forma di un regolamento
interno sull'accesso, di una disciplina che fornisca un
quadro organico e coordinato dei profili applicativi
relativi alle tre tipologie di accesso. L'Anac precisa che
sarebbe opportuno individuare gli uffici competenti a
decidere sulle richieste di accesso generalizzato e
provvedere a disciplinare la procedura per la valutazione
caso per caso delle richieste di accesso.
Da un punto di
vista organizzativo le linee guida invitano le
amministrazioni e gli altri soggetti tenuti a adottare anche
adeguate soluzioni organizzative. Per esempio sarebbe meglio
accentrare la competenza a decidere sulle richieste di
accesso in un unico ufficio e istituire un registro degli
accessi, così da consentire l'individuazione delle best practices.
Le novità sono in vigore dal 23.12.2016
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
APPALTI:
Oggetto: Chiarimenti in merito all’applicabilità
dell’istituto del soccorso istruttorio ai casi di mancata
presentazione, incompletezza o altre irregolarità relative
ai patti di integrità di cui all’art. 1, comma 17, l. n.
190/2012 - richiesta di parere.
---------------
Mancata presentazione, incompletezza o altre irregolarità
relative ai patti di integrità di cui all’art. 1, comma 17,
l. n. 190/2012 – soccorso istruttorio – ammissibilità.
●
I principi affermati dall’Autorità nella determinazione n.
1/2015 e nella delibera n. 227/2016, in ordine alla
legittimità della prescrizione, a pena di esclusione,
dell’accettazione delle condizioni contrattuali contenute
nella documentazione di gara, tra cui gli obblighi in
materia di contrasto alle infiltrazioni criminali negli
appalti previsti nell’ambito di protocolli di legalità/patti
di integrità, possono ritenersi validi anche in vigenza del
d.lgs. 50/2016.
●
La carenza della dichiarazione di accettazione del patto di
integrità o la mancata produzione dello stesso debitamente
sottoscritto dal concorrente possono considerarsi
regolarizzabili attraverso la procedura di soccorso
istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, del d.lgs. 50/2016,
con applicazione della sanzione pecuniaria stabilita dal
bando di gara.
Art. 83, comma 9, d.lgs. 50/2016 (Parere
sulla Normativa 21.12.2016 n. 1374 - rif. AG/54/16/AP - URCP
60/2016 - link a www.
---------------
Ritenuto in diritto
Al fine di rendere il richiesto parere, appare opportuno
segnalare, preliminarmente, che l’art. 1, comma 17, della l.
n. 190/2012 prevede espressamente che «Le stazioni
appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o
lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole
contenute nei protocolli di legalità o nei patti di
integrità costituisce causa di esclusione dalla gara».
Con riferimento alle disposizioni in tema di soccorso
istruttorio di cui all’art. 83 del d.lgs. n. 50/2016,
l’Autorità, riservandosi di esaminare la nuova disciplina
del soccorso istruttorio in un apposito atto a carattere
generale, ritiene che le novità apportate dal d.lgs. n.
50/2016 alla disciplina del soccorso istruttorio possano
consentire di confermare quanto affermato in vigenza del
D.lgs. n. 163/2006 nella determinazione n. 1/2015, recante «Criteri
interpretativi in ordine alle disposizioni dell’art. 38,
comma 2-bis e dell’art. 46, comma 1-ter del D.lgs.
12.04.2006, n. 163» e nella delibera n. 227/2016, in
ordine alla legittimità della prescrizione, a pena di
esclusione, dell’accettazione delle condizioni contrattuali
contenute nella documentazione di gara, tra cui gli obblighi
in materia di contrasto alle infiltrazioni criminali negli
appalti previsti nell’ambito di protocolli di legalità/patti
di integrità. Ciò, in quanto tali strumenti sono posti a
tutela di interessi di rango sovraordinato e gli obblighi in
tal modo assunti discendono dall’applicazione di norme
imperative di ordine pubblico.
Ne consegue, altresì, che la carenza della dichiarazione di
accettazione del patto di integrità o la mancata produzione
dello stesso debitamente sottoscritto dal concorrente
possono essere considerate “essenziali” ai sensi
dell’art. 83, comma 9, del codice, in quanto indispensabili
per la partecipazione alla gara.
Tali carenze e/o irregolarità possono considerarsi, inoltre,
regolarizzabili attraverso la procedura di soccorso
istruttorio di cui al citato comma 9, con applicazione della
sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in quanto:
1) il riferimento ivi contenuto anche agli “elementi”
e non solo alle dichiarazioni, consente di riferire
l’istituto del soccorso istruttorio a tutti i documenti da
produrre in gara;
2) si tratta di elementi che non afferiscono all’offerta
tecnica ed economica (espressamente escluse dall’ambito di
applicazione dell’istituto). Si evidenzia, inoltre, che
-come espressamente chiarito nell’art. 83, comma 9, del
codice- «La sanzione è dovuta esclusivamente in caso di
regolarizzazione».
Il Consiglio
ritiene, nei limiti di cui in motivazione, che:
• i principi affermati dall’Autorità nella determinazione n.
1/2015, recante «Criteri interpretativi in ordine alle
disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis e dell’art. 46, comma
1-ter, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163» e nella delibera
n. 227/2016, in ordine alla legittimità della prescrizione,
a pena di esclusione, dell’accettazione delle condizioni
contrattuali contenute nella documentazione di gara, tra cui
gli obblighi in materia di contrasto alle infiltrazioni
criminali negli appalti previsti nell’ambito di protocolli
di legalità/patti di integrità, possono ritenersi validi
anche in vigenza del d.lgs. 50/2016, sebbene le predette
delibere siano state adottate sotto il vigore del d.lgs.
163/2006;
• la carenza della dichiarazione di accettazione del patto
di integrità o la mancata produzione dello stesso
debitamente sottoscritto dal concorrente possono
considerarsi regolarizzabili attraverso la procedura di
soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, del d.lgs.
50/2016, con applicazione della sanzione pecuniaria
stabilita dal bando di gara. |
APPALTI:
Clausole di estensione da valutare caso per caso.
Antitrust e Anac sull'adesione postuma agli appalti pubblici.
Le clausole di adesione postuma a un appalto pubblico costituiscono una
prassi di grave elusione dei principi di concorrenza e devono essere
limitate e adeguate a precise indicazioni sull'oggetto e sul valore del
contratto, nonché sull'applicazione soggettiva.
È quanto si legge nel
comunicato congiunto AGCM-ANAC 21.12.2016 siglato, appunto, dai
presidenti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e
dell'Autorità nazionale anticorruzione che ha trattato la tematica degli
affidamenti di appalti pubblici mediante adesione postuma a gare d'appalto
bandite da altra stazione appaltante.
Si tratta degli affidamenti posti in essere attraverso la mera adesione agli
esiti di una gara bandita da un'altra amministrazione e confezionata per
soddisfare esclusivamente le esigenze e il fabbisogno di quest'ultima. Agcm
e Anac premettono che si tratta di una prassi che «deve essere stigmatizzata
in quanto potenzialmente elusiva dell'obbligo di programmazione delle
acquisizioni di cui all'art. 21, dlgs 50/2016 e lesiva dei principi che
presiedono l'affidamento dei contratti pubblici e della concorrenza» .
Non si tratta però di una prassi illegittima in senso assoluto perché, si
legge nel comunicato, «la legittimità della clausola di estensione deve
essere scrutinata caso per caso» per verificare se siano stati bilanciati
due principi normativi di derivazione comunitaria: quello della libera
concorrenza e di parità di trattamento e l'altro concernente la
concentrazione ed aggregazione della domanda.
Da qui le indicazioni che i due presidenti, Giovanni Pitruzella e Raffaele
Cantone, forniscono alle stazioni appalti per evitare che l'adozione ella
clausola alteri il confronto concorrenziale a valle. Innanzitutto occorre
che la clausola di adesione postuma indichi in modo sufficientemente chiaro,
determinato quale sarà la perimetrazione delle stazioni appaltanti che
potranno eventualmente aderire; inoltre sarà necessario indicare il valore
economico complessivo massimo delle eventuali adesioni ed estensioni
consentite, ai fini sia del calcolo del valore stimato della soglia di
applicazione della normativa Ue, sia della determinazione dei requisiti
speciali e delle cauzionali.
In secondo luogo sarà opportuno prevedere che l'oggetto dell'appalto e il
contenuto delle offerte siano definiti in modo che il confronto
concorrenziale si estenda anche alle specifiche prestazioni contrattuali
richieste dalle stazioni appaltanti che potrebbero aderire successivamente
agli esiti della gara. Infine l'adesione successivamente disposta dovrà
comunque avvenire senza alcuna rinegoziazione delle condizioni prestazionali
ed economiche formulate in sede di offerta dal soggetto aggiudicatario e
definite dalla lex specialis della gara originaria.
Il comunicato conclude che le condizioni in esso definite devono essere
scrupolosamente seguite perché diversamente si arrecherebbe un grave vulnus
alla concorrenza e al sistema di affidamento dei contratti pubblici violando
il principio di determinabilità dell'oggetto del contratto e stravolgendone
sotto il profilo economico-qualitativo l'originaria previsione (articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
APPALTI: Rup,
linee guida Anac non sono retroattive.
Cantone ha precisato che valgono dal 22.12.2016.
Le linee guida Anac entrano in vigore al momento della loro
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e non sul sito web
Anac; le linee guida 3/2016 sul Rup (Responsabile unico del
procedimento) si applicano alle gare i cui bandi sono stati
pubblicati dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale; è
legittimo effettuare la verifica della documentazione
amministrativa di gara anche con una commissione interna.
Sono questi i chiarimenti che ha fornito l'Autorità
nazionale anticorruzione con il
comunicato del Presidente 14.12.2016 siglato dal presidente Raffaele Cantone e pubblicato il
22 dicembre sulle Linee guida n. 3/2016 aventi ad oggetto
nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del
procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni.
Si
tratta delle linee guida che hanno sostituito le precedenti
disposizioni del dpr 207/2010 relative al responsabile del
procedimento per la realizzazione di lavori pubblici e alle
sue funzioni e compiti (parte II, titolo I, capo I del
vecchio regolamento del 2010).
Un primo punto affrontato dal comunicato è quello
dell'individuazione delle procedure soggette
all'applicazione delle linee guida e della loro entrata in
vigore un punto dibattuto in dottrina. Nel comunicato si
legge che le linee guida 3/2016 (ma il principio vale per
tutte le linee guida) «sono entrate in vigore il 22/12/2016,
data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale prevista
dall'art. 213, comma 2, del codice», e quindi non dal
momento delle loro pubblicazione sul sito web dell'Anac.
Per quel che attiene all'applicazione, l'Anticorruzione ha
affermato che le linee guida n. 3 «si applicano alle
procedure per le quali i bandi o avvisi con cui si indice la
procedura di scelta del contraente siano pubblicati
successivamente all'entrata in vigore delle linee guida
medesime, nonché alle procedure e ai contratti in relazione
ai quali, alla data di entrata in vigore delle linee guida,
non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le
offerte».
Un secondo punto trattato dal comunicato riguarda il
soggetto abilitato a verificare la documentazione
amministrativa delle offerte. Nelle linee guida 3/2016 si
afferma che essa può essere svolta dal Rup, da un seggio di
gara istituito ad hoc oppure, se presente nell'organico
della stazione appaltante, da un apposito ufficio-servizio a
ciò deputato, sulla base delle disposizioni organizzative
proprie della stazione appaltante. Fra i quesiti posti all'Anac
in questo periodo era stata evidenziata la questione
inerente la legittimità dell'operato di una commissione
aggiudicatrice composta interamente da soggetti interni.
Il comunicato chiarisce che in questi casi, ammessi dalla
disciplina transitoria del codice finche non sarà completata
la disciplina sui commissari di gara esterni, la commissione
giudicatrice interna «può essere assimilata all'istituzione
di un seggio di gara ad hoc e, pertanto, in tal caso, la
verifica della documentazione amministrativa può essere ad
essa rimessa».
Come condizione l'Anac prevede che in ogni
caso, il Rup dovrà esercitare una funzione di coordinamento
e controllo; l'obiettivo è quello di «assicurare il corretto
svolgimento delle procedure, e adottare le decisioni
conseguenti alle valutazioni effettuate»
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017). |
APPALTI: L’errore
progettuale causa l’esclusione. Appalti. Le linee guida Anac
sugli illeciti professionali.
Gli errori progettuali che comportano varianti, con aumento
di costo delle opere pubbliche, diventano colpe da punire
con il cartellino rosso e l'esclusione dalle gare d'appalto
fino a tre anni delle imprese o dei progettisti colti in
fallo dalle stazioni appaltanti.
È quello che prevede
l'ultima versione delle Linee guida dell'Anticorruzione sui
"gravi illeciti professionali" (Linee
guida n. 6, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50,
recanti «Indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto che possano considerarsi significative per la
dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui
all’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice» -
determinazione 16.11.2016 n. 1293), cioè le "macchie" sul
curriculum di costruttori, fornitori e professionisti che
d'ora in avanti potranno essere valutate e punite dalle
amministrazioni con l'esclusione dalle gare.
Le linee guida, che entreranno in vigore il giorno stesso
della pubblicazione in «Gazzetta», servono a dare attuazione
a una delle novità più rilevanti (e delicate) del codice
appalti: la possibilità di eliminare dalle gare gli
operatori inadempienti o che hanno tentato di influenzare a
proprio vantaggio gli esiti di precedenti procedure di gara.
Anche in appalti affidati da amministrazioni diverse da
quelle che arrivano a contestare la carenza di
professionalità, se giudicata così grave da compromettere la
correttezza e l'integrità dell'impresa.
Insieme all'introduzione dell'errore progettuale, le Linee
guida approvate in via definitiva dall'Anac, evidenziano
altre novità introdotte dopo il passaggio del provvedimento
in Consiglio di Stato. Tra queste, il chiarimento che la
valutazione dell'integrità del curriculum vale anche nei
contratti sottosoglia, per i subappaltatori e per le imprese
ausiliarie in caso di avvalimento.
Inoltre, le linee guida
ora forniscono indicazioni più puntuali sui soggetti sui
quali devono scattare le verifiche e sulle dichiarazioni da
includere nel Documento di gara unico europeo (Dgue) da
parte delle imprese, specificando che le procedure di
verifica delle autodichiarazioni dei concorrenti sono a
carico delle stazioni appaltanti.
L'Authority conferma poi in tre anni il periodo massimo di
esclusione dalle gare per le imprese. Il calcolo della
sanzione va effettuato a partire dall'iscrizione del caso
nel casellario informatico dell'Autorità (o dalla data del
provvedimento di condanna non definitivo) e non dalla data
di commissione del fatto come invece chiedeva il Consiglio
di Stato.
Infine, ribadisce l'Autorità, gli esempi riportati
nelle linee guida servono solo a dare una bussola alle
amministrazioni che possono anche dare rilievo altri
comportamenti da sanzionare «purché oggettivamente
riconducibili» alle indicazioni previste dal codice appalti
(articolo 80, comma 5). Sul punto, va peraltro rilevato che
è appena intervenuta una sentenza del Tar Calabria. La
pronuncia stabilisce che la scelta di escludere un'impresa
utilizzando la formula dei gravi illeciti professionali va
motivata con rigore.
Con questo provvedimento salgono a sei le linee guida varate
dall'Authority di Raffaele Cantone in attuazione del codice
degli appalti. E altre sei sono in corso di approvazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.12.2016). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il consiglio ai
consiglieri. Il vicesindaco esterno non guida l'assemblea.
Il vicario del primo cittadino può presiedere
la commissione elettorale.
In un comune con popolazione inferiore a 15 mila abitanti è
possibile affidare la carica di vicepresidente del consiglio
comunale al vicesindaco-assessore esterno di un comune?
Il vicesindaco facente funzioni può assumere le funzioni di
presidente della commissione elettorale comunale e
partecipare alle relative operazioni?
Per quanto riguarda la prima questione, nei comuni con
popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, secondo quanto
dispone l'art. 64, comma 3, del Tuel non vi è
incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed
assessore nella rispettiva giunta, mentre la nomina di
assessori esterni al consiglio fa parte del contenuto
facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4,
del medesimo decreto legislativo.
Per quanto concerne le
funzioni di presidente del consiglio comunale l'art. 39 del
richiamato decreto legislativo n. 267/2000, al comma 3,
prevede che nei comuni sino a 15 mila abitanti le stesse
sono svolte dal sindaco, «salvo differente previsione
statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni
vicarie del presidente del consiglio, quando lo statuto non
dispone diversamente, sono esercitate dal consigliere
anziano. Pertanto, è la normativa statale che, anche in
carenza di specifiche disposizioni dell'ente, individua il
vicario del presidente del consiglio.
Nel caso di specie, lo
statuto del comune conferma al sindaco il potere di
presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora
il consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere
l'assemblea, la presidenza è assunta dal consigliere che,
nella graduatoria di anzianità occupa il posto
immediatamente successivo». Anche dal regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale emerge la conferma
della titolarità della presidenza in capo al sindaco; la
stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di
assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è
assunta dal vice sindaco e ove questi sia assente o
impedito, dall'assessore più anziano di età.
La disposizione
regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma
statutaria. Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente
anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n.
267/00 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali
«nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo
statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del
28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la citata
disposizione statutaria dovrebbe essere prevalente sulla
norma regolamentare.
In ogni caso, per quanto concerne la
possibilità, nei comuni fino a 15 mila abitanti di fare
presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al
vice sindaco non consigliere comunale, il Consiglio di
stato, con il parere n. 94/96 del 21/02/1996 (richiamato dal
successivo parere n. 501 del 14/06/2001), con riferimento
all'estensione dei poteri del vicesindaco, ha puntualizzato
che il vice sindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni
di presidente del consiglio comunale soltanto nel caso in
cui il vicario rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nel caso di
specie, sia un assessore esterno, è stato ritenuto che il
medesimo non possa presiedere il consiglio, in quanto non
può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che
non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione
nell'orientamento del Consiglio di stato, espresso con
pareri n. 94/96 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno confermato la linea
interpretativa già seguita, in materia, dal ministero
dell'interno. I
n particolare l'Alto consesso, rilevando che le funzioni del
sindaco sospeso vengono svolte dal vice sindaco in virtù
dell'art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha
stabilito che nell'ipotesi di vicarietà, nessuna norma
positiva identifica atti riservati al titolare della carica
e vietati a chi lo sostituisce. Tale considerazione di
ordine testuale risulta corroborata da riflessioni di
carattere sistematico, atteso che la preposizione di un
sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la
vacanza implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri
spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale
connessa alla vacanza medesima.
Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di continuità
dell'azione amministrativa dell'ente postula che in ogni
momento vi sia un soggetto legittimato ad adottare tutti i
provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse
pubblico è necessario riconoscere al vicesindaco reggente
pienezza di poteri. Nel caso di specie compete al
vicesindaco assumere anche le funzioni di presidente della
commissione elettorale in sostituzione del sindaco assente
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, decide
l'ente. Il gruppo misto unipersonale non è vietato.
La materia è disciplinata dalle norme statutarie e regolamentari.
La costituzione del gruppo misto può essere disciplinata, dal regolamento
sul funzionamento del consiglio comunale, nel senso di prevedere che lo
stesso sia composto da almeno due consiglieri, impedendo, pertanto, la
formazione del gruppo misto monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e
la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei
singoli enti locali.
Il ministero dell'interno ha già in precedenza espresso
il proprio orientamento evidenziando che, «in assenza di disposizioni che
escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche
con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere ad
un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla
valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire ad un gruppo
consiliare».
Tuttavia, nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale vieta
espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto uni personale;
pertanto, va da sé che l'avviso espresso in altra circostanza non può essere
adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in esame. A tal
proposito il Consiglio di stato, con sentenza n. 3357 del 2010, ha affermato
che, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento
del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non
previo ritiro.
Conseguentemente, poiché la materia dei gruppi consiliari è interamente
demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito
che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla
normativa in questione (articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Competenze delle Commissioni consiliari.
1) Le commissioni consiliari sono
articolazioni interne del consiglio, organi strumentali
dello stesso ('il consiglio si avvale di commissioni') e, in
quanto tali, sono prive di una competenza autonoma e
distinta da quella attribuita all'organo assembleare. Come
rilevato dal Ministero dell'Interno 'le commissioni
consiliari operano sempre e comunque nell'ambito della
competenza dei consigli.'.
2) La fonte di riferimento della disciplina e funzionamento
delle commissioni consiliari è il regolamento consiliare.
Spetta, di conseguenza, unicamente al consiglio interpretare
le disposizioni che si è dato in relazione alle commissioni
consiliari.
Il Consigliere comunale chiede un parere in merito alle
competenze delle commissioni consiliari. Più in particolare,
pone dei quesiti afferenti la sussistenza o meno
dell'obbligo per il Presidente di una commissione permanente
di:
- convocare la stessa nei casi in cui ne venga fatta
richiesta da almeno un terzo dei consiglieri assegnati 'qualora
non vengano proposti all'ordine del giorno atti di indirizzo
o l'espletamento di un'attività di controllo politico, ai
sensi dell'articolo 42, comma 1, del decreto legislativo
267/2000'; [1]
- convocare udienze conoscitive e, in seno ad esse, far
partecipare persone estranee all'Amministrazione
espressamente indicategli dai richiedenti la convocazione
della commissione in riferimento;
- costituire una 'commissione speciale'.
L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 stabilisce che: 'Quando lo statuto lo preveda, il
consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio
seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i
poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e
le forme di pubblicità dei lavori'.
Dalla norma citata deriva come la fonte di riferimento della
disciplina e funzionamento delle commissioni consiliari sia
il regolamento consiliare. Spetta, di conseguenza,
unicamente al consiglio interpretare le disposizioni che si
è dato sulle commissioni consiliari e, in particolare,
quelle contenute all'interno del Titolo IV del proprio
regolamento. Di seguito, pertanto, si forniranno una serie
di considerazioni generali sull'istituto in riferimento che
possano risultare di ausilio nella risoluzione delle
questioni poste.
In via generale si ricorda che le commissioni consiliari
sono delle articolazioni interne del consiglio. Esse sono
organi strumentali dei consigli ('il consiglio si avvale
di commissioni') e, in quanto tali, costituiscono
componenti interne all'organo assembleare, prive di una
competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
Come rilevato dal Ministero dell'Interno in propri pareri 'le
commissioni consiliari operano sempre e comunque nell'ambito
della competenza dei consigli'. [2]
Con riferimento al primo quesito posto, relativo alla
richiesta di convocazione di una commissione da parte di
almeno un terzo dei consiglieri comunali che la compongono,
si ritiene di poter riproporre, nei limiti della
compatibilità, le argomentazioni espresse dal Ministero
dell'Interno con riferimento alla questione della richiesta
di convocazione dei consigli comunali da parte di un quinto
dei consiglieri (articolo 39, comma 2, TUEL).
[3]
Ciò anche in considerazione della norma di cui all'articolo
18, comma 5, del regolamento consiliare la quale prevede
che: 'Il presidente della commissione è tenuto a
convocare la commissione consiliare ove richiesto [...]
dalla rappresentanza in commissione di almeno un terzo dei
consiglieri comunali. Detta convocazione dovrà avvenire
entro dieci giorni dalla data della richiesta, che dovrà
contenere le questioni proposte all'ordine del giorno',
presentando, dunque, una formulazione alquanto affine a
quella contenuta all'articolo 39, comma 2, TUEL.
In particolare, sussiste un costante orientamento
ministeriale [4]
secondo cui le istanze possono essere dichiarate
improcedibili da parte del presidente del consiglio
comunale, o dal sindaco, soltanto qualora le richieste
vertano o su un oggetto che per legge è manifestamente
estraneo alle competenze del collegio consiliare oppure su
un oggetto illecito o impossibile, non potendo tali soggetti
sindacare nel merito le richieste avanzate dal prescritto
quorum di consiglieri.
Ancora, il Ministero dell'Interno, a commento dell'articolo
39, comma 2, TUEL, ha affermato che «la dizione
legislativa questioni' e non deliberazioni o atti formali
conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non
rientranti nella previsione del citato comma 2 dell'articolo
42 del TUEL non debba necessariamente essere subordinata
alla successiva adozione di provvedimenti da parte del
consiglio comunale». Infatti, secondo il Ministero, la
trattazione di questioni che, pur non comprese
nell'elencazione di cui all'articolo 42, comma 2, del
decreto legislativo 267/2000, attengano all'ambito del
controllo rientra nella competenza del consiglio comunale,
in qualità di organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, ai sensi del comma 1 del medesimo
articolo 42.
In conclusione, le considerazioni sopra espresse e relative
all'organo consiliare nel suo complesso paiono applicabili
anche al caso delle commissioni consiliari, con la
precisazione che l'ambito di competenza delle stesse non ha
ampiezza analoga a quella del consiglio bensì limitata al
settore di riferimento di ciascuna di esse.
[5] A ciò
segue, altresì, la considerazione che, qualora la richiesta
di convocazione da parte della minoranza verta su questioni
che costituiscono espressione dell'attività di indirizzo e
di controllo politico amministrativo, le stesse devono
essere pertinenti con il settore di competenza della
commissione di cui si è richiesta la convocazione.
Sotto tale ultimo aspetto si ritiene, tuttavia, che le
istanze di convocazione siffatte non possano tradursi in
eccessive richieste di riunioni delle commissioni
consiliari, in contrasto con i principi di economicità ed
efficienza cui deve essere sempre improntata l'azione
amministrativa. Ciò in uno con la considerazione che la
legge pone specifici istituti a tutela del diritto di
controllo politico-amministrativo dei consiglieri (es.
interrogazioni, interpellanze, mozioni) da utilizzare con le
modalità e nelle sedi apposite. Ancora, il regolamento
comunale prevede la possibilità di istituzione di
commissioni speciali e/o di udienze conoscitive che
potrebbero, nei limiti e con le modalità indicate nel
regolamento, costituire strumenti adeguati per affrontare
particolari questioni.
Passando a trattare della seconda questione posta, afferente
le 'udienze conoscitive' si rileva che l'articolo 18,
comma 6, del regolamento consiliare recita: 'Il
presidente della commissione può convocare anche udienze
conoscitive su determinati affari, invitando a partecipare
alle singole riunioni, senza diritto di voto, persone
estranee alla commissione, in qualità di esperti o quali
rappresentanti di enti od associazioni, categorie economiche
o sindacali o di comitati riconosciuti di cittadini. La
partecipazione di rappresentanti delle strutture periferiche
dello stato sarà concordata cin il sindaco'. Il
successivo comma 7 dispone, poi, che 'La discussione di
merito sull'oggetto dell'udienza è in ogni caso svolta dopo
la fine dell'audizione degli invitati'.
Nel ribadire l'esclusiva competenza consiliare
all'interpretazione delle norme del proprio regolamento, a
titolo collaborativo si rileva che da una lettura coordinata
delle norme regolamentari pare potersi dedurre che, mentre
nel caso disciplinato all'articolo 18, comma 5, il
presidente della commissione è obbligato a convocare la
stessa, in presenza degli ulteriori requisiti richiesti
dalla disposizione citata, nel caso di cui al comma 6,
invece, in capo al presidente sussiste un facoltà ('può
convocare') e non già un obbligo.
Il regolamento, invece, non fornisce chiari elementi dai
quali poter desumere se, una volta disposta la convocazione
di una udienza conoscitiva, proposta, in ipotesi, dalla
minoranza dei consiglieri assegnati ad essa con indicazione,
altresì, di un elenco di persone estranee alla commissione
di cui si richiederebbe la partecipazione, il presidente,
esercitata la sua discrezionalità circa l'indizione di tale
udienza conoscitiva sia o meno vincolato ad invitare i
soggetti indicati nella proposta di convocazione.
Cercando di fornire una risposta che si fondi sul dato
normativo, si rileva che l'articolo 18, comma 6, del
regolamento è strutturato nel senso di attribuire al
presidente l'iniziativa circa l'indizione di tali udienze
conoscitive e, quindi, anche l'iniziativa circa la
partecipazione di soggetti estranei alla commissione. Nulla
vieta, peraltro, che alla convocazione di una tale udienza
si possa addivenire sulla base di una proposta non
vincolante indirizzata al presidente della commissione.
Parrebbe a chi scrive maggiormente coerente col dato
normativo nonché con le prerogative proprie del presidente
della commissione attribuire a questi la valutazione circa
il se e quali persone eventualmente invitare all'udienza
conoscitiva tra quelle segnalate nella proposta di
convocazione.
Con riferimento all'ultima questione posta afferente le c.d.
'commissioni speciali', si rileva che l'articolo 15,
comma 1, del regolamento del consiglio comunale recita: 'Quando
la giunta o il consiglio ne ravvisino l'opportunità, il
consiglio potrà deliberare la costituzione di speciali
commissioni consiliari per l'esame di particolari affari di
competenza del consiglio o per procedere ad eventuali
inchieste conoscitive.' Il successivo comma 2 dispone,
poi, che: 'Le commissioni speciali sono costituite con le
medesime procedure e modalità previste per le commissioni
permanenti, a meno che il consiglio non decida diversamente
all'atto della loro costituzione'.
Il tenore letterale della norma citata pare non destare
perplessità circa l'individuazione dell'organo competente
alla costituzione di dette commissioni che va individuato
nel consiglio comunale. [6]
---------------
[1] Si ritiene possa farsi rientrare in tale quesito
anche quello concernente la sussistenza di un diritto a
richiedere la convocazione di tali commissioni relativamente
alla trattazione di 'questioni preparatorie' all'eventuale e
successivo esercizio del diritto di controllo politico -
amministrativo spettante ai singoli consiglieri comunali.
[2] Ministero dell'Interno, parere del 03.04.2014.
[3] Recita l'articolo 39, comma 2, TUEL: 'Il presidente del
consiglio comunale o provinciale è tenuto a riunire il
consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni,
quando lo richiedano un quinto dei consiglieri, o il sindaco
o il presidente della provincia, inserendo all'ordine del
giorno le questioni richieste'.
[4] Si vedano, tra gli altri, i pareri del Ministero
dell'Interno del 16.07.2016 e del 16.10.2015.
[5] Si fa presente che l'articolo 12, comma 1, del
regolamento del consiglio comunale prevede che in seno al
consiglio comunale siano costituite quattro commissioni
permanenti ordinarie con competenze in specifici settori
indicati (art. 12, comma 1, lett. b)); due commissioni
permanenti di garanzia e controllo con competenze nei
settori 'statuto' e 'verifica attuazione del programma'
(art. 12, comma 1, lett. c)) e commissioni speciali 'per
l'esame di particolari affari di competenza del consiglio o
per procedere ad eventuali inchieste conoscitive' (art. 12,
comma 1, lett. d) e art. 15, comma 1).
[6] Quanto, invece, alle modalità di convocazione delle
riunioni di detta commissione, a seguito dell'avvenuta sua
istituzione, trova applicazione l'articolo 18 del
regolamento del consiglio comunale (facente parte del Capo
III rubricato 'Attività delle commissioni consiliari
permanenti e speciali') e, pertanto, la richiesta di
convocazione potrà provenire, tra l'altro, dalla
rappresentanza in commissione di almeno un terzo dei
consiglieri comunali (20.12.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Appalti,
piena responsabilità solidale se passa il sì.
IL NODO DEL RAPPORTO TRA IMPRESE COMMITTENTI E
APPALTATORI.
Il disco verde della Consulta apre ora
la strada al referendum in materia di appalti, che,
attraverso l’ennesima modifica al decreto Biagi del 2003,
punta a ripristinare la responsabilità solidale “piena” tra
committente e appaltatore (negli appalti e subappalti
privati - gli appalti pubblici restano, invece, esclusi dal
quesito, e quindi dall’eventuale consultazione popolare, in
quanto disciplinati da una normativa differente).
Il tema è piuttosto complesso e delicato. In punta di
diritto, un eventuale ok alle urne comporterebbe un
sostanzioso restyling dell’articolo 29, comma 2, del Dlgs
276, con l’effetto di cancellare, con un tratto di penna, le
ultime modifiche fatte dal Parlamento nel 2012, frutto di un
lungo e delicato lavorìo tecnico tra decisori politici e
parti sociali, per attenuare questa “responsabilità
oggettiva” in capo alle imprese committenti (di solito,
medio-grandi), senza intaccare le tutele per i lavoratori
nei casi di inadempimenti legati al rapporto d’impiego
(essenzialmente, retribuzioni e contributi).
Va subito detto, tuttavia, che la disciplina della
responsabilità solidale è già oggi vigente, e nei fatti
estesa a tutta la catena degli appalti e subappalti (anche
per “spronare” l’impresa committente a scegliere
appaltatori seri e solvibili).
Il punto è che fino al 2012 il meccanismo era piuttosto
confuso, con il lavoratore che, nella pratica, per far
valere le proprie ragioni creditizie, chiamava in giudizio
il solo committente, e non il suo datore di lavoro, cioè
l’appaltatore. E così, finiva che l’impresa-madre, non
potendo difendersi, era tenuta a pagare direttamente
l’interessato, salvo poi agire in rivalsa nei confronti
dell’appaltatore.
A rendersi conto, indirettamente, delle criticità del
meccanismo della responsabilità solidale, specie se estesa a
tutta la catena degli appalti, fu per primo il decreto
Bersani del 2006, che previde una procedura alternativa
basata sull’acquisizione di documentazione attestante la
regolarità contributiva, che, se attuata, avrebbe fatto
venir meno la responsabilità solidale.
La norma fu poi abrogata prima di entrare in vigore perché
eccessivamente complessa; ma l’idea di “alleggerire”
la posizione del committente è stata ripresa dalla legge
Fornero, e sono stati introdotti due correttivi: da un lato,
è stato concesso alla contrattazione collettiva nazionale di
derogare alla responsabilità solidale prevedendo metodi e
procedure di controllo della regolarità degli appalti,
sostitutivi appunto dalla responsabilità solidale;
dall’altro è stato previsto l’obbligo per il lavoratore di
chiamare in giudizio congiuntamente il suo datore e il
committente, consentendo a quest’ultimo di chiedere il
beneficio della preventiva escussione (il lavoratore deve
agire in via esecutiva prima nei confronti dell’appaltatore,
e solo successivamente, se incapiente, nei confronti del
committente).
Ebbene queste due modifiche legislative sono oggetto, oggi,
del quesito referendario della Cgil, che chiede infatti di
cancellarle, portando così le lancette indietro alla
normativa del 2003 ed escludendo, inoltre, la possibilità
per un Ccnl (un accordo con il sindacato a livello
nazionale) di poter derogare la responsabilità solidale
negli appalti (ma si lascia intatta la facoltà di ottenere
la medesima deroga tramite i contratti aziendali e
territoriali previsti dall’articolo 8 della legge Sacconi
del 2011).
Per i lavoratori, se passassero questi correttivi, non
cambierebbe nulla (visto che sono tutelati anche dal fondo
di garanzia presso l’Inps che assicura le ultime tre
retribuzioni e il Tfr maturato). Per le imprese, invece,
spiega Arturo Maresca, ordinario di diritto del Lavoro alla
Sapienza di Roma, «si tornerebbe nell’incertezza e a
contenziosi incontrollabili e nei quali il committente non
potrebbe neppure esercitare a pieno il diritto di difesa
costituzionalmente garantito, non potendo, infatti, a fronte
di una richiesta, per esempio, di pagamento dello
straordinario o delle differenze per svolgere mansioni
superiori, avere cognizione dei fatti costitutivi dei
diritti vantati. Questo perché il committente non può
controllare il dipendente dell’appaltatore, né ingerirsi
nella gestione del rapporto di impiego, in quanto ciò
determinerebbe l’illegittimità dell’appalto» (articolo Il Sole 24 Ore del
12.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Stazioni
appaltanti, via alla cabina di regia.
Si è insediata la Cabina di Regia (Cdr) sulle stazioni
appaltanti prevista dal dlgs 50/2016 sul codice dei
contratti pubblici. Obiettivo dell'istituto è quello di
effettuare una ricognizione sullo stato di attuazione del
codice stesso, nonché delle difficoltà riscontrate dalle
stazioni appaltanti nella fase di applicazione, al fine di
proporre eventuali soluzioni correttive e di miglioramento.
A tal fine, la Cabina di regia ha deciso di lanciare una
consultazione rivolta, appunto, alle stazioni appaltanti che
resterà aperta sino al 16.01.2017.
Questa prevede il ricorso a un questionario, indirizzato a
ciascun responsabile unico del procedimento (Rup) volto a
rilevare le principali difficoltà attuative e a raccogliere
proposte di riformulazione normativa in vista
dell'elaborazione del provvedimento correttivo del codice
che potrebbe essere pronto a fine 2017.
I risultati saranno elaborati su base regionale dagli
Osservatori, con il supporto del loro organo di
coordinamento tecnico l'Istituto per l'innovazione e
trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale
(Itaca), e da questi trasmessi in tempo utile alla Cabina di
regia.
Quest'ultima sarà composta da un presidente, che sarà
Antonella Manzione, capo dipartimento per gli affari
giuridici e legislativi della Presidenza del consiglio, e da
un nucleo operativo con Elisa Grande, capo dell'ufficio
legislativo del ministero delle infrastrutture, Diana
Agosti, capo dipartimento per le politiche europee della
Presidenza del consiglio, Luigi Ferrara, capo dipartimento
dell'amministrazione generale del ministero dell'economia,
Alessandra del Verme, Ispettore generale della ragioneria
dello stato, Michele Corradino, componente dell'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac), Ludovico Agrò, direttore
generale del ministero per la coesione territoriale, Maria
Pia Giovannini in rappresentanza dell'Agenzia per l'Italia
digitale, Luigi Marroni, amministratore delegato Consip, tre
rappresentanti delle regioni e province autonome e tre
rappresentanti delle autonomie locali.
Il presidente potrà nominare fino a dieci esperti competenti
e invitarli a partecipare alle riunioni della Cabina di
regia e alla stessa potranno partecipare rappresentanti di
altri organismi, pubblici o privati, operanti negli appalti
pubblici e concessioni. Entro il 31/03/2017 e, poi, ogni tre
anni, la Cdr approverà la relazione di controllo da inviare
alla Commissione Ue ed effettuerà le comunicazioni alla
stessa
(articolo ItaliaOggi del 10.01.2017
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Più
percorsi per la trasparenza della Pa.
Accesso civico ampliato ai documenti non soggetti a
pubblicazione ma mancano le sanzioni per chi non risponde.
A battere tutti
sul tempo è stato -e non poteva essere altrimenti- il
dipartimento della Funzione pubblica di Marianna Madia,
“padre” del decreto Foia sulla trasparenza della Pa; il
dipartimento ha pubblicato online il modulo per il nuovo
accesso già il 23 dicembre. Esattamente il giorno del
debutto, senza attendere le istruzioni dell’Anticorruzione
di Cantone, che sono arrivate a stretto giro, il 28
dicembre.
Rispetto alla bozza in consultazione, le linee guida Anac
sull’accesso hanno semplificato molto le richieste di
conoscenza dei dati trasmesse online. Non più, come sembrava
in un primo momento, domande da corredare con firma
digitale, Spid (Sistema pubblico di identità digitale,
ovvero la password unica per tutta la Pa) e posta
elettronica certificata, ma via libera a una semplice mail
agli uffici in possesso dei dati o all’Urp con fotocopia del
documento di identità.
È partita così la rivoluzione del Foia italiano (il
Freedom of information act, dal nome della prima legge
americana pioniera della trasparenza), il Dlgs 97/2016 al
quale tutte le amministrazioni pubbliche dovevano adeguarsi,
appunto, entro il 23 dicembre scorso e che spalanca per
cittadini e associazioni la porta su un ventaglio più ampio
di documenti e informazioni. Ma la lista delle eccezioni da
tenere riservate comincia già ad allungarsi e obbligherà gli
enti a una complessa valutazione. Senza contare poi che per
chi fa “orecchie da mercante” alle richieste non sono
previste sanzioni.
Il nuovo accesso generalizzato va oltre gli obblighi di
trasparenza previsti finora. La conoscenza non è più
limitata alle informazioni che comunque la Pa deve (o
meglio, avrebbe dovuto) rendere note online (il cosiddetto
accesso civico semplice), ma si estende anche a tutti gli
altri atti, finora non conoscibili, perché non soggetti a
pubblicazione obbligatoria.
Per citare un esempio, prendiamo le spese per il personale
di un Comune. Finora la trasparenza (Dlgs 33/2013) imponeva
di rendere noto solo il costo annuale complessivo per gli
organici. Ora, invece, con il Foia sarà possibile chiedere
(e ottenere) la spesa per un singolo ufficio o distinta per
funzioni o ruoli. E ancora: i genitori potranno chiedere
alla scuola dei figli il certificato di collaudo
dell’edificio o conoscere il grado di rischio sismico.
Questo strumento di controllo è in mano a chiunque; non ci
sono limitazioni soggettive o posizioni specifiche da
vantare: tutti possono richiedere i dati, anche se non
collegati a un proprio interesse da tutelare. E senza
obbligo di motivazione concreta. Ma come dimostra anche il
grafico a fianco, il percorso da seguire può risultare
complesso, soprattutto in presenza di controinteressati.
L’Italia arriva al controllo diffuso sulla macchina pubblica
in ritardo: introdotto per la prima volta negli Stati Uniti
nel 1966, il Foia è già legge in quasi 90 Stati (in Francia
dal 1978, nel Regno Unito dal 2000).
Come funziona
A spiegare i meccanismi di questa nuova trasparenza sono per
prime le linee guida dell’Autorità anticorruzione. Riassume
Ida Nicotra, consigliera Anac con delega alla trasparenza:
«Il diritto di accesso diventa la regola e le eccezioni sono
le deroghe, tutte da motivare». Già, perché
l’amministrazione quando dice “no” a una richiesta di
accesso deve specificare nel dettaglio le ragioni del
rifiuto.
«È quantomeno opportuno -si legge nelle linee guida-
indicare le categorie di interessi pubblici o privati che si
intendono tutelare e le fonti normative che prevedono
l’esclusione o la limitazione del diritto di accesso». Non
sono ammessi, quindi, rifiuti «generici»; l’amministrazione
deve indicare nel dettaglio (entro 30 giorni dal ricevimento
della richiesta) in quale eccezione all’accesso ricade la
richiesta.
«Consigliamo agli enti pubblici di dotarsi al più presto di
un regolamento per l’accesso, in cui indicare a quale
sportello indirizzare le domande -continua Nicotra- e di
istituire un registro di tutte le domande presentate».
Quello del registro è un suggerimento che servirà, poi, all’Anac
per avviare il monitoraggio a un anno dalla partenza del
Foia, insieme con il dipartimento della Funzione pubblica.
Ma -come specificano le linee guida- il registro è utile
anche alle amministrazioni «che in questo modo rendono noto
su quali documenti, dati o informazioni è stato consentito
l’accesso in una logica di semplificazione delle attività».
Le eccezioni
Sono di due tipi: assolute e relative. Quelle assolute sono
anche automatiche, nel senso che non necessitano di
valutazione discrezionale da parte della Pa: oltre al
segreto di Stato comprendono tutti i casi di divieto di
accesso già indicati in altre leggi. Le linee guida Anac ne
elencano alcuni: segreto statistico, militare o bancario,
industrale o professionale.
Le eccezioni relative, invece, vanno viste dall’ente caso
per caso, bilanciando l’interesse al controllo pubblico con
quello alla tutela di situazioni specifiche. E qui l’elenco,
del decreto prima e il dettaglio delle linee guida poi, è
lungo. Gli interessi che prevalgono sulla trasparenza
possono riguardare, ad esempio, la sicurezza pubblica,
indagini penali o ispezioni.
Molto delicato, poi, è il fronte della «tutela della
politica economica dello Stato». Secondo l’Anac, nel
concetto di stabilità finanziaria che va preservata possono
rientrare le informazioni «in possesso di Banca d’Italia,
Mef, Consob o Isvap per la salvaguardia della stabilità del
sistema finanziario». Non solo: il “no” potrebbe coprire
anche informazioni su singole banche o assicurazioni per
evitare -sottolinea sempre l’Anac- «l’effetto contagio sul
sistema finanziario italiano». Per capirci: un dossier
scottante come quello di Mps potrebbe restare “coperto” in
molti aspetti, proprio in nome della stabilità finanziaria.
Ma il Foia all’italiana ha anche un altro punto debole: la
mancanza di sanzioni, amministrative e pecuniarie, a carico
di chi non garantisce l’accesso. Per difendersi da
un’amministrazione inerte o non trasparente c’è solo la via
del ricorso, sia interno che al Tar (articolo Il Sole 24 Ore del
09.01.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ecoreati,
cosa fare per «chiudere». Per le emissioni in atmosfera poco
sopra i limiti Aia è sufficiente evitare che si ripetano
Controlli ambientali. La delibera del Consiglio federale
Ispra individua le prescrizioni tipo per l’estinzione delle
contravvenzioni.
Si compie un primo
importante passo verso l’uniformità dei controlli
ambientali. Con la
delibera 29.11.2016
Doc 82-16/CF, il consiglio federale di Ispra ha
approvato le linee guida “Ecoreati” che individuano le
prescrizioni-tipo per l’estinzione delle principali
contravvenzioni, indica gli orientamenti interpretativi
largamente condivisi e gli indirizzi al Snpa per gli
orientamenti controversi. Fornisce, inoltre, i criteri guida
generali per valutare l’entità delle conseguenze ambientali
dei reati.
Lo spunto risale alla procedura estintiva di molti reati di
natura contravvenzionale prevista dalla nuova parte
sesta-bis del Dlgs 152/2006, aggiunta dalla legge 68/2015
sugli ecoreati.
L’attuazione
Ora le singole Arpa dovranno recepire il contenuto delle
linee guida per armonizzare le attività operative in base
all’articolo 7 del regolamento del consiglio federale.
L’obiettivo è uniformare i controlli, la cui disarmonia
rappresenta per le imprese uno dei principali fattori di
frizione poiché, a fronte della identità di fattispecie, la
disomogeneità del controllo induce una inevitabile disparità
di trattamento e altera le regole della concorrenza.
La delibera è frutto del coordinamento del gruppo di lavoro
“Ecoreati n. 61 – Area 8” affidato ad Arpa Toscana, cui,
oltre a Ispra, hanno preso parte le Agenzie di: Trento,
Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio,
Liguria, Lombardia, Umbria e Veneto. La delibera, valorizza
anche le indicazioni che le diverse procure della Repubblica
hanno fornito nel proprio territorio e rappresenta il
raccordo tra attività giuridiche e tecniche (espresse da due
specifici sottogruppi).
I contenuti
Il provvedimento è denso di contenuti tra i quali rilevano
gli orientamenti interpretativi largamente condivisi e gli
indirizzi al Snpa per quelli controversi. Fornisce, inoltre,
i criteri guida generali per valutare l’entità delle
conseguenze ambientali dei reati e individua le
prescrizioni-tipo per l’estinzione delle principali
contravvenzioni.
Tra gli orientamenti condivisi, si segnalano in particolare
due chiarimenti:
il verbale di prescrizioni ha natura di atto tipico di
polizia giudiziaria; quindi, è sottratto alle impugnazioni
previste per i provvedimenti amministrativi;
il procedimento di estinzione è e resta un procedimento
penale regolato, anche in sede di indagini, dalle norme del
Codice di procedura penale (anche in ordine all’assistenza
della difesa).
Tra gli indirizzi al Snpa per gli orientamenti controversi
(fatti salvi i diversi indirizzi eventualmente emessi dalle
procure della Repubblica di riferimento, anche per singoli
aspetti che risultassero divergenti rispetto al quadro
condiviso) emergono quelli relativi ai criteri di
ammissibilità alla procedura in termini di danno o suo
pericolo.
Il documento rileva che in alcune fattispecie, pur in
presenza di superamenti di limiti di legge, è possibile
impartire la prescrizione consistente nell’adottare
accorgimenti tecnici volti ad evitare il ripetersi della
violazione, previa analisi delle cause. È il caso di
emissioni in atmosfera che superano in maniera lieve i
limiti imposti dall’Aia «se ci sono elementi di giudizio che
depongono a favore della sussistenza di effetti non
significativi sull’ambiente».
L’applicazione
Il meccanismo estintivo previsto dalla parte sesta-bis del
Dlgs 152/2006 non riguarda però tutte le contravvenzioni in
materia ambientale, ma, in base all’articolo 318-bis,
esclusivamente quelle previste dal medesimo Dlgs 152/2006.
La delibera 82 del Consiglio federale Ispra ritiene,
pertanto, escluse le fattispecie previste in fonti normative
diverse dal Codice ambientale, anche nei casi in cui il
trattamento sanzionatorio è individuato tramite rinvio a
disposizioni di legge contenute nel medesimo Codice (ad
esempio l’articolo 16 del Dlgs 36/2003 in tema di
discariche).
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Non autorizzati: tre possibilità per
regolarizzare. Procedure. In assenza di danni all’ambiente.
La
delibera 29.11.2016 Doc 82-16/CF
del Consiglio federale Ispra prende posizione anche sulle
contravvenzioni previste dal Codice ambientale per
l’esercizio di attività condotte senza autorizzazione, a
prescindere dal verificarsi di un danno o di un pericolo
concreto e attuale di danno alle risorse ambientali,
urbanistiche o paesaggistiche protette.
Per questi reati la procedura estintiva non potrà essere
attivata se, al pari di tutte le altre ipotesi
contravvenzionali che rientrano nella nuova parte sesta-bis
del Dlgs 152/2006, si accerta la sussistenza di un danno o
di un suo pericolo concreto e attuale. Mentre la possibilità
di applicazione della procedura estintiva ai reati di natura
formale è generalmente ammessa, la questione più controversa
riguarda il contenuto delle prescrizioni da impartire al
trasgressore.
Il consiglio federale di Ispra suggerisce l’orientamento per
regolarizzare le diverse fattispecie e indica tre diverse
tipologie di contenuto delle prescrizioni:
sospensione totale dell’attività, la prescrizione da
impartire dovrà essere del tipo «sospendere le attività non
autorizzate fino all’eventuale conseguimento della relativa
autorizzazione....». I termini per l’adeguamento dovranno
essere congrui rispetto all’esigenza di garantire
tecnicamente una sospensione delle attività che non
provochi, a sua volta, danno o pericolo di danno
all’ambiente.
regolarizzazione dell’attività mediante una comunicazione
e/o dichiarazione da parte del titolare (ad esempio adesione
all’autorizzazione alle emissioni in via generale), la
prescrizione sarà del tipo «presentare la
comunicazione/dichiarazione .....». Il termine per la
regolarizzazione sarà quello strettamente necessario per
produrre la comunicazione/dichiarazione;
attività svolte senza rinnovo dell’autorizzazione o con
modifiche non autorizzate, due tipologie di prescrizioni:
presentazione dell’istanza, con termine strettamente
necessario per produrre la domanda; conseguimento del titolo
abilitativo, con termine congruo con i tempi
dell’amministrazione titolare del procedimento.
La delibera n.82, al fine di individuare la carenza del
danno ambientale (necessaria per l’applicazione della
procedura estintiva di cui alla parte sesta-bis del Dlgs
152/2006), cerca di colmare alcune lacune terminologiche
della legge 68/2015 e fornisce le definizioni di alcuni
termini tra i più dibattuti.
Con sentenza 46170 del 03.11.2016, la Corte di Cassazione ha
analizzato anche il senso dei termini “significativo” e
“misurabile” riferiti al deterioramento. In ordine al primo,
la Corte ha asserito che «denota senz’altro incisività e
rilevanza»; sul secondo ha affermato che «può dirsi di ciò
che è quantitativamente apprezzabile o, comunque,
oggettivamente rilevabile» a prescindere dall’esistenza di
limiti. Però, la compromissione e il deterioramento
significativi non possono farsi «automaticamente derivare
dal mero superamento dei limiti»
(articolo Il Sole 24 Ore del
09.01.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cinque
regimi differenziati per calcolare nuove assunzioni.
Personale. Intrico di regole in attesa dei correttivi
chiesti dai sindaci.
Dopo le novità
introdotte dalla legge di bilancio per il 2017 (legge
232/2016), è il momento di tirare le fila per quanto
riguarda le assunzioni degli enti locali. Ad inizio anno,
infatti, le amministrazioni sono ai cancelli di partenza per
concretizzare la programmazione del fabbisogno del personale
per il prossimo triennio.
Spese di personale
Resta la norma principale da verificare e da rispettare. Per
i comuni al di sopra dei mille abitanti l’aggregato delle
spese di personale non può essere nel 2017 superiore alla
media delle spese di personale degli anni 2011-2013 in virtù
dell’articolo 1, comma 557, e seguenti della legge 296/2006.
La scorsa estate è stata abrogata la disposizione che
prevedeva anche il contenimento del rapporto tra spese di
personale e spese correnti. I comuni al di sotto dei mille
abitanti dovranno, invece, contenere la spesa rispetto a
quella del 2008.
Assunzioni
Le regole di turn-over per quantificare gli accessi a tempo
indeterminato dall’esterno hanno subito negli ultimi anni
continue modifiche. Oggi è tutto definito nell’articolo 1,
comma 228, e seguenti della legge 208/2015. Innanzitutto, la
capacità assunzionale, è data da due quote: una di
competenza e una a “residuo”. Le quote restanti utilizzabili
sono però solamente quelle del triennio precedente da
verificarsi in senso dinamico. Nello specifico, quest’anno,
si potrà utilizzare il budget non già consumato del triennio
2014-2016, come risultante dalle percentuali applicate di
esercizio in esercizio.
La quota di competenza per le assunzioni dei dipendenti dei
livelli, va, invece, calcolata nel 2017 con riferimento alle
cessazioni avvenute nel 2016. Le percentuali attualmente
vigenti sono:
- Per i comuni al di sotto dei 10mila abitanti che
rispettano il rapporto dipendenti/popolazione definito dal
Dm 24.07.2014: 75% della spesa dei cessati nel 2016;
- Per i comuni al di sotto dei 10mila abitanti che non
rispettano tale parametro: 25% della spesa dei cessati nel
2016;
- Per i comuni dai 10mila abitanti in poi: 25% della spesa
dei cessati nel 2016;
- Per i comuni fino a mille abitanti: il turn-over è di una
assunzione per ogni cessazione intervenuta nel 2016 (con
possibilità di usare quote residue non utilizzate dal 2007
in poi);
- Per le unioni di comuni: 100% della spesa dei cessati nel
2016.
Il budget risultante è quello utilizzabile per assunzioni
dall’esterno. Rimane valida la possibilità di avviare
procedure di mobilità e qualora il trasferimento avvenga tra
enti che hanno limitazioni (anche diverse) al turn-over e
nel rispetto del pareggio di bilancio, tale passaggio può
definirsi “neutro”, ovvero non erode le capacità
assunzionali così come sopra calcolate.
Lavoro flessibile
Le limitazioni si spostano, a questo punto, anche sulle
assunzioni a tempo determinato, con contratti di formazione
e lavoro, di somministrazione, di lavoro accessorio, ai
rapporti formativi e alle collaborazioni coordinate e
continuative. In questo caso, ai sensi dell’articolo 9,
comma 28, del Dl 78/2010, la spesa complessiva non può
essere superiore a quella sostenuta per le stesse tipologie
nel 2009. Non vanno più inclusi nel calcolo gli incarichi a
contratto stipulati ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del
Dlgs 267/2000 (articolo Il Sole 24 Ore del
09.01.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
decalogo della buona Pec. Per l'avvenuta consegna meglio la
ricevuta completa. COMMERCIALISTI/
Un documento del Consiglio sulla Posta elettronica
certificata.
Decalogo dei commercialisti per l'utilizzo della Posta
elettronica certificata.
Lo ha messo a punto il Consiglio nazionale, col
documento 14.12.2016 (VADEMECUM
SULL’UTILIZZO DELLA PEC) che descrive le buone pratiche
per un uso corretto della Pec, evidenziando i comportamenti
che possono vanificare la validità della trasmissione o la
sua efficacia probatoria in sede di giudizio.
Anzitutto, il professionista che invia un messaggio via Pec
deve accertarsi che la configurazione della ricevuta di
avvenuta consegna preveda quella «completa», ossia
formata dal file «postacert.eml», contenente il
messaggio originale completo di testo ed eventuali allegati,
e il file «daticert.xml» che riproduce l'insieme di
tutte le informazioni relative all'invio (mittente, gestore
del mittente, destinatari, oggetto, data e ora dell'invio,
codice identificativo del messaggio).
La scelta della ricevuta breve, formata dal file «daticert.xml»
e da un estratto del messaggio originale, o di quella
sintetica, formata solo dal file «daticert.xml», non
è invece consigliata da parte del Cndcec. Il commercialista
deve ricordarsi che l'esito positivo o negativo dell'invio
viene comunicato al mittente entro 24 ore, deve verificare
sempre che la propria casella Pec sia capiente e di non
eccedere i limiti dimensionali del messaggio e degli
allegati, di solito pari a 30 mb complessivi. Non è
consentito, inoltre, indicare al registro delle imprese
indirizzi Pec diversi da quello specifico, univocamente
riferito alla società iscritta.
Per esempio, non è possibile comunicare un proprio indirizzo
in qualità di commercialista di fiducia come domicilio
digitale di un'impresa, e non è nemmeno possibile indicare
lo stesso indirizzo in relazione a diverse società. Il
documento consiglia poi di sottoscrivere sempre con firma
digitale le istanze e le dichiarazioni presentate via Pec
alla pubblica amministrazione.
In generale, gli allegati che necessitano di firma devono
essere sottoscritti con firma digitale in quanto la Pec è
esclusivamente una modalità di invio e non ha valore di
sottoscrizione dei documenti. In giudizio, il commercialista
deve allegare, per dimostrare l'invio o il ricevimento di un
documento tramite Pec: la stampa dell'atto notificato in
formato Pdf con firma digitale, se si tratta di allegato, le
ricevute di accettazione e consegna completa della Pec, il
certificato di firma digitale del notificante, il
certificato di firma del gestore di Pec.
Ancora, il decalogo consiglia di adottare sistemi di
conservazione a norma delle Pec e degli allegati, evitando
la semplice archiviazione dei file su pc o la stampa delle
ricevute. Il commercialista deve poi ricordare che la
conservazione a norma è necessaria per le Pec con allegati
sottoscritti con firma digitale, in modo da mantenere il
valore legale di scrittura privata degli allegati anche
oltre la scadenza del certificato di sottoscrizione.
Infine, i professionisti devono comunicare tempestivamente
qualsiasi variazione dell'indirizzo Pec all'ordine di
appartenenza
(articolo ItaliaOggi del 07.01.2017). |
ENTI LOCALI: Partecipate,
cda a rischio multe. Se non ha convocato l'assemblea per
adeguare lo statuto. Le conseguenze
della mancata proroga ad opera del dl 244. Sanzioni fino a
6.197 euro.
Le «società a controllo pubblico» che non hanno provveduto
alla modifica del relativo statuto per adeguarlo alle
disposizioni di cui all'art. 11 del dlgs 175/2016 risultano,
ad oggi, inadempienti ad una specifica disposizione
normativa, con rischi sanzionatori sugli amministratori.
È questo l'effetto della mancata proroga del termine,
previsto dall'art. 26, comma 1° del decreto legislativo in
oggetto rubricato «Testo unico materia di società a
partecipazione pubblica».
Tale proroga (prevista al 31 marzo
nelle bozze provvisorie del decreto Milleproroghe) non è
stata, infatti, inserita nella versione definitiva del
decreto legge 244/2016 pubblicato sulla G.U. n. 304 del
30/12/2016.
Le disposizioni che dovevano essere
adeguate
In primo luogo è da ricordare che le modifiche statutarie in
scadenza al 31/12/2016, secondo le disposizioni di cui
all'art. 26, comma 1° del dlgs 175 riguardavano
esclusivamente le società a controllo pubblico, mentre per
quelle a partecipazione pubblico-privata (art. 17, comma 1)
gli obblighi di modifica scadono il 31/12/2017.
In merito alle clausole da modificare esse risultano dettate
soprattutto dall'art. 11, comma 9, in relazione al quale il
cda deve delegare la gestione della società a un solo
amministratore, inoltre, si deve contemplare l'esclusione
della carica di vicepresidente (salvo la previsione di
incarico di sostituzione del presidente senza riconoscimento
di compensi aggiuntivi), il divieto di corrispondere gettoni
di presenza o premi di risultato deliberati dopo lo
svolgimento dell'attività, il divieto di corrispondere tfm
ai componenti gli organi sociali, il divieto di istituire
organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in
tema di società.
Nelle società per azioni a controllo
pubblico, poi, si ricorda che, ai sensi dell'art. 3, comma
2, la revisione legale dei conti non può essere affidata al
collegio sindacale. Ne deriva che nelle società che ciò
contemplino, si dovrà prevedere anche statutariamente la
nomina di un revisore esterno (persona fisica o società di
revisione) che affianchi il collegio sindacale.
Nelle srl, di contro, da un lato ai sensi dell'art. 11,
comma 5, dovrà escludersi la possibilità di ricorrere ad
amministrazioni disgiuntive o congiuntive a due o più soci
(essendo d'obbligo l'amministratore unico o il cda) e,
dall'altro, si dovrà prevedere anche statutariamente (o
attraverso l'atto costitutivo) la nomina di un organo di
controllo o di un revisore a prescindere dai limiti
dimensionali della società (art. 3, comma 2) .
Gli effetti della mancata modifica
Ci si chiede a questo punto, cosa succeda a quelle società
(e a quanto risulta sono la stragrande maggioranza delle
società a controllo pubblico) che, entro il 31/12/2016, non
abbiano provveduto alle richieste modifiche statutarie.
Il quesito, in altri termini, consiste nel capire se le
norme di legge siano vigenti a prescindere dalle modifiche
statutarie e se si possano ipotizzare specifiche sanzioni in
capo agli amministratori che non abbiano provveduto alla
convocazione della prevista assemblea straordinaria.
Circa il primo punto sembra difficile ipotizzare una
prevalenza dello statuto sulla legge e quindi appare da
ritenersi che le previsioni del dlgs 175/2016 si applichino
dal 01.01.2017 a prescindere da eventuali modifiche
statutarie (anzi le disposizioni in tema di revisione
parrebbero applicabili addirittura a partire dalla entrata
in vigore della legge). Ne deriva, ad esempio, che i
vicepresidenti delle società non possano essere remunerati
per detto incarico a partire dal 01.01.2017.
Circa la
responsabilità della società in tema di mancata modifica
degli statuti, pare indiscutibile che essa si trasferisce in
capo agli amministratori qualora, entro il 31/12/2016 essi
non abbiano provveduto alla convocazione dell'assemblea
straordinaria (o qualificata nelle srl) con all'ordine del
giorno le modifiche statutarie previste dal dlgs 175/2016.
Nel caso, in cui, infatti, entro il 31/12/2016 gli
amministratori (e i sindaci in sede sostitutiva) a tale
convocazione non abbiano provveduto essi risultano passibili
delle sanzioni di cui all'art. 2631 c.c., trattandosi di una
specifica omissione di convocazione dell'assemblea dei soci
per “caso previsto dalla legge” (la sanzione amministrativa
pecuniaria all'uopo prevista va da 1.032 a 6.197 euro per
ciascun membro dell'organo di amministrazione e controllo).
Qualora, di contro, l'assemblea fosse stata convocata, anche
magari poi risultata deserta per mancato raggiungimento dei
quorum costitutivi, nessuna responsabilità potrà essere
ascritta in capo ad amministratori e sindaci. L'oggettiva
incertezza della disposizione normativa a seguito della
declamata incostituzionalità della legge delega (legge n.
124/2015) così come disposto dalla Corte costituzionale
25/11/2016 n. 251, tuttavia, finiranno probabilmente per far
ritenere non applicabili le sanzioni in commento.
L'introduzione della (auspicabile) proroga del termine per
le modifiche statutarie nell'ambito della conversione del dl
244/2016 (entro il mese di febbraio), potrebbe mettere, da
ultimo una pietra, tombale sulla controversa questione
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Caos
procedimenti disciplinari. Il segretario comunale non può
avviare l'iter e sanzionare. Lo ha
detto il tribunale di Termini Imerese. Ma quello di Imperia
la pensa diversamente.
Caos sui procedimenti disciplinari.
Secondo il giudice del lavoro di Termini Imerese, in
provincia di Palermo, il segretario comunale non può al
contempo essere il soggetto che avvia il procedimento
disciplinare e l'organo che irroga la sanzione. Secondo il
Tribunale di Imperia, al contrario, non vi sono problemi.
Recenti notizie della stampa locale siciliana (si
legga qui -
anche qui -
anche qui -
anche qui) informano che il Tribunale di Termini
Imerese ha adottato una sentenza di annullamento di due
sanzioni disciplinari disposte dal segretario del comune di
Bagheria, consistenti nella sospensione con privazione della
retribuzione, per complessivi 11 mesi di una dirigente
comunale, condannando il comune al risarcimento degli
stipendi non percepiti.
Al di là delle questioni di merito, il giudice del lavoro di
Termini Imerese ha rilevato un vizio di forma, considerato
dirimente.
Secondo gli organi di stampa, nella sentenza è specificato
che è l'ufficio per i procedimenti disciplinari l'unico
organo competente per disposizione legislativa inderogabile,
a irrogare la sanzione disciplinare per i casi più gravi,
come appunto il caso della sanzione della sospensione con
privazione dello stipendio per oltre dieci giorni.
Secondo la sentenza, il segretario comunale avrebbe potuto
solo limitarsi ad istruire i fatti e proporre la sanzione
all'ufficio competenze, ma non adottare anche il
provvedimento disciplinare.
La sentenza afferma che l'idea che un soggetto segnali
qualcosa a se stesso, quale ufficio per i procedimenti
disciplinari, appare decisamente incongrua.
Non solo: si aggiunge che nominare il segretario come
componente monocratico dell'ufficio per i procedimenti
disciplinari è da considerare intrinsecamente contraria a
norma imperativa di legge o comunque elusiva della stessa.
La ragione di queste valutazioni evidentemente discende
dalla considerazione del pericolo di ledere il
contraddittorio, derivante dalla concentrazione in un unico
soggetto del potere di istruire il procedimento disciplinare
e concluderlo.
Tale concentrazione è prevista espressamente dall'articolo
55-bis, comma 1, del dlgs 165/2001 solo per i casi di minore
gravità, per i quali la sanzione applicabile non può andare
oltre la sospensione dal servizio con privazione della
retribuzione per più di dieci giorni e solo se il soggetto
competente abbia la qualifica dirigenziale. In assenza di
dirigenti e per tutte le sanzioni più gravi, competente è un
soggetto teoricamente diverso da chi segnala i fatti,
appunto l'ufficio per i procedimenti disciplinari.
La decisione del Tribunale di Termini Imerese, tuttavia,
appare in contrasto con le indicazioni dell'Anac, che con
nota 06.11.2015 n. 148861 ha ritenuto opportuno prediligere
un soggetto super partes, quale il segretario
comunale, nella nomina nell'ufficio dei procedimenti
disciplinari.
A sua volta, il Tribunale di Imperia, con decreto 08.08.2016
(relativo a uno dei «furbetti del cartellino» del
comune di Sanremo) ha statuito che il citato articolo 55-bis
del dlgs 165/2001 non ha previsto che «l'ufficio
competente per i procedimenti disciplinari dovesse avere
anche il requisito della collegialità», ritenendo, di
conseguenza, che tale ufficio possa essere rappresentato «anche
da una sola persona ed interna all'ente». Ammettendo,
dunque, l'identità tra il soggetto che conduce «l'accusa»
e quello titolare del potere di concludere il procedimento,
eventualmente irrogando la sanzione amministrativa.
Si tratta dell'ennesima situazione di confusione, dovuta a
una normativa imprecisa, come troppo spesso accade. Il
necessario nuovo intervento sul dlgs 116/2016 riguardante i
«furbetti del cartellino», legato alla sentenza della
Corte costituzionale 251/2016, oppure l'attuazione
dell'articolo 17 della legge 124/2015 da cui deriva la
riscrittura del testo unico sul pubblico impiego, dovrebbero
essere l'occasione per rivedere e chiarire gli assetti
procedurali e delle competenze dei procedimenti
disciplinari, allo scopo di evitare simili contrasti
interpretativi
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017). |
APPALTI: Ai
bandi piace ancora la carta. Obbligo di pubblicare gli
avvisi di appalti sui quotidiani. Il
differimento è nel Milleproroghe in attesa del decreto del
Mit. Paga l'aggiudicatario.
Prorogato l'obbligo di pubblicare bandi e avvisi di gara per
appalti e concessioni sui quotidiani.
È questa una delle numerose proroghe contenute nel decreto
legge cosiddetto «Milleproroghe» (n. 244) pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 304 del 30.12.2016, giorno di
emanazione del provvedimento di urgenza.
Per la pubblicità sui quotidiani è l'articolo 9, comma 4 del
provvedimento a disporre che «all'articolo 216, comma 11,
terzo periodo, del decreto legislativo 18.04.2016, n.
50, le parole: «Fino al 31.12.2016» sono sostituite
dalle seguenti: «Fino alla data di entrata in vigore del
decreto di cui all'articolo 73, comma 4».
Il differimento agisce su una delle norme transitorie del
nuovo codice dei contratti pubblici e in particolare su
quella che consentiva di applicare, dal 19 aprile (data di
entrata in vigore del decreto 50/2016) al 31.12.2016
la disciplina del precedente codice «De Lise» (163/2006).
Il differimento non è a una data certa, ma ha come
riferimento l'emanazione di un decreto ministeriale previsto
dal citato articolo 73, comma 4, del nuovo codice dei
contratti pubblici che, dopo avere previsto l'obbligo di
pubblicare bandi e avvisi di gara sulla piattaforma digitale
dei bandi di gara presso l'Anac, in cooperazione applicativa
con i sistemi informatizzati delle regioni e le piattaforme
regionali di e-procurement, rinvia la disciplina organica
della materia ad un decreto del ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con l'Anac. Il
decreto in realtà doveva essere emesso entro metà ottobre ma
al momento è in fase di definizione al dicastero di Porta
Pia.
Nel provvedimento ministeriale dovranno essere «definiti gli
indirizzi generali di pubblicazione al fine di garantire la
certezza della data di pubblicazione e adeguati livelli di
trasparenza e di conoscibilità, anche con l'utilizzo della
stampa quotidiana maggiormente diffusa nell'area
interessata». Nel provvedimento ministeriale si dovrà
stabilire «la data fino alla quale gli avvisi e i bandi
devono anche essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana, serie speciale relativa ai
contratti pubblici».
In attesa di questo decreto attuativo del nuovo codice
continueranno ad applicarsi le disposizioni del decreto
163/2006 che fa obbligo alle stazioni appaltanti di
pubblicare avvisi e bandi di gara pubblica «per estratto su
almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale
e su almeno due a maggiore diffusione locale nel luogo ove
si eseguono i contratti». Tutto ciò, però, non a carico
delle amministrazioni bensì a carico dell'aggiudicatario del
contratto di appalto che, entro 60 giorni
dall'aggiudicazione, è tenuto a rifondere la stazione
appaltante delle spese sostenute per la pubblicazione di
bandi e avvisi sui quotidiani.
Ennesima proroga (al 31.12.2017) viene poi prevista,
nonostante la sanzione della revoca del finanziamento entro
febbraio 2014, per l'affidamento dei lavori del «piano
scuole» di cui al decreto «del fare» n. 69/2013 (spesa: 150
milioni) che riguardava il finanziamento di «progetti
esecutivi immediatamente cantierabili di messa in sicurezza,
ristrutturazione e manutenzione straordinaria degli edifici
scolastici».
Sarà possibile ancora per un anno (fine dicembre 2017)
approvare una variante urbanistica o definire una procedura
di Via o Vas relativa a un'opera finanziata con i fondi
strutturali e di coesione 2007/2013, prima di assumere le
cosiddette «obbligazioni giuridicamente vincolanti».
Anche per gli interventi di adeguamento antincendio nelle
scuole, partiti a d'inizio anni 90, si prevede la proroga a
fine dicembre dell'anno in corso, laddove non si sia
provveduto con riguardo agli «edifici scolastici e i
locali adibiti a scuola»
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Opere
specialistiche Elenco doc. Decreto
in g.u..
Individuate le opere superspecialistiche per le quali sono
necessari lavori o componenti di notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità tecnica, quali
strutture, impianti e opere speciali, nonché i requisiti di
specializzazione richiesti per la loro esecuzione. Per
queste opere non è ammesso l'avvalimento qualora il valore
dell'opera superi il 10% dell'importo totale dei lavori, e,
ai sensi dell'articolo 105 comma 5 del nuovo Codice dei
contratti, non è consentito il subappalto oltre il 30% del
valore delle opere.
A provvedere è il decreto 10.11.2016, n. 248
«Regolamento recante individuazione delle opere per le quali
sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità tecnica e dei
requisiti di specializzazione richiesti per la loro
esecuzione, ai sensi dell'articolo 89, comma 11, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50», pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 3 del 04.01.2017 e in vigore dal 19
gennaio prossimo.
Il decreto (si veda ItaliaOggi del 30.11.2016) conferma l'elenco previgente, prevedendone
inoltre l'integrazione con l'inserimento della categoria Os
12-B (Barriere paramassi, fermaneve e simili) e Os 32
(Strutture in legno). Ciò in presenza di due esigenze
specifiche: garantire l'adeguata competenza nell'esecuzione
di opere che hanno un particolare impatto sull'incolumità e
salute pubblica e garantire la concorrenza nel mercato degli
appalti e dunque l'accesso delle imprese, anche in
considerazione dei principi del Tfue.
Sono stati, inoltre, aggiornati i requisiti di
specializzazione che devono possedere gli operatori
economici per l'esecuzione delle opere. Il decreto non
interviene sul sistema di qualificazione e pertanto resta
ferma, ai fini della dimostrazione dei requisiti richiesti
per l'esecuzione, la vigente disciplina sulla qualificazione
fino all'adozione delle linee guida di cui all'articolo 83
del codice
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole
nelle case, due condizioni per esonero.
Due le condizioni per l'esonero dall'obbligo d'installazione
di sistemi di contabilizzazione del calore nei condomini con
impianti centralizzati di riscaldamento senza incorrere in
alcuna sanzione pecuniaria: impossibilità tecnica e
inefficienza in termini economici. L'installazione dei
contabilizzatori di calore risulta, quindi, derogabile se
sono verificate le condizioni esimenti, accertate e
dichiarate in una relazione tecnica predisposta da un
progettista-tecnico abilitato.
Questo è quanto si legge nelle
linee guida predisposte dal
Consiglio nazionale ingegneri (Cni) in merito alle
valutazioni tecnico-economiche per l'installazione dei
sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore
(articolo 9 del dlgs 141/2016).
Ricordiamo che il 26.07.2016 è entrato in vigore il dlgs
141/2016 contenente disposizioni integrative e correttive
del dlgs 102/2014 di attuazione della direttiva 2012/27/Ue
sull'efficienza energetica.
In particolare attraverso il dlgs 141/2016 è stato quasi interamente riscritto il comma 5
dell'articolo 9 del dlgs 102/2014 (poi modificato dal
decreto milleproroghe) che regolamenta l'obbligo, da
attuarsi in termini di adeguamento impiantistico entro e non
oltre il 30.06.2017 (la precedente data era quella del
31.12.2016) , della contabilizzazione del calore negli
impianti centralizzati di riscaldamento, di raffrescamento e
di fornitura di acqua calda sanitaria per misurare
l'effettivo consumo di calore da parte di ciascuna unità
immobiliare.
Sono confermate le sanzioni da 500 a 2.500 euro per singolo
condomino nel caso in cui non si ottemperi all'installazione
nei termini previsti e le sanzioni da 500 a 2.500 euro per
il condominio che non adotta i criteri imposti dalla legge
per la ripartizione delle spese. Il primo adempimento nella
valutazione della sussistenza delle condizioni di deroga
dagli obblighi consiste nell'accertare la fattibilità
tecnica degli interventi di adeguamento volti
all'installazione di un impianto di contabilizzazione
diretta.
Nei casi relativi alla contabilizzazione indiretta viene
indicata come unica strada quella della valutazione della
non efficienza in termini di costi con riferimento alla
metodologia indicata nella norma Uni En 15459
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Via
e Vas, dal 17 gennaio nuove tariffe unificate.
Entrano in vigore il prossimo 17
gennaio le tariffe unificate per la copertura dei costi
sopportati dall’autorità competente per l’organizzazione e
lo svolgimento delle istruttorie, di monitoraggio e
controllo in ordine ai procedimenti di Via (valutazione
impatto ambientale) e di Vas (valutazione ambientale
strategica).
Il regolamento è
oggetto del Dm 25.10.2016, n. 245 (Gazzetta Ufficiale n. 1
del 02.01.2017) e si applica alle istruttorie avviate dopo
il 17.01.2017.
Per la procedura di Via gli oneri economici sono pari allo
0,5 per mille del valore delle opere da realizzare. Scendono
allo 0,25 per mille (e non superano i 10.000 euro) per le
procedure di verifica di assoggettabilità a Via.
Gli oneri per la Vas, invece, sono fissi e ammontano a
10.000 euro che scendono a 5.000 per le procedure di
verifica di assoggettabilità a Vas. Gli oneri per il riesame
di provvedimenti già emanati sono stabiliti nella misura del
25% di quanto già versato a titolo di 0,5 per mille per le
procedure di Via; di euro 3.000 per le procedure di Vas.
Il versamento degli oneri dovuti sarà disciplinato da un
ulteriore decreto che il Ministero dell’ambiente deve
adottare entro i prossimi tre mesi. Fino ad allora, le
imprese, contestualmente all’istanza di avvio delle singole
istruttorie, presentano le ricevute in originale
dell’avvenuto pagamento e una dichiarazione sostitutiva di
atto notorio, a firma del legale rappresentante, che attesti
quanto versato.
Il decreto individua anche gli oneri economici dovuti per le
procedure di Via avviate alla data del 19.04.2016 (data di
entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti, Dlgs
50/2016) per opere avviate alla luce della Legge Lunardi
(443/2001) in scaglioni che variano da 0,5 a 0,25 per mille
del valore dell’opera (articolo Il Sole 24 Ore del
04.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazioni
ambientali, dal 17 gennaio il conto (salato) lo paga
l'impresa.
Valutazione d'impatto ambientale (Via) e Valutazione
ambientale strategica (Vas) a carico delle imprese.
Istruttorie e controlli saranno infatti pagati dal
proponente che contribuirà con una somma variabile (fino a
15 mila euro per la Vas e fino allo 0,5 per mille del valore
dell'opera da realizzare per la Via) ai costi sostenuti
dall'Autorità statale per l'organizzazione e lo svolgimento
delle attività istruttorie, di monitoraggio e controllo
delle procedure di valutazione di impatto ambientale e di
valutazione ambientale strategica.
Il nuovo sistema scatterà dal 17 gennaio prossimo ed è
previsto dal dm dell'Ambiente 25.10.2016 n. 245,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 1 del 2 gennaio
scorso.
Il sistema trova un
precedente nelle tariffe Ippc (direttiva sul controllo
integrato degli inquinamenti) determinate con il dm 04.04.2008 che individua costi per le istruttorie e per i
successivi controlli. Un sistema ormai ampiamente conosciuto
da imprese e contribuenti e copiato anche per le procedure Ets (emissions trading scheme) dove l'iscrizione al registro
e le relative attività istruttorie sono coperte (anche in
questo caso) da tariffe.
Il dm determina gli oneri economici
anche per la valutazione ambientale strategica, quella cioè
che viene utilizzata per i più ampi piani e programmi
edilizi o per le infrastrutture di rete, e per le procedure
relative alle richieste di riesame dei provvedimenti di Via
e Vas (25% di quanto già versato a titolo di 0,5 per mille
per le procedure di Via; euro 3 mila per le procedure di Vas).
Le disposizioni si applicheranno alle istruttorie avviate
dopo l'entrata in vigore del dm, ovvero il 17.01.2017. Lo stesso decreto determina gli oneri economici
dovuti per le Vas/Via avviate ai sensi Legge Obiettivo
(legge n. 443/2001) e della normativa sugli appalti (dlgs n.
163/2006). Ma alla completa operatività della copertura
degli oneri economici dovuti manca ancora un importante
tassello. Infatti, l'art. 5 del dm prevede che le modalità
di versamento degli oneri economici dovuti ai sensi del
decreto siano disciplinate con decreto del ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare da
adottarsi entro 90 giorni dall'emanazione del regolamento.
Fino all'adozione le ricevute in originale dell'avvenuto
pagamento degli oneri economici sono presentate
contestualmente all'istanza di avvio delle singole
istruttorie, corredate da una dichiarazione sostitutiva di
atto notorio, rilasciata dal legale rappresentante della
società proponente, attestante quanto versato, completa di
eventuale tabella riportante le singole voci di costo, ai
sensi delle disposizioni transitorie indicate nella
circolare del ministero dell'ambiente prot. DSA/2004/22981
del 18.10.2004
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2017). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole
entro giugno. Evitate sanzioni fino a 2.500 euro ad
alloggio. Contabilizzazione del
calore: sei mesi in più ai condomini per adeguarsi.
Il consiglio dei ministri ha disposto il rinvio al
30.06.2017 del termine, prima fissato al 31 dicembre scorso,
entro il quale nei condomini occorre installare sistemi di
termoregolazione e contabilizzazione del calore, previa
verifica che tale installazione determini efficienza di
costi e risparmio energetico.
Lo ha comunicato in anteprima Confedilizia, sulla base di
informazioni assunte presso il governo. Pochi giorni fa,
Confedilizia, reiterando un'azione svolta nei confronti del
precedente governo, aveva scritto al sottosegretario alla
presidenza del consiglio per segnalare che in molti edifici
non è stato possibile adempiere a quanto imposto dalla legge
a causa del ritardo con cui è stato approvato il decreto che
ha modificato le regole applicabili e dell'impossibilità
materiale, per le imprese, di soddisfare le innumerevoli
richieste.
Con il conseguente rischio dell'applicazione di forti
sanzioni, da 500 a 2.500 euro per ciascuna unità
immobiliare, nei confronti di moltissimi proprietari di
casa.
«Diamo atto al governo, ha dichiarato il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, di aver posto rimedio,
pur con le difficoltà derivanti dai vincoli europei, a un
problema che aveva creato forte allarme nelle famiglie, come
testimoniato dalle continue segnalazioni delle nostre
Associazioni territoriali impegnate nella quotidiana
attività di assistenza ai condomini. I sei mesi in più a
disposizione potranno consentire, ai tanti proprietari e
amministratori condominiali in difficoltà per colpe non a
loro addebitabili, di attivarsi fin d'ora per svolgere il
complesso iter necessario per l'applicazione della normativa»
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Via
e Vas se le paga l'impresa. Dm in gazzetta.
Via (Valutazione d'impatto ambientale) e Vas (Valutazione
ambientale strategica) se le paga l'impresa.
Sulla G.U. n. 1 di ieri è stato pubblicato il dm Ambiente
25/10/2016, n. 245 recante modalità di determinazione delle
tariffe, da applicare ai proponenti, per la copertura dei
costi sopportati dall'autorità competente per
l'organizzazione e lo svolgimento delle attività
istruttorie, di monitoraggio e controllo relative ai
procedimenti di valutazione ambientale previste dal decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152.
Il regolamento entra in
vigore il 17 gennaio prossimo ed è valido anche (con tariffe
differenziate) per le richieste di Via e Vas avviate in
passato
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Resta
il taglio ai gettoni dei cda. La nuova riscossione spontanea
debutterà il 1° luglio.
MILLEPROROGHE/ Invariato il cronoprogramma per lo
sfoltimento delle partecipate.
Confermata anche per il 2017 la tagliola sulle indennità, i
compensi e i gettoni di presenza corrisposti dagli enti
pubblici ai cda e agli organi collegiali. La riduzione del
10% (rispetto agli importi risultanti al 30.04.2010),
operata dal dl 78/2010 per contenere la spesa pubblica
avrebbe cessato i suoi effetti al 31.12.2016, ma è
stata prorogata anche per quest'anno dal decreto legge Milleproroghe (dl 244/2016).
Il taglio si applica a tutti gli enti pubblici inseriti
nell'elenco Istat delle pubbliche amministrazioni, incluse
le autorità dipendenti, e anche ai compensi dei commissari
straordinari (governativi e non). Fino al 31/12/2017,
quindi, gli emolumenti corrisposti non potranno superare gli
importi risultanti al 30.04.2010 ridotti del 10%. Il
taglio non si applicherà al trattamento retributivo di
servizio, ma riguarderà le indennità, i compensi, i gettoni,
le retribuzioni e tutte le ulteriori utilità corrisposti ai
componenti di organi di indirizzo, direzione e controllo,
consigli di amministrazione, organi collegiali e titolari di
incarichi di qualsiasi tipo.
Nessuna proroga, invece, per il piano dei tagli delle
partecipate. Il cronoprogramma, disegnato dal nuovo Testo
unico attuativo della legge Madia (dlgs 175/2016) e che,
secondo le prime versioni del Milleproroghe, sembrava
destinato ad allungarsi di tre mesi, resta invariato. Entro
il 23.03.2017 (sei mesi dall'entrata in vigore del dlgs)
dovranno essere portati a compimento:
- la revisione straordinaria delle partecipazioni detenute,
direttamente o indirettamente, dalle p.a. con
l'individuazione di quelle da alienare (art. 24, comma 1);
- la ricognizione del personale in servizio nelle società a
controllo pubblico per individuare eventuali eccedenze
(art. 25, comma 1);
- il dpcm che dovrà fissare i criteri sulla governance delle
partecipate individuando i casi in cui «per specifiche
ragioni di adeguatezza organizzativa», l'assemblea potrà
scegliere di essere amministrata da un cda di tre o cinque
membri in deroga alla regola generale, fissata dal T.u.,
secondo cui «l'organo amministrativo delle società a
controllo pubblico è costituito da un amministratore unico»
(art. 11, comma 3).
Per quanto riguarda, invece, l'adeguamento degli statuti
societari alle norme del Testo unico, non ci saranno tempi
supplementari. La deadline, già scaduta, e verosimilmente
snobbata dalla gran parte delle società pubbliche, resta
fissata al 31.12.2016 e non guadagna un anno di tempo
in più come invece previsto nelle prime bozze del decreto Milleproroghe.
Lo sfoltimento delle partecipate, che nelle intenzioni del
governo dovrà portare a una falcidia delle società da
ottomila a mille, procede dunque, almeno sulla carta,
secondo i programmi e senza ritardi. Nei fatti, però,
l'operazione dovrà fare i conti con la frenata imposta dalla
Consulta che, a fine novembre 2016 (sentenza n. 251), ha
bocciato il T.u. per mancata concertazione con le regioni.
Riscossione locale spontanea.
Debutteranno dal 1° luglio le nuove norme sulla riscossione
locale spontanea previste dal decreto legge fiscale
collegato alla legge di bilancio (dl 193/2016). L'art. 2-bis
del decreto prevede che il versamento spontaneo delle
entrate tributarie dei comuni e degli altri enti locali
debba essere effettuato direttamente sul conto di tesoreria
delle amministrazioni, ovvero mediante F24, o ancora
attraverso strumenti di pagamento elettronici messi a
disposizione dei contribuenti dagli enti impositori.
Fanno
eccezione alla regola solo l'Imu e la Tasi che continueranno
a essere pagabili con F24 o con bollettini postali. Mentre
per le entrate non tributarie il versamento potrà essere
effettuato solo sul conto corrente di tesoreria o attraverso
strumenti di pagamento elettronico
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2017). |
PATRIMONIO: Edilizia
scolastica, un anno in più per completare gli interventi.
Più tempo per gli enti locali che devono chiudere gli
interventi di sistemazione delle scuole finanziati dal
decreto «del fare».
L'art. 4, comma 1, del milleproroghe (dl 244/2016) ha
spostato di un anno (dal 31.12.2016 al 31.12.2017) la data ultima per procedere ai relativi pagamenti
senza perdere le risorse. Il correttivo interviene sul comma
8-quinquies dell'art. 18 del dl 69/2013 (varato ai tempi del
Governo Letta), il quale aveva stanziato le risorse
affidandone il riparto alle regioni.
Una buona notizia per sindaci e presidenti, che però
attendono ancora chiarimenti sulla possibilità di traslare
al nuovo anno gli spazi finanziari concessi nel 2016 sia per
le scuole che per interventi bonifica ambientale. Tali
misure sono state previste dai commi 713 e seguenti
dell'ultima legge di Stabilità (l. 208/2015) e dovevano
servire a sterilizzare le relative spese sul saldo dello
scorso anno. Ma molti enti sono in ritardo con le procedure
e, secondo le nuove regole del bilancio armonizzato,
dovranno reimputare gli impegni sull'esercizio corrente.
Al momento, non è chiaro l'impatto di tale operazione sui
vincoli di finanza pubblica dei due anni: ci si chiede, in
particolare, se gli spazi possano dare copertura anche agli
impegni reimputati sul 2017 e al relativo fondo pluriennale
vincolato accantonato sul 2016.
Per gli interventi finanziati mediante applicazione
dell'avanzo di amministrazione, non sembrano esservi
ostacoli, considerato che la manovra ha confermato la
rilevanza del fondo pluriennale vincolato anche per il nuovo
triennio, per cui è sufficiente un intervento di prassi.
Tale possibilità è già stata ammessa dal Mef per le spese
assistite dai patti di solidarietà, ma occorre una conferma
della sua valenza più generale prima della scadenza del
prossimo 31 marzo per l'invio della certificazione del
pareggio 2016.
Finora, via XX settembre non ha preso una
posizione in proposito, anche se ad alcuni enti sarebbe
stato comunicato che il giro contabile è possibile purché vi
sia stato almeno un sal (stato avanzamento lavori) entro lo
scorso 31 dicembre. In altre parole, l'opera deve essere in
via di realizzazione e non ancora solo sulla carta.
Più complesso il discorso per gli interventi finanziati a
debito, visto che il relativo fondo pluriennale vincolato
non è rilevante ai fini del saldo: in tal caso, occorre una
norma, che potrebbe essere utilmente inserita in sede di
conversione. Anche perché, in mancanza, gli enti interessati
dovrebbero giocoforza attingere ai nuovi spazi messi a
disposizione dalla recente manovra, che ha stanziato 700
milioni per ciascuno dei prossimi tre anni. Il relativo
riparto avverrà in tempi molto brevi, per cui, per evitare
duplicazioni nelle richieste, è necessario un chiarimento
tempestivo
(articolo ItaliaOggi del 03.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Definizioni
edilizie uniformi in tutte le Regioni ordinarie. Le
Autonomie a statuto speciale possono decidere di non
adeguarsi.
Urbanistica. I Comuni devono recepire le nozioni previste
dal regolamento tipo.
In tutti i Comuni delle Regioni a
statuto ordinario la superficie utile di una casa, di un
ufficio o di un’officina sarà considerata sempre quella di
pavimento misurata al netto della superficie accessoria e di
muri, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di parte e
finestre.
È uno dei risultati della pubblicazione sulla Gazzetta
ufficiale (16.11.2016, n. 268) dell’intesa tra Governo,
Regioni e Comuni, che ha approvato il regolamento edilizio
tipo, previsto dal decreto legge Sblocca Italia (il
133/2014, articolo 17) e che ora dovrà essere recepita dagli
ordinamenti locali.
Il regolamento
I Comuni dovranno redigere i loro regolamenti edilizi
strutturandoli in due parti e applicando le 42 definizioni
uniformi dei parametri edilizi riportate nell’intesa (vedi
grafica). In una prima parte, sotto il titolo «Principi
generali e disciplina generale dell’attività edilizia», deve
essere riportato l’elenco delle norme generali sull’attività
edilizia che si applicano su tutto il territorio nazionale e
regionale. La seconda parte, con le «Disposizioni
regolamentari comunali in materia edilizia», costituisce il
vero e proprio regolamento edilizio.
Lo schema tipo, però, non indica i contenuti del
regolamento, ma una «struttura generale uniforme» in base
alla quale essi devono essere ordinati. In sostanza, i
Comuni devono adottare l’indice del regolamento tipo, ma,
nella loro autonomia, «possono individuare requisiti tecnici
integrativi e complementari».
Le definizioni
Un punto di riferimento fisso per i futuri regolamenti è
costituito dalla lista delle definizioni uniformi, sulla
quale trovare l’accordo non è stato facile. La migrazione
dalle vecchie definizioni alle nuove sarà forse il compito
più difficile per i Comuni, che hanno la responsabilità di
stabilire le regole e le prescrizioni per la realizzazione
dell’attività edilizia sui loro territori. Per rendersi
conto della loro difficoltà è sufficiente confrontare le
definizioni uniformi di alcuni parametri del regolamento
tipo con quelle dei regolamenti vigenti in alcuni Comuni.
In qualche caso, nel regolamento vigente è assente la stessa
definizione del parametro. In quello del Comune di Milano,
per esempio, non è definita la superficie utile; il
regolamento di Bologna la definisce, ma è conteggiata anche
la superficie di balconi, logge e scale interne, mentre a
Bari non è compresa la superficie accessoria. Adeguamenti
saranno necessari anche per altri parametri, quali il volume
e le distanze. A Milano, finora, il volume totale di un
edificio è calcolato moltiplicando per tre la superficie
lorda, mentre con la nuova definizione si dovrà considerare
l’altezza lorda effettiva.
Le Regioni autonome
Le Regioni a statuto speciale e le due province autonome di
Trento e Bolzano applicano i contenuti dell’intesa solo se
non contrastano con i loro statuti e con le norme emanate
per la loro attuazione. Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia
Giulia, Valle d’Aosta e le province del Trentino Alto Adige
potranno, pertanto, continuare a dotarsi di regolamenti tipo
diversi gli uni dagli altri e stabilire anche differenti
gradi di libertà per i Comuni dei rispettivi territori.
Le Regioni ordinarie
Anche le 15 Regioni a statuto ordinario godono di una certa
libertà di manovra. Nei 180 giorni successivi alla data di
adozione dell’intesa del 20.10.2016 (cioè entro il
18.04.2017), nel recepire il regolamento tipo e le
definizioni, esse possono portare integrazioni e modifiche
compatibili con le normative regionali vigenti nella
materia. Senza mettere in discussione l’uniformità
dell’impianto generale del regolamento tipo, all’indice
possono essere apportate le specificazioni e le
semplificazioni ritenute opportune. Ogni Regione,
ovviamente, deciderà autonomamente cosa fare, scegliendo i
capitoli sui quali intervenire.
Sulle definizioni i gradi di libertà dovrebbero essere più
ristretti, ma molto dipenderà dalla lettura che si farà del
testo della norma. Al riguardo è previsto, infatti, che le
Regioni, alla luce delle loro specifiche normative,
individuino le definizioni che incidono «sulle previsioni
dimensionali contenute negli strumenti urbanistici» e anche,
se lo ritengono necessario, diano indicazioni tecniche di
dettaglio per consentire la corretta interpretazione delle
definizioni oggetto dell’intesa, nella loro prima fase di
applicazione. Le nuove definizioni uniformi valgono per il
futuro, senza incidere sulle dimensioni quantitative dei Prg
vigenti.
L’adeguamento comunale
Nell’atto con il quale le Regioni adottano l’intesa
Governo-Regioni-Comuni, le Regioni a statuto ordinario
stabiliscono anche le modalità, gli iter amministrativi e i
tempi entro cui i Comuni devono adeguare i loro regolamenti
edilizi allo schema tipo, e agli allegati, con le modifiche
introdotte, eventualmente, da ognuna di esse. Le
deliberazioni regionali devono fornire ai Comuni anche
indicazioni su come contenere le conseguenze
dell’adeguamento sui procedimenti in corso, con riferimento,
per esempio ai titoli abilitativi.
Ai Comuni viene accordato un tempo massimo di 180 giorni per
allinearsi al regolamento tipo. Nei Comuni che non lo
faranno, saranno applicate le 42 definizioni uniformi e le
altre disposizioni dei regolamenti deliberati dalle regioni,
che prevarranno sulle previsioni dei regolamenti edilizi
vigenti. I Comuni possono, però, anche applicare
direttamente lo schema di regolamento tipo nelle Regioni
che, nel tempo loro concesso, non lo recepiscono e non
apportano modifiche (articolo Il Sole 24 Ore del
02.01.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI
LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Scuola,
pensioni, commercio: la carica delle 103 proroghe. I docenti
non abilitati hanno tre anni in più per accedere in
graduatoria.
Milleproroghe. Nel Dl 244/2016 salta il rinvio per le
partecipate ma entra il commissario per l’Irpinia.
Il decreto di
fine anno (Dl 244/2016) approda sulla «Gazzetta Ufficiale»
con almeno 103 proroghe. Nel complesso lavoro di messa a
punto del testo finale dopo il via libera salvo intesa del
Consiglio dei ministri di giovedì scorso, sono entrate e
uscite alcune norme di particolare rilievo. Tra le new entry
merita attenzione la norma inserita nel capitolo scuola che
prevede la proroga di tre anni per l’accesso in terza fascia
anche ai docenti non abilitati.
Come prevede il nuovo comma
4 dell’articolo 4 del Dl l’ingresso alle graduatorie di
circolo o istituto ai soli docenti in possesso del titolo di
abilitazione non partirà più nel 2016/2017, come previsto
dalla riforma della buona scuola, ma dal 2019/2020. Per
restare sul fronte del pubblico impiego il decreto conferma
il salvataggio degli oltre 40mila precari in deroga al
divieto imposto dal Jobs act e tra le novità dell’ultima ora
autorizza il ministero dell’Ambiente all’assunzione di una
quarantina di unità pescando dalle graduatorie dei concorsi
già banditi dall’Ispra.
Novità anche per il personale della
Forestale transitato nei Carabinieri (quasi tutti hanno
fatto questa scelta, si veda il servizio a fianco): fino al
31.12.2017 al personale della Forestale transitato
nell’Arma e che matura il diritto alla quiescenza non si
applica l’iscrizione obbligatoria alla Cassa di previdenza
delle Forze armate.
La Rai alla fine spunta almeno per un anno l’esclusione dal
perimetro Istat in cui ricadono le amministrazioni pubbliche
soggette alla spending review (articolo 6, comma 4). Mentre
nel capitolo sanità arriva il rinvio per un altro anno del
divieto dei test su animali per le sostanze d’abuso (alcol,
fumo, droghe), e per i trapianti di organi tra specie
diverse.
Sotto la voce emergenze ha trovato spazio ancora una volta
l’unità tecnica amministrativa per la gestione dei rifiuti
in Campania che resterà operativa fino al 31 dicembre del
nuovo anno. Tra le curiosità che accompagnano da sempre il
milleproroghe spicca il dodicesimo rinvio (è record
stagionale) del termine per i poteri ai prefetti chiamati a
sollecitare i comuni nell’approvazione dei bilanci di
previsione.
Tra le proroghe “seriali” si segnala anche
quella sul regolamento del servizio taxi e di noleggio con
conducente. Mentre tra le curiosità del provvedimento
d’urgenza merita certamente attenzione il primo comma
dell’articolo 9 ch e consentirà al commissario ad acta
nominato nel lontano 1980 per il terremoto dell’Irpinia di
restare in carica almeno per tutto il 2017.
Confermati il pagamento delle pensioni il 1° del mese e
nuove risorse per gli ammortizzatori sociali nelle aree di
crisi industriale.
Dal testo finale saltano i rinvii di tre mesi per
l’adeguamento degli statuti delle società controllate, per
il piano straordinario di razionalizzazione delle
partecipazioni e per il decreto di Palazzo Chigi sui criteri
per mantenere il cda evitando la regola generale
dell’amministratore unico. Tra i ritocchi dell’ultima ora,
invece, si segnala che le attuali concessioni per il
commercio ambulante saranno valide fino a tutto il 2018 e
non fino a tutto il 2020 (articolo Il Sole 24 Ore del 31.12.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole,
sei mesi in più per l’installazione in condominio.
Riscaldamento. Proroga.
È arrivata ieri,
come anticipato da «Il Sole 24 Ore», la proroga al 30.06.2017 per l’installazione di contabilizzatori e termovalvole
nei condomìni con riscaldamento centralizzato.
Lo
slittamento, reso necessario dal fatto che le ultime norme
erano uscite a Ferragosto e i tempi si erano fatti
impossibili anche per i condomìni più solleciti, è contenuto
all’articolo 6, comma 10, del Dl “milleproroghe” approvato
ieri dal Consiglio dei ministri. Il posticipo di sei mesi
riguarda le lettere a) e b) del comma 5, articolo 9, del Dlgs 104/2014.
Quindi comprende sia l’obbligo di installare
un contatore di fornitura in corrispondenza dello
scambiatore di calore di collegamento alla rete o del punto
di fornitura dell’edificio o del condominio, sia
l’installazione (a cura del proprietario), di
sotto-contatori per misurare l’effettivo consumo di calore o
di raffreddamento o di acqua calda per ciascuna unità
immobiliare.
Pochi giorni fa, Confedilizia –reiterando un’azione svolta
nei confronti del precedente Governo– aveva scritto al
sottosegretario alla presidenza del Consiglio per segnalare
le difficoltà di milioni di cittadini e il rischio
dell’applicazione di forti sanzioni, da 500 a 2.500 euro per
ciascuna unità immobiliare: «Diamo atto al Governo –ha
dichiarato il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani
Testa– di aver posto rimedio, pur con le difficoltà
derivanti dai vincoli europei, a un problema che aveva
creato forte allarme nelle famiglie. I sei mesi in più a
disposizione potranno consentire, ai tanti proprietari e
amministratori condominiali in difficoltà per colpe non a
loro addebitabili, di attivarsi fin d’ora per svolgere il
complesso iter necessario per l’applicazione della
normativa».
Anche considerando che gli impianti di riscaldamento si
chiuderanno, quanto meno al Centro-Nord, il 15.04.2017,
restano due mesi e mezzo per eseguire i lavori. L’importante
è che da subito i condomìni che non hanno ancora provveduto
si mettano in moto per approvare le delibere (con relativa
ripartizione delle spese) per individuare la tipologia di
intervento e l’impresa cui affidarlo.
Soddisfatti gli amministratori condominiali di Anaci: «Bene
la proroga per l’installazione delle valvole termostatiche»,
ha detto il presidente Francesco Burrelli. L’Anaci aveva
chiesto di spostare il termine di domani insieme al
Coordinamento unitario Arpe-Federproprietà–Confappi–Uppi
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole,
proroga a giugno. Maxi slittamento anche per le concessioni
pubbliche. MILLEPROROGHE/ Già oggi in Gazzetta Ufficiale il
provvedimento con i rinvii.
Termovalvole prorogate a giugno 2017. I condomini guadagnano
sei mesi di tempo per risultare adempienti all'obbligo di
inserire sui caloriferi le valvole di calore. E non solo.
Arriva anche la proroga per le concessione del commercio su
aree pubbliche.
È quanto prevede il decreto Milleproroghe approvato dal
consiglio dei ministri di ieri, che dispone slittamenti pure
in materia di ambiente, cultura ed enti locali.
Il
provvedimento dovrebbe approdare oggi in Gazzetta Ufficiale,
con entrata in vigore immediata. Uno slittamento, quello
delle concessioni pubbliche, quadriennale a sorpresa tanto
da essere definito un fulmine a ciel sereno per il settore
da Maurizio Innocenti, presidente di Anva, l'associazione
Confesercenti del commercio su aree pubbliche, mentre è
stata accolta con sollievo dal Movimento 5 stelle.
Inoltre i
precari della p.a. in salvo per il 2017. Sono circa 40 mila
i lavoratori a tempo determinato e i collaboratori delle
amministrazioni pubbliche che saranno confermati anche per
il prossimo anno. Anno in cui resteranno valide pure tutte
le graduatorie dei concorsi, che recano circa 4.500
vincitori in attesa di chiamata e oltre 150 mila
riconosciuti idonei.
Tra i rinvii più attesi dell'ultima ora, dunque, c'è quello
che interessa i condomini, chiamati a installare le
termovalvole per la regolazione e la contabilizzazione dei
consumi energetici (si veda l'anticipazione di ItaliaOggi di
ieri). Un obbligo che sarebbe dovuto scattare tra pochi
giorni, pur tra mille incertezze operative, e che ora invece
slitta al 30.06.2017.
Soddisfazione espressa da Confedilizia per i sei mesi in più concessi: «Diamo atto al
governo», spiega il presidente Giorgio Spaziani Testa, «di
aver posto rimedio, pur con le difficoltà derivanti dai
vincoli europei, a un problema che aveva creato forte
allarme nelle famiglie, come testimoniato dalle continue
segnalazioni delle nostre associazioni territoriali
impegnate nella quotidiana attività di assistenza ai
condomini».
Le novità per gli enti locali riguardano l'approvazione dei
bilanci preventivi 2017, differita al prossimo 31 marzo, e
la riscossione di tributi e sanzioni.
Le nuove norme sulla riscossione autonoma fissate dal dl n.
193/2016 scatteranno infatti solo dal 01.07.2017. Fino a
quella data i comuni e le altre autonomie locali potranno
perciò continuare ad avvalersi delle iscrizioni a ruolo di Equitalia.
Tra le misure di competenza del ministero dell'interno vi è
poi la conferma dei colloqui con i detenuti per prevenire
attentati terroristici. Anche alla luce degli avvenimenti
degli ultimi giorni, il governo ha deciso di prorogare al 31.01.2018 la possibilità per i direttori dei servizi di
informazione per la sicurezza (o di funzionari appositamente
delegati) di svolgere incontri personali con soggetti
reclusi e internati, al solo fine di acquisire informazioni
su potenziali attacchi di matrice internazionale.
Per quanto riguarda la gestione delle emergenze, oltre
all'allungamento della moratoria sui mutui e sulle bollette
dei cittadini colpiti dal terremoto del Centro Italia dei
mesi scorsi, l'esecutivo ha concesso più tempo ai comuni per
il pagamento dei lavori di ristrutturazione e messa in
sicurezza degli edifici scolastici
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
Sistri slitta ancora una volta. Proroga di un anno e caccia
a un nuovo concessionario. MILLEPROROGHE/Sanzioni dimezzate
a chi non si iscrive o non paga il contributo annuale.
Slittano ancora una volta l'operatività completa del sistema
di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri) e le
relative sanzioni ad esso legate, che dovevano scattare
dalla fine del 2016. E stavolta non si tratta di una
semplice proroga, ma il differimento è più ampio.
Il decreto legge Milleproroghe, varato ieri dal consiglio
dei ministri, prevede infatti che «Fino alla data del
subentro nella gestione del servizio da parte di un nuovo
concessionario», al posto di quello attuale (Selex service
management s.p.a.), e comunque non oltre la fine del 2017,
vengono sospese le sanzioni legate al Sistri e si applica il
vecchio sistema dei registri elettronici di carico e scarico
e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati.
Corredato dal vecchio dispositivo sanzionatorio. In più,
fino al definitivo collaudo del Sistri verranno dimezzate le
sanzioni per i soggetti obbligati a iscriversi al Sistri,
che omettono di iscriversi nei tempi previsti, e per chi non
paga, pur essendo obbligato dalla legge, l'annuale
contributo per l'iscrizione al sistema di tracciabilità
telematico dei rifiuti. Incentivi ai grandi progetti di
efficienza energetica.
Arriva anche la proroga di un altro
anno per gli incentivi per i progetti di efficienza
energetica di grandi dimensioni, non inferiori a 35.000 Tep/anno,
a cui sono stati riconosciuti i certificati bianchi: il
Milleproroghe dispone che la fine degli incentivi, prevista
al 2016, slitti al 31.12.2017; sempre che i progetti
di contenimento energetico siano avviati entro il 31
dicembre del prossimo anno.
Media.
Il decreto legge Milleproroghe prevede anche la proroga di
un altro anno anche per il divieto di incrocio stampa tv: i
soggetti che esercitano l'attività televisiva in ambito
nazionale attraverso più di una rete non potranno, prima del
31.12.2017, acquisire partecipazioni in imprese editrici di
giornali quotidiani o partecipare a una loro costituzione.
E sempre in tema di media, a maggio del 2016 cesserà la
concessione del servizio radiotelevisivo fino ad oggi
riservato in esclusiva alla Rai dalla legge italiana. Bene,
a partire da maggio, sino alla data di entrata in vigore del
decreto che dispone il nuovo affidamento del servizio
pubblico e comunque per non oltre 180 giorni a partire dalla
data di scadenza della concessione, si applicherà la
concessione oggi in vigore
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Proroghe
per tutti nella p.a.. Confermati co.co.co. e precari.
Slittano le graduatorie.
MILLEPROROGHE/ Le novità sugli statali. Garantiti i
vincitori di concorso, idonei a rischio.
Proroga per co.co.co. e contratti a tempo determinato nella
p.a. E salve, ancora per un anno, tutte le graduatorie dei
concorsi pubblici. In vista del nuovo Testo unico sul
pubblico impiego, atteso per febbraio, che dovrebbe mettere
fine al lavoro precario nella pubblica amministrazione
favorendo una nuova stagione di concorsi pubblici con
scadenza prestabilita, il decreto Milleproroghe, approvato
ieri dal consiglio dei ministri, farà passare un Capodanno
più sereno a migliaia di dipendenti pubblici e aspiranti
tali.
Innanzitutto ai 42 mila titolari di contratti di
collaborazione su cui si sarebbe abbattuta la falcidia del
Jobs act che li avrebbe vietati a partire dal prossimo 1°
gennaio. Le co.co.co. (si veda altro articolo a pagina 44)
saranno ammesse anche nel 2017.
Saranno rinnovati di un anno
anche i 2 mila contratti a termine in scadenza al 31
dicembre, mentre viene prorogata di un anno (come anticipato
da ItaliaOggi il 21/12/2016) l'efficacia di tutte le
graduatorie dei concorsi pubblici per assunzioni a tempo
indeterminato in scadenza a fine anno.
Le graduatorie più
vecchie, ossia quelle vigenti al 01.09.2013 (data di
entrata in vigore del dl 101/2013, cosiddetto decreto D'Alia)
erano già slittate a opera della legge di bilancio che però
con una norma un po' pasticciata (art. 1, comma 368, delle
legge n. 232/2016) aveva dimenticato quelle più recenti,
approvate successivamente a tale data.
Il Milleproroghe rimedia al pasticcio inserendo però nella
norma di proroga due particolarità. La prima consiste nel
fatto che lo slittamento è circoscritto alle sole
amministrazioni pubbliche soggette a limitazioni delle
assunzioni: il che dovrebbe portare a concludere che la
proroga non valga per le amministrazioni autorizzate a
coprire il 100% del turnover.
La seconda particolarità sta
nella funzionalità della proroga: le graduatorie saranno sì
valide solo fino al 31.12.2017, ma, precisa il testo
del decreto, «ferma restando la vigenza delle stesse fino
alla completa assunzione dei vincitori».
Pertanto, anche se formalmente le graduatorie perderanno
efficacia il 01.01.2018, comunque le amministrazioni
potranno (anzi, dovranno) attingere alle graduatorie stesse
anche nel 2018, allo scopo di chiamare in servizio i 4.471
vincitori di concorso in attesa di essere assunti.
La
precisazione del decreto vale a evidenziare che, al
contrario dei vincitori, le graduatorie perderanno comunque
efficacia a partire dal 01.01.2018 nei confronti degli
idonei, un esercito che, secondo le ultime stime della
Funzione pubblica, conta 151.378 aspiranti dipendenti
pubblici ancora una volta sfavoriti dalle regole sulle
assunzioni.
Province. Il decreto Milleproroghe si ricorda dei precari
delle province e modificando l'articolo 4, comma 9, del dl
101/2013 proroga per questi enti (e si deve ritenere per le
città metropolitane) la durata dei contratti a tempo
determinato fino al 31.12.2017; nella proroga ricadono
anche i contratti di collaborazione coordinata e
continuativa, anche a progetto, fermi restando gli altri
vincoli finanziari e di spesa complessiva del personale.
La novella normativa contiene una precisazione: infatti la
proroga a tutto il 2017 dei contratti a tempo determinato
potrà avvenire «nel rispetto dei limiti europei».
L'indicazione appare poco chiara e sarà certamente fonte di
contenzioso o, quanto meno, di contrasti interpretativi. I
«limiti europei», infatti, sono quelli posti dalla direttiva
1999/70/Ce (Accordo quadro Ces, Unice e Ceep) sul lavoro a
tempo determinato, che secondo la giurisprudenza della Corte
di giustizia Ue impediscono la reiterazione dei rinnovi.
Ma, poiché la proroga dei contratti a termine delle province
è disposta direttamente dal decreto Milleproroghe, non si
tratta di un rinnovo, bensì appunto di una modifica del
termine derivante direttamente dalla legge, sicché sfugge
oggettivamente quali possano essere i «limiti europei» da
rispettare. Sempre alle province è prorogato al 31.12.2017 il termine previsto dall'articolo 15, comma 6-bis, del
dl 78/2015, convertito in legge 125/2015, il che consente
loro di stipulare contratti a tempo determinato, con
scadenza non oltre il 31.12.2017, per garantire la
funzionalità dei servizi per l'impiego, anche nel caso di
violazione degli obiettivi di finanza pubblica del 2016.
Le reazioni. Soddisfazione per le proroghe contenute nel
decreto è stata espressa dall'Anci. «Esprimiamo
apprezzamento per le risposte date dal governo alle
richieste dell'Anci», ha commentato il presidente e sindaco
di Bari Antonio Decaro.
«In particolare è di grande rilievo
lo slittamento al 31.03.2017 dei termini per
l'approvazione dei bilanci di previsione, la proroga delle
graduatorie dei concorsi approvate dopo l'entrata in vigore
del dl 101/2013, quella al 31.12.2017 dei contratti
del personale a tempo determinato delle città metropolitane.
Altrettanto importante il differimento dell'obbligo di
gestione associata delle funzioni fondamentali dei piccoli
comuni, per la quale abbiamo condiviso con il governo la
necessità di una nuova norma. Mentre esprimiamo
apprezzamento per la sensibilità su questi punti», ha
concluso Decaro, «dobbiamo ricordare la necessità di
affrontare le questioni che non hanno trovato risposta nella
legge di bilancio». In primis, l'innalzamento della soglia
del turnover al 75%.
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Bilanci comunali al 31 marzo. Slittano
le gestioni associate.
I bilanci dei comuni slittano al 31.03.2017. Mentre viene
rinviato di un anno (fino al 31/12/2017) l'obbligo di
gestione associata delle funzioni fondamentali nei piccoli
comuni. Sono queste le due novità principali per gli enti
locali contenute nel decreto Milleproroghe, approvato ieri
dal consiglio dei ministri.
Per quanto riguarda i bilanci,
il governo ha accolto la richiesta dell'Anci di avere un
mese in più per l'approvazione dei preventivi rispetto alla
dead line che era stata fissata al 28 febbraio. Alla base
della richiesta i ritardi nella comunicazione dei dati sul
Fondo di solidarietà comunale 2017, in realtà pronti da più
di un mese (dopo l'approvazione in tempi record dei nuovi
fabbisogni standard che assieme alle capacità fiscali
attribuiranno nel 2017 il 40% del Fondo) ma congelati anche
a causa della caduta del governo Renzi e del cambio di guida
al ministero dell'interno.
Fatto sta che al momento la
direzione finanza locale del Viminale non è stata neppure in
grado di anticipare sul proprio sito web (rispetto alla
pubblicazione del dpcm) gli importi del Fondo di spettanza
di ciascun comune in modo che ogni ente potesse fare i
calcoli.
Per quanto riguarda gli obblighi di gestione associata,
invece, si tratta di un rinvio meramente tecnico, volto a
congelare, si spera per l'ultimo anno, le disposizioni del
dl 78/2010 nell'attesa che giunga in porto il nuovo progetto
di associazionismo comunale (basato sui bacini omogenei) che
l'Anci sta negoziando da mesi col governo e, anche questo,
frenato dalla caduta del governo Renzi.
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Resta in vigore l'obbligo di pubblicità
legale sui quotidiani.
Resta in vigore l'obbligo di pubblicità legale sui
quotidiani. Gli avvisi e i bandi di gara continueranno a
dover essere pubblicati su almeno due quotidiani a
diffusione nazionale (e almeno due a maggiore diffusione
locale) fino a data da destinarsi.
Lo slittamento
dell'obbligo, che sarebbe cessato al 31.12.2016, non
contiene infatti una scadenza temporale certa ma è legato
all'approvazione del decreto ministeriale, previsto dal
nuovo codice appalti (dlgs n. 50/2016) che dovrà definire,
come dispone l'art. 73, comma 4, del codice, «gli indirizzi
generali di pubblicazione dei bandi al fine di garantire
adeguati livelli di trasparenza e di conoscibilità, anche
con l'utilizzo della stampa quotidiana maggiormente diffusa
nell'area interessata».
Il decreto, che il ministero delle
infrastrutture dovrà adottare d'intesa con l'Anac, avrebbe
dovuto essere emanato entro il 19 ottobre scorso (sei mesi
dall'entrata in vigore del codice appalti, divenuto vigente
il 19.04.2016) ma il ritardo accumulato dal dicastero
guidato da Graziano Delrio ha reso necessario il rinvio,
ufficializzato nel dl Milleproroghe approvato ieri dal
consiglio dei ministri.
Fino alla data di entrata in vigore del decreto
ministeriale, dunque, gli avvisi e i bandi dovranno essere
pubblicati oltre che sui quotidiani nazionali e locali anche
sulla Gazzetta Ufficiale. E le spese per la pubblicazione
dovranno essere rimborsate alla stazione appaltante
dall'aggiudicatario entro il termine di sessanta giorni
dall'aggiudicazione
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le co.co.co. si salvano ancora. La ghigliottina sulle
collaborazioni scatterà l'01/01/2018. MILLEPROROGHE/
In attesa che la riforma Madia riordini il lavoro flessibile nella p.a..
Collaborazioni coordinare e continuative ancora ammesse per un anno nella
pubblica amministrazione.
Il decreto Milleproroghe, approvato ieri dal consiglio dei ministri, sposta
dal 01.01.2017 al 01.01.2018 la ghigliottina sulle collaborazioni,
disposta dall'articolo 2 del dlgs 81/2015.
Il comma 1 della citata disposizione prevede che «a far data dal 01.01.2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai
rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro
esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono
organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di
lavoro».
Il successivo comma 4 del medesimo articolo 2 ha, però, previsto un regime
transitorio per i datori di lavoro pubblici: «Fino al completo riordino
della disciplina dell'utilizzo dei contratti di lavoro flessibile da parte
delle pubbliche amministrazioni, la disposizione di cui al comma 1 non trova
applicazione nei confronti delle medesime.
Dal 01.01.2017 è comunque fatto divieto alle pubbliche amministrazioni
di stipulare i contratti di collaborazione di cui al comma 1». Il Milleproroghe modifica esattamente la data vista prima, portandola al
01.01.2018.
Del riordino dell'utilizzo del lavoro flessibile nella p.a. non si è ancora
avuta traccia alcuna. L'attuazione dell'articolo 17 della legge 124/2015
(riforma Madia) potrebbe essere l'occasione, ma prima del giugno 2017 è
difficile che entri in vigore. Proprio l'inerzia sul riordino del lavoro
flessibile ha indotto il governo a spostare al 2018 il definitivo divieto
delle collaborazioni coordinate e continuative.
Ancora nel 2017, dunque, le p.a. potranno utilizzare le previsioni contenute
nell'articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001, norma posta a regolamentare
proprio presupposti e condizioni al ricorrere dei quali la p.a. può
acquisire collaborazioni «per esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio», conferendo «incarichi individuali, con contratti di
lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad
esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria».
Resterà ovviamente anche la possibilità di attivare contratti di lavoro
autonomo, che si distinguono dalle collaborazioni per una serie di
parametri. Innanzitutto, quelli fissati dal già citato comma 1 dell'articolo
2 del dlgs 81/2015, che riconduce le collaborazioni a prestazioni di lavoro
sostanzialmente prive di anche una minima organizzazione da parte del
prestatore, soggetto integralmente all'organizzazione del committente che
decide anche tempi e luogo di lavoro; tali prestazioni sono considerare
automaticamente come lavoro subordinato. Il lavoro autonomo, dunque,
simmetricamente presuppone piena libertà di organizzazione della prestazione
da parte del prestatore, che si obbliga sostanzialmente solo al risultato
dedotto nel contratto, senza vincolarsi a modalità operative definite dal
committente.
In secondo luogo, mentre le collaborazioni danno vita ad un
prodotto «intermedio», in quanto si inseriscono di fatto nell'attività
produttiva ma non la concludono, il lavoro autonomo di regola dà vita ad un
risultato «finale», un prodotto preciso che non può essere realizzato
dall'ente committente. Per tutto il 2017 le p.a. non avranno la necessità di
utilizzare la procedura di certificazione prevista dal comma 3 dell'articolo
2 del dlgs 81/2015, utile solo ai datori di lavoro del settore privato, per
i quali il divieto delle collaborazioni è già da tempo operante (articolo ItaliaOggi del 30.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI FORNITURE:
Spese per mobili e arredi da contenere.
Spese per mobili e arredi di nuovo da contenere. Dal 2017, infatti, torna a
essere applicabile agli enti locali l'art. 1, comma 141, della legge n.
228/2012, che ha imposto a tutte le p.a. un tetto massimo pari al 20% delle
analoghe spese sostenute in media negli anni 2010 e 2011.
Per il 2016, comuni, province e città metropolitane erano state esentato
dall'obbligo dal decreto mille proroghe (art. 10, comma 3, del dl 210/2015),
ma in mancanza di ulteriori proroghe dal 2017 saranno nuovamente ad esso
soggetti.
Sono libere le spese per mobili e arredi non destinati all'uso scolastico e
dei servizi all'infanzia e quelle relative ad acquisti funzionali alla
riduzione degli oneri connessi alla conduzione degli immobili.
In tal caso, l'organo di revisione economico-finanziaria verificano
preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla
minore spesa derivante dal tetto.
Eventuali violazioni sono valutabili ai fini della responsabilità
amministrativa e disciplinare.
Restano vincolanti anche i limiti di spesa previsti dagli artt. 6 e 9 del dl
78/2010 (studi e consulenze, relazioni pubbliche, convegni, mostre,
pubblicità e rappresentanza, sponsorizzazioni missioni, lavoro flessibile e
formazione).
Al riguardo, ricordiamo che la Corte costituzionale con sentenza n. 139/2012
e la sezione autonomie della Corte dei conti con delibera n. 26/2013 hanno
stabilito che deve essere rispettato il limite complessivo e che è
consentito che lo stanziamento in bilancio fra le diverse tipologie avvenga
in base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali dell'ente.
Fra le spese per studi e consulenze, non devono essere considerate le
attività conferite per gli adempimenti obbligatori per legge, mancando in
tale ipotesi qualsiasi facoltà discrezionale dell'amministrazione.
Sono, pertanto, da escludere gli incarichi riferiti a prestazioni
professionali consistenti nella resa di servizi obbligatori per legge
(qualora non vi siano uffici o strutture dell'ente a ciò deputati), gli
incarichi di rappresentanza in giudizio per il patrocinio
dell'amministrazione; gli appalti per esternalizzazione di servizi necessari
a raggiungere gli scopi dell'amministrazione.
Nell'analisi delle sponsorizzazioni sono da intendersi quelle spese
derivanti da contratti onerosi a prestazioni corrispettive, a cui, a fronte
del ritorno di immagine derivante dal sostegno economico a una
manifestazione, l'ente eroga somme di denaro. Non sono tali i contributi
alle associazioni (articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
APPALTI:
Appalti, operatori in data base. Banca dati dei concorrenti per
velocizzare le procedure. Avviata il 22/12 la consultazione pubblica per
definire il dm. Contributi fino al 31 gennaio.
Al via la consultazione pubblica per la definizione del decreto ministeriale
sulla nuova Banca dati degli operatori economici. Imprese, professionisti e
amministrazioni potranno inviare contributi fino al 31.01.2017. La nuova
banca dati consentirà la velocizzazione delle procedure di appalto
attraverso la messa in rete dei dati di tutti i concorrenti alle procedure
di affidamento.
Il 22 dicembre è stata infatti avviata la procedura di consultazione
pubblica propedeutica alla messa a punto della Banca dati nazionale degli
operatori economici (Bdoe), istituita in base al nuovo codice dei contratti
pubblici (articolo 81) presso il ministero delle infrastrutture.
La Banca
dati dovrà essere lo strumento informatico cui le amministrazioni potranno
accedere a tutte le informazioni relative ai partecipanti alle procedure di
affidamento di contratti pubblici. Sarà, nella sostanza, una sorta di
evoluzione del sistema lanciato qualche anno fa dall'allora Avcp e
denominato AvcPass, un'esperienza non del tutto efficace all'esito della
quale il legislatore ha scelto di trasferire al dicastero di Porta Pia,
sotto una nuova veste, il sistema informatico messo in piedi dall'autorità
allora in via di Ripetta.
Una volta raccolto il testimone, il ministero delle infrastrutture e dei
trasporti ha scelto di dare attuazione al dettato normativo attraverso un
percorso che ha visto una prima fase, gestita in collaborazione con Fpa (Formez
pubblica amministrazione) e Cresme, di coinvolgimento degli stakeholder
istituzionali detentori delle banche dati.
In tale sede sono stati per
raccolti contributi sul processo di costruzione della nuova banca dati ed è
stata verificata la disponibilità dei dati in possesso degli enti delle
amministrazioni competenti. A questa prima fase segue adesso un secondo step
che consiste nella consultazione online, dal 22.12.2016 al 31.01.2017 al fine di «raccogliere i contributi di chi quotidianamente è coinvolto
nel processo del procurement pubblico, prima della pubblicazione del decreto
attuativo oggetto della consultazione».
Lo scopo del processo partecipativo è proprio quello di concordare possibili
modalità di semplificazione nell'accesso e nel funzionamento delle
procedure, di raccolta dei dati stessi, nonché di interoperabilità delle
banche dati e dei sistemi coinvolti nei procedimenti di appalto. La finalità
ultima che guida questa operazione, non certo semplice, è quella di rendere
il processo di procurement snello e semplice per gli operatori economici ed
efficiente per la pubblica amministrazione, andando a migliorare, aprire e
snellire processi che fino ad oggi hanno influito su tempi e modi di
completamento degli appalti.
Il ministero ha infatti stimato che i cosiddetti «tempi di attraversamento»,
cioè il lasso di tempo necessario per passare da una fase procedurale alla
successiva, assorbe in media il 57% dei complessivi tempi affidamento degli
appalti. Appare evidente che la possibilità per le amministrazioni di
verificare on-line presso un'unica banca dati tutti gli elementi inerenti le
dichiarazioni rese dai concorrenti e le stesse certificazioni di lavori,
forniture e servizi, renderebbe la procedura di gara ben più snella e rapida
rispetto ad oggi.
Il tutto consentendo agli operatori economici anche una riduzione degli
oneri inerenti la qualificazione in ogni gara. La consultazione è ospitata
su CommentaP.a. del Formez P.a. e i risultati della consultazione sulla Bdoe
(disponibile alla pagina
http://commenta.formez.it/ch/Bdoe) saranno presi
in considerazione dal ministero nella stesura del documento definitivo del
decreto, sentiti l'Agenzia per l'Italia digitale e l'Anac (articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Edilizia scolastica, più tempo per i lavori. Milleproroghe
oggi in Cdm: i sindaci possono pagare a fine 2017 - Salta la
modifica sulle comunicazioni Iva.
Un anno in più ai
sindaci per saldare i conti degli interventi di
ristrutturazione delle scuole. Non solo. Confermati per un
altro anno i ricercatori di tipo «B». Mentre salta la
modifica sulle comunicazioni Iva: l’ipotesi di riscrivere il
calendario degli invii delle fatture emesse e ricevute, dopo
le proteste dei commercialisti, non entra nel decreto di
fine anno per essere rinviata, forse, a un nuovo
provvedimento d’urgenza. Sono le ultime novità del decreto
“milleproroghe” oggi all’esame del Consiglio dei ministri.
Anche se il piatto forte del Dl resta il pubblico impiego
con il possibile salvataggio sul filo di lana di 40mila
precari. Confermata anche l’anticipazione del Sole 24 Ore
sulla proroga di 6 mesi dell’obbligo di installazione delle termovalvole su cui però sarà necessario comunque attendere
un via libera di Bruxelles (sia sulla Pa che sulle
termovalvole si rinvia ai servizi in pagina).
Sul fronte dell’edilizia scolastica, dunque, il Governo
consente ai Comuni di poter utilizzare le risorse già
stanziate per interventi di ristrutturazione ma soprattutto
di spostare il pagamento dei lavori fino al 31.12.2017. La proroga si rende necessaria, in quanto gli enti
locali hanno potuto aggiudicare le gare per l’esecuzione dei
lavori solo entro il 29.02.2016 con conseguente
ritardo sugli interventi di risanamento degli edifici.
Sempre dal Miur, ma sul fronte università, è stato chiesto
un mese in più di proroga, per arrivare così a 4 mesi
complessivi (3+1), alle commissioni chiamate a valutare ai
fini dell’abilitazione nazionale i candidati che aspirano
alla cattedra. Tra le proroghe in arrivo anche quella che
differisce al 31.12.2021 il termine di fine 2017 per
l’equipollenza dei titoli di studio Afam (ossia quelli
rilasciati dagli istituti dell’alta formazione artistica e
musicale).
Per i ricercatori cosiddetti di tipo «b», il decreto punta
ad autorizzare le università a prorogare fino al 31.12.2017, con proprie risorse, i contratti di ricercatori a
tempo determinato in scadenza che non hanno partecipato
all’abilitazione scientifica nazionale. E così facendo gli
interessati potranno ora parteciparvi.
Dalla Difesa è giunta sia la richiesta di prorogare ancora
di un anno l’avanzamento degli ufficiali dei Carabinieri sia
quella del pagamento del lavoro straordinario per l’Arma e
per le forze di polizia.
Per la sicurezza appare confermata la possibilità per l’intelligence
di effettuare colloqui preventivi nei confronti di detenuti
per raccogliere informazioni utili a prevenire delitti di
terrorismo.
Tra le norme in discussione anche due possibili interventi
sul fronte terremoto. Uno potrebbe riguardare il
differimento a tutto il 2017 della sospensione delle rate
dei mutui contratti per gli edifici danneggiati o distrutti
dal sisma del Centro-Italia. Mentre l’altro dovrebbe
chiarire che la sospensione del pagamento delle ritenute non
si limita ai soli datori di lavoro del “cratere” ma a tutte
le imprese che hanno lavoratori o sedi nell’area
terremotata.
Per il conferimento in discarica dei rifiuti è confermata la
quarta proroga del Sistri, il sistema di tracciabilità.
Proroga che si rende necessaria in attesa della pronuncia
del Tar Lazio sulla gara di assegnazione della gestione del
servizio. Con la proroga resta, dunque, un doppio regime
(cartaceo e informatizzato) per la registrazione dei rifiuti
speciali e la sterilizzazione delle maxi-sanzioni per chi
non si adegua (articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Per
le termovalvole sei mesi in più. Ma serve il sì dell’Ue.
All’ultimo giro di boa il Dl “milleproroghe” potrebbe
raccogliere anche il posticipo del termine per
l’installazione di contabilizzatori e termovalvole,
attualmente fissato al 31 dicembre. La sanzione per ogni
singolo proprietario per il mancato adempimento va da 500 a
2.500 euro.
Ma anche se fosse un altro provvedimento a fissare la
proroga, magari nei primi giorni di gennaio, non cambierebbe
nulla: le Arpa, agenzie regionali per l’ambiente, incaricate
dei controlli, non hanno certo gli organici (né, a quanto
risulta, la priorità) per far scattare centinaia di migliaia
di ispezioni.
Le buone notizie sulle possibilità di slittamento del
termine vengono da Confedilizia, che da mesi ha cercato di
spiegare al Governo che le incertezze normative e il
susseguirsi dei decreti (ultimo il 146/2016 , quest’estate)
avevano messo milioni di condòmini in una situazione di
caos.
«Abbiamo ricevuto assicurazioni dal Governo sulla
priorità della proroga -spiega il presidente Giorgio Spaziani Testa- e possiamo dire che l’importanza della
questione è stata compresa. Serve, però, un consenso anche
informale, ci è stato spiegato, con l’Unione europea, per
evitare le procedure d’infrazione, e anche per questo uno
slittamento di sei mesi, sino a fin giugno, è più
proponibile di un intero anno».
Spaziani Testa è ottimista
sull’esito finale della richiesta «Che sarebbe opportuno
trovasse spazio nel decreto “milleproroghe”, in modo da
rassicurare tutti i cittadini coinvolti». Del resto, aveva
dichiarato lo stesso Spaziani Testa al Sole 24 Ore, «anche
in Francia il riferimento per completare le installazioni è
il 2017. Se si interpreta bene il testo della direttiva
diventa possibile utilizzare almeno i primi mesi del 2017»
L’obbligo è da ottemperare entro fine anno, come prescrive
il Dlgs 102/2014, che recepisce in Italia la direttiva
2012/27/UE. E riguarda tutti i condomìni con riscaldamento
centralizzato, a meno di motivati e certificati impedimenti
tecnici. In particolare, si tratta di installare un
contatore di fornitura (spesso già presente) in
corrispondenza dello scambiatore di calore di collegamento
alla rete o del punto di fornitura dell’edificio.
Inoltre, e qui nascono i problemi maggiori, a cura del
proprietario dell’unità immobiliare deve essere installato
un «sotto-contatore» per ogni unità immobiliare, adatto a
misurarne il consumo energetico. Se questo non è possibile,
come accade nei molti edifici vecchi con distribuzione
cosiddetta “a colonna”, sempre i singoli proprietari
dovranno installare sistemi di termoregolazione e
contabilizzazione in corrispondenza di ciascun «corpo
scaldante» (classicamente il calorifero) nelle unità
immobiliari.
Il fatto che solo il 16 agosto scorso sia entrato in vigore
l’ultimo decreto legislativo correttivo alla già complessa
normativa ha avuto due effetti devastanti:
1) ha reso in
buona parte fuori norma i lavori già fatti dai condomìni più
solleciti, che si erano attivati sulla base delle precedenti
normative, anche regionali;
2) ha reso di fatto impossibile
la procedura di convocazione dell’assemblea condominiale,
votazione della delibera con scelta dell’impresa e relativa
esecuzione dei lavori nei soli quattro mesi dell’anno
rimasti a disposizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Progetti
anti-sismici in base alla pericolosità delle zone.
Le azioni sismiche dei progetti, si definiscono a partire
dalla pericolosità sismica di base del sito di costruzione.
E questo rende più facili gli adeguamenti antisismici sugli
edifici esistenti.
È quanto si legge nel nuovo decreto del ministero delle
Infrastrutture sulle norme tecniche per le costruzioni, che
hanno ricevuto il via libera dalla
Conferenza unificata del 22.12.2016.
L'articolo 2 del provvedimento specifica che per le opere
pubbliche in corso d'esecuzione fino all'entrata in vigore
delle nuove Ntc (Norme tecniche per le costruzioni) si
potranno applicare le vecchie Ntc 2008 fino all'ultimazione
dei lavori. Invece, per i lavori pubblici già affidati e per
i progetti definitivi o esecutivi già affidati prima
dell'entrata in vigore delle nuove norme, si potranno
applicare le precedenti disposizioni solo nel caso in cui la
consegna dei lavori avvenga entro cinque anni.
Nei lavori privati, le cui opere strutturali siano in corso
d'esecuzione o per le quali sia già stato depositato il
progetto esecutivo prima dell'entrata in vigore, si potranno
continuare ad applicare le previgenti norme tecniche, fino
all'ultimazione degli stessi (senza limiti temporali in
questo caso). Per strutture o elementi strutturali snelli di
forma cilindrica, quali ciminiere, torri di
telecomunicazioni o singoli elementi di carpenteria si deve
tenere conto degli effetti dinamici indotti al distacco
alternato dei vortici dal corpo investito dal vento.
Tali effetti possono essere particolarmente severi quando la
frequenza di distacco dei vortici uguaglia una frequenza
propria della struttura, dando luogo a un fenomeno di
risonanza. In questa situazione le vibrazioni sono tanto
maggiori quanto più la struttura è leggera e poco smorzata.
Le norme si applicano a tutte le costruzioni e agli
interventi atti a sostenere in sicurezza un corpo di terreno
o di materiale con comportamento simile. In particolare ai
muri, per i quali la funzione di sostegno è affidata al peso
proprio del muro e a quello del terreno direttamente agente
su di esso. Alle strutture miste, che esplicano la funzione
di sostegno anche per effetto di trattamenti di
miglioramento e per la presenza di particolari elementi di
rinforzo e collegamento.
La scelta del tipo di opera di sostegno deve essere fatta in
base a dimensioni e esigenze di funzionamento dell'opera,
caratteristiche meccaniche dei terreni in sede e di riporto,
regime delle pressioni interstiziali, interazione con i
manufatti circostanti, condizioni di stabilità del sito
(articolo ItaliaOggi del 29.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Improrogabile
la misurabilità dell'impatto normativo.
In attesa del decreto correttivo al nuovo Codice
dei contratti pubblici.
Si avvicina il termine per l'emanazione del cosiddetto
decreto correttivo al nuovo codice dei contratti pubblici,
previsto per aprile 2017.
È una norma che dovrebbe
consentire a dare piena attuazione a una materia
estremamente complessa (se non addirittura enciclopedica,
nel giudizio di non pochi studiosi di diritto) sulla quale
il consiglio nazionale, in rappresentanza di una platea
particolarmente estesa di operatori esecutivi, ritiene
opportuno esprimere le proprie considerazioni, frutto di un
monitoraggio attento e puntuale attivato sin dalle fasi
propedeutiche e puntualmente esercitato dall'entrata in
vigore del codice stesso, otto mesi addietro.
Ad alcune vere e proprie «dimenticanze» (in primis la
disciplina sull'appalto a corpo), a oggi si somma la
mancanza di molti provvedimenti di ordine regolamentare che,
di fatto, non consentono l'operatività in alcuni settori o
concorrono ad aumentare l'alea dell'incertezza, provocando
un oggettivo rallentamento delle attività, quando non
addirittura il blocco.
Un esempio: le linee guida per i
commissari di gara emanate dall'Anac sono vincolanti, ma non
operative, a causa della mancanza del regolamento (che la
stessa Autorità dovrà adottare entro sei mesi dalla data di
pubblicazione) e del decreto su tariffe e compensi da parte
del Mit. Altre difficoltà sono poi correlate all'esistenza
di veri e propri «vuoti normativi» per gestire la fase
transitoria: come trattare le opere urgenti o il collaudo
per servizi e forniture?
Per alcune tematiche, invece, si
riscontra una duplicazione delle fonti, con qualche
sovrapposizione: le linee guida sul responsabile unico del
procedimento (Rup) non riportano le norme abrogate,
determinando, appunto, una coesistenza di disposizioni.
Infine, dal monitoraggio dei provvedimenti atti a completare
il quadro legislativo risulta che dei 53 previsti ne sono
stati emanati solo 12, anche se molti dovrebbero essere in
dirittura di arrivo.
L'impressione è di essere di fronte a una sorta di
«congestione» normativa che poteva essere in parte superata
dilatando i tempi di emanazione del correttivo: un periodo
più lungo avrebbe sicuramente giovato a un risultato
migliore.
A fronte di questo scenario assume ancora maggiore
importanza un'operatività immediata della cabina di regia
(peraltro già istituita), finalizzata a svolgere la
ricognizione sullo stato di attuazione della nuova normativa
e individuare le difficoltà riscontrate dalle stazioni
appaltanti. Un'attività fondamentale per valutare le
proposte avanzate dagli operatori e coordinare l'adozione di
linee guida e testi unici.
Sino ad ora, come rappresentanti del mondo delle professioni
tecniche, abbiamo fornito piena collaborazione lungo
l'intero iter, pur a fronte dell'accoglienza parziale delle
richieste avanzate; rinnovando l'impegno anche per le fasi a
venire, confidiamo nella possibilità di essere ascoltati per
contribuire al miglioramento del sistema. Nella
consapevolezza che per fare un salto concreto e definitivo
verso la trasparenza, a garanzia della concorrenza e della
correttezza comportamentale, sia necessario un cambiamento
culturale che potrà essere attuato e accelerato anche con
l'adozione definitiva e completa di supporti tecnologici
(già ampiamente disponibili) per gestire dati e ottimizzare
l'informazione e la comunicazione.
Tutto questo sarà possibile se la classe dirigente, politica
e amministrativa, prenderà atto che nessuna operazione
normativa è a costo zero e che la ricaduta sociale ed
economica delle leggi va verificata periodicamente,
misurandone i risultati diretti e indiretti
(articolo ItaliaOggi del 29.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Costruzioni,
norme al traguardo. Primo passo per la prevenzione dai
terremoti avviata dal governo.
Progettazione. Ok finale alla revisione delle regole
tecniche accelerata dal ministro Delrio dopo il 24 agosto.
L'aggiornamento delle Norme tecniche per
le costruzioni, il testo quadro per la progettazione di
strutture in Italia, arriva al traguardo.
La
Conferenza
unificata, subito prima di Natale (22.12.2016), ha infatti dato l'intesa
sullo schema di Dm del ministro delle Infrastrutture
Graziano Delrio, che approva la revisione delle Ntc. È un
passaggio fondamentale perché chiude un percorso che si era
aperto a marzo del 2010, quando era stato attivato il
processo di revisione del Dm del 14.01.2008. Ora manca
solo una comunicazione a Bruxelles, che prenderà due mesi.
Dunque, le nuove Ntc arriveranno nei primi mesi del 2017.
È il primo passo concreto nella strategia di prevenzione
contro i terremoti lanciata dal Governo dopo l'estate.
L’aggiornamento, infatti, è stato coordinato con il nuovo
sismabonus.
Qualche data rende l'idea di quanto sia stato lungo il
tragitto delle nuove Ntc. La precedente versione delle Norme
tecniche, infatti, era stata approvata con il Dm datato 14.01.2008. A marzo del 2010 era stato avviato presso
il Consiglio superiore dei lavori pubblici il processo di
revisione (sulla carta biennale) che, tra stop e rinvii, si
era chiuso a novembre del 2014, sotto la guida dell'attuale
presidente del Cslp, Massimo Sessa. Dopo quel via libera,
però, si è aperto un lungo momento di revisione, che ha
coinvolto Protezione civile e ministero dell'Interno. Quello
davanti alla rappresentanza di Regioni ed enti locali era
l'ultimo scoglio da superare, prima di una comunicazione a
Bruxelles e l’uscita in «Gazzetta».
L'aggiornamento non porta novità solo formali. Il
cambiamento più importante è stato inserito al capitolo 8,
che riguarda gli edifici esistenti e il loro adeguamento
alle norme antisismiche. Il nuovo testo, in sostanza, crea
un terzo genere, a metà strada tra il semplice miglioramento
(che non richiede interventi rilevanti in chiave
antisismica) e la realizzazione di strutture nuove. Gli
edifici esistenti, con un approccio di grande realismo,
incassano uno sconto sui coefficienti del 20% rispetto ai
nuovi. Ma non in tutti i casi. Restano scoperte una serie di
ipotesi, come quella della sopraelevazione o gli ampliamenti
dei fabbricati.
La novità riguarderà soprattutto il caso di cambi di classe
e di destinazione d'uso degli edifici, che comportino un
aumento dei carichi verticali superiore al dieci per cento.
In queste ipotesi sarà più facile adeguarsi alla normativa
antisismica. Un intervento che nasce da un problema pratico:
solitamente adeguare un edificio esistente agli standard di
un nuovo è impossibile o, comunque, troppo costoso.
Queste
facilitazioni spiegano perché, per il Governo, queste norme
tecniche rappresentino il principale strumento attuativo,
insieme agli incentivi fiscali in fase di definizione (come
il sismabonus), delle politiche di prevenzione del rischio
sismico del patrimonio edilizio nazionale (articolo Il Sole 24 Ore del 28.12.2016). |
VARI: Da
gennaio debutta la successione online Tra un anno via la
carta. Semplificazioni. Provvedimento Entrate.
La dichiarazione di successione
passa dal modulo cartaceo a quello digitale: doppio binario
(cartaceo e digitale) dal 23.01.2017 fino al 31.12.2017. Scaduto questo termine, il vecchio modulo si
utilizzerà solo per le successioni apertesi in data
anteriore al 03.10.2006, nonché per le dichiarazioni
integrative, sostitutive o modificative di una dichiarazione
presentata con il sistema cartaceo.
È quanto stabilito da il
provvedimento 27.12.2016 n. 231243 di prot. (Approvazione del
modello di dichiarazione di successione e domanda di volture
catastali, delle relative istruzioni e delle specifiche
tecniche per la trasmissione telematica) del Direttore
dell’agenzia delle Entrate.
Il nuovo modello di dichiarazione di successione è reso
disponibile in formato elettronico sul sito internet
dell’agenzia delle Entrate e permette di compilare e
trasmettere la dichiarazione, calcolare le imposte da
versare in autoliquidazione e richiedere le volture
catastali degli immobili.
Il formato elettronico permetterà anche di visualizzare la
dichiarazione presentata nel cassetto fiscale del
dichiarante, dei coeredi e dei chiamati.
La dichiarazione di successione in formato digitale potrà
essere presentata in via telematica all’agenzia delle
Entrate, direttamente dai contribuenti abilitati ai servizi
telematici o tramite gli intermediari abilitati nonché
l’ufficio territoriale dell’agenzia delle Entrate competente
per la lavorazione del modello stesso.
Al modello della dichiarazione di successione telematica
dovranno essere allegati tutti i documenti utili alla
dichiarazione, necessariamente in formato conforme, cioè
scansionati in file di formato “pdf/a” o “tiff”.
Quanto al pagamento dovuto dal contribuente, il nuovo
software è in grado di calcolare le imposte ipotecarie,
catastali e i tributi speciali, che si possono versare in
autotassazione direttamente online, tramite addebito in
conto corrente; nel caso in cui il dichiarante si avvalga,
per la presentazione del modello in formato digitale,
dell’ufficio territoriale competente dell’agenzia delle
Entrate, sarà possibile pagare le somme dovute anche con
modello F24.
Il nuovo modello digitale è composto di due “fascicoli”: il
primo è da compilare in tutti i casi, in quanto contiene le
informazioni essenziali ai fini della predisposizione del
modello, mentre il secondo va predisposto solo in presenza
di particolari beni mobili e immobili.
In generale, nel primo, oltre ai dati identificativi del
defunto e dei beneficiari dell’eredità, devono essere
indicati, ove presenti, i dati relativi ai beni immobili
(terreni e fabbricati), i documenti comprovanti le
passività, i documenti da allegare e le dichiarazioni
sostitutive richieste per legge. Nel secondo fascicolo,
invece, andranno indicate ulteriori categorie di beni, non
compresi nel primo, quali, ad esempio, i beni immobili
iscritti al catasto tavolare, gli aeromobili, le
imbarcazioni e le donazioni fatte in vita dal defunto (articolo Il Sole 24 Ore del 28.12.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mi
dica per quale partito ha votato. La difesa: il prescelto
deve avere la mia fiducia. Il
sindaco 5stelle di Cattolica interroga i candidati nel
concorso pubblico e scoppia la polemica.
Bando pubblico: chi vuole essere assunto (per un anno) dal
Comune e diventare addetto stampa e portavoce di sindaco e
giunta? Dopo che la delibera con gli estremi del concorso è
stata pubblicata in 24 hanno inviato la propria candidatura.
L'esame dei curricula (tra i titoli richiesti vi era quello
della laurea) ha sfoltito il gruppo e gli aspiranti sono
rimasti 20, convocati dalla commissione per l'esame orale.
Non si aspettavano certo che il colloquio avvenisse in quel
modo. Si sono presentati dinanzi alla commissione col suo
presidente, il sindaco 5stelle, Mariano Gennari, che senza
giri di parole ha domandato, mettendo a verbale: lei per chi
vota? E ancora: in occasione del recente referendum
costituzionale come si è schierato?
La graduatoria rischia di essere invalidata. La scelta di un
candidato anziché gli altri, trattandosi di un concorso
pubblico, non può essere determinata dall'appartenenza
politica o dall'inclinazione verso questo o quel partito. Il
sindaco può, in certi casi, scegliersi l'addetto stampa di
fiducia. Ma se, com'è successo a Cattolica, si opta per la
strada del concorso pubblico bisogna seguirne le regole e
soprattutto non può succedere alcuna discriminazione in base
alle proprie idee politiche.
Dice il sindaco 5stelle, Mariano Gennari: «I miei uffici mi
hanno detto che è obbligatorio indire un concorso anche per
un mandato fiduciario come quello del mio portavoce. Ho
seguito questa indicazione ma quando si è trattato di
scegliere, nel colloquio ho inserito anche una domanda
sull'appartenenza politica. Come potrebbe un iscritto,
poniamo, del Pd, fare da portavoce a me che sono 5stelle?
Sarebbe un problema. Quindi mi è parso legittimo chiedere se
avessero tessere di partito per capire se posso fidarmi o
meno e scegliere di conseguenza».
Un'altra domanda ha riguardato il referendum costituzionale.
Da che parte stavano i candidati? Anche in questo caso c'è
chi non ha gradito. Il sindaco ribatte: «Mi è parso
legittimo appurare con quale schieramento i candidati si
erano posizionati in occasione del referendum. Si è
semplicemente trattato di verificare se c'è sintonia oppure
no».
Alcuni candidati hanno annunciato ricorso e la nomina,
prevista per l'inizio del nuovo anno, potrebbe slittare. «Ma
io -si giustifica il primo cittadino pentastellato- ho
solo voluto valutare il mio feeling coi candidati. Se
facessi una scelta sbagliata mi ritroverei nella tempesta
com'è successo a Roma a Virginia Raggi. Non credo di avere
fatto nulla di male».
Il Pd, all'opposizione, sostiene che è stata infranta la
legge: «È inammissibile la discriminazione, ma se c'è una
cosa che fa ancora più orrore, è la discriminazione
ideologica. L'Italia a forza di lasciar fare ha infatti già
vissuto il ventennio e gli anni di piombo. Per questo è
stata approvata la legge Mancino nel 1993, che punisce le
discriminazioni».
Gennari ha 54 anni. È nato e residente a Cattolica (17mila
abitanti, in provincia di Rimini, al confine con le Marche).
Dopo la gestione (come tanti in Romagna) di un hotel sul
mare, si è dedicato a sviluppare scelte strategiche di
prodotto e di marketing per diverse aziende del settore
agroalimentare. Alle ultime elezioni ha vinto al
ballottaggio sul candidato Pd, Sergio Gambini, il quale per
altro era risultato in testa al primo turno: 38,1% contro
25,9%. Esito ribaltato al ballottaggio: 57,7% per il
candidato 5stelle, 42,2% per quello Pd.
Così una roccaforte
romagnola della sinistra è crollata, seppure con la
complicità del ballottaggio che cementa chi è contro.
Commenta lo sconfitto: «È stata una sonora bocciatura e non
voglio sottovalutare il giudizio negativo che può esserci
stato anche sulla mia persona come candidato. Credo però che
nel confezionare questo pessimo esito elettorale abbia
prevalso un clima nazionale e una logica da fronte di
liberazione dal Pd, particolarmente dove governava da anni.
È successo ovunque un candidato di centro sinistra sia
andato al ballottaggio con il M5s, ed è successo anche a
Cattolica».
Gennari è un grillino doc, neppure l'epurazione di Federico
Pizzarotti, che era l'altro sindaco 5stelle
dell'Emilia-Romagna, lo ha turbato: «Mi spiace per quanto è
successo a Parma, gli auguro le migliori cose. Pizzarotti
pensa di poter fare a meno del movimento, io sono certo che
il movimento possa fare a meno di Pizzarotti. Lo dico dopo
aver visto in giro l'entusiasmo per l'Italia a 5 Stelle».
Ora il sindaco di Cattolica rischia di finire nell'occhio
del ciclone per il concorso politicizzato, qualche mese fa
aveva dovuto invece difendersi perché sulla carta intestata
del Comune era comparsa la scritta «Comune a 5 stelle», con
la conseguente reazione delle opposizioni. «Non si
dovrebbero mettere bandiere -commenta l'ex-sindaco Pd, Paolo Calvano- né sottotitoli di partito sulla carta intestata
ufficiale del Comune ma fare il bene di tutta la comunità».
Risultato: dietrofront del sindaco: «È stato l'errore in
buona fede di un'impiegata».
Bucce di banana? «Ma no, dopo 70 anni finalmente a Cattolica
si sta cambiando» assicura il sindaco che ha messo fine alla
lunga era del centrosinistra. Aggiunge: «Gli elettori hanno
visto chi parlava con il cuore e chi in politichese».
Nella città romagnola si è cementata una sorta di alleanza
organica tra i 5stelle e la Lega: avvisaglia di quanto sta
avvenendo, per esempio sull'immigrazione, in ambito
nazionale? In ogni caso qui la Lega ha ufficialmente
invitato i propri aderenti a votare (al ballottaggio) per il
candidato grillino. E lui ha accettato con entusiasmo: «Sì è
vero e il peso di questi voti si è fatto sentire visto che
abbiamo mille voti circa di distacco, ma è anche vero che
nel segreto dell'urna nessuno sa davvero su chi si mette la
croce».
Cattolica non è certamente Roma. Ma anche in Romagna un
sindaco 5stelle sta facendo parlare di sé. In queste
settimane di fine anno ha ricevuto alcune delegazioni, tra
le quali quella di Confcommercio, i cui rappresentanti hanno
poi dichiarato che «pur comprendendo le difficoltà delle
amministrazioni locali nel far quadrare i conti, abbiamo
chiesto al sindaco un'inversione di tendenza rispetto al
passato, che ha visto le imprese in grave difficoltà per il
peso schiacciante di tasse e balzelli. E' stato quindi
richiesto una revisione al ribasso delle imposte locali: una
misura che rappresenterebbe un incoraggiante segnale di
cambiamento per gli operatori della città».
Il bilancio comunale sarà il prossimo impegno del sindaco.
Nuove polemiche sono dietro il portone
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2016). |
GIURISPRUDENZA |
PATRIMONIO: Strade,
il gestore risponde della scarpata. Incidenti. Obbligo di
manutenzione esteso alle pertinenze - L’omissione può
portare al concorso di colpa.
Un errore di guida va sempre
valutato alla luce di eventuali anomalie della strada. E tra
queste ultime rientrano pure quelle di parti esterne alla
carreggiata, come per esempio le scarpate laterali.
Così la III Sez.
civile della Corte di Cassazione, con la
sentenza 10.01.2017 n. 260, ha
riconosciuto il diritto al risarcimento per un
autotrasportatore che aveva messo le ruote fuori dalla
carreggiata, facendo ribaltare il proprio mezzo.
Il conducente non si era accorto dello “scalino”
presente appena all’esterno del nastro d’asfalto e prima
della scarpata, perché c’erano erbacce che non erano state
tagliate dall’ente gestore della strada e ne occultavano il
ciglio. Lo spostamento dell’autocarro verso destra era stata
una scelta fatta dal guidatore per agevolare l’incrocio con
veicoli che provenivano in senso opposto.
La Corte d’appello aveva respinto la richiesta di
risarcimento dell’autotrasportatore, perché aveva dato
priorità alle sue dichiarazioni rese alle forze dell’ordine
che avevano rilevato l’incidente (considerate confessione
stragiudiziale): l’uomo aveva ammesso un errore di manovra.
Inoltre, i giudici di secondo grado avevano ritenuto che il
dislivello che aveva fatto ribaltare l’autocarro, essendo
esterno all’asfalto, non rientrasse nella proprietà della
strada e quindi nelle competenze del suo gestore.
Ma la Cassazione ricorda che anche le scarpate, i fossi e le
banchine «devono considerarsi parti delle strade...e
perciò soggette allo stesso loro regime di demanialità, in
forza della presunzione “iuris tantum” posta dall’articolo
22 della legge 20.03.1865, n. 2248». D’altra parte, il
loro rapporto pertinenziale rispetto all’infrastruttura è
desumibile anche dal Codice della strada, anche se la
sentenza non lo cita.
La Cassazione cita poi un precedente che riconosce le
pertinenze come «fattore determinante dell’agibilità
della strada» (sentenza 12759/1991), uno che esclude la
limitazione della responsabilità del gestore alla sola
carreggiata (sentenza 9547/2015) e un altro che prevede
espressamente l’obbligo di manutenzione (o di segnalazione
di eventuali pericoli non eliminati) anche nella parte non
asfaltata che costeggia la strada (sentenza 22755/2013).
Dunque, poco importa che la parte esterna all’asfalto non
appartenesse all’ente proprietario e gestore della strada.
In assenza di misure dovute dall’ente, cioè la manutenzione
o la segnalazione del pericolo, la Cassazione ritiene che il
giudice di merito non può «limitarsi a valutare la
condotta del conducente sotto il profilo della prevedibilità
del pericolo», ma deve prendere in considerazione anche
le omissioni dell’ente, per valutare se e in che misura
hanno concorso a causare l’incidente. Ciò non era stato
fatto dalla Corte d’appello.
Di qui il rinvio a una sezione diversa della stessa Corte,
perché effettui questa valutazione. Cosa che,
verosimilmente, porterà a diminuire la quota di colpa del
guidatore e quindi a riconoscergli la parte di risarcimento
equivalente alla percentuale di responsabilità dell’ente
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.01.2017).
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MASSIMA
3. I due motivi, da valutare unitariamente in quanto
connessi, sono fondati.
Il giudice di merito ha accertato l'esistenza di uno "scalino"
fra carreggiata e ciglio erboso occultato dalla folta
vegetazione. Va premesso che le scarpate
delle strade statali, provinciali e comunali al pari dei
fossi e delle banchine ad esse latistanti, devono
considerarsi parti delle strade medesime e perciò soggette
allo stesso loro regime di demanialità, in forza della
presunzione "iuris tantum" posta dall' art. 22 della
legge 20.03.1865 n. 2248 all. f., e per effetto del rapporto
pertinenziale in cui si trovano con la sede stradale, quali
elementi accessori la cui situazione statica è fattore
determinante dell'agibilità della strada
(Cass. 28.11.1991, n. 12759).
In materia di responsabilità ex art. 2051
cod. civ., la custodia esercitata dal proprietario o gestore
della strada non è limitata alla sola carreggiata, ma si
estende anche agli elementi accessori o pertinenze
(Cass. 12.05.2015, n. 9547).
Per assicurare la sicurezza degli utenti la
P.A., quale proprietaria delle strade pubbliche, ha
l'obbligo di provvedere alla relativa manutenzione nonché di
prevenire e, se del caso, segnalare qualsiasi situazione di
pericolo o di insidia inerente non solo alla sede stradale
ma anche alla zona non asfaltata sussistente ai limiti della
medesima (Cass.
14.03.2006, n. 5445; 04.10.2013, n. 22755).
Indipendentemente dalla questione dell'appartenenza della
zona corrispondente al ciglio erboso,
l'esistenza dello scalino fra carreggiata e ciglio erboso
occultato dalla folta vegetazione costituisce pericolo
occulto, non specificatamente segnalato, rispetto al quale
quindi si estendono gli obblighi di manutenzione della
pubblica amministrazione.
3.1. Il giudice di merito ha statuito nel senso che la
manovra del Ba. era evento di per sé sufficiente a causare
l'evento dannoso con azione causale autonoma.
Allorquando sia accertato il carattere insidioso del
pericolo stradale, non segnalato dall'Amministrazione
proprietaria, in violazione delle norme del codice della
strada, il giudice, nell'accertare la responsabilità nella
verificazione dell'evento dannoso, non può limitarsi a
valutare la condotta del conducente sotto il profilo della
prevedibilità del pericolo, ma deve al contempo valutare
l'eventuale efficacia causale, anche concorrente, che abbia
assunto la condotta omissiva colposa dell'Amministrazione
nella produzione del sinistro
(Cass. 13.04.2007, n. 8847).
Il giudice di merito non ha effettuato tale valutazione. In
mancanza di essa non è possibile statuire, come ha fatto la
corte territoriale, nel senso dell'interruzione del nesso
eziologico tra la causa del danno ed il danno stesso per un
comportamento colposo dell'utente danneggiato. Dovrà quindi
il giudice di merito valutare l'eventuale efficacia causale,
anche concorrente, che abbia assunto la condotta omissiva
colposa dell'Amministrazione nella produzione del sinistro. |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettazione
senza freni. Meno oneri per i progettisti e discrezionalità.
Il Cds ha espresso molti rilievi critici sul dm attuativo
del Codice appalti.
Ridurre gli oneri per i progettisti e la discrezionalità
delle amministrazione nella definizione dei contenuti dei
livelli di progettazione. Bocciato il rinvio a linee guida
«atipiche» emesse dal Consiglio superiore dei lavori
pubblici. Necessario consultare le autonomie.
Sono questi alcuni dei punti sui quali si sofferma il
Consiglio di Stato nel
parere 10.01.2017 n. 22 sullo schema di decreto
ministeriale previsto dall'articolo 23, comma 13, del nuovo
codice dei contratti pubblici che definisce i nuovi tre
livelli progettuali, su proposta del Consiglio superiore dei
lavori pubblici.
Il Consiglio di stato chiede un supplemento di istruttoria e
sospende l'espressione del parere dopo avere formulato
molteplici rilievi di carattere generale e su diverse
disposizioni del testo.
Nel merito, dopo avere sottolineato come una delle maggiori
novità della nuova disciplina (che il decreto è chiamato ad
attuare) riguarda la sostituzione del progetto preliminare
con il progetto di fattibilità che «assume un ruolo
chiave nell'ambito del processo di progettazione», il
parere evidenzia come lo schema di decreto abbia previsto la
possibilità di articolare in due fasi il progetto di
fattibilità, con la prima fase che si conclude con la
redazione del «documento di fattibilità delle alternative
progettuali». Il parere evidenzia che la suddivisione
bifasica del primo livello «non appare favorire la
linearità della procedura» e non risulta coerente con il
codice che invece «sembra favorire la concentrazione delle
fasi».
I giudici censurano anche l'impostazione del nuovo codice
(art. 25, comma 5) sulla definizione di progetto di
fattibilità che andrebbe riformulato in «forma più
realistica». Un punto centrale dei rilievi riguarda la
possibilità che il decreto lascia alle stazioni appaltanti
di individuare contenuti diversi della progettazione e della
soppressione di uno o più livelli «conferisce
all'amministrazione un potere amplissimo di modellare la
procedura a suo piacimento».
La critica è quindi all'eccessivo «ampliamento della
discrezionalità dell'amministrazione viepiù in una materia
come la materia degli appalti pubblici storicamente segnata
da patologia di rilevanza penale».
Criticato anche l'aggravamento degli oneri progettuali a
carico dei progettisti, a fronte del «potere quasi
assoluto» lasciato alla p.a. di scelta del livello più
significativo della progettazione di fattibilità. Su questo
il parere viene condizionato all'adozione di modifiche al
decreto che assoggetti all'obbligo di motivazione la scelta
delle due fasi. Si suggerisce al ministero delle
infrastrutture di alleggerire gli oneri progettuali «alla
luce del principio di proporzionalità».
Critiche anche alla previsione nello schema di successive
linee guida emesse dal Consiglio superiore: «L'ennesimo
ricorso allo strumento delle linee guida, fuori
dall'impianto codicistico, è inappropriato». Rilievi
anche sulla scelta di prevedere gli stessi adempimenti per
tutte le tipologie di intervento e sull'aggravio dei costi
nella fase iniziale della progettazione, soprattutto perché
la maggior parte delle progettazioni riguardano interventi
di consolidamento e manutenzione di opere già esistenti.
Nel parere, comunque condizionato all'accoglimento dei
rilievi, i giudici di palazzo Spada chiedono anche
l'acquisizione dei pareri della Conferenza unificata e di «Itaca»
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione dell’ascensore esterno è da considerarsi quale
vano tecnico necessario al superamento delle barriere
architettoniche, al quale risulta applicabile l’art. 12,
comma 2, della legge regionale 29.11.2013, n. 32, per la
quale “gli ascensori esterni e i sistemi di sollevamento
realizzati al fine di migliorare l’accessibilità agli
edifici sono da considerarsi volumi tecnici, esclusi
pertanto dal calcolo del volume o della superficie e
soggetti alle norme del codice civile in materia di
distanze”, oltre che la deroga di cui all’art. 79 del DPR
06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri
interpretativi elaborati dalla giurisprudenza, deve
ritenersi applicabile, nella parte in cui prevede interventi
volti alla eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave.
Pertanto, il ricorso alla DIA risulta corretto:
- sia perché si tratta di un vano tecnico,
- sia perché, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. b), del
DPR 06.06.2001, n. 380, si tratta di un intervento edilizio
volto all’eliminazione delle barriere architettoniche, per
il quale, in base alle norme richiamate, vale anche la
deroga dalla distanza dai confini.
---------------
Le censure proposte nell’ambito del primo e terzo motivo,
con le quali il ricorrente sostiene che l’ascensore esterno
non potrebbe essere qualificato come volume tecnico e
dovrebbe essere ritenuto volumetricamente rilevante ai fini
della tipologia del titolo edilizio necessario alla sua
autorizzazione, sono prive di fondamento.
Si tratta infatti di un vano tecnico necessario al
superamento delle barriere architettoniche, al quale risulta
applicabile l’art. 12, comma 2, della legge regionale 29.11.2013, n. 32, per la quale “gli ascensori esterni e
i sistemi di sollevamento realizzati al fine di migliorare
l’accessibilità agli edifici sono da considerarsi volumi
tecnici, esclusi pertanto dal calcolo del volume o della
superficie e soggetti alle norme del codice civile in
materia di distanze”, oltre che la deroga di cui all’art. 79
del DPR 06.06.2001, n. 380, la quale, in base ai criteri
interpretativi elaborati dalla giurisprudenza, deve
ritenersi applicabile, nella parte in cui prevede interventi
volti alla eliminazione delle barriere architettoniche,
indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli
edifici stessi da parte delle persone in possesso di
apposita certificazione di handicap grave (in tali termini
cfr. Corte Costituzionale 10.05.1999, n, 167; Tar
Veneto, Sez. II, 05.04.2007, n. 1122).
Pertanto il ricorso alla denuncia di inizio attività risulta
corretto sia perché si tratta di un vano tecnico, sia
perché, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. b), del DPR 06.06.2001, n. 380, si tratta di un intervento edilizio
volto all’eliminazione delle barriere architettoniche, per
il quale, in base alle norme richiamate, vale anche la
deroga dalla distanza dai confini
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Acquirenti di immobili ubicati all’interno di piani di
lottizzazione rimasti inattuati.
---------------
Giurisdizione – Edilizia – Piani di
lottizzazione – Esecuzione delle convenzioni di
lottizzazione – Controversia – Giurisdizione esclusiva ex
art. 133, comma 1, lett. a, n. 2, c.p.a..
Edilizia – Piani di lottizzazione – Pretese derivanti dal
regolamento contrattuale – Soggetti che hanno acquistato la
proprietà di terreni ricadenti nel piano di lottizzazione ma
estranei alla convenzione – Non possono vantare pretese.
Le controversie in materia di esecuzione delle convenzioni
di lottizzazione rientrano nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lettera a), n.
2, c.p.a., essendo riconducibili agli accordi integrativi o
sostitutivi di cui all’art. 11, l. 07.08.1990, n. 241 (1).
I soggetti che hanno acquistato la proprietà di terreni
ricadenti in un piano di lottizzazione ma che non sono parti
della relativa convenzione sottoscritta tra il Comune e le
due lottizzanti non possono far valere le pretese derivanti
dal regolamento contrattuale atteso che l’accordo o la
convenzione produce effetti solo tra le parti (2).
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(1)
Cass. civ., S.U., 31.10.2014, n. 23256.
(2) La sentenza ha sul punto fatto ampi richiami alla
giurisprudenza della Corte di cassazione.
Ha ricordato che secondo Cass. civ., sez. I, 11.02.1994, n.
1384, l'adempimento dell'obbligazione di realizzare le opere
di urbanizzazione (primaria e secondaria), assunta dal
privato lottizzatore nei confronti del Comune con la
convenzione di lottizzazione può essere preteso in via
giurisdizionale e coattiva dal Comune stesso ma non dagli
aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli
lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla
convenzione.
Il Tar ha anche escluso di poter ricondurre gli attuali
proprietari degli immobili alla categoria degli aventi causa
degli originari lottizzanti ovvero quali obbligati
propter rem, posto che, come ha più volte chiarito la
Corte di cassazione (Cass. civ., sez. III, 20.08.2015, n.
16999) la cerchia degli obbligati è limitata a coloro che
abbiano chiesto e ottenuto le concessioni edilizie e non si
estende a coloro che abbiano in seguito acquistato le
abitazioni, i quali utilizzano le opere di urbanizzazione ma
non sono tenuti a pagare gli oneri relativi, che gravano
solo sui titolari del permesso di costruire
La natura reale dell'obbligazione riguarda, dunque, i
soggetti che hanno stipulato la convenzione, quelli che
hanno richiesto la concessione e quelli che hanno realizzato
l'edificazione avvalendosi della concessione rilasciata al
loro dante causa (Cass. n. 10947 del 1994; n. 6382 dei 1988;
n. 5541 del 1996; n. 12571 del 2002). Ha ancora chiarito la
Corte di cassazione (n. 11196 del 2007) che la
qualificazione di obbligazione propter rem è quella
che assume rilievo nel rapporto tra Comune e soggetto
proprietario dell'area fabbricabile, cui viene rilasciato il
provvedimento permissivo della costruzione.
Così, sono esclusi dall'area degli obbligati a tale titolo i
soggetti che utilizzano per una loro diversa edificazione le
opere di urbanizzazione realizzate da altri, senza avere con
questi alcun rapporto, e che, per ottenere la loro diversa
concessione edilizia, devono pagare al Comune concedente,
per loro conto, i relativi oneri di urbanizzazione.
Sono anche esclusi i soggetti successivi acquirenti da chi
ha realizzato la costruzione sulla base della concessione,
con la conseguenza che qualora quest'ultimo abbia anche
realizzato le opere di urbanizzazione può rivalersi con i
successivi acquirenti della spesa sostenuta solo in virtù di
espressa pattuizione negoziale, nella quale non viene più in
rilievo il carattere "reale" dell'obbligazione (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 10.01.2017 n. 13 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
14. - Il ricorso è inammissibile per difetto di
legittimazione attiva dei ricorrenti, nella parte in cui si
chiede l’accertamento degli inadempimenti alla convenzione
di lottizzazione e la condanna all’adempimento degli
obblighi derivanti essenzialmente dall’art. 28 della legge
urbanistica (n. 1150 del 1942), nei confronti del Comune di
Santa Teresa di Gallura.
Premesso che
le controversie in materia di esecuzione delle
convenzioni di lottizzazione rientrano nella giurisdizione
esclusiva (ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera a), n.
2, del codice del processo amministrativo), in quanto
-secondo la consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite
civili della Cassazione-
esse sono riconducibili agli
accordi integrativi o sostitutivi di cui all’art. 11 della
legge n. 241 del 1990
(di recente, si veda Cass. Sez. Un.
Civ., 31.10.2014, n. 23256), occorre rilevare che i
ricorrenti, pur avendo acquistato la proprietà dei terreni
ricadenti nella lottizzazione in questione, non sono parti
della convenzione sottoscritta in data 14.09.1974 tra
il Comune e le due lottizzanti Ca.D'Or. s.r.l. e Ed.Si.
s.r.l.. Con la conseguenza che,
in conformità al generale
principio secondo cui il contratto, l’accordo o la
convenzione produce effetti solo tra le parti, i ricorrenti
(che, come detto, non sono parti della convenzione di
lottizzazione) non possono far valere le pretese derivanti
dal regolamento contrattuale.
Come ha chiarito da tempo la
giurisprudenza della Cassazione, «l'adempimento
dell'obbligazione di realizzare le opere di urbanizzazione
(primaria e secondaria), assunta dal privato lottizzatore
nei confronti del comune con la convenzione di lottizzazione
(ai sensi della legge n. 765 del 1967) può essere preteso in
via giurisdizionale e coattiva dal comune, non invece dagli
aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli
lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla
convenzione» (così Cass. civ., sez. I, 11.02.1994, n.
1384).
Né è plausibile o condivisibile ricondurre gli attuali
proprietari degli immobili alla categoria degli aventi causa
degli originari lottizzanti (le società sopra citate),
ovvero quali obbligati propter rem, posto che la costante
giurisprudenza della Cassazione, condivisa in diverse
occasioni da questa Sezione, limita la cerchia degli
obbligati esclusivamente a coloro che abbiano chiesto e
ottenuto le concessioni edilizie, e non a coloro che abbiano
in seguito acquistato le abitazioni; i quali utilizzano le
opere di urbanizzazione ma non sono tenuti a pagare gli
oneri relativi, che gravano solo sui titolari del permesso
di costruire (di recente si veda Cass., III sez. civ., 20.08.2015, n. 16999, che ha deciso su una tipica
fattispecie in cui la società ricorrente «premesso di aver
acquistato […]dei terreni, rispetto ai quali la società
venditrice aveva stipulato con il Comune […] una convenzione
urbanistica per la lottizzazione delle aree, nella quale la
[società venditrice] e i suoi aventi causa si obbligavano
all'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria, e
precisato di aver realizzato tali opere, [conveniva] in
giudizio i successivi proprietari dei lotti interessati
dalla lottizzazione per ottenerne il rimborso pro quota»,
sostenendo «che i convenuti, successivi proprietari dei
lotti facenti parte della lottizzazione, sarebbero obbligati
in solido, quali aventi causa del lottizzatore, con
conseguente fondamento dell'azione di regresso pro quota -per le opere di urbanizzazione pacificamente da lui
realizzate- esercita dalla società attrice, a sua volta
avente causa dalla società che aveva stipulato la
convenzione. Argomenta sia con riferimento alla natura di
obbligazione propter rem in capo ai successivi acquirenti
convenuti in giudizio, sia in riferimento alle previsioni
contrattuali stabilite nella convenzione»; la Cassazione,
nel rigettare il ricorso, ha osservato come «l'obbligazione
di provvedere alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione
edilizia è propter rem, nel senso che essa va adempiuta non
solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da
colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione
edilizia; ovvero nel senso che colui che realizza opere di
trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della
concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei
confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano
sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo
solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di
urbanizzazione. La natura reale dell'obbligazione in esame
riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione,
quelli che richiedono la concessione, e quelli che
realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione
rilasciata al loro dante causa (Cass. n. 10947 del 1994; n.
6382 dei 1988; n. 5541 del 1996, Cass. n. 12571 del 2002).
Ancora più esplicita nell'individuazione dei soggetti
obbligati propter rem è una successiva decisione (Cass. n.
11196 del 2007), dove si afferma che
la qualificazione di
obbligazione propter rem è quella che assume rilievo nel
rapporto tra Comune e soggetto proprietario dell'area
fabbricabile, cui viene rilasciato il provvedimento
permissivo della costruzione. Così, sono esclusi dall'area
degli obbligati a tale titolo, i soggetti che utilizzano per
una loro diversa edificazione le opere di urbanizzazione
realizzate da altri, senza avere con questi alcun rapporto,
e che, per ottenere la loro diversa concessione edilizia,
devono pagare al Comune concedente, per loro conto, i
relativi oneri di urbanizzazione
(la specie all'attenzione
di Cass. n. 12571 del 2002).
Sono anche esclusi i soggetti
successivi acquirenti da chi ha realizzato la costruzione
sulla base della concessione, con la conseguenza che qualora
quest'ultimo abbia anche realizzato le opere di
urbanizzazione può rivalersi con i successivi acquirenti
della spesa sostenuta solo in virtù di espressa pattuizione
negoziale, nella quale non viene più in rilievo il carattere
"reale" dell'obbligazione. Ed, infatti, gli attuali
convenuti avevano acquistato dalla società attrice e ora
ricorrente, che aveva lottizzato l'area e realizzato le
opere di urbanizzazione, succedendo alla originaria società
che aveva stipulato la convenzione con il Comune»).
15. – Il difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti
comporta, come conseguenza, l’inammissibilità della domanda
con la quale i ricorrenti chiedono l’emanazione della
sentenza ai sensi dell’art. 2932 del codice civile che tenga
luogo dei contratti non conclusi relativi alla acquisizione
a titolo gratuito, in favore del Comune di Santa Teresa di
Gallura, delle aree su cui insistono le opere di
urbanizzazione, nonché le altre opere previste in
convenzione per il rispetto degli standards.
16. - Quanto alle ulteriori domande giudiziali proposte nei
confronti del Comune di Santa Teresa di Gallura, si osservi
che la domanda di condanna dell’amministrazione a provvedere
alla presa in carico delle opere di urbanizzazione,
assumendo tutti gli oneri di manutenzione ordinaria e
straordinaria correlati alla gestione delle stesse, sono
volte a superare –nelle intenzioni dei ricorrenti-
l’inerzia amministrativa derivante dall’omesso esercizio di
poteri contrattuali di cui il Comune è titolare in quanto
parte delle convenzioni urbanistiche più volte richiamate,
nonché dell’omesso esercizio di specifici poteri
amministrativi, quali sono i poteri di approvazione del
collaudo delle opere e della conseguente acquisizione delle
stesse al patrimonio indisponibile del Comune.
17. - In questa prospettiva, si pone, in primo luogo, il
problema di qualificare la situazione giuridica fatta valere
in giudizio dai ricorrenti.
Sul punto, deve rammentarsi quanto affermato dalla Sezione
in altre occasioni, ossia «che l’ente pubblico è tenuto a
tanto in forza della convenzione di lottizzazione stipulata
a suo tempo con la lottizzante, nonché sulla base del
“modello urbanistico” prefigurato dall’art. 28 della legge
della legge 17.08.1942, n. 1150, per cui la pretesa in
esame è a tutti gli effetti ascrivibile ad un “rapporto di
diritto pubblico” e rientra così nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo prevista dall’art. 11
della legge 07.08.1990, n. 241» (TAR Sardegna, sez. II,
10.09.2013, n. 602).
In altri termini,
la posizione
del Comune nei confronti dei terzi si traduce nel dovere di
provvedere all’esercizio dei diritti e poteri derivanti
dalla convenzione urbanistica finalizzati all’adempimento
degli obblighi contrattuali, anche in via coattiva, ovvero
all’esercizio delle garanzie fideiussorie previste e delle
pretese risarcitorie per gli inadempimenti accertati;
posizione, in cui il dato centrale è rappresentato dalla
qualificazione in senso pubblicistico, il che consente anche
di identificare la situazione giuridica dei ricorrenti in
una correlativa posizione di interesse legittimo.
Peraltro,
lo strumento di tutela previsto dall’ordinamento
processuale amministrativo per l’accertamento dell’obbligo
di provvedere, e per l’eventuale condanna
dell’amministrazione ad adottare il provvedimento o l’atto
idoneo a soddisfare le pretese dei terzi titolari di
situazioni di interesse legittimo, è costituito dall’azione
avverso il silenzio, prevista e disciplinata dagli articoli
31 e 117 del codice del processo amministrativo. Azione, la
cui proposizione è condizionata, dal comma 2 dell’art. 31,
cit., al rispetto del termine decadenziale di «un anno dalla
scadenza del termine di conclusione del procedimento».
Nel caso di specie, come si ricava dallo stesso atto
introduttivo del ricorso e dalla documentazione in atti,
manca la prova che i ricorrenti abbiano avviato un
procedimento in tal senso, chiedendo formalmente
all’amministrazione comunale l’adozione degli atti diretti
all’esercizio dei diritti e delle facoltà previste nella
convenzione o a far valere gli inadempimenti delle società
lottizzanti o degli aventi causa. Ovvero, non risulta che
l’avvio del procedimento sia avvenuto nei termini necessari
per il rispetto del termine decadenziale per la proposizione
dell’azione contro il silenzio dell’amministrazione.
Il ricorso, pertanto, anche sotto questo profilo, deve
essere dichiarato inammissibile.
18. - Passando all’esame dei motivi aggiunti, nella parte in
cui con essi si chiede l’annullamento parziale della
deliberazione della Giunta Comunale di Santa Teresa di
Gallura n. 51 del 23.04.2014, appare fondata e
assorbente la dedotta censura di violazione dell’art. 7
della legge n. 241 del 1990, per l’omessa comunicazione di
avvio del procedimento nei confronti dei ricorrenti, sicuri
destinatari del provvedimento.
Con la deliberazione, infatti, il Comune –sul presupposto
di dover procedere al “completamento e al collaudo delle
infrastrutture primarie del P. di L.” e di non disporre
delle risorse necessarie per la realizzazione delle opere di
cui trattasi– ha disposto «il coinvolgimento dei
lottizzanti originari e dei loro aventi causa», ossia di
«tutti i proprietari di abitazioni o lotti esistenti nella
lottizzazione Porto Quadro», mediante la «determinazione e
l’incameramento delle quote a carico degli aventi causa»
(cfr. la proposta di deliberazione della Giunta Comunale n.
57 del 18.04.2014, approvata con la deliberazione n. 51
del 23.04.2014, di cui alla produzione documentale di
parte ricorrente depositata il 18.07.2014).
Appare del tutto evidente l’interesse dei ricorrenti a
esercitare le facoltà partecipative nell’ambito del
procedimento in questione, quali diretti destinatari (o,
quantomeno, destinatari facilmente identificabili) del
provvedimento finale produttivo di sicuri effetti lesivi
della sulla sfera giuridica di ciascuno di loro.
Ne deriva come conseguenza che l’amministrazione comunale
avrebbe dovuto procedere alla previa comunicazione di avvio
del procedimento, ai sensi dell’art. 7 cit..
19. - In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere
dichiarato inammissibile. I motivi aggiunti debbono essere
accolti nella parte in cui impugnano la deliberazione della
Giunta Comunale n. 51 del 23.04.2014, |
APPALTI:
Conflitto di interesse nello svolgimento delle procedure di
gara.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione
– Conflitto di interesse – Art. 42, comma 2, d.lgs. n. 50
del 2016 – Riferimento all'obbligo di astensione ex art. 7,
d.P.R. n. 62 del 2013 - Portata esemplificativa e non
esaustiva.
Il comma 2 dell’art. 42 del nuovo Codice dei contratti,
approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50 –che disciplina le
modalità per individuare, prevenire e risolvere in modo
efficace ogni ipotesi di conflitto di interesse nello
svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti
e delle concessioni, in modo da evitare qualsiasi
distorsione della concorrenza e garantire la parità di
trattamento di tutti gli operatori economici–, nel chiarire
che “costituiscono situazione di conflitto di interesse
quelle che determinano l'obbligo di astensione previste
dall'art. 7, d.P.R. 16.04.2013, n. 62”, opera un rinvio
ampliativo ed esemplificativo e non limitativo, come si
evince dall’uso della locuzione “in particolare” (1).
---------------
(1) Il comma 3 del citato
art. 42 prevede che “Il personale che versa nelle ipotesi
di cui al comma 2 è tenuto a darne comunicazione alla
stazione appaltante, ad astenersi dal partecipare alla
procedura di aggiudicazione degli appalti e delle
concessioni. Fatte salve le ipotesi di responsabilità
amministrativa e penale, la mancata astensione nei casi di
cui al primo periodo costituisce comunque fonte di
responsabilità disciplinare a carico del dipendente pubblico”.
Ha chiarito il Tar che l’art. 42, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
si riferisce al personale in senso lato, cioè non solo a
soggetti titolari di un contratto di lavoro dipendente con
gli enti coinvolti, ma anche, a maggior ragione, a coloro i
quali, rivestendo una influente posizione sociale o di
gestione amministrativa, hanno giocoforza un maggior “interesse
finanziario, economico o altro interesse personale”.
Ha aggiunto il Tribunale che l’obbligo di astensione, da un
punto di vista del diritto amministrativo, è posto a tutela
di un pericolo astratto e presunto che non richiede la
dimostrazione, volta per volta, del vantaggio conseguito con
l’omessa astensione; tale conflitto d’interessi ha pertanto
resa illegittima la partecipazione della controinteressata
Cattolica, con conseguente obbligo di esclusione della
medesima ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. d), del
Codice dei contratti pubblici.
Per completezza espositiva giova ricordare che l’art. 7,
d.P.R. 16.04.2013, n. 62 (recante Regolamento recante codice
di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'art.
54, d.lgs. 30.03.2001, n. 165) dispone che “Obbligo di
astensione. 1. Il dipendente si astiene dal partecipare
all'adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini
entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure
di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione
abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli
o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o
rapporti di credito o debito significativi, ovvero di
soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore,
procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non
riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia
amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si
astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di
convenienza. Sull'astensione decide il responsabile
dell'ufficio di appartenenza" (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 09.01.2017 n. 21 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Giudice
competente ad accertare in via principale il carattere
vicinale, pubblico o privato, di una strada.
---------------
Giurisdizione – Strada pubblica o privata – Accertamento
in via principale del carattere vicinale, pubblico o
privato, di una strada - Controversia – Giurisdizione Ago.
Esula dalla giurisdizione del
giudice amministrativo, per rientrare in quella del giudice
ordinario, la controversia avente ad oggetto l’accertamento
in via principale del carattere vicinale, pubblico o
privato, di una strada o della servitù pubblica di
passaggio, accertamento che rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario, interessando tale controversia la
verifica della sussistenza e dell'estensione di diritti
soggettivi, siano essi in capo a privati o al Comune, a
nulla rilevando che al giudice amministrativo adito sia
stato chiesto l’annullamento di una delibera di un
Consorzio, cui partecipa un Comune, che, nel decidere la
propria estensione territoriale, di fatto aveva ricompreso
una porzione di strada privata (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che quando la strada vicinale è iscritta
negli elenchi, in sede amministrativa si deve ritenere
sussistente il diritto della collettività (art. 20, comma 1,
l. 20.03.1865, n. 2248, all. F) e il Sindaco ben può emanare
il provvedimento di autotutela possessoria, sicché colui che
contesta l'esistenza del diritto della collettività può
agire dinanzi al giudice ordinario, eventualmente esperendo
l'actio negatoria servitutis, giusta quanto stabilito
dall'art. 20, comma 2, l. n. 2248 del 1865, il cui contenuto
è stato ribadito dall'art. 18, comma 1, d.lgs. 01.09.1918,
n. 1446.
Ciò vale, a maggior ragione, quando il provvedimento non
promani da una Pubblica amministrazione, ma da un soggetto
privato (nella fattispecie, da un Consorzio).
Ne consegue che la controversia circa la proprietà, pubblica
o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di
uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla
giurisdizione del giudice ordinario, giacché investe
l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti
soggettivi, dei privati o della Pubblica amministrazione
Ha infine concluso il Tar che quella posta in essere dalla
ricorrente costituisce una vera e propria "actio
negatoria servitutis" (art. 949 cod. civ.)
nell’esercizio di un diritto soggettivo Perfetto, rispetto
al quale non sussistono margini per esercizio di un potere
discrezionale da parte della Pubblica amministrazione
(TAR Toscana, Sez.
I,
sentenza 09.01.2017 n. 7 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
3 - Il ricorso non è suscettibile di accoglimento.
Osserva il Collegio che il giudice
amministrativo non è competente ad accertare in via
principale il carattere vicinale, pubblico o privato, della
strada in questione o della servitù pubblica di passaggio,
accertamento che rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario, poiché tali controversie interessano la verifica
della sussistenza e dell'estensione di diritti soggettivi,
siano essi in capo a privati o al Comune stesso
(Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2015 n. 1515, TAR Sicilia,
Palermo, sez. II, 09.11.2015 n. 2888; TAR Reggio Calabria,
08.04.2015 n. 348).
Si è in proposito precisato che quando la
strada vicinale è iscritta negli elenchi, in sede
amministrativa si deve ritenere sussistente il diritto della
collettività (art. 20, comma 1, l. 20.03.1865 n. 2248 all.
F) e il Sindaco ben può emanare il provvedimento di
autotutela possessoria, sicché colui che contesta
l'esistenza del diritto della collettività può agire dinanzi
al giudice ordinario, eventualmente esperendo l'actio
negatoria servitutis, giusta quanto stabilito dall'art.
20, comma 2 cit., il cui contenuto è stato ribadito
dall'art. 18, comma 1, d.lgs. 01.09.1918 n. 1446
(TAR Toscana, sez. I, 07.05.2015 n. 729; TAR Lombardia,
Brescia, 07.09.1999, n. 769).
Ciò vale, a più forte ragione, quando il provvedimento non
promani da una pubblica amministrazione, ma da un soggetto
privato ossia, nella fattispecie, da un consorzio.
Ne consegue che la controversia circa la
proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa
l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada
privata, è devoluta alla giurisdizione del giudice
ordinario, giacché investe l'accertamento dell'esistenza e
dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della
pubblica amministrazione
(ex plurimis, Cass. civ. Sez. un., ord. 27.01.2010,
n. 1624; id., sez. un., 17.03.2010 n. 6406; TAR Toscana,
sez. I, 08.09.2014, n. 970; TAR Calabria, Reggio Calabria,
08.04.2015, n. 348; TAR Sardegna, sez. II, 17.03.2010 n.
312).
Invero, quella posta in essere dalla ricorrente costituisce
una vera e propria "actio negatoria servitutis" (art.
949 cod. civ.) nell’esercizio di un diritto soggettivo
perfetto rispetto al quale non sussistono margini per
esercizio di un potere discrezionale da parte della pubblica
amministrazione.
4 - Per altro verso, giova rammentare il
tradizionale e non superato principio per cui, ai fini del
riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo,
rileva non tanto la prospettazione delle parti, bensì il
petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e
non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede
al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della
causa petendi, cioè dell'intrinseca natura della
controversia dedotta in giudizio e individuata dal giudice
con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del
quale essi sono manifestazione
(Cons. Stato Sez. V, 27.04.2015, n. 2059; Cass. civ., Sez.
un., ord., 22.09.2014, n. 19893).
Ora non può esservi dubbio che l’azione proposta, pur se
formalmente diretta all’annullamento della delibera in
epigrafe, è sorretta dall’affermazione della natura privata
della strada in parola e, quindi, sostanzialmente
all'accertamento dell'inesistenza di diritti vantati da
terzi, in forza del diritto di proprietà rivendicato e,
quindi, ad una vera e propria azione negatoria (Cass. civ.,
sez. II, 31.12.2014, n. 27564).
Ne discende che il ricorso va dichiarato inammissibile per
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, fatti
salvi gli effetti della translatio iudicii di cui
all’art. 11, co. 2, cod. proc. amm.. |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche non è necessario che l'esperienza
professionale di ciascun componente la commissione
giudicatrice copra tutti gli aspetti oggetto della gara,
potendosi le professionalità dei vari membri integrare
reciprocamente, in modo da completare ed arricchire il
patrimonio di cognizioni della commissione, purché idoneo,
nel suo insieme, ad esprimere le necessarie valutazioni di
natura complessa, composita ed eterogenea.
Ciò tenuto altresì conto che la competenza tecnica non deve
essere necessariamente desunta da uno specifico titolo di
studio potendo viceversa risultare da incarichi svolti e
attività espletate.
---------------
E' corretto che si sia svolta in seduta pubblica l’attività
di verifica dell’integrità dei plichi e del contenuto di
essi, in ossequio ai principi di trasparenza, buona
andamento e imparzialità dell’azione amministrativa.
Altresì, è legittima la seduta "riservata" solo per la
valutazione della documentazione prodotta, cioè un’attività
che, secondo la giurisprudenza, è bene che sia svolta dalla
commissione senza il pericolo di influenze esterne proprio
nel rispetto dei medesimi principi di imparzialità e buon
andamento testé enunciati.
---------------
Per giurisprudenza consolidata, nelle gare pubbliche la
mancanza di disposizioni puntuali in ordine alle modalità di
conservazione dei plichi tra una seduta e l'altra della
commissione giudicatrice, la mancata indicazione nei verbali
di operazioni singolarmente svolte, quali l'identificazione
del soggetto responsabile della custodia dei plichi, il
luogo di custodia degli stessi e le misure atte a garantirne
l'integrale conservazione, non costituiscono causa
d'illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato
o siano quanto meno forniti indizi che la documentazione di
gara sia stata effettivamente manipolata negli intervalli
tra un'operazione e l'altra.
---------------
Considerato che la ricorrente, seconda classificata in
entrambi i lotti, ha impugnato l’aggiudicazione, con il
criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, alla
controinteressata della gara per l’affidamento della
gestione delle case di soggiorno ex Enam relativamente ai
soli lotti 3 (Fiuggi) e 4 (Silvi Marina), comprendente la
prestazione di servizi alberghieri e di ristorazione
(principale) e quella di manutenzione ordinaria
(secondaria);
- che il Tar Lazio adito, con ordinanza n. 4509 del 2016,
confermata in appello, ha declinato la propria competenza
relativamente al lotto 4, sicché la ricorrente ha riassunto
il giudizio in parte qua davanti a questo Tribunale
amministrativo, per il solo lotto 3;
- che la ricorrente denuncia che, in violazione
dell’articolo 84, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, la
Commissione giudicatrice non sarebbe stata formata da
componenti esperti nello specifico settore d’appalto, e
della cui professionalità, comunque, non sarebbe stata data
adeguata indicazione nel provvedimento di nomina (più in
particolare, i curricula dei due componenti la
Commissione giudicatrice diversi dal Presidente, cioè i
dottori Ca. e Ru. non rivelerebbero alcuna esperienza nello
specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto);
- che, in violazione dell’articolo 17 del disciplinare di
gara e dei principi di imparzialità e buona amministrazione,
la Commissione, pur avendo verificato in seduta pubblica la
presenza della documentazione amministrativa richiesta,
avrebbe illegittimamente proceduto alla valutazione della
stessa in una successiva seduta riservata e quindi non
pubblica;
- che, infine, sarebbe mancata una puntuale indicazione
delle modalità di conservazione, nelle more, delle offerte e
dei documenti allegati, e degli accorgimenti a tal fine
eventualmente adottati;
- che, quanto al primo motivo, ai sensi del comma 2
dell'articolo 84 del previgente 'Codice dei contratti',
“la commissione, nominata dall'organo della stazione
appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto
affidatario del contratto, è composta da un numero dispari
di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello
specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto”;
- che, i due componenti, di cui si contesta la
qualificazione idonea a far parte della commissione di gara,
vantano i seguenti curricula: il dott. Ca. è primo
dirigente e risulta incardinato dal 2014 presso l’Inps nella
direzione centrale credito e welfare con funzioni di vicario
del direttore generale (nonché preposto all’area risorse e
contenzioso) le cui competenze sono proprio quelle di
gestire i contratti di provvista di servizi inerenti le
strutture sociali, compresa la struttura oggetto di gara e
individuare ed erogare i benefici sociali agli iscritti che
la utilizzano; il dott. Ru. è dirigente Inps e risulta
invece incardinato presso la direzione centrale risorse
strumentali dello stesso istituto (ed assegnato all’area
gestione immobili strumentali con compiti di logistica
interna, locazioni passive, gestione contratti utenze,
fornitura di apparecchiature) il cui compito è quello di
indire e condurre le gare per le provviste in questione
(cfr. Tar Lazio, sentenza n. 11869 del 2016, relativa al
lotto 3 della medesima gara in questione);
- che, pertanto, i curricula dei commissari designati
appaiono comprendere nel loro complesso competenze sia in
materia di gestione dei servizi assistenziali sia di
logistica e quindi di manutenzione, e pertanto la
commissione nel suo complesso appare correttamente
designata, atteso che nelle gare pubbliche non è necessario
che l'esperienza professionale di ciascun componente la
commissione giudicatrice copra tutti gli aspetti oggetto
della gara, potendosi le professionalità dei vari membri
integrare reciprocamente, in modo da completare ed
arricchire il patrimonio di cognizioni della commissione,
purché idoneo, nel suo insieme, ad esprimere le necessarie
valutazioni di natura complessa, composita ed eterogenea
(cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 5670 del 2015; Tar
Firenze, sentenza n. 506 del 2016); ciò tenuto altresì conto
che la competenza tecnica non deve essere necessariamente
desunta da uno specifico titolo di studio potendo viceversa
risultare da incarichi svolti e attività espletate (cfr. tra
le tante, Consiglio di Stato, sentenza n. 473 del 2015);
- che, quanto al secondo motivo di doglianza, la
Commissione giudicatrice, come si evince dai relativi
verbali di gara, ha proceduto in seduta pubblica ad aprire
la busta A (contenente la documentazione amministrativa
richiesta dal disciplinare di gara) e a siglare ed esaminare
la relativa documentazione rinvenuta nelle varie offerte,
così fissando –in conformità alla previsione della lex
specialis e in funzione di garanzia di eventuali
successive manomissioni– il contenuto della busta in
questione; e che la medesima commissione, soltanto dopo aver
«verificata, ad una prima analisi, la presenza nella
busta A della documentazione amministrativa richiesta nel
disciplinare di gara», si è riservata «di accertarne
più approfonditamente il contenuto» in una successiva
seduta riservata (cfr. Tar Lazio, sentenza n. 11869 del
2016, relativa al lotto 3 della medesima gara in questione);
- che pertanto si è svolta in seduta pubblica l’attività di
verifica dell’integrità dei plichi e del contenuto di essi,
in ossequio ai principi di trasparenza, buona andamento e
imparzialità dell’azione amministrativa, mentre è stata
legittimamente riservata alla seduta riservata solo la
valutazione della documentazione prodotta, cioè un’attività
che secondo la giurisprudenza è bene che sia svolta dalla
commissione senza il pericolo di influenze esterne proprio
nel rispetto dei medesimi principi di imparzialità e buon
andamento testé enunciati (cfr. Tar L’Aquila, sentenza n.
373 del 2011);
- che, quanto all’ultimo motivo di censura, nel
ricorso ci si limita a censurare la mera mancata indicazione
delle modalità di conservazione delle offerte e dei
documenti allegati, mentre dalla documentazione in atti
emerge che la Commissione, dopo aver siglato il contenuto di
tutti i plichi di gara, ha dato «mandato alla segreteria
di custodire i plichi in apposito armadio dotato di
serratura nella disponibilità della stazione appaltante»,
in piena conformità a quanto prescritto dall’art. 17, punto
2, del disciplinare di gara secondo cui “la
documentazione di gara sarà custodita a cura del R.U.P. con
modalità tali da garantire la riservatezza delle offerte nel
corso della procedura e la conservazione dei plichi
all’esito della medesima” (cfr. Tar Lazio, sentenza n.
11869 del 2016, relativa al lotto 3 della medesima gara in
questione);
- che, ciò premesso, come noto, per giurisprudenza
consolidata, nelle gare pubbliche la mancanza di
disposizioni puntuali in ordine alle modalità di
conservazione dei plichi tra una seduta e l'altra della
commissione giudicatrice, la mancata indicazione nei verbali
di operazioni singolarmente svolte, quali l'identificazione
del soggetto responsabile della custodia dei plichi, il
luogo di custodia degli stessi e le misure atte a garantirne
l'integrale conservazione, non costituiscono causa
d'illegittimità del procedimento, salvo che non sia provato
o siano quanto meno forniti indizi che la documentazione di
gara sia stata effettivamente manipolata negli intervalli
tra un'operazione e l'altra (cfr. Consiglio di Stato,
sentenza n. 3649 del 2015; Tar Veneto, sentenza n. 1028 del
2015);
rilevato, tutto ciò premesso, che il ricorso appare
infondato (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 05.01.2017 n. 16 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Senza
parapetto luce irregolare e non veduta. Immobili. L’apertura
sul lastrico solare priva di «ringhiera» non consente
l’affaccio sul giardino sottostante.
È una luce irregolare e non una
veduta, l’apertura sul lastrico solare, priva del parapetto
che consentirebbe di affacciarsi sul terrazzo del vicino.
La Corte di Cassazione - Sez. II civile, con
la
sentenza 04.01.2017 n. 113,
pur negando il carattere di veduta dell’apertura oggetto del
contendere, afferma il dovere del proprietario del lastrico
solare di costruire un muretto recintato da una rete
metallica per rendere la luce irregolare conforme alle
prescrizioni stabilite dal codice civile.
La Cassazione respinge la tesi del proprietario del terrazzo
di copertura di un edificio, che ospitava un’ex conceria,
secondo la quale a favore del lastrico solare c’era una
servitù di veduta a carico del giardino sottostante:
immobili entrambi, in origine di un unico proprietario.
Un “privilegio” per destinazione del padre di
famiglia, che sarebbe stato riconoscibile da un muretto di
un metro di altezza «pari a quattro linee di conci in
muratura». La Cassazione precisa però che la servitù può
essere affermata solo se le opere permanenti destinate al
suo esercizio sono preesistenti al momento in cui il fondo
viene diviso in più parti. Nel caso esaminato invece il “muretto”
sopra il giardino era di un metro, a fronte dell’originale
alto 75 centimetri.
Questo aveva indotto la Corte d’appello a constatare
l’aggravamento della condizione del fondo servente. Il
muretto di cinta era stato correttamente considerato dalla
Corte d’appello come luce irregolare e non veduta.
La Cassazione ricorda che l’assenza di un parapetto sulla
terrazza di copertura di un edificio, che sia di normale
accessibilità e praticabilità da parte del proprietario è un
elemento decisivo per escludere che l’opera abbia il
carattere della veduta o del prospetto, ma non basta a
negare che sia una luce irregolare. Per questo il vicino ha
sempre il diritto di esigere l’adeguamento ai requisiti
stabiliti per le luci.
Per la Suprema corte «il lastrico solare agevolmente
accessibile, se posto allo stesso livello e destinato al
servizio della porzione immobiliare sita all’ultimo piano
dell’edificio, può comportare l’obbligo del proprietario di
quest’ultimo di costruzione di un muretto recinto da rete
metallica onde rendere la luce irregolare conforme alle
prescrizioni stabilite dall’articolo 901 del Codice civile»
(articolo Il Sole 24 Ore del
05.01.2017).
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MASSIMA
I. Il primo motivo del ricorso di Lu.Or.Am.
denuncia insufficiente, erronea e contraddittoria
motivazione in ordine alla risultanze istruttorie con
riferimento alla domanda in forza della quale, a favore del
lastricato solare dell'immobile ex conceria La. di via Roma
in Maglie (ora proprietà Or.) ed a carico del sottostante
giardino (ora proprietà Ru.-Pa.), beni in origine entrambi
di proprietà di Pa.Pa., deceduta nel 1957, fosse
riconoscibile una servitù di veduta per destinazione del
padre di famiglia con parapetto di altezza di metri 1,00,
pari a quattro linee di conci in muratura.
Le due distinte unità immobiliari vennero attribuite
separatamente per testamento nel 1957 agli eredi della
Palma, ovvero il piano terreno ex conceria a Ma., e il
giardinetto a Gu. e Di.. Assumono i ricorrenti che la
consistenza della servitù di veduta per destinazione del
padre di famiglia doveva essere compiuta dalla Corte
d'Appello in base allo stato dei luoghi esistente nel 1957.
Perciò denunciano l'erronea valutazione delle prove
testimoniali, della documentazione fotografica e della CTU.
I.1. Questo motivo di censura è infondato.
E' corretta la premessa secondo cui la
costituzione di una servitù prediale per destinazione del
padre di famiglia, ai sensi dell'art. 1062 c.c., postula che
le opere permanenti destinate al suo esercizio predisposte
dall'unico proprietario preesistano al momento in cui il
fondo viene diviso fra più proprietari
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6592 del 05/04/2016).
Deve trattarsi di opere stabili ed apparenti, in
quanto la loro concreta consistenza, valutata all'atto della
cessazione dell'appartenenza di due fondi all'unico
proprietario, serve a rendere certi e manifesti il contenuto
e le modalità di esercizio della servitù, essendo invece
irrilevanti le successive modifiche di esse
(arg. da Cass. Sez. 2 Sentenza n. 11348 del 17/06/2004).
La Corte di Lecce ha, tuttavia, espresso il proprio
convincimento che la situazione attuale del parapetto
esistente sul lastrico sovrastante il giardino, dell'altezza
di un metro, non fosse del tutto identica a quella
precedente, quando il parapetto che favoriva l'instrospezione
nel giardino non era più alto di 75 cm, e ciò valutando le
fotografie prodotte, i testimoni assunti (in particolare il
teste Za.) e la considerazioni esposte dal CTU (pagine 7 e
seguenti di sentenza).
Questo ha indotto i giudici dell'appello a ritenere provato
l'aggravamento della condizione del fondo servente. Visto il
tenore delle critiche rivolte col primo motivo del ricorso
principale, deve allora ricordarsi come la valutazione delle
risultanze delle prove ed il giudizio sull'attendibilità dei
testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie,
di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione,
involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di
merito, il quale è libero di attingere il proprio
convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili.
Spetta, invero, in via esclusiva al giudice di merito il
compito di selezionare, tra le complessive risultanze del
processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare
la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando
prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti,
nonché la facoltà di escludere, anche attraverso un giudizio
implicito, la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a
tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per
ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga
irrilevante, ovvero ad enunciare specificamente che la
controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori
acquisizioni (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 16499 del
15/07/2009; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014).
Il controllo di legittimità sulle pronunzie dei giudici di
merito demandato alla Corte Suprema di Cassazione non è,
invero, configurato come terzo grado di giudizio, nel quale
possano essere ulteriormente valutate le istanze e le
argomentazioni sviluppate dalle parti ovvero le emergenze
istruttorie acquisite nella fase di merito.
II. Il secondo motivo del ricorso di Lu.Or.Am.
denuncia violazione degli artt. 900 e 901 c.c., per aver
erroneamente la Corte di Lecce qualificato come "luce
irregolare" il muretto di cinta, alto cm. 75, del
lastricato solare della ex conceria La., nonché disposto la
regolarizzazione ex art. 901 c.c. mediante apposizione di
inferriata e/o grata metallica.
La Corte d'Appello ha qualificato luce irregolare, e non
veduta, l'apertura esistente sul lastrico, stante l'assenza
di parapetto idoneo all'affaccio e quindi di possibilità di
introspezione sul fondo del vicino. Il ricorrente principale
chiede la cassazione della sentenza di secondo grado per
aver essa ritenuto applicabile la disciplina ex artt. 900 e
901 al parapetto di delimitazione di un'area solare
scoperta.
11.1.11 motivo è infondato.
La Corte d'Appello di Lecce ha fatto puntuale applicazione
dell'orientamento più volte affermato da questa Corte,
secondo cui l'assenza di parapetto su una
terrazza di copertura di un edificio, che sia di normale
accessibilità e praticabilità da parte del proprietario,
costituisce elemento decisivo per escludere che l'opera
abbia i caratteri della veduta o del prospetto, non anche
per escludere che essa costituisca luce irregolare, in
ordine alla quale il vicino ha sempre il diritto di esigere
l'adeguamento ai requisiti stabiliti per le luci.
Perciò il lastrico solare agevolmente
accessibile, se posto allo stesso livello e destinato al
servizio della porzione immobiliare sita all'ultimo piano
dell'edificio, può comportare l'obbligo del proprietario di
quest'ultimo di costruzione di un muretto recinto da rete
metallica onde rendere la luce irregolare conforme alle
prescrizioni stabilite dall'art. 901 c.c.
(cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5718 del 10/06/1998; Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 2084 del 05/04/1982; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 5602 del 20/12/1977). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
distanze legali che sono oggetto della previsione di cui
all'art. 873 sono le distanze lineari; pertanto, non possono
essere considerate né quelle che si misurano in verticale
tra una porzione di fabbricato sottostante e quella
sovrastante, né le consistenze immobiliari appartenenti ai
soggetti terzi.
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Il primo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa
applicazione degli artt. 872 e 873 cc.
L'attrice ricorrente sostiene che nella qualità di titolare
del diritto di proprietà del "fondo finitimo" alla
costruzione degli odierni appellanti essa ha "ex art. 873
c.c. la titolarità piena di far valere i diritti che ne
derivano e in particolare il rispetto della distanza minima
legale".
Deduce che è proprio interesse recuperare aria e luce che
sono state limitate dall'edificazione dei coniugi Urso, che
violerebbe "le norme sulla minima distanza legale dalla
chiostrina a piano terra".
La censura non merita accoglimento.
Come ha rilevato il controricorso, essa prospetta un profilo
nuovo dell'azione proposta, giacché dalla sentenza di
appello emerge che l'attrice aveva agito facendo valere la
titolarità dell'abitazione posta al piano sottostante quello
sopraelevato e modificato dai convenuti.
In relazione a tale presupposto di fatto, è ineccepibile il
rilievo della Corte di appello: le distanze
legali che sono oggetto della previsione di cui all'art. 873
sono le distanze lineari; pertanto, non possono essere
considerate né quelle che si misurano in verticale tra una
porzione di fabbricato sottostante e quella sovrastante, né
le consistenze immobiliari appartenenti ai soggetti terzi.
Il rilievo non è stato adeguatamente smentito dalla memoria
Bi., che continua a lamentare le conseguenze lesive delle
opere denunciate, ma non coglie la rilevanza della propria
omissione nel non aver mai indicato, visto che la Corte di
appello non ne parla, in quale modo essa abbia fatto
inequivocabilmente valere la violazione delle distanze
legali da un'area di proprietà esclusiva.
2.1) La Corte di appello ha errato nel definire come carenza
di legittimazione attiva la condizione scaturita
dall'insussistenza della qualità di frontista in capo
all'appellata.
Più correttamente avrebbe dovuto rilevare la carenza del
diritto sostanziale controverso, rilievo che può essere
svolto d'ufficio, come di recente ritenuto dalle Sezioni
unite della Corte Suprema (SU n. 2951/2016) e che può essere
oggetto di mera difesa esposta dal convenuto in ogni fase
del giudizio, trattandosi di contestazione de un elemento
costitutivo della domanda che attiene al merito della
decisione.
Trova così rigetto anche il sesto motivo, che denuncia
violazione degli artt. 167, 183 e 345 c.p.c. in relazione al
rilievo di difetto di legittimazione attiva
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.01.2017 n. 98). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Senza
contratto è il dipendente che paga la fornitura.
La Cassazione individua nel singolo funzionario che ha
permesso la consegna dei beni il responsabile tenuto a
pagare il prezzo in favore del privato.
Una società inviava ad un Comune veneto del software, in
forza di una deliberazione adottata dalla Giunta che poi non
veniva più ratificata dal Consiglio, che l’Amministrazione
utilizzava nell’ambito della informatizzazione del servizio
cimiteriale. Non ottenuto il pagamento reclamato, la società
adiva il Tribunale civile che nel 2002 rigettava la domanda
di ingiustificato arricchimento motivando con il difetto del
requisito della sussidiarietà, in quanto la ditta avrebbe
potuto esercitare l'azione di rivendicazione dei materiali
consegnati.
In sede di gravame la Corte di appello ribaltava in parte la
decisione di primo grado rilevando che, pur in assenza di un
valido contratto, l'Amministrazione comunale aveva tratto un
vantaggio dall'utilizzazione dei materiali e programmi
ricevuti, traendo un arricchimento, da farsi valere con una
domanda che non trovava corrispondenza in alcuna altra
azione esperibile.
Ciò costringeva il Comune a proporre ricorso per Cassazione,
che è stato accolto, la quale ha osservato che il tema della
sussidiarietà dell'azione di indebito arricchimento,
proposto dell'ente ricorrente sotto il profilo della
possibilità di rivendicare i beni a suo tempo consegnati dev’essere
esaminato alla stregua della normativa, applicabile
ratione temporis, di cui all'art. 23 del D.L. n. 66 del
1989, convertito nella L. n. 144 del 1989 ed oggi rifluito
nell'art. 191 del D.L.vo. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL), che
così recita: "Nel caso in cui vi sia stata l'acquisizione
di beni o servizi in violazione dell'obbligo indicato nel
comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il
privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che
abbiano consentita la fornitura. Detto effetto si estende
per le esecuzioni reiterate o continuative a tutti coloro
che abbiano reso possibili le singole prestazioni".
La Corte, con la sentenza in commento ha, quindi, ribadito
il contenuto e la finalità della normativa in questione, la
quale ha previsto un innovativo sistema di imputazione alla
sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore o
funzionario degli effetti dell'attività contrattuale dallo
stesso condotta in violazione delle regole contabili in
merito alla gestione degli enti locali, comportante
relativamente ai beni ed ai servizi acquisiti, una vera e
propria frattura o scissione ope legis del rapporto
di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la
Pubblica Amministrazione, con conseguente esclusione della
riferibilità a quest'ultima delle iniziative adottate al di
fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme ad
evidenza pubblica.
La normativa in esame ha poi comportato la sostituzione del
pregresso regime di nullità del contratto per effetto delle
norme regolataci della sua formazione con quello della sua
piena validità ed efficacia tra agente in proprio e
fornitore (del quale sotto questo profilo viene incrementata
la tutela) per via di una sorta di novazione soggettiva (di
fonte normativa) dell'originario rapporto obbligatorio che
avrebbe dovuto intercorrere con l'ente pubblico di cui
l'agente è organo, con l'introduzione di una nuova
disciplina del rapporto tra gli enti medesimi e i soggetti
agenti, nonché tra questi ultimi e i privati contraenti
improntata a schemi privatistici.
E' stato quindi valorizzato, sia ai fini della
controprestazione, che per ogni altro effetto di legge, il
reale incontro di volontà tra il privato contraente (che
nell'accettare di eseguire l'incarico conferitogli contra
legem non possa ignorare che il rapporto contrattuale
deve intendersi intercorso con il funzionario o
l'amministratore ed assumere, quindi, volontariamente il
rischio conseguente alla definitiva individuazione della
parte contraente e patrimonialmente responsabile) e
quest'ultimo, che, nell'attribuirlo o nel consentirlo,
accetta, per converso, la propria responsabilità personale
diretta verso il terzo contraente per gli impegni assunti al
di fuori od in violazione del procedimento contabile
previsto dalla legge.
L'interpretazione della disposizione sopra menzionata, in
relazione al senso fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse (art. 12
preleggi) e alla finalità della normativa, indiscutibilmente
volta a prevenire il formarsi di debiti fuori bilancio a
carico delle Amministrazioni, secondo i giudici di
legittimità esclude la necessità di un ruolo attivo in capo
al funzionario. Infatti, l'uso del verbo "consentire"
descrive il comportamento di chi, trovandosi privo del
potere decisionale sul conferimento dell'incarico o
l'acquisizione del bene, nell'esercizio delle sue funzioni
permetta che avvenga l'acquisizione della prestazione o
della fornitura, senza opporvisi per quanto dovuto nei
limiti delle sue attribuzioni. Il disposto normativo è volto
a far sì che un contratto non perfezionatosi secondo legge
non pervenga alla fase esecutiva.
A questo fine viene responsabilizzato l'amministratore o il
funzionario che, chiamato ad operare, a cagione del suo
ufficio, per la conclusione e l'attuazione del contratto,
cooperi, lasciando che la prestazione venga eseguita.
In definitiva, secondo la sentenza n. 80, l'assenza di
qualsiasi vincolo contrattuale e di una previsione di spesa
rende la prestazione comunque espletata dalla ditta privata
assolutamente avulsa dal paradigma sopra evidenziato, e non
può in alcun modo -essendo prevista la responsabilità del
funzionario o dell'amministratore che la consentì- rendere
predicabile l'esperimento dell'azione di indebito
arricchimento nei confronti del Comune. Da qui
l’accoglimento del ricorso (commento tratto da
www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
3.2. Il tema della sussidiarietà dell'azione di indebito
arricchimento, proposto dell'ente ricorrente sotto il
profilo della possibilità di rivendicare i beni mobili a suo
tempo consegnati -non priva di aspetti problematici, in
relazione, a tacer d'altro, alla già avvenuta assegnazione
degli stessi da parte del Comune all'Amav- deve essere
esaminato alla stregua della normativa, applicabile
ratione temporis, di cui all'art. 23 del D.L. n. 66 del
1989, convertito nella l. n. 144 del 1989 ed oggi rifluito
nell'art. 191 del d.lgs. n. 267 del 2000.
3.3. Come risulta pacificamente, i beni posti a fondamento
della pretesa della Ri. vennero consegnati in assenza di un
valido rapporto contratto e al di fuori della previsione
della delibera della Giunta in data 30.04.1990, con la quale
venne stanziata la spesa di lire 71.400.000 e che, benché
inidonea, di per sé, alla costituzione di un rapporto
obbligatorio, comportò, previa ratifica da parte del
Consiglio comunale, il successivo pagamento di tale somma da
parte dell'ente territoriale nell'anno 2000.
Come si dà atto nell'impugnata decisione, il materiale in
questione "tra cui mobili di ufficio e stampanti, mai
ordinato e inviato solo a titolo di visione e prova",
venne consegnato tra il 26.11.1990 ed il 26.06.1991.
4. Deve quindi ribadirsi il contenuto e la
finalità della normativa sopra richiamata, la quale,
secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass.,
21.09.2015, n. 18567, Cass., 30.01.2013, n. 24478; Cass.,
27.03.2008, n. 7966), ha previsto un
innovativo sistema di imputazione alla sfera giuridica
diretta e personale dell'amministratore o funzionario degli
effetti dell'attività contrattuale dallo stesso condotta in
violazione delle regole contabili in merito alla gestione
degli enti locali, comportante relativamente ai beni ed ai
servizi acquisiti, una vera e propria frattura o scissione
ope legis del rapporto di immedesimazione organica
tra i suddetti agenti e la Pubblica Amministrazione, con
conseguente esclusione della riferibilità a quest'ultima
delle iniziative adottate al di fuori dello schema
procedimentale previsto dalla norme c.d. ad evidenza
pubblica.
4.1. La normativa in esame ha poi comportato la sostituzione
del pregresso regime di nullità del contratto per effetto
delle norme regolataci della sua formazione con quello della
sua piena validità ed efficacia tra agente in proprio e
fornitore (del quale sotto questo profilo viene incrementata
la tutela) per via di una sorta di novazione soggettiva (di
fonte normativa) dell'originario rapporto obbligatorio che
avrebbe dovuto intercorrere con l'ente pubblico di cui
l'agente è organo, con l'introduzione di una nuova
disciplina del rapporto tra gli enti medesimi e i soggetti
agenti, nonché tra questi ultimi e i privati contraenti
improntata a schemi privatistici.
E' stato quindi valorizzato, sia ai fini
della controprestazione, che per ogni altro effetto di
legge, il reale incontro di volontà tra il privato
contraente (che
nell'accettare di eseguire l'incarico conferitogli contra
legem non possa ignorare che il rapporto contrattuale
deve intendersi intercorso con il funzionario o
l'amministratore ed assumere, quindi, volontariamente il
rischio conseguente alla definitiva individuazione della
parte contraente e patrimonialmente responsabile)
e quest'ultimo, che, nell'attribuirlo o nel
consentirlo, accetta, per converso, la propria
responsabilità personale diretta verso il terzo contraente
per gli impegni assunti al di fuori od in violazione del
procedimento contabile previsto dalla legge.
4.2. A entrambi i contraenti, infine, non è consentito
invocare la disposizione contenuta nell'art. 28 Cost., che,
nel contemplare la responsabilità dell'amministrazione
accanto a quella degli agenti pubblici presuppone, in via di
principio, che si tratti di attività riferibile all'ente
stesso (Cass., 31.05.2005, n. 11597).
4.3. Il comma 4 dell'art. 23 del citato D.L. n. 66 del 1989,
poi riprodotto nell'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995, così
dispone: "Nel caso in cui vi sia stata
l'acquisizione di beni o servizi in violazione dell'obbligo
indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre,
ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di
legge tra il privato fornitore e l'amministratore o il
funzionario che abbiano consentita la fornitura. Detto
effetto si estende per le esecuzioni reiterate o
continuative a tutti coloro che abbiano reso possibili le
singole prestazioni".
L'interpretazione di tale disposizione, in
relazione al senso fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse (art. 12
preleggi) e alla finalità della normativa, indiscutibilmente
volta a prevenire il formarsi di debiti fuori bilancio a
carico delle amministrazioni, esclude la necessità di un
ruolo attivo in capo al funzionario. Infatti, l'uso del
verbo "consentire" descrive il comportamento di chi,
trovandosi privo del potere decisionale sul conferimento
dell'incarico o l'acquisizione del bene, nell'esercizio
delle sue funzioni permetta che avvenga l'acquisizione della
prestazione o della fornitura, senza opporvisi per quanto
dovuto nei limiti delle sue attribuzioni. Il disposto
normativo è volto a far sì che un contratto non
perfezionatosi secondo legge non pervenga alla fase
esecutiva.
A questo fine viene responsabilizzato
l'amministratore o il funzionario che, chiamato ad operare,
a cagione del suo ufficio, per la conclusione e l'attuazione
del contratto, cooperi, lasci che la prestazione venga
eseguita (così
Cass., 09.10.2014, n. 21340).
5. L'assenza di qualsiasi vincolo
contrattuale e di una previsione di spesa rende la
prestazione comunque resa
dalla FEP assolutamente avulsa dal
paradigma sopra evidenziato, e non può in alcun modo,
essendo prevista la responsabilità del funzionario o
dell'amministratore che la consentì, rendere predicabile
l'esperimento dell'azione di indebito arricchimento nei
confronti del Comune
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 04.01.2017 n. 80). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Anticorruzione:
contrasti tra uffici al giudice del lavoro. Tar Brescia.
Richiesta massiva di dati.
Primi contrasti in
sede di controlli interni anticorruzione: il TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I, chiarisce (sentenza 04.01.2017 n. 15)
cosa accade se il responsabile della prevenzione della
corruzione chieda copia di una serie di atti e tale
richiesta sia indigesta ad altro dipendente, responsabile
dell’ufficio che deve fornire i documenti.
Nel caso concreto, il responsabile dell’Unità operativa
legale di una Azienda di tutela della salute, contestava la
richiesta del responsabile della prevenzione: quest’ultimo
chiedeva l’invio di tutti i fascicoli relativi ad
archiviazioni, revoche e annullamenti di ordinanze
ingiunzioni di pagamento, nonché dei verbali di
contestazione delle sanzioni amministrative per un certo
arco di tempo.
Per finalità di prevenzione, si può chiedere di rileggere le
pratiche che riguardino, ad esempio, sanzioni
sull’inquinamento, sulla sanità e sull’igiene in genere (di
competenza dell’azienda locale per la tutela della salute).
Ciò perché tali sanzioni possono essere graduate e anche
archiviate o revocate se, con specifici scritti difensivi,
il soggetto interessato dimostra la propria buona fede o
l’esistenza di casi di forza maggiore. Nel settore, quindi,
possono essere presenti rischi di opacità e di inefficienza
fino alla corruzione, ad esempio per le sanzioni archiviate
o revocate senza criteri e direttive uniformi.
I delicati compiti di verifica, e l’individuazione delle
azioni di prevenzione, sono oggetto delle norme
anticorruzione (legge 190 del 2012, decreto legislativo 33
del 2013) e di specifici piani, l’ultimo dei quali (del
2016) è in corso di redazione da parte dell’Anac dopo un
periodo di consultazione conclusosi a giugno.
Tornando al caso esaminato dal Tar Brescia, il contrasto tra
responsabile dell’unità operativa legale e il responsabile
della prevenzione della corruzione riguardava l’acquisizione
massiva di atti, cioè il primo passo verso un
approfondimento che poteva essere finalizzato
all’individuazione di fattori di rischio di opacità e di
corruzione.
La sentenza dice che questo tipo di contrasti vanno risolti
con il metro del diritto del lavoro, poiché attengono
rapporti interni all’amministrazione. Solo le procedure di
concorso e l’organizzazione dei settori cosiddetti non
contrattualizzati (Università, forze armate ecc.) possono
essere giudicate dai giudici amministrativi, mentre
contrasti e rivendicazioni di competenze, all’interno di
settori pubblici contrattualizzati, appartengono alla
giustizia ordinaria.
Di fatto, quindi, la richiesta di acquisire tutti i
fascicoli relativi a situazioni che possono generare
verifiche di trasparenza appartiene, secondo il Tar, allo
specifico meccanismo anticorruzione e non riguarda cioè
provvedimenti di carattere generale o di macro
organizzazione. Del contrasto tra responsabile dell’unità
operativa legale e responsabile della prevenzione della
corruzione, si occuperà quindi il giudice del lavoro,
delimitando reciproche competenze ed evitando invasioni di
campo che non trovino, nell’esigenza di prevenzione, uno
specifico supporto.
La sentenza quindi individua il giudice competente
(magistratura del lavoro) ma in realtà chiarisce anche che i
problemi interni tra responsabili dei settori vanno risolti
con il metro dell’organizzazione interna, cioè evitando
indebite invasioni di campo e generici limiti alla
trasparenza (articolo Il Sole 24 Ore del
10.01.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sulla
competenza a dirimere una controversia in ordine ad un
provvedimento assunto dal
Responsabile della Prevenzione della Corruzione e per la
Trasparenza.
La controversia di cui si discute
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario ex art.
63, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, il quale dispone che
“Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice
del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di
cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative
ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le
controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il
conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la
responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le
indennità di fine rapporto, comunque denominate e
corrisposte, ancorché vengano in questione atti
amministrativi presupposti….”.
Dunque, il comma 1 del citato art. 63 ha trasferito al
giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le
controversie in materia di pubblico impiego
contrattualizzato, indipendentemente dalla circostanza che
l’asserita lesione del dipendente sia prodotta da un atto
provvedimentale o negoziale.
Diversamente, il comma 4 del medesimo articolo mantiene
ferma la giurisdizione del giudice amministrativo
esclusivamente in materia di procedure concorsuali
finalizzate all’assunzione dei dipendenti pubblici, nonché
-in sede di giurisdizione esclusiva- per le controversie
investenti i particolari rapporti di lavoro individuati
nell’art. 3 ("Personale in regime di diritto pubblico").
La controversia in esame non attiene ad alcuna delle
categorie soggettive contemplate nell’art. 3 del decreto
legislativo citato, né investe la materia delle procedure
concorsuali finalizzate all’assunzione di dipendenti
pubblici.
---------------
Poiché, nella fattispecie, è stata impugnata una nota del
Responsabile della Struttura di Prevenzione della Corruzione
e Trasparenza (con cui viene richiesta la messa a
disposizione di fascicoli e atti, nonché il rapporto di
Audit definitivo assunto dal Responsabile della Struttura
Controllo di Gestione ed Internal Auditing) la controversia
in esame nemmeno involge atti amministrativi di carattere
generale ovvero provvedimenti di macro organizzazione, la
cognizione dei quali, di regola, rientra nella giurisdizione
del giudice amministrativo, in quanto nell’emanazione di
atti organizzativi di carattere generale viene esercitato un
potere di natura autoritativa e non gestionale, cosicché non
trova applicazione la riserva di giurisdizione del giudice
ordinario di cui al ricordato art. 63.
Ma, come detto, nel caso di cui si discute non si tratta di
atti di macro organizzazione.
---------------
alla declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo e all’affermazione di quella del giudice
ordinario, consegue la conservazione degli effettivi
processuali e sostanziali della domanda ove il processo sia
tempestivamente riassunto dinanzi al Giudice
territorialmente competente, nel termine di tre mesi dal
passaggio in giudicato della sentenza, ai sensi dell’art.
11, comma II, del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104, che regola la
fattispecie.
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... per l'annullamento:
- del provvedimento di data 07.10.2016 del Responsabile
della Prevenzione della Corruzione e per la Trasparenza
dell’ATS di Brescia, relativa all’esito dell’Audit
definitivo codice BS002.16, con la quale viene richiesta la
messa a disposizione di tutti i fascicoli relativi alle
archiviazioni/revoche/annullamenti delle ordinanze
ingiunzioni e dei verbali di contestazione delle sanzioni
amministrative a far data dal 05.06.2006;
- del rapporto di Audit definitivo-codice BS002.16, di data
05.10.2016, del Responsabile della Struttura U.O. Controllo
di Gestione ed Internal Auditing, quale atto presupposto;
...
Alla Camera di Consiglio del 23.11.2016, sentite le parti,
il ricorso è stato trattenuto in decisione, potendo essere
deciso con sentenza in forma semplificata, attesa la
fondatezza dell’eccezione di difetto di giurisdizione.
Il Collegio rileva, infatti, che la controversia di cui si
discute rientra nella giurisdizione del giudice ordinario ex
art. 63, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, il quale dispone
che “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di
giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai
rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione
di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4,
incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro,
il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e
la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le
indennità di fine rapporto, comunque denominate e
corrisposte, ancorché vengano in questione atti
amministrativi presupposti….”.
Dunque, il comma 1 del citato art. 63 ha trasferito al
giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le
controversie in materia di pubblico impiego
contrattualizzato, indipendentemente dalla circostanza che
l’asserita lesione del dipendente sia prodotta da un atto
provvedimentale o negoziale.
Diversamente, il comma 4 del medesimo articolo mantiene
ferma la giurisdizione del giudice amministrativo
esclusivamente in materia di procedure concorsuali
finalizzate all’assunzione dei dipendenti pubblici, nonché
-in sede di giurisdizione esclusiva- per le controversie
investenti i particolari rapporti di lavoro individuati
nell’art. 3 ("Personale in regime di diritto pubblico").
La controversia in esame non attiene ad alcuna delle
categorie soggettive contemplate nell’art. 3 del decreto
legislativo citato, né investe la materia delle procedure
concorsuali finalizzate all’assunzione di dipendenti
pubblici.
Considerato che la ricorrente ha impugnato una nota del
Responsabile della Struttura di Prevenzione della Corruzione
e Trasparenza dell’ATS resistente con cui viene richiesta la
messa a disposizione di fascicoli e atti, nonché il rapporto
di Audit definitivo assunto dal Responsabile della Struttura
Controllo di Gestione ed Internal Auditing, la controversia
in esame nemmeno involge atti amministrativi di carattere
generale ovvero provvedimenti di macro organizzazione, la
cognizione dei quali, di regola, rientra nella giurisdizione
del giudice amministrativo, in quanto nell’emanazione di
atti organizzativi di carattere generale viene esercitato un
potere di natura autoritativa e non gestionale, cosicché non
trova applicazione la riserva di giurisdizione del giudice
ordinario di cui al ricordato art. 63.
Ma, come detto, nel caso di cui si discute non si tratta di
atti di macro organizzazione.
In conclusione, per le ragioni esposte, difetta la
giurisdizione del giudice amministrativo spettando essa al
giudice ordinario, il quale valuterà l’eventuale
giustiziabilità degli atti censurati dalla ricorrente.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Peraltro, alla declaratoria del difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo e all’affermazione di quella del
giudice ordinario, consegue la conservazione degli effettivi
processuali e sostanziali della domanda ove il processo sia
tempestivamente riassunto dinanzi al Giudice
territorialmente competente, nel termine di tre mesi dal
passaggio in giudicato della sentenza, ai sensi dell’art.
11, comma II, del D.Lgs. 02.07.2010 n. 104, che regola la
fattispecie sulla scorta dell’orientamento espresso da Corte
Cost. n. 77/2007 e Cass. Sez. Un. n. 4109/2007 e poi
recepito dal previgente art. 59 della legge n. 69/2009
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 04.01.2017 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
illegittimità dell'adottato provvedimento di annullamento in
autotutela dopo ben 11 anni, senza indicare o motivare quale
sia l'interesse pubblico specifico e senza minimamente
tenere in considerazione l'affidamento del privato nella
conservazione del titolo abilitativo, consolidatosi
nell'arco temporale cospicuo trascorso tra il rilascio e
l'annullamento.
E’ pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale gli atti
amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore
letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà
dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato,
cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi
attribuito al momento della adozione.
---------------
L’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241/1990 nel testo
attualmente in vigore [comma così modificato dall'art. 25,
comma 1, lett. b-quater), nn. 1) e 2), D.L. 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n.
164, e, successivamente, dall'art. 6, comma 1, lett. d), n.
1), L. 07.08.2015, n. 124] ed applicabile ratione temporis
alla fattispecie per cui è causa, dispone: “1. Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi
dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al
mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Il ricorso all'autotutela (mediante annullamento d'ufficio)
può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui
all'art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce della novella di cui all'art. 6 della
legge 07.08.2015, n. 124, sussiste ora uno sbarramento
temporale all'esercizio del potere di autotutela, fissato in
“diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
---------------
Nel caso di specie l’annullamento d’ufficio è intervenuto il
16.02.2016 e, quindi, ben oltre il termine dei diciotto mesi
dal rilascio, il 13.01.2005, indicato dal citato art.
21-nonies della legge n. 241/1990, così come modificato
dalla legge 07.08.2015, n. 124, quale limite per procedere
all’annullamento in autotutela dei titoli autorizzativi,
senza che sia stata dimostrata la sussistenza delle
circostanze di cui al comma 2-bis del medesimo articolo, che
prevedono la possibilità di procedere ugualmente
all’annullamento ex officio.
Al riguardo il Collegio ritiene che la norma introdotta
dalla legge n. 07.08.2015, n. 124 sia applicabile in ogni
caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto
successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi
un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente.
Inoltre l'annullamento d'ufficio del permesso di costruire
richiede necessariamente un'espressa motivazione in ordine
all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino
dello status quo ante, ai sensi dell'art. 21-nonies della L.
n. 241/1990, preminente su quello privato alla conservazione
del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di
autotutela della P.A., entro un termine ragionevole, non
essendo, pure nella materia edilizia, sufficiente l'intento
di operare un mero astratto ripristino della legalità
violata.
Nel caso in esame, al contrario, il Comune resistente non ha
fornito alcuna ragione, per quanto succinta, di interesse
pubblico in base alla quale giustificare l’esercizio del
potere di autotutela, né ha valutato il grado di incisione
del suddetto potere sugli interessi dei suddetti ricorrenti,
in bilanciamento con quelli pubblici.
Nella specie manca il requisito rappresentato dalla
valutazione motivata della posizione dei soggetti
destinatari del provvedimento. Inoltre, come
condivisibilmente prospettato da parte ricorrente, il suo
affidamento era particolarmente qualificato in ragione del
lungo tempo trascorso dall’adozione del permesso di
costruire annullato, risultando trascorsi undici anni dal
rilascio del titolo edilizio oggetto di annullamento.
---------------
...
per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
della determina dirigenziale prot. n. 12 del 16.02.2016 (notificata il
03.05.2016) del Comune di Sessa
Aurunca (CE) di annullamento in autotutela del permesso di
costruire n. 2 del 13.01.2005 rilasciato al ricorrente
in variante alla concessione edilizia n. 320 del 16.10.1992 e dell'ordinanza di demolizione n. 16 del 17.03.2016
(notificata il 18.03.2016) delle opere oggetto del
permesso di costruire n. 2 del 13.01.2005 e di altre
opere ritenute abusive perché in difformità rispetto al
permesso di costruire n. 115/2008 o prive di titoli
abilitativi.
...
Con il presente ricorso, ritualmente notificato il 16.05.2016 e depositato il 15.06.2016, Ma.Pi. ha chiesto
l’annullamento della determina dirigenziale prot. n. 12 del
16.02.2016, notificata il 03.05.2016, con la quale
il Comune di Sessa Aurunca (CE) ha annullato in autotutela
il permesso di costruire n. 2 del 13.01.2005,
rilasciato in variante alla concessione edilizia n. 320 del
16.10.1992, per violazione delle distanze previste
dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 e dall’art. 907
c.c. e per essere stato rilasciato sulla scorta della
documentazione tecnica presentata dall’odierno ricorrente
che non rappresentava la distanza tra la finestra di
proprietà del sig. Si. e gli edifici di progetto,
inducendo pertanto in errore la P.A..
Il Pi. ha chiesto altresì l’annullamento dell'ordinanza
di demolizione n. 16 del 17.03.2016, notificata il 18.03.2016, relativa alle opere oggetto del permesso di
costruire n. 2 del 13.01.2005 e ad altre opere ritenute
abusive perché in difformità rispetto al permesso di
costruire n. 115/2008 (“Apertura di vano finestra al piano
terra avente dimensioni di circa mt. 4.00 x mt. 2.00; cambio
di destinazione d'uso del locale garage al piano terra per
circa mq. 6,62; terrazzo di copertura del vano scala per una
superficie di mq. 9,00”) nonché ad ulteriori opere ritenute
prive di titoli abilitativi (“Realizzazione di una scala a
chiocciola in ferro con una ampiezza di circa 120 cm.;
parapetto perimetrale a terrazzo a copertura del locale
soggiorno; apertura su prospetto laterale del vano scala,
per luce ingrediente, dalle dimensioni di circa cm. 30 x 40
come modifica prospettica; parete realizzata con blocchi di
cemento precompresso, lato giardino”).
...
Il ricorso è fondato e, in quanto tale, va accolto.
Il Collegio deve innanzitutto qualificare la determina
dirigenziale prot. n. 12 del 16.02.2016, oggetto di
impugnazione, con la quale il Comune di Sessa Aurunca ha
annullato in autotutela il permesso di costruire n. 2 del 13.01.2005, rilasciato in variante alla concessione
edilizia n. 320 del 16.10.1992, in quanto il Comune
resistente, nell’oggetto del provvedimento stesso, dopo
averlo qualificato “revoca in autotutela” ha rappresentato
espressamente di averlo adottato “ai sensi dell'art. 21-nonies della L. 241/1990”, che disciplina l’annullamento
d’ufficio, e, nella parte dispositiva del provvedimento, ha
disposto “l’annullamento in autotutela del permesso di
costruire n. 2 del 13/01/2005”.
E’ infatti pacifico in giurisprudenza il principio,
condiviso dal Collegio, secondo il quale gli atti
amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore
letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà
dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato,
cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi
attribuito al momento della adozione (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 09.06.2015, n. 2836, Consiglio di Stato,
Sez. V, 28.06.2004, n. 4756, 15.10.2003, n. 6316,
Adunanza Plenaria Consiglio di Stato, 23.01.2003, n. 3,
TAR Lombardia Milano Sez. II, 18.09.2013, n.
2170).
Nella fattispecie oggetto di gravame deve ritenersi che il
provvedimento sia stato effettivamente adottato ai sensi
dell'art. 21-nonies della L. 241/1990, che disciplina
l’annullamento d’ufficio, in quanto risulta annullato per
violazione delle distanze previste dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 e dall’art. 907 c.c. e per essere stato
rilasciato sulla scorta della documentazione tecnica
presentata dall’odierno ricorrente che non rappresentava la
distanza tra la finestra di proprietà del sig. Si. e
gli edifici di progetto, inducendo pertanto in errore la
P.A., e, quindi, dopo aver riscontrato un vizio di
legittimità del permesso di costruire oggetto di autotutela,
circostanza risolutiva ai fini della qualificazione del
provvedimento quale annullamento d’ufficio.
Premesso quanto sopra, nel merito si ritiene di confermare
quanto già sostenuto da questa Sezione nell’ordinanza
cautelare di accoglimento n. 1133 dell’11.07.2016 in
relazione alla mancanza delle condizioni per disporre
l’annullamento del permesso di costruire.
Colgono infatti nel segno le censure di cui al secondo
motivo di ricorso con le quali parte ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n.
241/1990 per insussistenza dei presupposti richiesti dalla
suddetta disposizione normativa.
Ad avviso di parte ricorrente l’adozione del provvedimento
di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al
riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la
valutazione della rispondenza della sua rimozione ad un
interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche
prevalente rispetto all’interesse del privato che ha riposto
affidamento nella legittimità e stabilità del titolo
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Nel caso di specie sarebbe stato adottato un provvedimento
di annullamento in autotutela dopo ben 11 anni (nonostante
un ulteriore permesso di costruire in variante rilasciato
nel 2008 e rinnovato nel 2012), senza indicare o motivare
quale sia l'interesse pubblico specifico e senza minimamente
tenere in considerazione l'affidamento del privato nella
conservazione del titolo abilitativo, consolidatosi
nell'arco temporale cospicuo trascorso tra il rilascio e
l'annullamento e, conseguentemente, con l’ordinanza di
demolizione oggetto di impugnazione, sarebbe stata ordinata
illegittimamente la demolizione delle opere realizzate.
In punto di diritto l’art. 21-nonies, comma 1, della legge
n. 241/1990 nel testo attualmente in vigore (comma così
modificato dall'art. 25, comma 1, lett. b-quater), nn. 1) e
2), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, e,
successivamente, dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124) ed applicabile
ratione temporis alla
fattispecie per cui è causa, dispone: “1. Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies,
esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma
2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni
di interesse pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il
provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e
tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le
responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo”.
Il ricorso all'autotutela (mediante annullamento d'ufficio)
può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui
all'art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce della novella di cui all'art. 6 della
legge 07.08.2015, n. 124, sussiste ora uno sbarramento
temporale all'esercizio del potere di autotutela, fissato in
“diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762,
10.12.2015, n. 5625).
Nel caso di specie l’annullamento d’ufficio è intervenuto il
16.02.2016 e, quindi, ben oltre il termine dei
diciotto mesi dal rilascio, il 13.01.2005, indicato dal
citato art. 21-nonies della legge n. 241/1990, così come
modificato dalla legge 07.08.2015, n. 124, quale limite
per procedere all’annullamento in autotutela dei titoli
autorizzativi, senza che sia stata dimostrata la sussistenza
delle circostanze di cui al comma 2-bis del medesimo
articolo, che prevedono la possibilità di procedere
ugualmente all’annullamento ex officio.
Al riguardo il Collegio ritiene che la norma introdotta
dalla legge n. 07.08.2015, n. 124 sia applicabile in ogni
caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto
successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi
un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente
(TAR Puglia Bari, Sez. III, 17.03.2016, n. 351, TAR
Campania Napoli, Sez. III, 22.09.2016, n. 4373).
Inoltre l'annullamento d'ufficio del permesso di costruire
richiede necessariamente un'espressa motivazione in ordine
all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino
dello status quo ante, ai sensi dell'art. 21-nonies della L.
n. 241/1990, preminente su quello privato alla conservazione
del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di
autotutela della P.A., entro un termine ragionevole, non
essendo, pure nella materia edilizia, sufficiente l'intento
di operare un mero astratto ripristino della legalità
violata (TAR Puglia Lecce Sez. III, 20.10.2016, n.
1602; TAR Campania Salerno Sez. I, 24.02.2016, n.
446).
Nel caso in esame, al contrario, il Comune resistente non ha
fornito alcuna ragione, per quanto succinta, di interesse
pubblico in base alla quale giustificare l’esercizio del
potere di autotutela, né ha valutato il grado di incisione
del suddetto potere sugli interessi dei suddetti ricorrenti,
in bilanciamento con quelli pubblici.
Nella specie manca il requisito rappresentato dalla
valutazione motivata della posizione dei soggetti
destinatari del provvedimento. Inoltre, come
condivisibilmente prospettato da parte ricorrente, il suo
affidamento era particolarmente qualificato in ragione del
lungo tempo trascorso dall’adozione del permesso di
costruire annullato, risultando trascorsi undici anni dal
rilascio del titolo edilizio oggetto di annullamento (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762, 10.12.2015, n. 5625 cit., TAR Lombardia Brescia Sez. II,
09.05.2016, n. 634).
Alla luce di quanto sopra esposto, il Collegio ritiene che i
su illustrati profili di illegittimità abbiano una indubbia
valenza assorbente rispetto agli altri motivi di gravame,
sicché la fondatezza delle dedotte censure comporta
l’accoglimento del ricorso relativamente alla domanda
demolitoria della determina dirigenziale del 16.02.2016, di annullamento in autotutela del permesso di
costruire n. 2 del 13.01.2005, con l’assorbimento degli
ulteriori motivi d’impugnazione.
Il ricorso deve altresì essere accolto relativamente alla
domanda di annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 16
del 17.03.2016, pure oggetto di impugnazione.
Più specificatamente la suddetta ordinanza di demolizione
deve ritenersi illegittima e, conseguentemente, da annullare
in parte qua per illegittimità derivata in riferimento alle
opere oggetto del permesso di costruire n. 2 del 13.01.2005, a seguito dell’annullamento giudiziale della determina
dirigenziale del 16.02.2016, di annullamento in autotutela
del citato permesso di costruire
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 03.01.2017 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerta tecnica non conforme alle specifiche tecniche.
---------------
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerta - Offerta tecnica –
Specifiche tecniche – Offerta non conforme – Conseguenza.
In sede di gara pubblica, l'offerta
non conforme alle specifiche tecniche indicate nel
capitolato comporta l'annullamento dell'aggiudicazione
dell'appalto (indetto con il criterio del maggior ribasso)
anche se il capitolato e il bando non la prevedono
esplicitamente (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tribunale, richiamando precedenti conformi, che
l'art. 68, comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (secondo cui “Quando
si avvalgono della possibilità di fare riferimento alle
specifiche di cui al comma 3, lett. a), le stazioni
appaltanti non possono respingere un'offerta per il motivo
che i prodotti e i servizi offerti non sono conformi alle
specifiche alle quali hanno fatto riferimento, se nella
propria offerta l'offerente prova in modo ritenuto
soddisfacente dalle stazioni appaltanti, con qualsiasi mezzo
appropriato, che le soluzioni da lui proposte ottemperano in
maniera equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche
tecniche”) pone a carico della parte che intenda
partecipare alla gara, offrendo un prodotto con
caratteristiche non conformi ma solo equivalenti alle
specifiche tecniche, l'onere di fornire "nell'offerta
stessa" idonea prova sulla equivalenza della propria
proposta rispetto alle previsioni di cui alla legge di gara
(Tar Veneto, sez. III, 13.05.2016, n. 514; id. 20.01.2016,
n. 39; Tar Bari, sez. I, 13.01.2015, n. 32).
Ha aggiunto che la valutazione dell'equivalenza di un
prodotto, che attiene anche all'appropriatezza del mezzo di
prova, costituisce espressione di un potere discrezionale
dell'Amministrazione e può essere sindacato dal giudice solo
nella misura in cui si riveli illogica, contraddittoria o
irrazionale (Tar Friuli Venezia Giulia 21.01.2014, n. 16;
Tar Brescia, sez. II, 18.04.2013, n. 381; Tar Sardegna, sez.
I, 20.02.2012, n. 137).
Da segnalare che il nuovo Codice dei contratti pubblici
disciplina le specifiche tecniche all’art. 68, i cui commi 7
e 8 prevedono che: “7. Quando si avvalgono della
possibilità di fare riferimento alle specifiche tecniche di
cui al comma 5, lettera b), le amministrazioni
aggiudicatrici non possono dichiarare inammissibile o
escludere un'offerta per il motivo che i lavori, le
forniture o i servizi offerti non sono conformi alle
specifiche tecniche alle quali hanno fatto riferimento, se
nella propria offerta l'offerente dimostra, con qualsiasi
mezzo appropriato, compresi i mezzi di prova di cui all'art.
86, che le soluzioni proposte ottemperano in maniera
equivalente ai requisiti definiti dalle specifiche tecniche”;
“8. Quando si avvalgono della facoltà, prevista al comma
5, lettera a), di definire le specifiche tecniche in termini
di prestazioni o di requisiti funzionali, le amministrazioni
aggiudicatrici non possono dichiarare inammissibile o
escludere un'offerta di lavori, di forniture o di servizi
conformi a una norma che recepisce una norma europea, a una
omologazione tecnica europea, a una specifica tecnica
comune, a una norma internazionale o a un sistema tecnico di
riferimento adottato da un organismo europeo di
normalizzazione se tali specifiche contemplano le
prestazioni o i requisiti funzionali da esse prescritti.
Nella propria offerta, l'offerente è tenuto a dimostrare con
qualunque mezzo appropriato, compresi i mezzi di prova di
cui all'articolo 86, che i lavori, le forniture o i servizi
conformi alla norma ottemperino alle prestazioni e ai
requisiti funzionali dell'amministrazione aggiudicatrice”
(TRGA Trentino
Alto Adige-Trento,
sentenza 03.01.2017 n. 2 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nelle
gare condotte morali non innescano l'espulsione.
Nel nuovo codice degli appalti (decreto legislativo n. 50
del 2016) le condotte in grado di incidere sulla moralità
professionale non fanno scattare in modo automatico
l'espulsione dalla gara: ciò in quanto sussiste una sfera di
discrezionalità della pubblica amministrazione ed è previsto
un meccanismo riabilitativo (cosiddetto self cleaning) che
consente all'operatore economico di dimostrare la propria
affidabilità nonostante l'esistenza di un motivo di
esclusione.
Lo ha stabilito il TAR Campania-Salerno, Sez. I, con la
sentenza 02.01.2017 n. 10.
La vicenda trae spunto dall'esclusione da una procedura
ristretta a causa di una sanzione applicata dall'Antitrust
per comportamento anticoncorrenziale.
In primo luogo il collegio ha sancito che tale
ipotesi non rientra astrattamente tra le cause di esclusione
tassative previste dall'articolo 80, comma 5, lett. c), del
decreto legislativo numero 50 del 2016.
In secondo luogo e in linea più generale i giudici
hanno sottolineato, con riferimento ai requisiti morali di
partecipazione e pur in presenza di una disciplina normativa
che detta ipotesi tassative, che, anche nell'ottica del
nuovo codice, «persiste in capo alla stazione appaltante
un coefficiente di discrezionalità (cosiddetta monobasica),
che comporta l'esatta riconduzione della fattispecie
astratta contemplata dalla norma (grave illecito
professionale) a quella concretamente manifestata nella
singola gara».
In terzo luogo il Tar ha rimarcato che la stazione
appaltante ha illegittimamente allontanato la ditta sulla
mera irrogazione della sanzione (e sulla esecutività della
pronuncia del giudice amministrativo che ne ha verificato la
legittimità), senza operare alcuna valutazione circa la
effettiva incidenza del comportamento sanzionato sulla
moralità professionale.
Infine il consesso salernitano ha puntualizzato che
in base al novello disegno normativo «l'esclusione può
essere disposta soltanto dopo che sia stata data
all'operatore economico la possibilità di dimostrare la sua
affidabilità nonostante l'esistenza di un motivo di
estromissione»
(articolo ItaliaOggi del 05.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: TAR:
illegittima l'esclusione dalla gara motivata con la sanzione
dell'Antitrust. Bocciato un punto delle Linee guida Anac n.
6.
L’irrogazione di una sanzione da parte
dell’Antitrust non può consolidare alcuna fattispecie
escludente di conio normativo: la sanzione, irrogata ad un
operatore economico dall’Autorità Garante della Concorrenza
e del Mercato per la realizzazione di una intesa restrittiva
della concorrenza in occasione di una gara Consip, non può
essere astrattamente ricondotta all’art. 80, comma 5, lett.
c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in cui fa
riferimento ad “altre sanzioni” tra le conseguenze che
possono derivare dalla violazione dei doveri professionali
e, segnatamente, dalle “significative carenze
nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione”.
Lo ha affermato il TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 02.01.2017 n. 10.
Il Tar ha evidenziato che, come precisato nel parere
03.11.2016 n. 2286, reso dalla Commissione speciale del
Consiglio di Stato sullo schema delle Linee guida Anac n. 6
“Indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto che possano considerarsi significative per la
dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui
all’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice”, “possono
essere considerate come ‘altre sanzioni’, l’incameramento
delle garanzie di esecuzione o l’applicazione di penali,
fermo che la sola applicazione di una clausola penale non è
di per sé sintomo di grave illecito professionale, specie
nel caso di applicazione di penali in misura modesta”.
BOCCIATO UN PASSAGGIO DELLE LINEE GUIDA
ANAC N. 6. Il Tar
Campania dunque boccia un punto delle Linee guida Anac n. 6
che tra i casi da valutare ai fini dell'esclusione richiama
le sanzioni dell'Autorità garante della concorrenza e del
mercato.
La stessa Commissione speciale ha evidenziato che la
previsione di cui all’art. 80 ha una portata molto più ampia
in quanto, da un lato, non si opera alcuna distinzione tra
precedenti rapporti contrattuali con la medesima o con
diversa stazione appaltante, e, dall’altro lato, non si fa
riferimento solo alla negligenza o errore professionale, ma,
più in generale, all’illecito professionale, che abbraccia
molteplici fattispecie, anche diverse dall’errore o
negligenza, e include condotte che intervengono non solo in
fase di esecuzione contrattuale, come si riteneva nella
disciplina previgente, ma anche in fase di gara (le false
informazioni, l’omissione di informazioni, il tentativo di
influenzare il processo decisionale della stazione
appaltante).
Ad avviso del Tar Salerno in tale ventaglio di ipotesi non
possono tuttavia rientrare anche i comportamenti
anti-concorrenziali, in quanto di per sé estranei al novero
delle fattispecie ritenute rilevanti dal legislatore, in
attuazione peraltro di una precisa scelta, se si pensi che
non sono state riprodotte, nell’ambito del vigente
ordinamento nazionale, le ipotesi di cui alla lett. d) della
direttiva 2014/24, relativa agli accordi intesi a falsare la
concorrenza.
Ha aggiunto il Tar Campania che la lett. c) del comma 5
dell’art. 80 non si presta ad una interpretazione estensiva
o analogica, in quanto risulterebbe in contrasto con le
esigenze di favor partecipationis che ispirano
l’ordinamento in subiecta materia. In conclusione,
l’ampia e generica dicitura della norma non consente di
includere nello spettro applicativo della stessa anche il
provvedimento sanzionatorio posto a base dell’avversata
determinazione, avendo il legislatore ricollegato le “altre
sanzioni” a comportamenti inadempienti che alcuna
attinenza hanno con quelli lesivi della concorrenza.
L’irrogazione di una sanzione da parte dell'Antitrust non
può quindi consolidare alcuna fattispecie escludente di
conio normativo e pertanto si configura la lamentata
violazione del principio di tassatività delle cause di
esclusione (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento del provvedimento di esclusione
adottato nel corso della seduta di gara del 20.10.2016 dalla
Commissione preposta alla valutazione delle offerte per la
procedura ristretta inerente l'affidamento del servizio di
pulizia e sanificazione dei presidi ospedalieri dell'Azienda
Ospedaliera Universitaria "Ospedali riuniti San Giovanni
di Dío e Ruggi di Aragona" per due anni con opzione di
rinnovo per un'ulteriore annualità, nonché di tutti gli atti
al predetto comunque connessi ed, in particolare, se ed in
quanto lesivi, la nota prot. n. 22780 ciel 26.10.2016 del
RUP, il verbale di gara del 23.06.2016, la deliberazione del
Commissario Straordinario n. 257 del 30.06.2016, la
determinazione del RUP n. 265/2016 del 12.08.2016, la nota
dello stesso RUP 12.08.2016 prot. n. 17578, nonché ogni
altro atto conseguenziale, manche non conosciuto,
successivamente adottato.
...
Il ricorso è fondato.
Giova premettere che la vicenda di causa, come traspare
dalle stesse articolazioni difensive contenute in ricorso, è
senz’altro attratta alla disciplina di cui al nuovo Codice
dei Contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), trattandosi di
procedura ristretta indetta con deliberazione del 25.01.2016
con bando di prequalificazione pubblicato (sulla G.U.U.E.
del 3.5.2016 e sulla G.U.R.I. n. 51 del 06.05.2016)
successivamente al discrimine temporale stabilito dalla
disposizione transitoria di cui all’art. 216 (“Fatto
salvo quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle
singole disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si
applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o
avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente siano pubblicati successivamente alla data
(19.04.2016, ndr) della sua entrata in vigore nonché, in
caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi,
alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla
data di entrata in vigore del presente codice, non siano
ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”).
Occorre quindi verificare se la fattispecie applicata, a
prescindere dal mancato richiamo testuale della norma ad
opera della SA, sia effettivamente riconducibile al
ventaglio di ipotesi espulsive quivi contemplato,
segnatamente, dal comma 5, lett. c), che così statuisce: “Le
stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla
procedura d'appalto un operatore economico in una delle
seguenti situazioni…c) la stazione appaltante dimostri con
mezzi adeguati che l'operatore economico si e' reso
colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere
dubbia la sua integrita' o affidabilita'. Tra questi
rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un
precedente contratto di appalto o di concessione che ne
hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in
giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero
hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o
ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente
il processo decisionale della stazione appaltante o di
ottenere informazioni riservate ai fini di proprio
vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni
false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero
l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione”.
La questione agitata in ricorso involge il
tema, dal rilevante spessore ermeneutico, dei requisiti
morali di partecipazione ad una gara d’appalto, che, pur
caratterizzato da una disciplina normativa che detta ipotesi
tassative (TAR
Latina Lazio, sez. I, 23.12.2013, n. 1058),
non è del tutto scevra, come meglio si dirà, da
profili di discrezionalità ascrivibili alle stazioni
appaltanti. L’esclusione per difetto dei requisiti morali
viene disposta ove ci si trovi in presenza di determinate
situazioni tassativamente indicate, che proprio in virtù
della loro gravità e rilevanza comportano l’obbligatoria ed
immediata esclusione.
La ratio della norma di cui all’art.
80 risiede appunto nell’esigenza di verificare
l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore
economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a
tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che
quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di
affidabilità morale e professionale.
L’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 ripropone il contenuto
dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2016, apportando però
significative modifiche al testo originario anche per quanto
attiene al più specifico ambito dei comportamenti incidenti
sulla moralità professionale delle imprese concorrenti, in
quanto l’art. 38 presentava la seguente diversa
formulazione: “…secondo motivata valutazione della
stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o
malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla
stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno
commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività
professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da
parte della stazione appaltante”.
La diversità del tratto testuale della norma oggi vigente,
come dianzi riprodotto, non è tale da escludere una precisa
linea di continuità tra le due previsioni, atteso che
persiste in capo alla Stazione appaltante un coefficiente di
discrezionalità (cosiddetta monobasica), il cui esercizio
comporta la esatta riconduzione della fattispecie astratta
contemplata dalla norma (grave illecito professionale) a
quella concretamente palesatasi nella singola gara.
Il quadro normativo che connota l’ampia
tematica dei requisiti di ordine generale è storicamente
caratterizzato da profili di discrezionalità delle stazioni
appaltanti, ancorché collocati nella fase nevralgica delle
ammissioni/esclusioni dalla gara, che affondano le loro
radici nella stessa disciplina comunitaria, anch’essa
incline a configurare, sia pure entro certi limiti,
diaframmi di discrezionalità in capo alle amministrazioni
giudicatrici, segnatamente nelle ipotesi di cosiddetta
esclusione discrezionale dalla gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di
un diaframma di discrezionalità in sede applicativa affiora,
pur in mancanza di una formulazione della norma di segno
univoco come quella contenuta nel previgente Codice Appalti
(laddove si discorreva di “motivata valutazione”),
da quanto statuito a proposito della consacrata
necessità di dare “dimostrazione con mezzi adeguati” della
sussistenza della fattispecie espulsiva, nonché dall’uso di
locuzione generiche (“dubbia”, “gravi”) e
dalla omessa precisa elencazione di ipotesi escludenti, che
il legislatore infatti si limita ad individuare a fini
meramente esemplificativi.
Va tuttavia ribadito che spiragli di
discrezionalità in favore delle stazioni appaltanti
attengono non alla individuazione delle fattispecie
espulsive –che senz’altro compete al legislatore, in materia
di requisiti generali, secondo una elencazione da
considerare tassativa– bensì alla riconduzione della
fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta
genericamente mediante l’uso di concetti giuridici
indeterminati (peculiarità compendiata nel suddetto
sintagma, di conio dottrinale, della discrezionalità
monobasica).
Fatta questa necessaria premessa al fine di lumeggiare il
peculiare contesto normativo nel quale si colloca la vicenda
in esame, va esaminato il primo motivo di ricorso,
nel quale parte ricorrente articola le proprie deduzioni
secondo una triplice linea argomentativa: la insussistenza
di alcuna delle ipotesi contemplate dal ridetto art. 80; la
pretesa irrilevanza della sanzione irrogata dall’AGCM perché
non contenuta in una decisione definitiva, stante la
appellabilità della sentenza del Tar Lazio (n. 10303/2016)
che l’ha confermata (peraltro solo nell’an); il
mancato espletamento della discrezionalità riservata alla
Stazione appaltante, avendo questa attribuito alla sanzione
una efficacia espulsiva automatica.
Osserva il Collegio, in primo luogo, che la sanzione
irrogata dall’AGCM non può essere astrattamente ricondotta
alla norma di cui all’art. 80 laddove discorre di “altre
sanzioni” tra le conseguenze che possono derivare dalla
violazione dei doveri professionali e segnatamente dalle “significative
carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione”.
Come precisato nel parere (n. 2286/2016 in data 03.11.2016)
reso dalla commissione speciale del Consiglio di Stato (in
relazione alle redigende Linee guida ANAC “indicazione dei
mezzi di prova adeguati e delle carenze nell'esecuzione di
un precedente contratto di appalto che possano considerarsi
significative per la dimostrazione delle circostanze di
esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), del
codice”) <<possono essere considerate come “altre
sanzioni”, l’incameramento delle garanzie di esecuzione o
l’applicazione di penali, fermo che la sola applicazione di
una clausola penale non è di per sé sintomo di grave
illecito professionale, specie nel caso di applicazione di
penali in misura modesta>>.
Lo stesso Massimo Consesso di GA, nel medesimo parere reso
sulla proposta di linee guida dell’ANAC dal Consiglio di
Stato in sede consultiva nella nuova disciplina, ha
evidenziato che la previsione di cui
all’art. 80 ha una portata molto più ampia, in quanto, da un
lato, non si opera alcuna distinzione tra precedenti
rapporti contrattuali con la medesima o con diversa stazione
appaltante, e, dall’altro lato, non si fa riferimento solo
alla negligenza o errore professionale, ma, più in generale,
all’illecito professionale, che abbraccia molteplici
fattispecie, anche diverse dall’errore o negligenza, e
include condotte che intervengono non solo in fase di
esecuzione contrattuale, come si riteneva nella disciplina
previgente, ma anche in fase di gara (le false informazioni,
l’omissione di informazioni, il tentativo di influenzare il
processo decisionale della stazione appaltante).
In tale ventaglio di ipotesi non possono
tuttavia rientrare, a parere del Collegio, anche i
comportamenti anti-concorrenziali, in quanto di per sé
estranei al novero delle fattispecie ritenute rilevanti dal
legislatore, in attuazione peraltro di una precisa scelta,
se si pensi che non sono state riprodotte, nell’àmbito del
vigente ordinamento nazionale, le ipotesi di cui alla lett.
d) della direttiva 2014/24, relativa agli accordi intesi a
falsare la concorrenza. La norma non si presta ad una
interpretazione estensiva o analogica, in quanto
risulterebbe in contrasto con le esigenze di favor
partecipationis che ispirano l’ordinamento in
subiecta materia.
Ritiene il Collegio che l’ampia e generica
dicitura della norma non consente di includere nello spettro
applicativo della stessa anche il provvedimento
sanzionatorio posto a base dell’avversata determinazione,
avendo il legislatore ricollegato le “altre sanzioni”
a comportamenti inadempienti che alcuna attinenza hanno con
quelli lesivi della concorrenza. L’irrogazione di una
sanzione da parte dell’Authorithy Antitrust non può quindi
consolidare alcuna fattispecie escludente di conio normativo
e pertanto si configura la lamentata violazione del
principio di tassatività delle cause di esclusione.
Va altresì rilevata la fondatezza di quanto ulteriormente
dedotto a proposito della obliterazione del diaframma
discrezionale, il cui esercizio, che si riflette sul piano
redazionale provocando un appesantimento dell’onere
motivazionale, si impone alle stazioni appaltanti; esso
invero fa da contraltare alla possibile rilevanza anche di
decisioni non ancora definitive.
Viene quindi conclusivamente in evidenza, sul piano
patologico, che la Stazione appaltante ha
fondato la determinazione espulsiva sulla mera irrogazione
della sanzione e sulla esecutività della pronuncia del
giudice amministrativo che ne ha verificato la legittimità,
senza operare alcuna valutazione circa la effettiva
incidenza del comportamento sanzionato sulla moralità
professionale e precisamente per aver determinato “significative
carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione”.
L’atto impugnato risulta quindi illegittimo
in quanto non è dato comprendere, alla luce del tenore
motivazionale dell’atto, come la condotta dell’operatore
economico sanzionata dall’Antitrust abbia esattamente inciso
sulla moralità professionale nei termini stabiliti dalla
norma di riferimento del Codice degli appalti.
Per giunta, come ulteriormente articolato in ricorso,
palesandosi così anche sotto tal profilo la fondatezza del
gravame, il disegno normativo che è dato cogliere dalla
lettura dell’art. 80 del nuovo plesso normativo sembra
escludere, in termini tendenziali, ogni forma di automatismo
escludente derivante dalla perpetrazione delle condotte in
grado di incidere sulla moralità professionale,
contemplando, in maniera innovativa rispetto al codice
previgente, un meccanismo per così dire riabilitativo
(cosiddetto self cleaning), in base al quale “Un
operatore economico, o un subappaltatore, che si trovi in
una delle situazioni di cui al comma 1, limitatamente alle
ipotesi in cui la sentenza definitiva abbia imposto una pena
detentiva non superiore a 18 mesi ovvero abbia riconosciuto
l'attenuante della collaborazione come definita per le
singole fattispecie di reato, o al comma 5, e' ammesso a
provare di aver risarcito o di essersi impegnato a risarcire
qualunque danno causato dal reato o dall'illecito e di aver
adottato provvedimenti concreti di carattere tecnico,
organizzativo e relativi al personale idonei a prevenire
ulteriori reati o illeciti”.
Tale disposizione, richiamando le ipotesi di cui al comma 5,
comprende anche la fattispecie in esame, con la conseguenza
che l’esclusione può essere disposta soltanto dopo che sia
stata data all’operatore economico la possibilità di
dimostrare la sua affidabilità nonostante l’esistenza di un
motivo di esclusione.
La illegittimità dell’atto impugnato si palesa quindi anche
sotto tale distinto e concorrente profilo.
Tanto è sufficiente, ritenuta assorbita ogni altra censura,
per l’accoglimento del gravame, di tal che dell’atto
impugnato occorre disporre l’annullamento, con conseguente
obbligo della Stazione appaltante di riammettere la ditta
ricorrente alla gara (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 02.01.2017 n. 10 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Prefabbricati
sui terreni con licenza.
Per installare un manufatto a uso abitativo sul terreno
agricolo occorre una licenza edilizia. Non importa se la
casa mobile è precaria e temporanea. Quello che interessa è
la funzione che svolge continuativamente il prefabbricato.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con la
sentenza 29.12.2016 n.
2495.
Un cittadino ha installato nel
campo una casa mobile di rilevanti dimensioni senza
richiedere alcun permesso di costruzione. Contro la
conseguente ordinanza di demolizione l'interessato ha
proposto ricorso al Tar ma senza successo.
Il concetto di
precarietà di un manufatto è strettamente connesso alla
funzione che lo stesso è deputato a svolgere, specifica la
sentenza, e non alle sue caratteristiche costruttive.
Solo
le opere agevolmente rimuovibili, destinate a soddisfare una
esigenza temporanea, possono ritenersi di carattere
precario, senza necessità di licenza. È dunque la funzione
destinata ad essere svolta dal manufatto a condizionare
l'abuso
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
Ed invero, per giurisprudenza costante del giudice
amministrativo, il concetto di precarietà del manufatto
realizzato è strettamente connesso alla funzione che lo
stesso è destinato a realizzare e non alle sue
caratteristiche costruttive.
E’ stato, in proposito, affermato che: “Al
fine di verificare se una determinata opera ha carattere
precario, che è condizione per l'accertamento della non
necessarietà del rilascio della relativa concessione
edilizia, occorre verificare la destinazione funzionale e
l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata;
pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali
a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea,
destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo,
entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di
carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il
permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va
valutata con riferimento non alle modalità costruttive,
bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza
che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze
meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante, ed è legittima l'ordinanza di demolizione di
opere che, pur difettando del requisito
dell'immobilizzazione rispetto al suolo (cd. case mobili),
consistano in una struttura destinata a dare un'utilità
prolungata nel tempo, dovendo in tal caso escludersi la
precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non
assoggettamento a concessione edilizia, posto che la stessa
non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è
destinato e va quindi valutata alla luce della obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale dell'opera, a nulla
rilevando la temporanea destinazione data alla stessa dai
proprietari”
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, 12.09.2012, n. 4850; TAR
Umbria, 07.08.2013, n. 434).
Nel caso di specie, la casa realizzata, di rilevanti
dimensioni (circa 135 metri quadri), pur se in astratto
amovibile perché prefabbricata e rialzata a circa 70
centimetri mediante struttura in profilati di ferro ancorata
alla casa mobile stessa, risulta esistente sull’area dal
mese di ottobre del 2005, dunque da più di 11 anni (cfr. il
sopralluogo della Polizia Municipale di Santo Stefano Ticino
del 18.10.2016).
Ne risulta, dunque, la piena legittimità dell’operato
dell’Amministrazione comunale, in considerazione
dell’abusività del manufatto, perché realizzato senza
permesso di costruire e destinato alla funzione di dimora
abituale da molti anni.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto. |
INCARICHI PROGETTUALI:
Con riferimento
alla
responsabilità per danni cagionati all'amministrazione
appaltante da chi ha
svolto sia l'incarico di progettista che quello di direttore
dei lavori, atteso che
quale direttore dei lavori il soggetto è temporaneamente
inserito nell'apparato
organizzativo della P.A. quale organo tecnico e
straordinario della stessa, con
conseguente giurisdizione del giudice contabile, mentre
quale progettista la
giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario, mancando un
rapporto di
servizio, stante la necessaria approvazione del progetto da
parte
dell'amministrazione, e che, tuttavia, non può giungersi
alla scissione delle
giurisdizioni in presenza di un rapporto unitario, la
domanda nella quale il
danno lamentato è prospettato come derivante dal complesso
di tali attività
spetta alla giurisdizione del giudice contabile poiché dal
cumulo di incarichi
sorge una complessiva attività professionale nella quale la
progettazione è
prodromica alla successiva attività di direzione.
---------------
Allorché [...] la
domanda è proposta
nei confronti di un soggetto investito sia dell'incarico di
progettista che di
quello di direttore dei lavori, non può giungersi alla
scissione delle
giurisdizioni, affermandosi quella del giudice ordinario per
il danno causato
nella qualità di progettista e quella del giudice contabile
per il danno causato
nella qualità di direttore dei lavori.
A parte il rilievo
che tale soluzione urta
contro il trend normativo favorevole all'omogeneizzazione
della
giurisdizione, allorché si tratti di fatti collegati in un
unitario rapporto, va
osservato che il cumulo dei due incarichi professionali di
progettista e di direttore dei lavori nello stesso soggetto dà luogo ad una
complessiva attività
professionale, nella quale l'attività di progettazione si
pone solo come
elemento prodromico di quella successiva, allorché il danno
lamentato è prospettato come derivante dal complesso di tale
attività (così nella
fattispecie).
I doveri di verifica del progetto, propri del direttore dei lavori
(R.D. n. 350 del 1985, art. 5), sussistono già durante la
progettazione, che così
continua ad avere una sua autonomia solo ideale ed astratta
dalla direzione dei
lavori, mentre i doveri di quest'ultima assorbono anche
quelli del progettista,
allorché si tratti dello stesso soggetto che cumula i due
incarichi e la domanda
risarcitoria dell'amministrazione investa la complessiva
attività posta in
essere dall'unico professionista incaricato.
---------------
Ritenuto quanto segue:
§1. L'Ingegnere Gi.Lu., in proprio e nella qualità
di legale
rappresentante della s.r.l. St.Sp. Società di
Ingegneria, ha proposto
ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione contro
la Procura
Regionale presso la sezione Giurisdizionale della Corte dei
Conti per il Lazio,
in relazione al giudizio introdotto con il n. 73976 da detta
procura avanti alla
sezione Giurisdizionale per il Lazio della Corte di Conti,
con atto di citazione
notificato il 22.01.2015.
Tale giudizio è stato introdotto:
a) contro il Lu.,
<<nella sua qualità,
all'epoca dei fatti, di Responsabile della Progetazione e di
Direttore dei
Lavori per l'R.T.P. (Raggruppamento Temporaneo di
Professionisti)
composto dalla società Studio Sp. Società di Ingegneria s.r.1.,
mandataria
della società Pr. s.r.l. e della società Se. Società
di Ingegneria s.r.l.,
mandanti, quali concessionari del servizio di Coordinamento
Generale,
Progettazione e Direzione dei lavori del nuovo Ospedale di
Frosinone "F.
Spaziani">>,
b) nonché contro la Studio Sp. in persona del Lu. quale suo
legale rappresentante, «nella sua qualità —all'epoca dei
fatti— di
mandataria» del detto R.T.P., nella detta qualità di
concessionari del detto
Servizio di Coordinamento Generale, Progettazione e
Direzione dei lavori.
L'introduzione del giudizio contabile oggetto di regolamento
era seguita
all'invito a dedurre, notificato dal pubblico ministero
contabile ai ricorrenti il
14.10.2014, e concerne una pretesa responsabilità per
danno erariale,
cagionato dagli incolpati per l'incremento degli oneri di
esecuzione
dell'appalto per la costruzione del detto ospedale.
§2. Al ricorso per regolamento ha resistito con
controricorso il Pubblico
ministero contabile.
§3. Dovendosi il ricorso trattare con il rito dell'art.
380-ter c.p.c., è stata
fatta richiesta al Pubblico Ministero presso la Corte di
formulare le sue
conclusioni ed all'esito del loro deposito, ne è stata fatta
notificazione agli avvocati delle parti, unitamente al
decreto di fissazione dell'adunanza della
Corte.
§4. Parte ricorrente ha depositato memoria.
Considerato quanto segue:
§1. In via preliminare si deve rilevare che il giudizio
oggetto di
regolamento risulta introdotto anche nei confronti delle
società Pr. s.r.l.
e Se. Società di Ingegneria s.r.l.
Tuttavia, essendo la posizione della parte ricorrente e
quella delle stesse
riconducibile ad una responsabilità solidale e, dunque,
configurandosi in quel
giudizio un litisconsorzio facoltativo, la mancata
notificazione del ricorso per
regolamento a dette società non determina alcuna necessità
di ordinare
l'integrazione del contradditorio nei confronti di esse (si
veda già Cass. sez.
un. (ord.) n. 3948 del 2004).
§2. A sostegno dell'istanza di regolamento i ricorrenti
assumono che il
Pubblico Ministero contabile, nella citazione introduttiva
del giudizio,
avrebbe ravvisato l'esistenza di un rapporto di servizio in
senso lato,
giustificativo, ai sensi degli artt. 13 del r.d. n. 1214 del
1934 e dell'art. 1,
comma 4, della 1. n. 20 del 1994, della responsabilità
erariale, nella natura
unitaria del conferimento dell'attività di progettazione e
direzione dei lavori
di realizzazione dell'opera pubblica di cui trattasi, e lo
avrebbe fatto evocando
decisioni di questa Corte a sostegno dell'assunto che la
giurisdizione
contabile nei confronti del progettista sussisterebbe «per
il solo fatto
dell'affidamento di un unico incarico professionale,
comprendente anche
l'attività di direzione lavori, ossia a prescindere dalla prospettazione della
domanda formulata nell'atto di citazione».
La prospettazione del requirente contabile, secondo i
ricorrenti, non
sarebbe convincente «per la duplice (e concorrente) ragione
che: (i)
l'individuazione del Giudice cui devolvere la cognizione non
dipende da
criteri formali, ma deve effettuarsi avuto riguardo alla
posizione sostanziale della parte, come desumibile dalla prospettazione contenuta nell'atto di
citazione; (ii) affidarsi a criteri estrinseci, svincolati
dalla valutazione della
concreta condotta finirebbe per snaturare il rapporto tra
giurisdizione civile
(generale) e giurisdizione contabile (speciale)».
Dopo tale rilievo preliminare, sulla premessa che, secondo
l'orientamento delle Sezioni Unite sussiste la giurisdizione
contabile sotto il
profilo dell'esistenza di un sostanziale rapporto di
servizio con la p.a.
riguardo alle controversie che riguardino la posizione del
direttore dei lavori
di un appalto di opere pubbliche, mentre essa non sussiste
quanto a quelle che
riguardino le controversie con il progettista dell'opera,
che concernerebbero
un rapporto di natura privatistica, originante da un
contratto d'opera
professionale, si sostiene che, in quelle ipotesi, nelle
quali le stazioni
appaltanti affidano l'incarico di redigere il progetto
(esecutivo e/ definitivo)
insieme a quello di direzione dei lavori, in ragione della
naturale stretta
connessione fra le due attività, la stretta connessione che
si avrebbe
nell'esercizio di esse non implicherebbe il venir meno della
distinzione delle
funzioni espletate.
Ne conseguirebbe che, ai fini della individuazione della
giurisdizione,
non sarebbe decisivo l'affidamento unitario o meno delle due
funzioni, ma
assumerebbe «rilievo dirimente la prospettazione della
domanda
giudiziale», perché «altrimenti argomentando [...] si
finirebbe per
devolvere alla cognizione della Corte dei conti controversie
in cui, venendo in
rilievo la sola attività di progettazione, non sia
configurabile alcun rapporto di
servizio.».
A sostegno di tale prospettazione -cioè che non potrebbe
configurarsi il
rapporto di servizio, giustificativo della giurisdizione
contabile, tra pubblica
amministrazione e progettista, per il solo fatto che il
medesimo professionista
espleti anche l'incarico di direttore dei lavori- viene
evocata Cass. sezz. un. n.
340 del 2003 e, in relazione ai casi in cui la domanda
giudiziale «sia diretta a contestare l'operato del
progettista e del direttore dei lavori» e, dunque, si
contestino errori progettuali e violazioni dei doveri propri
del direttore dei
lavori, si ricorda Cass. sez. un. n. 7446 del 2008, nel
senso dell'affermazione
della giurisdizione contabile quando il danno lamentato è
prospettato come
derivante dal complesso dell'attività.
Si soggiunge ancora
che la giurisdizione
contabile andrebbe altresì affermata -come avrebbe fatto
Cass. sez. un. n.
28537 del 2008, richiamata nell'atto di citazione del
requirente contabile-
qualora la prospettazione della domanda sia tale <<da
rendere indistinguibile -perché cumulativa- la responsabilità imputabile al
progettista e quella
riconducibile al direttore dei lavori>>.
Infine, si richiama
Cass. sez. un. n.
3165 del 2011 per sostenere che invece sussisterebbe la
giurisdizione
dell'a.g.o., quando la responsabilità del soggetto cumulante
i due incarichi
venga dedotta solo per errori e carenze progettuali, e si
sottolinea che quella
§2.1. Sulla base di tali richiami di giurisprudenza, nel
ricorso si deduce
che nel caso di specie, come emergerebbe dall'invito a
dedurre prodromico
all'atto di citazione e da questo stesso atto, l'asserita
responsabilità erariale
addebitata al Lu. e allo Studio Speri sarebbe stata
ricondotta dalla procura
contabile solo a pretesi errori di progettazione, mentre non
vi sarebbe stata
alcuna contestazione a proposito dell'attività di direzione
dei lavori. Per tale
ragione i ricorrenti sostengono che nella fattispecie si
configurerebbe la
giurisdizione ordinaria.
§2.2. Peraltro, di seguito, dalle ultime due righe della
pagina 14 sino alla
pagina 16, il ricorso contiene allegazioni con cui si
vorrebbe dimostrare che in
relazione alla vicenda, non vi sarebbero stati comunque
addebiti da muovere
alla direzione dei lavori.
§2.3. In forza di tali argomentazioni si chiede dichiararsi
la giurisdizione
del giudice ordinario.
§3. Nel controricorso il pubblico ministero contabile
sostiene che la
giurisdizione contabile sarebbe stata ben radicata.
Configurandosi la figura del direttore dei lavori, per
effetto del conferimento del relativo incarico,
come un organo straordinario della pubblica amministrazione,
«il quale deve
svolgere la funzione nell'interesse della stazione
committente attraverso
un'efficace opera di vigilanza e controllo, dove rilevano
non solo le verifiche
e le attestazioni di regolarità, ma anche le ricognizioni
dei luoghi, perché sono
azioni utili e necessarie per conoscere i vizi dell'opera
che poi diventano
motivo di aumento dei prezzi con pregiudizio per le risorse
pubbliche», ne
deriverebbe che chi riveste l'incarico è tenuto «a
verificare la bontà della
progettazione con conseguente assorbimento della
giurisdizione ordinaria
(propria della progettazione) in quella contabile.».
Secondo il resistente le carenze progettuali indicate
nell'atto di citazione,
rappresentate dalla «assenza dell'individuazione degli
elementi puntuali dei
luoghi» di realizzazione dell'opera pubblica, nei quali
esisteva un'area
boschiva vincolata, coinvolgevano anche la responsabilità
professionale del
direttore dei lavori, perché nella specie «l'ipotesi di
pregiudizio finanziario
pubblico attiene ai maggior oneri sostenuti
dall'amministrazione appaltatrice
a seguito delle riserve formulate dall'impresa appaltatrice
e riconosciute in
sede di accordo bonario», in dipendenza della emersione
della situazione
rappresentata dalla presenza del bosco non considerata nel
progetto, e
considerato che la vicenda dell'iscrizione delle riserve
riguardava l'opera del
direttore.
Con un implicito riferimento alla parte finale del ricorso
di cui si è detto
sopra, si sostiene, poi, che si porrebbero questioni che
concernerebbero i
limiti interni della giurisdizione contabile, in quanto
inerenti alla pretesa
infondatezza nel merito della domanda e si deduce che il
relativo controllo
sarebbe estraneo alla questione di giurisdizione.
§4. Nelle sue conclusioni, il Pubblico Ministero presso
questa Corte ha
chiesto dichiararsi la giurisdizione contabile sull'assunto
che l'azione
contabile, come emergerebbe dall'invito a fornire deduzioni
del 18.08.2014, sarebbe stata iniziata «sia per le
carenze dell'attività progettuale sia
per i connessi vizi nella direzione dei lavori», onde quella
giurisdizione si
giustificherebbe (viene invocata Cass. sez. un. n. 28537 del
2008) perché dal
cumulo degli incarichi sarebbe stata occasionata un'attività
complessiva,
riguardo alla quale non potrebbe avere luogo una scissione
della giurisdizione
in relazione ai due incarichi.
§5. Il Collegio ritiene che debba dichiararsi il difetto
della giurisdizione
contabile.
Queste le ragioni.
§5.1. Com'è noto, ai sensi dell'art. 386 c.p.c., la
giurisdizione è
determinata dall'oggetto della domanda, che si deve
individuare non già sulla
base della mera prospettazione con cui la domanda venga
formulata, bensì, in
relazione all'oggetto effettivo della tutela giurisdizionale
richiesta, che si
concreta nel c.d. petitum sostanziale, da identificarsi in
via normativa e non
secondo la mera prospettazione dell'attore.
§5.2. Nella fattispecie deve considerarsi che la vicenda
dell'appalto di
opera pubblica, che ha occasionato l'azione contabile, ebbe
inizio nel luglio
del 1995 con la stipula fra l'A.U.S.L. di Frosinone e il
R.T.P. del contratto per
l'affidamento in concessione dell'incarico progettuale e
che, nell'àmbito
dell'oggetto dell'incarico vi era anche -come si legge, sia
nell'invito a
dedurre del pubblico ministero contabile, sia nella
citazione introduttiva del
giudizio- il «coordinamento ed indirizzo progettuale ivi
compresa la
gestione e l'eventuale completamento o adeguamento dello
studio di fattibilità
e progetti definitivi sia ultimati che in fase di
esecuzione».
L'oggetto del contratto riguardava, dunque, anche lo
svolgimento di
attività in fase di esecuzione e, dunque, l'espletamento di
un'attività che, in
quanto riconducibile all'esecuzione, non risultava meramente
progettuale ed
evidentemente risultava eventualmente riconducibile, una
volta iniziata, al
profilo della figura della direzione dei lavori.
Ciò, è, del resto, confermato anche dalla lettura del
contratto in atti,
prodotto dai ricorrenti e segnatamente dalle ampie
specificazioni degli
obblighi del concessionario contenute nell'art. 19.
Tuttavia, l'estendersi dell'oggetto del contratto anche ai
profili inerenti
l'esecuzione non determinava certamente una confusione fra i
profili di
attività progettuale e quelli appunto di attività esecutiva,
i quali
necessariamente si collocavano dopo la fase progettuale ed
avevano una loro
distinta materialità.
Inoltre, si trattava di un'estensione enunciata in modo del
tutto generico
e non espressamente riferita alla direzione dei lavori, ma
solo, come s'è detto,
potenzialmente riferibile anche ad essa.
§5.3. Nell'invito a dedurre, che risulta comunicato al Lu.
ed allo
Studio Sp. con espressa evocazione di tali soggetti anche
della qualità
correlata alla direzione dei lavori, il fatto dannoso
originante la responsabilità
viene individuato (pagina 14, righi 8-9) nella «omissione di
un elemento
talmente rilevante nella progettazione dell'intervento
ovvero la mancata
segnalazione nello stato di fatto» della presenza di un
bosco sottoposto a
vincolo paesistico.
Tale condotta, in quanto determinativa di un ritardo
nell'esecuzione
dell'opera e di maggiori costi a seguito delle riserve e
dell'accodo bonario,
viene espressamente definita come <<errore progettuale>> e,
dunque, come
errore relativo all'attività di progettazione.
A pagina 15, nei righi 10-15, l'illecito erariale oggetto
dell'invito a
comparire e che si reputa addebitabile a titolo di
corresponsabilità colposa ai
vari soggetti, cui l'invito era rivolto, viene individuato e
giustificato «per
aver partecipato [...] all'iter progettuale ed autorizzativo del nuovo Ospedale
di Frosinone, omettendo di richiedere le specifiche e
necessarie autorizzazioni
di legge per la rimozione del vincolo boschivo esistente,
così determinando un
prolungato fermo lavori da cui scaturiva la richiesta e
l'ottenimento di consistenti maggiori oneri da parte
dell'impresa aggiudicataria
dell'appalto».
Come si vede, viene nuovamente prospettato un riferimento
all'attività
progettuale e vi è, però, l'aggiunta di un riferimento
all'iter autorizzativo, che,
tuttavia, non viene in alcun modo riferito a profili, almeno
in tesi, ascrivibili
riferibili alla direzione dei lavori.
§5.4. Nella successiva citazione introduttiva del giudizio,
che è rivolta ai
ricorrenti sempre evocandone anche la qualità correlata alla
direzione dei
lavori e che assume rilievo decisivo ai fini della
individuazione del petitum
sostanziale (non potendo tale rilievo assumerlo l'invito a
comparire), a pagina
25 si individua come condotta colposa degli incolpati, dopo
un ampio
riferimento al già ricordato errore progettuale e, quindi,
l'indicazione di una
doglianza relativa alla progettazione, anche la «inerzia
gravemente
colpevole che non trova giustificazione in obiettive
difficoltà od impedimenti
non controllabili dai convenuti ai quali si richiedeva, come
atto di diligenza
minima, di rilevare, prima della predisposizione del bando
di gara e pertanto,
anteriormente all'approvazione del progetto, gli elementi
fondamentali anche
dei luoghi fra cui vi era il bosco, perfettamente
conosciuto, nelle sue
caratteristiche e nella sua qualità, evitando di permettere
sia l'assegnazione
dei lavori, che un loro inizio affrettato conclusosi poi con
il fermo dei lavori e
con le varianti suppletive».
Tale indicazione, tuttavia, non solo non contiene expressis
verbis
riferimenti alla posizione inerente alla direzione dei
lavori, ma nemmeno ne
contiene di impliciti ed anzi si articola con enunciazioni
che sembrano, nella
loro genericità, pur sempre correlarsi all'attività di
assegnazione dei lavori,
che si colloca prima dello svolgimento dell'attività di
direzione dei lavori stricto sensu.
Si allude, poi, ma ancora con evidente genericità, alla
<<concreta
possibilità di agire nel senso previsto dalle regole di
condotta applicabili al caso in esame>> e, quindi -dopo
avere affermato l'esistenza fra la condotta
illecita e l'evento di danno del nesso causale ed essersi
ravvisato un titolo di
responsabilità per il soggetto che rivestiva la qualità di R.U.P. nell'essere egli
intraneo dipendente dell'A.U.S.L. di Frosinone- si afferma
che un rapporto di
servizio era ravvisabile in proprio in capo al Lu. ed al
R.T.P. <<sia per la
società mandante che per quelle mandatarie>>, in ragione
delle funzioni di
direzione dei lavori. Ed in questo senso si evoca
espressamente come
giustificativa della giurisdizione contabile, in ragione
dell'incarico di detti
soggetti anche in qualità di progettisti, la giurisprudenza
di questa Corte di cui
a Cass. sez. un. n. 28537 del 2008, nonché 11.7446 del 2008
e 9845 del 2011.
La vocatio in ius è riferita, poi, espressamente, come s'è
già detto, ai
ricorrenti nella doppia qualità.
E' da notare, inoltre, che nella citazione non si indicano
in alcun modo
contenuti del contratto di affidamento che evidenzino
l'assunzione di oneri
particolari, interpretabili come espressione di un rapporto
di servizio di fatto,
in aggiunta quelli che esprime la figura del direttore dei
lavori con riguardo
alla fase di esecuzione degli stessi. Né si indicano
riferimenti normativi che,
in relazione all'evoluzione del disegno della figura del
direttore dei lavori a
livello normativo, possano giustificare che le generiche
deduzioni circa una
responsabilità aggiuntiva a quella progettuale, sopra
evidenziate, siano in
qualche modo ricondotte ad un referente normativo.
§6. Sulla base di tali emergenze, la questione di
giurisdizione oggetto di
regolamento deve essere risolta nel senso della negazione
della sussistenza
della giurisdizione contabile, perché risulta espresso dal
pubblico ministero
contabile un petitum sostanziale che, anche per la sua
genericità, non riguarda
la posizione di direzione dei lavori, ma inerisce alla
posizione di progettista o
comunque, là dove non la riguarda, non si correla a profili
concernenti la direzione del lavori, di modo che la
vocatio enunciata con
riguardo sia alla
posizione di progettista che di direttore dei lavori
risulta, in realtà, prospettata esclusivamente come
indicazione della duplice qualificazione soggettiva, ma
senza il corredo della narrazione di fatti effettivamente
individuatori di
comportamenti tenuti anche nella direzione dei lavori.
Ebbene, si deve rilevare, certamente, che, con particolare
riguardo alla
situazione che, con riferimento alla realizzazione di
un'opera pubblica, si
verifichi, allorquando vengano affidate allo stesso soggetto
le funzioni di
progettista dell'opera e di direttore dei lavori, la
prospettazione con una
domanda giudiziale di un danno che si assume cagionato alla
pubblica
amministrazione dal soggetto che abbia rivestito entrambe le
funzioni,
ricollegando la verificazione del danno all'una e all'altra
e, quindi, al
complesso dell'attività esercitata, integra un petitum
sostanziale che è
riconducibile alla giurisdizione contabile.
Ciò, per le ragioni espresse nel principio di diritto
affermato da Cass.
sez. un. n. 7446 del 2008, nel senso che: <<Con riferimento
alla
responsabilità per danni cagionati all'amministrazione
appaltante da chi ha
svolto sia l'incarico di progettista che quello di direttore
dei lavori, atteso che
quale direttore dei lavori il soggetto è temporaneamente
inserito nell'apparato
organizzativo della P.A. quale organo tecnico e
straordinario della stessa, con
conseguente giurisdizione del giudice contabile, mentre
quale progettista la
giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario, mancando un
rapporto di
servizio, stante la necessaria approvazione del progetto da
parte
dell'amministrazione, e che, tuttavia, non può giungersi
alla scissione delle
giurisdizioni in presenza di un rapporto unitario, la
domanda nella quale il
danno lamentato è prospettato come derivante dal complesso
di tali attività
spetta alla giurisdizione del giudice contabile poiché dal
cumulo di incarichi
sorge una complessiva attività professionale nella quale la
progettazione è
prodromica alla successiva attività di direzione.>>.
Mette conto di rilevare come, ancorché detto principio di
diritto,
conforme alla motivazione, sembri evocare il concetto di prospettazione, non si deve ritenere che nella suddetta
decisione le Sezioni Unite abbiano inteso,
di contro alla consolidata esegesi dell'art. 386 c.p.c.,
regolare la giurisdizione
facendo leva sul modo in cui la domanda era stata
prospettata.
Al contrario, il principio di diritto è conforme al criterio
del petitum
sostanziale, perché la evocazione nella domanda dello stesso
soggetto nella
duplice qualità, implicava come deve implicare la richiesta
di danni che si
assumono, e, pertanto, si prospettano -sulla base di
specifica allegazione di
elementi spieganti efficacia causale- cagionati sia
nell'una che nell'altra
qualità. Dunque, occorre che la domanda evidenzi fatti
causativi di danno
ascrivibili ad entrambe.
§6.1. Giova, per convincersene, ricordare la motivazione
della citata
sentenza.
In essa, dopo che si riaffermarono i principi emergenti
dalla
giurisprudenza della Corte, nel senso della sussistenza
della giurisdizione
contabile con riferimento all'operato del direttore dei
lavori e di quella
ordinaria con riferimento invece all'operato del progettista
dell'opera,
esaminandosi per la prima volta un caso, nel quale
risultavano cumulate le
due funzioni, si osservò quanto segue: «Allorché [...] la
domanda è proposta
nei confronti di un soggetto investito sia dell'incarico di
progettista che di
quello di direttore dei lavori, non può giungersi alla
scissione delle
giurisdizioni, affermandosi quella del giudice ordinario per
il danno causato
nella qualità di progettista e quella del giudice contabile
per il danno causato
nella qualità di direttore dei lavori. A parte il rilievo
che tale soluzione urta
contro il trend normativo favorevole all'omogeneizzazione
della
giurisdizione, allorché si tratti di fatti collegati in un
unitario rapporto, va
osservato che il cumulo dei due incarichi professionali di
progettista e di direttore dei lavori nello stesso soggetto dà luogo ad una
complessiva attività
professionale, nella quale l'attività di progettazione si
pone solo come
elemento prodromico di quella successiva, allorché il danno
lamentato è prospettato come derivante dal complesso di tale
attività (così nella
fattispecie). I doveri di verifica del progetto, propri del
direttore dei lavori
(R.D. n. 350 del 1985, art. 5), sussistono già durante la
progettazione, che così
continua ad avere una sua autonomia solo ideale ed astratta
dalla direzione dei
lavori, mentre i doveri di quest'ultima assorbono anche
quelli del progettista,
allorché si tratti dello stesso soggetto che cumula i due
incarichi e la domanda
risarcitoria dell'amministrazione investa la complessiva
attività posta in
essere dall'unico professionista incaricato.».
Nella fattispecie, quindi, poiché la professionista di cui
nella specie
trattavasi aveva «svolto tanto l'incarico di progettista che
di direttore dei
lavori e la domanda risarcitoria [era] relativa al complesso
dell'attività
professionale svolta, [venne] affermata la giurisdizione
della Corte dei Conti
relativamente alla complessiva domanda risarcitoria posta
nei suoi confronti
dal Comune sia come direttrice dei lavori che di
progettista.».
§6.2. La decisione ora ricordata, alludendo anche in
motivazione alla
"prospettazione della domanda", lo fece chiaramente con
riferimento alla
constatazione della individuazione in essa come causa del
danno sia
dell'attività di progettista sia dell'attività di direzione
dei lavori e, quindi,
evidentemente regolando una vicenda in cui a fondamento
della domanda
erano stati allegati fatti costitutivi determinatori del
danno, inerenti allo
svolgimento di entrambe le attività.
Dunque, intese riferirsi, non già al concetto di
prospettazione senza
alcuna corrispondenza con un effettivo petitum sostanziale,
cioè con la
situazione giuridica esistente secondo le regole
dell'ordinamento in relazione
alla causa del danno lamentato (che è quello che l'art. 386 c.p.c. impedisce di
considerare rilevante ai fini della giurisdizione), bensì ad
una prospettazione a
fondamento della domanda, articolata tramite allegazioni di
una situazione
concreta, causativa di responsabilità ricollegata sia
all'agire di progettista che
a quello di direttore dei lavori.
La decisione di cui si discorre non intese, invece, certo
affermare che,
indipendentemente dal ricollegarsi dei fatti costitutivi
della domanda di
riconoscimento del danno erariale ad entrambe le attività,
il solo fatto
dell'esistenza della duplice qualità del soggetto
giustificasse la giurisdizione
contabile anche quando quei fatti risultassero allegati con
esclusivo
riferimento all'attività di progettista.
§6.3. Nella fattispecie oggetto dell'odierno regolamento,
per quanto
emerge dai contenuti sopra evidenziati dell'atto
introduttivo dell'azione, non
si ravvisa una situazione in cui il petitum sostanziale
risulta articolato con
riferimento ad una responsabilità, che si addebita ai
ricorrenti sulla base
dell'individuazione di una condotta che sarebbe stata
ascrivibile non già alla
sola attività di progettazione, ma anche all'attività di
direzione di lavori e,
dunque, ad entrambe.
Come si è rilevato sopra, all'evocazione dei ricorrenti
nella duplice
qualità inerente alla progettazione ed alla direzione dei
lavori, non si è
accompagnata alcuna effettiva allegazione individuatrice di
fatti evidenziatori
di una condotta tenuta nella seconda qualità, sicché la
domanda appare
fondata -e tra l'altro espressamene- soltanto su fatti
costitutivi che
paleserebbero, in tesi, una responsabilità nell'attività di
progettazione.
Si è già detto, in particolare, che non evidenzia effettivo
riferimento
all'attività di direzione il già ricordato riferimento alla
<<inerzia gravemente
colpevole che non trova giustificazione in obiettive
difficoltà od impedimenti
non controllabili dai convenuti ai quali si richiedeva, come
atto di diligenza
minima, di rilevare, prima della predisposizione del bando
di gara e pertanto,
anteriormente all'approvazione del progetto, gli elementi
fondamentali anche
dei luoghi fra cui vi era il bosco, perfettamente
conosciuto, nelle sue
caratteristiche e nella sua qualità, evitando di permettere
sia l'assegnazione
dei lavori, che un loro inizio affrettato conclusosi poi con
il fermo dei lavori e
con le varianti suppletive>>.
Questi comportamenti, a parte la loro genericità, che di per
sé
impedirebbe di utilizzarli per individuare, quand'anche ai
soli fini della
determinazione della giurisdizione, un petitum sostanziale,
sono relativi ad
un'attività che, pur nella sua generica indicazione, non è
riconducibile
all'attività di progettazione, ma è collocata a valle di
essa senza
oggettivamente evocare la posizione di direzione dei lavori.
Sicché, nel caso di specie, a tutto voler concedere, non si
potrebbe dire
che si è in presenza di un'ipotesi, in cui i fatti
giustificativi della
responsabilità erariale, sebbene invocati nei confronti di
soggetti che
rivestivano sia la qualità di progettista sia la qualità di
direttore dei lavori,
siano stati indicati come riconducibili solo all'attività di
progettazione e
postulati come fonte di danno solo in quanto tali, ma
nemmeno si potrebbe
sostenere che lo siano stati con riguardo all'attività di
direzione dei lavori.
In definitiva, nella descritta situazione si è in presenza
di un petitum
sostanziale che non è basato effettivamente su fatti
evocativi della posizione
di direttore dei lavori, perché tale posizione risulta
evocata solo con la mera
indicazione della duplice qualità rivestita dai ricorrenti
nella vicenda di
realizzazione dell'opera.
Il pubblico ministero contabile risulta avere esercitato
l'azione per una
responsabilità che nelle sue stesse allegazioni fondanti è
correlata in modo
specifico alla posizione di progettista e in modo del tutto
generico ad
un'attività a valle non ricondotta e comunque -se si vuole
proprio per la sua
genericità- non riconducibile alla direzione dei lavori.
In tal senso l'ipotesi è speculare rispetto a quella
scrutinata da Cass. sez.
un. n. 3165 del 2011, nella quale verme affermato che
correttamente la p.a.
aveva esercitata l'azione davanti all'a.g.o. con espressa
postulazione della
responsabilità del soggetto, che rivestiva la qualità di
progettista e di direttore
dei lavori, esclusivamente in relazione all'operare come
progettista (ed anzi con espressa riserva della possibilità
di denunciare al pubblico ministero
contabile l'operato del soggetto come direttore dei lavori).
§7. In forza delle considerazioni svolte, dev'essere,
dunque, dichiarato il
difetto della giurisdizione contabile (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza
28.12.2016 n. 27071). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Cancellato
l’avvocato iscritto all’albo geometri. Cassazione.
Professione legale incompatibile con altre attività, eccetto
quanto previsto dall’ordinamento forense.
Cancellato dall’albo
l’avvocato iscritto contemporaneamente all’Albo dei
geometri, anche se non svolge quest’ultima professione.
L’attività, di natura tecnica, non rientra tra le
professioni che l’ ordinamento forense considera
compatibili.
La Corte di Cassazione
(Sezz. unite civili,
sentenza
27.12.2016 n. 26996) respinge la tesi di un Abogado che invocava
il suo diritto a restare iscritto in entrambi gli albi (nel
suo caso nell’elenco speciale) in nome delle regole europee
sulla concorrenza tra professionisti. Secondo il ricorrente
l’articolo 18 della legge forense (247/2012) consentirebbe
all’avvocato l’iscrizione anche in altri albi se, come nel
suo caso, manchi il requisito della continuità e della
professionalità dell’altra attività e non ci sia una
produzione di reddito.
Per la Suprema corte non è così.
L’ordinamento forense sul regime delle incompatibilità è
tassativo e fissa rigidamente le eccezioni. La doppia
iscrizione è possibile solo per: commercialisti, esperti
contabili, consulenti del lavoro, pubblicisti e revisori
contabili.
Al di fuori di queste ipotesi scatta automaticamente
l’incompatibilità che preclude l’esercizio della professione
di avvocato, senza che sia necessario accertare se
l’attività considerata di ostacolo sia effettivamente
svolta. Inutile per il ricorrente invocare la Costituzione,
i regolamenti e le direttive europee in tema di ordinamenti
professionali e libero mercato.
Per la Cassazione la restrizione dettata dell’articolo 18
della legge forense è giustificata dalla necessità di
«assicurare in relazione a interessi di ordine generale, la
professionalità dell’avvocato e l’indipendente esercizio
della relativa attività professionale». Il regime del
legislatore è in linea sia con la Carta sia con i principi
Ue perché non si traduce in una restrizione della
concorrenza e non limita la libera prestazione dei servizi o
l’accesso ad un altro albo, potendo l’ostacolo essere
rimosso con una cancellazione.
Per la Suprema corte la diversità tra le due professioni
esclude che possa esserci un margine per sindacare la
ragionevolezza di una disposizione che non ammette che
l’attività di avvocato si possa conciliare con una più
complessa di tipo multidisciplinare (articolo Il Sole 24 Ore del 28.12.2016).
---------------
MASSIMA
2. - Con il primo motivo il ricorrente deduce la
violazione e falsa applicazione dell'art. 18, comma 1,
lettera a), della legge n. 247 del 2012, sostenendo che da
tale disposizione deriverebbe l'ammissibilità della
iscrizione dell'avvocato ad altri albi, sempre che, come
nella specie, difettino i requisiti di continuità e di
professionalità dell'altra professione e non vi sia
produzione di reddito.
Con il secondo motivo il Co. deduce violazione di
legge ed eccesso di potere per violazione del principio del
giusto procedimento e del diritto di difesa, rilevando che
il COA, prima, e il CNF, poi, non avrebbero svolto alcuna
attività istruttoria in ordine alle assenza dei requisiti
che renderebbero incompatibile l'iscrizione dell'avvocato
per effetto della iscrizione in un altro albo.
2.1. - Entrambi i motivi -da esaminare congiuntamente,
stante la stretta connessione- sono infondati.
L'art. 18 della legge n. 247 del 2012 riconduce le varie
ipotesi di incompatibilità sostanzialmente a quattro gruppi:
l'esercizio di altra attività di lavoro autonomo (lettera
a); l'attività commerciale (lettera b); l'assunzione di
cariche societarie (lettera c); l'attività di lavoro
subordinato (lettera d).
Quanto al primo gruppo (sub lettera a) -che è quello che
viene qui in rilievo- l'Ordinamento della professione
forense prevede, per un verso, che la professione di
avvocato è incompatibile «con qualsiasi altra attività di
lavoro autonomo svolta continuativamente o
professionalmente, escluse quelle di carattere scientifico,
letterario, artistico e culturale, e con l'esercizio
dell'attività di notaio»; per l'altro, consente «l'iscrizione
nell'albo dei dottori commercialisti e degli esperti
contabili, nell'elenco dei pubblicisti e nel registro dei
revisori contabili o nell'albo dei consulenti del lavoro».
Il citato art. 18, stabilendo il regime delle
incompatibilità ostative all'esercizio della professione di
avvocato, espressamente delinea anche le eccezioni, le
quali, essendo riconducibili ad un numerus clausus,
non sono suscettibili di interpretazione analogica.
Gli unici casi nei quali è consentita la
contemporanea iscrizione sono quelli riguardanti l'albo
dei dottori commercialisti e degli esperti
contabili, l'albo dei consulenti del lavoro,
l'elenco dei pubblicisti e il registro dei
revisori contabili. Sussiste pertanto incompatibilità
tra l'iscrizione all'albo forense e quella all'albo dei
geometri, non essendo questa ipotesi ricompresa tra quelle,
eccezionali, per le quali il legislatore ha previsto la
possibilità di contemporanea iscrizione.
E poiché, nel disegno legislativo, la contemporanea
iscrizione ad un altro albo professionale rileva di per sé,
facendo scattare automaticamente -a meno che ricorrano le
ricordate ipotesi eccettuate- l'incompatibilità preclusiva
dell'esercizio della professione di avvocato, non si rende
neppure necessario accertare la continuità dell'esercizio in
concreto della professione ritenuta incompatibile.
Va pertanto ribadito quanto statuito da queste Sezioni Unite
con l'ordinanza n. 15208 del 2016, reiettiva dell'istanza di
sospensione della esecutività del provvedimento impugnato
formulata dal ricorrente nel corso della fase cautelare del
presente giudizio per cassazione: in tema
di ordinamento della professione forense, ai sensi dell'art
18, comma 1, lettera a), della legge n. 247 del 2012, è
sufficiente l'iscrizione in un albo professionale, diverso
da quelli per cui quest'ultima è ivi espressamente
consentita, a determinare l'incompatibilità quanto
all'iscrizione all'albo degli avvocati (anche all'elenco
speciale di quelli stabiliti), non essendo necessario,
affinché tale situazione si verifichi, che la differente
attività -quella di geometra- sia svolta continuativamente o
professionalmente.
3. - Con il terzo motivo il ricorrente denuncia
violazione e mancata applicazione delle regole di
concorrenza tra professionisti, degli artt. 3, 4 e 41 Cost.
e dei principi dell'Unione Europea, alla luce degli artt. 2
del d.P.R. 07.08.2012, n. 137 (Regolamento recante riforme
degli ordinamenti professionali, a norma dell'art. 3, comma
5, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148) e 25, comma
1, lettera a), della direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio 12.12.2006, n. 2006/123/CE, relativa ai servizi
del mercato interno, recepita con il d.lgs. 26.03.2010, n.
59.
3.1. - I dubbi di legittimità costituzionale e di
compatibilità con i principi dell'Unione europea sono
manifestamente infondati.
In tema di ordinamento professionale
forense, la disciplina dell'incompatibilità dettata dal
citato art. 18, frutto di discrezionali scelte del
legislatore, trova giustificazione nella necessità di
assicurare, in relazione a interessi di ordine generale, la
professionalità dell'avvocato e l'indipendente esercizio
della relativa attività professionale.
Il regime delineato dal legislatore manifestamente non
contrasta con i parametri evocati dal ricorrente: esso non
si traduce in una restrizione della concorrenza, in una
limitazione della libera prestazione dei servizi o in un
impedimento assoluto all'accesso o alla permanenza nell'albo
degli avvocati, potendo l'incompatibilità essere agevolmente
rimossa attraverso la cancellazione a domanda dalla
contemporanea iscrizione all'albo dei geometri.
D'altra parte, la diversità della
professione di geometra, di natura essenzialmente tecnica,
rispetto alle altre professioni dichiarate compatibili dal
legislatore con il contemporaneo esercizio della professione
di avvocato, esclude, per la diversità del tertium
comparationis, che possa esservi spazio per un sindacato
della ragionevolezza della disposizione normativa che, salve
le previste eccezioni, non ammette che l'esercizio
dell'attività di avvocato possa atteggiarsi a momento di una
più complessa attività multidisciplinare svolta dal
professionista.
Non ricorrono pertanto le condizioni per sollevare questione
di legittimità costituzionale o per rimettere alla Corte di
giustizia dell'Unione europea questione interpretativa in
via pregiudiziale. |
APPALTI:
Avvalimento di garanzia senza risorse determinate.
Sentenza del Consiglio di stato.
In una gara di appalto pubblico l'avvalimento relativo al fatturato
specifico non necessita dell'indicazione delle risorse organizzative
dell'impresa che ha prestato il requisito.
È quanto precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza del 22.12.2016 n. 5423 relativa a una
fattispecie di avvalimento cosiddetto «di garanzia». In cui un soggetto
aveva prestato a un concorrente il requisito di fatturato specifico.
In
questo caso lo strumento dell'avvalimento viene utilizzato quando un'impresa
intenda avvalersi dei requisiti finanziari di un'altra e la prestazione è
costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell'impresa
ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno
a garantire con le proprie complessive risorse economiche (il fatturato)
l'impresa ausiliata che si arricchisce, quindi, sia pure indirettamente, di
una solidità finanziaria e una esperienza di settore che autonomamente non
avrebbe avuto.
In particolare, nel caso specifico veniva eccepito che nel contatto non
erano indicati con sufficiente determinatezza le risorse messe a
disposizione per il servizio da aggiudicare e che questa carenza non potesse
essere sanata mediante il potere di soccorso istruttorio della stazione
appaltante, pur nell'ampia latitudine con cui esso è stato riconosciuto in
via legislativa.
I giudici precisano che questa tipologia di avvalimento non
implica necessariamente il coinvolgimento di aspetti specifici
dell'organizzazione della impresa, dacché la possibilità che essi non siano
specificati in contratto e nella dichiarazione resa alla stazione
appaltante, se non rispondenti ad un concreto interesse della stazione
appaltante, quale desumibile dall'indicazione del requisito stesso. Nel caso
esaminato gli atti di gara nulla chiedevano a tale proposito e quindi l'avvalimento
era legittimo.
In passato il Consiglio di stato aveva già ha specificato che
il requisito prestato serve essenzialmente non già ad arricchire un'impresa ausiliata che già possiede gli altri requisiti di partecipazione, ma solo a
fornire risorse di carattere economico e finanziario, senza effettivo
coinvolgimento di mezzi, attrezzature o personale (articolo ItaliaOggi del 30.12.2016).
---------------
MASSIMA
2. Sono innanzitutto condivisibili i rilievi dell’appellante secondo cui
il requisito in contestazione attiene alla capacità economico-finanziaria
del concorrente, benché si tratti del fatturato specifico (conseguito in
servizi di «Allestimenti intesi come presentazione e interpretazione di beni
culturali in musei e/o in aree archeologiche e/o in complessi storici e
monumentali»: così il disciplinare di gara), lo stesso non richiedeva una
compiuta indicazione nel contratto di avvalimento degli elementi
organizzativi dell’azienda dell’ausiliaria Op.La.Fi.
concretamente messi a disposizione per l’esecuzione dell’appalto.
Sul punto
deve essere condiviso l’orientamento giurisprudenziale di questo
Consiglio di Stato che in relazione al c.d. avvalimento di garanzia, quale è
quello avente ad oggetto il fatturato, non implica necessariamente il
coinvolgimento di aspetti specifici dell’organizzazione della impresa,
dacché la possibilità che essi non siano specificati in contratto e nella
dichiarazione resa alla stazione appaltante, se non rispondenti ad un
concreto interesse della stazione appaltante, quale desumibile
dall’indicazione del requisito stesso
(in questo senso: Cons. Stato, III, 17.11.2015, n. 5703, 04.11.2015, nn. 5038 e 5041,
02.03.2015, n.
1020, 06.02.2014, n. 584; IV, 29.02.2016, n. 812, che ha
specificato che il requisito prestato serve essenzialmente non già ad
arricchire un’impresa ausiliata che già possiede gli altri requisiti di
partecipazione, ma solo a fornire risorse di carattere economico e
finanziario, senza effettivo coinvolgimento di mezzi, attrezzature o
personale; V, 15.03.2016, n. 1032, 22.10.2015, n. 4860).
3. In ordine a questo decisivo profilo occorre innanzitutto richiamare gli
artt. 41 e 42 del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del
2006.
In particolare, la prima delle citate disposizioni, relativa alla «Capacità
economica e finanziaria dei fornitori e dei prestatori di servizi» (così la
rubrica) include tra essi non solo «il fatturato globale d’impresa», ma
anche quello «relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della
gara» (comma 1, lett. c). Altri sono invece i requisiti di capacità «tecnica
e professionale» previsti dal successivo art. 42.
Ebbene, in relazione a questa diversificazione l’orientamento di questo
Consiglio di Stato sopra richiamato, cui si aderisce, afferma che
allorquando un’impresa intenda avvalersi dei requisiti finanziari di
un’altra, «la prestazione è costituita non già dalla messa a disposizione da
parte dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi
‘materiali’, ma dal suo impegno a “garantire” con le proprie complessive
risorse economiche -il cui indice è costituito dal fatturato- l’impresa ‘ausiliata’»,
e cioè «il suo valore aggiunto in termini di “solidità finanziaria” e di acclarata “esperienza di settore», dei quali il fatturato costituisce indice
significativo
(Cons. Stato, III, 04.11.2015, nn. 5038 e 5041, 02.10.2015, n. 4617, 06.02.2014, n. 584).
4. In relazione alla carente allegazione ora accennata va inoltre
sottolineato che di recente l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato
(sentenza 04.11.2016, n. 23) ha statuito che
l’indagine in ordine agli
elementi essenziali del contratto di avvalimento «deve essere svolta sulla
base delle generali regole sull’ermeneutica contrattuale» ed in particolare
deve essere svolta secondo i canoni enunciati dal codice civile di
interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali
(artt. 1363 e 1367).
Al principio espresso dall’Organo di nomofilachia questo Collegio soggiunge
che
analoga prospettiva interpretativa deve essere osservata per quanto
riguarda le clausole del bando e del disciplinare di gara riguardanti i
requisiti speciali di partecipazione suscettibili di avvalimento, tenendo
conto dell’ampio ambito di applicazione dell’istituto dell’avvalimento, in
modo da approcciarsi alla questione della determinabilità del contratto ex
art. 49 d.lgs. n. 163 del 2006 evitando di incorrere in aprioristici
schematismi concettuali che possano irrigidire in modo irragionevole la
disciplina sostanziale della gara
(in questo specifico senso: Cons. Stato,
V, 22.10.2015, n. 4860).
5. Quindi, in ordine a questo decisivo profilo sarebbe stato onere del
ricorrente incidentale Consorzio Arte’M Net di enucleare dalla normativa di
gara specifiche indicazioni sulla base delle quali ritenere che il requisito
in questione, malgrado il suo ancoraggio al fatturato, avesse in realtà una
connotazione squisitamente tecnico-operativa, correlata ad una ben
individuata organizzazione produttiva da mettere a disposizione per
l’esecuzione del servizio.
Ciò non è tuttavia avvenuto. Il controinteressato si è infatti limitato ad
affermare in modo apodottico che il fatturato specifico ha natura di
requisito di capacità tecnico-professionale e pertanto richiede la compiuta
indicazione delle risorse aziendali dell’ausiliaria messe a disposizione
all’impresa concorrente ed a richiamare le non vincolanti qualificazioni
contenute nella dichiarazione resa alla stazione appaltante ai sensi
dell’art. 49, comma 2, lett. d), d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e nel
contratto di avvalimento tra l’odierna appellante e l’Op.La.Fi., in cui in effetti si opera un improprio riferimento ai requisiti
di capacità tecnica, mentre ciò che viene messo a disposizione della
concorrente odierna appellante è il fatturato specifico richiesto dal
disciplinare di gara.
Il Consorzio aggiudicatario non ha quindi assolto all’onere su di esso
gravante ex art. 2697, comma 1, Cod. civ. di connotare il requisito in
contestazione di caratteristiche prettamente tecniche ed operative, e dunque
di dimostrare che esso comportasse la necessità di indicare uno specifico
sostrato di mezzi aziendali da mettere a disposizione per l’esecuzione
dell’appalto, così da ritenere insufficiente l’indicazione del fatturato
specifico, invece contenuta nel contratto tra l’odierna appellante e la
propria ausiliaria, ed i servizi da cui esso è stato ricavato.
...
7. Tutto ciò precisato, la Ci.Al.Te. sostiene
innanzitutto che il raggruppamento secondo classificato avrebbe dovuto
essere escluso perché la sua offerta non reca la separata indicazione degli
oneri interni per la sicurezza e dunque in applicazione dei principi
espressi dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato nella sentenza
del 20.03.2015, n. 3 (poi ribaditi dallo stesso consesso con sentenza 02.11.2015, n. 9).
8. La censura non può essere accolta alla luce del parziale mutamento di
indirizzo dell’Organo di nomofilachia avvenuto con sentenza del 27.07.2016, n. 19 (alla quale questa Sezione si è conformata con le sentenze 17.11.2016, n. 4755,
07.11.2016, n. 4646 e 11.10.2016, n.
4182).
Secondo quest’ultima pronuncia, infatti,
in assenza di specifica
richiesta contenuta nella normativa di gara, il solo mancato rispetto sul
piano sostanziale dei costi minimi di sicurezza può essere legittima causa
di esclusione da procedure di affidamento bandite anteriormente all’entrata
in vigore del c.d. nuovo Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo
18.04.2016, n. 50).
Ebbene, nel caso di specie nemmeno viene dedotta l’esistenza di una clausola
di lex specialis contenente quest’obbligo o che l’offerta della Sp. non
assicurasse il rispetto degli oneri per la sicurezza interni richiesti per
lo svolgimento del servizio in contestazione. Inoltre, diversamente da
quanto sostenuto dall’appellante in memoria conclusionale, l’ultima
pronuncia dell’Adunanza plenaria sull’argomento ha portata generale e non
può essere dunque circoscritta ai soli appalti pubblici di lavori.
...
9.
Infondata è poi la censura secondo cui la Sp. avrebbe dovuto essere
esclusa per mancata dichiarazione ex art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n.
163 del 2006 del proprio “direttore tecnico”
ing. Sa.Lu..
In realtà
questa figura è prevista nei soli appalti pubblici di lavori e la
legislazione in materia affida ad esso il ruolo di interlocutore nei
confronti del direttore dei lavori nominato dalla committenza pubblica nella
fase esecutiva del contratto, e dunque nell’ambito della funzione di
controllo tecnico ed amministrativo spettante a quest’ultimo, così da
richiederne la verifica dell’affidabilità morale già in sede di procedura di
affidamento del contratto medesimo.
Altrettanto non è previsto invece nel
settore dei servizi, per i quali può parlarsi di responsabili tecnici
–quale è appunto il citato ing. Lu., come correttamente controdedotto dal
Consorzio Arte’M Net–
e nei cui confronti non è consentito estendere
analogicamente gli obblighi dichiarativi previsti dal citato art. 38 d.lgs.
n. 163 del 2006 e le conseguenti sanzioni espulsive in caso di relativa
violazione. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
i minimi tariffari non vanno in soffitta.
Tariffe minime evergreen per i professionisti. A quasi
undici anni dalla prima abolizione dei vincoli tariffari
contenuta nel decreto Bersani del 2006 e ribadita dal dl
Liberalizzazioni del 2012, infatti, il riferimento alle
tariffe professionali non è mai andato in soffitta.
Da ultimo, è il TAR Sicilia-Palermo a stabilire che il
compenso previsto per un avvocato, se «molto al di sotto
dei minimi tariffari», è lesivo del decoro e del
prestigio della professione.
In particolare, si tratta della
sentenza 22.12.2016 n. 3057 della Sez. III, su un
ricorso presentato dall'Ordine degli avvocati di Gela contro
il comune per una delibera di approvazione di un avviso
pubblico esplorativo per l'individuazione di tre avvocati,
per l'affidamento degli incarichi professionali da
costituirsi in associazione temporanea di scopo.
Ritenendo l'avviso lesivo del decoro, del prestigio e
dell'autonomia degli avvocati, nonché dell'ordinamento
forense, l'Ordine, con nota del 03.09.2015, aveva chiesto il
ritiro in autotutela della delibera. Il comune aveva però
riscontrato negativamente tale istanza, affermando che il
proprio operato era legittimo. Tra i motivi del ricorso, il
Coa faceva riferimento in particolare al compenso pari a 20
mila euro per ciascun avvocato, oltre l'80% delle spese di
soccombenza e il 5% sulla differenza tra la somma richiesta
e quella liquidata nelle mediazioni, considerato irrisorio
rispetto alla mole del contenzioso che gli avvocati
avrebbero dovuto gestire, stimato in un valore pari a 10,7
milioni di euro per il 2014 e in 4,2 milioni per il primo
semestre del 2015.
Tesi confermata dal Tar, che ha stimato come «veramente
esiguo» il compenso degli avvocati per singola causa
giudicandolo lesivo del decoro e del prestigio della
professione. Inoltre, secondo il Tar, appare fondato anche
il motivo con cui l'Ordine di Gela deduce che sarebbe
illegittima la previsione della preclusione del conferimento
degli incarichi ai soggetti che: rivestono incarichi
pubblici elettivi o cariche in partiti politici o
organizzazioni sindacali; hanno rapporti continuativi di
collaborazione o consulenza con tali organizzazioni; hanno
avuto simili rapporti nei tre anni precedenti.
Si tratta, infatti, si legge nella sentenza, di una
disposizione discriminatoria che, oltre a non rispondere ad
alcun interesse pubblico meritevole di tutela, si pone
nettamente in contrasto con il diritto di ciascun avvocato
di associarsi a un partito politico o svolgere attività
sindacale.
Infine, il Tar accoglie anche il motivo aggiunto con cui si
deduce che con la delibera di individuazione dei
professionisti sarebbero state illegittimamente previste
delle condizioni diverse rispetto a quelle di cui
all'avviso. Il riferimento, in particolare, è alle seguenti
previsioni: facoltatività dello svolgimento dell'incarico
all'interno degli uffici comunali; possibilità di rinuncia
anticipata; liquidazione dei compensi in caso di
prosecuzione dell'attività oltre la durata del disciplinare
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2017
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Con
il nuovo Codice niente esclusioni automatiche dalle gare.
Tar Lecce. Se l’illecito viene impugnato.
Le imprese che hanno compromesso la
propria affidabilità avendo subito la risoluzione anticipata
in precedenti bandi per importanti carenze nell’esecuzione,
non possono essere escluse automaticamente dalle gare se
tali illeciti professionali siano stati impugnati o siano
ancora al vaglio dei giudici.
Bocciando
l’interpretazione restrittiva di uno dei motivi di
esclusione disciplinati dal nuovo Codice appalti (lettera c,
comma 5, articolo 80, Dlgs n. 50/2016), il TAR Puglia-Lecce,
Sez. III,
sentenza 22.12.2016 n.
1935, ha dato ragione a una società del settore
rifiuti che era stata esclusa da una procedura negoziata per
l’affidamento del servizio integrato di igiene urbana
poiché, a giudizio del Comune appaltante, non aveva più i
requisiti di idoneità professionale.
La ricorrente, poco prima dell’appalto, aveva perso un
analogo affidamento in un altro Comune per «gravi e
ripetute violazioni contrattuali nel corso della gestione».
Per l’Ente, l’esclusione era d’obbligo anche perché il
giudice civile poi adito le aveva di fatto “confermate”
avendo rigettato l’istanza cautelare.
Respingendo la tesi della Pa e dall’affidataria provvisoria,
il Tar ha annullato l’esclusione ritenendola fondata su
un’errata lettura della norma citata. Essa obbliga la
stazione appaltante a escludere l’operatore economico
qualora «dimostri con mezzi adeguati che...si è reso
colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere
dubbia la sua integrità o affidabilità», valutando «le
significative carenze nell’esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all’esito di un giudizio» (mezzi di
prova approfonditi dalla stessa Anac con le linee guida di
attuazione n. 6).
Per il collegio, queste «espressioni letterali adoperate
dal legislatore» non consentono esclusioni automatiche
come «risultato pratico (esplicitamente precluso, invece,
dalla stessa norma)», al contrario riammettono l’impresa
quando, come in questo caso, «risulta invece “per tabulas”»
un ricorso al Tribunale civile e «che tale giudizio
civile è tutt’ora pendente (essendo solo stata rigettata
l’istanza cautelare incidentalmente avanzata...),
sicché...non si è in presenza di una risoluzione anticipata
del precedente contratto di appalto confermata -con
sentenza- all’esito di un giudizio».
Ciò poiché, a differenza della «grave negligenza o
malafede» ed «errore grave» del previgente Codice
appalti -accertabili rispettivamente «secondo motivata
valutazione» e «con qualsiasi mezzo di prova» dalla
Pa (lettera f, comma 1, articolo 38, Dlgs n. 163/2006)»-
«la predetta innovativa norma...–interpretata alla
stregua dei consueti ortodossi canoni ermeneutici–...rende
irrilevante...la risoluzione anticipata di un precedente
contratto di appalto o di concessione ancora “sub judice”».
«Così inteso», il Codice appalti rispetta la
Direttiva 2014/24/UE (punto 4, art. 57) che ammette tali
esclusioni senza esplicitamente vincolarle a ricorsi e
giudizi, posto che essa «non avendo carattere
puntualmente completo e dettagliato, non è “self executing”»
(articolo Il Sole 24 Ore del
07.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Appartiene
ad una giurisprudenza oramai consolidata il principio
secondo cui l’esigenza di un piano esecutivo, quale
presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si
pone allorché si tratti di asservire per la prima volta
un’area, non ancora urbanizzata, ad un insediamento edilizio
che, per il suo armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, esige la realizzazione o il
potenziamento delle opere di urbanizzazione necessarie a
soddisfare taluni bisogni collettivi.
Di conseguenza è da ritenersi illegittimo il diniego di
concessione edilizia quando l’Amministrazione, sia pur in
carenza del prescritto piano attuativo, non tenga
adeguatamente conto dello stato di urbanizzazione già
esistente nella zona interessata dalla futura edificazione e
non evidenzi congruamente le concrete, ulteriori esigenze di
urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
La stessa giurisprudenza, tuttavia, ha ritenuto di dover
indicare limiti e condizioni per una corretta applicazione
del su indicato principio.
Talvolta quindi ha ravvisato nei soli casi assimilabili al
“lotto intercluso” la possibilità di esonero dal piano
particolareggiato; altre volte ha ritenuto necessaria la
presenza non soltanto delle opere primarie, ma anche di
quelle secondarie, precisando che l’ambito territoriale di
riferimento non può essere limitato alle sole aree di
contorno dell’edifico progettato; altre volte ancora ha
inteso privilegiare una valutazione complessiva e di sintesi
ammettendo la deroga all’obbligo del piano particolareggiato
in relazione ad uno stato di edificazione tale da rendere
ultroneo tale strumento.
---------------
In disparte del dubbio in ordine alla necessità di un piano
attuativo in carenza di una compiuta urbanizzazione
secondaria, certo è che ai fini dell’ammissibilità di un
intervento diretto in zona C non possa prescindersi da un
adeguato grado di urbanizzazione della zona, nonché di un
sufficiente stato di edificazione.
---------------
Rappresenta, in particolare il ricorrente di essere
proprietario di un terreno sito alla C.da Riformati,
distinto in Catasto al foglio 54, particella 1308, ricadente
in zona tipizzata “C di espansione” e di avere
richiesto, con istanza prot. n. 12585 del 24.05.2012, al
Comune di Mesagne il rilascio di permesso di costruire per
la realizzazione di tre edifici di tre piani ciascuno, piani
interrato, terra e primo, destinati a civile abitazione.
Tale istanza è stata però respinta dal Responsabile del
Servizio Edilizia Pubblica e Privata - Ufficio Urbanistica
del Comune di Mesagne sul rilievo che l’intervento proposto,
ricadendo in zona C, non sarebbe assentibile.
Avverso l’atto di diniego insorge pertanto con il ricorso in
esame il sig. De. il quale, nel denunciare la carenza
motivazionale del provvedimento impugnato, sostanzialmente
sostiene come nella fattispecie l’Amministrazione non abbia
tenuto conto dello stato di urbanizzazione della zona, onde
valutare la necessità o meno di un piano attuativo quale
presupposto necessario per il rilascio del permesso di
costruire richiesto.
Rigettata l’istanza cautelare con ordinanza n. 143 del
28.03.2013, all’udienza pubblica del 22.11.2016, sulle
conclusioni dei difensori delle parti, la causa è stata
ritenuta per la decisione.
Tanto premesso il Collegio ritiene il ricorso infondato.
Come è stato già osservato da codesto Tar “appartiene ad
una giurisprudenza oramai consolidata il principio secondo
cui l’esigenza di un piano esecutivo, quale presupposto per
il rilascio del permesso di costruire, si pone allorché si
tratti di asservire per la prima volta un’area, non ancora
urbanizzata, ad un insediamento edilizio che, per il suo
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo,
esige la realizzazione o il potenziamento delle opere di
urbanizzazione necessarie a soddisfare taluni bisogni
collettivi (Cons. St. Ad. Plen. 6/10/1992 n. 12).
Di conseguenza è da ritenersi illegittimo il diniego di
concessione edilizia quando l’Amministrazione, sia pur in
carenza del prescritto piano attuativo, non tenga
adeguatamente conto dello stato di urbanizzazione già
esistente nella zona interessata dalla futura edificazione e
non evidenzi congruamente le concrete, ulteriori esigenze di
urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (Cons. St. V
sez. 17/07/2004 n. 5127; Cons. St. VI sez. 26/04/2005 n.
1874; Cons. St. V sez. 05/10/2011 n. 5450).
La stessa giurisprudenza, tuttavia, ha ritenuto di dover
indicare limiti e condizioni per una corretta applicazione
del su indicato principio.
Talvolta quindi ha ravvisato nei soli casi assimilabili al
“lotto intercluso” la possibilità di esonero dal piano
particolareggiato (Cons. St. V sez. 22/06/2004 n. 4350);
altre volte ha ritenuto necessaria la presenza non soltanto
delle opere primarie, ma anche di quelle secondarie,
precisando che l’ambito territoriale di riferimento non può
essere limitato alle sole aree di contorno dell’edifico
progettato (Cons. St. VI sez. 03/11/2003 n. 6833); altre
volte ancora ha inteso privilegiare una valutazione
complessiva e di sintesi ammettendo la deroga all’obbligo
del piano particolareggiato in relazione ad uno stato di
edificazione tale da rendere ultroneo tale strumento (Cons.
St. V sez. 01/12/2003 n. 7799)” (cfr. Tar Lecce, Sez.
III, sentenza n. 547/2014).
Ora, in disparte del dubbio in ordine alla necessità di un
piano attuativo in carenza di una compiuta urbanizzazione
secondaria, certo è che ai fini dell’ammissibilità di un
intervento diretto in zona C non possa prescindersi da un
adeguato grado di urbanizzazione della zona, nonché di un
sufficiente stato di edificazione
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 22.12.2016 n. 1933 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Volontà
delle parti nelle planimetrie. Spetta al giudice di merito
ricostruire l’intenzione dei contraenti.
Immobili. Le piante allegate al contratto di acquisto
indispensabili in caso di descrizione discordante del bene.
Le piante planimetriche, alle quali
i contraenti fanno riferimento per la descrizione
dell’immobile oggetto di compravendita, se allegate al
contratto d’acquisto, sono indispensabili per ricostruire la
reale volontà delle parti in caso di non coincidenza tra la
descrizione dell’immobile e la raffigurazione grafica in
planimetria. Spetta al giudice di merito ricostruire
l’effettiva volontà dei contraenti in base all’esame del
contratto, comprese le rappresentazione grafiche allegate.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 21.12.2016 n. 26609.
La vicenda giudiziaria vede protagonista un Comune
proprietario dell’intero fabbricato in condominio, a
eccezione di due unità abitative di cui l’originario
costruttore si era riservato la proprietà, successivamente
vendute a due coppie di coniugi in regime di comunione
legale dei beni.
Nelle more il Comune realizzava, all’interno del porticato
sito al piano terra, alcuni locali destinati agli sfrattati.
I neo acquirenti adivano il Tribunale per chiedere la
condanna del Comune alla rimozione di tali abitazioni e il
ripristino dell’originario porticato, attesa la sua natura
condominiale. La domanda, rigettata in primo grado, veniva
accolta dalla Corte d’appello che, in virtù dell’articolo
1117 del Codice civile, dava atto di come la presunzione di
condominialità del portico non era superata dal titolo
d’acquisto in possesso dell’Ente comunale.
Per la Corte di merito, dall’esame del titolo d’acquisto del
Comune, emergeva la presenza del portico, pur senza
specificazione sulla natura condominiale dello stesso,
tuttavia, dirimente risultava la circostanza per la quale,
nel medesimo contratto di acquisto si rimandava alla
planimetria allegata, ritualmente sottoscritta dalle parti e
dal notaio, in cui il porticato veniva chiaramente indicato
come «portico condominiale scala 8 mq 144,85».
La Cassazione ha respinto il ricorso condannando il Comune
alla refusione delle spese processuali. Per motivare la
decisione, la Suprema Corte richiama un precedente (sentenza
6764/2003), cui ritiene di dare continuità stabilendo che «le
piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto
immobili fanno parte integrante della dichiarazione di
volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel
descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per
l'interpretazione del negozio, salvo, poi, al giudice di
merito, in caso di non coincidenza tra la descrizione
dell'immobile fatta in contratto e la sua rappresentazione
grafica contenuta nelle dette planimetrie, il compito di
risolvere la quaestio voluntatis della maggiore o minore
corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale
ricavato dall’esame complessivo del contratto».
Nel caso concreto, il richiamo alla planimetria allegata
all’atto, allo scopo di individuare meglio il bene,
specifica le ragioni per le quali il giudice di merito ha
ritenuto, correttamente, di confermare la natura
condominiale del portico.
La sentenza in commento, giunge a distanza di solo un giorno
dalla sentenza n. 26366 con la quale si è stabilito il
principio per cui, fermo restando che dalle planimetrie
firmate dai contraenti é astrattamente possibile risalire
alla loro volontà, è necessario che le planimetrie siano
allegate al contratto o quanto meno dallo stesso richiamate,
atteso che «non è sufficiente che i tipi di frazionamento
siano sottoscritti dalle parti, ma è necessario che nel
contratto vi sia un esplicito richiamo ad essi diretto al
fine di individuare il bene che ne costituisce l’oggetto»
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.01.2017). |
VARI: Rinnovo
patente con anni di ritardo, non si rifà l’esame. Codice
della strada. Tar della Toscana.
Anche chi non effettua il rinnovo
della patente alla scadenza e lo chiede solo a distanza di
anni può ottenerlo senza dover rifare gli esami.
La sottolinea il TAR
Toscana, Sez. II, con la
sentenza 20.12.2016 n. 1801,
che “ridimensiona” la prassi della Motorizzazione
secondo cui un rinnovo chiesto con più di tre anni di
ritardo è possibile solo sottoponendosi ai test di revisione
patente, ritenendo ragionevole una verifica del possesso dei
requisiti per la guida.
La vicenda su cui hanno deciso i giudici riguarda un
conducente che aveva atteso più di otto anni. Così la
Motorizzazione aveva disposto la revisione. Ne è sorto un
contenzioso che ha visto vittorioso il conducente perché il
ritardo non è stato ritenuto un ragione sufficiente per far
sorgere dubbi sulla persistenza dei requisiti di idoneità.
Per il Tar, occorre intanto che la Motorizzazione informi
l’interessato dell’apertura del procedimento di revisione;
inoltre vanno effettuate valutazioni caso per caso, come
richiesto dalla circolare ministero Infrastrutture
26.01.2009, prot. 7053, tenendo conto degli argomenti fatti
presente dal richiedente circa i motivi del ritardo nella
richiesta di conferma. In sede di contraddittorio, infine,
il richiedente può dimostrare di non aver perso i requisiti
di idoneità tecnica alla guida successivamente alla data di
scadenza della patente, dimostrazione che potrà essere
fornita anche con dichiarazioni di terzi (sostitutiva di
atto di notorietà) o con ogni altro elemento ritenuto utile
allo scopo.
Non bastano quindi otto anni di ritardo per esigere in via
automatica la revisione: al più, l’amministrazione può
comunicare di avere dubbi sull’idoneità alla guida, dubbi
che peraltro ammettono prova contraria. In termini generali,
per disporre la revisione non si può infatti dedurre
l'inidoneità alla guida dall’esistenza di un determinato
fatto (quale il tempo trascorso dalla scadenza della
patente), ma occorre anche chiarire la sua rilevanza sulla
capacità di conduzione dei veicoli e la sua attitudine a far
sorgere dubbi sull’idoneità alla guida.
Già il Consiglio di Stato, con sentenza 25.05.2010 n. 3276,
aveva ritenuto che i dubbi sulla persistenza dei requisiti
fisici e psichici prescritti, o dell’idoneità tecnica,
devono essere ancorati a fatti determinati, alla loro
dinamica ed al tipo di elemento psichico che, in relazione a
tali fatti, connette il comportamento del titolare della
patente di guida alle conseguenze (illecite) dei fatti presi
in esame. In particolare, i giudici hanno ritenuto che non
basta una segnalazione per uso di sostanze stupefacenti, ma
occorre che l’interessato sia qualificato come assuntore
abituale.
Altre volte, invece, il tempo trascorso è stato ritenuto
rilevante dal Consiglio di Stato (parere I Sez., 02.03.2016,
n. 596), ma perché dopo la scadenza della patente si erano
verificati anche significativi episodi (guida in stato di
ebbrezza) che complessivamente facevano dubitare
dell’idoneità.
In sintesi, tre anni di ritardo si possono sempre
considerare tollerabili (come emerge dalla circolare 7053),
ma ciò non implica automaticamente che periodi più lunghi,
debbano condurre a disporre la revisione della patente
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.01.2017). |
APPALTI: Sanzione
dell'Antitrust non esclude dalle gare.
Tar Calabria in linea con il Cds.
Una sanzione dell'Antitrust non costituisce di per se stessa
grave illecito professionale tale da consentire l'esclusione
del concorrente dalla gara di appalto.
È quanto ha stabilito il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con
la
sentenza 19.12.2016
n. 2522 .
Il Tar ha precisato anche che la stazione
appaltante deve comunque sempre motivare l'esclusione dalla
gara e non può limitarsi a fare riferimento a una sanzione
irrogata, peraltro anche impugnata davanti al giudice.
Per
il Tar calabrese la sanzione irrogata dall'Agcm non può
essere astrattamente ricondotta alla norma di cui all'art.
80 del nuovo codice dei contratti pubblici che fa
riferimento a «altre sanzioni», come conseguenze che possono
derivare dalla violazione dei doveri professionali, e in
particolare alle «significative carene nella esecuzione di
un precedente contratto di appalto o di concessione».
I giudici hanno ricordato che anche nel parere reso dal
consiglio di Stato sulle linee guida Anac 6/2016 (entrate in
vigore con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 2
del 03.01.2017) era stato evidenziato che la previsione
di cui all'art. 80 del nuovo codice ha una portata molto più
ampia, in quanto, da un lato, non si opera alcuna
distinzione tra precedenti rapporti contrattuali con la
medesima o con diversa stazione appaltante e, dall'altro
lato, non si fa riferimento solo alla negligenza o errore
professionale, ma, più in generale, all'illecito
professionale.
Nonostante la nuova disposizione abbia ampliato il suo
raggio di azione, la sentenza afferma che comunque non è
applicabile anche ai «comportamenti anti-concorrenziali, in
quanto di per sé estranei al novero delle fattispecie
ritenute rilevanti dal legislatore, in attuazione peraltro
di una precisa scelta, se si pensi che non sono state
riprodotte, nell'ambito del vigente ordinamento nazionale,
le ipotesi di cui alla lett. d) della direttiva 2014/24,
relativa agli accordi intesi a falsare la concorrenza».
Né è
possibile ricorrere ad una interpretazione estensiva o
analogica, in quanto risulterebbe in contrasto con le
esigenze di favor partecipationis che ispirano
l'ordinamento
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opera edilizia abusiva che toglie la visuale ad un vicino.
Il comune acquisisce l'immobile ma non provvede in ordine
alla demolizione d'ufficio. Il confinante che si lamenta per il danno subìto,
in merito all'inerzia comunale, deve adire il giudice ordinario.
Sono da condividere le conclusioni del
P.M. che ha sostenuto la giurisdizione del giudice
ordinario sulla base del rilievo che il presupposto
obiettivo della censura proposta dal Comune «non sarebbe
corrispondente alla situazione sostanziale e processuale
della vicenda, poiché il Comune ha adottato l'ingiunzione di
demolizione del fabbricato abusivo con ordinanza, con
l'effetto della acquisizione del bene al patrimonio
indisponibile del Comune, tralasciando di procedere alla
demolizione materiale», con la conseguenza che «la pretesa
risarcitoria azionata dal privato delinea quale propria
ragione sostanziale un comportamento omissivo materiale
della pubblica amministrazione comunale, la cui cognizione è
attribuita alla giurisdizione ordinaria», atteso che
«l'apprezzamento della condotta inerte/omissiva della
pubblica amministrazione convenuta non può essere valutata
se non dal giudice munito di giurisdizione sulla pretesa
risarcitoria diretta nei confronti dell'autore dell'illecito
aquiliano, anch'esso convenuto.
Invero, queste Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare
che "la pretesa a che un'autorità
amministrativa eserciti i poteri che la legge le assegna per
la tutela di un interesse pubblico non può sicuramente
essere configurata come un diritto soggettivo di colui il
quale quella pretesa voglia far valere in giudizio, né
quando essa investa la scelta dell'amministrazione se
esercitare o meno quel potere, in una situazione data, né
quando sia volta a sindacare i tempi ed i modi in cui lo si
è esercitato".
Con la precisazione che "la circostanza
che il cattivo o mancato esercizio doveroso del potere,
qualora ne sia derivato un danno a terzi, legittima costui a
pretendere il risarcimento a norma dell'art. 2043 cod. civ.,
essendo ormai pacifico... che la tutela aquiliana è
invocabile per la lesione non soltanto di diritti
soggettivi, ma anche di interessi legittimi, o più in
generale di interessi ad un bene della vita che risultino
comunque meritevoli di protezione alla luce dell'ordinamento
positivo".
In particolare, alla cognizione del
giudice amministrativo -giudice del legittimo
esercizio della funzione amministrativa- sono attribuite le
domande di risarcimento del danno che si ponga in rapporto
di causalità diretta con l'illegittimo esercizio (o con il
mancato esercizio) del potere pubblico, mentre resta
riservato al giudice ordinario soltanto il
risarcimento del danno provocato da "comportamenti" della
p.a. che non trovano rispondenza nel precedente esercizio di
quel potere.
---------------
Con riferimento al caso di specie, deve
rilevarsi che ciò che viene posto a fondamento della domanda
da parte dell'attore non è la mancata adozione di
provvedimenti amministrativi discrezionali, ma il
comportamento materiale dell'amministrazione comunale,
consistente nella mancata demolizione delle opere
asseritamente abusive.
Se è vero che la semplice adozione
dell'ordine di demolizione non è idonea a comportare ex se
il trasferimento dell'immobile abusivo al patrimonio del
Comune, è vero altresì che i provvedimenti successivi che il
Comune che abbia accertato l'illecito edilizio è chiamato ad
adottare sono provvedimenti vincolati, nei quali, quindi,
non viene in discussione l'esercizio di potestà
discrezionali della pubblica amministrazione.
Sicché, venendo in rilievo il
comportamento omissivo della pubblica amministrazione nel
compimento di un'attività vincolata, la domanda volta ad
ottenere la condanna del preteso danno che il detto
comportamento materiale omesso avrebbe eliminato non può che
rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario.
---------------
●
Ritenuto che, con atto di citazione notificato il
23.07.2007, Ig.Sa. conveniva in giudizio, dinnanzi al
Tribunale di Messina, la AR. s.r.l. e il Comune di Messina,
deducendo di essere proprietario di un prestigioso immobile
ubicato in Taormina, che sarebbe stato gravemente
pregiudicato, per la perdita del panorama in precedenza
goduto, per effetto di una sopraelevazione abusiva
realizzata dalla AR. s.r.I., e della quale il Comune di
Taormina avrebbe omesso di ingiungerne ed eseguirne la
demolizione;
- che il Comune di Taormina si costituiva ed eccepiva il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario, rientrando la
controversia nella giurisdizione del giudice amministrativo,
per essere la causa petendi della domanda svolta nei
suoi confronti imperniata su un'omessa attivazione di poteri
di tipo sanzionatorio-repressivo in materia edilizia, ovvero
per non avere tempestivamente ordinato ed eseguito la
demolizione del fabbricato che si assumeva essere abusivo;
- che la causa veniva istruita e poi rinviata per la precisazione
delle conclusioni;
- che il Comune di Taormina ha quindi proposto regolamento
preventivo di giurisdizione, chiedendo a questa Corte di
affermare che la giurisdizione in ordine alla domanda
proposta dal Sa. nei suoi confronti appartiene al giudice
amministrativo;
- che il Sapienza ha resistito con controricorso;
- che il P.M., nelle sue conclusioni scritte, ha concluso chiedendo
l'affermazione della giurisdizione del giudice ordinario;
- che il Comune di Taormina ha depositato memoria ai sensi
dell'art. 380-ter, secondo comma, cod. proc. civ.
●
Considerato che il Comune di Taormina sostiene che la
controversia rientri nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 34 del d.lgs. n.
80 del 1998, ora confluito nell'art. 133, comma 1, lettera
f), del d.lgs. n. 104 del 2010, anche in correlazione con
l'art. 7 di tale codice, per avere l'attore Ig.Sa. dedotto,
a fondamento della domanda risarcitoria da lui proposta non
solo nei confronti dell'autore materiale dell'abusiva
edificazione ma anche del Comune, la mancata attivazione dei
poteri repressivi dell'abuso denunciato;
- che tale domanda, ad avviso del Comune, rientrerebbe nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
quanto afferente alla materia urbanistica ed edilizia, e,
comunque, proprio perché trae origine dal mancato esercizio
di un potere autoritativo, la posizione del privato non
potrebbe essere altro che di interesse legittimo;
- che nelle proprie conclusioni,
il P.M. ha sostenuto la giurisdizione del giudice
ordinario sulla base del rilievo che il presupposto
obiettivo della censura proposta dal Comune «non sarebbe
corrispondente alla situazione sostanziale e processuale
della vicenda, poiché il Comune ha adottato l'ingiunzione di
demolizione del fabbricato abusivo con ordinanza n. 185 del
2001, con l'effetto della acquisizione del bene al
patrimonio indisponibile del Comune, tralasciando di
procedere alla demolizione materiale», con la
conseguenza che «la pretesa risarcitoria azionata dal
privato delinea quale propria ragione sostanziale un
comportamento omissivo materiale della pubblica
amministrazione comunale, la cui cognizione è attribuita
alla giurisdizione ordinaria», atteso che «l'apprezzamento
della condotta inerte/omissiva della pubblica
amministrazione convenuta non può essere valutata se non dal
giudice munito di giurisdizione sulla pretesa risarcitoria
diretta nei confronti dell'autore dell'illecito aquiliano,
anch'esso convenuto»;
- che il Collegio ritiene che le conclusioni del
P.M. debbano essere condivise e che debba quindi essere
dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario a
conoscere della domanda risarcitoria proposta dal Sa. nei
confronti del Comune di Taormina;
- che queste Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare che "la
pretesa a che un'autorità amministrativa eserciti i poteri
che la legge le assegna per la tutela di un interesse
pubblico non può sicuramente essere configurata come un
diritto soggettivo di colui il quale quella pretesa voglia
far valere in giudizio, né quando essa investa la scelta
dell'amministrazione se esercitare o meno quel potere, in
una situazione data, né quando sia volta a sindacare i tempi
ed i modi in cui lo si è esercitato"
(Cass., S.U., n. 10095 del 2015);
- con la precisazione che "la circostanza che
il cattivo o mancato esercizio doveroso del potere, qualora
ne sia derivato un danno a terzi, legittima costui a
pretendere il risarcimento a norma dell'art. 2043 cod. civ.,
essendo ormai pacifico... che la tutela aquiliana è
invocabile per la lesione non soltanto di diritti
soggettivi, ma anche di interessi legittimi, o più in
generale di interessi ad un bene della vita che risultino
comunque meritevoli di protezione alla luce dell'ordinamento
positivo"
(Cass., S.U., n. 10095 del 2015, cit.; Cass. n. 13568 del
2015);
- che, in particolare, alla cognizione del
giudice amministrativo -giudice del legittimo esercizio
della funzione amministrativa- sono attribuite le domande di
risarcimento del danno che si ponga in rapporto di causalità
diretta con l'illegittimo esercizio (o con il mancato
esercizio) del potere pubblico, mentre resta riservato al
giudice ordinario soltanto il risarcimento del danno
provocato da "comportamenti" della p.a. che non
trovano rispondenza nel precedente esercizio di quel potere
(Cass., S.U. n. 11292 del 2015; Cass., S.U., n. 13568 del
2015, cit.);
- che, con riferimento al caso di specie, deve
rilevarsi che ciò che viene posto a fondamento della domanda
da parte dell'attore non è la mancata adozione di
provvedimenti amministrativi discrezionali, ma il
comportamento materiale dell'amministrazione comunale,
consistente nella mancata demolizione delle opere
asseritamente abusive;
- che se è vero che la semplice adozione
dell'ordine di demolizione non è idonea a comportare ex
se il trasferimento dell'immobile abusivo al patrimonio
del Comune, è vero altresì che i provvedimenti successivi
che il Comune che abbia accertato l'illecito edilizio è
chiamato ad adottare sono provvedimenti vincolati, nei
quali, quindi, non viene in discussione l'esercizio di
potestà discrezionali della pubblica amministrazione
(Consiglio di Stato, sez. V, n. 3097 del 2014);
- che, quindi, venendo in rilievo il comportamento
omissivo della pubblica amministrazione nel compimento di
un'attività vincolata, la domanda volta ad ottenere la
condanna del preteso danno che il detto comportamento
materiale omesso avrebbe eliminato non può che rientrare
nella giurisdizione del giudice ordinario;
- che non vale obiettare che non si verterebbe in ipotesi di
comportamento materiale perché a seguito dell'ordine di
demolizione è poi stata presentata domanda di condono, sulla
quale si è formato il silenzio-assenso, atteso che dalle
stesse indicazioni offerte dal Comune per sostenere la
riconducibilità della domanda proposta nei suoi confronti
nell'ambito della giurisdizione amministrativa emerge che
all'ordine di demolizione emesso nel 2001 non ha fatto
seguito lo svolgimento dell'attività vincolata delineata
dall'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, e che la domanda di
condono è stata dal privato presentata a seguito della
entrata in vigore del decreto-legge n. 269 del 2003;
- che deve quindi ritenersi che, essendo stato dedotto a fondamento
della domanda il fatto che il Comune abbia omesso di porre
in essere un comportamento materiale -demolizione- che
sarebbe stato idoneo di per sé ad eliminare il danno di cui
l'attore ha sollecitato il risarcimento dinnanzi al giudice
ordinario anche nei confronti del Comune di Taormina, la
domanda sia stata correttamente introdotta dinnanzi al
giudice ordinario;
- che, in conclusione, deve dichiararsi la
giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda
proposta da Ig.Sa. nei confronti del Comune di Taormina;
- che, poiché il giudizio è attualmente pendente, ancorché sospeso,
dinnanzi al giudice ordinario non occorre disporre alcuna
translatio iudicii;
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 16.12.2016 n. 25978). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’ufficio
che sbaglia pubblica la sentenza. Tar Toscana. I giudici
ordinano la diffusione a pagamento della pronuncia che
boccia l’atto.
La pubblica amministrazione può essere condannata a far
pubblicare una sentenza che annulli un provvedimento
illegittimo.
Lo sottolinea il TAR
Toscana, Sez. II, con la
sentenza 16.12.2016 n. 1790.
Il caso riguarda il Comune di Carrara, che aveva travisato
l’esito di una visita ispettiva della Asl ad una residenza
per disabili: l’ente locale, sulla base di tale presunto
esito, aveva imposto alla struttura prescrizioni
obbligatorie e aveva poi pubblicato sul proprio sito
istituzionale il provvedimento che le conteneva.
Poco dopo, il Tar ha annullato l’atto del Comune che
imponeva prescrizioni, sottolineando che l’Asl aveva
elencato meri suggerimenti migliorativi e non obblighi di
intervenire. Annullato l’atto, il giudice ha disposto un
risarcimento non monetario, ma in forma specifica:
un’adeguata pubblicità della sentenza con due obblighi a
carico del Comune.
Il primo riguardava l’inserimento di un estratto della
pronuncia nel sito web comunale. Il secondo imponeva al
Comune a far pubblicare la notizia della sentenza sullo
stesso quotidiano nazionale che aveva a suo tempo diffuso la
notizia desunta dal sito del Comune; in particolare, la
pronuncia del giudice doveva avere lo stesso rilievo (stessa
pagina ed eguale evidenza) della notizia inizialmente
pubblicata.
La condanna a pubblicare sui mezzi di informazione è usuale
nei reati di diffamazione, nonché per alcuni reati di
particolare rilevanza (Dlgs 231/2001 sulla responsabilità
d’impresa, articoli 18 e 76). Essa si affianca al diritto di
rettifica previsto dall’articolo 8 della legge sulla stampa
(47/1948). La novità della sentenza del Tar Toscana consiste
nell’imporre a carico dell’ente pubblico un comportamento
specifico, che riflette una negligenza nell’attività
dell’ente.
La legge 104/2010 (sul processo amministrativo) ammette il
risarcimento del danno causato da un soggetto pubblico, ma
fino ad oggi si discuteva di importi economici per errori o
ritardi del singolo ente; in taluni casi è prevista la
restituzione di immobili erroneamente espropriati (articolo
42-bis del Dpr 327/2001), la sostituzione di un appaltatore
con altro (Dlgs 163/2006, ora legge 50/2016), ma sempre con
un collegamento diretto ad errori dell’amministrazione, che
deve adottare atti di segno contrario a quello dichiarato
illegittimo dal giudice.
Ora il Tar obbliga non solo ad eliminare il provvedimento,
ma dispone un risarcimento in forma specifica, mitigando il
danno economico (del gestore della struttura assistenziale)
con adeguata pubblicità. Nel caso specifico, infatti, gran
parte del danno è stata ricondotta alla pubblicazione di un
articolo su un quotidiano che trattava l’argomento,
pubblicazione che non sarebbe avvenuta se non ci fosse stato
il provvedimento impugnato.
Da un lato quindi la pubblicazione di un articolo fondato su
un (illegittimo) provvedimento apparso sul sito web
dell’ente costituisce legittimo esercizio del diritto di
cronaca, ma dall’altro il titolare del sito internet dal
quale è stata desunta la notizia risponde dei danni causati
(articolo Il Sole 24 Ore del
05.01.2017).
---------------
MASSIMA
3. Si passa ora alla trattazione della domanda
risarcitoria.
La ricorrente articola la domanda consequenziale alla
pronuncia di illegittimità del provvedimento impugnato sotto
un duplice profilo, da un lato con la richiesta di
risarcimento dei danni asseritamente cagionati alla propria
immagine a causa dell’adozione del provvedimento che vengono
quantificati nella misura di € 30.000,00 o quella diversa
che sarà ritenuta di giustizia, e dall’altro chiedendo la
condanna dell’Amministrazione ai sensi degli artt. 4 e 8 del
d.lgs. n. 7/2016.
3.1 Sotto il primo profilo, la trattazione della domanda
risarcitoria presuppone una ricostruzione della fattispecie
per verificare se la stessa configuri un’ipotesi di illecito
provvedimentale. A tal fine occorre esaminare se nella
stessa si siano concretizzati gli elementi tipici
dell’illecito civile disegnati dall’articolo 2043 del codice
civile, ovvero un’azione od omissione; un danno ingiusto; il
nesso di causalità fra l’una e l’altro ed infine l’elemento
soggettivo.
3.1.1. Quanto al primo elemento, indubbiamente il Comune di
Carrara ha emanato un provvedimento contra legem e
l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa abilita
il danneggiato, ai sensi dell’articolo 30, comma 2, del
codice del processo amministrativo, a chiederne il
risarcimento avanti al Giudice Amministrativo.
3.1.2 Quando al secondo elemento è da dire che l’immagine e
la reputazione della ricorrente risultano certamente lese,
secondo un criterio di comune esperienza (art. 116 c.p.c.),
dalla lettura del provvedimento impugnato da cui si evince
che essa non rispetterebbe le condizioni alle quali è stata
autorizzata la conduzione della struttura residenziale per
persone disabili di cui si tratta.
3.1.3 Quanto al nesso causale, è vero che la gran parte del
danno è certamente riconducibile alla pubblicazione di un
articolo su un quotidiano che trattava l’argomento, ma essa
non sarebbe avvenuta senza l’adozione del provvedimento
impugnato e la sua conseguente pubblicizzazione. Il sito
Internet comunale è infatti accessibile a chiunque e,
peraltro, la pubblicazione di un articolo fondato su un
(illegittimo) provvedimento comunale ivi regolarmente
pubblicato costituisce legittimo esercizio del diritto di
cronaca.
L’adozione e la pubblicizzazione del provvedimento
in questione, operazioni tutte riconducibili al Comune
intimato, rappresentano, secondo un criterio di causalità
adeguata, un antecedente necessario nella catena causale che
ha provocato il danno subito dalla ricorrente il quale va
quindi ricondotto causalmente all’illegittimo esercizio del
potere da parte del Comune intimato.
3.1.4 Sussiste inoltre l’elemento soggettivo.
Nella storica sentenza n. 500/1999 la Corte di Cassazione si
era resa conto che l’addebitabilità dell’illecito
provvedimentale all’Amministrazione non poteva fondarsi solo
sull’illegittimità dell’atto ma occorreva anche la
dimostrazione di uno stato soggettivo colpevole della
stessa, che doveva indentificarsi nella violazione delle
regole “di imparzialità, di correttezza e di buona
amministrazione alle quali l’esercizio della funzione
amministrativa deve ispirarsi”, costituenti limiti esterni
alla discrezionalità.
La giurisprudenza amministrativa richiede anch’essa un
quid pluris ai fini della pronuncia risarcitoria, identificabile
nella colpa grave dell’Amministrazione sulla base all’art.
2236 c.c., il quale limita la responsabilità del prestatore
d’opera intellettuale ai casi di dolo o colpa grave laddove
la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici
particolarmente difficili. Pertanto se la trattazione della
pratica amministrativa comporta una particolare difficoltà
tecnica, si potrà ottenere il risarcimento dei danni solo
quando l’ente abbia violato le regole di diligenza minima
(C.d.S. VI, 31.03.2011 n. 1983).
Altra giurisprudenza
amministrativa afferma che il privato danneggiato può
limitarsi ad invocare l’illegittimità del provvedimento
impugnato quale indice presuntivo della colpa
dell’Amministrazione, dovendo quest’ultima fornire la prova
che si è trattato di un errore scusabile che può
configurarsi in caso di contrasto giurisprudenziale
sull’interpretazione della norma, oppure di una formulazione
incerta di norme recentemente entrate in vigore o, ancora,
di rilevante complessità del fatto o di influenza
determinante dei comportamenti di altri soggetti o, infine,
di illegittimità derivante da una successiva declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata (C.d.S. III,
05.06.2014 n. 2867).
Non è però necessario, ai fini della
soluzione della controversia, analizzare compiutamente gli
orientamenti giurisprudenziali in materia di colpa
dell’Amministrazione nell’illecito provvedimentale poiché,
nel caso di specie, il Comune di Carrara ha errato
gravemente, anzitutto sotto il profilo della
contraddittorietà palese tra il verbale della Commissione
che ha effettuato le visita ispettiva e il provvedimento
successivamente adottato e, inoltre, per non avere
rispettato norme sia di legge che regolamentari le quali non
presentano alcuna difficoltà interpretativa.
Appare quindi
evidente la gravità della colpa in capo all’Amministrazione
la quale, peraltro, non fornisce alcuna prova contraria.
In conclusione, sussistono tutti gli elementi dell’illecito provvedimentale per disporre il risarcimento del danno
subìto dalla ricorrente alla propria immagine e alla propria
reputazione.
Questa tuttavia non fornisce prova
dell’esistenza di un danno patrimonialmente valutabile e,
pertanto, il Collegio ritiene di disporre un risarcimento
non monetario ma in forma specifica mediante la pubblicità
della presente sentenza (art. 90 c.p.a.).
A tal fine il
Comune di Carrara, a proprie spese, entro trenta giorni
dalla comunicazione in via amministrativa o, se anteriore,
notificazione della presente sentenza, dovrà provvedere ad
inserirne un estratto sia nel sito telematico del Comune,
con la stessa evidenza e durata di pubblicazione del
provvedimento annullato, che sul quotidiano “La Nazione” con
espressa richiesta che esso venga pubblicato nella stessa
pagina e con la stessa evidenza dell’articolo pubblicato il
02.04.2016. |
EDILIZIA PRIVATA: Autostrade,
comuni senza poteri. La Cassazione.
Non vale il nulla osta del sindaco per l'installazione sul
territorio municipale di un impianto pubblicitario visibile
perfettamente dal raccordo autostradale. Su questa tipologia
di strade infatti la pubblicità è sempre vietata e il comune
non ha competenza.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 15.12.2016 n. 25884.
Un comune ha autorizzato una società all'installazione di un
impianto pubblicitario in prossimità di un raccordo
autostradale.
Contro la conseguente sanzione elevata dalla polizia
stradale l'interessato ha proposto con successo ricorso al
tribunale ma il collegio ha ribaltato la vicenda confermando
l'operato degli organi di vigilanza. Nelle autostrade, ai
sensi dell'art. 23 del codice stradale la pubblicità è
vietata, salvo nelle aree di servizio.
Siccome il cartello autorizzato dal comune risulta visibile
dal raccordo autostradale l'impianto non risulta conforme al
codice stradale e pertanto dovrà essere rimosso
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2016).
---------------
MASSIMA
Nel merito, si osserva che la censura proposta dalla
difesa erariale si articola in una duplice argomentazione:
- in primo luogo, si deduce -mentre, per le strade in
genere, il primo comma dell'articolo 23 c.d.s. vieta la
istallazione di cartelli solo nel caso che gli stessi
possano in vario modo disturbare la guida (ferma la
necessità dell'autorizzazione dell'ente proprietario della
strada prevista al quarto comma dello stesso articolo)- per
le autostrade, ai sensi del settimo comma del suddetto
articolo 23, è vietata qualsiasi forma di pubblicità lungo
le stesse e in vista delle stesse, salvo che nelle aree di
servizio.
- in secondo luogo si argomenta che comunque, nella specie,
l'argomento valorizzato dal tribunale -che il cartello era
stato autorizzato dall'ente proprietario della strada lungo
la quale era stato posto (il comune)- non era concludente,
giacché non era mai stato chiesto né rilasciato dall'ente
proprietario del raccordo autostradale il nulla-osta
previsto dal quinto comma del ripetuto articolo 23 c.d.s..
La prima delle due suddette censure va giudicata fondata.
Il tribunale de L'Aquila
-ritenendo legittima l'istallazione del cartello in
questione in base al rilievo della constatata "assenza di
ogni elemento di pericolosità che poteva essere generato
dall'istallazione del manufatto" (pag. 3 della sentenza
gravata)-
ha violato il settimo comma dell'articolo 23 c.d.s.,
fondando la propria decisione su una criterio normativo non
contemplato da tale disposizione.
Il dettato di quest'ultima, infatti, esordisce con la
prescrizione: "E' vietata qualsiasi forma di pubblicità
lungo e in vista degli itinerari internazionali, delle
autostrade e delle strade extraurbane principali e relativi
accessi", il cui rigore viene temperato, nel prosieguo
del testo del comma, da una serie di previsioni derogative
(con riferimento alle aree di servizio o di parcheggio, con
riferimento ai segnali indicanti servizi o indicazioni agli
utenti, con riferimento alle insegne di esercizio, con
riferimento ai cartelli di valorizzazione e promozione del
territorio).
La sentenza gravata
-mentre recepisce l'accertamento del primo giudice secondo
cui il cartello in questione era visibile dal raccordo
autostradale, pur non interferendo con i segnali ivi
collocati (cfr. pag. 2, ultimo capoverso, della sentenza
gravata)-
non contiene alcuna affermazione in ordine alla
riconducibilità della collocazione del cartello in questione
ad alcuna delle suddette ipotesi derogatorie.
Ricorre quindi il vizio di violazione di legge denunciato
con la censura in esame. |
APPALTI:
Sussiste in capo al concorrente il dovere di
dichiarare tutte le vicende pregresse, concernenti fatti
risolutivi, errori o altre negligenze, comunque rilevanti ai
sensi del ricordato art. 38, comma 1, lett. f), occorse in
precedenti rapporti contrattuali con pubbliche
amministrazioni diverse dalla stazione appaltante, giacché
tale dichiarazione attiene ai principi di lealtà e
affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai
rapporti tra partecipanti e stazione appaltante, senza che a
costoro sia consentito scegliere quali delle dette vicende
dichiarare sulla base di un soggettivo giudizio di gravità,
competendo quest’ultimo soltanto all’amministrazione
committente.
La stazione appaltante dispone, invero, di una sfera di
discrezionalità nel valutare quanto eventuali precedenti
professionali negativi incidano sull'affidabilità di chi
aspira a essere affidatario di un contratto e tale
discrezionalità può essere correttamente esercitata solo
disponendo di tutti gli elementi necessari a garantire una
compiuta formazione della volontà.
Una volta appurato che il concorrente ha l’obbligo di
dichiarare tutti i precedenti professionali negativi a nulla
rileva che gli stessi si siano chiusi con transazione (anche
a lui favorevole) o che abbiano dato luogo a una risoluzione
consensuale del contratto, posto che tali circostanze
potranno al più rilevare nella fase della valutazione di
gravità rimessa alla stazione appaltante.
Peraltro giova puntualizzare che anche gli inadempimenti che
abbiano dato luogo ad una conclusione transattiva della
vicenda possono essere apprezzati ai fini di valutare
l’affidabilità professionale dell’appaltatore.
L’inosservanza del descritto onere dichiarativo comporta
irrimediabilmente l’esclusione dalla gara e non può essere
sanato, anche dopo l’introduzione del comma 2-bis del citato
art. 38, ad opera dell'art. 39, comma 1, del D.L.
24/06/2014, n. 90, conv, dalla L. 11/08/2014, n. 114,
mediante ricorso al soccorso istruttorio, istituto non
utilizzabile per sopperire alla mancanza di dichiarazioni o
documenti essenziali ai fini dell’ammissione alla gara.
---------------
In base ad un condivisibile orientamento giurisprudenziale
che può ritenersi ormai consolidato e al quale il Collegio
ritiene di dover aderire, sussiste in capo al concorrente il
dovere di dichiarare tutte le vicende pregresse, concernenti
fatti risolutivi, errori o altre negligenze, comunque
rilevanti ai sensi del ricordato art. 38, comma 1, lett. f),
occorse in precedenti rapporti contrattuali con pubbliche
amministrazioni diverse dalla stazione appaltante, giacché
tale dichiarazione attiene ai principi di lealtà e
affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai
rapporti tra partecipanti e stazione appaltante, senza che a
costoro sia consentito scegliere quali delle dette vicende
dichiarare sulla base di un soggettivo giudizio di gravità,
competendo quest’ultimo soltanto all’amministrazione
committente (Cons. Stato, Sez. V, 04/10/2016, n. 4108;
26/07/2016, n. 3375; 19/05/2016, n. 2106; 18/01/2016, n.
122; 25/02/2015, n. 943; 11/12/2014, n. 6105; 14/05/2013, n.
2610; Sez. IV, 04/09/2013, n. 4455; Sez. III, 05/05/2014, n.
2289).
La stazione appaltante dispone, invero, di una sfera di
discrezionalità nel valutare quanto eventuali precedenti
professionali negativi incidano sull'affidabilità di chi
aspira a essere affidatario di un contratto e tale
discrezionalità può essere correttamente esercitata solo
disponendo di tutti gli elementi necessari a garantire una
compiuta formazione della volontà.
Una volta appurato che il concorrente ha l’obbligo di
dichiarare tutti i precedenti professionali negativi a nulla
rileva che gli stessi si siano chiusi con transazione (anche
a lui favorevole) o che abbiano dato luogo a una risoluzione
consensuale del contratto, posto che tali circostanze
potranno al più rilevare nella fase della valutazione di
gravità rimessa alla stazione appaltante.
Peraltro giova puntualizzare che anche gli inadempimenti che
abbiano dato luogo ad una conclusione transattiva della
vicenda possono essere apprezzati ai fini di valutare
l’affidabilità professionale dell’appaltatore (Cons. Stato,
Sez. V, 20/06/2011, n. 3671).
L’inosservanza del descritto onere dichiarativo comporta
irrimediabilmente l’esclusione dalla gara e non può essere
sanato, anche dopo l’introduzione del comma 2-bis del citato
art. 38, ad opera dell'art. 39, comma 1, del D.L.
24/06/2014, n. 90, conv, dalla L. 11/08/2014, n. 114,
mediante ricorso al soccorso istruttorio, istituto non
utilizzabile per sopperire alla mancanza di dichiarazioni o
documenti essenziali ai fini dell’ammissione alla gara
(Cons. Stato, Sez. V, 19/05/2016, n. 2106; 11/04/2016 n.
1412, nonché citata sent. n. 3375/2016).
Nel caso di specie, l’appellante pur destinataria di
svariati precedenti professionali negativi suscettibili di
essere valutati ai sensi del ricordato art. 38, comma 1,
lett. f), ha mancato di dichiararli, per cui, giusta quanto
più sopra rilevato, avrebbe dovuto essere esclusa dalla
gara, non potendo l’omissione essere sanata mediante ricorso
al soccorso istruttorio.
Le considerazioni più sopra svolte evidenziano la presenza
di un quadro giurisprudenziale sostanzialmente univoco in
ordine alle questioni trattate, cosicché il Collegio non
ravvisa i presupposti per sollecitare un intervento
dell’Adunanza Plenaria
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2016 n. 5290 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare finalizzate all’affidamento di una
commessa pubblica la valutazione di anomalia dell'offerta va
effettuata considerando tutte le circostanze del caso
concreto, poiché un utile all'apparenza modesto può
comportare un vantaggio significativo sia per la
prosecuzione in sé dell'attività lavorativa (il mancato
utilizzo dei propri fattori produttivi è comunque un costo),
sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum
derivanti per l'impresa dall'essere aggiudicataria e
dall'aver portato a termine un appalto pubblico, cosicché
non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di
sotto della quale l'offerta deve essere considerata anomala,
con l’unico limite del completo azzeramento del margine
positivo.
---------------
In via pregiudiziale
occorre osservare che in base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale che il Collegio condivide, nelle gare
finalizzate all’affidamento di una commessa pubblica la
valutazione di anomalia dell'offerta va effettuata
considerando tutte le circostanze del caso concreto, poiché
un utile all'apparenza modesto può comportare un vantaggio
significativo sia per la prosecuzione in sé dell'attività
lavorativa (il mancato utilizzo dei propri fattori
produttivi è comunque un costo), sia per la qualificazione,
la pubblicità, il curriculum derivanti per l'impresa
dall'essere aggiudicataria e dall'aver portato a termine un
appalto pubblico, cosicché non è possibile stabilire una
soglia minima di utile al di sotto della quale l'offerta
deve essere considerata anomala, con l’unico limite del
completo azzeramento del margine positivo (Cons. Stato, Sez.
V, 17/03/2016, n. 1090; 15/06/2015 n. 2953; 22/01/2015 n.
289; Sez. III, 10/11/2015 n. 5128)
(Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 15.12.2016 n. 5290 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Servizi
in affido senza priorità. Appalto è
sotto soglia? Il passato non vale.
Il Comune affida il servizio pubblico senza invitare il
precedente gestore a partecipare alla procedura. Possibile?
Sì, se il valore dell'appalto è sotto la soglia che rende
necessario bandire una vera e propria gara: in tal caso si
applica il principio di rotazione, previsto dall'art. 36,
comma 1, del dlgs 50/2016, il nuovo codice degli appalti
pubblici.
È quanto emerge dalla
sentenza 15.12.2016 n. 1906
della II Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Obbligo e facoltà. Deve rassegnarsi l'azienda che curato
finora i servizi informatici del piccolo Comune salentino.
Non conta che mai l'amministrazione si sia lamentata delle
prestazioni erogate durante lo svolgimento del contratto.
L'ente locale in realtà non provvede all'assegnazione
dell'appalto con procedura negoziata, come sostiene
l'impresa, ma con l'affidamento diretto: lo dimostra
chiaramente la delibera di giunta impugnata dalla società.
L'importo dell'appalto è sotto la soglia critica e dunque
non è necessario pubblicare un bando: è lo stesso
provvedimento dell'amministrazione a citare l'articolo 36
del decreto legislativo 50/2016 che, al secondo comma,
dispone che «le stazioni appaltanti procedono
all'affidamento di lavori, servizi e forniture di importo
inferiore a 40 mila euro mediante affidamento diretto». Né
giova alla società dedurre che l'offerta proposta dalla
concorrente aggiudicataria del servizio non è migliorativa
rispetto alla sua.
Il principio della rotazione, infatti, costituisce una norma
speciale nelle gare sotto soglia e in quanto tale prevale
sulla disciplina generale in materia di procedure pubbliche.
La stazione appaltante non ha l'obbligo ma soltanto la
facoltà di chiamare il gestore a prendere parte all'iter,
laddove intenda garantire la massima partecipazione alla
procedura. E anzi se invita il contraente uscente deve
motivare all'esterno, spiegando perché contravviene al
principio di rotazione.
Insomma: la regola è che il precedente gestore non viene
invitato e il caso contrario è l'eccezione. Il mancato
invito, nel nostro caso, risulta conforme alla legge di gara
a nulla rilevando la questione delle previe contestazioni
(articolo ItaliaOggi del 29.12.2016). |
APPALTI: Paghe
troppo basse, l'appalto è revocato.
Tar Calabria applica il nuovo codice dei contratti.
L'aggiudicazione dell'appalto deve essere revocata anche se
l'offerta nel complesso risulta congrua per
l'amministrazione che ha bandito la gara. Possibile? Sì, se
nella proposta dell'impresa vincitrice il costo del lavoro è
sottostimato al punto da risultare inferiore agli standard
delle tabelle ministeriali ad hoc e la deroga non risulta
giustificata da un contratto di prossimità applicabile al
caso concreto. Il tutto grazie al nuovo codice dei contratti
pubblici che dà attuazione, fra le altre, alla direttiva
2014/24/Ue: i principi eurounitari, infatti, impongono il
rigoroso rispetto dei diritti minimi quando ci sono in gioco
interessi primari di natura sociale, ambientale e in tema di
lavoro.
È quanto emerge dalla
sentenza 15.12.2016 n. 1315,
pubblicata dal TAR
Calabria-Reggio Calabria.
Vicinanza della prova.
Accolto il ricorso dell'impresa di vigilanza che riesce a
bloccare l'affidamento al competitor del servizio di
sorveglianza relativo all'edificio in cui la regione ha
installato un polo tecnologico. E ciò perché l'offerta della
concorrente indica un costo orario del personale pari a poco
meno di 17 euro, troppo basso rispetto alle tabelle di cui
al dm 21.03.2016 allegate agli atti della causa.
La
deroga sarebbe consentita dall'applicazione di un contratto
di prossimità che tuttavia non risulta valido nel nostro
caso: in base al principio della vicinanza della prova
doveva essere la stazione appaltante a dimostrare la
rappresentatività del sindacato che ha sottoscritto
l'accordo in deroga al contratto collettivo nazionale
(mentre l'azienda controinteressata non si è costituita in
giudizio).
E in ogni caso i servizi di vigilanza non
rientrano nei settori indicati in modo tassativo dall'art.
2, comma 8, del dl 138/2011, vale a dire il dl con la «manovra
bis» che ha introdotto l'istituto caratterizzato da una
natura straordinaria.
Rinvio decisivo.
Di più. La novità introdotta dal nuovo codice degli appalti
è proprio che la congruità complessiva dell'offerta non
evita l'esclusione prevista dall'offerta inadempiente
rispetto agli obblighi retributivi minimi: quando si
rilevano anomalie, la stazione appaltante è tenuta a
chiedere giustificazioni all'impresa che partecipa alla
gara.
È il rinvio operato dall'art. 97, comma 5, lettera a),
del dlgs 50/2016 all'articolo 30, comma 3, a implicare che
le imprese chiamate a eseguire gli appalti pubblici devono
ritenersi obbligate a rispettare le norme poste a tutela dei
diritti sociali, ambientali e del lavoro.
E quindi quando l'offerta risulta anormale perché troppo
bassa l'azienda partecipante deve essere esclusa dalla
procedura pubblica se il costo del personale è inferiore ai
minimi salariali retributivi indicati nelle tabelle
richiamate all'articolo 23, comma 16, del codice dei
contratti pubblici
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2016). |
GIURISPRUDENZA |
TRIBUTI: Tasse
dovute anche sull'acqua. Banchine, pontili o specchi
soggetti a Tarsu, Tares, Tari. La
Ctr Firenze si allinea all'orientamento della Cassazione
sulle superfici liquide.
Anche i giudici di merito si allineano alla tesi della
Cassazione sulla tassazione degli specchi acquei. Sono
soggette al pagamento della tassa rifiuti non solo le
superfici solide ma anche quelle liquide. Rientrano,
infatti, tra le aree scoperte tassabili gli specchi acquei,
poiché i mezzi natanti che sostano su queste aree producono
rifiuti che una volta riversati sulla terraferma, al momento
della sosta nel porto, devono essere smaltiti dai comuni.
Lo ha stabilito la commissione tributaria regionale di
Firenze, sezione staccata di Livorno (XIV), con la
sentenza 14.12.2016 n. 2184.
Dunque banchine, pontili galleggianti e specchi d'acqua sono
soggette alla Tarsu, ma la stessa regola vale per Tares e
Tari. Gli specchi acquei sono soggetti al pagamento in
quanto considerati superfici scoperte e non importa che si
tratti di superfici liquide.
Del resto si qualificano aree
scoperte, costituenti il presupposto per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani, tutte le estensioni spaziali
utilizzate da una comunità umana, a prescindere dal supporto
solido o liquido di cui la superficie è composta e del mezzo
terrestre o navale di cui ci si avvale per effettuare
l'occupazione (Cassazione, sentenza 3829/2009).
Per i
giudici di legittimità, la delimitazione del concetto di
aree scoperte impiegata dal legislatore non va tratta dal
(né limitata al) dato solido del suolo. Il presupposto della
tassa rifiuti solidi urbani è l'occupazione o detenzione di
locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti.
Con la sentenza 3829/2009, per la prima volta, i giudici di
legittimità hanno stabilito che la Tarsu è dovuta anche
sugli specchi acquei, assimilandoli alle aree scoperte, a
prescindere dalle tipologie di attività che sugli stessi
vengono esercitate.
Secondo la Suprema corte «la tassa
risulta agganciata all'attitudine dei soggetti costituenti
una comunità a produrre rifiuti solidi urbani» (di tal che
«anche i rifiuti provenienti da navi all'ancora nel porto
sono rifiuti urbani e, in quanto tali, assoggettabili alla
relativa disciplina»).
Vanno intese per «aree scoperte»
costituenti «presupposto» della tassa tutte le estensioni (o
superfici) spaziali comunque utilizzabili e concretamente
utilizzate da una comunità umana, quindi a prescindere dal
supporto (solido o liquido) di cui l'estensione stessa è
composta, e, conseguentemente, dal mezzo (terrestre o
navale) utilizzato per fruire di quell'estensione: lo
smaltimento dei rifiuti solidi, infatti, costituisce sempre
un interesse pubblico (cfr. dlgs 05.02.1997, n. 22,
art. 2, per il quale «la gestione dei rifiuti costituisce
attività di pubblico interesse») anche quando quelli
propriamente «urbani» siano prodotti da comunità umane che,
utilizzando (con l'opportuno mezzo) uno spazio «liquido» e
non «solido», producono quei rifiuti sul mezzo (natante) e
debbono, per necessità, riversarli (o comunque li riversano)
sulla terraferma al momento della sosta nel porto, facendo
così sorgere, a carico dell'ente territorialmente
competente, l'obbligo di rimuoverli e di smaltirli».
Lo stesso principio è stato riaffermato con la sentenza
3773/2013. Si legge testualmente nella motivazione di
quest'ultima pronuncia: «la Corte di giustizia, sia pure ai
fini Iva, ha ritenuto che l'art. 13, parte B, lettera b),
sesta direttiva del consiglio 17.05.1977, 77/388/Cee, in
materia di armonizzazione delle legislazioni degli stati
membri relative alle imposte sulla cifra di affari, come
modificata dalla direttiva del consiglio 14.12.1992,
92/111/Cee, deve essere interpretato nel senso che la
nozione di locazione di beni immobili comprende la locazione
di posti destinati all'ormeggio di imbarcazioni in acqua,
nonché di posti a terra per il rimessaggio di tali
imbarcazioni nell'area portuale, con ciò affermando
l'imponibilità di tali spazi».
Le regole del tributo.
Sia per la Tarsu che per la Tari il presupposto è
l'occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte a
qualsiasi uso adibiti. Non sono soggetti a imposizione i
locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la
loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente
destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non
utilizzabilità nel corso dell'anno, sempre che queste
circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di
variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi
obiettivi direttamente rilevabili o a idonea documentazione.
Tra i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per
la natura delle loro superfici rientrano quelli situati in
luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono.
Pertanto, la legge prevede una presunzione relativa di
produzione dei rifiuti che ammette la prova contraria. La
sussistenza delle condizioni che fanno venir meno la
presunzione di legge della potenziale produzione di rifiuti
devono essere provate dal contribuente e riscontrabili da
parte dell'amministrazione. Sono sottratti all'imposizione
solo i locali e le aree che sono oggettivamente
inutilizzabili o insuscettibili di produrre rifiuti, e non
quelli lasciati in concreto inutilizzati. Pertanto, anche la
scelta soggettiva del titolare di non usare l'immobile non
assume alcuna rilevanza.
---------------
Versamento dovuto anche senza servizio.
È sufficiente che il servizio di smaltimento rifiuti sia
istituito per imporre ai contribuenti il pagamento della
tassa. Quindi, il tributo è dovuto per la detenzione di
locali e aree e non per il fatto che venga utilizzato il
servizio fornito dall'ente. Lo stesso principio vale oggi
per la Tari, considerato che anche la nuova disciplina non
collega il pagamento alla effettiva fruizione del servizio
di smaltimento rifiuti.
Secondo la Cassazione (sentenza 12035/2015) non si può
condizionare l'obbligo tributario alla materiale fruizione
del servizio, in quanto i criteri di ripartizione del costo
sostenuto dal comune non sono collegati al suo concreto
utilizzo, ma si basano su indici presuntivi.
In effetti, la
ragione istitutiva della tassa è quella di porre le
amministrazioni locali nelle condizioni di soddisfare
interessi generali della collettività e non di fornire delle
prestazioni riferibili ai singoli cittadini. Addirittura il
mancato svolgimento del servizio di raccolta da parte del
comune non comporta l'esenzione, ma il pagamento del tributo
in misura ridotta.
Non a caso l'articolo 59 del decreto
legislativo 507/1993 disponeva per la Tarsu la riduzione
anche se il servizio di raccolta, sebbene istituito, non
venisse svolto nella zona di residenza, di dimora o dove
esercitava l'attività il contribuente. La riduzione
spettava, inoltre, se il servizio era effettuato in grave
violazione delle prescrizioni del regolamento comunale di
nettezza urbana
(articolo ItaliaOggi Sette del
02.01.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Con
particolare riguardo al settore edilizio, l'art. 20, comma
8, D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (T.U. Edilizia), prevede che,
fuori dei casi in cui sussistano vincoli relativi
all'assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o
culturali, decorso inutilmente il termine per l'adozione del
provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile
dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla
domanda di permesso di costruire si intende formato il
silenzio-assenso.
---------------
E’ impugnato l’epigrafato provvedimento che, in relazione a
richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di
una piscina pertinenziale di mq 7x14, ha significato che le
dimensioni della piscina realizzabile non dovevano essere
quelle di cui al progetto istruito positivamente, bensì di
mt. 40 alla luce dell’entrata in vigore, nelle more, delle
Linee Guida del PPTR della Regione Puglia, la cui
pubblicazione era intervenuta sul BURP in data 23.03.2015.
Questi i motivi a sostegno del ricorso:
-
Violazione art. 20, commi 3, 4, 5, 6 e 8, dpr 380/2001 –
violazione art. 5, comma 3, lett. a) – eccesso di potere per
erronea presupposizione di fatto e diritto – violazione art.
16, comma 2 e 3, DPR 380/2001 – manifesta illogicità,
contraddittorietà, irragionevolezza.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Merita condivisione la censura con la quale il ricorrente
rileva l’avvenuta formazione del silenzio-assenso come
disciplinata dall’art. 20 del DPR 380/2001, il quale al c. 3
stabilisce che “Entro sessanta giorni dalla presentazione
della domanda, il responsabile del procedimento cura
l'istruttoria e formula una proposta di provvedimento,
corredata da una dettagliata relazione, con la
qualificazione tecnico-giuridica dell'intervento richiesto.
Qualora sia necessario acquisire ulteriori atti di assenso,
comunque denominati, resi da amministrazioni diverse, si
procede ai sensi degli articoli 14 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”.
Il successivo comma 6 stabilisce poi
che “Decorso inutilmente il termine per l'adozione del
provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile
dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla
domanda di permesso di costruire si intende formato il
silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano
vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientali,
paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le
disposizioni di cui agli articoli 14 e seguenti della legge
07.08.1990, n. 241”.
Risulta quindi evidente che, con particolare riguardo al
settore edilizio, l'art. 20, comma 8, D.P.R. 06.06.2001 n.
380 (T.U. Edilizia), prevede che, fuori dei casi in cui
sussistano vincoli relativi all'assetto idrogeologico,
ambientali, paesaggistici o culturali, decorso inutilmente
il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove
il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia
opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di
costruire si intende formato il silenzio-assenso (Cons.
Stato Sez. IV, 05.09.2016, n. 3805).
Nella specie, è avvenuto che il ricorrente ha presentato
istanza di permesso di costruire per la realizzazione di una
piscina pertinenziale in data 16.10.2014; in data 2 marzo
2015 l’UTC ha espresso parere tecnico favorevole
all’intervento, rilevando che: “– non trova applicazione il PUTT in quanto l’intervento proposto non rientra tra quelli
ricompresi all’art. 5.02 –interventi esenti da
autorizzazione paesaggistica– di cui al comma 1.09 delle NTA del PUTT trattandosi di opera pertinenziale; visto il
parere favorevole della ASL di Ostuni espresso in data
20.11.2014”.
La circostanze suindicate evidenziano il formarsi del
silenzio-assenso sulla richiesta di permesso di costruire,
atteso che dopo la presentazione dell’istanza (16.10.2014)
ed esclusa la presenza di vincoli relativi all'assetto
idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali (come
risulta dal parere espresso dall’UTC in data 02.03.2015) il
termine di 90 giorni stabilito dall’art. 20 DPR 380/2001, al
momento dell’adozione dell’atto impugnato risultava
ampiamente decorso.
In ogni caso, deve rilevarsi che, al momento dell’entrata in
vigore del PPTR (23.03.2015), oltre ad essersi formato il
silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire, la
stessa risultava ampiamente definita, in quanto in data 05.03.2015 il Responsabile del procedimento aveva già
confermato la compatibilità urbanistica dell’intervento e
richiesto la produzione di n. 2 marche da bollo da € 16,00,
attestazione del versamento di € 1797,15 a tiolo di
contributo di costruzione, attestazione del versamento di
€ 60,00 per diritti di segreteria, oneri formali ai quali il
ricorrente provvedeva prontamente in data 19.03.2015; sicché
in base alla regola del tempus regit actum, non poteva
applicarsi la disciplina urbanistica successivamente
intervenuta.
In definitiva, il ricorso deve essere accolto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 13.12.2016 n. 1863 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: L’art.
22, comma 5, della legge n. 136/1999 (secondo cui
“l'infruttuosa decorrenza dei termini di cui ai precedenti
commi costituisce presupposto per la richiesta di intervento
sostitutivo; a tal fine è data facoltà all'interessato di
inoltrare istanza per la nomina di un commissario ad acta al
presidente della giunta regionale il quale provvede nel
termine di quindici giorni”) deve essere letto in
combinazione con l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001,
recepito dall’art. 2, comma 4, della L.R. n. 1/2009 (secondo
cui “ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno”).
Occorre infatti considerare che il sistema di ripartizione
di competenze vigente all’interno degli enti pubblici si
fonda sulla netta separazione tra le funzioni di indirizzo
politico, attribuite agli organi politici, e le attività di
gestione, proprie degli organi burocratici. Quest’ultime
sono costituite da funzioni operative dirette a dare
adempimento ai fini istituzionali, ovvero includono atti
destinati ad applicare, pur con qualche margine di
discrezionalità, criteri predeterminati dalla legge o da
atti generali di indirizzo, e comprendono quindi anche la
nomina del commissario ad acta richiesta dai deducenti, la
quale assume a riferimento i puntuali criteri dettati dal
citato art. 22 della legge n. 136/1999.
Pertanto l’atto impugnato è stato legittimamente
sottoscritto dalla responsabile della Direzione Generale
delle Politiche Territoriali e Ambientali, Settore Attività
Amministrative anziché dal Presidente della Giunta Regionale
siccome sostenuto dal ricorrente.
---------------
... per l'annullamento:
- quanto al ricorso n. 1943 del 2010: del provvedimento
della Direzione Generale delle Politiche Territoriali e
Ambientali della Regione Toscana in data 09.07.2010 (prot.
n. AOOGRT/183560/A.40.10) notificato in data successiva,
come da timbro postale, sottoscritto dalla Dott.ssa Da.Ba.,
avente ad oggetto "istanza di nomina Commissario ad acta.
Piano attuativo Via Romana, loc. Antraccoli- Lucca.
Proprietà Sig.ra Br.Is.", con la quale si dichiara non
accoglibile l'stanza di nomina di un Commissario ad acta
formulata dai ricorrenti ai sensi dell'art. 22 della legge
30.04.1999 n. 136;
nonché di ogni altro presupposto e/o consequenziale, ivi
comprese -nell'ipotesi che dovessero considerarsi atti
aventi natura di provvedimento- la relazione (allegata al
provvedimento di cui sopra) della stessa Direzione Generale
delle Politiche Territoriali e Ambientali della Regione
Toscana in data 06.07.2010 a firma del Responsabile di
Settore Arch. Ma.Cl.Me. e la relazione esplicativa del
Comune di Lucca allegata a nota in data 18.05.2010 - prot.
n. 32989.
- quanto al ricorso n. 1194 del 2012: della deliberazione
del Consiglio Comunale di Lucca n. 19 del 15.03.2012,
pubblicata sul B.U.R.T. in data 02.05.2012, avente per
oggetto: “Regolamento Urbanistico, Variante straordinaria
di Salvaguardia del Piano Strutturale - Esame e
controdeduzioni alle osservazioni, Definitiva Approvazione"
e di ogni atto allegato, connesso, presupposto e/o
consequenziale, ivi compresa la deliberazione del Consiglio
Comunale di Lucca n. 72 del 03.10.2011 e relativi atti
presupposti,
al fine di ottenere la condanna del Comune di Lucca al
pagamento di tutti i danni subiti dai ricorrenti, ciascuno
per quanto di sua spettanza;.
...
2. Con la seconda censura gli esponenti sostengono
che la competenza a provvedere apparteneva al Presidente
della Giunta Regionale, mentre invece l’impugnato diniego è
stato emesso dalla Direzione Generale delle Politiche
Territoriali e Ambientali della Regione e dalla dottoressa
Da.Ba. (della cui esatta qualifica non si è data contezza).
Il rilievo è infondato.
L’art. 22, comma 5, della legge n. 136/1999 (secondo cui “l'infruttuosa
decorrenza dei termini di cui ai precedenti commi
costituisce presupposto per la richiesta di intervento
sostitutivo; a tal fine è data facoltà all'interessato di
inoltrare istanza per la nomina di un commissario ad acta al
presidente della giunta regionale il quale provvede nel
termine di quindici giorni”) deve essere letto in
combinazione con l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001,
recepito dall’art. 2, comma 4, della L.R. n. 1/2009 (secondo
cui “ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno”).
Occorre infatti considerare che il sistema di ripartizione
di competenze vigente all’interno degli enti pubblici si
fonda sulla netta separazione tra le funzioni di indirizzo
politico, attribuite agli organi politici, e le attività di
gestione, proprie degli organi burocratici. Quest’ultime
sono costituite da funzioni operative dirette a dare
adempimento ai fini istituzionali, ovvero includono atti
destinati ad applicare, pur con qualche margine di
discrezionalità, criteri predeterminati dalla legge o da
atti generali di indirizzo, e comprendono quindi anche la
nomina del commissario ad acta richiesta dai
deducenti, la quale assume a riferimento i puntuali criteri
dettati dal citato art. 22 della legge n. 136/1999.
Pertanto l’atto impugnato è stato legittimamente
sottoscritto dalla responsabile della Direzione Generale
delle Politiche Territoriali e Ambientali, Settore Attività
Amministrative
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 12.12.2016 n. 1768 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La ripubblicazione del piano regolatore adottato
dal Comune è necessaria, a seguito dell'accoglimento delle
osservazioni presentate dai privati, solo nel caso in cui
sia stata effettuata una rielaborazione complessivamente
innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano
alla sua impostazione, e d’altro canto le modificazioni
introdotte dalla Regione, a mente dell'art. 10, comma 2, l.
n. 1150 del 1942, o, per quanto riguarda il procedimento
urbanistico comunale disciplinato dalla legislazione
regionale toscana, presentate dalla Regione Toscana nella
forma di autorevoli osservazioni riconosciute indispensabili
per assicurare il rispetto delle previsioni del PIT, ai
sensi della disciplina introdotta dagli artt. 17 e seguenti
della L.R. n. 1/2005, non comportano la necessità per il
Comune interessato di riavviare il procedimento di
approvazione dello strumento urbanistico, con conseguente
ripubblicazione dello stesso, inserendosi tali modifiche -in
conformità a quanto stabilito dall'art. 10, secondo comma,
lettera c), della legge n. 1150/1942 nell'ambito di un
unico procedimento di formazione progressiva del disegno
relativo alla programmazione generale del territorio.
---------------
In ogni caso, la ripubblicazione della variante adottata si
rende necessaria solo se le osservazioni accolte superano il
limite del rispetto dei canoni guida del piano adottato.
Per giurisprudenza assolutamente consolidata, l'assenza
dell'asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della
variante ricorre qualora le modifiche facoltative o
concordate dello strumento urbanistico comportino lo
stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in
presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie,
ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché
possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole
aree o gruppi di aree.
---------------
... per l'annullamento:
- quanto al ricorso n. 1943 del 2010: del provvedimento
della Direzione Generale delle Politiche Territoriali e
Ambientali della Regione Toscana in data 09.07.2010 (prot.
n. AOOGRT/183560/A.40.10) notificato in data successiva,
come da timbro postale, sottoscritto dalla Dott.ssa Da.Ba.,
avente ad oggetto "istanza di nomina Commissario ad acta.
Piano attuativo Via Romana, loc. Antraccoli- Lucca.
Proprietà Sig.ra Br.Is.", con la quale si dichiara non
accoglibile l'stanza di nomina di un Commissario ad acta
formulata dai ricorrenti ai sensi dell'art. 22 della legge
30.04.1999 n. 136;
nonché di ogni altro presupposto e/o consequenziale, ivi
comprese -nell'ipotesi che dovessero considerarsi atti
aventi natura di provvedimento- la relazione (allegata al
provvedimento di cui sopra) della stessa Direzione Generale
delle Politiche Territoriali e Ambientali della Regione
Toscana in data 06.07.2010 a firma del Responsabile di
Settore Arch. Ma.Cl.Me. e la relazione esplicativa del
Comune di Lucca allegata a nota in data 18.05.2010 - prot.
n. 32989.
- quanto al ricorso n. 1194 del 2012: della deliberazione
del Consiglio Comunale di Lucca n. 19 del 15.03.2012,
pubblicata sul B.U.R.T. in data 02.05.2012, avente per
oggetto: “Regolamento Urbanistico, Variante straordinaria
di Salvaguardia del Piano Strutturale - Esame e
controdeduzioni alle osservazioni, Definitiva Approvazione"
e di ogni atto allegato, connesso, presupposto e/o
consequenziale, ivi compresa la deliberazione del Consiglio
Comunale di Lucca n. 72 del 03.10.2011 e relativi atti
presupposti,
al fine di ottenere la condanna del Comune di Lucca al
pagamento di tutti i danni subiti dai ricorrenti, ciascuno
per quanto di sua spettanza;.
...
Occorre precisare
che la ripubblicazione del piano regolatore adottato dal
Comune è necessaria, a seguito dell'accoglimento delle
osservazioni presentate dai privati, solo nel caso in cui
sia stata effettuata una rielaborazione complessivamente
innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che presiedevano
alla sua impostazione (Cons. Stato, IV, 12.03.2009, n.
1477), e d’altro canto le modificazioni introdotte dalla
Regione, a mente dell'art. 10, comma 2, l. n. 1150 del 1942,
o, per quanto riguarda il procedimento urbanistico comunale
disciplinato dalla legislazione regionale toscana,
presentate dalla Regione Toscana nella forma di autorevoli
osservazioni riconosciute indispensabili per assicurare il
rispetto delle previsioni del PIT, ai sensi della disciplina
introdotta dagli artt. 17 e seguenti della L.R. n. 1/2005,
non comportano la necessità per il Comune interessato di
riavviare il procedimento di approvazione dello strumento
urbanistico, con conseguente ripubblicazione dello stesso,
inserendosi tali modifiche -in conformità a quanto stabilito
dall'art. 10, secondo comma, lettera c), della legge n.
1150/1942- nell'ambito di un unico procedimento di
formazione progressiva del disegno relativo alla
programmazione generale del territorio (Cons. Stato, IV,
15.04.2013, n. 2029).
In ogni caso, la ripubblicazione della variante adottata si
rende necessaria solo se le osservazioni accolte superano il
limite del rispetto dei canoni guida del piano adottato
(Cons. Stato, sez. IV, 31.01.2005, n. 259). Per
giurisprudenza assolutamente consolidata, l'assenza
dell'asserito obbligo di riadozione e ripubblicazione della
variante ricorre qualora le modifiche facoltative o
concordate dello strumento urbanistico comportino lo
stravolgimento dello strumento adottato, e non anche in
presenza di variazioni di dettaglio che, come nella specie,
ne lasciano inalterato l'impianto originario, ancorché
possano incidere sensibilmente sulla destinazione di singole
aree o gruppi di aree (TAR Toscana, I, 22.09.2016, n. 1381)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 12.12.2016 n. 1768 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Gli atti
impugnati sono legittimi ed il giudice amministrativo può
riconoscere il risarcimento del danno causato al privato dal
comportamento inoperoso dell'Amministrazione solo quando sia
stata accertata la spettanza del c.d. bene della vita,
atteggiandosi così il riconoscimento del diritto del
ricorrente al bene della vita come presupposto
indispensabile per configurare una condanna al risarcimento
del relativo danno.
---------------
D’altro canto, l'approvazione del piano attuativo non è atto
dovuto, ancorché esso risulti conforme al regolamento
urbanistico al momento vigente, essendo l'approvazione
medesima sempre espressione di potere discrezionale
dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico
generale.
Ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi
sussiste un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di
formale coincidenza.
---------------
... per
l'annullamento:
- quanto al ricorso n. 1943 del 2010: del provvedimento
della Direzione Generale delle Politiche Territoriali e
Ambientali della Regione Toscana in data 09.07.2010 (prot.
n. AOOGRT/183560/A.40.10) notificato in data successiva,
come da timbro postale, sottoscritto dalla Dott.ssa Da.Ba.,
avente ad oggetto "istanza di nomina Commissario ad acta.
Piano attuativo Via Romana, loc. Antraccoli- Lucca.
Proprietà Sig.ra Br.Is.", con la quale si dichiara non
accoglibile l'stanza di nomina di un Commissario ad acta
formulata dai ricorrenti ai sensi dell'art. 22 della legge
30.04.1999 n. 136;
nonché di ogni altro presupposto e/o consequenziale, ivi
comprese -nell'ipotesi che dovessero considerarsi atti
aventi natura di provvedimento- la relazione (allegata al
provvedimento di cui sopra) della stessa Direzione Generale
delle Politiche Territoriali e Ambientali della Regione
Toscana in data 06.07.2010 a firma del Responsabile di
Settore Arch. Ma.Cl.Me. e la relazione esplicativa del
Comune di Lucca allegata a nota in data 18.05.2010 - prot.
n. 32989.
- quanto al ricorso n. 1194 del 2012: della deliberazione
del Consiglio Comunale di Lucca n. 19 del 15.03.2012,
pubblicata sul B.U.R.T. in data 02.05.2012, avente per
oggetto: “Regolamento Urbanistico, Variante straordinaria
di Salvaguardia del Piano Strutturale - Esame e
controdeduzioni alle osservazioni, Definitiva Approvazione"
e di ogni atto allegato, connesso, presupposto e/o
consequenziale, ivi compresa la deliberazione del Consiglio
Comunale di Lucca n. 72 del 03.10.2011 e relativi atti
presupposti,
al fine di ottenere la condanna del Comune di Lucca al
pagamento di tutti i danni subiti dai ricorrenti, ciascuno
per quanto di sua spettanza;.
...
9. Con la quinta
censura i ricorrenti deducono che il Comune di Lucca
sarebbe responsabile sia del ritardo nella conclusione della
procedura di approvazione del piano attuativo, ritardo che
avrebbe cagionato la decadenza della previsione urbanistica
ex art. 55 della L.R. n. 1/2005, sia dello stravolgimento
della variante del regolamento urbanistico adottata; gli
esponenti evidenziano che l’Amministrazione responsabile del
ritardo ha causato la sopravvenienza di una normativa
urbanistica preclusiva dell’intervento oggetto della domanda
del privato: secondo i deducenti, il decorso infruttuoso del
termine del procedimento costituisce indice presuntivo di
colpa, l’affidamento del privato sulla certezza dei tempi
dell’azione amministrativa è di per sé meritevole di tutela
ed il danno è costituito dalla procurata impossibilità di
realizzare le opere progettate, cui corrisponde una perdita
patrimoniale di euro 6.104.000. Sotto altro profilo, gli
istanti lamentano che la vicenda, mettendo in forse per anni
il futuro dei loro beni e delle loro aziende, li avrebbe
cagionato una malattia a livello psichico rilevante quale
danno esistenziale.
I suddetti rilievi non sono condivisibili.
L’originaria documentazione allegata alla proposta di piano
attuativo presentata dai deducenti era incompleta, come
dimostrano le richieste istruttorie della Conferenze dei
Servizi e della Regione.
I ricorrenti hanno presentato nuovi elaborati in data
20.06.2008, cui hanno fatto seguito i pareri positivi, in
data 10.10.2008 e 19.12.2008, della competente
Circoscrizione (chiamata a pronunciarsi in quanto titolare
di funzioni consultive su argomenti di specifico interesse
della circoscrizione e su provvedimenti di competenza
dell’Amministrazione comunale aventi carattere generale, in
forza del regolamento dei consigli di circoscrizione) e
della Commissione urbanistica.
Di conseguenza, assumendo come dies a quo la data
dell’ultimo parere acquisito, il procedimento di
approvazione del piano attuativo avrebbe dovuto concludersi
prima del venir meno dell’efficacia del regolamento
urbanistico (cioè prima del 14.04.2009) alla luce del tenore
letterale dell’art. 22 della legge n. 136/1999, secondo cui
l’approvazione, da parte dei consigli comunali, dei piani
attuativi di iniziativa privata deve intervenire entro il
termine di 90 giorni a decorrere dalla presentazione
dell’istanza corredata dei prescritti elaborati o, qualora
siano necessari, dalla acquisizione dei pareri o nulla osta.
Occorre tuttavia considerare che gli atti impugnati sono,
come visto, legittimi e che il giudice amministrativo può
riconoscere il risarcimento del danno causato al privato dal
comportamento inoperoso dell'Amministrazione solo quando sia
stata accertata la spettanza del c.d. bene della vita,
atteggiandosi così il riconoscimento del diritto del
ricorrente al bene della vita come presupposto
indispensabile per configurare una condanna al risarcimento
del relativo danno (Consiglio di Stato, IV, 07.03.2013, n.
1406; idem, 28.05.2013, n. 2899; TAR Lazio Roma, III,
19.07.2013, n. 7386; TAR Liguria, I, 02.07.2013, n. 985).
D’altro canto, l'approvazione del piano attuativo non è atto
dovuto, ancorché esso risulti conforme al regolamento
urbanistico al momento vigente, essendo l'approvazione
medesima sempre espressione di potere discrezionale
dell'organo deputato a valutare l'opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico
generale; ciò in quanto tra quest'ultimo e i suoi strumenti
attuativi sussiste un rapporto di necessaria compatibilità,
ma non di formale coincidenza (Cons. Stato, IV, 12.03.2013,
n. 1479; TAR Lombardia, Brescia, I, 12.01.2016, n. 23; TAR
Puglia, Bari, III, 12.03.2015, n. 403)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 12.12.2016 n. 1768 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Rettifica
aree edificabili, serve la dichiarazione Imu.
Per rettificare i valori delle aree edificabili serve la
dichiarazione Ici, Imu e Tasi. È l'unico strumento che
possono utilizzare i contribuenti, che sono sempre tenuti a
denunciare ai comuni i valori, per evitare che possano
essere utilizzati come base di calcolo delle imposte quelli
già dichiarati nei periodi d'imposta pregressi. Questi dati,
infatti, non sono acquisibili dalla banca dati catastale.
Così la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
ordinanza 02.12.2016 n. 24713.
Per i giudici, se la dichiarazione è stata presentata in
passato ha un'efficacia ultrattiva e vale per Ici, Imu e
Tasi fino a quando l'interessato non produce una
dichiarazione rettificativa del valore dell'area a suo tempo
denunciato. Questo obbligo informativo, secondo la
Cassazione, «non ammette equipollenti». «Ne
consegue che la dichiarazione Ici del 2006 resa da ciascun
contribuente, in assenza di dichiarazione rettificativa del
valore, conserva effetto anche per gli anni successivi».
Una volta presentate le dichiarazioni Ici o Imu
(quest'ultima vale anche per la Tasi) non ci sono più
obblighi successivi, fino a che non intervengano variazioni
dei dati comunicati all'ente impositore. La dichiarazione
per le imposte locali è ultrattiva, vale a dire produce
effetti anche per le annualità successive se il contribuente
non presenta una denuncia di variazione.
La regola vale anche per il valore di mercato delle aree
edificabili, che però potrebbe subire delle variazioni nel
corso del tempo. Non tutti i contribuenti sono obbligati a
denunciare per l'Imu gli immobili di cui sono titolari, così
come non lo erano ai tempi di vigenza dell'Ici. Non sono
tenuti a presentare la dichiarazione Imu i possessori di
immobili adibiti a abitazione principale, con relative
pertinenze, e coloro che hanno già presentato la
dichiarazione Ici.
I contribuenti che invece hanno ceduto o acquistato immobili
o la titolarità di altri diritti reali a partire dal 2012
devono inoltrare la dichiarazione al comune, a meno che gli
elementi rilevanti ai fini dell'imposta non siano
acquisibili attraverso la consultazione della banca dati
catastale o gli enti non siano già in possesso delle
informazioni necessarie per verificare il corretto
adempimento dell'obbligazione tributaria.
In generale, l'obbligo deve essere assolto da coloro che
vantino il diritto a fruire di agevolazioni
(articolo ItaliaOggi del 10.01.2017).
---------------
MASSIMA
Questa Corte
(cfr. Cass. sez. 5, 04.06.2007, n. 12989),
con riferimento a quanto previsto dal secondo e terzo
periodo del comma 40 dell'art. 10 del d.lgs. n. 504/1992,
per effetto dei quali, quando si verifichino modificazioni
dei dati o variazioni negli elementi dichiarati cui consegua
un diverso ammontare dell'imposta dovuta, va rinnovata
l'originaria dichiarazione, ha affermato che l'onere di
denuncia a carico del contribuente, nelle forme indicate
dalla norma, delle variazioni intervenute entro il termine
di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa
all'anno in cui le variazioni si sono verificate, comporta
che la sussistenza dell'obbligo di denuncia a carico del
contribuente esoneri l'ente impositore dall'onere di
accertamento del verificarsi di eventi che giovino alla
controparte.
Detto obbligo informativo, che non ammette
equipollenti (cfr.
Cass. sez. 5, 12.09.2012, n. 15235), è
sopravvissuto pur a seguito della novella di cui all'art.
37, comma 53, del d.l. n. 223/2006, quale convertito in
legge n. 248/2006 che, pur sopprimendo il generale obbligo
di presentazione della dichiarazione ai fini ICI con
decorrenza dall'anno 2007, ha fatto salve le ipotesi delle
modificazioni soggettive e oggettive comportanti riduzioni
d'imposta, non conoscibili per via officiosa dal Comune
attraverso la consultazione della banca dati catastale
(più di recente, cfr. Cass. sez. 6-5, ord. n. 17562 e 17563
del 02.09.2016).
Ne consegue che la dichiarazione ICI del 2006 resa da
ciascun contribuente, in assenza di dichiarazione
rettificativa del valore, conserva effetto anche per gli
anni successivi (si vedano anche le ulteriori pronunce
richiamate in ricorso dall'ente locale, Cass. sez. 5, nn.
4839, 4840, 4841, 4842, dell'11.03.2015 e Cass. sez. 5,
18.03.2015, n. 5399).
A detto principio la sentenza impugnata non si è attenuta,
operando un abbattimento del valore delle aree in oggetto
nella misura del 50%, valutazione che l'Amministrazione ha
altresì censurato con un secondo motivo di ricorso, che può
ritenersi assorbito, così come l'ulteriore successivo
motivo, alla stregua delle considerazioni sopra esposte. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti,
la negligenza si paga. Gestione illecita: l'obbedienza non
salva il lavoratore. Risponde
penalmente il dipendente che non verifica la legittimità
dell'ordine datoriale.
Della gestione illecita di rifiuti risponde il dipendente di
una azienda privata che la pone materialmente in essere
eseguendo un ordine del datore di lavoro della cui
illegittimità avrebbe dovuto accorgersi.
Questo il principio di diritto sotteso alla
sentenza 30.11.2016 n. 50760
della Suprema Corte di Cassazione, Sez. III penale, che da
un lato conferma la non applicabilità della scriminante
dell'«adempimento del dovere» ex articolo 51 del codice
penale ai rapporti di diritto privato e dall'altro richiede
comunque la sussistenza dell'elemento psicologico in capo
all'autore della condotta contra legem per
l'integrazione del reato.
Il fatto.
La fattispecie sottesa alla decisione della Corte di
cassazione verte sull'attività di raccolta e trasporto di
rifiuti sia urbani che speciali prodotti da terzi effettuata
da un dipendente di una azienda privata senza la necessaria
iscrizione all'albo nazionale dei gestori ambientali.
Il lavoratore, si evince dalla sentenza di legittimità, era
stato assolto dal reato ex articolo 256, comma 1, lettera a)
(attività di gestione di rifiuti non pericolosi senza
autorizzazione) del dlgs 152/2006 ad opera del giudice di
prime cure, avendo questi ritenuto assente l'elemento
soggettivo poiché in qualità di operaio si era limitato ad
obbedire ad un ordine del datore di lavoro senza obbligo di
contestarlo o di sottrarsi ad esso.
Contro la sentenza assolutoria (pronunciata nella formula de
«il fatto non costituisce reato») proponeva ricorso per
Cassazione la Procura della repubblica, che deduceva (tra le
altre) l'erronea applicazione della legge penale nella parte
in cui la scriminante dell'adempimento di un dovere,
richiamata implicitamente dalla sentenza di assoluzione,
sarebbe stata dal giudice di primo grado applicata ad un
rapporto di carattere privatistico, laddove la legge ne
limita invece la portata alle disposizioni operative
provenienti da una autorità pubblica.
La norma.
La regola di diritto sostanziale sulla quale ruota il caso
in esame è quella prevista dall'articolo 51 del codice
penale (dalla rubrica: «Esercizio di un diritto o
adempimento di un dovere»), a mente del quale: «L'esercizio
di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una
norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica
Autorità, esclude la punibilità. Se un fatto costituente
reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato
risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo
che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire a un
ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l'ordine
illegittimo, quando la legge non gli consente alcun
sindacato sulla legittimità dell'ordine».
La sentenza della Cassazione.
Accogliendo il ricorso della Procura, e per l'effetto
annullando la sentenza impugnata, la Corte di cassazione ha
con la pronuncia in esame confermato l'orientamento
giurisprudenziale in base al quale il suddetto articolo 51
del codice penale trova applicazione esclusivamente ai
rapporti di subordinazione previsti dal diritto pubblico e
non anche a quelli di matrice privata, come quelli posti in
essere tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti.
Ne deriva, precisa la Corte di cassazione nella sentenza
50760/2016, che i dipendenti privati sono (in primo luogo)
tenuti a verificare secondo gli ordinari canoni di diligenza
la rispondenza alla legge delle disposizioni operative
ricevute dai propri datori di lavoro e (in secondo luogo)
obbligati a rifiutarne l'esecuzione qualora rilevino
l'illegittimità degli ordini stessi.
Nell'annullare la sottesa sentenza di assoluzione, la Corte
di cassazione ha però rimesso la fattispecie al tribunale di
merito per verificare (alla luce del principio di diritto
espresso) l'effettiva presenza in capo al dipendente in
parola dell'elemento soggettivo del reato.
Il contesto giuridico.
La richiesta formulata dalla Suprema corte della necessaria
verifica della presenza dell'elemento psicologico del reato
appare utile (anche) per comprendere l'effettiva rilevanza
dell'ordine illegittimo nell'ambito del rapporto di lavoro
privato. L'istituto previsto dall'articolo 51 del codice
penale deve infatti, dal punto di vista dottrinale, essere
sistematicamente collocato tra le cause «oggettive» di
esclusione del reato.
La scriminante dell'adempimento del dovere (al pari del
consenso dell'avente diritto, della legittima difesa, dello
stato di necessità parimenti codificate) ove applicabile,
rende infatti la condotta lecita incidendo sul piano del
«fatto tipico» commesso, facendone venir meno la c.d.
«antigiuridicità», senza giungere quindi a toccare il terzo
elemento necessario per la configurazione del reato, ossia
quello della «colpevolezza».
Dunque, ove una determinata condotta corrisponda sì al
«fatto tipico» previsto dalla norma penale (per aver
l'autore posto in essere proprio l'azione prevista e
provocato l'evento conseguente), sia al contempo anche
«antigiuridica» (perché non scriminata da una causa di
giustificazione, insistente o non applicabile, come nel caso
in esame), per essere effettivamente rilevante quale reato
deve comunque essere imputabile al soggetto agente sotto il
profilo della «colpevolezza» (ossia, a titolo di dolo o
colpa).
Dunque, la non applicabilità della scriminante ex articolo
51 c.p. al lavoratore privato che ha eseguito un ordine
illegittimo del datore di lavoro rende sempre necessaria
l'indagine sulla sussistenza di un errore (e sua eventuale
scusabilità) commesso dal dipendente stesso nel valutare
come lecito tale ordine. E in tal senso appare essere dalla
dottrina letta la stratificata giurisprudenza formatasi in
materia.
In base all'applicazione dei principi generali in materia di
«colpevolezza», rilevano autorevoli Autori, la punibilità
dell'esecutore di un ordine privato illecito dovrebbe
comunque essere esclusa nel caso in cui tale soggetto non
avesse avuto né la consapevolezza né la possibilità concreta
di percepire la illiceità del fatto commesso.
Dunque rileva la stessa dottrina, al lavoratore privato
subordinato che per limitate cognizioni tecniche o per
situazione di fatto non sia in grado di rendersi conto della
illegittimità dell'ordine ricevuto non potrebbe essere
rimproverata a titolo, appunto, di «colpa» la condotta posta
in essere
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.01.2017). |
VARI: La
ragione non è sempre del pedone.
Il conducente di un motociclo che investe un pedone rischia
la patente. Ma quando è evidente che il pedone ha torto pure
lui e la polizia non contesta violazioni la revisione della
licenza di guida non è necessaria.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con la
sentenza 29.11.2016 n. 1632.
Un utente a due ruote ha investito un pedone su una strada
buia, con vegetazione ai lati. All'esito dei rilievi la
polizia non ha contestato alcuna infrazione al conducente
motorizzato che viaggiava a bassa velocità ma la
motorizzazione ha comunque disposto la revisione della
licenza di guida per l'insorgenza di dubbi sui requisiti di
idoneità tecnica ai sensi dell'art. 128 cds.
Contro questa
determinazione l'interessato ha proposto con successo
ricorso al Tar. Oltre al mancato rilievo di infrazioni a
carico del conducente, specifica il collegio, il fatto che
il pedone si sia avventurato in mezzo ad una strada buia,
senza strisce pedonali ed in presenza di una folta
vegetazione inducono a considerare diversamente l'abilità
dell'autista che non avendo violato neppure i limiti di
velocità non può essere sottoposto a revisione della
patente
(articolo ItaliaOggi del 06.01.2017). |
TRIBUTI: Inammissibile
il ricorso tributario a mezzo Pec.
È inammissibile il ricorso tributario notificato a mezzo
Pec, salvo che ciò avvenga in una delle regioni che hanno
avviato il processo tributario telematico. In tutte le
altre, la notifica deve soggiacere alle modalità classiche,
stabilite dagli articoli 16 e 16-bis del dlgs n. 546/92, tra
le quali non rientra la Pec.
È quanto si legge nella
sentenza
25.11.2016 n. 2951/04/2016 della Ctp di Lecce. Il
collegio pugliese ha dichiarato inammissibile un ricorso
proposto contro un avviso di pagamento, relativo al
pagamento di un contributo consortile.
La notifica dell'atto alla controparte era avvenuta a mezzo
Pec, e la ricevuta veniva depositata in Commissione
tributaria, unitamente al fascicolo di costituzione in
giudizio. I giudici leccesi hanno ricordato il ricorso
tributario debba essere proposto, a pena di inammissibilità,
secondo le regole stabilite dal dlgs 546/1992 e, nello
specifico: a mezzo ufficiale giudiziario; consegna diretta
all'ufficio; spedizione postale in plico senza busta,
raccomandata con avviso di ricevimento.
La sentenza ricorda che, a partire dal 2015, e con cadenze
scaglionate di regione in regione, per talune di esse è
partito il c.d. Ptt, Processo tributario telematico e, per
l'esattezza: 01.12.2015 per le Commissioni tributarie
presenti nelle regioni Toscana e Umbria; 15.10.2016 per
le Commissioni tributarie presenti nelle regioni Abruzzo e
Molise; 15.11.2016 per le Commissioni tributarie
presenti nelle regioni Liguria e Piemonte; 15.12.2016
per le Commissioni tributarie presenti nelle regioni
Emilia-Romagna e Veneto.
Dunque, la notificazione del ricorso via Pec, sistema
comunque facoltativo e alternativo alla modalità ordinaria,
è ammesso, soltanto nelle regioni dove sia stato avviato il
processo tributario telematico. Così che, siffatta notifica,
in una regione diversa, deve ritenersi illegittima e, come
tale, pregiudica l'ammissibilità del ricorso stesso.
Analogamente al caso in commento, la Ctr del Lazio aveva
emesso la sentenza n. 5019/02/15 del 24.09.2015,
dichiarando inammissibile un appello notificato via Pec. La
notifica di un appello tributario a mezzo Pec, spiegava il
collegio capitolino, rende il gravame inammissibile per
l'inesistenza giuridica della sua notificazione poiché
l'utilizzo di tale procedura è rimandato a un decreto delle
Finanze che fisserà le relative regole tecniche che
consentiranno l'utilizzo del mezzo informatico.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La disamina del complesso delle censure mosse
dalle parti in causa deve iniziare, in ragione del suo
carattere preliminare, dall'eccezione di rito sollevata dal
consorzio di bonifica.
Osserva questa commissione che il ricorso deve essere
proposto, a pena di inammissibilità, entro 60 giorni dalla
data di notificazione dell'atto impugnato. La notifica del
ricorso all'ente impositore da parte del ricorrente deve
avvenire secondo una delle seguenti modalità (art. 16, commi
2 e 3, e art. 16-bis dlgs n. 546 del 1992):
- notifica a mezzo ufficiale giudiziario (art. 137 c.p.c.);
- consegna diretta da parte del ricorrente all'ufficio
impositore, che ne rilascia ricevuta;
- spedizione postale, in plico raccomandato senza busta con
avviso di ricevimento, all'ente impositore che ha emanato
l'atto.
A partire dal 01.01.2016 le notifiche tra le parti possono
avvenire in via telematica secondo le disposizioni contenute
nel regolamento sui processo tributario telematico (dm del
23.12.2013, n. 163); l'indicazione dell'indirizzo di Pec ha
valore di elezione di domicilio a tutti gli effetti (art.
16-bis, comma 4, dlgs n. 546 del 1992).
Tale sistema di notificazione, comunque facoltativo e
alternativo alla modalità ordinaria, è ammesso, dapprima
soltanto nelle regioni Umbria e Toscana, dove è stato
avviato il processo tributario telematico; con la
pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del 10.08.2015,
numero 184, del decreto del direttore generale delle
finanze, 04.08.2015, sono state definite le regole tecniche
che le parti, che intendono costituirsi con modalità
telematica, debbono rispettare per i processi tributari
innanzi alle Commissioni della Toscana e dell'Umbria.
Inoltre, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del
12.07.2016, numero 161, del decreto del direttore generale
delle Finanze, 30.06.2016, le predette regole tecniche sono
state estese ad altre sei regioni.
Il Ptt è quindi attivo, relativamente ai ricorsi e appelli
notificati a partire dai:
- 01.12.2015 per le Commissioni tributarie presenti nelle
regioni Toscana e Umbria;
- 15.10.2016 per le Commissioni tributarie presenti nelle
regioni Abruzzo e Molise;
- 15.11.2016 per le Commissioni tributarie presenti nelle
regioni Liguria e Piemonte;
- 15.12.2016 per le Commissioni tributarie presenti nelle
regioni Emilia-Romagna e Veneto.
In conclusione, il Ptt non è attivo nella regione Puglia e,
pertanto, non è ammissibile la notifica del ricorso a mezzo
Pec; di conseguenza, poiché è stata utilizzata per la
notifica del ricorso una modalità non prevista dal
legislatore, il ricorso va dichiarato inammissibile,
trattandosi di notifica inesistente.( )
(articolo ItaliaOggi Sette del
02.01.2017). |
TRIBUTI: Il
valore del terreno non si ricava dagli annunci web.
Imposte indirette. La rettifica deve fondarsi sulla stima
dell’ufficio tecnico erariale e il contribuente può
presentare una perizia
No alla rettifica del valore di
compravendita di un terreno agricolo fondato su dati non
ufficiali, ricavati dalle quotazioni riportate su annunci
immobiliari pubblicati online. Per la stima
l’amministrazione finanziaria deve incaricare l’ufficio
tecnico erariale del Catasto e, da canto suo, il
contribuente può produrre una perizia di parte.
Così si è espressa la Ctr Lombardia-Brescia con la
sentenza 24.11.2016 n. 6160/65/2016
(presidente Tizzi, relatore Arcieri).
La vicenda trae origine dalla cessione di un terreno. Il
contribuente vendeva un’area boschiva di 14 ettari,
coltivata per buona parte a uliveto e vigneto, per 88mila
euro. Una volta registrato l’atto, l’amministrazione
notificava a lui e all’acquirente un avviso di rettifica e
liquidazione, dove richiedeva maggiori imposte di registro e
ipocatastali scaturenti dalla rideterminazione del valore di
compravendita per oltre 590mila euro.
Sia il venditore che l’acquirente proponevano ricorsi
distinti, che venivano successivamente riuniti dal giudice,
contestando entrambe la fondatezza dell’atto dal momento che
i valori rettificati si basavano esclusivamente sulle
inserzioni di annunci immobiliari apparsi su un sito web. I
contribuenti, inoltre, sottolineavano che i valori
dichiarati erano congrui in quanto risultanti da una perizia
allegata al fascicolo processuale, non contestata
successivamente dall’ufficio.
L’amministrazione resisteva, dichiarando che il valore
desunto dagli annunci immobiliari presenti sul sito web era
fortemente indicativo dei valori di mercato. Inoltre, la
rideterminazione del valore di compravendita era stata
ottenuta dall’amministrazione seguendo le indicazioni per la
rettifica del valore venale prevista dall’imposta di
registro. In questi casi, in base alla tesi sostenuta
dall’ufficio, si controlla il valore dichiarato in atto per
i trasferimenti immobiliari anteriori di non oltre tre anni
aventi a oggetto immobili con pari caratteristiche e
condizioni; si esamina altresì ogni altro elemento di
valutazione, compresi quelli eventualmente forniti dai
Comuni.
I giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio danno,
però, ragione ai contribuenti. In particolare secondo la Ctr
Lombardia:
l’amministrazione, in caso di terreno agricolo, deve
preventivamente affidare all’ufficio tecnico erariale del
Catasto l’incarico tecnico della stima, se vuole disporre di
dati reali, certi e ufficiali grazie ai quali rideterminare
il valore di compravendita, anziché riferirsi alle notizie
ricavate dalla stampa, dalla strada e/o da siti web per
annunci immobiliari di aziende agricole situate nella stessa
zona;
il contribuente può sempre produrre nella fase processuale
una perizia di parte in grado di fare emergere valori
aderenti alla realtà per sopperire al mancato assolvimento
dell’onere probatorio da parte dell’amministrazione, al fine
di fare emergere valori aderenti alla realtà durante il
processo tributario.
(articolo Il Sole 24 Ore del
02.01.2017). |
APPALTI: Si
tratta, nella fattispecie, della carenza di un elemento
essenziale dell’offerta, non già della carenza di
dichiarazioni relative ai requisiti di partecipazione, di
guisa che non si può ritenere attivabile, nella fattispecie,
il soccorso istruttorio, ai sensi degli artt. 38 e 46 del
Codice appalti (D.Lgs. n. 163/2006).
In altri termini, la carenza non integra una mera
incompletezza o irregolarità documentale, bensì un vizio
dell’offerta economica, per il quale non si può consentire
un’integrazione documentale postuma, senza che sia violata
la par condicio del concorrenti.
---------------
Poiché il RTI non esiste ancora giuridicamente, non
essendosi costituito con atto pubblico, è necessario che
ciascuna ditta sottoscriva le offerte e i documenti che ne
fanno parte.
Non vi è, pertanto, alcun dubbio né incertezza che l’art. 8,
comma 9, del disciplinare di gara –nella parte in cui
consente che il sopralluogo possa essere eseguito almeno da
una delle imprese componenti l’associazione temporanea di
imprese– si riferisca alla possibilità per le associande di
delegare una delle imprese ad eseguire il sopralluogo,
ovvero alla situazione alternativa in cui il RTI sia già
costituito giuridicamente, come rapporto contrattuale di
mandato, e nell’ambito di tale rapporto, le associate
condividano e accettino l’operato e le dichiarazioni di
ciascuna di esse, come se il RTI fosse un soggetto unico.
Non a caso, il Consiglio di Stato, in alcune pronunce su
casi analoghi, ha statuito che l’obbligo di eseguire il
sopralluogo posto a carico dei soggetti partecipanti non può
che riferirsi a ciascun concorrente che costituirà il RTI e
l’attestato di sopralluogo, la cui mancanza determina
l’esclusione dalla gara, deve riferirsi a tutte le imprese
partecipanti.
---------------
Non vi è stata alcuna violazione, né
falsa applicazione della lex specialis, in quando è proprio
il disciplinare di gara a prevedere che la dichiarazione del
sopralluogo sia componente essenziale dell’offerta economica
(art. 8.3, lett. e) e che tutte le imprese del costituendo
RTI debbano sottoscriverla (art. 13, comma 4).
Conseguentemente, non è rilevabile alcuna violazione della
normativa di settore (D.Lgs. n. 163/2006, D.P.R. n.
207/2010, n. 445/2000), poiché detta normativa –inteso e non
concesso che essa preveda qualcosa di diverso o difforme
dalla lex specialis- è recessiva rispetto alla disciplina
speciale della gara.
Ad ogni modo, detta disciplina di gara appare coerente con
la normativa di settore, nel prevedere che l’offerta
economica contenga l’attestazione di presa visione da parte
delle imprese offerenti, degli elaborati progettuali e del
sopralluogo assistito –attestazione che pone al riparo la
stazione appaltante da eventuali contestazioni postume- e
che tale attestazione sia sottoscritta da tutte le imprese
che non abbiano ancora costituito un raggruppamento ad hoc.
---------------
IV – L’impugnata esclusione del ricorrente RTI è, tuttavia,
da ritenersi legittima.
Parte ricorrente contesta l’assunto, posto a base del
provvedimento impugnato, di aver violato la clausola della
lex specialis che imponeva ai concorrenti
l’esecuzione di un sopralluogo assistito in prossimità dei
siti oggetto dell’intervento. Infatti, ai sensi dell’art. 8,
comma 9, del disciplinare di gara il detto sopralluogo può
essere eseguito almeno da una delle imprese componenti
l’associazione temporanea di imprese e, nel caso di specie,
è incontestato che una delle partecipanti al RTI ricorrente
(la Ze. S.r.l.), abbia in effetti eseguito il sopralluogo.
Peraltro, a dire del ricorrente, detto art. 8, comma 9, del
disciplinare di gara non farebbe alcuna distinzione tra
imprese componenti un’associazione costituita e imprese
componenti un’associazione costituenda.
Tuttavia, va rilevato che l’art. 8.3 del detto disciplinare,
alla lettera e), prevede che nella busta C) dell’offerta
economica sia allegata, a pena di esclusione, l’attestazione
dell’avvenuta presa visione degli elaborati progettuali e
dell’esecuzione del sopralluogo. Inoltre, il successivo art.
13, comma 4, del medesimo disciplinare distingue tra
raggruppamenti costituiti e costituendi, laddove dispone che
“l’offerta e le relative dichiarazioni debbono essere
sottoscritte, a pena di esclusione, da tutte le imprese che
costituiranno i raggruppamenti o consorzi ordinari di
concorrenti o GEIE”.
Nel caso di specie, trattandosi di RTI non ancora costituito, la dichiarazione dell’avvenuta
presa visione degli elaborati progettuali e dell’esecuzione
del sopralluogo, avrebbe dovuto essere sottoscritta dalle
tre imprese del costituendo RTI, non da una sola di esse. Ma
perché ciò avvenisse, sarebbe stato necessario che le due
imprese che non hanno effettuato il sopralluogo, avessero
delegato la terza ad effettuarlo, ovvero avessero accettato
in qualche modo per iscritto, allegando all’offerta
economica tale liberatoria, che la Ze. S.r.l. eseguisse il
sopralluogo in nome e per conto delle altre due associande.
Parte ricorrente si duole del fatto che l’art. 8.1 del
disciplinare non preveda tra i documenti della busta A)
(documentazione amministrativa) l’allegazione
dell’attestazione de qua, ma omette di rilevare che tale
allegazione è espressamente prevista tra i documenti della
busta C) (offerta economica), ed è prevista a pena di
esclusione (art. 8.3, lett. e).
Si tratta, dunque, della carenza di un elemento essenziale
dell’offerta, non già della carenza di dichiarazioni
relative ai requisiti di partecipazione, di guisa che non si
può ritenere attivabile, nella fattispecie, il soccorso
istruttorio, ai sensi degli artt. 38 e 46 del Codice appalti
(D.Lgs. n. 163/2006). In altri termini, la carenza non
integra una mera incompletezza o irregolarità documentale,
bensì un vizio dell’offerta economica, per il quale non si
può consentire un’integrazione documentale postuma, senza
che sia violata la par condicio del concorrenti (cfr.: Cons.
Stato V, 11.04.2016 n. 1412; Tar Basilicata Potenza I,
12.04.2016 n. 350).
Poiché il RTI non esiste ancora giuridicamente, non
essendosi costituito con atto pubblico, è necessario che
ciascuna ditta sottoscriva le offerte e i documenti che ne
fanno parte. Non vi è, pertanto, alcun dubbio né incertezza
che l’art. 8, comma 9, del disciplinare di gara –nella parte
in cui consente che il sopralluogo possa essere eseguito
almeno da una delle imprese componenti l’associazione
temporanea di imprese– si riferisca alla possibilità per le
associande di delegare una delle imprese ad eseguire il
sopralluogo, ovvero alla situazione alternativa in cui il
RTI sia già costituito giuridicamente, come rapporto
contrattuale di mandato, e nell’ambito di tale rapporto, le
associate condividano e accettino l’operato e le
dichiarazioni di ciascuna di esse, come se il RTI fosse un
soggetto unico (cfr.: Tar Palermo II, 29.04.2013 n. 993).
Non a caso, il Consiglio di Stato, in alcune pronunce su
casi analoghi, ha statuito che l’obbligo di eseguire il
sopralluogo posto a carico dei soggetti partecipanti non può
che riferirsi a ciascun concorrente che costituirà il RTI e
l’attestato di sopralluogo, la cui mancanza determina
l’esclusione dalla gara, deve riferirsi a tutte le imprese
partecipanti (cfr.: Cons. Stato IV, 19.10.2015 n. 4778; idem
IV, 17.02.2014 n. 744).
I motivi del ricorso sono, pertanto, infondati.
Non vi è stata alcuna violazione, né falsa applicazione
della lex specialis, in quando è proprio il
disciplinare di gara a prevedere che la dichiarazione del
sopralluogo sia componente essenziale dell’offerta economica
(art. 8.3, lett. e) e che tutte le imprese del costituendo
RTI debbano sottoscriverla (art. 13, comma 4).
Conseguentemente, non è rilevabile alcuna violazione della
normativa di settore (D.Lgs. n. 163/2006, D.P.R. n.
207/2010, n. 445/2000), poiché detta normativa –inteso e non
concesso che essa preveda qualcosa di diverso o difforme
dalla lex specialis- è recessiva rispetto alla
disciplina speciale della gara. Ad ogni modo, detta
disciplina di gara appare coerente con la normativa di
settore, nel prevedere che l’offerta economica contenga
l’attestazione di presa visione da parte delle imprese
offerenti, degli elaborati progettuali e del sopralluogo
assistito –attestazione che pone al riparo la stazione
appaltante da eventuali contestazioni postume- e che tale
attestazione sia sottoscritta da tutte le imprese che non
abbiano ancora costituito un raggruppamento ad hoc.
Neppure sono riscontrabili, nel caso di specie, le
contestate violazioni dei principi di parità di trattamento,
trasparenza, imparzialità dell’azione amministrativa, poiché
la carenza dell’offerta economica non è sanabile mediante il
soccorso istruttorio.
Infine, appaiono destituite di fondamento anche le censure
di difetto di istruttoria, travisamento ed erroneità dei
fatti, eccesso di potere, contraddittorietà, illogicità,
proporzionalità, atteso che la motivazione dell’impugnata
esclusione dalla gara del ricorrente appare congrua,
ragionevole, coerente e non è intaccata dai rilievi del
ricorso
(TAR Molise,
sentenza 24.11.2016 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Il
sottotetto non è del costruttore.
Parti comuni. La Cassazione conferma.
La Corte di
Cassazione (Sez. II civile,
sentenza
23.11.2016 n. 23902, relatore Antonio Scarpa) ha
ribadito che
il sottotetto è proprietà comune condominiale a
meno che non risulti diversamente dall'atto di acquisto o
dalle caratteristiche strutturali del sottotetto medesimo.
In particolare, la società costruttrice rivendicava la
proprietà esclusiva dei sottotetti nei confronti del
condominio, assumendo che gli stessi non fossero stati
oggetto di singole vendite e non potesse trovare
applicazione l’articolo 1117 del Codice civile. Secondo la
definizione elaborata dalla dottrina e della giurisprudenza,
il sottotetto è quell’ambiente posto tra il soffitto
dell’ultimo piano ed il tetto dell’edificio e serve a
proteggere questo piano dal caldo, dal freddo e
dall’umidità, formando una camera d’aria tra il tetto ed il
solaio.
Nel caso che affrontato dalla Cassazione i giudici hanno
confermato la piena applicabilità al caso di specie
dell’articolo 1117 del Codice civile che definisce le parti
comuni del condominio. In particolare questo articolo di
legge prevede proprio al punto 2 che i sottotetti debbano
considerarsi oggetto di proprietà comune dei proprietari
delle singole unità immobiliari dell’edificio condominiale.
Ciò significa che il sottotetto appartiene a ciascun
condòmino pro quota che lo può usare come ogni altro vano
condominiale, purché non ne impedisca il pari uso e
godimento agli altri condòmini. Al sottotetto andranno
quindi applicate le regole fissate dal Codice per le parti
comuni dell’edificio e i criteri di ripartizione delle spese
previsti dall’articolo 1123 del Codice.
Indipendentemente da questa nuova indicazione legislativa,
già la Cassazione si era pronunciata più volte in questo
senso, ovvero ritenendo i sottotetti destinati, per le loro
caratteristiche funzionali e strutturali, all’uso comune
(sentenze 6143/2016, 8968/2002 e 7764/1999).
Ove il rapporto di accessorietà tra il sottotetto e la
destinazione all’uso comune venga meno, lo stesso sottotetto
può essere ritenuto di pertinenza dell’appartamento
dell’ultimo piano se assolve all’esclusiva funzione di
isolarlo e proteggerlo dal caldo, dal freddo e dall’umidità.
La proprietà del sottotetto quindi si determina in base al
titolo (atto di compravendita o regolamento condominiale)
oppure in base alla funzione a cui è destinato.
In concreto, la proprietà esclusiva del sottotetto è da
escludersi in tutti i casi in cui i condomini possano
agevolmente accedervi, oppure vi siano degli impianti
comuni, o nel caso più frequente di agevolare il passaggio
al tetto. Ancora a ottobre di quest’anno la Cassazione, con
la sentenza n. 20038, si è espressa in senso analogo,
muovendo dalla presunzione di comunione del sottotetto in
base all’articolo 1117 del Codice civile, se non risulta
diversamente dal titolo o dalla funzione cui esso è
destinato in concreto (articolo Il Sole 24 Ore del
03.01.2017).
---------------
MASSIMA
Con il primo ed unico motivo di ricorso la Ed.
S.r.l. denuncia violazione e/o falsa applicazione della
normativa in materia di edilizia economica e popolare e,
segnatamente, del R.D. 28.04.1938, n. 1165; della legge n.
67/1988; della legge n. 865/1971; del d.P.R. n. 601/1973;
della legge n. 167/1978; della legge n. 457/1978; del d.m.
LL. PP. 05.08.1994; nonché degli artt. 1117 e 1418, in
relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c..
Nella sua rubrica il motivo fa, dunque, questione di
violazione e falsa applicazione di un complesso di norme in
tema di edilizia residenziale pubblica, ma poi,
irritualmente, nell'esposizione esso non indica le
specifiche argomentazioni in diritto contenute nella
sentenza gravata che si assumano in contrasto con
l'interpretazione di ciascuna di tali disposizioni di legge
fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla
prevalente dottrina.
Parimenti irrituale è il motivo di ricorso per cassazione
con cui si denunci la violazione di legge in relazione ad un
intero corpo di nonne, precludendo alla Corte di individuare
la norma che si assume violata o falsamente applicata
(Cass., sez. un., 18.07.2013, n. 17555).
Il motivo del ricorso di Ed. S.r.l., in ogni modo, si
sviluppa per oltre cento pagine, di cui la gran parte
costituite dalla integrale fotocopiatura dei documenti
inerenti la pratica edilizia intercorsa col Comune di
Bergamo.
Nella sua parte effettivamente espositiva, la censura
reitera le considerazioni già portate davanti alla Corte
d'appello in ordine al procedimento amministrativo, alla
necessaria adesione degli atti di acquisto delle singole
unità immobiliari al contratto di diritto pubblico stipulato
tra Comune e società costruttrice, alla nullità per
contrasto con norme imperative di una eventuale cessione
separata a terzi dei locali sottotetto, in quanto non
destinati ad abitazione. Si rappresenta che il fabbricato
del Condominio Al. è stato realizzato dalla Ed. S.r.l. nel "regime
dell'edilizia convenzionata/agevolata", avendo essa
beneficiato della costituzione del diritto di superficie sul
relativo lotto in forza di Convenzione del 16.06.1992
intervenuta col Comune di Bergamo, cui avevano fatto seguito
la concessione edilizia n. 7014/1992 per la realizzazione di
48 alloggi, 64 autorimesse e 8 sottotetti, oltre a cantine
ed accessori.
Quindi l'Amministrazione comunale aveva specificato le
condizioni di commercializzazione dei singoli alloggi e
delle parti comuni da parte della Ed. S.r.l., determinando i
prezzi ed escludendo da ogni negoziazione il sottotetto al
rustico, in quanto manufatto incompiuto ed in esubero
rispetto alla percentuale fissata dal d.m. LL.PP.
05.08.1994. In data 22.06.1995 era stato, infine, stipulato
il primo atto di compravendita di un alloggio compreso
nell'edificio. Da ciò la ricorrente insiste nel sostenere
che una riserva della proprietà dei sottotetti sarebbe stata
nulla e che nessuna applicazione al caso di specie possa
avere l'art. 1117 c.c..
La censura è del tutto priva di fondamento.
Non rileva, ai fini dell'esclusione dell'applicabilità
dell'art. 1117 c.c., il dato che l'intervento edilizio
realizzativo del Condominio Al. rientrasse nell'ambito della
cosiddetta "edilizia convenzionata", essendo la Ed.
s.r.l. soggetto attuatore di un programma edificatorio di
edilizia residenziale pubblica e concessionaria del diritto
di superficie sull'area, in forza di convenzione ex art. 35,
legge 22.10.1971, n. 865.
Questa legge prevede la stipula di una convenzione tra
l'amministrazione comunale ed il cessionario in piena
proprietà o, come nella specie, il concessionario del
diritto di superficie dell'area, soggetto attuatore
dell'intervento edilizio, che può essere, ancora come nella
specie, anche un'impresa di costruzione.
La convenzione in esame, oltre che il trasferimento della
proprietà o la costituzione del diritto di superficie,
disciplina termini, modalità, caratteristiche e garanzie
dell'intervento edilizio ed urbanistico, nonché la
successiva gestione degli alloggi da parte degli acquirenti,
determinando i vincoli e le limitazioni alla disponibilità
degli alloggi trasferiti. La convenzione predetermina,
pertanto, altresì le caratteristiche costruttive e
tipologiche degli edifici da realizzare, nonché l'obbligo a
praticare prezzi di cessione concordati. Già l'art. 23,
comma 2, della legge 17.02.1992, n. 179, abrogò, peraltro,
il divieto di alienazione degli alloggi costruiti su area
ceduta in proprietà, originariamente previsto dall'art. 35
citato.
Questa Corte ha chiarito, peraltro, che il
vincolo del prezzo massimo di cessione dell'immobile in
regime di edilizia agevolata ex art. 35 della 1. n. 865 del
1971, qualora non sia intervenuta la convenzione di
rimozione ex art. 31, comma 49-bis, della 1. n. 448 del
1998, segue il bene nei passaggi di proprietà, a titolo di
onere reale, con efficacia indefinita, attesa la ratio
legis di garantire la casa ai meno abbienti, senza
consentire operazioni speculative di rivendita
(Cass. Sez. U, Sentenza n. 18135 del 16/09/2015).
Una volta che si sia verificata
l'alienazione in piena proprietà degli alloggi costruiti
dall'impresa attuatrice dell'intervento edilizio
convenzionato, non vi sono, tuttavia, ostacoli normativi a
ritenere pienamente operante la normativa comune sugli
edifici in condominio di cui agli artt. 1117 segg. c.c..
Rilevano quindi, come correttamente affermato dalla Corte di
Brescia, i principi generali più volte affermati al riguardo
da questa Corte.
Sono oggetto di proprietà comune dei
proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio,
agli effetti dell'art. 1117 c.c.
(in tal senso, peraltro, testualmente integrato, con
modifica, in parte qua, di natura interpretativa, dalla
legge 11.12.2012, n. 220) i sottotetti
destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali,
all'uso comune
(già così, del resto, indipendentemente dall'integrazione
dell'art. 1117 c.c. nel richiamato senso, disposta dalla
Riforma del 2012, si erano pronunciate Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 6143 del 30/03/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n.
8968 del 20/06/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7764 del
20/07/1999).
Altrimenti, ove non sia evincibile il
collegamento funzionale, ovvero il rapporto di accessorietà
supposto dall'art. 1117 c.c., tra il sottotetto e la
destinazione all'uso comune o all'esercizio di un servizio
di interesse comune, giacché lo stesso sottotetto assolva
all'esclusiva funzione di isolare e proteggere dal caldo,
dal freddo e dall'umidità l'appartamento dell'ultimo piano,
e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da
consentirne l'utilizzazione come vano autonomo, esso va
considerato pertinenza di tale appartamento.
La proprietà del sottotetto si determina,
dunque, in base al titolo e, in mancanza, in base alla
funzione cui esso è destinato in concreto:
nel caso in esame, la Corte di appello di Brescia, con
apprezzamento di fatto spettante in via esclusiva al giudice
del merito, ha accertato che tali locali sottotetto del
Condominio Al., almeno fino al cambio della serratura, erano
stati utilizzati da tutti i condomini e che, pertanto, gli
stessi non fossero oggetto di un autonomo godimento,
desumendone convincentemente la condominialità dei beni in
questione.
Per negare la proprietà condominiale del
sottotetto di un edificio che, per ubicazione e struttura,
come accertato, sia destinato all'uso comune, occorre allora
fare riferimento all'atto costitutivo del condominio e,
quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità
immobiliare dall'originario unico proprietario ad altro
soggetto, indagando se la previa delimitazione unilaterale
dell'oggetto del trasferimento sia stata recepita nel
contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti e
se, dunque, da esso emerga, o meno, l'inequivocabile volontà
delle parti di riservare al costruttore-venditore la
proprietà di quel bene potenzialmente destinato all'uso
comune.
Così pure correttamente ragionando, i giudici del merito
hanno reputato non superata la presunzione di proprietà
comune dei sottotetti dell'edificio di via Tiepolo 12-14, il
che, peraltro, implica l'interpretazione della volontà
contrattuale, da collocare in relazione agli artt. 1362 e
segg. c.c..
La società ricorrente oppone che proprio un'eventuale sua
riserva pattizia di proprietà dei sottotetto -al fine di
impedire che con il trasferimento dei singoli alloggi,
venissero alienati pure i sottotetti, in forza dell'art.
1117 c.c.- avrebbe essa violato, piuttosto, il divieto di
negoziazione dei relativi volumi in eccesso.
L'osservazione è priva di congruenza, in quanto tenta di
ricavare, quale conseguenza automatica della mancata
menzione dei sottotetti negli atti di cessione degli
alloggi, proprio quell'effetto di separata circolazione
negoziale di tali beni, che la ricorrente stessa intende
vietata.
Conseguono il rigetto del ricorso e la regolazione secondo
soccombenza delle spese del giudizio di cassazione. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
responsabile vince sull'Anac.
ANTICORRUZIONE/ Tar del Lazio.
Anticorruzione sì, ma nel rispetto del principio di
legalità. L'authority non può ordinare al responsabile per
la prevenzione (Rpc) dell'ente vigilato di dichiarare la
nullità della nomina perché l'incarico risulta inconferibile.
E ciò perché non si può riconoscere all'autorità un potere
d'ordine tanto penetrante, anche in veste di «estremo
garante» contro il malaffare nella pubblica amministrazione:
procedere spetta soltanto al Rpc interno all'ente, che
assumerà poi le conseguenti decisioni.
Così la
sentenza 14.11.2016 n. 11270 del TAR Lazio-Roma,
Sez.
I.
Accolto il ricorso di un consorzio Asi campano: alla
presidenza dell'area di sviluppo industriale approva un
sindaco di un comune della zona e la delibera Anac accerta
l'inconferibilità dell'incarico. Il bello è che l'autorità
ordina al Rpc interno all'Asi di procedere alla
contestazione e di irrogare anche la sanzione ex art. 18 del
dlgs 39/2013, attuativo della legge Severino.
Ma in base
alla stessa riforma l'Anac non può intervenire in luogo del
responsabile della prevenzione nell'ente vigilato ma deve
limitarsi a esprimere al destinatario il suo orientamento,
sicuramente «molto qualificato»: spetta poi all'ente, nel
rispetto della sua autonomia organizzativa, adottare le
decisioni necessarie in materia di incompatibilità degli
incarichi nel rispetto della legge; diversamente, concludono
i giudici amministrativi, si finirebbe per trasformare in
modo surrettizio il controllo dell'authority in un vero e
proprio potere di sostituzione, al di fuori di un «adeguato
riconoscimento delle previsioni legislative».
Sbaglia l'Anac quando sostiene che a escludere l'esistenza
di un potere di sostituzione dell'autorità sull'ente
vigilato si verificherebbe un «vuoto di tutela» con
il rischio di «sterilizzare» gli effetti perseguiti
dalla normativa anticorruzione: non bisogna dimenticare,
sottolinea il Tar, che l'atto del responsabile della
prevenzione interno all'amministrazione può sempre essere
annullato dal giudice amministrativo.
Spese compensate per complessità della materia e novità
della questione
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Rifiuti
senza stagionalità. Per gli hotel tassa da pagare anche
chiusi. La Corte di cassazione non riconosce nessun esonero
del versamento.
Gli alberghi pagano la tassa rifiuti anche nel periodo in
cui sono chiusi e l'attività viene sospesa perché è finita
la stagione turistica. Nel periodo di sospensione
dell'attività non è previsto alcun esonero dal pagamento
della tassa.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione - Sez. V civile, con la
sentenza 09.11.2016 n. 22756, che smentisce le prese di posizione di
alcuni giudici di merito sull'esenzione dalla tassa delle
strutture ricettive durante il periodo di chiusura
stagionale.
Per i giudici di piazza Cavour, «la mancata utilizzazione
della struttura alberghiera in questione per alcuni mesi
dell'anno di per sé non può corrispondere alla previsione di
esenzione dal tributo». Le cause di esclusione dal pagamento
della tassa di un immobile adibito ad albergo «non possono
essere individuate nella mancata utilizzazione dello stesso
legata alla volontà o alle esigenze del tutto soggettive
dell'utente», così come non possono dipendere dal «mancato
utilizzo di fatto del locale o dell'area».
Secondo la
Cassazione, «non è sufficiente la sola denuncia di chiusura
invernale senza allegazione e prova della concreta
inutilizzabilità della struttura». In senso contrario si
sono espressi sulla questione i giudici di merito, che hanno
concesso una riduzione tariffaria per il mancato esercizio
dell'attività alberghiera durante alcuni mesi dell'anno.
Per
esempio, la Commissione tributaria provinciale di Livorno,
con la sentenza 518/2015, ha ridotto la tariffa del 30% per
attività stagionale della struttura alberghiera, poiché la
tassa va rapportata all'effettiva produzione di rifiuti.
In effetti, la tassa può essere ridotta per le attività
stagionali. I comuni hanno la facoltà di prevedere
agevolazioni fiscali, sempre che abbiano le risorse per
finanziarle e non incidano sui contribuenti soggetti al
prelievo. Questa era la regola per la Tarsu. Con
l'istituzione della Tari, invece, il consiglio comunale può
decidere di far ricadere il peso sull'intera platea dei
contribuenti oppure di finanziare le agevolazioni con
l'iscrizione in bilancio della relative somme come
autorizzazioni di spesa. Va rilevato che le spese non
coperte rimangono a carico della collettività e vanno
finanziate attraverso la fiscalità generale.
Con regolamento
possono essere deliberate esenzioni e riduzioni tariffarie
tipiche per particolari situazioni individuate dalla legge.
Ma devono essere comunque coperti i costi del servizio. Per
ogni contribuente che non paga o paga di meno, se le
agevolazioni non vengono finanziate, ci sono altri soggetti
che devono sostenere un esborso maggiore.
Il trattamento
agevolato può essere riconosciuto in presenza di determinate
circostanze in cui si presume che vi sia una minore capacità
di produzione di rifiuti. Per la Tari, tra l'altro, per le
riduzioni tariffarie non viene più fissato dalla norma un
tetto massimo: può anche superare il limite del 30%
stabilito in passato per la Tarsu.
Trattandosi, però, di una libera scelta, il giudice
tributario non può sostituirsi all'amministrazione comunale
nel concedere un beneficio fiscale, fissandone
arbitrariamente la misura
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2016). |
VARI: Aste?
Solo se informati. L'offerente deve vagliare gli atti
procedurali. La Cassazione sull'iter da seguire prima di
presentare le proposte.
È onere di tutti gli offerenti interessati all'acquisto di
un immobile sottoposto a procedura esecutiva - prima di
formulare offerte - esaminare non solo l'ordinanza di
vendita, ma anche gli atti della procedura. Ciò dal momento
che, non tutte le circostanze rilevanti ai fini della
precisa individuazione delle caratteristiche del bene
offerto in vendita, cosi come l'esistenza di eventuali oneri
o diritti di terzi inerenti allo stesso, devono essere
dettagliatamente esposte nell'ordinanza di vendita e
indicate nella relativa pubblicità, ben potendo essere
comunque ricavabili dall'esame della relazione di stima e
del fascicolo processuale, che è onere (e diritto) degli
interessati all'acquisto consultare prima di avanzare le
offerte.
È questo l'innovativo principio stabilito dalla III Sez.
civile della Corte di Cassazione (pres. R. Vivaldi, rel. A.
Tatangelo) con la
sentenza 25.10.2016 n. 21480.
Nel caso deciso il ricorrente, che si era aggiudicato
l'immobile, non aveva versato il prezzo nel termine fissato
dal giudice, che lo aveva dichiarato decaduto
dall'aggiudicazione e aveva disposto l'incameramento della
cauzione versata.
L'opposizione agli atti esecutivi era stata respinta con
sentenza avverso la quale era stato proposto ricorso per
cassazione sul rilievo che, nell'ordinanza di vendita e
nella relativa pubblicità (commerciale e sul web), non era
stata espressamente indicata l'esistenza di una sentenza che
condannava il debitore a demolire parte dell'immobile, e
dunque tale circostanza doveva ritenersi non conoscibile
dall'aggiudicatario.
Ciò avrebbe comportato, sempre a detta del ricorrente, un
vizio della vendita, ricorrendo un'ipotesi di aliud pro
alio o quanto meno pericolo di evizione parziale.
In realtà, la situazione urbanistica dell'immobile posto in
vendita e l'esistenza di una sentenza civile di condanna
alla sua parziale demolizione, secondo quanto
incontestabilmente accertato nel grado di merito, erano
chiaramente evidenziati nella relazione di stima, richiamata
nell'ordinanza di vendita, e addirittura copia della
sentenza in questione era depositata agli atti del
procedimento esecutivo. La vendita quindi doveva ritenersi
regolarmente pubblicizzata.
Anche a prescindere da tali considerazioni, secondo la
Cassazione, in nessun caso si sarebbe potuto affermare la
prospettata ipotesi di vendita di aliud pro alio, che
è configurabile esclusivamente quando il bene aggiudicato
appartenga ad un genere del tutto diverso da quello indicato
nell'ordinanza di vendita, ovvero manchi delle qualità
necessarie per assolvere la sua naturale funzione
economico-sociale, ovvero risulti compromessa la
destinazione del bene all'uso che, preso in considerazione
dalla succitata ordinanza, abbia costituito elemento
determinante per l'offerta di acquisto
(articolo ItaliaOggi del 12.01.2017). |
AGGIORNAMENTO AL 05.01.2017 |
ã |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA: L’approvazione
di un piano attuativo di iniziativa privata non è atto
dovuto.
E'
consolidato il principio giurisprudenziale secondo il quale
"l'approvazione del piano attuativo di iniziativa privata
non è un atto dovuto, ancorché il medesimo risulti conforme
al piano regolatore generale, perché, sussistendo un
rapporto di necessaria compatibilità ma non di formale
coincidenza tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi ed
essendovi una pluralità di modi con i quali dare attuazione
alle previsioni dello strumento urbanistico generale, è
ineliminabile la sussistenza di un potere discrezionale
nella valutazione delle soluzioni proposte, dato che il
Comune non si limita a svolgere un semplice riscontro della
conformità del piano allo strumento generale, ma esercita
pur sempre poteri di pianificazione del territorio comunale
e pertanto può negare l’approvazione del piano attuativo
facendo riferimento a ragioni interne al medesimo quali
possono essere i temi dell’organizzazione urbanistica,
viabilistica o architettonica dell’intervento".
---------------
La Giunta comunale, in sede di adozione di un piano
attuativo, non si limita ad un mero riscontro della
compatibilità dello stesso con la pianificazione
sovraordinata ma può esercitare un potere discrezionale
valutando nel merito le soluzioni proposte.
Pertanto la Giunta, organo collegiale di governo del Comune,
non è condizionata in modo assoluto nel proprio
apprezzamento dalle conclusioni cui sono pervenuti gli
uffici tecnici dalle quali può motivatamente discostarsi, e
nello svolgimento di tale attività alla stessa non può
ritenersi precluso ricorrere ad una consulenza legale
esterna inserita nell'ambito dell’istruttoria procedimentale
e richiamata nella motivazione dell'atto finale, come è
avvenuto nel caso di specie.
---------------
Come sopra visto, in sede di adozione di un piano attuativo
la Giunta esercita una discrezionalità che è quella ampia
propria degli atti di pianificazione del territorio con
l’unico limite di non poter effettuare valutazioni che
contrastino con quelle già formalizzate con la
pianificazione sovraordinata, ad esempio negando con
valutazioni diametralmente opposte da quelle effettuate nel
piano regolatore l’edificabilità ammessa da questo su
un’area.
---------------
... per l'annullamento della deliberazione n. 227 del
03/08/2015 con la quale la Giunta comunale di Verona ha
restituito il Piano Urbanistico Attuativo denominato "Ai
Tigli", respingendo la relativa istanza di approvazione del
Piano attuativo medesimo presentata dai ricorrenti in data
23/12/2013.
...
FATTO
I ricorrenti sono proprietari di terreni compresi in un
piano attuativo denominato “Ai tigli” sito nella località Montorio nel territorio del Comune di Verona.
Il repertorio normativo e la scheda norma n. 159 del piano
degli interventi nel prevedere la redazione di tale piano
prevedono che su una superficie territoriale di 37.500 mq
sia possibile realizzare 15.000 mq abitativi di superficie
utile lorda destinando a verde e servizi pubblici e di
interesse collettivo una superficie, da cedere al Comune, di
almeno il 50% della superficie territoriale, pari a 18.750
mq.
La planimetria della predetta scheda norma prevede che la
parte ovest dell’ambito sia destinata all’edificazione
residenziale, e la parte est sia destinata a verde e servizi
con la realizzazione di un’area sportiva, costituita da
impianti con giochi d’acqua, una palestra polifunzionale,
spazi per associazioni del territorio e due palestre.
L’art. 157 delle norme tecniche operative allegate al piano
degli interventi prevede l’obbligo per i privati di versare,
oltre al contributo di costruzione, un ulteriore contributo
da definirsi mediante un apposito accordo di pianificazione
da redigere ai sensi dell’art. 6 della legge regionale
23.04.2004, n. 11.
Tale accordo è stato sottoscritto nel 2013, prevedendo in
capo ai privati l’obbligo di progettare e realizzare a
proprie spese le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, di contribuire alla realizzazione delle opere
pubbliche per un importo di € 1.500.000,00, con la stipula
di una apposita fideiussione a garanzia dell’adempimento di
tali obblighi.
Dopo un lungo confronto con gli uffici comunali per definire
il contenuto progettuale del piano attuativo, la conferenza
di servizi del 09.07.2015, ha dato esito positivo, e il
Settore di pianificazione territoriale del Comune ha
conseguentemente espresso un parere tecnico istruttorio
definitivo favorevole trasmettendo il piano alla Giunta
comunale per la sua adozione.
La Giunta comunale, dopo aver esaminato i contenuti
progettuali avvalendosi, a fini istruttori, del parere di un
legale esterno all’Amministrazione comunale, con
deliberazione n. 227 del 03.08.2015, ha motivatamente
disposto la restituzione del piano attuativo discostandosi
dalle conclusioni cui erano pervenuti gli uffici.
La deliberazione nella parte finale così riassume i punti
posti a giustificazione della restituzione:
- eccessiva riduzione della superficie destinata alla
realizzazione della zona sportiva;
- previsione nell’ambito di quest’ultima di un edificio
destinato a bar ristorante, non previsto dal repertorio
normativo e dall’accordo di pianificazione;
- eliminazione del canale irriguo con la relativa
vegetazione individuata dal piano degli interventi come
elemento del paesaggio storico e della rete ecologica
secondaria;
- totale alterazione della porzione di area coincidente con
l’ambito delle risorgive;
- necessità di modificare alcune norme dello schema di
convenzione riguardanti il collegamento tra opere di
urbanizzazione, permessi di costruire e certificati di
agibilità.
Tale deliberazione è impugnata con il ricorso in epigrafe
per le seguenti censure:
I) violazione dell’art. 97 della Costituzione dell’art. 49
del D.lgs. 18.08.2000, n. 267, degli art. 3 e seguenti
della legge 07.08.1990, n. 241, dell’art. 20 della legge
regionale 23.04.2004, n. 11, carenza di istruttoria e di
contraddittorio, sviamento, travisamento ed illogicità,
perché la deliberazione che ha disposto la restituzione del
piano attuativo non reca una motivazione sufficientemente
approfondita in relazione all’ampia ed accurata istruttoria
che era stata svolta dagli uffici tecnici;
II) violazione delle norme tecniche operative allegate al
piano degli interventi, perché ciascuno dei cinque elementi
posti a fondamento del giudizio negativo si rivela
insufficiente al fine di sorreggere la restituzione del
piano attuativo in quanto:
- la riduzione della superficie destinata alla realizzazione
della zona sportiva ritenuta eccessiva dalla Giunta, in
realtà è l’esito di una rimodulazione progettuale suggerita
dagli stessi uffici, determinata dalla constatazione che il
contributo a carico dei privati di € 1.500.000,00 è da solo
insufficiente a finanziare interamente l’opera pubblica
inizialmente progettata, mentre la nuova progettazione
proposta, che ha ad oggetto le palestre attrezzate e la
palazzina bar ristoro, è interamente sostenibile con il
contributo a carico dei privati;
- la realizzazione del bar ristorante è stata suggerita
dagli uffici del Comune nel corso dell’istruttoria;
- è vero che è prevista l’eliminazione della vegetazione
arborea lungo un preesistente canale irriguo, ma con la
riproposizione di nuove alberature lungo un canale
attrezzato definito “strada a cortile” secondo le
valutazioni positive espresse dagli uffici nel corso
dell’istruttoria;
- le modifiche normative indicate possono essere
eventualmente inserite in sede attuativa e non giustificano
le restituzione del piano.
III) violazione dell’art. 20 della legge regionale 23.04.2004, n. 11 e dell’art. 5 del decreto legge 13.05.2011,
n. 70, convertito in legge 12.07.2011, n. 106, carenza
di istruttoria e di contraddittorio, sviamento,
travisamento, irragionevolezza ed insufficienza della
motivazione perché, in base al citato art. 20 della legge
regionale in materia urbanistica, il piano attuativo può
essere restituito solo “qualora non conforme alle norme e
agli strumenti urbanistici vigenti” in coerenza con quanto
dispone la norma statale che ha previsto che la Giunta
approvi i piani attuativi “conformi allo strumento
urbanistico generale vigente”;
IV) violazione dell’art. 6 della legge regionale 23.04.2004, n. 11, dell’art. 11 della legge
07.08.1990, n. 241,
degli artt. 1173 e ss cod. civ., carenza di istruttoria e
del contraddittorio, sviamento, travisamento,
irragionevolezza ed insufficienza della motivazione, in
quanto le modalità di attuazione dell’intervento erano state
disciplinate dall’accordo sottoscritto il 25.07.2013, e
le obbligazioni a carico dei privati sono garantite da
onerose fideiussioni, e pertanto il Comune era obbligato ad
adottare il piano attuativo anche in attuazione
dell’accordo;
V) sviamento, carenza di istruttoria, contraddittorietà,
travisamento, irragionevolezza ed insufficienza della
motivazione sotto ulteriore profilo, in quanto la Giunta in
realtà persegue lo scopo di arrestare l’intervento
edificatorio, per penalizzare il legale rappresentante della
Società ricorrente che nel 2013 aveva accusato di alcuni
illeciti penali l’allora vicesindaco ed assessore
all’urbanistica che è stato in seguito condannato, con
sentenza non definitiva, per quei fatti.
Si è costituito in giudizio il Comune di Verona replicando
alle censure proposte e concludendo per la reiezione del
ricorso.
Alla pubblica udienza del 16.11.2016, in prossimità
della quale le parti hanno depositato memorie a sostegno
delle proprie difese, la causa è stata trattenuta in
decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Con il terzo motivo, il cui esame ha priorità logica,
in sostanza i ricorrenti sostengono che la Giunta comunale
non ha il potere di restituire il piano attuativo per motivi
di opportunità entrando nel merito delle scelte progettuali,
dovendo limitarsi ad un riscontro di conformità agli
strumenti urbanistici sovraordinati come prescritto
dall’art. 20 della legge regionale 23.04.2004, n. 11,
con una norma che si armonizza con quanto dispone l’art. 5
del decreto legge 13.05.2011, n. 70, convertito in legge
12.07.2011, n. 106.
L’assunto non può essere condiviso.
Infatti come anche recentemente affermato da questa stessa
Sezione (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 04.04.2016, n. 351), vi è
da ritenere che non vi è motivo di discostarsi dal
consolidato principio giurisprudenziale “secondo il quale
l'approvazione del piano attuativo di iniziativa privata non
è un atto dovuto, ancorché il medesimo risulti conforme al
piano regolatore generale, perché, sussistendo un rapporto
di necessaria compatibilità ma non di formale coincidenza
tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi ed essendovi
una pluralità di modi con i quali dare attuazione alle
previsioni dello strumento urbanistico generale, è
ineliminabile la sussistenza di un potere discrezionale
nella valutazione delle soluzioni proposte, dato che il
Comune non si limita a svolgere un semplice riscontro della
conformità del piano allo strumento generale, ma esercita
pur sempre poteri di pianificazione del territorio comunale
e pertanto può negare l’approvazione del piano attuativo
facendo riferimento a ragioni interne al medesimo quali
possono essere i temi dell’organizzazione urbanistica,
viabilistica o architettonica dell’intervento (ex pluribus
cfr. Tar Sicilia, Palermo, Sez. II, 08.07.2015, n. 1667; Tar
Puglia, Bari, Sez. III, 12.03.2015, n. 403; Tar Emilia
Romagna, Parma, Sez. I, 11.02.2014, n. 41; Tar Sicilia,
Catania, Sez. I, 29.05.2013, n. 1563; Consiglio di Stato,
Sez. IV, 12.03.2013, n. 1479; id. 19.09.2012, n. 4977; Tar
Umbria, Sez. I, 27.05.2010, n. 335; Tar Piemonte, Sez. I,
09.04.2010, n. 1752; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I,
06.06.2008, n. 624; Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.01.2008,
n. 248)”.
Le censure di cui al terzo motivo devono pertanto essere
respinte.
3. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano
l’insufficienza della motivazione e l’illegittima
acquisizione da parte della Giunta del parere di un legale
esterno all’Amministrazione fatto proprio in modo acritico
smentendo le diverse conclusioni cui erano pervenuti gli
uffici del Comune dopo un lungo confronto con la parte
privata.
Tale censura non può essere accolta, perché, come sopra
visto, la Giunta comunale, in sede di adozione di un piano
attuativo, non si limita ad un mero riscontro della
compatibilità dello stesso con la pianificazione
sovraordinata ma può esercitare un potere discrezionale
valutando nel merito le soluzioni proposte.
Pertanto la Giunta, organo collegiale di governo del Comune,
non è condizionata in modo assoluto nel proprio
apprezzamento dalle conclusioni cui sono pervenuti gli
uffici tecnici dalle quali può motivatamente discostarsi, e
nello svolgimento di tale attività alla stessa non può
ritenersi precluso ricorrere ad una consulenza legale
esterna inserita nell'ambito dell’istruttoria procedimentale
e richiamata nella motivazione dell'atto finale, come è
avvenuto nel caso di specie.
La deliberazione impugnata contiene peraltro una motivazione
molto articolata che da un lato riporta in modo dettagliato
l’istruttoria svolta dagli uffici, dando atto
dell’accuratezza delle indagini e dell’approfondimento di
tutti gli aspetti del progetto con riferimento alla sua
incidenza sul territorio e all’organizzazione dei servizi
pubblici, dall’altro finisce per esprimere delle diverse
valutazioni finali in modo motivato.
Non sussistendo impedimenti allo svolgimento di valutazioni
autonome da parte della Giunta comunale rispetto a quelle
svolte dagli uffici avvalendosi eventualmente del supporto
di un legale esterno all’Amministrazione, e non potendo
configurarsi il dedotto vizio di carenza di motivazione, le
censure di cui al primo motivo devono pertanto essere
respinte.
4. Con il secondo motivo i ricorrenti contestano la
fondatezza e la correttezza di ciascuno dei cinque rilievi
ai quali si è richiamata la Giunta comunale con il
provvedimento impugnato per giustificare la restituzione del
piano attuativo.
Anche tale motivo non può essere accolto.
Come sopra visto, in sede di adozione di un piano attuativo
la Giunta esercita una discrezionalità che è quella ampia
propria degli atti di pianificazione del territorio con
l’unico limite di non poter effettuare valutazioni che
contrastino con quelle già formalizzate con la
pianificazione sovraordinata, ad esempio negando con
valutazioni diametralmente opposte da quelle effettuate nel
piano regolatore l’edificabilità ammessa da questo su
un’area.
Nel caso all’esame la Società ricorrente non dimostra la
sussistenza di profili di manifesta illogicità,
irragionevolezza, contraddittorietà, errori nei presupposti
o vizi nel procedimento logico seguito dalla Giunta.
Infatti alla luce della documentazione versata in atti i
rilievi formulati dalla Giunta appaiono sorretti da
obiettivi riscontri in quanto effettivamente la scelta
progettuale è pervenuta a concentrare in soli 8.866,90 mq di
superficie le strutture con una destinazione sportiva,
rispetto ad una superficie potenziale a “verde, servizi
pubblici e d’interesse collettivo” (denominata VS dal piano
degli interventi) di 18.750 mq; pur trattandosi di una
scelta astrattamente compatibile con la pianificazione
sovraordinata, può evidentemente essere oggetto di una
valutazione negativa da parte della Giunta che ha indicato
come centrale, per l’interesse pubblico perseguito dal piano
attuativo, la realizzazione di impianti sportivi e di spazi
utilizzabili come sedi da parte delle associazioni del
territorio in misura maggiore da quella indicata dalla
pianificazione proposta.
Le medesime considerazioni circa l’opinabilità delle
soluzioni progettuali individuate dai proponenti possono
essere svolte anche con riguardo alla scelta di collocare
un’area di verde pubblico attrezzato distaccata dall’area
sportiva e della misura di soli 672,20 mq che, se da un lato
contribuisce al raggiungimento dei rapporti di
dimensionamento del piano attuativo con riguardo alle
superfici con destinazione pubblica, la rende obiettivamente
poco idonea alla sua funzione per dimensione e
caratteristiche.
Per quanto riguarda la scelta progettuale contenuta nella
proposta di piano di eliminare e sostituire con nuovi
impianti il filare di alberi esistente e di destinare
all’edificazione un’area classificata come ambito delle
risorgive, effettivamente gli artt. 58 e 65 delle norme
tecniche operative allegate al piano degli interventi
fissano per tali ambiti come prioritario l’obiettivo di
conservazione e recupero, e la scelta compiuta appare non
armonizzarsi con tale finalità; analoghe considerazioni,
circa la non irragionevolezza delle indicazioni contenute
nella deliberazione impugnata, possono essere svolte con
riguardo al giudizio di non idoneità della scelta, non
prevista dall’accordo di pianificazione, di realizzare un
bar ristorante, o alla richiesta di rimodulare fin da subito
le norme dello schema della convenzione per adeguarle alle
modifiche progettuali proposte e per assicurare una maggior
tutela dell’interesse pubblico mediante il rafforzamento
delle garanzie, sul piano procedimentale, del completo
adempimento degli obblighi previsti in capo al soggetto
attuatore.
Non potendosi ravvisare nella deliberazione impugnata
valutazioni incoerenti o irragionevoli tali da comportare un
vizio della funzione che manifesti un cattivo esercizio del
potere amministrativo, anche le censure di cui al secondo
motivo devono essere respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 14.12.2016 n. 1375 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
capo al Comune residuano, comunque, valutazioni
discrezionali sull’impostazione data dal piano attuativo
all’organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed
architettonica, ponendo solo il limite di una puntuale
motivazione che consenta l’emersione degli interessi
pubblici perseguiti e la tutela dell’interessato in sede
giurisdizionale.
Sicché, non vi è motivo di discostarsi dal consolidato
principio giurisprudenziale (dal quale conseguono delicate
implicazioni sotto il profilo risarcitorio in capo
all’Amministrazione) secondo il quale l'approvazione del
piano attuativo di iniziativa privata non è un atto dovuto,
ancorché il medesimo risulti conforme al piano regolatore
generale, perché, sussistendo un rapporto di necessaria
compatibilità ma non di formale coincidenza tra quest'ultimo
e i suoi strumenti attuativi ed essendovi una pluralità di
modi con i quali dare attuazione alle previsioni dello
strumento urbanistico generale, è ineliminabile la
sussistenza di un potere discrezionale nella valutazione
delle soluzioni proposte, dato che il Comune non si limita a
svolgere un semplice riscontro della conformità del piano
allo strumento generale, ma esercita pur sempre poteri di
pianificazione del territorio comunale e pertanto può negare
l’approvazione del piano attuativo facendo riferimento a
ragioni interne al medesimo quali possono essere i temi
dell’organizzazione urbanistica, viabilistica o
architettonica dell’intervento.
---------------
3. Con il secondo motivo la parte ricorrente sostiene
l’illegittimità del provvedimento impugnato perché in capo
all’Amministrazione comunale non residuano margini di
valutazione discrezionale dei piani attuativi di iniziativa
privata, che potrebbero essere respinti solo in caso di
contrasto con il piano regolatore, nel caso all’esame
insussistenti, con la conseguenza che l’approvazione della
variante astrattamente compatibile con le previsioni del
piano regolatore generale deve considerarsi sempre atto
dovuto.
La censura deve essere respinta.
Va premesso che a sostegno della propria tesi la parte
ricorrente invoca alcune pronunce le quali in realtà si
limitano ad affermare che in sede di formazione dei piani
attuativi la giunta ed il consiglio non possono effettuare
valutazioni che contrastino con quelle già formalizzate con
il piano regolatore (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 14.01.2008,
n. 44; Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.09.2008, n. 4368;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 06.10.2011, n. 5485), negando
ad esempio con valutazioni diametralmente opposte da quelle
effettuate nel piano regolatore l’edificabilità ammessa da
questo su un’area per ragioni ambientali e paesaggistiche.
Si tratta tuttavia di pronunce inconferenti, sia perché nel
diniego non è presente e non è neppure dedotta una qualche
valutazione che contrasti con le previsioni del piano
regolatore, sia perché tali pronunce in realtà ammettono che
in capo al Comune residuino comunque valutazioni
discrezionali sull’impostazione data dal piano attuativo
all’organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed
architettonica, ponendo solo il limite di una puntuale
motivazione che consenta l’emersione degli interessi
pubblici perseguiti e la tutela dell’interessato in sede
giurisdizionale.
Il Collegio ritiene pertanto che non vi sia motivo di
discostarsi dal consolidato principio giurisprudenziale (dal
quale conseguono delicate implicazioni sotto il profilo
risarcitorio in capo all’Amministrazione) secondo il quale
l'approvazione del piano attuativo di iniziativa privata non
è un atto dovuto, ancorché il medesimo risulti conforme al
piano regolatore generale, perché, sussistendo un rapporto
di necessaria compatibilità ma non di formale coincidenza
tra quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi ed essendovi
una pluralità di modi con i quali dare attuazione alle
previsioni dello strumento urbanistico generale, è
ineliminabile la sussistenza di un potere discrezionale
nella valutazione delle soluzioni proposte, dato che il
Comune non si limita a svolgere un semplice riscontro della
conformità del piano allo strumento generale, ma esercita
pur sempre poteri di pianificazione del territorio comunale
e pertanto può negare l’approvazione del piano attuativo
facendo riferimento a ragioni interne al medesimo quali
possono essere i temi dell’organizzazione urbanistica,
viabilistica o architettonica dell’intervento (ex
pluriubus cfr. Tar Sicilia, Palermo, Sez. II,
08.07.2015, n. 1667; Tar Puglia, Bari, Sez. III, 12.03.2015,
n. 403; Tar Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 11.02.2014, n.
41; Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 29.05.2013, n. 1563;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.03.2013, n. 1479; id.
19.09.2012, n. 4977; Tar Umbria, Sez. I, 27.05.2010, n. 335;
Tar Piemonte, Sez. I, 09.04.2010, n. 1752; Tar Calabria,
Catanzaro, Sez. I, 06.06.2008, n. 624; Consiglio di Stato,
Sez. IV, 29.01.2008, n. 248).
Pertanto le censure di cui al secondo motivo con le quali la
parte ricorrente sostiene che il Comune avrebbe dovuto,
limitandosi a riscontrare la compatibilità della variante
con il piano regolatore generale, senz’altro approvare la
variante come atto vincolato, devono essere respinte
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 04.04.2016 n. 351 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il piano di lottizzazione è uno strumento
urbanistico che si realizza per urbanizzare nuove aree e
completare l’edificazione nelle zone di espansione; è
approvato dal Consiglio comunale, ove conforme alle
prescrizioni normative, su richiesta della parte
interessata, proprietaria o superficiaria dell’area da
lottizzare.
Come primo requisito, il piano di lottizzazione deve
inserirsi nelle previsioni dello strumento urbanistico
generale (piano regolatore), nonché del regolamento
urbanistico vigente.
Per la sua attuazione deve stipularsi una convenzione in cui
i lottizzandi si impegnano a cedere gratuitamente le aree
per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, ed a corrispondere gli oneri per la
realizzazione completa dell’urbanizzazione primaria e parte
della secondaria.
Dal punto di vista normativo, il piano di lottizzazione è
equivalente al piano particolareggiato.
Sicché, il piano di lottizzazione non può essere considerato
un vero e proprio atto di pianificazione o di
programmazione, perché semmai degli atti di pianificazione o
di programmazione è attuativo. Ne consegue che anche il
riferimento all’art. 13 della L. 241/1990 è improprio.
---------------
Ora, è vero che l’approvazione del piano di lottizzazione
non è atto dovuto, ancorché il piano medesimo risulti
conforme al piano regolatore generale, essendo
l’approvazione sempre espressione di potere discrezionale
dell’organo deputato a valutare l’opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico
generale, e ciò in quanto tra quest’ultimo e i suoi
strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria
compatibilità, ma non di formale coincidenza.
Tuttavia, la funzione di strumento particolareggiato ed
attuativo delle prescrizioni del piano regolatore assolta
dal piano di lottizzazione implica la necessità che il
provvedimento negativo sia congruamente istruito e motivato
mediante una valutazione comparata degli interessi pubblici
coinvolti, e ciò in modo da consentire al richiedente di
essere puntualmente edotto degli ostacoli che si frappongono
all’estrinsecazione del suo ius aedificandi.
---------------
Un atto collegiale deve essere sorretto da motivazione
propria, cioè dall’esternazione, con formula riassuntiva ma
sufficientemente chiara e onnicomprensiva, degli elementi
essenziali in virtù dei quali il corpo deliberante sia
pervenuto alla decisione, unanime o maggioritaria,
consacrata nel voto finale.
Pertanto, la motivazione non può desumersi dall’analisi,
incerta e vaga, delle singole soggettive motivazioni dei
componenti il collegio, inidonee di per sé a rilevare l’iter
formativo della volontà complessiva dell’organo espressa
attraverso la votazione finale (invero, la motivazione
dell’atto collegiale in sé deve avere una sua collocazione e
rilevanza autonome, tanto da rendere certi che la volontà
conclusiva del corpo deliberante si sia formata per quei
motivi e non per altri, né abbia potuto essere fuorviata da
apprezzamenti e valutazioni soggettive di singoli membri,
rimasti come tali estranei alle ragioni essenziali del
decidere condivise dalla totalità o dalla maggioranza dei
componenti il collegio).
---------------
... per l’ottemperanza alla sentenza 22.06.2012 n. 1458,
pronunciata inter partes da questa Sezione nel
ricorso R.G. 991/2012, proposto avverso la delibera del
Consiglio comunale 16.02.2012 n. 4, con la quale il
Consiglio comunale di Giardini Naxos aveva deliberato di non
approvare la proposta di deliberazione avente ad oggetto «approvazione
piano di lottizzazione in zona C2 in c.da Malo provvido»,
- nonché per l’annullamento e/o la dichiarazione di
inefficacia, previa sospensione, della delibera 17.07.2012
n. 53, con la quale il Consiglio comunale ha «deliberato
di non approvare la proposta di deliberazione avente ad
oggetto “Approvazione piano di lottizzazione in zona C2 in
c.da Maloprovvido, distinto al N.C.E.U. al foglio di mappa
n. 5 part. 689-690-983-985. Ditta Mu.Em., Ma.An. e Mu.Or.”»,
- e per la condanna dell’Amministrazione, ex art. 30 c.p.a.,
a concludere il procedimento avviato con istanza del
18/12/2009, con l’emissione di un provvedimento espresso e
al risarcimento dei danni.
...
Il ricorso è fondato, e va pertanto accolto, perché anche la
nuova deliberazione adottata dal Comune è da ritenere
viziata dal medesimo vizio per il quale già la prima è stata
annullata, e cioè il difetto di motivazione.
Come è noto, il piano di lottizzazione è uno strumento
urbanistico che si realizza per urbanizzare nuove aree e
completare l’edificazione nelle zone di espansione; è
approvato dal Consiglio comunale, ove conforme alle
prescrizioni normative, su richiesta della parte
interessata, proprietaria o superficiaria dell’area da
lottizzare.
Come primo requisito, il piano di lottizzazione deve
inserirsi nelle previsioni dello strumento urbanistico
generale (piano regolatore), nonché del regolamento
urbanistico vigente.
Per la sua attuazione deve stipularsi una convenzione in cui
i lottizzandi si impegnano a cedere gratuitamente le aree
per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, ed a corrispondere gli oneri per la
realizzazione completa dell’urbanizzazione primaria e parte
della secondaria.
Dal punto di vista normativo, il piano di lottizzazione è
equivalente al piano particolareggiato.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, quindi, il
piano di lottizzazione non può essere considerato un vero e
proprio atto di pianificazione o di programmazione, perché
semmai degli atti di pianificazione o di programmazione è
attuativo. Ne consegue che anche il riferimento all’art. 13
della L. 241/1990 è improprio.
Ora, è vero che l’approvazione del piano di lottizzazione
non è atto dovuto, ancorché il piano medesimo risulti
conforme al piano regolatore generale, essendo
l’approvazione sempre espressione di potere discrezionale
dell’organo deputato a valutare l’opportunità di dare
attuazione alle previsioni dello strumento urbanistico
generale, e ciò in quanto tra quest’ultimo e i suoi
strumenti attuativi sussiste un rapporto di necessaria
compatibilità, ma non di formale coincidenza.
Tuttavia, la funzione di strumento particolareggiato ed
attuativo delle prescrizioni del piano regolatore assolta
dal piano di lottizzazione implica la necessità che il
provvedimento negativo sia congruamente istruito e motivato
mediante una valutazione comparata degli interessi pubblici
coinvolti, e ciò in modo da consentire al richiedente di
essere puntualmente edotto degli ostacoli che si frappongono
all’estrinsecazione del suo ius aedificandi (cfr.
Cons. St., sez. IV, 19.09.2012 n. 4977).
Nel caso in esame, all’adozione della deliberazione
impugnata il Consiglio comunale è giunto dopo lunga
discussione, che ha visto numerosi interventi, anche di
segno contrario.
Alla deliberazione, peraltro, sono allegate ben quattro
dichiarazioni di voto, tre delle quali si soffermano in
maniera molto articolata su numerosi profili in diritto che
impedirebbero l’approvazione del piano di lottizzazione.
Ma dalla votazione finale non è dato sapere in alcun modo
quale delle numerose, e diverse tra loro, argomentazioni
prospettate dai vari consiglieri, il Consiglio comunale
abbia inteso far proprie all’atto di negare l’approvazione
del piano. In altri termini, non è dato conoscere “le
ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell'amministrazione, in relazione alle risultanze
dell'istruttoria”, così come richiesto dall’art. 3 della
L. 241/1990.
Diverso sarebbe stato l’esito, qualora il Presidente del
Consiglio avesse messo ai voti una o più proposte,
puntualmente formulate con riferimento ad una o più
argomentazioni tra quelle prospettate dai consiglieri, dalle
quali potesse evincersi quali specifici profili di fatto e
di diritto il Consiglio intendeva utilizzare al fine di
negare l’approvazione del piano.
Infatti, il punto è che un atto collegiale deve essere
sorretto da motivazione propria, cioè dall’esternazione, con
formula riassuntiva ma sufficientemente chiara e
onnicomprensiva, degli elementi essenziali in virtù dei
quali il corpo deliberante sia pervenuto alla decisione,
unanime o maggioritaria, consacrata nel voto finale;
pertanto, la motivazione non può desumersi dall’analisi,
incerta e vaga, delle singole soggettive motivazioni dei
componenti il collegio, inidonee di per sé a rilevare l’iter
formativo della volontà complessiva dell’organo espressa
attraverso la votazione finale (cfr. Cons. St., sez. IV,
12.11.1991 n. 932; vedi anche Id., sez. IV, 29.10.1987 n.
645, per la precisazione che la motivazione dell’atto
collegiale in sé deve avere una sua collocazione e rilevanza
autonome, tanto da rendere certi che la volontà conclusiva
del corpo deliberante si sia formata per quei motivi e non
per altri, né abbia potuto essere fuorviata da apprezzamenti
e valutazioni soggettive di singoli membri, rimasti come
tali estranei alle ragioni essenziali del decidere condivise
dalla totalità o dalla maggioranza dei componenti il
collegio) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 29.05.2013 n. 1563 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Per costante giurisprudenza della Sezione
“l'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto
dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano
regolatore generale, essendo l'approvazione medesima sempre
espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a
valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni
dello strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra
quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un
rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale
coincidenza”.
---------------
Anche fermandosi all’esame soltanto di alcuni di detti
motivi ostativi, non pare che essi siano abnormi o
contraddittori (nei limiti del sindacato espletabile su tali
scelte amministrative).
Nel caso di specie, infatti, l’amministrazione comunale, del
tutto legittimamente ha introdotto nel procedimento
valutazioni ostative in quanto sarebbe stato necessario che
la lottizzazione fosse maggiormente estesa, in funzione di
completamento dell’area interessata.
Parimenti, la circostanza che le aree da cedere per la
realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria fossero
ubicate in prossimità della strada da realizzare e non della
viabilità esistente è stata ritenuta illogica
dall’amministrazione comunale, in quanto avrebbe comportato
la non congruente conseguenza per cui i parcheggi pubblici
sarebbero stati distanti dalle opere di urbanizzazione
secondaria.
-----------------
3.3. Così delineate le contrapposte censure, ed evidenziato
che la sentenza di prime cure ha arrestato il proprio esame
ad una fase antecedente detto scrutinio (prendendo atto
della circostanza che il sopravvenuto piano regolatore
approvato nel 2002 impediva la realizzazione dell’intervento
e che uno dei motivi della reiezione era certamente
illegittimo) pare al Collegio che, sia pure parenteticamente
al fine di determinare quale possa essere la qualificazione
dell’interesse risarcibile debbano prendersi in esame le
ulteriori censure mosse dagli appellanti al contestato
diniego e le contrapposte ragioni poste dal Comune a
sostegno della validità del medesimo (ciò comunque tenendosi
conto che, anche a cagione della incontestata circostanza
che con successiva deliberazione di CC n. 16/2005 era stato
approvato il piano di lottizzazione del comparto n. 4 e che
era stata sottoscritta la convenzione di lottizzazione in
data 22.05.2009, sarebbe esclusa qualsiasi statuizione
ripristinatoria specifica nel senso della autorizzabilità
dell’intervento illo tempore progettato)
3.4. A tale proposito, se è certamente fondata la
(incontestata) deduzione di parte appellante secondo cui non
avendo il Comune di Toritto mai proceduto alla
individuazione dei settori minimi di intervento ai sensi
dell’art. 15 L.R. nr. 6/1979, non avrebbe mai potuto fare
riferimento a detta disposizione per giustificare un
supposto “contrasto con la definizione di comparto”,
ovvero con la carenza di riferimento ad “una maglia
urbanistica territoriale minima di intervento”, si
rinvengono nel provvedimento di diniego avversato in primo
grado, altresì, ulteriori motivazioni “di merito” che
hanno indotto l’amministrazione a respingere l’istanza.
Nel rammentare che per costante giurisprudenza della Sezione
“l'approvazione del Piano di lottizzazione non è atto
dovuto, ancorché il Piano medesimo risulti conforme al Piano
regolatore generale, essendo l'approvazione medesima sempre
espressione di potere discrezionale dell'organo deputato a
valutare l'opportunità di dare attuazione alle previsioni
dello strumento urbanistico generale: ciò in quanto tra
quest'ultimo e i suoi strumenti attuativi sussiste un
rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale
coincidenza” -Cons. Stato Sez. IV, 19.09.2012, n. 4977-)
evidenzia il Collegio che, anche fermandosi all’esame
soltanto di alcuni di detti motivi ostativi, non pare che
essi siano abnormi o contraddittori (nei limiti del
sindacato espletabile su tali scelte amministrative).
Nel caso di specie, infatti, l’amministrazione comunale, del
tutto legittimamente ha introdotto nel procedimento
valutazioni ostative in quanto sarebbe stato necessario che
la lottizzazione fosse maggiormente estesa, in funzione di
completamento dell’area interessata.
Parimenti, la circostanza che le aree da cedere per la
realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria fossero
ubicate in prossimità della strada da realizzare e non della
viabilità esistente è stata ritenuta illogica
dall’amministrazione comunale, in quanto avrebbe comportato
la non congruente conseguenza per cui i parcheggi pubblici
sarebbero stati distanti dalle opere di urbanizzazione
secondaria.
Ciò per fermarsi agli aspetti sostanziali del diniego,
dovendo altresì il Collegio rilevare che appare non
condivisibile la pretesa di parte appellante principale
secondo cui, pur non essendo state indicate nell’elaborato
progettuale respinto le misurazioni delle sedi viarie e dei
lotti interessati ciò avrebbe imposto al Comune di
calcolarle motu proprio (in quanto previste in scala)
perché ciò contrasta con la necessaria completezza ed
intelligibilità che deve connotare i progetti presentati dai
privati (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.03.2013 n. 1479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
controversia riguardante la validità della clausola di una
convenzione urbanistica rientra ex art. 11, comma 5, l.
07.08.1990 n. 241, nella giurisdizione esclusiva del g.a.
ancorché venga fatta valere la nullità parziale della
medesima clausola invocando l'applicazione dei principi e
delle norme del diritto civile.
La sussistenza della giurisdizione esclusiva comporta
l'esistenza di una cognizione piena, estesa anche ai
diritti, e l'azione di accertamento della nullità della
clausola, non avendo carattere impugnatorio, non soggiace a
termini di decadenza, ed è proponibile in sede di
giurisdizione esclusiva indipendentemente dall'impugnazione
di singoli atti amministrativi connessi al rapporto
controverso.
---------------
La Giurisprudenza ha escluso che –nella materia che ci
occupa- tra Comune e privato si instauri un vincolo di sinallagmaticità, argomentando che “nel sistema
risultante dal combinato disposto dell'art. 28, comma 4, n.
1), l. 17.08.1942 n. 1150 e dagli art. 3 e 5, l. 28.01.1977
n. 10, non è rinvenibile un principio che dia titolo al
soggetto che ha stipulato una convenzione urbanistica con il
Comune di non corrispondere al medesimo (in denaro, in aree
cedute o in opere di urbanizzazione realizzate) beni di
valore complessivamente superiore a quanto dovuto per oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi dell'art.
10, l. n. 10 del 1977 e, conseguentemente, in virtù della
convenzione, il privato è obbligato ad eseguire puntualmente
tutte le prestazioni ivi assunte, a nulla rilevando che in
queste possano eccedere originariamente o successivamente
gli oneri di urbanizzazione.
Altresì, si è affermato che “la convenzione di
lottizzazione costituisce un accordo tra la p.a. ed il
privato, in virtù del quale quest'ultimo è obbligato ad
eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi assunte, a
nulla rilevando che queste eccedano gli oneri di
urbanizzazione”.
---------------
Già in passato, alla conclusione circa l'onere di tempestiva
impugnazione era pervenuto TAR Sicilia Palermo precisando
che “in tema di convenzioni urbanistiche, la difformità
della convenzione rispetto allo schema approvato dal
Consiglio Comunale non determina la parziale nullità della
stessa, con la conseguenza che i soggetti, i quali siano
interessati alla sua modifica, non si possono limitare a
dedurne la nullità, avendo il preciso onere di impugnare la
stessa, deducendo i vizi, dai quali ritengono che la stessa
sia affetta; pertanto, i ricorsi avverso le convenzioni
urbanistiche sono ordinari ricorsi impugnatori, i quali
vanno proposti entro l'ordinario termine di decadenza di
sessanta giorni dalla conoscenza dell'atto”.
Più di recente, proprio a proposito dell'articolo 21-septies
della legge 07.08.1990, n. 241, la Giurisprudenza ha
affermato che detta norma, introdotta dalla legge
11.02.2005, n. 15, tra le varie opzioni possibili -ossia tra
quella di inserire nel sistema della patologia dell'atto
amministrativo tutte le ipotesi di nullità (testuale,
strutturale e virtuale) previste dall'articolo 1418 del
codice civile e quella di ritenere sufficiente la categoria
dell'annullabilità per quanto riguarda i rapporti
amministrativi- ha scelto la soluzione di compromesso, ossia
quella di escludere la nullità per contrasto con norme
imperative di legge, giudicando tale categoria
particolarmente pericolosa rispetto alle esigenze di
certezza e di stabilità dell'azione amministrativa.
In altri termini, le cause di nullità debbono intendersi a
numero chiuso.
Pertanto, le ipotesi astrattamente riconducibili alla
nullità c.d. virtuale vanno ricondotte al vizio di
violazione di legge, atteso che le norme riguardanti
l'azione amministrativa, dato il loro carattere
pubblicistico, sono sempre norme imperative e quindi non
disponibili da parte dell'amministrazione. Quindi esse si
convertono in cause di annullabilità del provvedimento, da
farsi valere entro il breve termine di decadenza, a tutela
della stabilità del provvedimento amministrativo.
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I. Preliminarmente, il Collegio prende in esame l'eccezione
di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla Difesa del
Comune, assumendosi che il termine per impugnare la
convenzione sarebbe decorso, per la ricorrente, dalla data
di conoscenza ovvero di notifica individuale della
convenzione stessa, non potendosi avere riguardo alla data
di pubblicazione all'albo del provvedimento; in secondo
luogo, il Comune eccepisce l'inammissibilità in rito della
nuova prospettazione spiegata da parte ricorrente, che in
memoria ha dedotto la nullità delle clausole oggetto del
ricorso: secondo il Comune, trattandosi di domanda nuova
introdotta soltanto in memoria, la stessa sarebbe
inammissibile.
Il Collegio ritiene quest’ultimo profilo dell'eccezione
infondato, avuto riguardo alla circostanza che l'eventuale
nullità delle clausole oggetto del contendere ben potrebbe
essere rilevata d'ufficio, ed in ogni caso non sarebbe
soggetta al generale termine decadenziale di 60 giorni.
La Giurisprudenza ha recentemente affermato che la
controversia riguardante la validità della clausola di una
convenzione urbanistica rientra ex art. 11, comma 5, l. 07.08.1990 n. 241, nella giurisdizione esclusiva del g.a.
ancorché venga fatta valere la nullità parziale della
medesima clausola invocando l'applicazione dei principi e
delle norme del diritto civile; la sussistenza della
giurisdizione esclusiva comporta l'esistenza di una
cognizione piena, estesa anche ai diritti, e l'azione di
accertamento della nullità della clausola, non avendo
carattere impugnatorio, non soggiace a termini di decadenza,
ed è proponibile in sede di giurisdizione esclusiva
indipendentemente dall'impugnazione di singoli atti
amministrativi connessi al rapporto controverso (TAR
Veneto, sez. III, 17.03.2010, n. 849).
Ciò posto, occorre quindi indagare se le violazioni di legge
che si prospetta abbiano inficiato le clausole oggetto di
contestazione da parte del ricorrente determinino, o meno,
la parziale nullità della convenzione in applicazione delle
norme civilistiche, ed in particolare per contrasto con i
principi di ordine pubblico, avuto riguardo alla circostanza
che, tra l’altro, l'articolo 11 della legge n. 241/1990
prevede che agli accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento si applichino i principi del codice civile in
materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili.
Infatti, le deliberazioni di adozione ed approvazione e la
convenzione si uniscono nella fattispecie complessa del
Piano di lottizzazione (piano ad iniziativa privata), in cui
alla p.a. spetta di determinare, attraverso l'approvazione
dello schema di convenzione, il contenuto dell'atto
negoziale, che il privato deciderà poi di sottoscrivere o
meno.
Ma il Collegio non ravvisa detto contrasto nelle clausole
impugnate.
L’oggetto della controversia è costituito dalla valutazione
se l’impresa ricorrente debba o meno eseguire la convenzione
liberamente sottoscritta (non risultando situazioni di
costrizione o vizio di consenso), e se, in contrario, possa
invocare la nullità della convenzione, in quanto stipulata
in contrasto con norme imperative, ai sensi dell'articolo
1418 del codice civile, e, precisamente:
- quanto
all'articolo 1 della convenzione, per essere stato assegnato
un lotto di terreno superiore alle necessità dell'impresa,
quanto all'articolo 2 per essere stato imposto all'impresa
l'onere di procedere alla costruzione delle opere di
urbanizzazione primaria per una volumetria complessiva di
metri cubi 8496,
- quanto all'articolo 3 perché impone a
carico dell'impresa il pagamento degli oneri di
espropriazione di tutte le aree assegnate pari a metri
quadri 5168, incluso aree già coperte dal pagamento degli
oneri di urbanizzazione per metri quadri 3530,
- quanto
all'articolo 8 perché con lo stesso viene imposto
all'impresa sia il pagamento del contributo commisurato
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione ridotto al 40%,
sia la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria,
in difformità dallo schema di convenzione tipo di cui al
decreto assessoriale n. 90/1979, con duplicazione a carico
dell'impresa del pagamento degli oneri di urbanizzazione e
della realizzazione delle opere di urbanizzazione stessa,
- ed
infine, con riferimento alla richiesta di garanzie
finanziarie per l’esecuzione delle opere.
Il tutto, lamenta
parte ricorrente, in difformità dallo schema di convenzione
tipo di cui al decreto assessoriale n. 90/1979 nonché
(quanto all’art. 8 della convenzione) in violazione
dell’art. 11 L. n. 10/1977, che consente l'esecuzione diretta
delle opere di urbanizzazione a scomputo della quota a tale
titolo dovuta per contributo di urbanizzazione.
Anzi, secondo il ricorrente, il cumulo tra il pagamento del
contributo di urbanizzazione e l'esecuzione diretta di parte
delle opere di urbanizzazione nella zona oggetto
dell’intervento edilizio comporterebbe un duplice sacrificio
per la medesima causa, di guisa che, essendo la prestazione
di pagamento priva di causa, la clausola sarebbe nulla .
Ma nessuna di tali clausole appare rientrare nelle categorie
di invalidità di cui all’art. 1418 c.c.
La difformità dallo schema di convenzione tipo di cui al
decreto assessoriale n. 90/1979 per gli aspetti sopra
riportati non comporta una violazione di norme imperative.
Quanto alla questione della parziale duplicazione a carico
dell'impresa del pagamento degli oneri di urbanizzazione e
della realizzazione delle opere di urbanizzazione stessa,
occorre anzitutto rilevare che, dalla prospettazione di cui
in ricorso, non appare chiaro se vi sia stata effettivamente
duplicazione tra il contributo e le medesime opere di
urbanizzazione, ovvero se siano posti a carico della
ricorrente gli oneri riferiti alle opere di raccordo con le
urbanizzazioni principali, ferma restando l'esecuzione in
proprio delle opere all'interno della lottizzazione,
prestazione che risulterebbe assolutamente legittima.
In ogni caso, la Giurisprudenza ha escluso che –nella
materia che ci occupa- tra Comune e privato si instauri un
vincolo di sinallagmaticità, argomentando che “nel sistema
risultante dal combinato disposto dell'art. 28, comma 4, n.
1), l. 17.08.1942 n. 1150 e dagli art. 3 e 5, l. 28.01.1977 n. 10, non è rinvenibile un principio che dia
titolo al soggetto che ha stipulato una convenzione
urbanistica con il Comune di non corrispondere al medesimo
(in denaro, in aree cedute o in opere di urbanizzazione
realizzate) beni di valore complessivamente superiore a
quanto dovuto per oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria ai sensi dell'art. 10, l. n. 10 del 1977 e,
conseguentemente, in virtù della convenzione, il privato è
obbligato ad eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi
assunte, a nulla rilevando che in queste possano eccedere
originariamente o successivamente gli oneri di
urbanizzazione (TAR Lombardia Brescia, 25.07.2005 ,
n. 784)”; si veda, altresì, Consiglio Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 33, secondo il quale “la convenzione di
lottizzazione costituisce un accordo tra la p.a. ed il
privato, in virtù del quale quest'ultimo è obbligato ad
eseguire puntualmente tutte le prestazioni ivi assunte, a
nulla rilevando che queste eccedano gli oneri di
urbanizzazione”.
L'assenza di un vincolo di sinallagmaticità conduce ad
escludere la violazione dell'articolo 1418 C.C.
Quanto alla problematica relativa alla imposizione a carico
della ricorrente degli oneri connessi alle procedure di
espropriazione, non si ravvisa alcuna violazione
dell'articolo 1418 nel porre a carico di una cooperativa
edilizia, da parte del Comune, dell’incarico di compiere la
procedura espropriativa e non soltanto di curare la
realizzazione dell’opera.
In conclusione, nessuna delle clausole contestate appare
inquadrabile in una nullità ex art. 1418 C.C. , ma, al
contrario, le stesse integrano una manifestazione di
autonomia negoziale compatibile con i connotati delle
convenzioni edilizie.
Ne consegue l’infondatezza della pretesa.
II. Il Collegio non si esime dal rilevare che alla reiezione
del ricorso si perverrebbe (seppure seguendo diverso
ragionamento) anche indagando la eventuale invalidità degli
atti impugnati ai sensi dell'articolo 21-septies della legge
07.08.1990, n. 241, che a proposito della nullità del
provvedimento amministrativo stabilisce: <<1. È nullo il
provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di
attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione
del giudicato, nonché negli altri casi espressamente
previsti dalla legge. 2. Le questioni inerenti alla nullità
dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione
del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo>>.
In disparte ogni questione di diritto intertemporale (la
disposizione in questione è sopravvenuta nel corso del
giudizio), l’esito dell’indagine condurrebbe alla
declaratoria di inammissibilità del ricorso, oggetto del
primo profilo dell'eccezione sollevata dalla difesa del
comune.
Già in passato, alla conclusione circa l'onere di tempestiva
impugnazione era pervenuto TAR Sicilia Palermo, sez. II,
con sentenza del 16.07.2008, n. 924, precisando che “in
tema di convenzioni urbanistiche, la difformità della
convenzione rispetto allo schema approvato dal Consiglio
Comunale non determina la parziale nullità della stessa, con
la conseguenza che i soggetti, i quali siano interessati
alla sua modifica, non si possono limitare a dedurne la
nullità, avendo il preciso onere di impugnare la stessa,
deducendo i vizi, dai quali ritengono che la stessa sia
affetta; pertanto, i ricorsi avverso le convenzioni
urbanistiche sono ordinari ricorsi impugnatori, i quali
vanno proposti entro l'ordinario termine di decadenza di
sessanta giorni dalla conoscenza dell'atto”.
Più di recente, proprio a proposito dell'articolo 21-septies
della legge 07.08.1990, n. 241, la Giurisprudenza (per
tutte Consiglio di stato, sez. V, 15.03.2010, n. 1498)
ha affermato che detta norma, introdotta dalla legge 11.02.2005, n. 15, tra le varie opzioni possibili -ossia
tra quella di inserire nel sistema della patologia dell'atto
amministrativo tutte le ipotesi di nullità (testuale,
strutturale e virtuale) previste dall'articolo 1418 del
codice civile e quella di ritenere sufficiente la categoria
dell'annullabilità per quanto riguarda i rapporti
amministrativi- ha scelto la soluzione di compromesso,
ossia quella di escludere la nullità per contrasto con norme
imperative di legge, giudicando tale categoria
particolarmente pericolosa rispetto alle esigenze di
certezza e di stabilità dell'azione amministrativa.
In altri termini, le cause di nullità debbono intendersi a
numero chiuso. Pertanto, le ipotesi astrattamente
riconducibili alla nullità c.d. virtuale vanno ricondotte
al vizio di violazione di legge, atteso che le norme
riguardanti l'azione amministrativa, dato il loro carattere
pubblicistico, sono sempre norme imperative e quindi non
disponibili da parte dell'amministrazione. Quindi esse si
convertono in cause di annullabilità del provvedimento, da
farsi valere entro il breve termine di decadenza, a tutela
della stabilità del provvedimento amministrativo (Consiglio
di Stato, sez. V, n. 1498/2010 cit.).
Ebbene, alla luce della richiamata normativa devesi
concludere che il rapporto amministrativo dedotto nel
giudizio, in mancanza di tempestiva impugnativa, sia della
convenzione, sia delle deliberazioni dell'amministrazione di
approvazione dello schema di convenzione (il ricorso è stato
infatti proposto a distanza di anni dalla sottoscrizione
della convenzione), si è stabilizzato.
III. Una volta esclusa la ricorrenza di causa di nullità ex
1418 del codice civile, il Collegio, dovendosi attenere al
principio di corrispondenza di cui all'articolo 112 del
codice di rito, non può ovviamente prendere in esame altre
possibili cause di invalidità, quale ad esempio la
rescissione, non costituendo oggetto di apposito capo di
domanda e non risultando dedotte e provate le relative
circostanze, né tanto meno l’azione generale di
arricchimento, che è un’azione sussidiaria: se
l’arricchimento, infatti, è la conseguenza di un rapporto o
di un contratto, non si può ritenere che la causa
dell’arricchimento manchi o sia ingiusta, almeno fino a
quando il rapporto o il contratto mantengano la loro
efficacia obbligatoria o non vengano annullati (Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede
giurisdizionale, dec. n. 1312/10 del 26.10.2010).
Infine, per completezza d’esame, non può non osservarsi che
ai “diritti soggettivi”, su cui tanto insiste parte
ricorrente, il titolare può benissimo rinunciare a suo
insindacabile arbitrio, e nella presente fattispecie il
ricorrente lo ha fatto proprio sottoscrivendo le clausole
convenzionali che ora –contraddittoriamente– impugna
(sulla natura degli impegni assunti dai privati in una
convenzione di lottizzazione – riconducibili ad accordo
sostitutivo di provvedimento ex art. 11 L. 07.08.1990 n.
241 e quindi a regolamentazione negoziale basata sul libero
consenso delle parti, implicante l’insorgere di diritti ed
obblighi pattizi (cfr. TAR Toscana Firenze, sez. I, 16.09.2009, n. 1446; cfr. anche Cassazione civile, sez.
I, 13.02.2009, n. 3646).
IV. Conclusivamente, il ricorso viene rigettato
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 14.04.2011 n. 934 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il Collegio conosce l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui l’approvazione del piano di
lottizzazione, anche se conforme al piano regolatore, non è
un atto dovuto, ma costituisce espressione di potere
discrezionale dell’Autorità chiamata a valutare
l’opportunità di dare attuazione, in un certo momento ed a
determinate condizioni, alle previsioni dello strumento
urbanistico maggiore, con la conseguenza che la sua
attuazione può essere articolata in ragione delle esigenze
dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza dello
strumento generale.
---------------
Ciò non toglie che un eventuale diniego debba essere
adeguatamente motivato e che i margini di esercizio della
relativa discrezionalità (supposta la conformità del
progetto al p.r.g.) siano molto ristretti.
Va ricordato, infatti, che una giurisprudenza consolidata
del Consiglio di Stato (ormai non più recente, ma mai
smentita) ha ritenuto illegittimi i piani regolatori che
subordinino l’edificabilità alla formazione di piani
attuativi d’iniziativa necessariamente pubblica, in quanto
una disciplina così congegnata si risolve nell’attribuire ai
Comuni il potere di differire l’edificabilità sine die
mediante un comportamento omissivo immotivato e
insindacabile: donde l’esigenza di prevedere in ogni caso
l’ammissibilità di progetti di piani attuativi d’iniziativa
privata.
Una implicazione logica di questo principio, peraltro, è che
una volta presentato un progetto il Comune possa respingerlo
solo per valide ragioni.
Quanto all’esigenza che lo sviluppo edilizio venga graduato
nel tempo, lo strumento ideato dal legislatore è stato il
piano pluriennale di attuazione, ed ora l’articolazione del
p.r.g. in parte strutturale e parte operativa. Non sembra
invece che possa essere utilizzata a questo scopo
–occasionalmente e dunque irrazionalmente– la potestà di
approvare o non approvare singole iniziative di piano
attuativo.
---------------
Oggetto del contendere è la delibera del Consiglio comunale
di Corciano n. 86 del 27.11.2008, con cui non è stata
approvata la proposta di deliberazione formulata dall’Area
Assetto del Territorio, e quindi negata l’approvazione del
piano attuativo di iniziativa privata a scopo residenziale
proposto dalle società ricorrenti.
Si desume inequivocabilmente dalla documentazione versata in
atti che il piano di lottizzazione è conforme al piano
regolatore e che il diniego di adozione è conseguente al
fatto che i proponenti non hanno accettato di adeguare la
strada a valle del comparto, come prescritto dalla III
Commissione consiliare nella seduta del 17.09.2008, pur
esprimendo la disponibilità a realizzare lavori, per
l’importo di euro 40.000,00, di adeguamento della strada,
nonché l’impianto fognario previsto.
Il Collegio conosce l’orientamento giurisprudenziale,
richiamato dalle stesse ricorrenti, secondo cui
l’approvazione del piano di lottizzazione, anche se conforme
al piano regolatore, non è un atto dovuto, ma costituisce
espressione di potere discrezionale dell’Autorità chiamata a
valutare l’opportunità di dare attuazione, in un certo
momento ed a determinate condizioni, alle previsioni dello
strumento urbanistico maggiore, con la conseguenza che la
sua attuazione può essere articolata in ragione delle
esigenze dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza
dello strumento generale (in termini, tra le tante, Cons.
Stato, Sez. IV, 29.01.2008, n. 248; 02.03.2004, n. 957; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. I, 06.06.2008, n. 624).
Deve dunque escludersi che le società avessero maturato un “diritto”
all’approvazione del loro progetto.
Ciò non toglie che un eventuale diniego debba essere
adeguatamente motivato e che i margini di esercizio della
relativa discrezionalità (supposta la conformità del
progetto al p.r.g.) siano molto ristretti.
Va ricordato, infatti, che una giurisprudenza consolidata
del Consiglio di Stato (ormai non più recente, ma mai
smentita) ha ritenuto illegittimi i piani regolatori che
subordinino l’edificabilità alla formazione di piani
attuativi d’iniziativa necessariamente pubblica, in quanto
una disciplina così congegnata si risolve nell’attribuire ai
Comuni il potere di differire l’edificabilità sine die
mediante un comportamento omissivo immotivato e
insindacabile: donde l’esigenza di prevedere in ogni caso
l’ammissibilità di progetti di piani attuativi d’iniziativa
privata. Una implicazione logica di questo principio,
peraltro, è che una volta presentato un progetto il Comune
possa respingerlo solo per valide ragioni.
Quanto all’esigenza che lo sviluppo edilizio venga graduato
nel tempo, lo strumento ideato dal legislatore è stato il
piano pluriennale di attuazione, ed ora l’articolazione del
p.r.g. in parte strutturale e parte operativa. Non sembra
invece che possa essere utilizzata a questo scopo
–occasionalmente e dunque irrazionalmente– la potestà di
approvare o non approvare singole iniziative di piano
attuativo.
Con questa premessa, non può non rilevarsi
l’irragionevolezza del nucleo motivazionale del
provvedimento gravato, anche desumibile ob relationem
agli atti presupposti, che denega l’approvazione per la
mancata assunzione, da parte dei lottizzanti, dell’impegno
di eseguire opere di adeguamento della viabilità (sulla via
Govoni fino all’incrocio con via Firenze) che appaiono
davvero sproporzionate, sotto il profilo funzionale ed
economico, rispetto al progetto di piano attuativo (TAR
Umbria,
sentenza 27.05.2010 n. 335 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
All'approvazione del piano di lottizzazione conforme agli
strumenti urbanisti generali locali i privati non hanno un
interesse legittimo, ma un diritto soggettivo, non potendo
negarsi tale atto nel caso di accertata legittimità dello
stesso e solo per ragioni di opportunità.
-----------------
All'approvazione le ricorrenti avevano diritto, dovendo la
P.A. agire in conformità all'art. 97 Cost., nel rispetto
dei principi di legalità, imparzialità e buona
amministrazione e l'ente locale, dotato di discrezionalità
solo in rapporto al contenuto delle convenzioni accessorie
al provvedimento di approvazione, non poteva che decidere
positivamente sulla istanza di adozione del piano
particolareggiato proposto dalle ricorrenti, dovendo negarsi
la liceità del capzioso ritardo di ogni scelta, espresso con
l'inerzia nel caso concretamente tenuta per oltre dieci
anni, essendo chiaro che tale mancata adozione di
provvedimenti non poteva superarsi con la richiesta della
tutela demolitoria di atti inesistenti, con conseguente
negazione anche di quella risarcitoria di cui alla domanda
in concreto nel caso proposta.
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Alla luce della nota sentenza della Corte
Costituzionale n. 204/2004,
gli artt.
34 e 35 del D.Lgs. n. 80/1998 devono essere interpretati nel senso che sono
devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le
richieste di risarcimento dei danni derivanti dalla condotta
colpevolmente inerte del Consiglio Comunale, che abbia
omesso di approvare un piano particolareggiato di iniziativa
privata, che abbia già superato tutti i passaggi tecnici ed
amministrativi necessari per il suo assentimento, con la
sola eccezione della pronuncia finale dell'organo consiliare
(ovvero controversie che, come nel caso di specie, traggono
origine da comportamenti della P.A. che, essendo svincolati
non solo da provvedimenti formali ma dall'esercizio di
poteri autoritativi, si riducono a mere condotte omissive
rispetto alle quali vengono in evidenza solo posizioni
giuridiche di diritto soggettivo).
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La domanda proposta dal privato di risarcimento dei danni
causati dalla condotta inerte del Comune nell'approvazione
di una convenzione di lottizzazione -la quale, essendo
diretta a disciplinare il successivo rilascio di concessioni
edilizie e l'esecuzione concordata tra le parti di opere di
urbanizzazione, rientra tra gli accordi sostitutivi del
provvedimento, ai sensi dell'art. 11, comma 5, della legge
n. 241 del 1990- appartiene alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, essendo la domanda di tutela
connessa ad un comportamento dell'ente locale lesivo di
interessi legittimi pretensivi alla conclusione positiva del
procedimento di approvazione della convenzione, svolto
nell'esercizio di un potere autoritativo e discrezionale,
tutelabile insieme al conseguenziale diritto al risarcimento
del danno.
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Svolgimento del processo
Nel 1986, la s.p.a. Residenza Le Piscine di Montesignano e
la società semplice Florida presentavano al Comune di Genova
per la approvazione un progetto di lottizzazione, da
convertire in piano particolareggiato d'iniziativa privata,
per realizzare insediamenti residenziali e commerciali in
località (OMISSIS); il progetto era ritenuto dai competenti
uffici tecnici conforme agli strumenti urbanistici generali
vigenti e di esso la Giunta municipale, con Delib. 13.03.1990, n. 1336, aveva proposto l'approvazione al Consiglio
comunale.
Per la mancata approvazione del piano, a conclusione del
procedimento di cui sopra, le indicate società ricorrevano
al Tar della Liguria, perché accertasse il silenzio-rifiuto
del Comune e dichiarasse l'obbligo dell'ente locale di
provvedere sulla loro istanza di approvazione del progetto;
il ricorso era accolto con sentenza del 10.02.1996 n.
27, che dichiarava l'obbligo dell'ente locale di concludere
il procedimento con un proprio provvedimento.
Nelle more,
con Delib. Consiglio Comunale 14.12.1995, era stata
però adottata una variante parziale al P.R.G. del 1980 di
salvaguardia, che aveva negato ogni edificabilità delle aree
oggetto del progetto di cui sopra, inserendole in Zona
agricola ((OMISSIS)) al fine di salvaguardarne le
caratteristiche ambientali.
Tale scelta provvisoria era stata confermata in via
definitiva con Delib. luglio 1997, che aveva classificato
tali superfici come "agricole" e "boschive", precludendo
ogni possibilità di edificazione per esse e di approvazione
del piano particolareggiato, per sopravvenuto contrasto di
esso con il nuovo strumento urbanistico generale.
A gennaio del 2001, le società di cui sopra ricorrevano
ancora al TAR della Liguria, per chiedere il risarcimento
del danno subito per la mancata conclusione del
procedimento, che aveva cagionato la perdita di valore
economico delle aree interessate al progetto di
lottizzazione oltre che il mancato utile derivato dalla
impedita esecuzione di esso, rendendo inutili le spese e i
costi sostenuti per la progettazione.
Con sentenza del 18.12.2004 n. 1721, il Tar della
Liguria, respinta l'eccezione di difetto di giurisdizione
sollevata dal Comune di Genova, ha rigettato nel merito la
domanda di risarcimento del danno, infondata in ordine alla
perdita di valore dei terreni e ai mancati utili dalla
impedita esecuzione del progetto, perché la discrezionalità
del consiglio comunale nell'approvazione di esso escludeva
la ingiustizia del danno conseguente, e ritenuta non provata
in rapporto alle spese a ai costi di progettazione della
lottizzazione.
Avverso tale sentenza veniva proposto gravame principale
dalle società ricorrenti, che domandavano l'accoglimento
dell'originaria loro azione risarcitoria e appello in via
incidentale dal Comune di Genova, che insisteva nel
denunciare il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, chiedendo di rigettare ogni domanda
risarcitoria perché infondata, non sussistendo una
aspettativa delle ricorrenti alla pretesa approvazione del
loro progetto, lesa dall'inerzia dell'ente locale.
Il Consiglio di Stato, ha rigettato anzitutto il motivo
dell'appello incidentale del Comune di Genova ritenuto
pregiudiziale e relativo al difetto di giurisdizione
assoluto e relativo, respingendo poi l'intera impugnazione
principale e accogliendo il secondo motivo di quella
incidentale, che aveva richiesto di dichiarare la
infondatezza di tutte le azioni risarcitorie in diritto, con
esclusione quindi della rilevata mera mancanza di prova di
alcuni dei danni chiesti dalle società ricorrenti cui aveva
fatto invece riferimento il Tar nella sua pronuncia.
Con il primo profilo del gravame incidentale, l'ente locale
aveva dedotto che il giudice amministrativo non poteva
sostituirsi alla P.A. nella approvazione del progetto di
lottizzazione e neppure pronunciare sul risarcimento
richiesto per la mancanza del provvedimento approvativo e,
per il secondo profilo, aveva affermato l'assenza di
interessi legittimi nella controversia che, alla luce della
sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale,
potessero giustificare la giurisdizione esclusiva del G.A.
ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34, come
modificato, configurandosi detta azione risarcitoria, in
rapporto alla pretesa mancata deliberazione di atti dovuti
dal Comune e quindi come richiesta di tutela soltanto di
diritti soggettivi, su cui il G.A. non poteva decidere.
Il Consiglio di Stato, in ordine al primo profilo della
eccezione del Comune di Genova, ha affermato che la domanda
di risarcimento del danno non interferiva nell'esercizio
della discrezionalità amministrativa, da esercitare con la
eventuale approvazione o il rifiuto di questa, in rapporto
al proposto progetto di lottizzazione, chiedendo di
sanzionare la mera inerzia del Comune di Genova durata
undici anni e non proponendo al giudice amministrativo di
sostituirsi alla P.A. nelle scelte discrezionali sulla
opportunità di approvare il piano particolareggiato.
In ordine poi alla giurisdizione esclusiva, proprio in
quanto l'approvazione del piano di lottizzazione non è atto
dovuto, ma costituisce espressione di potere discrezionale
dell'autorità amministrativa, chiamata, a livello comunale o
regionale, a valutare l'opportunità di dare attuazione -in
un certo momento ed a certe condizioni- alle previsioni
dello strumento urbanistico generale, con i piani attuativi
proposti dai privati, sarebbe stata violativa degli artt. 24
e 111 Cost., la imposizione di una doppia azione nel caso
di specie in cui sono in gioco interessi legittimi pretensivi, sui quali la P.A. esercita i suoi poteri
autoritativi sul merito del progetto che può anche non
approvare, giustificando la estensione alla cognizione sui
diritti conseguenti del giudice amministrativo, oltre che
sugli interessi di cui sopra al corretto esercizio del
potere discrezionale del Comune nel valutare il piano.
Per la cassazione della decisione di cui sopra hanno
proposto ricorso notificato a mezzo posta il 28-30.05.2008 al Comune di Genova, con unico motivo attinente alla
giurisdizione la s.p.a. Residenza Le Piscine di Montesignano
e la società semplice Florida, ai sensi dell'art. 111 Cost.
e art. 362 c.p.c., e si è difeso l'ente locale con
controricorso, notificato il 04-05.07.2008; entrambe le
parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi
dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
In via pregiudiziale deve osservarsi che sulla questione di
giurisdizione si sono pronunciati espressamente in primo e
secondo grado i giudici di merito, rispettivamente su
eccezione ed appello incidentale del Comune di Genova, non
avendo le ricorrenti censurato con il loro gravame di merito
tale statuizione della decisione del Tar.
Sul tema non si è
avuta statuizione definitiva, essendosi su di esso
sviluppato il contraddittorio in entrambi i gradi di merito
sia pure su sollecitazione di parte diversa da quella che
propone la questione in sede di legittimità, non avendola
mai prospettata nel gravame di merito.
Va negata però la preclusione da acquiescenza parziale alla
sentenza di primo grado per le società ricorrenti in questa
sede, perché la impugnazione del Comune di Genova ha
impedito il formarsi del giudicato e consente il permanere
dell'operatività dell'art. 37 c.p.c., e della rilevabilità
del difetto di giurisdizione in questa sede, anche su
ricorso della parte che nel merito non ha impugnato la
relativa pronuncia (così S.U. 12.03.2004 n. 5179).
1.1. L'unico motivo dì ricorso denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 25, 102 e 103 Cost. e del D.Lgs. 31.03.1998, n. 80, artt. 34 e 35, come sostituiti dalla L.
21.07.2000, n. 205, art. 7, dovendo ritenersi privo di
giurisdizione il Giudice amministrativo sulla domanda
proposta dai ricorrenti, all'esito di interventi abrogativi
e integrativi della Corte Costituzionale sulle norme da
ultimo citate.
Nelle more del giudizio il giudice delle leggi è infatti
intervenuto, con sentenza 06.07.2004 n. 204, che ha
negato la conformità alla Costituzione della previsione di
una giurisdizione esclusiva sui comportamenti della P.A. non
espressivi come tali, anche indirettamente, di poteri autoritativi di questa, pur se illegittimamente esercitati,
in quanto l'art. 103 Cost., riconosce agli organi di
giustizia amministrativa di conoscere solo sulle domande di
tutela di interessi legittimi, attribuendo al legislatore
ordinario il solo potere di estendere tale cognizione ai
diritti soggettivi "in particolari materie", come quella
urbanistica ed edilizia.
Allorché siano in gioco invece solo comportamenti illeciti
ai sensi dell'art. 2043 c.c., perché lesivi di diritti
soggettivi, in rapporto a atti dovuti dell'amministrazione,
deve ritenersi sia chiesta la tutela in via esclusiva di
diritti soggettivi, per cui la P.A. deve essere convenuta
comunque dinanzi al giudice ordinario.
Nel caso, il Comune di Genova è rimasto inerte per undici
anni, dopo che la G.M. aveva proposto al consiglio comunale
di approvare il piano di lottizzazione delle società
ricorrenti che, specie dopo la decisione definitiva del
giudice amministrativo che aveva sancito la necessità che
l'ente locale concludesse il procedimento, avevano un vero e
proprio diritto soggettivo alla approvazione del piano,
secondo quanto dedotto in ricorso.
All'approvazione del piano di lottizzazione conforme agli
strumenti urbanisti generali locali i privati non hanno un
interesse legittimo, ma un diritto soggettivo, non potendo
negarsi tale atto nel caso di accertata legittimità dello
stesso e solo per ragioni di opportunità.
All'approvazione le ricorrenti avevano diritto, dovendo la
P.A. agire in conformità all'art. 97 Cost., nel rispetto
dei principi di legalità, imparzialità e buona
amministrazione e l'ente locale, dotato di discrezionalità
solo in rapporto al contenuto delle convenzioni accessorie
al provvedimento di approvazione, non poteva che decidere
positivamente sulla istanza di adozione del piano
particolareggiato proposto dalle ricorrenti, dovendo negarsi
la liceità del capzioso ritardo di ogni scelta, espresso con
l'inerzia nel caso concretamente tenuta per oltre dieci
anni, essendo chiaro che tale mancata adozione di
provvedimenti non poteva superarsi con la richiesta della
tutela demolitoria di atti inesistenti, con conseguente
negazione anche di quella risarcitoria di cui alla domanda
in concreto nel caso proposta.
Il quesito di diritto conclusivo del motivo di ricorso è il
seguente: alla luce della nota sentenza della Corte
Costituzionale n. 204/2004,
il D.Lgs. n. 80 del 1998, artt.
34 e 35, devono essere interpretati nel senso che sono
devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le
richieste di risarcimento dei danni derivanti dalla condotta
colpevolmente inerte del Consiglio Comunale, che abbia
omesso di approvare un piano particolareggiato di iniziativa
privata, che abbia già superato tutti i passaggi tecnici ed
amministrativi necessari per il suo assentimento, con la
sola eccezione della pronuncia finale dell'organo consiliare
(ovvero controversie che, come nel caso di specie, traggono
origine da comportamenti della P.A. che, essendo svincolati
non solo da provvedimenti formali ma dall'esercizio di
poteri autoritativi, si riducono a mere condotte omissive
rispetto alle quali vengono in evidenza solo posizioni
giuridiche di diritto soggettivo).
2. Il ricorso è infondato, dovendosi negare una risposta
positiva al quesito come proposto dalle ricorrenti. Occorre
anzitutto ribadire che nel caso in primo grado, su eccezione
del Comune di Genova, l'adito giudice amministrativo aveva
riaffermato espressamente la propria giurisdizione sul
ricorso e che l'ente locale aveva impugnato con l'appello
incidentale tale statuizione del TAR della Liguria che è
quindi stata oggetto di discussione anche in secondo grado, perché investita da impugnazione parziale sul punto
pregiudiziale della giurisdizione in quel grado, con
conseguente irrilevanza dell'omesso gravame su di esso da
parte delle società ricorrenti, che possono prospettare la
questione in questa sede, non essendosi sulla stessa formato
il giudicato né esplicito né implicito (su quest'ultimo cfr.
Cass. S.U. 23.04.2009 n. 9661, 18.12.2008 n.
29523, 30.11.2008 n. 27531, tutte ripetitive dei
principi enunciati da S.U. 09.10.2008 n. 24883).
Il motivo è quindi ammissibile in questa sede, in quanto
attinente a questione oggetto di espressa pronuncia in
secondo grado a seguito dell'appello su tale punto
specifico, necessario per la parte vittoriosa in primo grado
(sul tema cfr. S.U. 16.10.2008 n. 25246) ed è
irrilevante la giustificazione prospettata dalle ricorrenti
nel loro ricorso in questa sede, che fa riferimento
all'intervenuta sentenza della Corte Costituzionale n. 204
del 2004, che avrebbe determinato un mutamento sopravvenuto
retroattivo del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 34, che,
derogando all'art. 5 c.p.c, imporrebbe di affermare la
giurisdizione del giudice ordinario (su tale problema cfr.
Cass. S.U. 20.10.2006 n. 22521).
Come esattamente afferma il Consiglio di Stato, nel caso,
oggetto del ricorso non era la mancanza di un atto dovuto
del Comune di Genova, che ben poteva non approvare il piano
attuativo consistente nel progetto di lottizzazione, ma
l'assenza di una qualsiasi conclusione, positiva o negativa,
al procedimento per il quale gli organi tecnici avevano già
espresso i loro pareri positivi e la G.M. aveva proposto al
consiglio comunale di approvare il progetto delle ricorrenti perché lo stesso era solo attuativo degli gli strumenti
urbanistici generali vigenti in quel momento e non li
violava.
Come rileva il Consiglio di Stato (pag. 4 decisione
impugnata), con la sentenza del 10.02.1996 n. 27,
il
Tar della Liguria aveva "annullato il silenzio-rifiuto
serbato dal Comune sul progetto, dichiarando l'obbligo della
amministrazione di pronunciarsi sull'istanza" e l'ente
locale non ha ottemperato alla decisione indicata,
mantenendo una inerzia illegittima e in contrasto con il
giudicato, per avere omesso di pronunciarsi in qualsiasi
modo sul progetto di lottizzazione.
Tale inerzia, ad avviso delle ricorrenti, costituisce
comunque un comportamento materiale lesivo di soli diritti
soggettivi, essendo a loro avviso atto dovuto quello di
approvazione della legittima lottizzazione proposta.
Esattamente tale conclusione si è dichiarata non corretta
dal giudice amministrativo, in quanto non può che
confermarsi quanto enunciato sul punto da queste S.U.: "La
convenzione di lottizzazione, diretta a disciplinare il
successivo rilascio di concessioni edilizie e la esecuzione
concordata tra le parti di opere di urbanizzazione, rientra
tra gli accordi sostitutivi del provvedimento, rispetto ai
quali la L. n. 241 del 1990, art. 11, comma 5, prevede la
giurisdizione esclusiva del G.A. per le controversie
relative alla formazione, conclusione ed esecuzione degli
accordi stessi" (S.U. 30.03.2009 n. 7573, 20.11.2007 n. 24009, 25.05.2007 n. 12186, ord. 10.01.1986
n 140 e 17.01.2005 n. 732).
Poiché la domanda risarcitoria è stata proposta nel 2001 nel
vigore della L. n. 241 del 1990, deve ritenersi sicuramente
applicabile alla fattispecie la previsione della
giurisdizione esclusiva sopra richiamata, considerato che
nel caso sono sussistenti, come rilevato dalla decisione
impugnata, anche gli interessi pretensivi alla eventuale
approvazione del progetto di lottizzazione proposto dai
privati, non dovuta come tale dal consiglio comunale.
Oggetto della controversia nella fattispecie è stata
l'inerzia del comune nel procedimento di "formazione" della
convenzione e la mancata adozione da tale ente pubblico di
un qualsiasi provvedimento conclusivo del procedimento,
anche negativo dell'approvazione pretesa dalle ricorrenti,
le quali avevano quindi solo un interesse legittimo pretensivo a detta approvazione che non vi fu e, essendo
mancato ogni provvedimento negativo, sono state lese del
bene della vita sorto dal loro affidamento dell'esito vicino
di conclusione del procedimento, che ha fatto ritenere
illegittimo il comportamento del Comune in sede di
"formazione" dell'accordo poi mancato, comportando la
lesione conseguente non iure dell'interesse legittimo
all'atto conclusivo del procedimento, mancando però
l'antigiuridicità della tacita negazione dell'approvazione
oggetto del ricorso precedente allo stesso Tar Liguria.
In quanto non vi erano atti dovuti del Comune di Genova in
favore delle società ricorrenti, deve negarsi che nel caso
si sia chiesta la tutela del solo diritto al risarcimento
del danno e non pure quella degli interessi legittimi
sottostanti alla domandata conclusione del procedimento,
ritenuta espressione di poteri autoritativi del Comune non
esercitati e da esercitare, secondo quanto sancito dalla
sentenza del Tar ligure n. 27 del 1996, passata in giudicato
e ricognitiva degli interessi legittimi lesi dalle omissioni
dell'ente locale, con la mancata emissione di qualsiasi atto
conclusivo del procedimento stesso, motivatamente positivo o
negativo circa l'approvazione del piano attuativo.
Lo stesso quesito conclusivo delle ricorrenti sembra
affermare che solo la mancanza del provvedimento finale del
procedimento di valutazione della convenzione costituirebbe
una condotta materiale della P,A. che darebbe luogo alla
lesione del diritto soggettivo alla approvazione, a causa
dei pareri positivi degli uffici tecnici e della proposta
conforme della Giunta municipale, che sono atti
amministrativi con rilievo sul procedimento e incidenti su
interessi pretensivi dei privati, di cui si chiede tutela,
esercitando il diritto al risarcimento del danno come
conseguenza ulteriore della mancata emissione di tale atto,
presumibilmente di approvazione, che comunque non è stato
emesso a chiusura del procedimento.
Peraltro
nel ricorso stesso si configura nel caso una
discrezionalità, pur se limitata, della eventuale
approvazione, confermando che, nella formazione della
convenzione di lottizzazione, i privati conservano sempre e
solo posizioni di interessi legittimi pretensivi, sui quali
la cognizione e tutela spetta al giudice amministrativo
anche al di fuori delle materie di giurisdizione esclusiva,
come è quella urbanistica.
Come osserva nel controricorso l'ente locale, la L.R.
Liguria n. 27 del 1987, all'art. 18 stabiliva che le istanze
di approvazione dei piani particolareggiati di iniziativa
dei privati, come quello in esame, erano da intendersi
respinte se, entro centoottanta giorni dal loro ricevimento,
il Comune non dava notizia delle determinazioni assunte in
merito.
Avverso tale silenzio-rifiuto era stato proposto ricorso al
Tar della Liguria che, con la sentenza n. 27 del 1996, lo
aveva annullato, sancendo il dovere del Comune di Genova di
concludere il procedimento, senza stabilire l'esito,
positivo o negativo, da dare alla richiesta di approvazione
del progetto di lottizzazione.
La mancata approvazione del piano attuativo, cui nessun
diritto avevano le ricorrenti, in quanto protrattasi per un
lungo periodo, anche dopo la citata sentenza del Tar della
Liguria del 1996 che imponeva una conclusione del
procedimento sollecitato dalle parti private, aveva leso
interessi legittimi di queste, perché, con l'approvazione
delle varianti di salvaguardia del 1995 e delle modifiche
successive del P.R.G. di Genova, le aree oggetto del piano
di lottizzazione era state tutte inserite in Zone
urbanisticamente inedificabili
(OMISSIS),
incompatibili
con l'approvazione in precedenza invece comunque possibile.
L'unico danno risarcibile in tale contesto è quello chiesto
per le perdite e il lucro cessante effetto della mancata
approvazione del progetto, esattamente chiesto al giudice
amministrativo che lo ha negato in quanto la omessa
conclusione del procedimento non doveva essere
necessariamente positiva per le istanti e non vi era quindi
la ingiustizia del danno da mancato esito positivo del
procedimento, come affermato dal Consiglio di Stato che, in
parziale riforma della decisione del Tar della Liguria, ha
ritenuto infondata l'azione risarcitoria, a prescindere
dalla mancata prova dei danni cui era stato dato rilievo in
primo grado.
3. In conclusione, al quesito conclusivo del motivo di
ricorso deve darsi risposta negativa, perché
la condotta
inerte del Comune di cui si è dedotta la illiceità nella
fattispecie rientra nella formazione di un accordo mai
perfezionato, disciplinato dalla L. n. 241 del 1990, art.
11, integrando quindi un comportamento dell'ente locale
lesivo, per tale inerzia e ritardo di ogni decisione,
dell'interesse legittimo delle ricorrenti alla conclusione
solo eventualmente positiva del procedimento teso alla
approvazione della convenzione di lottizzazione, quale atto
di esercizio di un potere autoritativo e discrezionale, che
non è stato mai esplicitato e poteva esprimersi in un
rigetto della istanza.
Il bene della vita su cui ha inciso il mancato esercizio dei
poteri del Comune di Genova sull'istanza di approvazione del
piano delle ricorrenti è stato quello di realizzare il
progetto ed eseguire le opere di edilizia in esso previste,
per la sopravvenuta illegittimità del piano proposto,
derivata dai nuovi strumenti urbanistici generali, adottati
prima provvisoriamente e poi in via definitiva, dal
consiglio comunale, nella fase in cui lo stesso nessuna
decisione assumeva sulla istanza delle ricorrenti che ancora
proponeva un'attività conforme alle previsioni del P.R.G.
vigente.
Sulla domanda di tutela connessa a tale "comportamento"
dell'ente locale, lesivo di interessi legittimi da tutelare
insieme al diritto al risarcimento del danno, in materia
urbanistica, il giudice amministrativo ha correttamente
riconosciuto la propria giurisdizione.
Il ricorso deve quindi rigettarsi e delle spese della
presente fase del giudizio devono rispondere in solido le
due ricorrenti in favore del resistente nella misura che si
liquida nel dispositivo
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 01.07.2009 n. 15388). |
IN EVIDENZA |
APPALTI: Convegno
gratuito dal titolo:
Tradizione e innovazione nella disciplina dei contratti
pubblici (Brescia, venerdì 10.02.2017
-
Auditorium di Santa Giulia, Via Piamarta n. 4). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
VARI:
Approvazione del modello di dichiarazione di successione
e domanda di volture catastali, delle relative istruzioni e
delle specifiche tecniche per la trasmissione telematica
(Agenzia delle Entrate,
provvedimento 27.12.2016 n. 231243 di prot.). |
VARI:
Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale per
l’anno 2017 (ANCE di Bergamo,
circolare 23.12.2016 n. 229). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
chiarimenti sull'attuazione nel campo edilizio dei decreti
legislativi SCIA 1 e SCIA 2, assunti ai sensi della legge
124 del 2015, e del regolamento edilizio tipo
(Regione Emilia Romagna,
nota 16.12.2016 n. 771180 di prot.). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Semplificazioni in materia di documento unico di regolarità
contributiva. Modifiche al decreto interministeriale
30.01.2015 (INAIL,
circolare 14.12.2016 n. 48). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Criteri e requisiti per l’iscrizione all’Albo, con
procedura ordinaria, nelle categorie 1, 4 e 5 (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Albo
Nazionale Gestori Ambientali,
deliberazione 03.11.2016 n. 5 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Progetto di Variante normativa al Piano stralcio
per l’assetto idrogeologico del bacino del fiume Po (PAI) –
Indicazioni operative per l’applicazione delle misure di
salvaguardia alle aree individuate nell'ambito delle Mappe
della pericolosità e del rischio di alluvioni del Piano di
Gestione del rischio di Alluvioni del bacino del Po (PGRA)
(Regione Lombardia,
nota 10.05.2016 n. 4817 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Progetto di Variante al Piano stralcio per
l’assetto idrogeologico del bacino del fiume Po (Regione
Lombardia,
nota 29.03.2016 n. 3026 di prot.). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO:
Notifica preliminare Asl: tutto quello che occorre sapere
con esempio pratico (fac-simile) (29.12.2016
- link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Segnalazione certificata agibilità – modello editabile PDF
(28.12.2016 - link a
http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
bonus edilizi nella legge di bilancio 2017.
Pioggia di proroghe per le detrazioni
fiscali relative alla ristrutturazione e alla
riqualificazione energetica degli edifici. A cui si
aggiungono il bonus mobili, il bonus alberghi e il sisma
bonus.
Oltre ad allungare i tempi per fruire delle agevolazioni, il
legislatore della legge di bilancio 2017 (legge 11/12/2016
n. 232, G.U. 21/12/2016 n. 297 so n. 57) ha previsto anche
il potenziamento delle detrazioni fiscali per gli interventi
di riqualificazione energetica e per l'adozione di misure
antisismiche, relativi a parti comuni degli edifici
condominiali.
Prorogata fino al 31.12.2017, seppure con restrizioni, anche
la detrazione al 50% per le spese relative all'acquisto di
mobili. Il bonus spetta solo in connessione agli interventi
di ristrutturazione edilizia iniziati a decorrere dal
01.01.2016. Non è stato invece prorogato il «bonus
giovani coppie». La detrazione del 65% per le spese
relative a interventi di riqualificazione energetica degli
edifici (ecobonus) è stata prorogata al 31/12/2017 per
interventi effettuati su singole unità immobiliari.
Per gli interventi relativi a parti comuni degli edifici
condominiali tale misura è stata prorogata di cinque anni,
fino al 31/12/2021 e potrà aumentare nel caso di interventi
che interessino l'involucro dell'edificio (70%) e di
interventi finalizzati a migliorare la prestazione
energetica invernale/estiva e che conseguano determinati
standard (75%). Tali detrazioni sono fruibili anche dagli
Iacp.
Per gli interventi relativi all'adozione di misure
antisismiche, a decorrere dal 01.01.2017 fino al 31.12.2021
è stata prevista una detrazione del 50% (sisma bonus),
ripartita in cinque quote annuali di pari importo nell'anno
di sostenimento delle spese e in quelli successivi.
La legge di bilancio 2017 ritocca anche la disciplina del
credito d'imposta per la riqualificazione delle strutture
ricettive turistico alberghiere, istituito dal dl n.
83/2014, confermato anche per gli anni 2017 e 2018, con
un'aliquota pari al 65%. (...continua)
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Nuove norme tecniche per le costruzioni: finalmente
approvato il nuovo testo (23.12.2016 -
link a http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dichiarazione di rispondenza, dai periti la guida alla
compilazione (22.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Linee guida su RLS e valutazione rischio stress lavoro
correlato - Lombardia, pubblicate le linea guida sul ruolo
del RLS nella valutazione del rischio stress lavoro
correlato (22.12.2016 - link a http://biblus.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Coordinatore
sicurezza in fase di esecuzione: compiti e ruoli e
responsabilità
(22.12.2016 - link a
http://biblus.acca.it). |
VARI: Associazioni
sportive dilettantistiche. Aspetti fiscali e civilistici.
L'imponente sviluppo che ha fatto riscontrare la pratica
dell'attività sportiva a livello dilettantistico ha portato
a conferire al settore rilevanza non solo sociale, ma anche
economica. In tal modo anche il legislatore tributario è
intervenuto ripetutamente per inquadrare l'attività sportiva
dilettantistica in regimi fiscali appositamente costituiti.
In particolare, gli interventi normativi succedutesi nel
corso del tempo hanno perseguito il duplice scopo di
favorire e incentivare la pratica sportiva dilettantistica,
delineando un regime fiscale differenziato e agevolato, e,
predisporre un adeguato sistema di controlli in grado di
evitare fenomeni di utilizzo distorto degli strumenti
giuridici messi a disposizione degli enti dilettantistici.
Ne è derivato un quadro normativo complesso e articolato,
che ha innescato diversi orientamenti dottrinari e
giurisprudenziali nelle situazioni più controverse.
La
particolare attenzione dell'amministrazione finanziaria è
dovuta non solo alla volontà di scoraggiare l'uso improprio
del connubio associativo sportivo per celare attività
d'impresa svolte fruendo del regime fiscale privilegiato;
spesso, infatti, destinatari delle verifiche e dei controlli
sono gli imprenditori che intrattengono con le associazioni
sportive rapporti commerciali o finanziari; e infatti
l'incentivazione allo sviluppo degli enti associativi che
svolgono attività sportiva dilettantistica si attua anche
con la creazione di condizioni di favore offerte ai soggetti
che in qualche modo finanziano tale attività, mediante
deduzioni, detrazioni e agevolazioni varie destinate ai
costi sostenuti nei confronti delle Asd o Ssd.
Aspetto
questo che spinge l'amministrazione finanziaria a verificare
eventuali abusi di tali agevolazioni (...continua)
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Il
libretto delle misure, cos’è e a cosa serve (15.12.2016
- link a http://biblus.acca.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
nuovo regolamento europeo sulla privacy.
Conto alla rovescia per la privacy a tinte Ue.
Il nuovo Regolamento europeo diventa efficace il 25.05.2018. Ma già da ora le imprese e le pubbliche
amministrazioni devono prepararsi perché ci sono nuovi
adempimenti che non si completano in un attimo.
I principali adempimenti riguardano:
-
l'organizzazione interna dell'impresa o della p.a.
-
i rapporti con i fornitori esterni
-
la revisione della modulistica con i clienti/utenti
-
la programmazione e l'attuazione del sistema di sicurezza
nella protezione dei dati
-
la predisposizione della documentazione per dimostrare la
propria conformità alle regole
-
la formazione del personale
-
l'eventuale adesione a codici di correttezza e ala
certificazione.
Il problema del Regolamento europeo, in effetti, è la
traduzione in concreto delle norme, che di per sé appaiono
generali e in alcuni casi fumose.
Certo il Regolamento unico europeo serve ad avere regole
identiche in tutti i paesi dell'Unione europea, ma il prezzo
che si sta pagando è quello della fumosità delle
disposizioni, che lasciano nel limbo molti aspetti concreti.
In questo
vademecum si cercherà di dare un orientamento
pratico per non farsi travolgere dalle novità (...continua)
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Il
giornale dei lavori, cos’è e a cosa serve
(29.11.2016 - link a
http://biblus.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Mori,
Distanze per costruzioni, alberi, luci, vedute (2016
- tratto da www.mori.bz.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 04.01.2017 n. 3 "Regolamento recante individuazione
delle opere per le quali sono necessari lavori o componenti
di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità
tecnica e dei requisiti di specializzazione richiesti per la
loro esecuzione, ai sensi dell’articolo 89, comma 11, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 10.11.2016 n. 248). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 03.01.2017, "Determinazione
dei canoni da porre a base d’asta per l’affidamento dei
lavori di sistemazione idraulica mediante escavazione di
materiale inerte dagli alvei dei corsi d’acqua" (deliberazione
G.R. 22.12.2016 n. 13734). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.
02.01.2017 n. 1 "Regolamento recante modalità di
determinazione delle tariffe, da applicare ai proponenti,
per la copertura dei costi sopportati dall’autorità
competente per l’organizzazione e lo svolgimento delle
attività istruttorie, di monitoraggio e controllo relative
ai procedimenti di valutazione ambientale previste dal
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Mare,
decreto 25.10.2016 n. 245). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - ENTI
LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
30.12.2016 n. 304 "Proroga e definizione di termini"
(D.L.
30.12.2016 n. 244).
---------------
Al riguardo, si leggano anche:
●
Sistri, edilizia scolastica, rinnovabili termiche nei nuovi
edifici, oneri di sistema: gli altri rinvii del
Milleproroghe (29.12.2016
- link a www.casaeclima.com).
●
Approvato il Milleproroghe, rinvio al 30.06.2017 per le
termovalvole (29.12.2016
- link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 31.12.2016,
"Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 675/2005 «Criteri
per la trasformazione del bosco e per i relativi interventi
compensativi» (art. 43, comma 8, della l.r. 31/2008) a
seguito delle modifiche ed integrazioni alla l.r. 31/2008
apportate con ll.rr. 19/2014, 21/2014, 38/2015, 4/2016,
7/2016" (deliberazione
29.12.2016 n. 6090).
---------------
Si legga il testo coordinato:
●
Criteri per la trasformazione del bosco e per i relativi
interventi compensativi (d.lgs. 227/2001, art. 4,
l.r. 31/2008, art. 43) - Approvati con d.g.r. 8/675/2005 e
successivamente modificati con d.g.r. 8/2024/2006,
8/3002/2006, 9/2848/2011 e 10/6090/2016 - “Valore del
soprassuolo” aggiornato con d.d.g. n. 16117/2007, d.d.g.
13143/2010, d.d.s. 10975/2013 e d.d.s. 11846/2016. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 31.12.2016, "Prime
determinazioni in ordine all’attività sanzionatoria di
competenza regionale in materia di agricoltura, foreste,
pesca, protezione della fauna selvatica ed attività
venatoria; modalità di notifica degli atti sanzionatori e
ripetibilità delle spese connesse" (deliberazione
G.R. 29.12.2016 n. 6064). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 29.12.2016 "Aggiornamento
e pubblicazione degli importi dovuti alla Regione Lombardia
per l’anno 2017 a titolo di canoni di polizia idraulica in
applicazione dell’art. 6 della l.r. 29.06.2009 n. 10" (decreto
D.G. 22.12.2016 n. 13807). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 29.12.2016 "Determinazioni
in merito ai tempi ed alle modalità di presentazione e/o
aggiornamento, per l’anno 2017, della comunicazione per
l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e
degli altri fertilizzanti azotati prevista dalle d.g.r. n.
5171/2016 (zone vulnerabili) e n. 5418/2016 (zone non
vulnerabili)" (decreto
D.G. 22.12.2016 n. 13759). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 29.12.2016 "Ottavo
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 19.12.2016 n. 13480). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
21.12.2016 n. 297 "Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il
triennio 2017-2019" (Legge
11.12.2016 n. 232).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
●
La Manovra 2017 è in Gazzetta Ufficiale: tutte le misure
punto per punto
(22.12.2016 - link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
15.12.2016 n. 292 "Regolamento recante la definizione dei
contenuti minimi e dei formati dei verbali di accertamento,
contestazione e notificazione relativi ai procedimenti di
cui all’articolo 29-quattuordecies del decreto legislativo
03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 17.10.2016 n. 228). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: G.U.
14.12.2016 n. 291 "Modifica del saggio di interesse
legale" (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 07.12.2016). |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 14.12.2016, "Rettifica
al documento di aggiornamento annuale del piano territoriale
regionale (PTR) 2016" (deliberazione
G.R. 05.12.2016 n. 5932).
---------------
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 28.12.2016, "Deliberazione
della Giunta regionale n. 5932 del 05.12.2016 “Rettifica al
documento di aggiornamento annuale del piano territoriale
regionale (PTR) 2016” pubblicato sul BURL n. 50 serie
ordinaria del 14.12.2016" (avviso
di rettifica). |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 24.11.2016, "Programma
degli interventi prioritari sulla rete viaria di interesse
regionale - Aggiornamento 2016" (deliberazione
G.R. 18.11.2016 n. 5820). |
APPALTI SERVIZI: G.U.U.E.
01.08.2016 n. C 179 "COMUNICAZIONE
INTERPRETATIVA
(2006/C
179/02)
DELLA COMMISSIONE
relativa al diritto comunitario applicabile alle
aggiudicazioni di appalti non o solo parzialmente
disciplinate dalle direttive «appalti pubblici»".
----------------
... le direttive «appalti pubblici» non si applicano a
tutti gli appalti pubblici. Esiste tuttora una vasta gamma
di appalti che non sono coperti o sono coperti solo in parte
da tali direttive, ad esempio
— gli appalti il cui importo è inferiore alle soglie di
applicazione delle direttive «appalti pubblici»;
— gli appalti di servizi di cui all'allegato II B della
direttiva 2004/18/CE e all'allegato XVII B della direttiva
2004/17/CE, il cui importo supera le soglie per
l'applicazione di tali direttive.
...
La presente comunicazione
interpretativa ha per oggetto le due suddette categorie di
appalti che non sono coperte o sono coperte solo in parte
dalle direttive «appalti pubblici». La Commissione fornisce
chiarimenti sulla sua interpretazione della giurisprudenza
della CGCE e suggerisce alcune buone pratiche per aiutare
gli Stati membri a sfruttare appieno i vantaggi del mercato
interno. La presente comunicazione non crea alcuna nuova
disposizione legislativa. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il nuovo diritto di accesso civico - INDIRIZZI
PROCEDIMENTALI ED ORGANIZZATIVI PER GLI ENTI LOCALI -
Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica
(ANCI, dicembre 2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sfalci e potature: per la Commissione europea sono rifiuti.
Bruxelles solleva la questione con l'Italia.
Il Collegato Agricoltura ha escluso sfalci e potature dalla
definizione di rifiuto. Il commissario europeo all’Ambiente,
Karmenu Vella: “La Commissione solleverà la questione con
le autorità italiane competenti” (30.12.2016 -
link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Scia, da 01.01.2017 operativo il modello unico.
Entro il 01.01.2017 l'adeguamento al nuovo regime da parte
delle Regioni ed enti locali. Da Anci il manuale ed i moduli
per la presentazione della scia e per il rilascio della
ricevuta (29.12.2016 - link a www.casaeclima.com). |
APPALTI:
R. Greco,
Il ruolo dell’Anac nel nuovo sistema degli appalti pubblici
(29.12.2016 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Connotazione generale e
compiti dell’ANAC - 3. I poteri di regolazione: in
particolare, le linee-guida - 4. I poteri di intervento
sulle gare - 5. Conclusioni: il nodo delle criticità. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Di Francesco Torregrossa,
Il legittimo affidamento del proprietario e il Ius
aedificandi (28.12.2016 - tratto da
www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1. Il legittimo affidamento nel diritto
amministrativo. 2. Il legittimo affidamento nel diritto
urbanistico. 3. La proprietà e il ius aedificandi. La
sentenza n. 5/1980 della Corte costituzionale
(“relativamente ai suoli destinati dagli strumenti
urbanistici all’edilizia residenziale privata”). |
PUBBLICO IMPIEGO:
R. Caridà,
Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e principi
costituzionali (28.12.2016 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La disciplina del codice di
comportamento dei dipendenti pubblici nel prisma delle
misure anticorruttive. - 2. L’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001
ed il ruolo dei codici interni. - 3. Il contenuto del codice
alla luce dei principi costituzionali. - 4. La disciplina
della responsabilità conseguente alla violazione dei doveri
imposti dal codice. - 5. L’applicabilità del codice alla
dirigenza, la previsione di meccanismi di vigilanza e di
monitoraggio. L’espletamento delle attività formative. - 6.
Osservazioni conclusive. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi retribuiti dal lavoro 104: abrogata l’assistenza
continuativa.
Il lavoratore non è più tenuto a stare tutta la giornata con
il familiare invalido e portatore di handicap, potendosi
dedicare, per una parte delle ore, anche ad attività
personali, ricreative a relazioni sociali (23.12.2016
- link a www.laleggepertutti.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Trasparenza Pa, entrano in vigore le nuove norme. Operativo
l'accesso FOIA.
Da oggi chiunque può esercitare il diritto di accesso
generalizzato ad atti e documenti detenuti dalla pubblica
amministrazione (23.12.2016 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Limiti di trasmittanza, la Regione Lombardia respinge la
richiesta di proroga.
La Regione ha deciso di non prorogare di un anno il
provvedimento emesso nel 2015. Unicmi: “Dal 01.01.2017 i
cittadini lombardi saranno discriminati rispetto a tutti gli
altri italiani” (21.12.2016 - link a
www.casaeclima.com). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Se compro casa mi spetta sempre il posto auto?
Nel corso degli anni sono intervenute diverse leggi sul tema
del posto macchina: la Cassazione chiarisce espressamente
quale di esse va applicata. (...continua) (20.12.2016
- link a www.laleggepertutti.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Modello di istruttoria per accesso civico generalizzato
(17.12.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Caso Marra figlio di spoil system e abolizione dei controlli
(17.12.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
G. Mancini Palamoni,
La disciplina dei
bandi e degli avvisi nei settori ordinari nel nuovo Codice
dei contratti pubblici: brevi osservazioni a margine degli
artt. 66–76 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (14.12.2016
- tratto da www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1. Premessa. 2. Le consultazioni
preliminari di mercato: trasparenza ed imparzialità a
vantaggio della qualità. 3. Le specifiche tecniche e le
etichettature: sostenibilità, accessibilità e non
discriminazione. 4. I bandi e gli avvisi: l’utilizzo della
strumentazione elettronica ed informatica e le ragioni
sociali. 4.1. Gli avvisi di preinformazione. 4.2. I bandi di
gara. 4.3 Redazione e pubblicazione dei bandi di gara e
degli avvisi. 5. L’accesso elettronico ai documenti di gara:
semplificazione, immediatezza e informatizzazione. 6.
Pubblicità e trasparenza: la comunicazione ai candidati e
agli offerenti delle decisioni delle amministrazioni nel
corso della procedura. 7. Conclusioni. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità dei dirigenti: esiste già, la riforma Madia era
inutile (14.12.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sorpresa(?): i dirigenti si possono licenziare! (10.12.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Osservazioni sull’applicazione dell’accesso civico e
della disciplina sulla trasparenza alle società a
partecipazione pubblica (ASSONIME,
studio 02.12.2016 n. 19/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Bigolaro,
La nuova conferenza di servizi, gli interventi edilizi e il
paesaggio (l'impatto delle nuove semplificazioni su titoli
edilizi e autorizzazioni paesaggistiche) (07.11.2016
- tratto da http://venetoius.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Veronese,
SCIA, POTERI COMUNALI E POSIZIONE DEL TERZO
(21.10.2016 - tratto da www.venetoius.it).
---------------
SOMMARIO: § 1. Premessa; § 2. Il falso; § 3. La
posizione del terzo; § 4. I poteri sanzionatori in materia
urbanistico-edilizia. |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Quanto tempo ho per denunciare una persona?
Per presentare una denuncia o un esposto non ci sono limiti
di tempo. Attenzione a non confondere la denuncia con la
querela.
Tre mesi per sporgere una querela; nessun termine invece per
presentare una denuncia.
È questa la sostanziale differenza che divide i reati più
gravi (quelli, cioè, per i quali la Procura può procedere “d’ufficio”,
ossia a prescindere dalle segnalazioni dei cittadini –per i
quali c’è necessità di una denuncia) e quelli invece meno
gravi (quelli per i quali invece, in mancanza di querela, lo
Stato si disinteressa di punire il colpevole– cosiddetti “reati
procedibili a querela di parte”).
Ma andiamo per gradi (...continua) (08.09.2016 - link
a www.laleggepertutti.it). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI: Indennità
di funzione da tagliare nei mini-enti.
Ancora incertezze sulla reale portata dell'obbligo per i
piccoli comuni di contenere i costi della politica. I
chiarimenti forniti dalla sezione delle autonomie hanno
creato più dubbi di quanti ne abbiano risolti. E le
amministrazioni continuano a brancolare nel buio.
Il problema nasce dalla legge Delrio (l 56/2014), la quale
(oltre a svuotare le province di funzioni e risorse) ha
anche ridisegnato gli «organigrammi tipo» dei municipi fino
a 10 mila abitanti, aumentando il numero delle poltrone
rispetto ai tagli previsti dal dl 138/2011.
Per evitare di aumentare la spesa pubblica, però, essa
(all'art. 1, comma 136) ha posto un obbligo di «invarianza
della spesa», sulla cui corretta configurazione si sono
registrati numerosi dubbi interpretativi.
La questione, dopo essere stata affrontata in circolari
ministeriali e pareri delle Sezioni regionali di controllo
della Corte dei conti, è pervenuta alla Sezione delle
autonomie, che con la
deliberazione
12.12.2016 n. 35 (Corretta applicazione
dell’articolo 1, comma 136, della legge n. 56/2014 al fine
del calcolo dell’invarianza della spesa per le attività
relative allo status di amministratore locale) ha fissato alcuni
principi di diritto.
Oltre a confermare che il termine di paragone a cui deve
essere parametrata la rideterminazione degli oneri è in ogni
caso il numero di amministratori e consiglieri indicati dal
dl 138 anche laddove quest'ultimo non è stato applicato
perché abrogato prima delle elezioni, essa ha anche
affermato che il limite complessivo di spesa deve essere
rapportato all'indennità di funzione massima teorica
prevista per il comune in relazione alla propria classe
demografica, prescindendo da ulteriori e concrete vicende
soggettive che potevano aver riguardato i singoli
amministratori uscenti, precisando inoltre che l'indennità
non deve neppure essere oggetto di rideterminazione,
rimanendo conseguentemente fissata nella misura prevista
dalla tabella A del dm 119/2000 con la riduzione di cui
all'art. 1, comma 54, della l 266/2005.
Il dubbio è se tali regole valgano sempre, ovvero solo nei
casi (come quello che ha originato la pronuncia) in cui la
Delrio ha aumentato solo i seggi in consiglio e non il
numero di assessori. È evidente che, negli altri casi
(ovvero per i comuni fino a 1.000 abitanti e per quelli da
3.001 a 5.000 abitanti), per garantire l'invarianza di spesa
è giocoforza tagliare anche le indennità.
Non sono oggetto di rideterminazione, invece, gli oneri
relativi ai permessi retribuiti, agli oneri previdenziali,
assistenziali e assicurativi di cui agli articoli 80 e 86
del Tuel, il cui computo è escluso dalla stessa norma
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Riforma
Delrio, niente tagli alle indennità dei sindaci. Corte dei
conti. La sezione Autonomie.
Niente taglio per le indennità di
sindaci e assessori negli enti fino a 10mila abitanti che in
applicazione della riforma Delrio hanno potuto allargare il
numero di posti in consiglio e in giunta. Per rispettare il
parametro della riforma, che permetteva di allargare la
platea dei politici locali mantenendo però «l’invarianza dei
costi complessivi», bisogna agire sulle voci variabili, cioè
i gettoni dei consiglieri, i rimborsi spese e così via.
Fuori dalla rideterminazione restano anche i costi relativi
a permessi retribuiti e agli oneri contributivi,
assistenziali e assicurativi, che sono previsti dalla legge.
Le indicazioni arrivano dalla sezione delle Autonomie della
Corte dei conti, che nella
deliberazione
12.12.2016 n. 35
risolve in questo modo un rebus applicativo nato dalla
riforma delle Province e affrontato con orientamenti
diversificati dalle varie sezioni regionali della
magistratura contabile.
Tutto nasce appunto dalla riforma Delrio, che oltre a
tagliare le Province ha allargato i posti in consiglio, e
conseguentemente anche in giunta, nei Comuni fino a 10mila
abitanti, mandando in soffitta i tagli scritti nel decreto
estivo del 2011 (Dl 138) in conseguenza delle prime spending
review nate nel tentativo di placare la crisi di finanza
pubblica.
Il tetto di spesa, specifica però la Corte, va calcolato
rispetto ai costi delle amministrazioni alleggerite nel
2011, anche se in molti casi questi parametri non sono mai
stati applicati davvero perché le elezioni sono arrivate
dopo la cancellazione della stretta (articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondi
decentrati, tagli a tempo. Le risorse devono essere
congelate e non messe a bilancio. La
sezione autonomie ha chiarito la disciplina del tetto di
spesa fissato dalla Manovra 2016.
I tagli al fondo delle risorse decentrate imposti dalla
legge di stabilità 2016 sono solo temporanei, per cui le
relative risorse devono essere congelate e non acquisite
definitivamente ai bilanci degli enti.
È questo l'importante chiarimento contenuto nella
deliberazione 07.12.2016 n. 34
(Applicabilità del limite di spesa previsto dall’art. 1,
comma 236, della legge n. 208/2015 alle economie aggiuntive
provenienti dai Piani triennali di razionalizzazione e
riqualificazione della spesa di cui ai commi 4 e 5 dell’art.
16 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98) della Corte dei conti, sezione autonomie, che ha analizzato a fondo la portata del comma 236
della l. 208/2015.
Tale disposizione ha previsto l'obbligo, nelle more
dell'attuazione della riforma Madia sulla dirigenza, di
contenere il fondo entro il tetto massimo del 2015 e di
decurtarlo in ragione delle cessazioni di personale.
Al riguardo, la sezione autonomie conferma l'orientamento
già espresso in vigenza dell'art. 9, comma 2-bis, del dl
78/2010, evidenziando che la nuova disciplina del tetto di
spesa ricalca fedelmente la precedente, pur con alcune
differenze che la Corte stessa esamina in via preliminare
dandone una lettura interpretativa del tutto inedita e di
grande interesse per gli enti.
In particolare la delibera (dopo le novità del periodo di
vigenza, ancorato, come detto, all'attuazione della l
124/2015) e degli assumibili (da riferire anche ai resti
assunzionali) si sofferma sulla mancata riproposizione del
periodo finale del comma 2-bis (introdotto comma 456 della
legge di stabilità 2014) che aveva reso strutturali, e
dunque definitive, le riduzioni apportate nel periodo
2011-2014.
Secondo la Corte, la sua cancellazione è espressione della
natura transitoria del nuovo tetto di spesa, posto in
funzione dell'adozione dei decreti di riforma della
dirigenza e del lavoro pubblico chiamati a ridefinire la
retribuzione dei dirigenti e i sistemi di valutazione di
tutto il personale (artt. 11 e 17 della l 124/2015). Ne
consegue che per la Corte «in questa prospettiva, viene meno
in radice l'esigenza di consolidare gli effetti prodotti
dalla disciplina vincolistica transitoria».
La Corte,
dunque, esclude che le riduzioni apportate al fondo in
applicazione del comma 236 siano definitive e che possano
diventarlo in forza di un nuovo intervento normativo. Viene
così eliminato un significativo elemento di incertezza per
gli enti. Appare chiaro, infatti, che le risorse tagliate
potranno (o, addirittura, dovranno) essere ripristinate al
termine del blocco in quanto non acquisite definitivamente
al bilancio dell'ente, ma solo congelate.
Allo stesso tempo, si ridimensiona notevolmente anche il
problema delle modalità applicative del nuovo taglio, nato a
seguito della discutibile interpretazione sulle decurtazioni
del dl 78/2010 sostenuta dalla Ragioneria generale dello
Stato nella circolare sul conto annuale 2015. Secondo la Rgs,
le riduzioni del comma 2-bis si dovevano applicare per
intero sulle sole risorse stabili del fondo 2015, proprio in
ragione del loro carattere strutturale. Di tale
interpretazione non si dovrà dunque tener conto per le nuove
riduzioni, in questo temporanee.
Resta, invece, aperta la questione sull'attuale vigenza del
tetto di spesa, sorta a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 251/2016 e della sopravvenuta
impossibilità di dare attuazione alla delega sul riordino
della dirigenza cui era ancorata la durata del vincolo
stesso.
In ogni caso, pur ritenendo ancora in vigore il vincolo
(considerando non apposto il termine/condizione costituito
dalla riforma della dirigenza, in quanto divenuto
impossibile), il blocco cesserà a febbraio 2017 con il
completamento della riforma del pubblico impiego, ancora
attuabile percorrendo un iter procedurale che assicuri
l'intesa Stato-Regioni
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Le assunzioni? Una lotteria di legalità.
La spesa per assunzioni rientranti nei vincoli disposti in vario modo dalla
legge non rientra nel tetto al fondo per la contrattazione decentrata delle
amministrazioni pubbliche.
Lo afferma la Corte dei conti, sezione delle autonomie con la
deliberazione
07.12.2016 n. 34 volta a chiarire meglio gli effetti dell'articolo 1,
comma 236, della legge 208/2015.
La norma, con formulazione piuttosto critpica, prevede: «Nelle more dell'adozione dei decreti legislativi
attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124, con
particolare riferimento all'omogeneizzazione del trattamento economico
fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di
finanza pubblica, a decorrere dal 01.01.2016 l'ammontare complessivo
delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale,
anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche
di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in
misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto
del personale assumibile ai sensi della normativa vigente».
Non è mai risultato ben chiaro, in particolare, cosa volesse significare la
possibilità di «tenere conto del personale assumibile» nell'ambito del
vincolo di spesa ivi previsto, in gran parte coincidente con quello a suo
tempo disposto dall'articolo 9, comma 2-bis, del dl 78/2010.
Secondo la sezione autonomie, la volontà del legislatore è «introdurre un
correttivo alla proporzionalità della riduzione dei fondi inteso a
salvaguardare le facoltà assunzionali nel frattempo concesse dall'art. 3,
comma 5, del decreto legge n. 90/2014 (come ridotte, a decorrere dal 2016,
ai sensi dell'art. 1, comma 228, legge n. 208/2015) ovvero riferite alle
annualità precedenti oggetto di proroga legislativa. L'introduzione di tale
correttivo non sembra, comunque, alterare i restanti principi applicativi su
cui si è costruito il parametro di riferimento introdotto dal comma 2-bis
del decreto-legge n. 78/2010».
Se la deliberazione ha il pregio di sforzarsi di fornire una spiegazione
all'inciso finale del comma 236 visto prima, non appare, però,
oggettivamente di specifica utilità pratica.
Le risorse connesse alle facoltà assunzionali, infatti, non fanno parte in
alcun modo dei fondi per la contrattazione decentrata e sono finanziate dal
bilancio. Limitatissima influenza possono avere sulla spesa, finanziata dai
fondi, per progressioni orizzontali o indennità di comparto; ma il turnover
limitato in generale dovrebbe sortire l'effetto che i risparmi imposti dal
tetto ai fondi della contrattazione sia sufficiente a finanziare quelle
voci, che vengono restituite ai fondi medesimi comunque integralmente per
effetto delle cessazioni dei dipendenti.
Pertanto, il «correttivo» di cui parla la sezione autonomie potrebbe avere
una portata limitatissima, nei soli casi in cui l'attivazione delle
assunzioni effettuate nei limiti del turnover riguardi servizi o attività
per le quali il fondo finanzi indennità come turno, rischio, disagio,
maneggio valori, particolari responsabilità, che possano risultare
eccessivamente limate dalla riduzione dei fondi proporzionale alle
cessazioni.
La delibera della magistratura contabile appare la prova ulteriore e palmare
della necessità di una revisione profondissima delle troppe regole, oscure e
contraddittorie, che rendono la gestione della spesa del personale e delle
assunzioni una vera e propria corsa a ostacoli tra i codicilli, se non una
lotteria della legalità, legata al caso e alla fortuna di saper cogliere i
significati delle norme che più possano piacere ad eventuali controllori (articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione
degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato
dal d.lgs. 97/2016 (determinazione
28.12.2016 n. 1310 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
FOIA E LINEE GUIDA TRASPARENZA.
Approvate le Linee Guida dell'Autorità
per l’attuazione dell’accesso civico generalizzato e degli
obblighi di pubblicazione previsti dal dlgs. 97/2016.
Il Consiglio dell’Anac ha approvato nella seduta del 28
dicembre le Linee guida per l’attuazione dell’accesso civico
generalizzato, il cosiddetto Foia. Il documento ha ottenuto
l’intesa del Garante della privacy, il parere favorevole
della Conferenza unificata e ha recepito le osservazioni
formulate dagli enti territoriali. Un apposito tavolo
tecnico, che vedrà la partecipazione del Garante e delle
rappresentanze degli enti locali, monitorerà l’applicazione
delle Linee guida in modo da giungere a un aggiornamento
entro i prossimi 12 mesi.
Nella medesima seduta il Consiglio dell’Anac ha approvato
inoltre le prime Linee guida sull’attuazione degli
obblighi di pubblicazione previsti dal decreto Trasparenza (dlgs.
97/2016). Tra le modifiche di maggior rilievo previste
dalla normativa, l’introduzione di nuove sanzioni pecuniarie
per i soggetti inadempienti, che d’ora in poi saranno
irrogate direttamente dall’Anac, e l’unificazione fra il
Piano triennale di prevenzione della corruzione e quello
della trasparenza.
L’Autorità ha infine evidenziato alcune criticità che
saranno oggetto di segnalazione al Governo e al Parlamento
ai fini di una eventuale modifica. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
LINEE GUIDA RECANTI INDICAZIONI OPERATIVE AI FINI DELLA
DEFINIZIONE DELLE ESCLUSIONI E DEI LIMITI ALL'ACCESSO CIVICO
DI CUI ALL’ART. 5 CO. 2 DEL D.LGS. 33/2013 (Art. 5- bis,
comma 6, del d.lgs. n. 33 del 14/03/2013 recante «Riordino
della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e
gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni»)
(determinazione
28.12.2016 n. 1309 - link a
www.anticorruzione.it).
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FOIA E LINEE GUIDA TRASPARENZA.
Approvate le Linee Guida dell'Autorità
per l’attuazione dell’accesso civico generalizzato e degli
obblighi di pubblicazione previsti dal dlgs. 97/2016.
Il Consiglio dell’Anac ha approvato nella seduta del 28
dicembre le Linee guida per l’attuazione dell’accesso
civico generalizzato, il cosiddetto Foia. Il documento
ha ottenuto l’intesa del Garante della privacy, il parere
favorevole della Conferenza unificata e ha recepito le
osservazioni formulate dagli enti territoriali. Un apposito
tavolo tecnico, che vedrà la partecipazione del Garante e
delle rappresentanze degli enti locali, monitorerà
l’applicazione delle Linee guida in modo da giungere a un
aggiornamento entro i prossimi 12 mesi.
Nella medesima seduta il Consiglio dell’Anac ha approvato
inoltre le prime Linee guida sull’attuazione degli obblighi
di pubblicazione previsti dal decreto Trasparenza (dlgs.
97/2016). Tra le modifiche di maggior rilievo previste dalla
normativa, l’introduzione di nuove sanzioni pecuniarie per i
soggetti inadempienti, che d’ora in poi saranno irrogate
direttamente dall’Anac, e l’unificazione fra il Piano
triennale di prevenzione della corruzione e quello della
trasparenza.
L’Autorità ha infine evidenziato alcune criticità che
saranno oggetto di segnalazione al Governo e al Parlamento
ai fini di una eventuale modifica. |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
conflitti di interesse a maglie strette.
Qualsiasi attività anche solo di partecipazione indiretta ai
procedimenti amministrativi può comportare la violazione del
divieto di agire in conflitto di interessi.
La decisione dell'Anac (delibera
21.12.2016 n. 1305) che ha rilevato la sussistenza
appunto del conflitto di interessi di Raffaele Marra per la
sua partecipazione al procedimento che ha portato
all'incarico del fratello come dirigente al turismo del
comune di Roma conferma la necessità di applicare in modo
esteso ed ampio il dpr 62/2013, noto come codice di
comportamento dei dipendenti pubblici.
L'indicazione dell'autorità non può considerarsi
sorprendente, perché in linea con quanto prevede proprio
l'articolo 6, comma 2, del citato dpr 62/2013: «Il
dipendente si astiene dal prendere decisioni o svolgere
attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di
conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi
personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini
entro il secondo grado. Il conflitto può riguardare
interessi di qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come
quelli derivanti dall'intento di voler assecondare pressioni
politiche, sindacali o dei superiori gerarchici».
Come si nota, la formula normativa è molto estesa. Non solo
il conflitto di interesse sorge se il dipendente «prende
decisioni», cioè esercita il potere di determinare il
contenuto del provvedimento che possa riguardare interessi
anche di propri parenti; l'ipotesi si verifica anche laddove
il dipendente svolga comunque attività concernenti il
procedimento.
Pertanto, i rischi di «corruzione amministrativa», l'agire,
cioè, col pericolo di inquinare fini ed obiettivi generali
pubblici con interessi privati, non si limitano alla sola
fase della decisione ed al solo ruolo di organo decidente.
Al contrario, riguardano sostanzialmente ogni fase
procedimentale: da quella di avvio, all'istruttoria, fino
all'esecuzione.
La logica stringente della normativa anticorruzione da
questo punto di vista è coerente. Il conflitto di interessi
può indurre l'addetto alla protocollazione ad acquisire una
domanda prima di altre, l'istruttore a condurre l'esame
delle condizioni e del carteggio in modo meno penetrante, il
controllore dell'esecuzione nel modo più favorevole
possibile per il destinatario.
Pertanto, le amministrazioni debbono avere l'accortezza di
verificare la situazione di conflitto di interesse con
riferimento sostanzialmente a tutti i dipendenti che, di
volta in volta, risultino coinvolti nelle molteplici
attività realizzate nella gestione: da chi dispone dei
poteri decisori al responsabile del procedimento,
dall'addetto allo sportello al redattore dei testi, dal
protocollatore a chi invia le comunicazioni.
Allo scopo, le amministrazioni debbono utilizzare il piano
triennale di prevenzione della corruzione e i propri codici
di comportamento, così da fornire indicazioni operative di
dettaglio
(articolo ItaliaOggi del 24.12.2016). |
APPALTI: Giro
di vite sull'adesione postuma.
Giro di vite sull'adesione postuma agli appalti pubblici. Il
meccanismo di affidamento mediante adesione successiva potrà
essere considerato legittimo solo a patto che vengano
rispettate stringenti condizioni messe nero su bianco
mercoledì scorso dall'Autorità garante della concorrenza e
del mercato (Agcm) e dall'Autorità nazionale anticorruzione
(Anac).
Nel
comunicato
congiunto AGCM-ANAC 21.12.2016, le due Autorità hanno infatti
stigmatizzato l'affidamento di appalti pubblici mediante
l'adesione postuma, consistente nell'adesione successiva,
disposta da una stazione appaltante senza confronto
competitivo, agli esiti di una gara pubblica bandita da
altra amministrazione. E hanno poi fornito indicazioni, in
coerenza con gli orientamenti interpretativi resi in merito
dalla giurisprudenza amministrativa, al fine di evitare che
tale modalità di affidamento possa dar luogo a elusioni dei
principi di tutela della concorrenza e delle disposizioni in
materia di affidamento di contratti pubblici.
Ai fini del legittimo ricorso a tale strumento sono
necessari, spiega la nota, una corretta programmazione dei
fabbisogni da soddisfare mediante l'affidamento e la
puntuale definizione del valore dell'appalto oggetto di
gara, che deve includere anche gli eventuali rinnovi o
adesioni successive. Inoltre, la clausola di adesione
postuma prevista nella documentazione di gara deve essere
circoscritta e ben determinata sia sotto il profilo
soggettivo (stazioni appaltanti che potranno aderire alla
gara) che oggettivo (valore massimo di affidamento postumo
consentito).
Viene, infine, evidenziato come l'adesione postuma non
debba, in ogni caso, dar luogo a rinegoziazione dell'oggetto
del contratto, sotto il profilo sia della tipologia di
attività da eseguire che delle condizioni economiche da
applicare. Solo se vengono rispettate in maniera rigorosa
tutte queste condizioni, concludono le due Autorità, il
meccanismo di adesione postuma può legittimamente
utilizzarsi come strumento aggregativo della domanda al fine
di conseguire eventuali risparmi di spesa
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2016). |
APPALTI:
Oggetto: affidamenti di appalti pubblici mediante
adesione postuma a gare d’appalto bandite da altra stazione
appaltante (comunicato
congiunto AGCM-ANAC 21.12.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
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Comunicato congiunto AGCM – ANAC sugli affidamenti di
contratti pubblici mediante ‘adesione postuma’ a gare
bandite da altra stazione appaltante.
Il 21.12.2016 l’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato (AGCM) e l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
hanno adottato un comunicato congiunto per stigmatizzare
l’affidamento di appalti pubblici mediante la c.d. “adesione
postuma”, consistente nell’adesione successiva, disposta da
una stazione appaltante senza confronto competitivo, agli
esiti di una gara pubblica bandita da altra amministrazione.
Nel comunicato congiunto le due Autorità forniscono
indicazioni, in coerenza con gli orientamenti interpretativi
resi in merito dalla giurisprudenza amministrativa, al fine
di evitare che tale modalità di affidamento possa dar luogo
ad elusioni dei principi di tutela della concorrenza e delle
disposizioni in materia di affidamento di contratti
pubblici.
Ai fini del legittimo ricorso a tale strumento sono
necessari una corretta programmazione dei fabbisogni da
soddisfare mediante l’affidamento e la puntuale definizione
del valore dell’appalto oggetto di gara, che deve includere
anche gli eventuali rinnovi o adesioni successive.
Inoltre, la clausola di adesione postuma prevista nella
documentazione di gara deve essere circoscritta e ben
determinata sia sotto il profilo soggettivo (stazioni
appaltanti che potranno aderire alla gara) che oggettivo
(valore massimo di affidamento postumo consentito).
Viene, infine, evidenziato come l’adesione postuma non
debba, in ogni caso, dar luogo a rinegoziazione dell’oggetto
del contratto, sotto il profilo sia della tipologia di
attività da eseguire che delle condizioni economiche da
applicare.
Solo se vengono rispettate in maniera rigorosa tutte le
predette condizioni, il meccanismo di adesione postuma può
legittimamente utilizzarsi come strumento aggregativo della
domanda al fine di conseguire eventuali risparmi di spesa.
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CONSIGLIERI COMUNALI: Conflitto
di interessi. Applicabilità dell’art. 78, comma 3, d.lgs.
267/2000:
- all’assessore ai lavori pubblici che svolge attività di
architetto in uno studio associato di progettazione con sede
nel territorio municipale;
- al consigliere che ricopre la carica di presidente della
commissione lavori pubblici e allo stesso tempo svolge
l’attività professionale di geometra nello studio associato
di cui sopra.
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Diritto
Si deve preliminarmente rilevare che la fattispecie
esaminata non rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs.
n. 39/2013, che disciplina l’inconferibilità e
l’incompatibilità dei soli incarichi amministrativi, ma non
anche di quelli politici.
Ciò premesso, in un’ottica collaborativa, tenuto conto
dell’atto di segnalazione al Governo e al Parlamento n. 7
del 04.11.2015, che ribadisce la «stretta connessione
della materia con quella disciplinata dal decreto 39», e
considerata la peculiare novità della segnalazione
sottoposta, data l’unicità dei municipi quali enti
decentrati di amministrazione del territorio e la
complessità della materia, si ritiene che l’Autorità possa
svolgere le seguenti considerazioni.
a) Applicabilità dell’art. 78, comma 3, d.lgs. 267/2000
all’assessore ai lavori pubblici del Municipio XIV di Roma
che svolge attività di architetto in uno studio associato di
progettazione con sede nel territorio municipale.
In ordine al primo quesito, relativo all’operatività
dell’obbligo di astensione di cui all’art. 78, comma 3, TUEL
nei confronti dei membri delle Giunte Municipali, preme
rilevare che l’art. 77, comma 2, del medesimo decreto
legislativo ricomprende, nella definizione di amministratore
locale, ai fini dell’applicazione degli artt. 78 e ss. “i
sindaci, anche metropolitani, i presidenti delle province, i
consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province,
i componenti delle giunte comunali, metropolitane e
provinciali, i presidenti dei consigli comunali,
metropolitani e provinciali, i presidenti, i consiglieri e
gli assessori delle comunità montane, i componenti degli
organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti
locali, nonché i componenti degli organi di decentramento”.
Nella categoria di “componenti degli organi di
decentramento” sono da ricomprendersi anche i componenti
degli organi che concorrono a formare la struttura del
municipio, quale organismo di decentramento e dunque anche
gli assessori, componenti delle Giunta municipale.
Ciò è confermato anche dalla ratio della disposizione in
esame che risiede nella «garanzia dell'imparzialità
dell'azione amministrativa in un quadro comunque di
attenzione alle concrete condizioni di operatività degli
enti locali, soprattutto di quelli minori, e si rivolge a
coloro che svolgono in proprio un'attività
libero-professionale nello stesso delicato settore nel
quale, come pubblici amministratori, sono chiamati a
tutelare interessi della collettività locale» (cfr.
Risoluzione del Ministero dell’Interno 20.01.2000 prot.
n. 15900/L. 265/99/19 Direzione generale
dell’amministrazione civile – Direzione centrale delle
autonomia – Ufficio rapporti con gli amministratori degli
enti locali).
La regola, pertanto, deve ritenersi applicabile con
riferimento a quelle realtà locali di dimensioni più ridotte
rispetto a quella comunale (area municipale), nelle quali
maggiore è il rischio di probabili influenze da parte
dell’amministratore-libero professionista e più
significativa l’incidenza dell’interesse privato nelle
scelte pubbliche.
Tale conclusione sembra infine essere
confortata dal dettato normativo del d.lgs. 17.09.2010, n. 156 «Disposizioni recanti attuazione dell’articolo
24 della legge 05.05.2009, n. 42 e successive
modificazioni, in materia di ordinamento transitorio di Roma
Capitale», il quale dispone, all’art. 7, che «Per quanto non
espressamente previsto nel presente decreto, agli organi di
Roma Capitale e ai loro componenti si applicano le
disposizioni previste con riferimento ai comuni della parte
prima del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, e da ogni altra disposizione di legge.».
L’Autorità ha, peraltro, ammesso, con la FAQ 7.13 in materia
di Anticorruzione (consultabile sul sito
www.anticorruzione.it), l’applicabilità ai consiglieri di
municipalità delle cause di incompatibilità previste al
d.lgs. 39/2013 per gli altri amministratori locali sulla
base di quanto sancito all’art. 27 dello statuto di Roma
Capitale, in materia di Ordinamento dei Municipi.
Nello
specifico l’Autorità precisava che le cause di
incompatibilità previste dal d.lgs. 39/2013 sono
tassative e non sono applicabili ai consiglieri di
municipalità, salvo diversa previsione dello statuto
dell’ente, come nel caso di Roma Capitale (art. 27, comma 2
dello Statuto di Roma Capitale).
L’art. 27 del citato
statuto stabilisce espressamente: “Sono organi dei Municipi:
il Consiglio, la Giunta e il Presidente (comma 1). Agli
organi dei Municipi si applicano, in materia di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità, le
disposizioni vigenti per gli Organi di Roma Capitale (comma
2)”. Quanto previsto al secondo comma, appena riportato,
consente di ritenere estesa, anche agli organi dei municipi,
la disciplina relativa alle incompatibilità valida per i
consiglieri e, pertanto, anche le disposizioni di cui
all’art. 78 T.U.E.L.
Chiarita, dunque, l’applicabilità dell’art. 78, comma 3,
d.lgs. 267/2000 al caso in esame, occorre precisare che la
norma in oggetto disciplina l'attività professionale privata
dei titolari dell'ufficio pubblico, nell'ambito del
territorio da essi amministrato, sancendo il divieto, per
quest’ultimi, di operare come professionisti, per conto di
chiunque intenda realizzare opere edilizia entro il medesimo
territorio.
La finalità sottesa alla norma impone, tuttavia, di
considerare tanto i casi in cui il rischio di interferenza
sia attuale (conflitto di interessi concreto) quanto i casi
in cui il rischio sia solo potenziale (conflitto di
interesse potenziali) e dunque, tanto i casi in cui sia
stata posta in essere una prestazione professionale quanto i
casi in cui questa non si sia estrinsecata concretamente
nella presentazione di una pratica ma sia potenzialmente in
grado a minare le condizioni di imparzialità richieste
nell’esercizio delle funzioni di amministratore.
Recentemente il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi
in merito, ha sostenuto che “l’obbligo di astensione per
incompatibilità al quale devono attenersi i membri di organi
collegiali ricorre per il solo fatto che essi siano
portatori di interessi personali che possano trovarsi in
posizione di conflittualità ovvero anche solo di divergenza
rispetto a quello generale, risultando ininfluente che nel
corso del procedimento l’organo abbia proceduto in modo
imparziale ovvero che non sussista prova che nelle sue
determinazioni sia stato condizionato dalla partecipazione
di soggetti portatori di interessi personali diversi, atteso
che l’obbligo de quo è espressione del principio generale di
imparzialità e trasparenza (art. 97 Cost.) al quale ogni
P.A. deve conformare la propria immagine prima ancora che la
propria azione” (Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2012, n.
3133).
Alla luce di quanto riportato, potenzialmente idoneo a
configurare la fattispecie di cui all’art. 78, comma 3,
d.lgs. 267/2000 deve considerarsi anche il caso in esame in
cui l’assessore riveste la qualità di socio amministratore
di uno studio di progettazione con sede nel territorio
municipale.
E’ sufficiente constatare, infatti, che la
mancata sottoscrizione o partecipazione diretta
dell'assessore alla pratica edilizia presentata presso
l'ufficio tecnico, poiché curata dagli altri associati allo
studio, non solleva il medesimo da quella personale
responsabilità politica e deontologica cui deve essere
sempre improntato il proprio comportamento.
A nulla rileva,
come constatato dal RPC, che non vi sia materiale riscontro
del “compimento di attività ricadenti nell’obbligo di
astensione”, in termini di documentazione tecnica presentata
presso il Municipio, infatti, stante la qualità di socio
amministratore dello studio dell’Assessore architetto
[omissis], le pratiche sono comunque da ritenere,
indirettamente e potenzialmente, riconducibili al medesimo
(Ministero dell’Interno nel parere del 19.02.2010).
Per le ragioni su esposte si ritiene che il divieto si
estenda a tutte le attività/pratiche in carico allo studio
di progettazione poiché il rischio che la norma mira a
prevenire, dell’indebita influenza sulla volontà del
personale amministrativo esercitata dal professionista, deve
ritenersi sussistente, quantomeno nella forma potenziale, in
riferimento a tutte le pratiche riconducibili allo studio di
cui l’assessore è socio amministratore e non solo a quelle
facenti capo direttamente al medesimo.
Peraltro, il divieto opera a prescindere dai soggetti per
conto dei quali viene esercitata l’attività suddetta, posto
che la norma «non circoscrive l'obbligo di astensione ai
soli incarichi conferiti da parte di pubbliche
amministrazioni (anche perché, qualora il rapporto si
costituisse con l'ente di appartenenza dell'amministratore
potrebbe configurarsi la causa di incompatibilità di cui
all'art. 63, comma 1, num. 2, del d.lgs. 267/2000), ma lo
estende anche a quelli svolti nell'interesse di privati»
(parere del Ministero dell’interno del 12.03.2010).
b) Applicabilità dell’art. 78, comma 3, d.lgs. 267/2000 al
consigliere che ricopre la carica di presidente della
commissione lavori pubblici del Municipio XIV di Roma e allo
stesso tempo svolge l’attività professionale di geometra
nello studio associato di cui sopra.
Quanto sopra considerato, in merito all’applicabilità
dell’art. 78 d.lgs. 267/2000 alla figura dell’assessore
municipale, può osservarsi anche con riferimento al
presidente della commissione lavori pubblici. Infatti, nella
categoria di componenti degli organi di decentramento,
rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 78 T.U.E.L.,
può ricomprendersi anche il presidente delle commissioni in
cui si articola il Consiglio municipale, quale organo che
compone la struttura del municipio, organismo di
decentramento.
Tutto ciò considerato, l’art. 78, comma 3, si applica al
consigliere presidente della commissione lavori pubblici del
Municipio, oltre all’obbligo, ai sensi del comma 2, di
«astenersi dal prendere parte alla discussione e alla
votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado», nonché il generale
dovere di comportamento secondo i principi di imparzialità e
buon andamento.
Con riferimento agli ulteriori quesiti oggetto della
segnalazione si osserva che la situazione di conflitto,
seppur potenziale, disciplinata dalla norma, rilevi solo ed
esclusivamente a partire dall’assunzione dell’incarico di
assessore, condizione necessaria per l’integrazione della
norma, ricomprendendo, dunque, oltre che le pratiche future
anche le situazioni già in essere al momento dell’assunzione
dell’incarico.
Infine, si ritiene che la norma richieda la
pura astensione dallo svolgimento dell’attività
professionale, mentre una specifica dichiarazione sul punto
andrebbe rilasciato al Segretario generale dell’Ente in
funzione di Responsabile della prevenzione della corruzione.
Conclusioni dell’ufficio
Le risultanze dell’accertamento, anche alla luce
dell’ulteriore documentazione posta all’attenzione
dell’Autorità dal segnalante, conducono alla conclusione
dell’esistenza di un conflitto di interessi tra le attività
professionali esercitate e/o in corso dell’assessore
[omissis] e del geometra [omissis] e le cariche politiche
rivestite.
Ulteriori approfondimenti non di competenza di
quest’Autorità sono necessari rispetto alle dichiarazioni
rese dagli interessati nella pubblica audizione nell’ambito
della verifica effettuata dall’esponente e dal RPC di Roma
Capitale e ad eventuali vantaggi che gli interessati abbiano
potuto avere nell’esercitare un’attività professionale che
non dovevano esercitare o seguitare a proseguire nell’ambito
della carica politica ricoperta.
Tutto ciò premesso e considerato,
DELIBERA
• l’archiviazione del fascicolo non sussistendo ipotesi di
inconferibilità/incompatibilità, ai sensi del d.lgs. n.
39/2013, per i motivi sopra enunciati, nonché
l’invio dello
stesso al Prefetto di Roma, al fine dell’accertamento della
violazione di cui all’art. 78, co. 3, del TUEL, al RPC di
Roma Capitale, ai consigli di disciplina degli ordini
professionali degli interessati e alla Procura della
Repubblica competente per territorio, per le valutazioni di
competenza
(delibera
14.12.2016 n. 1307 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Oggetto: Alcune indicazioni interpretative sulle Linee
guida n. 3 recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile
unico del procedimento per l’affidamento di appalti e
concessioni» (comunicato
del Presidente 14.12.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Alcune indicazioni interpretative sulle Linee
guida n. 1 recanti «Indirizzi generali sull’affidamento dei
servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria» (comunicato
del Presidente 14.12.2016
- link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Il
comune non può fare richieste fuori dal bando. L'Anac su
polizza assicurativa a garanzia della stazione appaltante.
È illegittima la richiesta di una ulteriore polizza
assicurativa a carico dell'aggiudicatario di un appalto
riguardante il periodo di manutenzione offerto in sede di
gara, senza che vi sia stata una corrispondente specifica
previsione nella lex specialis.
È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac)
col
Parere di Precontenzioso 23.11.2016 n. 1201 - rif. PREC
52/16/L reso pubblico in
questi giorni e relativo ad una procedura aperta per
l'affidamento dell'esecuzione delle opere relative al
completamento dei lavori di sistemazione idrogeologica del
bacino Vallone dell'Olmo.
L'impresa aggiudicataria, nel formulare la propria offerta
tecnica aveva proposto la manutenzione delle opere eseguite
per una durata di quindici anni e di conseguenza il comune,
per la stipula del contratto, al fine di garantire la
corretta esecuzione in relazione ai 15 anni manutenzione,
aveva richiesto l'impegno a stipulare una apposita
fideiussione a decorrere dalla data del collaudo.
Sorgeva quindi il problema della legittimità di tale
richiesta, non prevista originariamente nella documentazione
di gara e l'impresa e il comune presentavano richiesta di
precontenzioso all'Anac. All'epoca della gara era vigente la
disciplina della garanzia fideiussoria di cui all'articolo
113 del dlgs 163/2006 ed era prevista una polizza di
assicurazione ai sensi dell'art. 129, comma 1, dlgs 16372006
e dell'articolo 124 del dpr 207/2010.
La delibera sottolinea come il sistema previgente
all'attuale decreto 50/2016 disegnava un quadro complessivo
di garanzie finalizzato a tutelare la stazione appaltante
sia nella fase pubblicistica di scelta del contraente, sia
in quella privatistica di esecuzione del contratto.
In questo sistema emergeva l'interesse pubblico sotteso alla
realizzazione di un appalto, non soltanto per l'eventuale
inadempimento dell'appaltatore, ma anche per eventuali
ulteriori e distinti danni che la stessa dovesse subire,
direttamente o indirettamente, a causa dell'esecuzione del
contratto. Si giustifica in tal modo l'espressa previsione
di una copertura assicurativa per la responsabilità civile
verso terzi. Tali garanzie pertanto, assolvono a funzioni
diverse e sono rilasciate in momenti distinti.
Nel caso specifico la documentazione di gara (aggiudicata
con l'offerta economicamente più vantaggiosa anche con
riferimento al piano di manutenzione post realizzazione
delle opere con indicazione del relativo periodo) non
riportava alcun riferimento o rinvio all'obbligo per
l'aggiudicatario di prestare una garanzia ulteriore e
diversa quale quella oggetto di contestazione. Nel
disciplinare di gara emergeva soltanto che le prestazioni
migliorative offerte dal concorrente dovevano essere
eseguite a spese di quest'ultimo.
I 15 anni di manutenzione finivano quindi per concretizzarsi
in un ulteriore onere aggiuntivo per l'esecutore al quale
non poteva legarsi la richiesta di una ulteriore garanzia.
Da questa analisi l'Autorità presieduta da Raffaele Cantone
ha fatto discendere che la clausola contrattuale non appare
coerente e conforme al dettato della lex specialis e
quindi che è illegittimo chiedere una garanzia aggiuntiva
per il periodo di manutenzione offerto dal concorrente
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2016). |
APPALTI:
Il codice dei contratti si applica agli asili nido.
Precisazione dell'Anac sugli affidamenti in concessione.
Senza trasferimento del rischio di gestione non si può configurare una
concessione di servizi, bensì un appalto di servizi.
È quanto ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione nel
Parere sulla Normativa 23.11.2016 n. 1197 - rif. AG 49/2016/AP resa pubblica ieri, che riguarda una richiesta di
parere presentata da Roma Capitale in ordine a una procedura aperta per
l'affidamento in concessione (triennale) a terzi di sette nidi comunali.
Il quesito posto all'Autorità presieduta da Raffaele Cantone riguardava la
possibilità di considerare gli asili nido tra i servizi non economici di
interesse generale e pertanto applicare l'articolo 164, comma 3, del dlgs n.
50/2016 secondo cui tali servizi sono esclusi dall'applicazione del nuovo
codice dei contratti pubblici. Ciò in quanto la nuova impostazione data dal
comune alle procedure di affidamento (diversamente dagli anni precedenti),
comportava per il concessionario un forte impegno economico (sconti imposti
per bambini provenienti da famiglie a basso reddito, esenzioni totali) e una
riduzione da 500 a 171 euro l'anno dei proventi per il concessionario.
L'Anac, in via preliminare, ha precisato che ai fini dell'inquadramento di
un contratto come concessione è necessario che sia trasferito sul
concessionario il rischio operativo, ovvero il rischio legato alla gestione
del servizio sul lato della domanda o sul lato dell'offerta o di entrambi.
Per l'Autorità, ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lettera zz) del nuovo
codice dei contratti pubblici, si prevede che il concessionario assuma il
rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia
garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti
per la gestione dei servizi oggetto di concessione.
La parte del rischio trasferita al concessionario deve quindi comportare, ha
segnalato l'Anac, una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale
per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia
puramente nominale o trascurabile. Qualora tale trasferimento del rischio
non sussista la fattispecie contrattuale va invece inquadrata nel novero
degli appalti pubblici.
Nel caso di specie, per l'Anac non si è in presenza di elementi che
configurino il trasferimento del rischio al privato concessionario; in tale
senso depongono il fatto che sia il comune ad individuare i bambini da
inserire nei posti della struttura (senza che il concessionario possa
interferire); che sia sempre il comune a mettere a disposizione i propri
locali ad uso gratuito del contraente e a definire le modalità di gestione
degli asili nido (con la limitata possibilità che il contraente possa
fornire servizi complementari a prezzo di mercato).
Da qui la delibera fa discendere l'inquadramento della struttura
contrattuale nel novero dell'appalto di servizi, anziché in quello della
concessione, determina la necessità di procedere all'affidamento del
contratto mediante apposita procedura di gara, nel rispetto delle
disposizioni del dlgs n. 50/2016 relative agli appalti pubblici, con
conseguente inapplicabilità della disciplina di cui alla parte III del
decreto stesso, cui fa invece riferimento l'amministrazione comunale
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2016).
---------------
OGGETTO: Richiesta di parere presentata da Roma Capitale – quesito
giuridico in ordine alla procedura aperta per l’affidamento in concessione a
terzi di n. 7 nidi comunali indetta da Roma Capitale - riscontro a nota prot.
n. 134199 del 15.09.2016 e nota prot. n. 164328 del 08.11.2016
AG 49/2016/AP
...
Contratti pubblici – contratto di concessione – necessario trasferimento del
rischio operativo
Ai fini dell’inquadramento di un contratto come concessione è necessario
che sia trasferito sul concessionario il rischio operativo, ovvero il
rischio legato alla gestione del servizio sul lato della domanda o sul lato
dell’offerta o di entrambi. Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera zz)
del d.lgs. n. 50/2016 si considera che il concessionario assuma il rischio
operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia
garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti
per la gestione dei servizi oggetto di concessione. La parte del rischio
trasferita al concessionario deve comportare una reale esposizione alle
fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita
dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile. Qualora tale
trasferimento del rischio non sussista la fattispecie contrattuale va
inquadrata nel novero degli appalti pubblici.
Articolo 165 e articolo 3, comma 1, lettera 11) del d.lgs. n. 50/2016 |
APPALTI:
Linee guida n. 6, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n.
50, recanti «Indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto che possano considerarsi significative per la
dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui
all’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice» (determinazione
16.11.2016 n. 1293 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Commissari
di gara, stretta per le stazioni appaltanti.
Modifiche chieste da Anac sulla disciplina delle
commissioni.
Commissioni esterne per gli appalti di lavori oltre un
milione; commissari esterni sorteggiati direttamente dall'Anac
e non dalla stazione appaltante; nelle commissioni interne
il presidente deve comunque essere esterno e scelto
dall'albo Anac.
È quanto ha segnalato l'autorità Anticorruzione nell'Atto
di segnalazione al Governo e al Parlamento 16.11.2016 n.
1191 in vista delle prossime modifiche del codice dei
contratti pubblici, in particolare sulla disciplina delle
commissioni giudicatrici.
L'attenzione dell'Autorità si è appuntata in primo luogo sul
fatto che l'articolo 77 del decreto 50 prevede che sia
obbligatoria la nomina dei commissari esterni soltanto in
caso di aggiudicazione con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
migliore rapporto qualità-prezzo.
A tale proposito la
delibera rileva che «la norma contiene una limitazione non
coerente con il nuovo criterio di aggiudicazione
dell'offerta economicamente più vantaggiosa» e chiede che
l'obbligo di nomina di commissari esterni sia reso cogente
anche quando si affida sulla base dell'elemento prezzo,
sulla base del costo seguendo un criterio di comparazione
costo-efficacia quale il costo del ciclo di vita e, infine,
ponendo in gara un prezzo o costo fisso sulla base del quale
gli operatori economici competeranno soltanto in base a
criteri qualitativi.
Un secondo profilo sul quale Anac ha chiesto a governo e
parlamento di intervenire è quello dell'applicazione della
norma che, ad oggi, può nominare commissari interni quando
si sia in presenza di contratti di importo inferiore alle
soglie comunitarie o in caso di non particolare complessità.
La delibera ritiene congrua la norma per gli appalti di
forniture e servizi, ma per i lavori rileva come i contratti
sotto la soglia del 5,2% siano la larga parte del mercato.
L'Autorità, quindi, «per ovviare a tale criticità» ha
chiesto che sia portato a un milione di euro il limite fino
al quale le stazioni appaltanti possono nominare commissari
interni, evitando così l'attivazione della richiesta dei
nominativi scelti dall'albo Anac.
L'Autorità ha motivato la richiesta anche in relazione al
fatto che la soglia del milione di euro è la stessa già
prevista nel codice per l'affidamento di appalti di lavori
per il ricorso al criterio del prezzo più basso (oltre un
milione scatta l'offerta economicamente più vantaggiosa).
Un altro elemento rispetto al quale si suggeriscono
modifiche è quello attinente i commi 3 e 8 dell'articolo 77
del decreto 50: in questo caso si contesta il fatto che
quando la stazione appaltante può nominare commissari
interni, il presidente sia individuato dalla stessa stazione
appaltante fra i commissari sorteggiati. L'Autorità segnala
che questa scelta non è condivisa dagli operatori del
settore, né dal Consiglio di stato (parere 1452/2016).
Si
rende quindi necessaria una modifica normativa volta a
fugare ogni dubbio sul fatto che la possibilità di nomina
degli interni possa riguardare solo alcuni membri fermo
restando che il presidente deve essere individuato in ogni
caso tra i nominativi sorteggiati da Anac dall'istituendo
albo. Infine, si è richiesto che anche il sorteggio dei
commissari esterni (fra i nominativi forniti da Anac) sia
effettuato direttamente dall'Autorità e non rimesso alla
stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi del 02.12.2016). |
APPALTI: Due
settimane di «preavviso» per le commissioni di gara.
Appalti. Richieste anticipate per le procedure chieste da
Anac.
Le commissioni di gara per gli
appalti e le concessioni di valore inferiore alle soglie
comunitaria possono essere composte anche da esperti interni
alla stazione appaltante, che devono essere iscritti
all’albo gestito dall’Anac.
Le linee-guida 5/2016
(determinazione
16.11.2016 n. 1190) adottate dall’Anac per disciplinare i
profili specifici di funzionamento e di nomina delle
commissioni giudicatrici in caso di utilizzo dell’offerta
economicamente più vantaggiosa (si veda Il Sole 24 Ore di
giovedì) hanno rilevanti implicazioni operative e
vincolanti.
Le stazioni appaltanti devono anzitutto definire il numero
dei componenti dell’organo collegiale di valutazione delle
offerte entro un massimo di cinque: tuttavia il rispetto del
principio di contenimento dei costi dovrebbe indurre a
optare per organismi con tre membri, lasciando la
composizione più ampia agli appalti più complessi. La
procedura di individuazione degli esperti parte dalla
richiesta dell’amministrazione, a cui seguono l’invio della
lista dei candidati da parte dell’Anac e il sorteggio
pubblico.
Proprio la complessa articolazione per fasi (che ha
determinato la contestuale approvazione da parte
dell’Autorità di un atto di segnalazione al governo e al
parlamento per rendere più snelle le procedure) deve indurre
le stazioni appaltanti a effettuare la richiesta almeno 15
giorni prima del termine di scadenza per la presentazione
delle offerte, dopo il quale dovrà essere nominata la
commissione. I commissari individuati devono avere tempo per
verificare le eventuali situazioni di incompatibilità, ma
anche per valutare la possibilità di svolgere senza problemi
l’incarico. Tutto il percorso per la formazione della
commissione giudicatrice e i suoi compiti devono essere
indicati negli atti di gara
Il gruppo dei soggetti impegnati nella gara comprende anche
il segretario e l’eventuale custode della documentazione, se
diverso dal segretario: entrambi appartengono alla stazione
appaltante e non devono essere iscritti all’albo.
La stazione appaltante deve definire accuratamente i criteri
che devono guidare la commissione giudicatrice nella
valutazione delle offerte, mettendo a disposizione anche
strumenti per risolvere le questioni amministrative.
Nelle procedure sottosoglia la possibilità di nominare una
commissione composta da soli esperti interni alla stazione
appaltante (nel rispetto del principio di rotazione) è
limitata alle gare meno complesse. Questa situazione è
rilevabile per le procedure gestite interamente con
procedure telematiche (ad esempio nel Mepa) e per quelle che
prevedono nel disciplinare di gara l’attribuzione di un
punteggio tabellare secondo criteri basati sul principio
on/off (se il concorrente offre un certo elemento acquisisce
il punteggio previsto, se non lo offre non acquisisce nessun
punteggio). Se invece la commissione deve esprimere
valutazioni discrezionali è necessario che almeno il
presidente sia nominato facendo ricorso alla lista
comunicata dall’Autorità.
Per poter far parte della commissione gli esperti interni
devono comunque essere iscritti all’albo, anche se
appartenenti alla stazione appaltante che indice la gara: le
amministrazioni devono quindi procedere a una ricognizione
(considerando anche le eventuali convenzioni per gestioni
dei modelli aggregativi, come le centrali di committenza) e
sollecitare l’iscrizione all’albo, una volta che verrà reso
operativo, presumibilmente nell’arco di nove mesi (articolo Il Sole 24 Ore del 28.11.2016). |
APPALTI: Esperti
scelti dall'albo. L'Anac sui commissari negli appalti.
Commissari di gara esterni alle stazioni appaltanti e scelti
da un albo gestito da Anac, ma soltanto fra nove mesi; per
adesso ancora nomine con le vecchie regole, in attesa del
regolamento Anac per la gestione dell'albo e per le modalità
di scelta dei commissari e di un decreto ministeriale per
fissare i compensi dei commissari di gara.
È quanto prevedono le linee guida Anac n. 5 che attuano
l'articolo 78 del nuovo codice dei contratti pubblici,
approvate in via definitiva dal consiglio dell'autorità, con
determinazione 16.11.2016 n. 1190 e relative ai criteri di
scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti
nell'albo nazionale obbligatorio dei componenti delle
commissioni giudicatrici.
Si tratta di linee guida che avranno natura vincolante, così
come affermato dal consiglio di stato nel parere emesso a
settembre, in quanto aventi «valenza integrativa del
precetto primario» (l'articolo 78 del decreto 50/2016)
qualificabili come «atti amministrativi generali
appartenenti alla categoria degli atti di regolazione delle
autorità amministrative indipendenti, sia pure connotati in
modo peculiare». Il sistema non entrerà però in vigore
subito in quanto mancano ancora due provvedimenti su
modalità di scelta dei commissari e tariffe.
La tariffa di
iscrizione all'albo e il compenso massimo per i commissari
saranno stabiliti in un decreto ministeriale, mentre sarà un
regolamento Anac a fissare le modalità di gestione dell'albo
e le procedure di scelta dei commissari. Dalla data di
pubblicazione del regolamento Anac saranno accettate le
richieste di iscrizione all'albo che sarà operativo tre mesi
dopo la pubblicazione del regolamento. Fino a quella data
(circa 9 mesi) si applicherà il periodo transitorio di cui
all'art. 216, comma 12, del codice: la commissione
giudicatrice continuerà a essere nominata dall'organo della
stazione appaltante competente a effettuare la scelta del
soggetto affidatario del contratto.
Il provvedimento era
molto atteso dagli operatori in quanto in base al nuovo
codice in quanto la nomina di una commissione giudicatrice è
obbligatoria in caso in cui «si applichi il sistema del
miglior rapporto qualità/prezzo»; le linee guida sulle
commissioni di gara saranno pertanto applicabili a tutti gli
appalti di lavori oltre un milione (contrariamente a quanto
previsto nel nuovo codice e a quanto affermato dal consiglio
di stato) e a tutti gli altri affidamenti di forniture e
servizi relativi ai servizi di ingegneria e architettura per
i quali si utilizza il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa e si devono effettuare valutazioni di natura
discrezionale.
Ammessi i componenti interni purché si tratti
di: affidamento di contratti di importo inferiore alle
soglie di rilevanza comunitaria o appalti di non particolare
complessità (procedure svolte attraverso piattaforme
telematiche di negoziazione, ex art. 58 del codice); nel
caso invece la commissione debba esprimere valutazioni di
tipo discrezionale (Oepv) è necessario, per appalti sotto
soglia, che almeno il presidente sia nominato con la lista
comunicata dall'autorità.
Va rilevato che l'Anac, per sanare
il contrasto con il consiglio di stato, in un atto di
segnalazione, ha evidenziato la necessità di modificare il
decreto 50 prevedendo espressamente l'abbassamento da 5,2 a
un milione di euro del limite oltre il quale scatta
l'obbligo di nomina dei commissari esterni.
I commissari di
gara dovranno essere necessariamente iscritti all'albo Anac,
essere muniti di una apposita polizza assicurativa e non
devono avere riportato condanna penali. I dipendenti
pubblici sono iscritti gratuitamente all'albo e non hanno
diritto al compenso
(articolo ItaliaOggi del 24.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Offerte
tecniche carenti senza soccorso istruttorio. Delibera Anac
valida con il nuovo codice dei contratti.
Il soccorso istruttorio non è utilizzabile per sanare
carenze delle offerte tecniche presentate in una gara di
appalto.
Lo ha affermato l'Anac, con il
Parere di Precontenzioso 26.10.2016 n. 1093 - rif. PREC
248/15/L in merito alla
legittimità dell'esclusione di un concorrente dovuta alla
mancata presentazione nell'offerta tecnica di un appalto
integrato di alcuni elaborati progettuali, consistenti nel
«censimento e progetto di risoluzione delle interferenze» e
nel «quadro economico con le indicazioni delle singole voci
senza importi».
Questa documentazione era stata richiesta a
pena di esclusione dalla lex specialis del bando di gara che
ne richiedeva la predisposizione in base a quanto prevedeva
l'allora vigente dpr 207/2010 agli articoli da 24 a 32 in
tema di progettazione definitiva.
L'Autorità anti corruzione ha richiamato la determinazione
1/2015 sul soccorso istruttorio per ritenere legittima
l'esclusione disposta dalla stazione appaltante: per l'Anac,
nel caso specifico, risultava inammissibile l'utilizzo del
soccorso istruttorio perché si tratta di un istituto che non
ha la finalità di «supplire a carenze dell'offerta». Se ciò
fosse ammesso si determinerebbero diversi effetti negativi:
in primo luogo si «produrrebbe un'alterazione della par
condicio e del libero gioco della concorrenza»; in secondo
luogo «si violerebbe il canone di imparzialità e di buon
andamento dell'azione amministrativa».
Infine, ammettere
l'impiego del soccorso istruttorio per sanare le carenze
dell'offerta tecnica significherebbe «eludere la natura decadenziale dei termini cui è soggetta la procedura e
implicherebbe la violazione del principio di segretezza
delle offerte».
In particolare, secondo l'Autorità, il soccorso istruttorio,
disciplinato ai sensi dell'art. 46, comma 1, del dlgs 163/2006,
norma in vigore all'epoca dello svolgimento della gara, «si
riferisce al potere-dovere di regolarizzare certificati,
documenti o dichiarazioni già esistenti ovvero di
completarli, ma non può essere utilizzato per supplire a
carenze dell'offerta tecnica», a maggior ragione in presenza
di una previsione del bando richiesta a pena di esclusione.
In altre parole l'istituto è finalizzato a sanare ogni
omissione o incompletezza documentale, superando il limite
della sola regolarizzazione e integrazione di quanto già
dichiarato e prodotto in sede di gara in relazione ai
requisiti di partecipazione. Del tutto estranea all'impiego
del soccorso istruttorio è quanto accade nella successiva
fase di offerta.
Anche la giurisprudenza, ha detto l'Anac ha interpretato la
norma del vecchio codice affermando che si indirizza al
potere-dovere di regolarizzare certificati, documenti o
dichiarazioni già esistenti. Pertanto ne viene confermata
l'impossibilità di applicazione in caso di inosservanza di
una chiara clausola di gara che imponeva la produzione di
elaborati facenti parte del progetto definitivo che doveva
prodursi in sede di gara di un appalto integrato.
La delibera Anac mantiene la sua validità anche nell'ambito
del nuovo codice dei contratti pubblici dal momento che
anche il comma 9 dell'articolo 83 si riferisce alla
possibilità di sanare le carenze di qualsiasi elemento della
domanda di partecipazione, quindi anche del Dgue «con
esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed
economica»
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016). |
APPALTI: Semplificazioni
ad ampio raggio sulle concessioni.
Contratti pubblici. Approvate le linee guida dell’Anac
attuative della riforma sugli affidamenti di valore
inferiore alla soglia comunitaria.
Le procedure per l’acquisizione di
lavori, beni e servizi di valore inferiore alle soglie
comunitarie si applicano agli appalti, ma anche alle
concessioni. Quando queste abbiano un valore che ne
determina l’interesse in un mercato esteso, le stazioni
appaltanti adottano procedure di gara adeguate e utilizzano
mezzi di pubblicità per garantire in maniera efficace
l’apertura del mercato.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha approvato in via
definitiva le linee-guida 4/2016
(determinazione
26.10.2016 n. 1097) relative agli affidamenti
sottosoglia, evidenziando che le amministrazioni possono
ricorrere alle procedure ordinarie, anziché a quelle
semplificate, se le esigenze del mercato suggeriscono di
assicurare il massimo confronto concorrenziale.
Questo
deriva dal fatto che le procedure previste dall’articolo 36
del Dlgs 50/2016 hanno un margine di utilizzo molto ampio,
applicandosi anche alle concessioni (di servizi e di
lavori), che hanno una soglia molto elevata (5,225 milioni
di euro). In merito agli affidamenti diretti entro i 40mila
euro, l’Anac conferma che la procedura prende l’avvio con
una determinazione a contrarre, semplificabile in caso di
ordine diretto di acquisto sul Mepa o di acquisizioni di
modesto importo.
Le linee-guida sanciscono che la stazione appaltante deve
fornire una motivazione adeguata in merito alla scelta
dell’affidatario, ma non la vincolano a procedure
specifiche, evidenziando come l’onere motivazionale relativo
all’economicità dell’affidamento e al rispetto dei principi
di concorrenza possa essere soddisfatto mediante la
valutazione comparativa dei preventivi di spesa forniti da
due o più operatori economici
La deroga al principio di rotazione deve essere eccezionale
e la stazione appaltante è tenuta a motivare la scelta se
riscontra l’effettiva assenza di alternative o in forza del
grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente
rapporto contrattuale, e in ragione della competitività del
prezzo offerto rispetto alla media dei prezzi praticati nel
settore di mercato di riferimento.
L’Anac individua anche due interventi rimessi alla potestà
regolamentare delle amministrazioni: la definizione delle
modalità per gli affidamenti di valore inferiore ai mille
euro, nonché la disciplina delle indagini di mercato e degli
elenchi di operatori economici da utilizzare nelle mini-gare
per gli affidamenti superiori ai 40mila euro (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti
sotto soglia a rotazione. Apertura alle imprese estere:
procedure su internet. Le linee guida dell'Anticorruzione
che attuano l'articolo 36 del codice dei contratti.
Favorire la rotazione negli appalti a trattativa privata
limitando il rinnovo al contraente uscente; indagini di
mercato coerenti con la natura dell'affidamento; obbligo di
motivazione nella determina a contrarre; sempre possibile
per la stazione appaltante fare ricorso alle più
concorrenziali procedure ordinarie.
Sono questi alcuni degli elementi delle linee guida Anac n.
4/2016 (determinazione
26.10.2016 n. 1097) (pubblicate sulla Gazzetta
Ufficiale n. 274 del 23.11.2016) sugli affidamenti di
appalti di importo inferiore alle soglie Ue.
Le linee guida attuano l'articolo 36 del Codice e si
applicano agli affidamenti di lavori servizi e forniture
posti in essere nei settori ordinari, ivi inclusi i servizi
attinenti all'architettura e all'ingegneria e i servizi
sociali e gli altri servizi specifici elencati all'allegato
IX; oltre che nei settori speciali (acqua, energia e
trasporti) «in quanto compatibili».
Le linee guida, che fanno comunque salvi gli obblighi di
utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione, anche
telematici (Mepa), nonché la normativa sulla qualificazione
delle stazioni appaltanti e sulla centralizzazione e
aggregazione della committenza, prevedono che le stazioni
appaltanti possano comunque «discrezionalmente ricorrere
alle procedure ordinarie (aperte o ristrette)».
Per i servizi di ingegneria e architettura il ricorso alle
procedure ordinarie è invece obbligatorio oltre i 100 mila
euro, mentre per appalti e concessioni «di interesse
transfrontaliero certo» le stazioni appaltanti dovranno
adottare procedure di gara adeguate e utilizzare mezzi di
pubblicità atti a garantire in maniera effettiva ed efficace
l'apertura del mercato alle imprese estere. Tutti gli atti
della procedura devono essere soggetti agli obblighi di
trasparenza previsti dall'art. 29, dlgs 50/2016 (pubblicità
sui siti internet).
È ammesso l'utilizzo del criterio del prezzo più basso per
gli affidamenti di servizi e forniture di importo inferiore
alle soglie di cui all'articolo 35 del codice ed i lavori di
importo pari o inferiore a un milione di euro possono essere
aggiudicati, ai sensi dell'art. 95, comma 4, dlgs 50/2016,
con il criterio del minor prezzo, purché ricorrano le
condizioni ivi disposte. Sempre obbligatoria, nella
determina a contrarre, la motivazione sul ricorso alla
procedura negoziata (in sintesi per affidamenti sotto i 40
mila euro).
Particolarmente significative le indicazioni sul rispetto
del principio di rotazione espressamente sancito dall'art.
36, comma 1, del nuovo codice: proprio per rendere effettivo
tale principio l'Anac chiede che l'affidamento al contraente
uscente «abbia carattere eccezionale» e quindi ritiene che
vi debba essere un onere motivazionale più stringente (ad
esempio, per riscontrata effettiva assenza di alternative,
oppure per il grado di soddisfazione maturato a conclusione
del precedente rapporto contrattuale in termini di tempi,
costi e qualità).
L'onere motivazionale relativo all'economicità
dell'affidamento e al rispetto dei principi di concorrenza
può essere soddisfatto mediante la valutazione comparativa
dei preventivi di spesa forniti da due o più operatori
economici.
Le indagini di mercato (che servono a selezionare i cinque o
dieci operatori da invitare, contemporaneamente, a
presentare l'offerta) sono svolte secondo le «modalità
ritenute più convenienti dalla stazione appaltante,
differenziate per importo e complessità di affidamento,
secondo i principi di adeguatezza e proporzionalità, anche
tramite la consultazione dei cataloghi elettronici del
mercato elettronico propri o delle altre stazioni
appaltanti, nonché di altri fornitori esistenti»
(articolo ItaliaOggi del 02.12.2016). |
APPALTI: Appalti,
requisiti e ruolo del Rup. Riformata la figura del
responsabile unico del procedimento.
Le linee guida dell'Anac n. 3/2016 del 10.11.2016
approvate in via definitiva.
Il responsabile unico del procedimento (Rup), negli appalti
di lavori complessi, deve avere la qualifica di project
manager; possibile affidare a terzi con gara attività di
supporto; per lavori fino a un milione, il Rup deve
possedere un diploma ed esperienza decennale; oltre un
milione serve la laurea almeno triennale, abilitazione
professionale e esperienza di 5 anni.
Sono queste alcune delle indicazioni contenute nelle linee
guida dell'Autorità anticorruzione (Anac) n. 3/2016 del 10.11.2016 sui Rup
(determinazione
26.10.2016 n. 1096), in attuazione.
In primo luogo l'Autorità affronta il tema della nomina del
Rup chiarendo che per gli affidamenti relativi a lavori deve
essere effettuata prima del progetto di fattibilità tecnica
ed economica e, nel caso di lavori non assoggettati a
programmazione, contestualmente alla decisione di realizzare
gli stessi.
In secondo luogo, le linee guida affermano che le funzioni
di Rup non possono essere assunte dal personale che versa
nelle ipotesi di conflitto di interesse, né dai soggetti che
sono stati condannati, anche con sentenza non passata in
giudicato, per i reati contro la p.a.
Il ruolo di Rup, che è un pubblico ufficiale, è, di regola,
incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice «ferme restando le
acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile
coincidenza».
Il Rup sovrintende alle fasi di progettazione, affidamento
ed esecuzione di ogni singolo intervento per assicurare che
sia condotto in modo unitario in relazione ai tempi e ai
costi preventivati, alla qualità richiesta, alla
manutenzione programmata, alla sicurezza e alla salute dei
lavoratori e in conformità a qualsiasi altra norma vigente.
Il Rup, si legge nelle linee guida, svolge la propria
attività con il supporto dei dipendenti dell'amministrazione
ma, in caso di inadeguatezza di organico, può affidare
compiti di supporto a soggetti terzi all'amministrazione,
con procedure ad evidenza pubblica.
Il soggetto affidatario dei compiti di supporto, come diceva
l'abrogato dpr 207/2010 (art. 10, comma 6), deve stipulare
polizza assicurativa per i rischi professionali e non può
partecipare agli incarichi di progettazione o ad appalti e
concessioni di lavori (o subappalti o cottimi) con
riferimento ai quali abbia espletato i propri compiti di
supporto.
Per appalti di particolare complessità il Rup deve possedere
un titolo di studio nelle materie attinenti all'oggetto
dell'affidamento e, a decorrere dalla data di entrata in
vigore del nuovo sistema di qualificazione delle stazioni
appaltanti di cui all'art. 38 del Codice, anche la qualifica
di project manager.
Negli altri casi deve essere in possesso di specifica
formazione professionale, soggetta a costante aggiornamento,
e deve aver maturato un'adeguata esperienza professionale
nello svolgimento di attività analoghe a quelle da
realizzare in termini di natura, complessità e importo
dell'intervento (presso amministrazioni o come attività di
lavoro autonomo).
Per lavori fino a un milione occorre in particolare un
diploma (diploma di perito industriale, perito commerciale,
perito agrario, agrotecnico, perito edile, geometra, e
altro), oltre a un'anzianità di servizio ed esperienza di
almeno dieci anni nell'ambito dell'affidamento di appalti e
concessioni di lavori.
Oltre il milione, almeno una laurea triennale in
architettura, ingegneria, scienze e tecnologie agrarie,
scienze e tecnologie forestali e ambientali, scienze e
tecnologie geologiche o equipollenti, scienze naturali,
abilitazione all'esercizio della professione e almeno cinque
anni nell'ambito dell'affidamento di appalti e concessioni
di lavori
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Cantone
torna sulle cause di esclusione e verifiche.
Indicazioni alle stazioni appaltanti e operatori
economici.
Autodichiarazione dei requisiti anche da parte del solo
rappresentante legale; tenuti alle dichiarazioni
sull'assenza della cause di esclusione anche i membri del
collegio sindacale, del consiglio di gestione e di
sorveglianza, i revisori contabili e i componenti
dell'organismo di vigilanza del decreto 231/2001, oltre ai
direttori tecnici e ai procuratori ad negotia.
È quanto ha affermato l'Anac, l'Autorità anticorruzione
guidata da Raffaele Cantone, con il
comunicato
del Presidente 26.10.2016 (Indicazioni alle
stazioni appaltanti e agli operatori economici sulla
definizione dell’ambito soggettivo dell’art. 80 del d.lgs.
50/2016 e sullo svolgimento delle verifiche sulle
dichiarazioni sostitutive rese dai concorrenti ai sensi del
d.p.r. 445/2000 mediante utilizzo del modello di DGUE) che offre indicazioni sui soggetti obbligati a
dichiarare l'assenza di cause di esclusione legate alle
condanne penali elencate ai commi 1 e 3 dell'articolo 80
(l'ex art. 38 del vecchio codice 163/2006).
Il principale profilo critico risolto dall'Anac riguarda il
riferimento ai «membri del consiglio di amministrazione cui
sia stata conferita la legale rappresentanza, di direzione o
di vigilanza», un richiamo inserito nel nuovo codice in base
alle direttive Ue le quali, a loro volta, hanno introdotto
un concetto estraneo alla disciplina dei modelli
organizzativi delle società di capitali.
L'Anac ha chiarito quindi che devono fornire le
dichiarazioni ex commi 1 e 3 dell'articolo 80 del nuovo
codice (condanne penali): i membri del consiglio di
amministrazione cui sia stata conferita la legale
rappresentanza, nelle società con sistema di amministrazione
tradizionale e monistico (presidente del consiglio di
amministrazione, amministratore unico, amministratori
delegati anche se titolari di una delega limitata a
determinate attività ma che per tali attività conferisca
poteri di rappresentanza); i membri del collegio sindacale
nelle società con sistema di amministrazione tradizionale e
i membri del comitato per il controllo sulla gestione nelle
società con sistema di amministrazione monistico; i membri
del consiglio di gestione e i membri del consiglio di
sorveglianza, nelle società con sistema di amministrazione
dualistico.
Oltre a tali soggetti per l'Anac devono rendere le
dichiarazioni anche: «I soggetti che, benché non siano
membri degli organi sociali di amministrazione e controllo,
risultino muniti di poteri di rappresentanza (come gli
institori e i procuratori ad negotia), di direzione (come i
dipendenti o i professionisti ai quali siano stati conferiti
significativi poteri di direzione e gestione dell'impresa) o
di controllo (come il revisore contabile e l'organismo di
vigilanza di cui all'art. 6 del decreto 231/2001 cui sia
affidato il compito di vigilare sul funzionamento e
sull'osservanza dei modelli di organizzazione e di gestione
idonei a prevenire reati)».
Per i controlli antimafia le dichiarazioni dovranno essere
rese da tutti i soggetti previsti dal codice antimafia. Il
comunicato Anac specifica che le dichiarazioni possono
essere fatte utilizzando il Dgue (documento di gara unico
europeo) dal solo legale rappresentante per tutti i soggetti
obbligati senza necessità di indicare nome e cognome dei
titolari delle cariche sociali.
Per quel che concerne le tutele per il rappresentante legale
relativamente a false dichiarazioni o omissioni, il
comunicato ritiene «opportuna la preventiva acquisizione
delle autodichiarazioni sul possesso dei requisiti da parte
di ciascuno dei soggetti individuati dalla norma»
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2016). |
APPALTI: L’Anticorruzione
scioglie i dubbi sui requisiti in gara. Nuovo codice. Il
comunicato di Raffaele Cantone.
Cantone prova
sciogliere i dubbi sulle dichiarazioni dei concorrenti alle
gare d'appalto. Il tema è quello delicatissimo del rischio
di esclusione dalle procedure di assegnazione dei contratti
per motivi che non di rado attengono a irregolarità solo
formali.
Per questo, di fronte alle richieste di chiarimento
sull'applicazione del nuovo codice piovute dalle stazioni
appaltanti, il presidente dell'Anticorruzione ha diffuso il
comunicato
del Presidente 26.10.2016 con le prime indicazioni per le imprese e le Pa.
Annunciando che sulla questione verrà comunque preparato un
documento di indirizzo più organico.
Il primo punto da chiarire riguarda i rappresentanti di
impresa obbligati a dichiarare l'assenza di cause di
esclusione legate alle condanne penali elencate da Dlgs
50/2016 (articolo 80, commi 1 e 3). «Problemi interpretativi
-sintetizza il comunicato- sono sorti in relazione al
riferimento, mutuato dalla direttiva europea, ai “membri del
consiglio di amministrazione cui sia stata conferita la
legale rappresentanza, di direzione o di vigilanza”, in
quanto l'ordinamento italiano non contempla, nella
disciplina dei modelli organizzativi delle società di
capitali, un “consiglio di direzione” o un “consiglio di
vigilanza”».
Per l'Anac, la strada per applicare la norma è
quella di fare riferimento ai sistemi di amministrazione e
controllo disciplinati dal codice civile (sistema,
“tradizionale”, “dualistico” e “monistico”) e articolare gli
obblighi di dichiarazione in base ai soggetti dotati di
poteri di rappresentanza (Cda, collegio sindacale, collegio
di gestione, amministratori).
Inoltre la verifica dello stesso requisito deve riguardare
anche gli altri «soggetti muniti di poteri di
rappresentanza, di direzione o di controllo». Tra questi
anche i procuratori e gli organismi di vigilanza incaricati
di vigilare sull'osservanza dei modelli si gestione idonei a
prevenire i reati. Nessun controllo invece deve essere
effettuato sui membri degli organi sociali delle aziende
eventualmente incaricate del controllo contabile, visto che
le società di revisione dei bilanci sono un «soggetto
giuridico distinto».
La dichiarazione sul possesso dei requisiti deve essere
effettuata dal rappresentante legale dell'impresa. Che può
gestire la dichiarazione per tutti. Non c'è neppure bisogno
di indicare nome e cognome dei titolari delle cariche
sociali. Con l'obiettivo di semplificare i vari passaggi
Cantone precisa che le stazioni appaltanti devono richiedere
i nominativi «solo al momento della verifica delle
dichiarazioni rese».
Gli ultimi chiarimenti riguardano il momento in cui devono
essere effettuati i controlli da parte delle
amministrazioni. Il comunicato ricorda innanzitutto gli
obblighi del codice che impongono di controllare il possesso
dei requisiti sul primo e secondo classificato prima
dell'aggiudicazione dell'appalto. In più, «le stazioni
appaltanti possono procedere al controllo» delle
dichiarazioni «anche a campione e in tutti i casi in cui si
rendesse necessario per assicurare la correttezza della
procedura, ivi compresa l'ipotesi in cui sorgano dubbi sulla
veridicità delle stesse» (articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTAZIONE: Gare
di progettazione, parametri per i compensi.
Parametri obbligatori per determinare i compensi nelle gare
di progettazione.
Lo ha ribadito l'Autorità nazionale anticorruzione,
perfezionando la prima delle linee guida (determinazione
14.09.2016 n. 973) sui servizi di
ingegneria e architettura, in attuazione del Codice appalti.
Nel dettaglio, secondo l'Anac le stazioni appaltanti hanno
l'obbligo di ricorrere al decreto parametri (dm 17.06.2016) per calcolare l'importo a base di gara negli
affidamenti di servizi di architettura e ingegneria. Piena
soddisfazione da parte del Consiglio nazionale degli
architetti pianificatori paesaggisti e conservatori.
«È
estremamente positivo che l'Anac, perfezionando la prima
delle linee guida, sulla quale gli architetti italiani hanno
già espresso il loro apprezzamento, abbia chiarito in modo
inequivocabile l'obbligo per le stazioni appaltanti di
ricorrere al cosiddetto decreto Parametri per calcolare
l'importo a base di gara negli affidamenti di servizi di
architettura e ingegneria», afferma il vicepresidente Rino
La Mendola.
«Ciò, in attesa del decreto correttivo con il
quale potrà essere modificato l'art. 24, comma 8, del Codice,
costituisce un importante riferimento per scongiurare il
rischio che le stazioni appaltanti possano sottostimare
l'importo dei compensi da porre a base di gara e adottare
conseguentemente procedure di affidamento errate,
mortificando i più elementari principi della trasparenza e
la qualità delle prestazioni professionali», afferma La Mendola.
«Con questo chiarimento, che gli architetti
italiani hanno da tempo e con fermezza sollecitato»,
continua il vicepresidente Cnappc, «le linee guida tracciano
in modo ancora più incisivo un percorso per garantire
maggiore trasparenza negli appalti e per riaprire il mercato
dei lavori pubblici». Altro punto importante, secondo il
Consiglio nazionale, è riaffermare la centralità del
progetto.
«Per farlo», conclude La Mendola, «serve stabilire
che ai vincitori di concorsi venga sempre assicurato
l'incarico della progettazione esecutiva: ciò al fine di
rendere finalmente incisivo l'impatto dei concorsi sul
mercato e di far emergere il merito soprattutto dei giovani
professionisti».
Ricordiamo che il nuovo decreto Parametri bis ha sostituito
il dm 143/2013, e secondo il codice Appalti, attualmente, i
parametri non sono obbligatori, ma costituiscono uno dei
criteri che le stazioni appaltanti possono utilizzare per la
determinazione dei compensi
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Consigliere comunale. Pubblicazione dati.
L'art. 14, comma 1, lett. d), del d.lgs.
33/2013 prevede che, con riferimento ai titolari di
incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di
livello statale regionale e locale, gli enti locali
pubblicano, tra le altre informazioni, anche i dati relativi
all'assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o
privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo
corrisposti.
L'ANAC ha precisato che, per 'enti privati' si devono
intendere le società e gli altri enti disciplinati dal
diritto privato.
Il Comune, dovendo procedere alla surroga di un consigliere
dimissionario, ha chiesto un parere in ordine all'obbligo di
pubblicare alcuni dati relativi al nuovo consigliere,
precisamente quelli indicati all'art. 14 del d.lgs. 33/2013.
L'Ente precisa che l'interessato ha dichiarato di essere
amministratore unico di una s.r.l.
Com'è noto, la citata norma, al comma 1, prevede che, con
riferimento ai titolari di incarichi politici, anche se non
di carattere elettivo, di livello statale regionale e
locale, le regioni e gli enti locali pubblicano i seguenti
documenti ed informazioni:
a) l'atto di nomina o di proclamazione, con l'indicazione della
durata dell'incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici;
d) i dati relativi all'assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi
titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti.
Si rappresenta che l'ANAC [1],
nel rispondere ad un quesito inerente l'interpretazione
dell'art. 14, comma 1, lett. d), del richiamato d.lgs.
33/2013, ha specificato che costituiscono oggetto di
pubblicazione i dati relativi all'assunzione di altre
cariche, presso enti pubblici o privati, intendendo per
questi ultimi le società e gli altri enti disciplinati dal
diritto privato.
Si è inoltre evidenziato in tale contesto che, avuto
riguardo alla formulazione letterale della citata lettera
d), non rileva, ai fini della pubblicazione, la
partecipazione o il controllo da parte dell'amministrazione
su tali enti.
Inoltre costituiscono oggetto di pubblicazione tutte le
cariche rivestite, non essendo limitato l'obbligo di
pubblicazione alle cariche di tipo 'politico' o
connesse con la carica politica rivestita.
Infine costituiscono oggetto di pubblicazione sia le cariche
a titolo oneroso sia quelle a titolo gratuito, dovendosi
precisare, per quelle onerose, anche i relativi compensi.
Pertanto, alla luce delle indicazioni fornite dall'ANAC,
l'Amministrazione istante è tenuta a pubblicare anche il
compenso percepito dal nuovo consigliere in qualità di
amministratore unico di una s.r.l.
---------------
[1] Cfr. ANAC, FAQ Trasparenza (Sull'applicazione del
d.lgs. 33/2013) (27.12.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto.
In caso di contrasto con il regolamento.
Cosa succede se le due fonti dicono cose diverse
sul numero di consiglieri.
Come deve essere calcolato il quorum strutturale affinché
possano essere considerate valide le sedute del consiglio
comunale convocate in seconda convocazione?
Nel caso di specie, il regolamento di organizzazione e
funzionamento del consiglio comunale prevede che le sedute
consiliari, convocate in seconda convocazione, siano valide
con la presenza di almeno 14 consiglieri. Lo statuto
comunale, invece, prevede che le medesime sedute siano
valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri
assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra le norme suindicate deve ricondursi alla
modifica introdotta dalla legge n. 148/2011 che ha inciso
sulla composizione dei consigli operando una riduzione del
numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica
dell'ente locale in esame.
Ai fini dell'individuazione della disposizione normativa che
deve essere applicata, al fine di computare il numero di
consiglieri necessario per la validità delle sedute del
consiglio riunito in seconda convocazione, l'art. 38, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento
comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto»
la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per
la validità delle sedute», con il limite che detto numero
non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo
dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza
computare a tale fine il sindaco e il presidente della
provincia».
Quest'ultimo assunto deve essere inteso nel
senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei
consiglieri, il sindaco deve essere escluso. Nella
fattispecie in esame, seguendo la gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto
legislativo che disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e
dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n.
2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011) la
disposizione regolamentare deve essere disapplicata,
prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno un
intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni
recate dalle citate fonti di autonomia locale
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2016). |
APPALTI:
Restituzione importo versato per soccorso istruttorio art.
38, comma 2 bis, D.Lgs. n. 163/2006, in esito a sentenza.
L'art. 38, c. 2-bis, D.Lgs. n. 163/2006,
prevede, per la mancanza, incompletezza o irregolarità
essenziali delle dichiarazioni sostitutive, il meccanismo
dell'assegnazione di un termine per la sanatoria
accompagnato dalla previsione di una sanzione pecuniaria. Ai
sensi della medesima norma, all'inutile decorso del termine
assegnato dalla stazione appaltante per la regolarizzazione
consegue l'esclusione dalla gara.
In caso di dichiarazione sostitutiva falsa, invece,
l'esclusione dalla gara si determina ai sensi dell'art. 75,
D.P.R. n. 445/2000, che prevede per le dichiarazioni non
veritiere la decadenza dal beneficio conseguito (nella
procedura ad evidenza pubblica, decadenza dall'ammissione
alla procedura di gara).
Nel caso in cui la ditta concorrente, in sede di richiesta
di ammissione alla gara, abbia omesso di dichiarare
risoluzioni pregresse e in seguito a ciò abbia adempiuto al
soccorso istruttorio attivato dalla stazione appaltante, ma
il Consiglio di Stato, intervenuto sulla vicenda, abbia
invece ravvisato una fattispecie di dichiarazione non
veritiera, affermando da un lato l'applicazione del disposto
dell'art. 75, D.P.R. n. 445/2000 e dall'altro
l'impossibilità che operasse il soccorso istruttorio, sembra
venir meno il presupposto legittimante l'incameramento della
sanzione pecuniaria da parte della stazione appaltante.
L'Ente riferisce che la Comunità montana aveva indetto nel
settembre 2014 una gara per la gestione integrata del
servizio di igiene urbana nel territorio dei comuni che
l'avevano a ciò delegata attraverso stipula di apposita
convenzione; gara che si concludeva con l'aggiudicazione
definitiva dell'appalto alla ditta vincitrice nel settembre
2015, cui seguiva la stipula del contratto, nel successivo
mese di novembre.
Sennonché, a seguito di contenzioso promosso dalla ditta
seconda classificata, sulla vicenda è intervenuto da ultimo
il Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 19.05.2016 n.
2106, che ha annullato il provvedimento di aggiudicazione
definitiva, dichiarato l'inefficacia del contratto concluso
e disposto il subentro della ditta ricorrente,
subordinandolo alle verifiche di legge da parte della
stazione appaltante.
Successivamente alla sentenza, la ditta prima aggiudicataria
ha chiesto alla Comunità montana la restituzione della somma
di € 30.000,00 versata a titolo di sanzione pecuniaria, in
forza dell'istituto del soccorso istruttorio, di cui
all'art. 38, comma 2-bis, D.Lgs. n. 163/2006
[1], attivato
dall'ente con nota PEC del 28.07.2015, su conforme
parere dell'ANAC (parere 15.07.2015, n. 125), per avere
accertato l'annotazione nel casellario informatico di due
risoluzioni pregresse a carico di detta ditta e da questa
non dichiarate, intervenute nel corso di rapporti
contrattuali con altre stazioni appaltanti. L'Ente
[2]
chiede, dunque, come procedere di fronte alla richiesta
restitutoria.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale, si esprime quanto segue.
Per chiarezza espositiva, si ritiene utile muovere da una
rappresentazione generale della normativa di interesse, e
richiamare quindi i specifici provvedimenti dell'ANAC e del
Giudice amministrativo intervenuti sulla vicenda in esame.
Il comma 2-bis dell'art. 38, D.Lgs. n. 163/2006, introdotto
dall'art. 39, DL n. 90/2014, prevede che 'la mancanza,
l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli
elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2
obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in
favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
stabilita nel bando di gara [...] In tal caso la stazione
appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore
a dieci giorni perché siano rese, integrate o regolarizzate
le dichiarazioni necessarie [...]In caso di inutile decorso
del termine di cui al secondo periodo il concorrente è
escluso dalla gara [...]'.
Le disposizioni introdotte dalla novella del 2014 sono
riprodotte nel bando di gara emanato dalla Comunità montana
(art. 8, punto 8.7), che prevede altresì di attestare con
dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 445/2000, e a pena di
esclusione, di non trovarsi in alcuna delle condizioni di
cui all'art. 38, comma 1, lett. da a) a m-quater), D.Lgs. n.
163/2006, indicandole specificatamente (art. 16, punto
16.2).
In applicazione dell'art. 38, comma 2-bis, la Comunità
montana ha chiesto alla ditta vincitrice il pagamento della
sanzione prevista dal bando, e nel contempo l'integrazione
documentale, per le irregolarità accertate delle
dichiarazioni. Un tanto, dopo avere ricevuto parere dell'ANAC
in tal senso.
In particolare, la Comunità montana aveva chiesto all'ANAC
se l'omessa dichiarazione delle risoluzioni pregresse fosse
da ricondurre all'obbligo del soccorso istruttorio di cui al
comma 2-bis dell'art. 38, oppure da ritenersi quale falsa
dichiarazione, ai sensi del comma 1-ter [3] del medesimo
articolo e se le risoluzioni in parola potessero integrare
il grave errore professionale, di cui all'art. 38, c. 1,
lett. f) [4], D.Lgs. n. 163/2006.
L'ANAC ha affermato che -essendo il giudizio di
inaffidabilità professionale subordinato alla valutazione
discrezionale della stazione appaltante o della commissione
giudicatrice- dalla dichiarazione di non aver commesso
errore grave nell'esercizio dell'attività professionale non
si possa automaticamente desumere una falsa dichiarazione
nel momento in cui emergano precedenti risoluzioni
contrattuali non dichiarate. A fronte di pregresse
risoluzioni contrattuali non dichiarate, la stazione
appaltante è legittimata a chiedere l'integrazione
documentale ai sensi dell'art. 38, comma 2-bis, D.Lgs. n.
163/2006, accompagnata dal pagamento della sanzione prevista
dal bando, fatta salva ogni valutazione successiva
sull'affidabilità dell'impresa, che è rimessa alla stazione
appaltante. E queste conclusioni sono state formulate dall'ANAC
muovendo dalla lettura della novella del 2014, come già
interpretata nella determinazione n. 1/2015 cit.
[5], e ancor
prima dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 30.07.2014, n. 16.
Il Giudice amministrativo di 1° grado, chiamato dalla ditta
seconda in graduatoria per sentir pronunciare l'annullamento
dell'aggiudicazione definitiva, ha confermato l'operato
della Comunità montana, rigettando il ricorso
[6].
A diverse conclusioni, sulla specifica vicenda in esame,
perviene il Consiglio di Stato [7], il quale -muovendo dalla
medesima lettura dell'Adunanza plenaria n. 16/2014 della
volontà del legislatore del 2014 di evitare esclusioni dalla
gara per mere carenze documentali (ivi compresa la mancanza
assoluta delle dichiarazioni)- osserva, tuttavia, che
'questione diversa, evidentemente, è quella della
dichiarazione non veritiera e dell'operatività in un simile
contesto di quanto disposto dall'art. 75, D.P.R. n.
445/2000' [8].
Nel caso in esame, osserva il Consiglio di Stato, la ditta
originaria vincitrice «ha attestato di non trovarsi in
alcuna delle situazioni costituenti causa di esclusione ai
sensi dell'art. 38, d.lgs. n. 163/2006, 'e specificatamente
... f) [...] di non aver commesso un errore grave
nell'esercizio della propria attività professionale,
accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della
stazione appaltante...' [...] e non si è limitata a omettere
di citare un fatto rilevante ai fini dell'applicazione della
detta norma, ma ne ha attestato l'inesistenza».
Il Consiglio
di Stato richiama, in proposito, una precedente pronuncia
della medesima Sezione [9]
che, proprio su analoga fattispecie, ha ribadito 'in
conformità ai moltissimi precedenti giurisprudenziali ...
l'obbligo del partecipante ad una pubblica gara di mettere a
conoscenza la stazione appaltante delle vicende pregresse
(negligenze ed errori) o di fatti risolutivi occorsi in
precedenti rapporti contrattuali con le pubbliche
amministrazioni. In una simile ipotesi, quindi, si attiva il
disposto dell'art. 75, D.P.R. n. 445/2000, mentre non può
operare il soccorso istruttorio dal momento che non è
contestata la mancanza o l'incompletezza della
dichiarazione, ma l'aver reso dichiarazione ʹnon
veritiera''. Su queste premesse, il Consiglio di Stato
annulla il provvedimento di aggiudicazione definitiva,
dichiara l'inefficacia del contratto concluso e dispone il
subentro della ditta ricorrente (seconda in graduatoria).
La richiesta di parere dell'Ente, se dar corso o meno alla
pretesa restitutoria della sanzione pecuniaria ex comma
2-bis, dell'art. 38, avanzata dalla ditta decaduta
dall'aggiudicazione e dal contratto, in forza della sentenza
del Consiglio di Stato n. 2106/2016, argomenta dall'esser
stata applicata la sanzione pecuniaria per colpire
un'irregolarità essenziale della documentazione presentata
da detta ditta. Ed invero l'operato della stazione
appaltante è stato avallato dal Giudice amministrativo di
prima istanza, il quale ha affermato che 'non esiste una
dichiarazione falsa', ed ha osservato che 'il soccorso
istruttorio ha raggiunto il suo scopo'.
Il punto è che invece il Consiglio di Stato non ravvisa una
dichiarazione irregolare, ma piuttosto una dichiarazione
falsa, cui fa conseguire l'applicazione del disposto di cui
all'art. 75, D.P.R. n. 445/2000.
Al riguardo, possono essere utili alcune considerazioni. I
requisiti generali di cui all'art. 38 (compreso quello di
cui al comma 1, lett. f), sono attestati mediante
dichiarazione sostitutiva [10], ma diverse sono le
conseguenze che il legislatore ha previsto per le
dichiarazioni sostitutive irregolari e per le dichiarazioni
sostitutive false.
In caso di mancanza, incompletezza o irregolarità essenziali
delle dichiarazioni sostitutive, l'art. 38, comma 2-bis,
prevede il meccanismo dell'assegnazione di un termine per la
sanatoria accompagnato dalla previsione di una sanzione
pecuniaria. La sanzione espulsiva, per espressa previsione
del comma 2-bis in argomento, consegue all'inutile decorso
del termine assegnato dalla stazione appaltante per la
regolarizzazione [11].
In caso di dichiarazione sostitutiva falsa, invece,
l'esclusione dalla gara si determina ai sensi dell'art. 75,
D.P.R. n. 445/2000, che prevede per le dichiarazioni non
veritiere la decadenza dal beneficio conseguito
[12]. E
ciò, senza che possa operare, a sanatoria, il meccanismo del
soccorso istruttorio, ivi compresa l'applicazione della
sanzione pecuniaria.
Premesso che dalle ricerche effettuate non si sono reperite
pronunce giurisprudenziali a conferma dell'obbligo di
restituzione in casi analoghi a quello in esame, si segnala
che la conseguenza di una valutazione di non operatività del
soccorso istruttorio per la fattispecie per cui era stato
disposto può osservarsi in un provvedimento nel quale il
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha ritenuto
di disporre la restituzione agli operatori economici della
somma versata a titolo di sanzione pecuniaria per il ricorso
al soccorso istruttorio, in casi in cui lo stesso era stato
esperito dalla stazione appaltante e regolarmente effettuato
dalle ditte concorrenti, ma in base ad una successiva
valutazione della commissione di gara era risultato non
dovuto, in quanto non sussistevano le carenze documentali
inizialmente rilevate. Il provvedimento ministeriale è reso
nella vigenza della nuova disciplina del soccorso
istruttorio dettata dal D.Lgs. n. 50/2016
[13], e si
riferisce a fattispecie diverse da quella in esame
[14], ma a
questa accomunate dall'esser state valutate, in un secondo
momento, non suscettive di applicazione dell'istituto del
soccorso istruttorio già esperito.
Pertanto, ferma restando l'autonomia dell'Ente nella
decisione da assumere, posto che, secondo il Giudice
amministrativo di secondo grado, il soccorso istruttorio non
avrebbe dovuto essere esperito, sembra di conseguenza venir
meno il presupposto legittimante l'incameramento della
correlata sanzione pecuniaria.
---------------
[1] Come noto, il D.Lgs. n. 163/2006 è stato abrogato
dall'art. 217, c. 1, lett. e), D.Lgs. 18.04.2016, n. 50.
[2] Presso il quale, a seguito della soppressione della
Comunità montana con effetto dall'01.08.2016, è costituito,
ai sensi dell'art. 38-bis, comma 2, della legge regionale
26/2014, un Ufficio stralcio che si occupa altresì della
gestione del rapporto giuridico in oggetto.
[3] Il comma 1-ter in argomento contempla la fattispecie
della falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle
procedure di gara, che possono comportare l'esclusione dalle
procedure di gara, al verificarsi delle condizioni ivi
previste.
[4] Ai sensi della lett. f) in argomento, sono esclusi dalla
partecipazione alla gara quei soggetti che hanno commesso un
grave errore nell'esercizio della loro attività
professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova dalla
stazione appaltante.
[5] Per l'Autorità, la finalità della disposizione è
sicuramente quella di evitare l'esclusione dalla gara per
mere carenze documentali -ivi compresa anche la mancanza
assoluta delle dichiarazioni- imponendo a tal fine
un'istruttoria veloce ma preordinata ad acquisire la
completezza delle dichiarazioni, prima della valutazione
dell'ammissibilità dell'offerta o della domanda, e di
autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della
sola inosservanza, da parte dell'impresa concorrente,
all'obbligo di integrazione documentale entro il termine
perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante.
[6] TAR Friuli Venezia Giulia 23.12.2015, n. 571. Il
soccorso istruttorio -riassume il TAR- ha riguardato due
aspetti: precedenti risoluzioni contrattuali non dichiarate
e irregolare dichiarazione di disponibilità di accesso agli
impianti cui conferire rifiuti. Con riferimento alle
pregresse risoluzioni, la stazione appaltante ha acquisito
la relativa documentazione e le ha reputate non gravi e non
tali da impedire la partecipazione alla gara medesima, per
cui non esiste una dichiarazione falsa e sussiste per
converso il requisito ex art. 38, co. 1, lett. f), del
D.Lgs. n. 163/2006. Per quanto concerne la dichiarazione di
accesso agli impianti, questa, a seguito di soccorso
istruttorio è stata regolarmente resa; non si è trattato di
un secondo soccorso istruttorio ma di chiarimenti rispetto
ad una dichiarazione già resa e quindi di mera integrazione
documentale. E queste conclusioni sono formulate dal TAR
argomentando dalla novella normativa del 2014, che ha
ampliato la portata del soccorso istruttorio, e a seguito
della quale l'esclusione dalla gara è prevista unicamente in
caso di omessa regolarizzazione della dichiarazione nel
termine assegnato dalla S.A. ovvero di effettiva
insussistenza dei requisiti previsti dall'articolo 38 del
Codice degli appalti.
[7] Consiglio di Stato, sez. V, 19.05.2016, n. 2106.
[8] L'art. 75, D.P.R. n. 445/2000, prevede la decadenza dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera.
[9] Consiglio di Stato, sez. V, 11.04.2016, n. 1412. In
quella sede, la ditta ricorrente impugnava il provvedimento
di esclusione dalla gara, disposto dalla stazione appaltante
per violazione dell'art. 38, c. 1, lett. f), D.Lgs. n.
163/2006, non risultando dalla dichiarazione resa ai sensi
del citato art. 38, le gravi negligenze in cui era incorsa
nell'esecuzione di altri contratti. Ad avviso della
ricorrente, in luogo dell'esclusione, a suo giudizio
illegittima, avrebbe dovuto essere applicata la disciplina
del soccorso istruttorio di cui al comma 2-bis dell'art. 38,
D.Lgs. n. 163/2006. Per il CdS, la circostanza che l'art.
38, c. 1, lett. f), rimetta alla discrezionalità
dell'amministrazione la valutazione circa l'inaffidabilità
dell'impresa, attribuendo alla stazione appaltante la
facoltà di valutare, in rapporto alle esigenze del contratto
che si andrà a stipulare, l'effettiva valenza dell'errore
professionale precedentemente commesso dall'impresa, implica
l'obbligo di dichiarazione da parte dell'impresa
partecipante degli errori commessi nell'esercizio
dell'attività professionale, comprendendo anche le evenienze
patologiche contestate da altri committenti. Su queste
premesse, il Consiglio di Stato rigettava il ricorso,
ritenendo che, malgrado la generalizzazione dell'istituto
del soccorso istruttorio, questo non potesse essere
utilizzato laddove non sia contestata la mancanza o
incompletezza della dichiarazione, ma l'aver reso
dichiarazione 'non veritiera'. Ed in quel caso, la ditta
partecipante non solo non aveva dichiarato le 'gravi
inadempienze' accertate dalla stazione appaltante
-fattispecie, questa, di dichiarazione 'non veritiera' in
quanto priva della doverosa menzione di eventi la cui
valenza ostativa alla instaurazione di un rapporto
contrattuale è riservata alla stazione appaltante - ma aveva
reso dichiarazione di segno opposto, dichiarando di non aver
subito contestazioni nel corso di altri rapporti
contrattuali con le amministrazioni pubbliche.
[10] Resa ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 (art. 38, comma 2,
D.Lgs. n. 163/2006).
[11] Mentre, in caso di integrazione della documentazione,
sarà la stazione appaltante a valutare, alla luce di questa,
la sussistenza dei requisiti di ammissione alla gara in capo
al concorrente.
[12] Nella procedura di evidenza pubblica, decadenza
dall'ammissione alla procedura di gara (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV, 25.05.2015 n. 2589/2015).
[13] In proposito, per completezza espositiva, si osserva
che la disciplina del soccorso istruttorio è oggi contenuta
nell'art. 83, c. 9, D.Lgs. n. 50/2016. I requisiti
soggettivi di ammissione alle procedure di gara sono invece
previsti dall'art. 80, D.Lgs. n. 50/2016. In particolare, il
co. 5, lett. c), dell'art. 80 cit., prevede la sanzione
espulsiva qualora la stazione appaltante dimostri con mezzi
adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di
gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua
integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le
significative carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all'esito di un giudizio [...]; ovvero
l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione.
[14] Ministero delle infrastrutture e dei trasporti,
Provveditorato interregionale per le oo.pp. Sicilia e
Calabria, gara del 27.06.2016, 3° seduta del 30.06.2016. In
quella sede, la stazione appaltante aveva disposto il
soccorso istruttorio per carenza delle dichiarazioni di cui
all'art. 80, D.Lgs n. 80/2016, per carenza della
documentazione relativa ai poteri rappresentativi e/o del
documento d'identità del sottoscrittore della cauzione
provvisoria ed ancora per illeggibilità della firma del
sottoscrittore della cauzione provvisoria. Ebbene ad una
seconda valutazione della documentazione si era ritenuto che
il soccorso istruttorio non era dovuto e si era disposta la
restituzione agli operatori economici della somma versata
per il ricorso al soccorso istruttorio (19.12.2016
-
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Osservatorio Viminale/ Consiglieri senza fascia.
È possibile dotare i consiglieri comunali di una fascia da indossare in
occasione di cerimonie ed eventi civili e religiosi, quale titolo del ruolo
politico e amministrativo ricoperto?
Il decreto legislativo n. 267/2000 all'art. 50, comma 12, dispone
espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo
stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla». La
stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente della
provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della repubblica e lo
stemma della provincia da portare a tracolla».
Per quanto riguarda i simboli da indossare, la legge non prevede nulla nei
riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Peraltro, il sistema delle autonomie ha un limite connaturato alla stessa
essenza dell'autonomia che è quello di dare luogo ad ordinamenti liberi di
autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale
che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di
tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e a operare (cfr.
circolare ministero dell'interno 04.11.1998 n. 5/98 – fascia tricolore –
pubbl. G.U. n. 270/1998).
Pertanto la finalità della previsione di un distintivo è quella di rendere
immediatamente individuabili i titolari di determinate cariche pubbliche
attraverso la prescrizione di una medesima tipologia formale per ciascuna
categoria di ente.
In assenza di specifiche previsioni normative, quindi, l'istituzione di un
distintivo anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Tuttavia, alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, sussiste
oggi ampia possibilità per le autonomie locali di disciplinare, con
normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a
scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo,
quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo
dell'amministrazione ed allo svolgimento delle proprie funzioni in
conformità alle indicazioni di legge (articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Art. 79, D.Lgs. n. 267/2000 permessi e indennità
amministratori locali.
Un consigliere comunale non indicato
quale capogruppo non può fruire dei permessi retribuiti
riconosciuti dall'art. 79, c. 3, D.Lgs. n. 267/2000, ai
membri, tra l'altro e per quanto di interesse, delle
conferenze dei capigruppo per partecipare alle riunioni
degli organi di cui fanno parte.
Nel caso di partecipazione ad una conferenza dei capigruppo
eccezionalmente allargata agli altri consiglieri, devono,
invece, essergli riconosciuti i permessi non retribuiti di
cui all'art. 79, c. 5, TUEL, previsti per i lavoratori
dipendenti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili
qualora risultino necessari per l'espletamento del mandato.
Il Comune chiede un parere in ordine al riconoscimento o
meno ad un consigliere comunale della neo eletta
amministrazione comunale del permesso giustificativo
dell'assenza dal posto di lavoro, nonché dell'indennità di
presenza, per la partecipazione ad una seduta di Conferenza
dei capigruppo allargata anche ai consiglieri comunali.
Il Comune precisa che, non essendo ancora state formalizzate
le commissioni consiliari permanenti, la Conferenza
capigruppo è stata convocata, in accordo con il Consiglio,
per esaminare provvedimenti urgenti per la successiva seduta
consiliare, con invito ai capigruppo indicati in riunione di
insediamento, tra cui non figura il consigliere in
questione, e agli altri consiglieri.
Si premette che questo Servizio prenderà in considerazione
la questione posta dall'Ente sotto il profilo della
spettanza o meno dei permessi retribuiti per l'assenza dal
servizio di cui si tratta, mentre per la parte relativa al
riconoscimento del gettone di presenza, ci si rimette a
quanto riterrà di esprimere il Servizio finanza locale di
questa Direzione centrale, competente al riguardo.
Un tanto chiarito, in relazione ai permessi per gli
amministratori locali, si esprime quanto segue.
L'art. 79, comma 3, D.Lgs. n. 267/2000, prevede che i
lavoratori dipendenti facenti parte, tra l'altro, delle
commissioni consiliari formalmente istituite, ovvero membri
delle conferenze dei capigruppo, hanno diritto di assentarsi
dal servizio per partecipare alle riunioni degli organi di
cui fanno parte per la loro effettiva durata. Il diritto di
assentarsi comprende il tempo per raggiungere il luogo della
riunione e rientrare al posto di lavoro.
Nel caso in esame, il consigliere comunale neo eletto non è
stato indicato quale capogruppo, per cui non risulta far
parte di detta Conferenza, con la conseguenza che non può
fruire dei permessi retribuiti di cui all'art. 79, c. 3,
TUEL, assicurati ai lavoratori dipendenti 'per
partecipare alle riunioni degli organi di cui fanno parte'
[1].
Si ritiene che debbano, invece, essere riconosciuti, al
consigliere di cui trattasi, i permessi non retribuiti di
cui all'art. 79, comma 5, TUEL, previsti per i lavoratori
dipendenti sino ad un massimo di 24 ore lavorative mensili
qualora risultino necessari per l'espletamento del mandato.
---------------
[1] Né potrebbe fruire degli ulteriori permessi
retribuiti di cui al successivo comma 4 previsti per i
presidenti dei gruppi consiliari dei comuni con popolazione
superiore a 15000 abitanti.
Giova, al riguardo, richiamare il consolidato orientamento
della giurisprudenza che si è sempre attenuta ad una lettura
rigorosa delle disposizioni sui permessi di cui trattasi e
che, in relazione al carattere 'eccezionale' delle
disposizioni di cui all'art. 79, TUEL, ha sempre negato ogni
estensione ai casi non espressamente considerati (cfr. Corte
dei conti, sez. giurisd., Umbria, 24.01.2008, n. 18) (15.12.2016
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EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla possibilità di realizzare gli
interventi di cui alla l.r. 21/2009 in aree vincolate
paesaggisticamente ed ai provvedimenti da adottare
relativamente agli interventi realizzati previa d.i.a. ma in
assenza di nulla osta – Comune di Pico (Regione Lazio,
parere 14.12.2016 n. 621493 di prot.). |
NEWS |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole,
senza proroga milioni fuori legge.
In tanti non ce l’hanno fatta: di fatto, tre mesi a bocce
ferme per approvare la spesa per l’installazione dei
contabilizzatori di calore nei condomìni erano troppo pochi,
come è apparso subito evidente, considerando che il Dlgs
146/2016 è stato pubblicato a ridosso delle vacanze. Il
Governo, ignorando i tempi e i modi di valutazione e varo di
una delibera condominiale, con conseguente individuazione
della ditta appaltatrice, ha reso impossibile l’osservanza
del termine del 31 dicembre.
Ora la questione, che potrebbe trovare una soluzione
provvisoria nel consueto decreto legge «milleproroghe» di
fine anno, è stata di nuovo messa sul tavolo da Confedilizia,
dato che ufficialmente il Governo è cambiato. A dire il vero
il ministro competente è sempre lo stesso, quello dello
Sviluppo, che è rimasto al suo posto ma che sinora non ha
mai fatto promesse ufficiali.
La questione non è di facilissima risoluzione: le norme che
impongono i contabilizzatori sono l’attuazione obbligatoria
di una direttiva europea 2012/27/Ue, i cui termini erano
peraltro già scaduti. Ma ciò che ha messo in allarme
centinaia di migliaia di condomìni con impianto
centralizzato (per non parlare degli edifici
«polifunzionali» di un unico proprietario) non è stata la
spesa quanto le sanzioni in caso di inadempienza, da 500 a
2.500 euro, che nel Dm 146 sono state spostate dal
condominio al singolo condòmino.
Da anni si parla di questo obbligo e la cosa paradossale è
che i condòmini più solerti ad adempiere si sono poi trovati
a dover rifare i lavori grazie alle giravolte normative e al
sovrapporsi delle leggi regionali.
Una proroga sarebbe quindi una questione di buon senso e di
equità e potrebbe essere orientata solo all’entrata in
vigore delle sanzioni, così come era stato fatto in
Lombardia in circostanze analoghe: la legge regionale 5/2013
le ha sospese sino al 2017.
Va fatta, però, un’osservazione più generale, che riguarda
l’effettiva possibilità di esercitare i controlli
sull’installazione. Controlli che spettano principalmente
alle Arpa (Agenzia regionale per la protezione
dell’ambiente). Si tratta di istituzioni che, benché dotate
dei più ampi poteri, anche di polizia giudiziaria, non
possono certo dedicare centinaia di migliaia di ore/uomo a
delle verifiche a tappeto. Inoltre, una sanzione irrogata a
chi, nei termini,abbia già deliberato i lavori, stanziato i
fondi e scelta l’impresa, e si trovi nell’impossibilità di
adempiere a causa dei ritardi dell’impresa stessa, andrebbe
impugnata al Tar con buone probabilità di vittoria.
Ma di fronte al rischio di nuovi contenziosi e di nuove,
inutili sanzioni nei confronti di chi cerca solo di
rispettare una tempistica irreale la proroga appare come la
soluzione più semplice (articolo Il Sole 24 Ore del 27.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Saggi
legali ridotti. Effetti sul ravvedimento operoso.
Gli interessi sono al minimo storico dello
0,1% annuo.
La discesa senza freni del saggio di
interesse legale manda in fuorigioco i tassi previsti dalle
normative tributarie e impone all'amministrazione
finanziaria di accelerare nel processo di razionalizzazione
e riduzione degli importi a carico dei contribuenti.
È il dm del 07/12/2016, in G.U. n. 291 del 14/12/ 2016 a
ridurre ulteriormente la misura degli interessi legali
portandola al minimo storico dello 0,1% annuo (si veda in
tabella l'evoluzione, dal 1942, del saggio legale).
L'impatto immediato della contrazione del saggio legale,
però, ha scarso impatto sui rapporti tra contribuente e
amministrazione. L'unica situazione nella quale l'interesse
legale entra direttamente quale parametro di riferimento è
quella del ravvedimento operoso. Tutti gli altri tassi di
interesse previsti dalle normative tributarie per
rateizzazioni o ritardi di pagamento sono rimasti infatti
ancorati e non risentono direttamente del mutato scenario.
La semplificazione del regime degli interessi tributari (a
favore dell'erario e a favore del contribuente) è stata da
sempre invocata, in presenza di un ginepraio di normative.
Per cercare di mettere un freno alla situazione venne
emanato il dlgs n. 159/2015 (a seguito della legge delega n.
23/2014, la quale autorizza il governo a revisionare il
sistema fiscale); l'articolo 13, rubricato
«Razionalizzazione degli interessi per il versamento, la
riscossione e i rimborsi di ogni tributo», prevede che il
tasso di interesse per il versamento, la riscossione e i
rimborsi di ogni tributo, sia determinato in una misura
unica, compresa nell'intervallo tra lo 0,5% e il 4,5%.
L'attuazione di tale norma era stata affida all'emanazione
di un decreto ministeriale da perfezionare entro novanta
giorni dall'entrata in vigore della disposizione. Il
decreto, mai visto, rappresenta uno dei più fulgidi esempi
di assenza di compliance tra Amministrazione finanziaria e
contribuente.
A oggi, quindi, continuano ad applicarsi le disposizioni di
cui alle singole leggi d'imposta stabilite da oltre sei
anni, con il dm del 21/05/2009. Solo gli interessi di mora,
ossia quelli che maturano sulla cartella di pagamento, il
riferimento è al più recente provvedimento del direttore
dell'Agenzia delle entrate n. 65535 del 2016.
Gli interessi legati ai rimborsi di imposte, nelle varie
possibili ipotesi, si attestano al massimo, all'1%; quelli a
favore dell'erario, invece, viaggiano tra il 3,5 e il 4,5%.
La modifica del tasso legale incide solo, in questo
contesto, sull'istituto del ravvedimento operoso, nelle
varie forme attuabili. Per il resto, il mantenimento in
essere di tassi di interesse determinati nel 2009 non può
che costituire una stortura. Basti pensare che all'epoca il
tasso di interesse legale era fissato al 3% rispetto allo
0,1% attuale.
Tale situazione di disagio è ancor più accentuata dal fatto
che, al di là del diverso tasso di interesse applicato sulle
somme che viaggiano in direzione erario, rispetto a quelle
che tornano verso il contribuente, anche eventuali ritardi
nei pagamenti non sono trattati allo stesso modo. Il ritardo
del contribuente sconta una sanzione certa, ineluttabile e
il più delle volte particolarmente penalizzante anche a
fronte di inadempimenti marginali (fatto salvo il
ravvedimento operoso). Il ritardo dell'amministrazione non
prevede alcuna maggiorazione a carico dell'erario, al di là
degli interessi minimi previsti.
In tale scenario
particolarmente significativa è l'intervento della Corte di
cassazione che con sentenza n. 16797 del 09/08/2016 (si veda ItaliaOggi
del 20/12/2016) ha stabilito il diritto del contribuente a
vedersi riconosciuto il risarcimento del danno in caso di
rimborso effettuato tardivamente dall'amministrazione
finanziaria. Danno che può essere rapportato, ai sensi
dell'articolo 1224 c.c., in misura pari alla differenza tra
tasso medio netto di rendimento dei titoli di stato con
scadenza a 12 mesi e tasso di interesse legale. Il tutto
riferito al periodo di ritardo. Come a dire che nell'inerzia
dell'amministrazione finanziaria tocca alla giurisprudenza
di legittimità intervenire
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Art
bonus esteso al post-sisma. Credito del 65% per il
ripristino d'immobili danneggiati.
Uno degli aspetti rilevati in uno studio della Fondazione
nazionale commercialisti.
Credito d'imposta del 65% per chi
effettua erogazioni liberali per il ripristino degli
immobili danneggiati dagli eventi sismici del 24.08.2016.
Potranno rientrare nel regime fiscale agevolato automatico i
versamenti in denaro a titolo di liberalità disposti a
decorrere dal 19.10.2016 a favore del ministero dei beni
delle attività culturali e del turismo per interventi di
manutenzione, protezione e restauro di beni culturali di
interesse religioso presenti nei comuni delle regioni
Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria indicati nell'allegato 1
all'art. 17 del dl 189/2016.
Nel caso specifico dei territori colpiti dal terremoto, il
credito d'imposta spetta a soggetti persone fisiche e
giuridiche che intervengono a favore di immobili diversi da
quelli indicati dalla più ampia normativa di vantaggio che
disciplina l'Art bonus. L'agevolazione scatta su richiesta
degli interessati che dimostrino il nesso di causalità
diretto tra i danni verificatisi e gli eventi sismici,
comprovato da apposita perizia giurata.
È uno degli aspetti più interessanti dello studio «Art
bonus: caratteristiche e potenzialità del credito d'imposta
per il mecenatismo», pubblicato il 15.12.2016 dalla
Fondazione nazionale dei commercialisti.
L'approfondimento
dell'istituto di ricerca si estende alla più ampia normativa
di cui al dl 83/2014, la quale stabilisce che il bonus è
fruibile per tutte le erogazioni relative a interventi di
manutenzione, protezione e restauro di beni culturali
pubblici, nonché per la realizzazione di nuove strutture,
restauro e potenziamento di quelle esistenti di enti o
istituzioni pubbliche che svolgono attività nello
spettacolo.
L'Art bonus.
Nella sua fase genetica l'Art bonus era stato strutturato
quale misura agevolativa di carattere temporaneo, dall'art.
1 del dl 83/2014, convertito dalla legge 106/2014, n. 106.
Con la legge di Stabilità 2016 (legge 208/2015), il
legislatore ha mutato le caratteristiche del credito
d'imposta rendendolo un'agevolazione fiscale permanente e
strutturale con una percentuale di beneficio fissa al 65%
delle erogazioni effettuate. Il regime fiscale si applica in
automatico a tutte le erogazioni liberali in denaro
effettuate da soggetti persone fisiche e persone giuridiche
che perseguono gli scopi espressamente individuati dal
legislatore.
Al fine di chiarire meglio la ratio che ha informato
l'intervento del legislatore, giova richiamare la relazione
illustrativa al ddl di conversione in legge del dl 83/2014,
in cui viene precisato che la norma in argomento «introduce
meccanismi più semplici ed efficaci di agevolazione fiscale
per le erogazioni liberali riguardanti i beni culturali» e
mira «a costituire un'unica disciplina per le persone
fisiche e le persone giuridiche, superando l'attuale
dicotomia, che vede la detrazione del 19% per le prime e la
deduzione dalla base imponibile per le seconde».
I soggetti beneficiari.
Il perimetro soggettivo di applicazione del beneficio
comprende tutti i soggetti, indipendentemente dalla natura e
dalla forma giuridica, che effettuano le erogazioni liberali
a sostegno della cultura.
Sono comprese anche le fondazioni
bancarie che però devono avere come scopo statutario
l'intervento nel territorio di riferimento ed aver prescelto
il settore dell'«arte, attività e beni culturali»,
relativamente alle somme spese per la progettazione e
l'esecuzione delle opere di restauro e valorizzazione dei
beni culturali. Il credito d'imposta è riconosciuto anche
per erogazioni liberali effettuate per gli interventi
direttamente a favore dei concessionari o affidatari dei
beni oggetto di manutenzione, protezione e restauro.
Le erogazioni ammissibili.
L'ambito oggettivo di applicazione del credito d'imposta è
costituito da tutte le erogazioni liberali in denaro da
effettuarsi attraverso sistemi di pagamento che ne
garantiscano la tracciabilità (quali la banca, l'ufficio
postale, nonché carte di debito, di credito e prepagate,
assegni bancari e circolari), finalizzate al perseguimento
dei seguenti scopi:
- interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni
culturali pubblici, anche qualora le erogazioni liberali
siano destinate ai soggetti concessionari o affidatari dei
beni oggetto di tali interventi, in quanto, non è la natura
della gestione (privata ovvero pubblica) dei medesimi a
rilevare ai fini della legittimazione a fruire del credito
d'imposta, bensì la proprietà, la quale deve essere
necessariamente pubblica;
- sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura di
appartenenza pubblica, delle fondazioni lirico-sinfoniche e
dei teatri di tradizione;
- realizzazione di nuove strutture, il restauro e il
potenziamento di quelle esistenti di enti o istituzioni
pubbliche che, senza scopo di lucro, svolgono esclusivamente
attività nello spettacolo.
Il bonus nelle zone del sisma.
Come previsto dall'art. 17 del dl 17.10.2016, n. 189
recante «interventi urgenti in favore delle popolazioni
colpite dal sisma del 24.08.2016», l'Art bonus spetta
anche per le erogazioni liberali effettuate, a decorrere dal
19.10.2016, a favore del ministero dei beni delle
attività culturali e del turismo per interventi di
manutenzione, protezione e restauro di beni culturali di
interesse religioso presenti nei comuni di cui all'art. 1
del citato decreto, le cui disposizioni ineriscono ai
territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria
interessati dagli eventi sismici del 24.08.2016
ricompresi nei comuni indicati nell'allegato 1 al decreto
nonché agli immobili distrutti o danneggiati ubicati in
altri comuni delle regioni interessate, diversi da quelli
sopra indicati, su richiesta degli interessati che
dimostrino il nesso di causalità diretto tra i danni
verificatisi e gli eventi sismici del 24.08.2016,
comprovato da apposita perizia giurata.
---------------
Beni pubblici rilevanti, si veda il
Codice.
Per individuare i beni culturali pubblici rilevanti ai fini
del regime di vantaggio occorre fare riferimento all'art. 10
del Codice beni culturali e paesaggio, enucleando i soli
beni di proprietà pubblica:
a) le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni,
agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro
ente ed istituto pubblico che presentano interesse
artistico, storico, archeologico o etnoantropologico;
b) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi
espositivi dello stato, delle regioni, degli altri enti
pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto
pubblico;
c) gli archivi e i singoli documenti dello stato, delle regioni,
degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro
ente ed istituto pubblico;
d) le raccolte librarie delle biblioteche dello stato, delle
regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di
ogni altro ente e istituto pubblico,
e) le cose immobili e mobili, di proprietà pubblica, che rivestono
un interesse, particolarmente importante a causa del loro
riferimento con la storia politica, militare, della
letteratura, dell'arte, della scienza, della tecnica,
dell'industria e della cultura in genere;
f) le collezioni o serie di oggetti, di proprietà pubblica, che non
siano ricomprese fra quelle indicate sub lett. b), c), d) e
che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche
ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica,
archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivestano
come complesso un eccezionale interesse.
La determinazione del bonus. La normativa prevede che il
credito d'imposta spetta nella misura del 65% dell'ammontare
delle erogazioni effettuate, con taluni limiti quantitativi.
In particolare, ai soggetti persone fisiche non titolari di
reddito d'impresa e agli enti non commerciali nell'esercizio
della propria attività istituzionale il credito d'imposta è
riconosciuto nei limiti del 15% del reddito imponibile,
mentre ai soggetti titolari di reddito d'impresa (comprese
le stabili organizzazioni nel territorio dello stato di
imprese non residenti), il bonus è riconosciuto nei limite
del 5 per mille dei ricavi.
Per le erogazioni liberali effettuate dalle società
semplici, il credito d'imposta spetta ai singoli soci nella
stessa proporzione prevista nell'art. 5 del Tuir ai fini
dell'imputazione del reddito. Gli imprenditori individuali e
gli enti non commerciali che esercitano anche attività
commerciali usufruiscono dell'agevolazione con le modalità e
i limiti previsti per i titolari di reddito d'impresa se
effettuano le erogazioni liberali nell'ambito dell'attività
commerciale.
Il credito d'imposta così determinato deve essere poi
ripartito in tre quote annuali di pari importo, ognuna delle
quali costituisce il limite massimo di fruibilità del
credito per ciascun periodo d'imposta
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
partecipi delle previsioni di cassa.
I singoli dirigenti o responsabili di servizi devono
partecipare alle proposte di previsione autorizzatorie di
cassa anche ai fini dell'accertamento preventivo di
compatibilità di cui all'art. 183, comma 8, del Tuel.
È uno dei suggerimenti più interessanti contenuti nello
schema di relazione dell'organo di revisione degli enti
locali sulla proposta di bilancio di previsione e
pluriennale 2017-2019 resa disponibile nei giorni scorsi dal
Consiglio nazionale dei commercialisti (si veda ItaliaOggi
del 17/12/2016).
Il documento, redatto in collaborazione con
l'Associazione nazionale certificatori e revisori enti
locali (Ancrel), è aggiornato sulla base della normativa
vigente. In particolare, esso tiene conto delle novità
introdotte dalla legge 164/2016, che ha modificato la legge
243/2012 sul pareggio di bilancio, cancellando l'obbligo di
conseguirlo anche in termini di cassa.
La cassa, tuttavia,
rimane da monitorare con estrema attenzione, visto che, in
base al dlgs 118/2011, le relative previsioni costituiscono
limite ai pagamenti. Da qui, l'importanza di una verifica
sulla loro correttezza, che ovviamente non può essere
condotta solo dal servizio finanziario, ma richiede
l'apporto collaborativo anche del settore che gestisce la
spesa, il cui dirigente o responsabile, all'atto
dell'impegno, è chiamato ad attestare, sotto la propria
responsabilità, che «il programma dei conseguenti pagamenti
sia compatibile con i relativi stanziamenti di cassa».
Più
in generale, la nuova contabilità impone di rafforzare le
sinergie fra la ragioneria ed i settori tecnici. Ad esempio,
lo schema di relazione elaborato dal Cndcec lo evidenzia
rispetto al fondo pluriennale vincolato, la cui corretta
configurazione è determinante anche ai fini del
conseguimento del saldo di finanza pubblica
(articolo ItaliaOggi del 24.12.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Redditi
trasparenti per tutti. Posizione patrimoniale pubblica per
dirigenti e quadri. Lo schema di
linee guida dell'Anac chiarisce la portata degli obblighi di
pubblicità.
Posizione patrimoniale pubblica per tutti: dirigenti e
posizioni organizzative (i «quadri» della pubblica
amministrazione).
Lo schema di linee guida poste in consultazione dall'Anac
sull'attuazione dell'articolo 14 del dlgs 33/2013, come
recentemente modificato dal dlgs 97/2016, chiarisce la
portata degli obblighi di pubblicità della situazione
patrimoniale dei vertici organizzativi delle pubbliche
amministrazioni, individuano quattro distinte categorie di
soggetti.
Dirigenti.
Il comma 1-bis dell'articolo 14 del decreto sulla
trasparenza estende gli obblighi di pubblicità patrimoniale
elencati nel comma 1 ai «titolari di incarichi
dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi
quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo
politico senza procedure pubbliche di selezione». Non vi
è nessun dubbio, quindi, che soggetti agli obblighi di
pubblicazione siano tutti i dirigenti pubblici: sia quelli
preposti alla gestione (ivi compresi quelli apicali), sia
quelli in staff agli organi di governo, eventualmente allo
scopo anche reclutati per via fiduciaria.
Non è il sistema di reclutamento che possa differenziare le
misure di trasparenza tra dirigenti. L'Anac precisa che alla
categoria dei dirigenti in staff «siano riconducibili
anche i titolari di incarichi fiduciari presso gli uffici di
diretta collaborazione dell'organo di indirizzo quali, per
esempio, capi di gabinetto, capi delle segreterie
particolari e tecniche, capi degli uffici legislativi».
Secondo l'Autorità non sfuggono agli obblighi dell'articolo
14 nemmeno i direttori generale, amministrativo, sanitario e
sociale degli enti del servizio sanitario.
Posizioni organizzative con delega.
È il comma 1-quinquies dell'articolo 14 a occuparsi dei
dipendenti con qualifica non dirigenziale.
Gli adempimenti di pubblicità sono chiaramente rivolti, in
primo luogo, ai funzionari apicali non aventi qualifica
dirigenziale inquadrati nell'area delle «posizioni
organizzative», nella quale gli incaricati sono chiamati a
svolgere funzioni simili a quelle dei quadri del settore
privato.
Ai sensi dell'articolo 17, comma 1-bis, del dlgs 165/2001, i
dirigenti possono rilasciare agli incaricati di posizione
organizzativa una serie di deleghe. In questo caso, spiega
l'Anac, i titolari di posizione organizzativa delegati dai
dirigenti sono soggetti ai medesimi obblighi di pubblicità
dei dirigenti.
La previsione è comprensibile: gli organi delegati assumono
poteri e responsabilità della medesima natura di quelli del
soggetto delegante; inoltre, agiscono in nome proprio e non
del delegante, quindi nei loro confronti vanno estese le
regole di trasparenza previste per la dirigenza.
Posizioni organizzative con incarichi dirigenziali.
Questa terza categoria è quella descritta con minore
chiarezza dall'articolo 14, comma 1-quinquies, che si limita
ad affermare l'applicazione delle previsioni del comma 1 del
medesimo articolo 14 «in ogni altro caso in cui sono svolte
funzioni dirigenziali».
Le linee guida dell'Anac sono molto chiare
nell'esemplificare il caso, in modo estremamente pertinente
in particolare negli enti locali, riferendosi alla «ipotesi
prevista dall'art. 109, comma 2, del dlgs. 267/2000 laddove
dispone che nei comuni privi di personale di qualifica
dirigenziale le funzioni dirigenziali possano essere
attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco,
ai responsabili degli uffici o dei servizi».
Dunque, in tutti i comuni privi di dirigenti, la previsione
dell'articolo 14, comma 1, del dlgs 33/2013 si estende
comunque ad ogni funzionario incaricato di funzioni
dirigenziali: l'Anac precisa che sono soggetti alle norme
sulla trasparenza anche i comuni con popolazione inferiore
ai 15.000 abitanti.
Posizioni organizzative senza deleghe e senza incarichi
dirigenziali.
Nell'articolo 14, comma 1-quinquies, c'è un'ultima residuale
categoria di soggetti: gli «altri titolari di posizioni
organizzative» per i quali si prevede solo la
pubblicazione del curriculum vitae.
Si tratta di funzionari incaricati nell'area delle posizioni
organizzative ai quali non siano state attribuite deleghe
dirigenziali o che comunque non abbiano ricevuto incarichi
di funzioni dirigenziali.
La prima ipotesi è tipica di enti con la dirigenza: si
tratta, quindi, di funzionari titolari di posizioni
organizzative ai quali i dirigenti non abbiano rilasciato
deleghe. La seconda ipotesi può reperirsi anche negli enti
senza dirigenti: infatti, i vari contratti collettivi
nazionali di lavoro prevedono incarichi di posizione
organizzativa non solo connessi a funzioni di direzione di
strutture, ma anche di staff o studio: in questi casi,
basterà la sola pubblicazione del curriculum (articolo
ItaliaOggi del 23.12.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO
IMPIEGO: Gli
enti abusano di incarichi fiduciari.
L'analisi/ Alcune considerazioni dopo il caso Marra.
La normativa anticorruzione si pone in contrasto con la
ancora diffusissima prassi degli incarichi fiduciari ai
dirigenti.
Le vicende relative al comune di Roma, sfociate
nell'arresto per corruzione dell'ex vice capo di gabinetto
Raffaele Marra, rivelano come negli enti locali sia ancora radicatissima la convinzione che i sindaci (ma non di rado
anche gli assessori) dispongano del potere di assegnare
incarichi dirigenziali «fiduciari» certamente nei propri
staff, ma anche in alcuni vertici organizzativi considerati
strategici.
Questa radicata convinzione, tuttavia, si pone
in chiarissimo contrasto con l'ordinamento del lavoro
pubblico e con il complesso della disciplina anticorruzione.
In quanto alla regolazione del lavoro pubblico, l'articolo
19, comma 1, del dlgs impone agli organi di governo di
tenere conto, in relazione alla natura e alle
caratteristiche degli obiettivi prefissati e alla
complessità della struttura interessata, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente, dei
risultati conseguiti in precedenza nell'amministrazione di
appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche
competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze
di direzione eventualmente maturate all'estero, presso il
settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche,
purché attinenti al conferimento dell'incarico.
L'insieme di
questi elementi valutativi richiede una specifica
motivazione, del tutto incompatibile con la «fiduciarietà»
la quale, per sua natura, non è motivabile.
Con specifico riferimento all'ordinamento locale, inoltre,
l'articolo 109, comma 1, riprende le indicazioni viste
prima, stabilendo che gli incarichi dirigenziali sono
conferiti «con provvedimento motivato e con le modalità
fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma
amministrativo». Il che conferma l'insostenibilità del
carattere fiduciario degli incarichi. A questa normativa,
già di per sé decisiva, occorre però congiungere anche
l'insieme delle disposizioni derivanti dalla legge 190/2012,
la legge anticorruzione e, in particolare anche le
specifiche misure definite dal Piano nazionale
anticorruzione steso nel settembre 2013.
Non si deve
dimenticare che l'articolo 1, comma 16, lettera d), della
legge 190/2012 considera ex lege, tra gli altri, a
particolare rischio di corruzione i procedimenti di
«concorsi e prove selettive per l'assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all'articolo 24 del citato
decreto legislativo n. 150 del 2009». La norma indubbiamente
si riferisce agli incarichi dirigenziali «a contratto»,
assegnati a dirigenti esterni alla dotazione organica, in
applicazione degli articoli 19, comma 6, del dlgs 165/2001 e
110, comma 1, del dlgs 267/2000.
Le cautele anticorruttive,
comunque, non possono che estendersi anche all'assegnazione
di incarichi dirigenziali a dirigenti di ruolo. Il Piano
nazionale anticorruzione, infatti evidenzia due ipotesi di
esposizione alla corruzione perfettamente pertinenti al
caso: previsioni di requisiti di accesso «personalizzati»;
motivazione generica e tautologica circa la sussistenza dei
presupposti di legge per il conferimento di incarichi
professionali allo scopo di agevolare soggetti particolari.
Nell'ambito di questo quadro normativo, non si può che
concludere che l'assegnazione di incarichi dirigenziali solo
per via fiduciaria o intuitu personae, senza procedure
selettive oggettive e senza motivazioni che vadano oltre la
considerazione della persona e della fiducia in essa
riposta, vìola i canoni della buona amministrazione, sì che
la «fiduciarietà» diviene arbitrio potenzialmente lesivo
degli interessi generali
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento
ambientale, il delitto c'è anche se non si superano i
limiti.
Il delitto di «inquinamento ambientale» si commette quando
si produce un'alterazione dell'ecosistema incisiva e
oggettivamente rilevabile, anche se reversibile, violando le
norme non strettamente ambientali e senza necessariamente
superare i valori limite dettati da specifiche regole di
settore.
È con la
delibera
09.12.2016 n. 16/2016 che il Ministero
dell'ambiente, comitato per lo sviluppo del verde pubblico, si adegua ai
principi contenuti nella prima sentenza della Cassazione
(03.11.2016 n. 46170) sul nuovo ecoreato (delitto di
inquinamento ambientale).
I termini «compromissione» e «deterioramento», sottolineano
i membri del comitato, indicano «fenomeni sostanzialmente
equivalenti negli effetti, in quanto si risolvono entrambi
in un'alterazione ossia in una modifica dell'originaria
consistenza della matrice ambientale o dell'ecosistema». La
rilevanza dell'aspetto quantitativo o dimensionale è
riferito nell'ambito della norma (articolo 452-bis c.p.) ad
alcuni beni ambientali (suolo e sottosuolo, il cui degrado
deve interessarne «porzione estese o significative») e non
ad altri.
Al riguardo la Cassazione ha precisato che in ogni
caso l'estensione e l'intensità del fenomeno produttivo di
inquinamento ha una sua incidenza, difficilmente potendosi
definire «significativo» quello di minimo rilievo, pur
considerandone la più accentuata diffusività per alcuni beni
ambientali (aria e acqua), rispetto a ciò che avviene nel
suolo e sottosuolo.
Il termine «significativo» denota
incisività e rilevanza, mentre «misurabile» è ciò che è
quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente
rilevabile, senza che sia necessario il superamento di
limiti di legge. L'avverbio «abusivamente» va inteso in
senso comprensivo non solo della condotta in violazione di
leggi statali o regionali, ma anche di prescrizioni
amministrative
(articolo ItaliaOggi del 22.12.2016). |
APPALTI: Decreto
correttivo sul codice appalti verso l’ok a febbraio.
Contratti. Cabina di regia al lavoro.
Perde quota, anche
se non è ancora stata del tutto accantonata, l’ipotesi di
una proroga della scadenza del 19 aprile per varare il primo
decreto correttivo al codice degli appalti. Mentre si
delinea un cronoprogramma più preciso delle tappe che la
cabina di regia insediata a Palazzo Chigi intende seguire
per arrivare in tempo al traguardo.
L’obiettivo dei tecnici al lavoro nella commissione è quello
di arrivare con il provvedimento pronto per il primo
passaggio in Consiglio dei ministri a inizio febbraio.
Come
è noto, infatti, l’iter di approvazione del correttivo è
identico a quello seguito per il varo del nuovo codice. Ci
sono, cioè, trenta giorni per un passaggio al Consiglio di
Stato, alla Conferenza unificata e, in contemporanea, alle
commissioni parlamentari. In caso di parere negativo, poi,
il Governo rimanda indietro il testo alle commissioni,
dandogli altri 15 giorni. In tutto quindi tra un passaggio
e l’altro servono più o meno due mesi tra la prima e la
seconda approvazione in Consiglio dei ministri.
Il primo passo della cabina di regia è stato quello di
provare a ottenere direttamente alla fonte informazioni
sulle criticità incontrate dalle amministrazioni in questi
primi mesi di applicazione del Dlgs 50/2016. Venerdì scorso
è stato inviato a decine di migliaia di Rup al lavoro nelle
stazioni appaltanti di tutta Italia un questionario mirato a
far emergere le difficoltà. Le risposte dovranno arrivare
entro il 16 gennaio. Da qui arriverà la prima base di lavoro
per la commissione. Altri spunti arriveranno dalla raccolta
dei verbali delle audizioni che in questi ultimi mesi sono
state convocate in Parlamento proprio in vista del
correttivo.
Quanto ai contenuti, la cabina di regia si sta concentrando
non solo sulle ipotesi di modifica al codice. Da questo
punto di vista vengono confermate le indiscrezioni delle
ultime settimane. Con l’attenzione molto focalizzata sui
punti di maggiore criticità rilevati in questi primi mesi di
applicazione del codice: dal subappalto (tetto del 30%
legato all’intero importo e terna dei subappaltatori)
all’estensione del periodo di riferimento per la
qualificazione delle imprese di costruzione.
Oltre alle
correzioni di merito ci saranno ovviamente correzioni di
tipo formale e modifiche puntate a raccordare meglio le
disposizioni che hanno dato difficoltà di interpretazione.
Mentre altri punti potrebbero essere trattati con circolari
o comunicati congiunti con l’Anac.
Nel correttivo, oltre
alle richieste avanzate dall’Anticorruzione sulle modifiche
da apportare alle norme sui commissari di gara e sul rating
di impresa, dovrebbe poi trovare spazio anche un chiarimento
definitivo sul valore (più o meno) cogente delle linee guida
emanate dall’Authority presieduta da Raffaele Cantone (articolo Il Sole 24 Ore del 21.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
slittano tutte le graduatorie. Proroga senza distinzioni al
31/12/2017. Turnover al 75%. Un
emendamento Anci al Milleproroghe rimedierà al pasticcio
della legge di Bilancio.
Prorogate al 31.12.2017 tutte le graduatorie dei
concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato in
scadenza a fine anno. Non solo le graduatorie più vecchie,
ossia quelle vigenti al 01.09.2013 (data di entrata
in vigore del dl 101/2013, il cosiddetto decreto D'Alia), ma
anche quelle più recenti, approvate successivamente a tale
data e comunque non oltre il 31.12.2014.
Con un emendamento dell'Anci da inserire molto probabilmente
nel decreto Milleproroghe verrà messa una pezza al pasticcio
causato dalla legge di Bilancio 2017 (legge 11.12.2016
n. 232 che sarà pubblicata sul Supplemento ordinario L 57
alla Gazzetta Ufficiale n. 297 di oggi) che nell'esame alla
camera aveva imbarcato una norma di proroga delle
graduatorie in scadenza in realtà inutile perché non avrebbe
prodotto l'effetto di farle slittare tutte.
Il comma 368 della manovra, approvato nel testo proposto dal
relatore alla camera Mauro Guerra (Pd) nonostante i rilievi
già mossi in commissione dalla deputata del M5s Tiziana
Ciprini, mantiene in vita fino a tutto il 2017 solo le
graduatorie del decreto D'Alia, ma non quelle successive,
creando così una situazione paradossale per cui le
graduatorie più risalenti nel tempo avrebbero beneficiato
della proroga mentre le più recenti sarebbero state
destinate a perdere efficacia dopo tre anni. Con buona pace
dei circa 4.500 vincitori di concorso in attesa di
assunzione che in questi anni si sono visti chiudere le
porte delle immissioni in ruolo a causa del lungo processo
di ricollocamento dei lavoratori provinciali in sovrannumero
appena concluso.
La correzione proposta dall'Anci e accolta dal ministro per
la semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna
Madia (con un impegno ufficiale preso dal ministro su
twitter nei confronti dell'esercito di aspiranti dipendenti
pubblici), sana questa disparità mettendo sullo stesso piano
«tutte le graduatorie».
Il ministro ha promesso che l'intervento sarà inserito in un
«decreto entro fine anno». Un decreto che potrebbe essere il
Milleproroghe oppure il provvedimento di urgenza chiesto a
gran voce dai comuni per risolvere altri nodi lasciati
irrisolti dall'approvazione lampo della legge di bilancio a
seguito delle dimissioni di Matteo Renzi.
Ieri l'Associazione dei comuni ha riunito il comitato
direttivo per ribadire le richieste al governo a cominciare
dalla madre di tutte le battaglie dell'Anci, ossia
l'innalzamento della soglia di turnover dall'attuale 25% al
75% (della spesa per il personale cessato l'anno precedente)
senza più paletti e soprattutto già a partire dall'anno
prossimo. La legge di bilancio, infatti, prevede già un
turnover al 75% ma solo per i comuni che non lasciano spazi
finanziari inutilizzati superiori all'1% degli accertamenti
delle entrate finali e soprattutto fa entrare a regime
l'innalzamento dell'asticella solo dal 2018.
Troppo poco per l'Anci che, come più volte chiesto dal
presidente e sindaco di Bari Antonio Decaro (si veda
ItaliaOggi del 09.12.2016) e ribadito anche ieri nel
direttivo, ritiene doveroso estendere l'ampliamento delle
facoltà assunzionali a tutti i comuni senza limiti.
La proposta che l'Associazione dei comuni porterà al governo
prevede l'innalzamento del turnover al 75% per il 2016 e
2017 e al 100% a decorrere dal 2018, fermo restando che i
comuni fino a 10.000 abitanti (che già godono di un turnover
pieno) resteranno al 100%.
«La proroga delle graduatorie e lo sblocco del turnover sono
due battaglie fondamentali per il futuro dei comuni e di
tutto il paese che non potrà ripartire se prima non
ripartono i comuni», ha osservato Umberto Di Primio, sindaco
di Chieti e delegato Anci al personale. «Numeri alla mano
(si veda ItaliaOggi del 18/11/2016, ndr) abbiamo dimostrato
che un turnover al 75% sarebbe a costo zero perché non
incrementerebbe di un centesimo la spesa dei comuni per il
personale. I comuni devono poter ritornare ad assumere
perché senza personale non potranno cogliere le opportunità
offerte dalla manovra, dai 700 milioni per gli investimenti
ai 2,1 miliardi per le periferie degradate. E si troveranno
nell'impossibilità di garantire le funzioni essenziali ai
cittadini».
Nel comitato direttivo Decaro ha anche ribadito l'urgenza di
provvedere con dpcm alla ripartizione del fondo di tre
miliardi previsto dalla legge di bilancio ma non ancora
suddiviso tra comuni, province, regioni e città
metropolitane. Il rischio per i sindaci è che questo ritardo
possa far slittare l'erogazione delle risorse proprio
nell'anno che da questo punto di vista avrebbe dovuto
marcare una discontinuità col passato.
I dati sul Fondo di solidarietà comunale 2017 sono infatti
pronti da un mese, ma la caduta del governo Renzi e il
cambio di guida al ministero dell'interno, senza che siano
ancora stati nominati i sottosegretari competenti, non hanno
ancora permesso alla direzione finanza locale del Viminale
di anticipare, rispetto alla pubblicazione del dpcm, sul
sito web gli importi del Fondo di solidarietà di spettanza
di ciascun comune.
Insomma, una situazione di stallo che sta
già facendo accumulare ritardi per l'approvazione del
bilancio di previsione che dovrebbe essere votato in
consiglio comunale entro il 28.02.2017, ma depositato
almeno il 10 febbraio e consegnato all'organo di revisione
almeno entro il 20 gennaio. Motivo per cui l'Anci ha
ufficialmente chiesto un rinvio di almeno un mese
(31.03.2017)
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2016). |
APPALTI: Appalti,
proposte senza regole. Stop alle gare al ribasso per le
prestazioni professionali. Sos della Fondazione Inarcassa
sui bandi per i servizi di architettura e ingegneria.
Fin dalla sua nascita la Fondazione ha dedicato una grande
attenzione ai bandi di gara di servizi di ingegneria e
architettura irregolari che i colleghi, via via sempre più
numerosi, segnalavano. Questo perché è importante
monitorare, seppur a campione, la situazione sul territorio
nazionale, ma anche per dare ascolto e riscontro agli
architetti e agli ingegneri che spesso si trovano come
singoli inermi e impotenti di fronte alle amministrazioni
che ritengono di poter esercitare il proprio potere senza
limitazione alcuna.
Molto spesso le stesse amministrazioni, di fronte a soggetti
economici quali ad esempio i costruttori che possono vantare
una potenza di fuoco derivante dalla maggior capacità
economica e organizzativa, assumono atteggiamenti cauti e
pacati se non addirittura supini. Quando l'interlocutore
però è un singolo professionista privo di un ufficio legale
e ancora legato al concetto del rapporto di fiducia tra
professionista e committente, allora è facile dimenticarsi
del principio di proporzionalità e arrivare persino a fare
la voce grossa.
È su questo che la Fondazione ha voluto essere la voce dei
singoli colleghi, anche grazie al competenza e alla
preparazione tecnica delle sue strutture.
Entrando nel merito delle segnalazioni, molti bandi, pur
contenendo irregolarità, possono essere classificati tra
quelli moderatamente irregolari e quindi non sono stati
perseguiti. Altri, invece, con contenuti di illegittimità
rilevante, sono stati oggetto di una nostra pressante
attività di contrasto, sia attraverso motivate richieste di
modifica con segnalazione di precontenzioso all'Anac, sia,
all'occorrenza, con il ricorso giurisdizionale al Tribunale
amministrativo regionale. In numerosi casi la nostra azione
è riuscita a riportare i bandi nell'ambito della legalità;
in altri, purtroppo ciò non è accaduto. Le previsioni di
gara di alcuni bandi non solo risultavano assolutamente non
conformi alla normativa del Codice degli appalti ma,
soprattutto, ledevano pesantemente la dignità della nostra
professione. Questi ultimi, non sono solo stati oggetto di
contrasto, ma sono stati pubblicati per estratto sul nostro
sito con la definizione di vergogna.
Ad esempio, il caso del Comune di Bagheria, ove il Rup, o
gli amministratori, avevano avuto la brillante pensata di
poter compensare con 1, la progettazione esecutiva di opere
di manutenzione straordinaria di edifici pubblici. Il Tar
della Sicilia ha dato ragione alla categoria: ha determinato
l'annullamento del bando e ha imposto al Comune la refusione
delle spese di giudizio.
Altro caso vergognoso: quello del Comune di Altavilla Irpina.
Qui si prevedeva la progettazione, a tutti i livelli, delle
opere di ristrutturazione di un padiglione scolastico,
compensando la prestazione professionale con l'esposizione
per sei mesi della pubblicità dello Studio sull'Albo
pretorio: di fatto una sponsorizzazione.
I bandi vergognosi, in sintesi, sono quelli in cui le
amministrazioni appaltanti tendono a estorcere da noi
prestazioni professionali a carattere gratuito o
incredibilmente sotto costo. Per arrivare a ciò molte volte
si inventano pseudo compensi o micro corrispettivi che
risultano palesemente offensivi per la dignità della nostra
professione.
Ma molti altri sono i bandi che dimostrano che la fantasia
dei Rup non ha limiti.
Speravamo molto nel nuovo Codice dei contratti pubblici, il
dlgs 50/2016, la cui legge di delega ha avuto una lunga ma
molto positiva gestazione parlamentare. Positività che,
purtroppo, nella successiva stesura governativa finale si è
in gran parte volatilizzata. Uno degli obiettivi dichiarati
da tutti, ma proprio tutti, era la centralità del progetto e
la sua qualità quale elemento cardine indispensabile per la
realizzazione di buone opere pubbliche: qualità
architettonica, qualità tecnica, rispetto dei costi e dei
tempi. Questi erano i presupposti. Da qui derivava la
speranza di un cambio di rotta deciso e certo, ove la nostra
professione venisse considerata per l'importanza che in
questo processo realizzativo in realtà ha.
Il progetto non più burocratico fardello, ma elemento
fondamentale nel mondo delle opere pubbliche. La Fondazione
lo ha sempre detto e richiesto, va benissimo la concorrenza,
ma questa deve avvenire sulla qualità e non sul prezzo del
lavoro.
Questo è un principio fondamentale in Europa, da notare cosa
succede nella sempre citata e ammirata Germania. La
selezione in quel paese avviene sulla qualità dei progetti o
dei progettisti e non certo sul loro costo: la tariffa
professionale in Germania c'è, ed è inderogabile.
Purtroppo l'allora ministro Bersani non aveva compreso
esattamente cosa ci chiedesse realmente l'Europa, ed oggi se
ne pagano pesantemente le conseguenze.
La speranza, dunque, era nel nuovo Codice che, oltre alla
riqualificazione del ruolo del progetto, avrebbe dovuto
prevedere la professionalizzazione delle stazioni appaltanti
anche attraverso la loro riunione nella centrali di
committenza.
L'esperienza degli ultimi mesi è tragica. Nel mondo dei
bandi per l'assegnazione dei servizi di ingegneria e
architettura la crescita di gare e procedure farlocche o
illegittime è esponenziale. Forse l'aver sostituito il
regolamento con le linee guida ha determinato nei Rup la
convinzione di avere le mani molto più libere e ha quindi
dato grande sfogo alla fantasia.
Amministrazioni che emanano bandi per incarichi
professionali riservati esclusivamente a pubblici
dipendenti, importi a base d'asta in imbarazzante spregio
dei parametri tariffari emanati nel giugno scorso dal
ministro di giustizia.
Amministrazioni che in totale contrasto con la normativa, ma
anche con la giurisprudenza consolidata ai massimi livelli,
continuano a subordinare il pagamento dei corrispettivi
professionali all'ottenimento dei finanziamenti, come se
tale evento potesse dipendere dal progettista.
Centrali di committenza, Stazioni uniche appaltanti, che,
oltre ad emanare i bandi di gara, disinvoltamente creano al
proprio interno uffici tecnici finalizzati a eseguire anche
le progettazioni per conto delle amministrazioni per cui
operano.
Sovente la già citata sottostima del compenso professionale
posto a base d'asta avviene strumentalmente con lo scopo di
aggirare le soglie che determinano le procedure di gara.
Moltissimi i bandi con importi artatamente fissati appena
sotto i 40 mila euro (il capolavoro da noi registrato:
39.997) soglia che consente una procedura semplicissima.
Così come l'elusione della soglia comunitaria è pratica
molto, ma molto, frequente.
Ma ci sono bandi per affidamenti di servizi di ingegneria
che, al fine di aggirare l'obbligo di effettuare una
procedura mediante offerta economicamente più vantaggiosa,
obbligatoria sopra i 40 mila euro, si rifugiano nel più
generico appalto di fornitura: la fornitura è ovviamente in
realtà una prestazione professionale, e così le gare vengono
effettuate al minor prezzo.
Dopo un semestre d'applicazione deve essere rilevato, con
amarezza e sconforto, che l'introduzione del nuovo codice
avviene in molte amministrazioni in totale spregio delle
previsioni normative: si continua a considerare il progetto
solo un gravame burocratico che deve costare il minimo
possibile. Se poi è gratis, meglio.
La categoria, però è stufa e veramente esasperata: non è
possibile andare avanti in questo modo.
L'Anac in tutta questa fase di rinnovo normativo ha lavorato
moltissimo e con grande qualità: ha cercato di sopperire con
le linee guida e gli indirizzi alle molte mancanze del
Codice, ha attuato, lei sì veramente, una seria operazione
di ascolto con tutti i soggetti coinvolti.
Chiediamo quindi all'Autorità, che ha dimostrato serietà e
impegno, di porre in essere strumenti veloci di controllo:
quasi sempre le inadempienze o i contrasti normativi nei
bandi sono palesi e di facile individuazione. La censura da
parte di Anac può essere l'unico vero efficace deterrente
alla disapplicazione del Codice.
Solo con una attività propedeutica di questo tipo ed una
seria modifica di alcune parti del Codice, finalizzata a
dare davvero centralità e valore alla fase progettuale sarà
possibile dare una risposta positiva al grande tema della
qualità delle opere pubbliche
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
respinti, ora il Sistri ne traccia anche il ritorno.
Il Sistri detta istruzioni nel caso in cui il rifiuto venga
respinto o parzialmente rifiutato. Il destinatario, in fase
di compilazione della sezione di propria competenza della
scheda di movimentazione, potrà indicare, direttamente o a
seguito di verifica analitica, uno dei seguenti esiti:
rifiuto accettato, rifiuto parzialmente accettato e rifiuto
respinto.
In particolare, nel momento in cui il
destinatario determini l'esito della movimentazione
attraverso compilazione e firma della scheda di
movimentazione nella sezione di propria competenza, il
sistema invierà automaticamente al produttore una mail Pec
di notifica recante tutte le informazioni relative alla
movimentazione e, quindi, all'esito della stessa.
Il 16.12.2016 è stata aggiornata da parte del dicastero
dell'ambiente la scheda Sistri «Gestione rifiuti respinti».
Salvo proroghe dell'ultima ora dal 01.01.2017 scatterà
la definitiva operatività del Sistri, con l'abbandono del
doppio binario e l'applicazione delle sanzioni previste dal dlgs
n. 152/2006 per le violazioni in materia.
In entrambi i casi, «rifiuto respinto» e «rifiuto
parzialmente accettato», il produttore potrà optare per il
rientro presso la propria sede o per una movimentazione
verso altro destinatario dei rifiuti respinti, ovvero del
quantitativo non accettato.
Ai fini della tracciabilità dovrà essere sempre generata una
nuova scheda di movimentazione con le info relative alla
collocazione dei rifiuti respinti. Il produttore individuerà
il trasportatore (medesimo o altro) e la nuova destinazione
(presso la propria sede oppure altro destinatario). In caso
di rifiuti parzialmente accettati non sarà necessario
annullare la registrazione cronologica di carico.
Il produttore effettuerà l'associazione della scheda al
registro cronologico (scarico dei rifiuti) per la quantità
accettata dal destinatario e, solo dopo, provvederà alla
modifica della registrazione cronologica di carico,
riducendola della quantità di rifiuto respinta
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Impianti
elettrici in sicurezza. Dal cnpi.
Dal Consiglio nazionale dei periti industriali il vademecum
per compilare la dichiarazione di rispondenza degli impianti
elettrici.
La redazione della dichiarazione di rispondenza (quel
documento tecnico che attesta se un impianto elettrico
rispetta determinati requisiti di sicurezza) è stata
realizzata dal gruppo di lavoro impianti elettrici ed
elettronici del Cnpi in collaborazione con il collegio dei
periti industriali di Milano e Lodi.
«La guida, la seconda
pubblicata dal Consiglio», si legge nella nota del Cnpi,
«si candida a diventare uno strumento concreto di lavoro
per guidare i professionisti verso una corretta compilazione
della dichiarazione di rispondenza. La guida vuole diventare
una sorta di vademecum per favorire la diffusione di buone
prassi, soprattutto in assenza di modelli che sono invece
previsti per la dichiarazione di conformità».
La dichiarazione di rispondenza è stata introdotta dal dm
37/2008 e può sostituire la Dichiarazione di Conformità nel
caso in cui questa non sia più disponibile, ma solo per gli
impianti già esistenti alla data del 27.03.2008
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Più
cantieri senza «nulla osta». Dall’11 dicembre sono attività
libera i lavori soggetti a comunicazione semplice.
Titoli abilitativi. Il Dlgs 222 cancella definitivamente la
Dia: per le nuove costruzioni servono Scia o permesso di
costruire.
Si è ampliato il
ventaglio degli interventi che possono essere realizzati
senza nessuna comunicazione al Comune. È entrato in vigore
l’11 dicembre il Dlgs 222/2016 (il cosiddetto Scia2) che
cancella la comunicazione di inizio attività (Cil) e sposta
i lavori per i quali era necessaria in edilizia libera. Il
Dlgs allarga lo spazio della segnalazione certificata di
inizio attività (Scia) e manda in pensione la dichiarazione
di inizio attività (Dia).
Il decreto, con un maxitabelllone esplicativo, individua sia
per l’edilizia che per gli altri settori, il regime
abilitativo cui è sottoposta ogni attività: autorizzazione
espressa da parte della Pa, silenzio assenso, Scia o
comunicazione.
Il Dlgs 222 dà attuazione alla legge 124/2014, che delega il
Governo a riorganizzare le amministrazioni pubbliche per
accelerare e rendere più semplice le procedure burocratiche
e l’accesso ai servizi. In particolare l’articolo 5 della
legge delega il Governo a emanare anche più di un Dlgs per
la definizione dei regimi amministrativi da applicare per
iniziare un’attività. Il 222 è noto come Dlgs sulla Scia2
perché è stato preceduto dal Dlgs 126/2016 sulle iniziative
che la Pa deve mettere in atto per semplificare e rendere
agevole la presentazione della Scia.
Niente più Dia
La semplificazione dei regimi amministrativi in materia di
edilizia passa dalle modifiche introdotte ad alcuni articoli
del Testo unico dell’edilizia (il Dpr 380/2001). I titoli
abilitativi per la realizzazione degli interventi edilizi
diventano tre: la comunicazione di inizio lavori asseverata,
la segnalazione certificata di inizio attività e il permesso
di costruire (salvo che in presenza di vincoli relativi
all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o
culturali sulla domanda di permesso di costruire può anche
formarsi il silenzio-assenso)
Sparisce dal catalogo dei titoli abilitativi alle attività
edilizie la dichiarazione di inizio attività. Tutto quello
per cui prima era necessaria la Dia alternativa al permesso
di costruire ora può essere fatto con la Scia alternativa
all’autorizzazione. Rientrano in questo cambio di titolo
abilitativo:
gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano
la realizzazione di un immobile anche se totalmente diverso
dal precedente, con aumento del numero delle unità
immobiliari, del suo volume o della sua superficie;
le nuove costruzioni e gli interventi di ristrutturazione
urbanistica i cui piani attuativi (o gli accordi tra le
parti aventi lo stesso valore) prevedono dettagliate
disposizioni relative alla planimetria, al volume, alla
tipologia, alle caratteristiche costruttive dei manufatti.
Edilizia libera più ampia
Con l’entrata in vigore del Dlgs 222 si allunga la lista
delle attività di edilizia libera, per le quali prima era
necessaria la comunicazione di inizio lavori (Cil) senza
l’asseverazione di un tecnico. Non serve più, per esempio,
nessun titolo abilitativo per istallare pannelli solari o
fotovoltaici sugli edifici ubicati fuori dai centri storici.
La lista nazionale
Per il settore dell’edilizia, il ministero delle
Infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministero
della Semplificazione, deve emanare, nei 60 giorni
successivi all’entrata in vigore del Dlgs 222 -e cioè entro
il 9 febbraio-, un decreto, da passare al vaglio della
conferenza unificata, che dettagli la lista delle opere
edilizie indicate nel maxitabellone allegato al Dlgs e
indichi il titolo abilitativo necessario.
Si tratterà cioè di una legenda unica, finalizzata
all’applicazione dello stesso regime giuridico su tutto il
territorio nazionale. Dovrebbe essere un ulteriore passo
avanti sulla strada dell’unificazione della normativa e
della modulistica nel campo delle costruzioni. Le nuove
regole dovranno però essere recepite dalle Regioni, che
avranno tempo fino al 30.06.2017 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’agibilità
passa dal certificato alla segnalazione. Fine lavori. Ma i
documenti sono simili.
Va in pensione il
certificato di agibilità, rilasciato finora dal Comune, per
attestare che un edificio, e gli impianti in esso
installati, sono conformi al progetto e alle normative
vigenti in fatto di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio
energetico.
La nuova segnalazione
D’ora in avanti il titolare del permesso di costruire o
della Scia, nei 15 giorni successi all’ultimazione dei
lavori di finitura dell’opera, non dovrà più richiedere il
rilascio del certificato, ma dovrà presentare una
segnalazione certificata allo sportello unico per l’edilizia
del Comune in cui è localizzato l’intervento. È un cambio di
procedura dovuto alle modifiche introdotte con il Dlgs
222/2016 agli articoli sull’agibilità degli edifici del Dpr
380/2001, il testo unico per l’edilizia.
La documentazione da allegare alla segnalazione certificata
si discosta poco da quella che doveva essere presentata con
la richiesta del certificato. Il direttore dei lavori o un
altro tecnico deve, tra l’altro, attestare che l’edificio
presenta tutte le condizioni richieste per poter essere
considerato agibile; deve essere anche attestata la
realizzazione delle opere nel rispetto delle norme in
materia di accessibilità e di barriere architettoniche.
Con le regole precedenti occorreva allegare la richiesta di
accatastamento dell’edificio; con le nuove devono essere
indicati gli estremi dell’avvenuta dichiarazione di
aggiornamento catastale.
Le Regioni e i Comuni dovranno stabilire i criteri per
effettuare i controlli per verificare che le dichiarazioni
riportate nella documentazione allegata alla segnalazione
riflettano effettivamente i lavori realizzati.
L’agibilità continua a essere richiesta per le nuove
costruzioni, per gli edifici demoliti e ricostruiti
totalmente o in parte e per quelli sui quali sono stati
realizzati interventi che ne hanno aumentato l’altezza. La
segnalazione certificata interessa anche gli edifici già
esistenti nel caso in cui siano stati realizzati lavori che
possano avere inciso sul loro stato di sicurezza, igiene,
salubrità e risparmio energetico.
Non cambiano neanche, sia pure con qualche specificazione,
le altre tipologie di edifici che possono essere interessate
alla segnalazione certificata relativa all’agibilità. Si
tratta di singoli edifici o di loro parti, funzionalmente
autonomi, nei casi in cui siano realizzate e collaudate
fognature, reti di distribuzione delle acque o altre opere
di urbanizzazione primaria sull’intero complesso edilizio e
siano state completate e collaudate o certificate le sue
parti strutturali e gli impianti relativi alle parti comuni.
Possono essere interessate anche singole unità immobiliari,
completate e collaudate nelle loro parti strutturali e le
opere di urbanizzazione primaria funzionali all’edificio.
Sanzioni confermate
La mancata segnalazione, nei casi in cui essa è
obbligatoria, espone a una sanzione amministrativa variabile
da 77 a 464 euro (sono le stesse cifre previste in
precedenza in caso di mancata della richiesta del
certificato di agibilità) (articolo Il Sole 24 Ore del 19.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO: Demanio-enti
alle battute finali. Trasferiti quasi 4 mila immobili per
oltre 1,4 mld di euro. Appello ai
comuni: c'è tempo fino al 31/12 per chiedere gratis beni
statali da valorizzare.
Ultime battute per il federalismo demaniale. Per i sindaci,
infatti, a cui servisse un immobile per realizzare la nuova
sede della banda municipale, o per collocare un progetto
innovativo di coworking, o che più semplicemente volessero
valorizzare la vecchia caserma dimessa per rimpinguare le
casse esangui del comune, c'è tempo fino al 31 dicembre per
trovare quello che serve gratis.
Non si tratta della solita
pubblicità ingannevole, ma di un progetto le cui origini
risalgono addirittura alla scorsa legislatura, come emerge
chiaramente dalla sua denominazione: federalismo demaniale.
Esso rappresenta l'ultimo retaggio di quel federalismo
fiscale che, ai tempi del secondo governo Berlusconi, fu
definito come «la madre di tutte le riforme».
Di
quell'ambizioso disegno (abbozzato dalla legge 42/2009) oggi
non rimane quasi nulla. E un po' paradossalmente gli unici
frutti che sono arrivati a maturazione sono quelli partiti
più in sordina: l'armonizzazione dei bilanci pubblici e,
appunto, il federalismo demaniale.
In principio fu il dlgs 85/2010, che avrebbe dovuto
trasferire a regioni ed enti locali una parte dei beni
statali per garantirne una migliore valorizzazione,
destinando prioritariamente i relativi proventi
all'abbattimento del debito pubblico. L'attuazione di tale
percorso, tuttavia, si rivelò fin da subito complessa a
causa della difficoltà di definire le liste dei beni
cedibili (e di quelli esclusi dalla cessione).
L'intera architettura venne, quindi, integralmente ripensata
con il dl 69/2013 (c.d. decreto «del fare»), dando vita a
una sorta di versione 2.0, nel tentativo di ovviare al
fallimento del format originario. E i risultati sembrano
essere confortanti. Secondo i dati forniti dall'Agenzia del
demanio, proprio dal 2013 sono stati trasferiti circa 4 mila
immobili, per un valore di oltre 1,4 miliardi di euro. E il
percorso non è ancora concluso.
L'ultimo decreto «milleproroghe»
(dl 210/2015), all'art. 10, comma 6-bis, ha infatti riaperto
i termini della procedura: le amministrazioni locali,
pertanto, hanno tempo fino al 31.12.2016 per
presentare domande di trasferimento di beni presenti sul
proprio territorio, da valorizzare con progetti di recupero
in linea con i programmi di rigenerazione urbana e con le
esigenze dei cittadini.
Ovviamente, non è possibile richiedere qualsiasi bene, ma
occorre prioritariamente attingere all'elenco di immobili
potenzialmente trasferibili redatto dal Demanio e
disponibile sull'applicativo dedicato (OpenDemani), che deve
essere utilizzato anche per inoltrare la domanda (si veda
l'altro pezzo in pagina). Fra gli immobili «adottabili», che
sono articolati per regione, si trova ovviamente di tutto:
ex caserme, poligoni di tiro, terreni, depositi, edifici
scolastici, stazioni dimesse, persino baraccopoli ecc..
In
alcuni casi, però, si tratta di immobili di grande pregio.
Negli anni scorsi, per esempio, il comune di Venezia ha
ottenuto la spiaggia degli Alberoni, una delle perle
naturalistiche del Lido, oltre ad altri immobili contigui,
come l'ex Forte Morosini. Alla città della laguna, inoltre,
è stata assegnata l'ex batteria Daniele Manin, un'area
finora di proprietà demaniale che l'amministrazione occupa
da decenni (e dove ha realizzato un palazzetto dello sport),
con tanto di contenzioso sull'indennità di occupazione.
Altri esempi virtuosi sono richiamati dall'Agenzia: a
Lauria, in provincia di Potenza, il comune è divenuto
proprietario di un edificio da destinare a una onlus per le
attività di assistenza, sostegno e riabilitazione alle
persone affette da gravi patologie neurologiche; a Macerata
Feltria, in provincia di Pesaro-Urbino, un edificio dello
Stato è stato trasferito gratuitamente al comune e ora è una
scuola materna con un bel giardino; a Cortina d'Ampezzo, il
comune ha acquisito venti chilometri di pista ciclabile
lungo l'ex Ferrovia delle Dolomiti che oggi è un itinerario
ciclabile inserito all'interno del percorso «La lunga via
delle Dolomiti», riconosciuto dall'Unesco come patrimonio
naturale dell'umanità.
Oltre a quelli nell'elenco, gli enti potranno fare richiesta
anche di altri beni presenti sul proprio territorio, che
potranno individuare autonomamente fra quelli non
espressamente esclusi (fra i quali, per esempio, rientrano
quelli in uso per finalità dello Stato, i porti e gli
aeroporti di rilevanza economica nazionale e internazionale,
i parchi nazionali e le riserve naturali statali; i beni
appartenenti al demanio marittimo ecc.). Per agevolare le
ricerca, OpenDemanio contiene, in formato «aperto», tutte le
informazioni sugli immobili presenti nel conto patrimoniale
dello stato e la mappatura geolocalizzata dei fabbricati.
Gli immobili possono essere richiesti da comuni, province,
città metropolitane e regioni attraverso una procedura
guidata online, cui si accede attraverso il portale del
federalismo demaniale.
Come detto, il termine ultimo è fissato al prossimo 31
dicembre e vale anche per gli enti in passato hanno già
richiesto e/o acquisito altri immobili.
Gli amministratori e gli operatori già censiti
nell'applicativo PuntoFisco dell'Agenzia delle entrate alla
data del 23.03.2015 potranno continuare ad accedere al
usando le stesse credenziali. Per gli altri, occorre inviare
una nota a firma del rappresentante legale dell'ente via
e-mail,
indicando nome e cognome, codice fiscale, mansione,
telefono, recapito e indirizzo e-mail nominativa
istituzionale della persona da abilitare. Rispetto al
passato, compilare il format è più semplice: infatti, non
sarà più necessario inserire informazioni sulla destinazione
prevista per il bene richiesto, sul suo stato occupazionale
e su eventuali interventi edilizi in programma
sull'immobile.
L'Agenzia del demanio, dopo aver ricevuto tramite la
procedura online la richiesta di trasferimento degli
immobili, avvierà una fase di istruttoria al termine della
quale invia all'amministrazione richiedente il parere
positivo o negativo al trasferimento.
Qualora per il medesimo bene pervengano richieste di
attribuzione da parte di più livelli di governo, esso sarà
attribuito, in forza dei principi di sussidiarietà e di
radicamento sul territorio, in via prioritaria ai comuni e
alle città metropolitane e subordinatamente alle province e
alle regioni. I beni già utilizzati, invece, saranno
prioritariamente trasferiti agli enti utilizzatori che ne
facciano richiesta.
L'attribuzione avverrà a titolo gratuito, ma sarà sottoposta
a una condizione: trascorsi tre anni dal trasferimento, il
Demanio effettuerà un monitoraggio all'esito del quale i
beni che dovessero risultare inutilizzati verranno
riacquisti dallo Stato. Attenzione anche ai beni già
utilizzati a titolo oneroso, perché le minori entrate
erariali saranno compensate con un'equivalente riduzione
delle risorse statali spettanti all'ente assegnatario ovvero
mediante un obbligo di versamento diretto all'entrata del
bilancio statale.
Il 75% delle risorse nette derivanti dall'eventuale
dismissione degli immobili trasferiti dovranno essere
destinate prioritariamente alla riduzione del debito
dell'ente e solo in assenza di debito al finanziamento di
spese di investimento; la restante parte andrà a ridurre il
debito statale
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Sprint
a imprese e lavori edili. La Scia diventa comunicazione
accolta in automatico. Dall'01/01/2017
arriva il modello unico della segnalazione certificata di
inizio attività.
Dal 01.01.2017 un modello unico Scia valido in tutta
Italia permetterà l'avvio immediato dell'attività d'impresa
e dei lavori edili. In sostanza, la Scia unica per l'avvio
di attività d'impresa o per lavori in edilizia, diventa una
semplice comunicazione, da accogliere da parte della p.a. in
modo automatico, purché non servano autorizzazioni espresse.
L'eventuale richiesta di documenti aggiuntivi, viene
considerata, infatti, inadempienza sanzionata dal punto di
vista disciplinare con la sospensione dal servizio con
privazione della retribuzione da tre giorni a sei mesi. Da
tale data, alla presentazione del modello unico Scia deve
essere rilasciata immediatamente, anche in via telematica,
una ricevuta che ne attesta l'avvenuta presentazione e
indica i termini entro i quali l'amministrazione è tenuta a
rispondere o entro i quali il silenzio equivale ad
accoglimento dell'istanza. In caso di Scia unica, la
possibilità di iniziare subito l'attività è circoscritta ai
casi in cui non sono necessarie autorizzazioni o titoli
espressi.
Il provvedimento di sospensione dell'attività, è
limitato ai soli casi di attestazioni non veritiere o di
coinvolgimento di interessi sensibili (per esempio ambiente
e paesaggi).
È con il dlgs 30.06.2016 n. 126 che è stato
riformato l'istituto della Scia (segnalazione certificata di
inizio attività), attuando, quanto previsto dalla legge
delega per la riforma della p.a. (legge n. 124 del 2015).
Presentazione modello standard Scia.
Il modello unico Scia, valido in tutta Italia, conterrà la
possibilità del privato di indicare l'eventuale domicilio
digitale per le comunicazioni con l'amministrazione
interessata.
In caso di interventi che richiedono una Scia, il cittadino
deve presentare allo sportello unico telematico
esclusivamente i documenti contenuti nel modello unificato.
L'ente che ha ricevuto la Scia la trasmette immediatamente
alle altre amministrazioni interessate per consentire loro,
per quanto di competenza, il controllo sulla sussistenza dei
requisiti e dei presupposti per l'esercizio dell'attività
medesima.
L'ufficio ricevente, fino a cinque giorni prima della
scadenza del termine di 60 giorni dalla ricezione della
segnalazione (30 giorni per la Scia edilizia), nel caso
accerti una carenza di requisiti, presenta
all'amministrazione che ha ricevuto la Scia, eventuali
proposte motivate per l'adozione di provvedimenti inibitori,
repressivi o sospensivi.
Questo iter riguarda, le sole
attività «liberalizzate», ossia le attività per le quali
l'amministrazione ha solo il compito di verificare la
sussistenza di requisiti o presupposti fissati dalle norme.
In questi casi l'attività può essere iniziata dalla data di
presentazione della segnalazione certificata. I moduli
devono essere pubblicati sui siti istituzionali delle
pubbliche amministrazioni destinatarie delle istanze,
segnalazioni o comunicazioni.
Ricevuta di avvenuta presentazione.
Il nuovo art. 18-bis della legge n. 241/1990 (così come
modificato dal dlgs 30.06.2016 n. 126) prevede
«l'obbligo di comunicare ai soggetti interessati, all'atto
di presentazione di un'istanza, i termini entro i quali
l'amministrazione è tenuta a rispondere ovvero entro i quali
il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento
della domanda».
Il dettato normativo prevede quindi il
rilascio immediato, anche in forma telematica, di una
ricevuta che attesta l'avvenuta presentazione dell'istanza,
della segnalazione e della comunicazione e indica i termini
entro i quali l'ente è tenuto, ove previsto, a rispondere,
ovvero entro i quali il silenzio della stessa
amministrazione equivale ad accoglimento dell'istanza.
Il
termine per la convocazione della conferenza di servizi (da
parte dell'ente procedente) decorre dalla data di
presentazione dell'istanza (di cui alla stessa ricevuta). Le
istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti
anche in caso di mancato rilascio della ricevuta, ferma
restando la responsabilità del soggetto competente.
La data di protocollazione dell'istanza, segnalazione o
comunicazione non può comunque essere diversa da quella di
effettiva presentazione. Le istanze, segnalazioni o
comunicazioni producono effetti anche in caso di mancato
rilascio della ricevuta, ferma restando la responsabilità
del soggetto competente.
---------------
Modulistica inviata telematicamente.
Qualora gli enti locali non provvedano alla pubblicazione
della modulistica standard Scia unica, le regioni, anche su
segnalazione del cittadino, assegnano agli enti interessati
un congruo termine per provvedere, decorso inutilmente il
quale adottano le misure sostitutive, nel rispetto della
disciplina statale e regionale applicabile nella relativa
materia.
Laddove non sia possibile la pubblicazione dei predetti
moduli, le pubbliche amministrazioni pubblicano in loro
luogo l'elenco degli stati, qualità personali e fatti
oggetto di dichiarazione sostitutiva, di certificazione o di
atto di notorietà, nonché delle attestazioni e asseverazioni
dei tecnici abilitati o delle dichiarazioni di conformità
dell'agenzia delle imprese, necessari a corredo della
segnalazione, indicando le norme che ne prevedono la
produzione.
In caso di inadempienza della regione si
provvede in via sostitutiva ai sensi dell'articolo 8 della
legge n. 131 del 2003. L'amministrazione può chiedere
all'interessato informazioni o documenti solo in caso di
mancata corrispondenza del contenuto dell'istanza,
segnalazione o comunicazione e dei relativi allegati, a
quanto pubblicato nel sito o nei moduli. È vietata ogni
richiesta di informazioni o documenti ulteriori rispetto a
quelli pubblicati nel sito o indicati nei moduli, nonché di
documenti in possesso di una pubblica amministrazione.
Sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione sarà
indicato lo sportello unico, di regola telematico, al quale
presentare la Scia, anche in caso di procedimenti connessi
di competenza di altre amministrazioni ovvero di diverse
articolazioni interne dell'amministrazione ricevente.
Possono essere istituite più sedi di tale sportello, al solo
scopo di garantire la pluralità dei punti di accesso sul
territorio.
Se per lo svolgimento di un'attività soggetta a
Scia sono necessarie altre Scia, comunicazioni,
attestazioni, asseverazioni e notifiche, l'interessato
presenta un'unica Scia allo sportello telematico.
L'amministrazione che riceverà la Scia la trasmette
immediatamente alle altre amministrazioni interessate al
fine di consentire, per quanto di loro competenza, il
controllo sulla sussistenza dei requisiti e dei presupposti
per lo svolgimento dell'attività e la presentazione, almeno
cinque giorni prima della scadenza dei termini, di eventuali
proposte motivate per l'adozione dei provvedimenti ivi
previsti.
Nel caso in cui l'attività oggetto di Scia è condizionata
all'acquisizione di atti di assenso comunque denominati o
pareri di altri uffici e amministrazioni, ovvero
all'esecuzione di verifiche preventive, l'interessato
presenta allo sportello telematico la relativa istanza, a
seguito della quale è rilasciata ricevuta. In tali casi, il
termine per la convocazione della conferenza dei servizi
decorre dalla data di presentazione dell'istanza e l'inizio
dell'attività resta subordinato al rilascio degli atti
medesimi, di cui lo sportello dà comunicazione
all'interessato
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Atti,
la chiarezza è d'obbligo. Giudici e avvocati dovranno usare
un format stringato. I lavori in corso sulla formulazione di
difese e sentenze nei processi civili e amministrativi.
Atti giudiziari da scrivere secondo un format stringato. Le
norme processuali e l'onda riformatrice si impuntano su
regole di confezionamento esterno di
citazioni/ricorsi/memorie e comparse e delle sentenze.
Sia il processo amministrativo sia il processo civile,
infatti, prevedono già regole, più o meno severe, sulla
brevità nella formulazione delle difese e delle sentenze.
Il processo amministrativo, nella versione vigente, prevede
il principio generale di chiarezza e sinteticità (articolo 3
del Cpa, codice del processo amministrativo), include questi
principi tra i parametri per decidere sulle spese a carico
di chi perde la causa (articolo 26 Cpa), e attribuisce a un
decreto del presidente del consiglio di stato il compito di
specificare le modalità a cui le parti devono in concreto
attenersi (articolo 13-ter norme di attuazione Cpa. A questo
nuovo decreto stanno lavorando gli uffici della giustizia
amministrativa, con il coinvolgimento delle professioni
forensi.
Sempre in materia di processo amministrativo si deve
considerare, però, che una abrogata versione dell'articolo
120 del Cpa prevedeva oneri specifici di sinteticità nei
giudizi sugli appalti; sul punto il presidente del consiglio
di stato aveva adottato il decreto 40/2015, in cui, tra
l'altro, era indicato, con alcune eccezioni, il limite di 30
pagine e corpo 12 del carattere e interlinea 1,5.
Nel processo civile una regola di questo tipo è stata
introdotta come esigenza del processo telematico.
L'articolo 16-bis, comma 9-octies, del decreto legge
179/2012 prevede che gli atti di parte e i provvedimenti del
giudice depositati con modalità telematiche siano redatti in
maniera sintetica (si noti che la norma non cita la
chiarezza).
Inoltre è in pista un gruppo di lavoro presso il ministero
della giustizia ed è annunciato un decreto ministeriale che
definisca gli adempimenti connessi alle esigenze di
snellezza degli atti.
Ma vediamo quali sono le prospettive per il lavoro degli
avvocati e dei giudici.
La prima constatazione è che le professioni giuridiche
devono fare i conti con una inversione di tendenza: non
conta quello che si dice, ma conta di più lo spazio a
disposizione.
Si parte dal limite dimensionale e a quello bisogna adeguare
le modalità di espressione.
L'avvocato, poi, deve sostenere discorsi persuasivi e deve
farlo in uno spazio predeterminato. Il giudice, invece, deve
motivare la sua decisione e dovrà tenersi nei limiti
assegnati.
Questa esigenza di adeguarsi a regole sul confezionamento
degli atti porta alla selezione da un lato degli argomenti
difensivi e dall'altro degli argomenti motivazionali.
Oltre alla selezione degli argomenti, bisogna ridurre la
portata del discorso. Quindi, scelta degli argomenti e
graduatoria degli stessi, con sviluppo del discorso meno
ampio.
Risulta necessario, poi, anticipare un sunto e le
conclusioni per poi passare allo sviluppo. Pertanto nello
schema dell'atto sarà meglio, dopo l'indicazione delle parti
e delle informazioni sul processo, dare la possibilità al
giudice di indicare dove si va a parare, esplicitando le
richieste, per poi passare alla descrizione dei fatti e alla
illustrazione delle tesi giuridiche (con selezione dei punti
e meno verbosità nelle spiegazioni). Altro discorso è se
chiarezza e sinteticità sono principi che assicurano la
migliore difesa e la migliore sentenza possibile.
Da notare che i due termini sono eterogenei: uno può essere
sintetico e confuso oppure prolisso ma chiaro. Il problema
si sposta, a questo, punto sulle conseguenze per le difese
della scarsa chiarezza e sinteticità. La questione riguarda
più che altro la sinteticità, a fronte di prescrizioni che
probabilmente si concentreranno a determinare numero massimo
di pagine e dimensione dei caratteri e spaziatura.
Alcune regole già oggi puniscono chi supera il numero
massimo di pagine con la mancata lettura delle pagine
sovrabbondanti. Insomma l'ordinamento ritiene preferibile
dare torto a chi ha ragione, se questa ragione emerge nelle
pagine eccessive, piuttosto che impegnare il giudice a
leggere le pagine ulteriori, magari sanzionando l'eccesso di
parole con una multa.
C'è, infine, una riflessione sul processo telematico e,
anzi, sul documento informatico.
Ci si chiede se, infatti, non sia possibile utilizzare le
potenzialità tecnologiche e in particolare i collegamenti
ipertestuali. La possibilità, ora non consentita di inserire
elementi attivi nel testo delle difese depositate
telematicamente, potrebbe consentire a chi legge di avere un
testo base snello e contemporaneamente di poter scaricare i
testi di riferimenti in separati file.
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In arrivo un decreto ministeriale sulla
sinteticità degli atti processuali.
Un decreto ministeriale imminente in nome dei criteri
capisaldi di «sinteticità e chiarezza» degli atti
processuali dalla cassazione all'appello che recepisca le
indicazioni emerse dalle conclusioni del gruppo di lavoro
sulla sinteticità degli atti processuali.
Così il ministro
della giustizia Andrea Orlando ha promesso il primo dicembre
scorso introducendo il lavoro del team istituito il 9
febbraio scorso e presieduto dal capo dipartimento per gli
affari di giustizia Antonio Mura. «Un lavoro», descriveva,
«che non si limita a indicare delle possibili norme che lo
concretizzino ma anche prassi amministrative e delle scelte
di assetto organizzativo, punto sul quale intendo procedere
immediatamente con un decreto ministeriale che recepisca le
indicazioni del gruppo».
Il gruppo di lavoro.
Il gruppo oltre a formulare le sue proposte conclusive, ha
ribadito l'importanza di una serie di provvedimenti a
cascata: dall'inserimento nelle aule universitarie
dell'insegnamento dell'argomentazione e del linguaggio
giuridico all'assunzione degli elementi di sinteticità e
chiarezza come parametri di valutazione nei concorsi in
magistratura o per l'accesso alla professione forense e come
elementi di valutazione professionale.
In tre mesi di
lavoro, lavorando prima in sede plenaria e poi in
sottogruppi di lavoro per il civile e per il penale,
l'organo ha fatto un'approfondita ricognizione del quadro
normativo nazionale e sovranazionale allargando
successivamente la sua analisi dagli atti giudiziari della
cassazione ai provvedimenti di merito formulati in appello.
Sono stati così ascoltati anche i presidenti delle corti
d'appello di maggiori dimensioni per capire se siano state
avviate prassi e sperimentazioni innovative in materia.
Le proposte.
Ne sono uscite due tipi di proposte, quelle in ambito
tecnico-operativo e quelle normative. Le prime prevedono una
iniziale raccolta di protocolli processuali condivisi
dall'avvocatura con la corte di cassazione e con molti
uffici giudiziari di merito sulle prassi virtuose anche in
materia di redazione di atti processuali, la realizzazione
di una banca-dati delle buone prassi e la condivisione
dell'idea con il consiglio nazionale forense e con il
consiglio superiore della magistratura, rendendo disponibili
gli atti del proprio lavoro.
Le proposte dal punto di vista
normativo riguardano invece interventi legislativi per
l'enunciazione del principio generale di sinteticità che
valga tanto per gli atti di parte quanto per i provvedimenti
giudiziari, norme che promuovano la chiarezza e l'organicità
in ogni atto di parte o del giudice e norme che richiedendo
anche sinteticità nell'oralità, assegnino maggiori poteri
alla conduzione dell'udienza conformando relazione
introduttiva e discussione ai canoni della concentrazione e
della specificità.
Atti sintetici e quindi chiari.
«Nel nostro ordinamento processuale, abbiamo una tendenza
alla scrittura enciclopedica di atti e sentenze
particolarmente prolissi», ha dichiarato Orlando in apertura
di conferenza. Il ministero ha quindi regolamentato i
principi di sinteticità e chiarezza in una scheda diffusa in
sede di presentazione e sul sito istituzionale del
ministero: «devono riguardare tutti gli atti processuali per
onorare il principio del giusto processo che diventa lo
scopo finale: per le esigenze che impone la tecnologia
tradotta in processo civile telematico, per l'archiviazione
in banche-dati, per la ricerca mediante registri
informatici».
Ed ecco ribaditi i principi: «Sinteticità e
chiarezza dove il primo è il mezzo per raggiungere la
seconda che è il fine perché la sovrabbondanza allunga il
processo e i termini ragionevolmente contenuti, auspicati
dall'art. 111 costituzione, saltano inesorabilmente,
danneggiando nel proprio diritto di difesa, la parte che ha
ragione e ugualmente la collettività che ha interesse a
vedere realizzarsi una giustizia giusta anche dal punto di
vista dei costi che questa richiede.
Chiarezza, il fine da
raggiungere, non solo per rendere tutto più rapido ma per
dare qualità alla risposta stessa, eliminando le
argomentazioni ripetitive e rendendo tutto più fruibile,
anche in considerazione del fatto che ogni atto della fase
precedente riverbera su quella successiva»
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016). |
ENTI LOCALI - VARI: Per
la multa a rate bisogna dimostrare l'indigenza del nucleo
familiare.
Chi vuole pagare una multa a rate deve presentare
tempestivamente domanda al comune o alla prefettura
dimostrando la difficoltà economica del suo nucleo
familiare. E se arriva un verbale con targa palesemente
errata spetterà al rappresentante governativo archiviare
tutto.
Sono queste alcune delle indicazioni che emergono dalla
lettura della circolare 28.11.2016 n. 307 della Prefettura di Torino.
Innanzitutto in caso di incidente con decesso o lesioni
gravi e gravissime la patente deve essere immediatamente
ritirata in strada dall'organo di polizia, specifica
l'ufficio territoriale del governo. Particolarmente
interessanti le considerazioni sulla rateizzazione delle
multe. Entro 30 giorni dalla contestazione dell'infrazione
infatti l'interessato che versa in condizioni economiche
sfavorevoli, ai sensi dell'art. 202-bis del codice della
strada, può richiedere di essere ammesso al beneficio della
rateizzazione in riferimento all'importo della multa da
pagare calcolato in misura ridotta.
Siccome alcuni comandi di polizia locale calcolano le rate
facendo riferimento all'importo raddoppiato delle infrazioni
e la rateizzazione è teoricamente ammessa anche per chi
circola senza copertura assicurativa sorgono poi difficoltà
per procedere al dissequestro del veicolo, specifica la
circolare, non potendosi assimilare la rateizzazione su un
importo raddoppiato al necessario pagamento in misura
ridotta.
In buona sostanza se il comando si sbaglia e raddoppia
l'importo della multa si corre il rischio di non aver
diritto al dissequestro immediato del veicolo unitamente ad
un esborso ingiusto non previsto dalla legge. La
rateizzazione chiesta sul verbale di contestazione, conclude
la prefettura, «va quindi calcolata, ove concessa, sul
minimo della sanzione pecuniaria, ricadendo l'istanza nel
termine previsto per il pagamento in misura ridotta».
Attenzione alle multe con targa errata ovvero notificate a
soggetti sbagliati. Spetterà alla prefettura archiviare
questi verbali ai sensi dell'art. 386 del regolamento di
esecuzione del codice della strada. Ma solo se il comando
non sarà riuscito a trovare prima l'effettivo trasgressore
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti,
l'albo dei gestori cambia i requisiti sui mezzi.
Dal 01.02.2017 nuovi criteri e requisiti per l'iscrizione
all'albo dei gestori ambientali per lo svolgimento
dell'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani. Al
fine di individuare la dotazione minima dei veicoli per lo
svolgimento delle attività sarà opportuno tenere conto delle
differenti potenzialità e tipologie dei veicoli utilizzati.
Il requisito di capacità finanziaria per l'iscrizione nelle
categorie previste (dalla 1 alla 5) si intenderà soddisfatto
con un importo di euro 9 mila per il primo autoveicolo e di
euro 5 mila per ogni veicolo aggiuntivo.
È con la
deliberazione 03.11.2016 n. 5 di prot. che il
comitato gestori ambientali ha individuato i criteri e i
requisiti per l'iscrizione all'albo stesso.
Il requisito della capacità finanziaria è dimostrato con le
modalità di cui al regolamento albo gestori (all'articolo
11, comma 2, del decreto 03.06.2014, n. 120) ovvero mediante
attestazione di affidamento bancario rilasciata da imprese
autorizzate all'esercizio del credito secondo lo schema
allegato sotto la lettera «F» della deliberazione.
Le imprese che hanno dimostrato il requisito di capacità
finanziaria ai fini dell'iscrizione all'albo nazionale delle
persone fisiche e giuridiche che esercitano l'autotrasporto
di cose per conto di terzi di cui alla legge 06.06.1974, n.
298, devono comprovare il requisito di capacità finanziaria
mediante attestazione dell'iscrizione a tale albo.
L'impresa iscritta o che intende iscriversi in una
determinata classe della categoria 1 per l'attività di
raccolta e trasporto dei rifiuti urbani, può iscriversi, se
in possesso dei previsti requisiti, nelle classi superiori
di una o più sottocategorie. La deliberazione abroga le
precedenti deliberazioni n. 1 del 30.01.2003, n. 3 del
14.03.2012 e n. 6 del 12.12.2012
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
Conferenza dei servizi si fa in due.
Doppio binario per la conferenza di servizi, con due
modelli: la conferenza semplificata e la conferenza
simultanea.
La conferenza semplificata sarà la modalità ordinaria di
svolgimento e si tiene senza riunioni, in modalità
«asincrona», mediante la semplice trasmissione per via
telematica, tra le amministrazioni partecipanti, delle
comunicazioni, delle istanze e della relativa
documentazione.
La conferenza simultanea (con la riunione) si svolgerà solo
quando strettamente necessaria, in limitati casi indicati
espressamente dalla legge (per esempio decisioni o progetti
complessi, casi di dissenso, Via regionale).
Questo è quanto si legge nelle due guide del ministero della
semplificazione e la pubblica amministrazione sulla nuova
conferenza di servizi.
Modalità telematiche.
Le istanze, la relativa documentazione e gli atti di assenso
sono inviati per via telematica con le modalità previste
dall'articolo 47 del codice di amministrazione digitale.
Quando non è disponibile una piattaforma telematica o la
firma digitale, è possibile inviare in allegato a un
messaggio di posta elettronica «ordinaria» la scansione
dell'istanza protocollata e la relativa documentazione
oppure si può utilizzare la posta elettronica certificata
(Pec).
Se si utilizza la posta elettronica ordinaria, può
essere utile chiedere con le stesse modalità conferma
scritta dell'avvenuta ricezione. Inoltre, le nuove
disposizioni prevedono la possibilità per le amministrazioni
di inviare le credenziali di accesso a una piattaforma
telematica in cui sono depositate le informazioni e ai
documenti utili ai fini dello svolgimento dell'istruttoria.
Termine perentorio.
Il termine perentorio per l'invio delle determinazioni da
parte delle amministrazioni coinvolte, nella conferenza
semplificata, è stabilito dall'amministrazione procedente e
non può essere superiore a 45 giorni. Resta fermo l'obbligo
di rispettare il termine di conclusione del procedimento ai
sensi dell'articolo 2 della legge n. 241 del 1990.
Quando
tra le amministrazioni coinvolte nella conferenza ve ne sono
di quelle preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
dei beni culturali o alla tutela della salute dei cittadini,
nel caso in cui le norme di legge o i regolamenti non
stabiliscono un termine diverso, il termine di conclusione
della conferenza è di 90 giorni.
La conferenza semplificata è indetta entro cinque giorni
lavorativi dall'inizio del procedimento di ufficio oppure
dal ricevimento della domanda, nel caso in cui il
procedimento è a istanza di parte
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2016).
---------------
Al riguardano si leggano i contributi pubblicati
nell'apposita
pagina di approfondimento del Ministro per la
Semplificazione e la Pubblica Amministrazione e,
segnatamente:
-
Guida alle novità della conferenza di servizi <--->
file in formato .pdf
-
Opuscolo: cosa
cambia per cittadini e imprese <--->
file in formato .pdf
-
FAQ |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia,
per il Durc online controlli nelle casse edili
Controlli negli archivi delle casse edili per tutte le
aziende che applicano il contratto collettivo dell'edilizia
ai fini dell'emissione del Durc online. Controlli, in
particolare, anche quando non risulti associato all'azienda
il codice statistico contributivo del settore edile (Csc),
secondo la classificazione dell'Inps.
Lo precisa tra l'altro l'Inail nella
circolare 14.12.2016 n. 48,
nell'illustrare le novità del decreto ministeriale 23.02.2016 che, modificando il dm 30.01.2015, ha
previsto due novità in materia di documento unico di
regolarità contributiva, Durc online.
Casse edili obbligatorie.
La prima novità interessa le
imprese che, pur non classificate come aziende edili, di
fatto sono del settore in quanto applicano per i propri
dipendenti il relativo Ccnl. Finora, la verifica della
regolarità contributiva per queste aziende è stata svolta
solo ai fini Inps e Inail. Con il decreto 23.02.2016,
spiega l'Inail, la verifica è stata estesa anche alle casse
edili qualora queste imprese (formalmente non appartenenti
al settore edile) applicano, di fatto, il Ccnl edilizia.
Premesso che l'iscrizione presso le casse edili e il
relativo obbligo di versamento contributivo spetta a tutte
le imprese che applicano il Ccnl dell'edilizia, l'Inail
spiega che le modifiche «sono volte a chiarire l'ambito di
intervento delle casse edili in tutti i casi in cui non vi
sia coincidenza tra la classificazione delle aziende ai fini
previdenziali e l'effettiva applicazione del Ccnl del
settore edile».
Fallimento.
La seconda novità stabilisce che, in caso di
fallimento o di liquidazione coatta amministrativa con
esercizio provvisorio (artt. 104 e 206 regio decreto n.
267/1942), l'impresa può essere considerata regolare in
riferimento agli obblighi contributivi nei confronti
dell'Inps, dell'Inail e delle casse edili che siano scaduti
prima della data d'autorizzazione all'esercizio provvisorio.
Lo stesso in caso di amministrazione straordinaria (dlgs n.
270/1999 e legge n. 39/2004) e sempre con riferimento ai
debiti contributivi dell'Inps, dell'Inail e delle casse
edili scaduti prima della data del decreto che fissa
l'apertura della procedura
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: P.a.,
trasparenza sotto l'albero. Entro il 23/12 l'accesso
generalizzato agli atti sarà realtà.
L'Anci ha predisposto un vademecum con i modelli per i
comuni e per i cittadini.
Si chiama trasparenza il regalo di Natale che la p.a.
metterà sotto l'albero degli italiani. Entro il 23 dicembre,
infatti, tutte le pubbliche amministrazioni (compresi gli
enti pubblici economici, gli ordini professionali, le
società controllate e le partecipate) dovranno adeguarsi al
decreto legislativo n. 97/2016, attuativo della riforma
Madia, che introduce nel nostro ordinamento l'istituto
anglosassone del «Foia» (Freedom of information act), ossia
l'accesso civico generalizzato.
Un formidabile grimaldello
di controllo in mano ai cittadini che potranno richiedere
non solo i dati e i documenti che gli enti sono obbligati a
pubblicare, e che invece non abbiano reso noti (il c.d.
accesso civico semplice) ma anche tutti gli atti «ulteriori
rispetto a quelli oggetto di pubblicazione» (l'accesso
generalizzato vero e proprio).
Questa straordinaria arma di trasparenza e legalità non può
tuttavia non incontrare alcuni limiti. Innanzitutto di
ragionevolezza. Le p.a. potranno accettare solo richieste di
accesso precise, ossia riferite a una specifica
documentazione, e non potranno invece soddisfare istanza
generiche relative a un complesso di atti non individuato.
Non solo. È escluso che per rispondere alle richieste di
accesso, gli enti pubblici siano tenuti a raccogliere
informazioni che non siano già in loro possesso ovvero a
rielaborare dati.
Vi sono poi limiti di accesso legati alla
tutela di interessi pubblici (segreto di stato, sicurezza
pubblica, ordine pubblico, sicurezza nazionale, difesa,
politica e stabilità finanziaria dello stato, relazioni
internazionali) o privati (protezione dei dati personali,
libertà e segretezza della corrispondenza, interessi
economici della persona) che renderanno legittimo il no da
parte della p.a.
Per aiutare gli enti pubblici e in primis i comuni ad
affrontare in modo consapevole questa rivoluzione di
trasparenza, l'Anci ha predisposto un vademecum operativo
con istruzioni tecniche, linee guida e soprattutto
modulistica che potrà essere utilizzata dalle
amministrazioni e dai cittadini.
I municipi potranno trovare nel volume dell'Anci (curato dal
vicesegretario Stefania Dota e scaricabile gratuitamente dal
sito internet dell'Associazione) un utile facsimile del
regolamento comunale in materia di accesso civico e accesso
generalizzato che disciplinerà non solo le condizioni per
l'esercizio del diritto, ma anche limiti, eccezioni
(assolute e relative), impugnazioni e termini del
procedimento.
Sempre a beneficio delle p.a., l'Anci ha predisposto anche i
modelli per la comunicazione dell'istanza ai
controinteressati e per il diniego della domanda.
I cittadini, invece, potranno trovare i due modelli per
l'accesso (riprodotti qui in pagina) a seconda che si tratti
di accesso civico o di accesso generalizzato.
Il procedimento di accesso, come previsto dal dlgs 97, dovrà
concludersi entro 30 giorni dalla presentazione dell'istanza
con un provvedimento espresso che potrà essere di
accoglimento, rifiuto o anche accesso parziale. Anche questa
ipotesi, chiarisce l'Anci, è contemplata dalla normativa
quando gli enti ravvisino la sussistenza di limiti
all'accesso solo per alcuni dati o parti del documento
richiesto. In questo caso dovrà essere consentito l'accesso
alle restanti parti.
Entro il 23 dicembre (sei mesi dall'entrata in vigore del
dlgs 97/2016) le amministrazioni dovranno adottare il «Foia»
sia con riferimento agli obblighi di trasparenza sia
all'accesso civico generalizzato, con la sola eccezione
delle norme in materia di banche dati per le quali è
previsto il termine di un anno (23.06.2017)
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
APPALTI:
Gli impegni del nuovo governo. Da individuare le infrastrutture
prioritarie e strategiche. Il decreto sui livelli di
progettazione atteso dagli operatori. Accelera il primo correttivo del
Codice.
Livelli di progettazione, individuazione delle opere
infrastrutturali strategiche, messa a punto delle modifiche al codice dei
contratti pubblici, varo delle nuove norme tecniche per le costruzioni e del
decreto sulle opere superspecialistiche:
sono questi i principali dossier concernenti il nuovo codice dei contratti
pubblici che dovrà riprendere in mano il ministero delle infrastrutture,
dove è rimasto in sella Graziano Delrio.
Molti provvedimenti hanno ormai
superato la fase di definizione dei contenuti e attendono i pareri, per
altri si aspetta l'uscita in Gazzetta Ufficiale.
Il primo provvedimento atteso dagli operatori economici è il decreto
ministeriale sui livelli di progettazione, che proviene dal Consiglio
superiore dei lavori pubblici come organo proponente. Con questo
provvedimento si deve dare attuazione al disposto dell'articolo 23, comma 3,
del nuovo codice rendendo concreta soprattutto la modifica del primo livello
progettuale dove il preliminare è stato sostituito con il progetto di
fattibilità tecnica ed economica che somma anche lo studio di fattibilità
del precedente codice, in un unicum ben più impegnativo.
Al momento risulta essere stato trasmesso al Consiglio di stato.
E sempre al Consiglio di stato giace l'analogo decreto sulla progettazione
nell'ambito dei beni culturali, testo nel quale si dovranno definire anche i
ruoli e le competenze dei soggetti incaricati delle attività di
progettazione, direzione dei lavori e collaudo.
Il decreto sulla qualificazione per i lavori delle opere superspecialistiche
è attualmente alla registrazione della Corte dei conti (è stato trasmesso a
novembre) e, una volta registrato, sarà inviato alla Gazzetta Ufficiale.
Dovrà poi essere emanato dal Cipe su proposta del ministero anche il primo
documento pluriennale di pianificazione (si veda ItaliaOggi del 09.12.2016) attuativo dell'articolo 201 del decreto n. 50, in cui dovranno essere
esplicitate le opere infrastrutturali a carattere strategico e prioritario.
C'è poi l'aggiornamento delle norme tecniche per le costruzioni per il quale
è stata rinviata a una nuova riunione la decisione della Conferenza
unificata, e connesso con il decreto sui livelli di progettazione, la
definizione delle linee guida per l'implementazione del Bim (Building
information modelling), compito della Commissione ministeriale presieduta da
Pietro Baratono, in attuazione dell'articolo 23, comma 13, del codice.
La partita politicamente più delicata riguarda il primo decreto correttivo
del codice dei contratti pubblici, previsto per il 18.04.2017 come data
ultima. Nei giorni scorsi, anche a seguito della crisi di governo, si è
parlato dell'ipotesi di un rinvio della scadenza di aprile 2017, ma il
ministro Delrio ha ribadito quanto affermato precedentemente e cioè che è
contrario a una ipotesi di proroga.
Da indiscrezioni emerge semmai la volontà di fare presto e quindi di
anticipare l'uscita del correttivo a prima del mese di aprile viste le
pressioni che giungono dagli operatori pubblici e privati per risolvere
criticità e per integrare il testo in vigore. Ma sul contenuto delle
modifiche peserà molto anche quanto emergerà in sede di Cabina di regia
(affidata ad Antonella Manzione, capo ufficio legislativo della presidenza
del consiglio del governo Renzi e che ancora non si sa se sarà confermata
nella sua funzione).
La Cabina di regia della presidenza del consiglio dovrà
infatti confrontarsi con gli stakeholders pubblici per raccogliere da loro
in tempi brevi gli elementi di criticità e le proposte di miglioramento del
Codice (articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Trasparenza, ultima chiamata. Il 23/12 scade il termine per
adeguarsi alle nuove regole. Tutti gli enti pubblici
devono recepire la riforma sull'accesso civico generalizzato.
Il prossimo 23 dicembre sarà il termine ultimo per le pubbliche
amministrazioni per l'adeguamento alle nuove disposizioni in materia di
trasparenza e accesso civico.
La riforma Madia della pubblica amministrazione ha investito anche gli
obblighi in materia di trasparenza, con il decreto legislativo attuativo n.
97/2016, che ha, tra l'altro, modificato numerose disposizioni del dlgs
33/2013, con semplificazione degli oneri e, nel contempo, ampliamento dei
dati e documenti detenuti da soggetti pubblici accessibili dall'utenza.
Come comunicato dall'Autorità nazionale anticorruzione il 06.07.2016, ai
sensi dell'art. 42 del dlgs 97/2016, le amministrazioni e gli enti avevano
sei mesi, per adeguarsi alle novità del decreto, decorrenti dalla data di
entrata in vigore dello stesso (23 giugno).
Nel Piano nazionale anticorruzione (Pna), approvato dall'Autorità il 06.07.2016, è stato previsto che, nel periodo transitorio, l'attività di
vigilanza dell'Anac avrebbe avuto a oggetto gli obblighi di trasparenza non
modificati dal dlgs n. 97/2016, salvo riprendere, anche per gli altri, dopo
detta data.
Per le pubbliche amministrazioni, di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs n.
165/2001, comprese le autorità portuali, nonché le autorità amministrative
indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione, il 23.12.2016
costituisce il termine ultimo per l'adeguamento agli obblighi di trasparenza
come modificati dal dlgs n. 97/2016.
A tale scopo, l'Anac ha emanato lo «Schema di linee guida recanti
indicazioni sull'attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni contenute nel dlgs n. 33/2013 come modificato dal
dlgs n. 97/2016», in consultazione on line sul sito dell'Autorità, dal 25
novembre al 14.12.2016.
Tra le novità cui le amministrazioni dovranno adeguarsi, la disciplina
sull'accesso civico, come «Accesso generalizzato», ai sensi dell' art. 5,
comma 2, del dlgs n. 33/2013.
Altro adempimento in scadenza, l'adozione di soluzioni organizzative tese al
coordinamento delle risposte sull'accesso (accesso documentale, accesso
civico e accesso generalizzato).
Entro il 23.06.2017, occorrerà procedere alla pubblicazione dei dati
contenuti nelle banche dati di cui all'allegato B del dlgs n. 33/2013.
Stesso termine di un anno dall'entrata in vigore del decreto, per l'adozione
del regolamento sull'accesso.
Gli obblighi e le scadenze, in quanto compatibili, si applicano anche a:
enti pubblici economici e ordini professionali; società in controllo
pubblico, escluse le società quotate, di cui al dlgs n. 175/2016;
associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato comunque denominati,
anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a 500.000,00
euro, attività finanziata in prevalenza da p.a. per almeno due esercizi
finanziari consecutivi nell'ultimo triennio, e designazione dei titolari o
componenti da parte della p.a.
L'Anac, a tale scopo, interverrà con apposite linee guida e atti di
indirizzo per gli Ordini professionali.
Tra le novità introdotte dalla riforma, la piena integrazione del Programma
triennale della trasparenza e dell'integrità nel Piano triennale della
prevenzione della corruzione, che diventa ora anche Piano della trasparenza
(Ptpct), in cui deve essere chiaramente identificata la sezione dedicata.
In tale ottica di accorpamento, viene modificato l'art. 1, comma 7, della
legge 190/2012, e si prevede che vi sia un unico responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza. Tuttavia è mancato il
coordinamento con l'art. 43 del dlgs n. 33/2013, nel quale sembra permanere
la possibilità di avere due differenti responsabili.
L'Anac, nello schema di linee guida in consultazione, ritiene che questa
possibilità debba essere interpretata restrittivamente, attesa la volontà
espressa dal legislatore nel decreto 97/2016. Si ammette, pertanto, la
separazione laddove le difficoltà organizzative siano tali da giustificare
la distinta attribuzione dei ruoli, al solo scopo di facilitare
l'applicazione «effettiva e sostanziale» della disciplina
dell'anticorruzione e della trasparenza.
Le amministrazioni inoltre dovranno chiarire espressamente le motivazioni
della presenza di due responsabili e garantire il coordinamento dei ruoli
anche con adeguate strutture organizzative di supporto (articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
ENTI LOCALI:
Aspetto e contenuti uniformi per tutti i siti della pubblica
amministrazione.
Le Linee guida di design per i servizi web della pubblica amministrazione
rappresentano un punto di svolta per la comunicazione online della Pa, per
rafforzare un'identità unitaria e per ribadire il concetto che al centro non
ci sono le esigenze degli enti, ma quelle del cittadino che usufruisce dei
servizi.
Queste linee guida, ad oggi in versione alfa, sono le prime vere e proprie
indicazioni su come strutturare e disegnare i contenuti dei siti della
pubblica amministrazione.
Ci siamo arrivati con un percorso di oltre dieci anni, che chi sviluppa per
la pubblica amministrazione deve conoscere bene.
La legge Stanca del 2004 per prima ha introdotto l'obbligo che i siti della
pa fossero accessibili anche con tecnologie assistite.
Tutto il resto è venuto dopo: la pubblicità legale, la Direttiva del 2009 di
Brunetta sui contenuti minimi dei siti web, con le linee guida pubblicate
nel 2010 e 2011. E infine l'amministrazione trasparente, con gli obblighi di
pubblicazione dei contenuti relativi alla trasparenza.
Le attuali linee guida di design hanno l'obiettivo di uniformare l'aspetto
ed i contenuti di tutti i siti della pubblica amministrazione.
Da un punto di vista tecnico ci si allinea agli standard verso cui si
orienta il web, come il fatto che il sito debba essere «responsive», cioè
adattarsi a tutti i dispositivi mobili e agli smartphone, lasciando la
libertà di integrare i consigli tecnici nelle proprie piattaforme.
Per quanto riguarda i contenuti, le linee guida sono classificate in tre
livelli: obblighi, indicazioni caldamente consigliate, e infine un terzo
livello di consigli meno stringenti. Qui ci occupiamo principalmente dei
primi due livelli.
Le indicazioni sulla testata e il piè di pagina sono molto accurati. La
testata deve contenere i menu, le indicazioni sull'amministrazione e la
ricerca. Deve anche esser messo in evidenza l'ente sovraordinato che, per un
comune, è la regione. Nel piè di pagina ci devono essere i dati di sintesi
dell'ente e gli accessi rapidi alle aree legate agli obblighi di
pubblicazione: amministrazione trasparente, albo pretorio, Urp.
Per la parte centrale, c'è poi libertà. Il consiglio di Agid è di
strutturare i contenuti in tre aree: «Amministrazione», per tutte le
informazioni di natura amministrativo-politica, sugli uffici e sui servizi
dell'ente, «vivere il territorio», con tutte le informazioni sul territorio,
per il cittadino e per il turista, ed infine una sezione delle «Aree
tematiche», delle raccolte di informazioni per temi specifici.
L'Agid consiglia le principali: vivere la natura, informazioni per
acquistare, ristrutturare o cambiare casa, certificati e documenti, cultura
e tempo libero, delibere, elezioni, famiglia, imprese, lavoro, studio,
tasse, trasporti, informazioni sull'ambiente, come le aree per gli animali,
la raccolta differenziata, lo sport, le forme di mobilità alternativa.
Oppure si può suddividere le informazioni in base alla tipologia di utenti
come, ad esempio sei un anziano/bambino/automobilista.
Una categorizzazione non esclude l'altra. Si può anche scegliere di
mantenere la classica sezione «servizi», per accedere ai servizi dell'ente e
spostare gradualmente i contenuti.
Al momento queste linee guida sono applicate da molti siti ministeriali e
c'è una speciale declinazione per gli enti locali. Il lavoro proseguirà con
gli istituti scolastici, le università e gli erogatori di servizi pubblici.
È un processo partecipativo, in cui l'Agid richiede il contributo di tutti i
partecipanti, amministrazioni e sviluppatori, per monitorare come procede
l'applicazione.
Fare un sito conforme alle linee guida di design è probabilmente più
semplice per la pa, specialmente se ci si affianca ad un fornitore che ha
già sviluppato un'infrastruttura web sulla base delle linee guida. È però
importante che l'ente scelga anche una piattaforma che gli consenta anche di
essere autonomo nella gestione dei contenuti, senza avere bisogno del
fornitore per creare nuove sezioni, aggregare o per fare operazioni banali.
Come Kibernetes abbiamo fatto molte esperienze con i clienti, come ad
esempio Paliano (Fr), Fontanelle (Pi), Castelfranco di Sotto (Li) e
Montecarlo (Lu), facendoli «traghettare» alle nuove linee guida.
Li accompagniamo nell'analisi dei contenuti dei siti preesistenti, alla luce
delle norme in vigore (Trasparenza, contenuti obbligatori, contenuti minimi,
accessibilità) e valutiamo con loro i contenuti obsoleti, da aggiornare o
eliminare, affiancandoli ai nuovi contenuti, per strutturare i servizi in
base alle nuove linee guida (articolo ItaliaOggi del 16.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Interessi
legali, dal 2017 scatterà il taglio allo 0,1%. In Gazzetta.
Con decreto del Mef oneri più leggeri.
Il legislatore fa un regalo di fine
anno ai cittadini, abbassando la misura degli interessi
legali che saranno ridotti dallo 0,2 per cento annuo, misura
applicabile per l’anno 2016, allo 0,1 per cento, con effetto
dal 01.01.2017. Sarà perciò più leggero il costo del
ravvedimento. Così come sarà meno oneroso pagare in ritardo
le somme all’erario.
La riduzione è disposta dall’articolo 1 del decreto del
ministero dell’Economia del 07.12.2016, pubblicato
sulla «Gazzetta ufficiale» n. 291 di ieri.
Esso stabilisce
che la misura del saggio degli interessi legali di cui
all’articolo 1284 del Codice civile è fissata allo 0,1 per
cento in ragione d’anno, con decorrenza dal 01.01.2017.
La nuova misura è stata determinata in considerazione del
rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato e del tasso
d’inflazione annuo registrato.
Per regolarizzare gli omessi o tardivi versamenti del 2016,
con il ravvedimento, nel 2017, per gli interessi legali, si
dovranno quindi applicare le due misure, dello 0,2% fino al
31.12.2016 e dello 0,1% dal 01.01.2017. Si può
fare l’esempio di un contribuente che non esegue il
versamento del saldo Imu 2016, in scadenza il 16 dicembre,
per 12mila euro. Egli eseguirà il versamento il 16.01.2017 (il 15 gennaio, di scadenza, è domenica), avvalendosi
del ravvedimento breve entro 30 giorni. In questo caso,
dovrà applicare la sanzione del 15%, che si riduce a un
decimo del minimo, cioè all’1,5 per cento.
Dovrà anche
pagare gli interessi legali dello 0,2% annuo dal giorno
successivo alla scadenza del pagamento, fino al 31.12.2016, e dello 0,1% dal
01.01.2017, fino al giorno in
cui paga con il ravvedimento. In tema di interessi, si
ricorda che, a norma dell’articolo 6 del decreto 21.05.2009, sono invece dovuti nella misura del 3,5% annuo gli
interessi per le somme versate nei termini, in caso di
rinuncia all’impugnazione dell’accertamento, accertamento
con adesione , e conciliazione giudiziale .
Inoltre, per i pagamenti rateali, sugli importi delle rate
successive alla prima, le norme dispongono che sono dovuti
gli interessi legali e che la misura deve essere determinata
con riferimento all’annualità in cui viene perfezionato
l’atto di accertamento con adesione, rimanendo costante
anche se il versamento delle rate si protrae negli anni
successivi.
Questo significa che in caso di adesione perfezionata entro
il 31.12.2016, cioè con il primo pagamento eseguito
entro tale data, gli interessi saranno sempre dovuti nella
misura dello 0,2% annuo, anche se il versamento delle rate
si protrae negli anni successivi. Per contro, se il
contribuente perfeziona l’adesione dopo il 31.12.2016,
potendo eseguire il versamento nei primi giorni del 2017,
gli interessi saranno sempre dovuti nella misura dello 0,1%
annuo (articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: «Vecchi»
ascensori, stop all’obbligo di sicurezza Ue.
Immobili. Sì definitivo del Governo al Dpr dopo i
pareri (con dubbi) di Camera, Senato e Consiglio di Stato.
Sugli ascensori
tutto come previsto: nonostante le osservazioni di Camera e
Senato e le perplessità del Consiglio di Stato, il Governo
ha definitivamente adottato il Dpr attuativo della direttiva
Ue (Atto
del Governo n. 335 - Schema di decreto del
Presidente della Repubblica recante modifiche al regolamento
di cui al decreto del Presidente della Repubblica
30.04.1999, n. 162, per l'attuazione della direttiva
2014/33/UE relativa agli ascensori ed ai componenti di
sicurezza degli ascensori nonché per l'esercizio degli
ascensori), anche se a distanza di quasi dieci mesi.
Non rientra,
quindi, l’obbligo di adeguare gli ascensori installati prima
del 1999 alle norme di sicurezza contenute nella
«raccomandazione» Ue 95/2016/CE, ed esce la “restaurazione”
dell’esame in Prefettura per il rilascio del patentino ai
manutentori, chiesta dal Senato ma bocciato, questa volta,
proprio dal Consiglio di Stato.
Restano le altre disposizioni, quelle per le quali l’Italia
rischia la procedura d’infrazione, previste dalla direttiva
2014/33/Ue (il termine è già scaduto il 19 aprile scorso).
L’ambito di applicazione della direttiva si estende agli
ascensori intesi come prodotti finiti e installati in modo
permanente in edifici o costruzioni e ai componenti di
sicurezza per ascensori nuovi prodotti da un fabbricante
nell’Unione oppure componenti di sicurezza nuovi o usati
importati da un paese terzo.
Sono invece esclusi gli ascensori da cantiere, gli impianti
a fune, quelli progettati a fini militari, quelli usati
nelle miniere e altri casi particolari.
Le nuove norme prevedono una serie di obblighi per
fabbricanti, distributori e importatori. I ministeri di
Sviluppo e Lavoro esercitano una valutazione di sicurezza su
impianti e componenti e possono chiedere che gli operatori
economici intervengano e, al limite, li ritirino dal
mercato.
Sono state introdotte prescrizioni per il ritiro dal mercato
di prodotti non conformi e per il ritiro delle notifiche,
con sospensioni e revoche delle autorizzazioni per gli
organismi di valutazione della conformità che dovessero
violare le disposizioni e perdere i requisiti prescritti. Ma
per le sanzioni amministrative o penali, si legge nella
relazione, «bisognerà intervenire a livello di normazione
primaria».
Le norme che non hanno superato questo ultimo passaggio al
Cdm prevedevano, tra l’altro, controlli sulla precisione di
fermata e livellamento tra cabina e piano e sulla presenza
ed efficacia dei dispositivi di richiusura delle porte di
piano con cabina fuori dalla zona di sbloccaggio. Controlli
avrebbero portato all’imposizione di interventi mirati,
qualora non superati. Ora, invece, gli interventi possono
solo essere suggeriti dai manutentori, mentre i proprietari
(condominio o singoli) sono liberi di scegliere se eseguirli
o meno, salve naturalmente le responsabilità derivanti da
eventuali incidenti.
Sulla applicabilità obbligatoria delle norme di sicurezza
Ue, però, uno spiraglio si è aperto: la decisione è,
infatti, di rinviare la questione a una futura norma
primaria, previa un’attenta valutazione degli effetti della
norma.
Proprio su questo si era consumata la polemica sulla “tassa”
sugli ascensori, nella quale Confedilizia si era battuta per
la non obbligatorietà dell’adeguamento, giudicando che fosse
una spesa superflua e vessatoria, mentre altre associazioni
della proprietà e l’Anaci (amministratori condominiali) si
erano invece detti favorevoli alla prima versione del Dpr.
Comunque, alle osservazioni del Consiglio di Stato, che «pur
non potendo censurare la scelta di rinvio, segnala al
Governo l’esigenza di provvedere con urgenza» viene risposto
nella relazione illustrativa che « tale osservazione non può
essere accolta in termini di modifiche al testo, bensì come
raccomandazione per il futuro ai fini di una accelerazione
degli ulteriori approfondimenti della valutazione di impatto
di tale intervento che si sono ritenuti indispensabili».
Sugli esami prefettizi ai manutentori, invece, espunti dal
testo, è stato proprio il Consiglio di Stato a dire che «la
norma è chiaramente priva di base legale». Osservazione,
questa sì, accolta dal Governo (articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni,
organici «riaperti» in tutta Italia.
Personale Pa. Una nota della Funzione pubblica sblocca le
assunzioni dopo la ricollocazione degli esuberi delle
Province.
Mobilità libera nei
Comuni di tutte le regioni italiane, e assunzioni aperte
ovunque con l’eccezione di Umbria e Liguria.
È questo il
risultato prodotto dal nuovo ricalcolo sulla ricollocazione
degli esuberi di Province e Città metropolitane realizzato
dalla Funzione pubblica e diffuso ieri in una nota che
riapre le porte per gli ingressi di nuovo personale in
cinque regioni: Abruzzo, Calabria, Campania, Molise e
Puglia.
Con questa mossa, in aggiunta alle riaperture parziali già
arrivate con le note precedenti di Palazzo Vidoni che di
volta in volta hanno aggiornato i conti delle
ricollocazioni, di fatto si torna ovunque al regime di
assunzione ordinario: anche le due eccezioni rappresentate
da Umbria e Liguria, dove sono ripartiti solo i meccanismi
della mobilità ma non quelli delle nuove assunzioni,
sembrano infatti destinate a cadere nelle prossime
settimane, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio.
A dirlo sono i numeri. Dopo la legge Delrio, che rimane
perfettamente in vigore nonostante la bocciatura della
riforma costituzionale in cui si prevedeva l’uscita di scena
definitiva delle Province, i Comuni hanno dovuto gestire una
fetta importante dei 23mila “esuberi” creati
dall’alleggerimento di funzioni e organici degli enti di
area vasta. La partita giocata negli enti locali ha
riguardato in tutto 7.940 persone, e oggi sono ancora da
destinare al loro nuovo posto solo 99 dipendenti in arrivo
da Province e Città metropolitane. Liguria e Umbria sono gli
unici territori in cui le persone da ricollocare sono più di
20, e per questo Palazzo Vidoni ha deciso di aspettare
ancora un po’ prima di riaprire le porte.
Il via libera arrivato ieri è stato ovviamente accolto con
piacere dai sindaci, che ora rilanciano sui correttivi in
materia di personale chiesti nel corso dell’esame della
manovra conclusosi però troppo rapidamente, con la fiducia
lampo al Senato, per esaminarli. La nota della Funzione
pubblica, commenta il presidente dell’Anci Antonio Decaro,
sindaco di Bari, «onora l’impegno preso dalla ministra
Marianna Madia in risposta a una mia espressa richiesta
formulata a novembre. I Comuni hanno fatto la loro parte, e
ora dobbiamo procedere per superare i pesanti vincoli al
turnover».
La riapertura delle assunzioni, infatti, avviene ovviamente
all’interno delle griglie che limitano le facoltà
assunzionali in modo parecchio diversificato a seconda delle
dimensioni e delle condizioni di bilancio di ogni ente. I
Comuni fino a mille abitanti sono gli unici a poter contare
in modo strutturale su un turnover al 100%, mentre se l’ente
è più grande lo stesso parametro si applica solo se il
personale pesa per meno di un quarto sul totale delle spese
correnti.
Negli altri casi la girandola delle percentuali
assegna parametri diversificati in base al quadro attuale
degli organici: fra mille e 9.999 abitanti il turnover è al
75% se il rapporto fra dipendenti e popolazione è inferiore
a quello definito dal Viminale per gli enti in dissesto,
altrimenti si scende al 25%, che rappresenta anche la
percentuale di turnover ordinaria per gli enti più grandi.
Le assunzioni, invece, si bloccano se il Comune non ha
rispettato nell’anno precedente i vincoli di finanza
pubblica.
Su questo complesso di regole la manovra è intervenuta con
il bisturi, prevedendo una nuova percentuale tanto per non
perdere le abitudini: dal 2018, infatti, le assunzioni
saranno piene nei Comuni che l’anno prossimo rispetteranno
il pareggio di bilancio senza superarlo di oltre l’1%,
bloccando in cassa più risorse del dovuto. I sindaci premono
per triplicare, dal 25 al 75%, il turnover “ordinario”: un
emendamento della maggioranza era stato presentato nel corso
dell’esame della manovra, ma ogni ipotesi è saltata quando
al Senato si è deciso di ratificare il testo approvato dalla
Camera. Se ne riparla con il nuovo Governo, a cui i sindaci
hanno già chiesto un decreto legge per risolvere questa e
altre questioni (articolo Il Sole 24 Ore del 14.12.2016). |
APPALTI: Enti
pubblici nel caos per la centralizzazione degli appalti.
Sempre più caotica la centralizzazione degli appalti della
pubblica amministrazione. La legge di bilancio 2017 conferma
che l'idea della riduzione drastica delle stazioni
appaltanti «da 35.000 a 35», perseguita nell'ambito della
spending review sin dai tempi del commissario Carlo
Cottarelli, sta generando una selva di adempimenti e deroghe
dalla quale risulta sempre più complicato venir fuori.
Ne è
testimonianza l'articolo 1, comma 421, della legge di
bilancio, che introduce all'articolo 9 del dl 66/2014,
convertito in legge 89/2014, il seguente nuovo comma 3-bis:
«Le amministrazioni pubbliche obbligate a ricorrere a Consip
spa o agli altri soggetti aggregatori ai sensi del comma 3
possono procedere, qualora non siano disponibili i relativi
contratti di Consip spa o dei soggetti aggregatori di cui ai
commi 1 e 2 e in caso di motivata urgenza, allo svolgimento
di autonome procedure di acquisto dirette alla stipula di
contratti aventi durata e misura strettamente necessaria.
In
tale caso l'Autorità nazionale anticorruzione rilascia il
codice identificativo di gara (Cig)». Il comma 3 richiamato
dal nuovo comma 3-bis si riferisce alle categorie di beni e
servizi individuate periodicamente da dpcm, per le quali le
amministrazioni pubbliche, compresi gli enti locali,
risultano obbligati ad approvvigionarsi solo mediante Consip
spa o gli altri soggetti aggregatori. Si tratta, per
esempio, delle categorie individuate dal dpcm 24.12.2015.
Il problema deriva da circostanze di fatto: Consip e
altri soggetti aggregatori non è detto riescano a concludere
le gare per l'affidamento delle forniture e dei servizi
indicate dai dpcm alle quali, poi, le altre amministrazioni
possano accedere mediante adesione alle convenzioni. Si
pone, quindi, il problema di un obbligo di utilizzo delle
centrali di committenza, ma dell'assenza dello strumento per
adempiere a tale obbligo.
Il nuovo comma 3-bis dell'articolo
9 del dl 66/2014, dunque, introduce due espresse deroghe
all'obbligo, teoricamente inderogabile, di
approvvigionamento tramite centrali di committenza. La prima
deroga, abbastanza ovvia, ma opportunamente precisata dalla
norma, discende dalla circostanza che Consip o altri
soggetti aggregatori non siano riusciti a mettere a
disposizione delle p.a. i contratti cui aderire. La prima
deroga deriva da «motivata urgenza». In questo caso, pare di
capire che le amministrazioni possano procedere
autonomamente anche laddove fossero disponibili le
convenzioni dei soggetti aggregatori.
Tuttavia, non si
capisce perché l'urgenza possa giustificare proprio il
mancato ricorso alle convenzioni, visto che le procedure per
aderire ai contratti sono immediate e semplicissime, mentre
in ogni caso lo svolgimento di gare autonome, per quanto di
importi limitati, implica in ogni caso iter non certo così
brevi come una semplice adesione alle convenzioni esistenti.
Il nuovo comma 3-bis dell'articolo 9 in commento, inoltre,
resta difficilmente comprensibile e interpretabile, nella
parte in cui ammette le due deroghe viste prima per
contratti aventi durata e misura «strettamente necessaria»,
dal momento che non sono previsti né criteri, né parametri
per commisurate della misura strettamente necessaria.
Di
fatto, poiché l'Anac non avrà alcun potere di valutare la
motivazione, basterà anche una specificazione molto
generica, perché sia assegnato il Cig. Il sistema, insomma,
si va complicando sempre di più. Per questo appare
inevitabile passare dall'idea del divieto di realizzare
direttamente gli appalti, all'obbligo, invece, di utilizzare
prezzi di riferimento, sottoponendo a controlli preventivi i
provvedimenti che avviano le gare
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2016
- tratto da
www.centrostudicni.it). |
VARI: Patente
con paletti.
Tempi stretti per chi finisce tutti i
punti della patente. L'autista che esaurisce i punti patente
deve richiedere entro 30 giorni alla motorizzazione di poter
sostenere l'esame di revisione della licenza di guida. Ma
per chi non si presenta poi all'esame o tarderà ad attivarsi
scatterà la sospensione della patente oppure la revoca per i
più negligenti.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la
circolare 06.12.2016 n. 27540 di prot..
Il 01.07.2016 sono entrati in vigore i nuovi programmi
d'esame per l'effettuazione degli esami di teoria per la
revisione delle patenti di guida e della carta di
qualificazione del conducente. Per sostenere l'esame di
revisione, specifica la nota, il candidato dovrà presentare
una domanda, redatta su un modello ad hoc, con
allegata una copia del provvedimento di revisione e il
certificato medico, se necessario.
La richiesta ha validità annuale, specifica il ministero.
Alla scadenza l'interessato dovrà presentare una nuova
istanza se non ha ancora superato entrambe le prove. La
domanda dovrà essere presentata entro 30 giorni dal
ricevimento del provvedimento di revisione della licenza di
guida, prosegue la circolare e anche le prove d'esame
dovranno essere tempestive. Pena la sospensione della
patente di guida fino al superamento degli esami che si
svolgeranno in due giorni distinti.
Prima quello teorico, con revoca della patente in caso di
mancato superamento. La prova pratica, conseguente al
superamento di quella teorica, verrà invece disposta
successivamente, previo eventuale rilascio del foglio rosa
per consentire al conducente di esercitarsi alla guida con
un istruttore a fianco (anche in caso di patente sospesa o
scaduta di validità).
Se il candidato non riuscirà a superare la prova pratica
scatterà la revoca della licenza e il conducente potrà
eventualmente tentare di conseguire nuovamente tutte le
categorie, o solo alcune. La revisione della carta di
qualificazione del conducente, infine, scatterà
all'esaurimento totale del punteggio speciale
(articolo ItaliaOggi del 13.12.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Quattro
regimi differenti per il turnover dei dipendenti comunali.
Turnover triplicato per i comuni, ma solo dal 2018 e solo
per le amministrazioni virtuose capaci di sfruttare a pieno
i margini consentiti dal pareggio di bilancio.
È quanto prevede la legge di bilancio approvata in via
definitiva dal senato la scorsa settimana. L'Anci, però,
rilancia e chiede di anticipare al 2017 lo sblocco e di
estenderlo a tutti i municipi.
Una delle richieste più pressanti degli enti locali in vista
della manovra 2017 riguardava proprio l'allentamento dei
vincoli alle nuove assunzioni, ma l'accelerazione imposta
dalla crisi di governo ha impedito di inserire i necessari
correttivi. Ora la partita si giocherà con il nuovo
esecutivo a cui l'Anci ha espressamente chiesto un decreto
legge per affrontare tutti i nodi ancora aperti, partendo
proprio dal turnover.
La Manovra appena approvata contiene solo una parziale
apertura sul turnover, al comma 479 che disciplina gli
incentivi collegati al rispetto del pareggio di bilancio.
In particolare, la lett. d) prevede che «per i comuni che
rispettano il saldo lasciando spazi finanziari inutilizzati
inferiori all'1% degli accertamenti delle entrate finali
dell'esercizio nel quale è rispettato il medesimo saldo,
nell'anno successivo» la percentuale di turnover «è
innalzata al 75% qualora il rapporto dipendenti-popolazione
dell'anno precedente sia inferiore al rapporto medio
dipendenti-popolazione per classe demografica, come definito
triennalmente con il decreto del ministro dell'interno di
cui all'articolo 263, comma 2» del Tuel.
In pratica, viene riproposta la stessa misura già prevista a
favore dei comuni con popolazione inferiore a 10 mila
abitanti dall'art. 16, comma 1-bis, del dl 113/2016, ma con
significative differenze. Il comma 479, infatti, riguarda
anche i comuni con più di 10 mila abitanti, purché siano
finanziariamente virtuosi, e si applicherà solo a decorrere
dal 2018 con riferimento ai risultati del 2017.
L'Associazione dei comuni, però, insiste per eliminare tali
limitazioni. In effetti, la misura potrebbe essere
agevolmente applicata già dal 2017. In generale, sarebbe
auspicabile un generale riordino della materia, che oggi
prevede ben quattro regimi differenti di turnover dei
dipendenti comunali (si veda la tabella pubblicata in
pagina)
(articolo ItaliaOggi del 13.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Sugli
oneri il nodo dello scomputo. Alcuni Comuni bocciano lo
scorporo «indistinto» dopo il parere della Corte dei conti
lombarda.
Urbanistica. Diversa la linea dei Tar, che permettono di
dedurre il valore delle opere dalle urbanizzazioni sia
primarie che secondarie.
Sulla possibilità di
scomputare gli oneri di urbanizzazione senza distinguere fra
opere di urbanizzazione primaria e quelle di urbanizzazione
secondaria l’orientamento favorevole della giurisprudenza è
ormai consolidato. Ma un parere negativo della Corte dei
conti della Lombardia ha riaperto la discussione e molte
amministrazioni comunali hanno invertito la rotta
precludendo agli operatori lo scomputo indistinto.
Le norme
In base al Dpr 380/2001 e, prima dell’entrata in vigore del
Dpr, alla legge 10/1977, il rilascio del permesso di
costruire comporta la corresponsione del contributo di
costruzione, ossia degli oneri di urbanizzazione e della
quota afferente al costo di costruzione.
Gli oneri di urbanizzazione, a loro volta, sono composti da
due voci: da un lato, la quota da versare per
l’urbanizzazione primaria (strade, illuminazione pubblica,
eccetera) e, dall’altro, la quota dovuta per
l’urbanizzazione secondaria (asili, scuole, edifici
comunali, eccetera).
Il titolare del permesso può, inoltre, realizzare
direttamente opere di urbanizzazione “a scomputo” della
quota di contributo afferente agli oneri di urbanizzazione.
La giurisprudenza
I giudici sono stati presto chiamati a decidere se lo
scomputo dovesse essere effettuato distintamente, ossia
raffrontando il valore delle opere di urbanizzazione
primaria ai soli oneri di urbanizzazione primaria e così per
l’urbanizzazione secondaria o se, per contro, lo scomputo
potesse essere indistinto, essendo così consentito portare
in detrazione il valore delle opere di urbanizzazione
primaria dagli oneri di secondaria e viceversa.
Il 04.12.1989, il Consiglio di Stato statuiva che «lo
scomputo, totale o parziale, della quota di contributo
dovuta in caso di realizzazione diretta delle opere di
urbanizzazione debba essere effettuato senza alcuna
distinzione tra opere di urbanizzazione primaria e
secondaria» (sentenza n. 806).
Da allora, il principio è stato più volte ripreso dai
giudici amministrativi che hanno anche avuto modo di
precisare come «una diversa interpretazione produrrebbe
l’effetto, certamente contrario alla volontà del legislatore
(che, nell’introdurre i contributi di urbanizzazione, ha
inteso obbligare i concessionari edilizi a partecipare agli
oneri relativi alle trasformazioni urbanistiche ed edilizie
dei territori comunali ma non ha voluto provocare un
ingiustificato arricchimento dei Comuni), di trasferire
gratuitamente alle amministrazioni la quota di valore delle
opere realizzate in una categoria senza tener conto degli
oneri globali gravanti sul concessionario» (Consiglio di
Stato 716/1990; Tar Toscana 679/2004).
La Corte dei conti
Il principio è stato messo in discussione da un parere
consultivo della Corte dei conti-sezione di controllo per la
Lombardia che, con riferimento a una modifica della
legislazione regionale diretta a riconfermare l’orientamento
giurisprudenziale consolidato, ha viceversa affermato che,
in ragione del vincolo di correlazione fra la tipologia
delle opere da realizzare e il calcolo degli oneri per cui
accordare lo scomputo, non vi sarebbe alcuna motivazione che
«possa consentire il riconoscimento di uno scomputo globale
e indifferenziato degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, a fronte dell’esecuzione diretta di opere di
urbanizzazione, indipendentemente dalla categoria di
appartenenza» (Corte dei conti Lombardia 83/2015 del 23.02.2015).
Gli enti locali
A seguito del parere, numerose amministrazioni comunali
hanno invertito la rotta sino ad allora percorsa,
precludendo agli operatori del settore lo scomputo
indistinto del valore delle opere di urbanizzazione.
Anche a seguito del richiamato parere della Corte dei conti,
il Consiglio di Stato ha ribadito però che «la legge non
consente alcuna distinzione tra opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, di guisa che il concessionario ha
diritto a che le eccedenze delle opere realizzate per un
tipo di urbanizzazione rispetto all’importo del contributo
dovuto per quel tipo di opere siano portate in detrazione
anche dall’ammontare del contributo dovuto per le opere
dell’altro tipo» (Consiglio di Stato, sentenza n. 5800 del
21.12.2015).
Le determinazioni di senso opposto che le amministrazione
dovessero assumere potrebbero dunque essere illegittime,
rappresentando peraltro, come evidenziato dal Consiglio di
Stato, un ingiustificato arricchimento del Comune contrario
alla volontà del legislatore.
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L’importo dipende dall’incremento del
carico urbanistico. Il calcolo. In base a parametri
regionali.
Ai fini
dell’attuazione degli interventi di trasformazione edilizia
maggiori, gli interessati sono chiamati a versare al Comune
il contributo di costruzione, composto da una quota
afferente al costo di costruzione, nonché dagli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria.
In merito alla natura del contributo, la giurisprudenza
amministrativa ha da tempo chiarito che la quota relativa al
costo di costruzione costituisce una prestazione
patrimoniale di natura sostanzialmente paratributaria,
essendo volta a colpire l’incremento di ricchezza derivante
dall’attività edilizia svolta.
Ciò a differenza della quota afferente agli oneri di
urbanizzazione che attiene invece all’incremento del carico
urbanistico (fra le tante, Consiglio di Stato, sentenze 6160
e 6161 del 2013; Tar Lombardia-Milano, sentenza 1248/2014).
La quota connessa degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria è dunque commisurata alla necessità di una
maggiore dotazione di servizi (rete viaria, parcheggi,
verde, fognature, eccetera) per soccorrere i futuri abitanti
o i fruitori dei fabbricati in progetto.
Al posto del versamento degli oneri, il titolare del
permesso può realizzare direttamente le opere occorrenti
all’urbanizzazione dell’area.
Sul punto, la giurisprudenza ha recentemente chiarito che,
tenuto conto della ratio sottesa al versamento degli oneri,
l’impegno a realizzare direttamente le opere, in luogo del
versamento non può invece essere unilateralmente imputato in
capo al privato, senza che l’amministrazione tenga in debita
considerazione l’effettiva incidenza delle opere oggetto
dell’intervento privato.
La quota degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria
viene infatti commisurata all’incidenza degli interventi sul
carico urbanistico, attraverso una specifica deliberazione
che ciascun Comune deve assumere in conformità alle tabelle
parametriche definite dalla Regione.
Al di fuori di tale schema di formale regolamentazione, ogni
eventuale sforamento della misura degli oneri prevista in
relazione al valore delle opere, da addossarsi al privato,
deve avvenire in base ad un accordo pattizio stipulato tra
le parti interessate, amministrazione pubblica e privato.
Sarà dunque legittima una convenzione urbanistica mediante
la quale l’interessato accetti espressamente di farsi carico
della realizzazione di opere pubbliche di valore superiore
al valore tabellare degli oneri.
Di contro, l’imposizione di opere di urbanizzazione primaria
di tipo aggiuntivo, il cui costo sia superiore all’importo
del contributo di urbanizzazione, deve ritenersi illegittima
(Consiglio di Stato, sentenza 5800/2015).
Di tale principio devono tener conto i Comuni, i quali
spesso prevedono, direttamente nell’ambito dei propri
strumenti urbanistici generali, che siano gli interessati
che, ai fini dell’attuazione degli interventi privati, siano
tenuti a realizzare determinate opere pubbliche di valore
superiore agli oneri di urbanizzazione e senza commisurarne
l’incidenza sulla sostenibilità economica e finanziaria
dell’intervento previsto (articolo Il Sole 24 Ore del 12.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Ecobonus
e ristrutturazioni, più tempo per rinnovare casa. Slittano i
termini per ecobonus e ristrutturazioni di edifici.
LEGGE DI BILANCIO/Le nuove scadenze delle
agevolazioni. Detrazioni ad hoc antisisma.
La legge di Bilancio 2017 allunga i tempi per fruire delle
detrazioni fiscali per ecobonus e ristrutturazioni degli
edifici. Agevolazioni anche per gli edifici in zone
sismiche. Oltre a prorogare gli incentivi esistenti, il
testo della manovra, licenziato dal parlamento il 7 dicembre
scorso, prevede anche il potenziamento delle detrazioni
fiscali per gli interventi di riqualificazione energetica e
di ristrutturazione edilizia, compresi quelli per l'adozione
di misure antisismiche, relativi a parti comuni degli
edifici condominiali.
Prorogato seppure con restrizioni,
anche il bonus mobili, mentre il legislatore non è
intervenuto per allungare il periodo consentito per poter
beneficiare del «bonus mobili giovani coppie».
Ecobonus.
La legge di Bilancio 2017 dispone la proroga di un anno,
fino al 31.12.2017, della misura della detrazione al
65% per le spese relative a interventi di riqualificazione
energetica degli edifici (c.d. ecobonus). Per gli interventi
di riqualificazione energetica relativi a parti comuni degli
edifici condominiali o che interessino tutte le unità
immobiliari del singolo condominio, la misura della
detrazione al 65% è prorogata di cinque anni, fino al 31.12.2021.
La misura della detrazione è ulteriormente
aumentata nel caso di interventi che interessino l'involucro
dell'edificio (70%) e di interventi finalizzati a migliorare
la prestazione energetica invernale ed estiva e che
conseguano determinati standard (75%). Le detrazioni sono
calcolate su un ammontare complessivo delle spese non
superiore a 40 mila euro moltiplicato per il numero delle
unità immobiliari che compongono l'edificio.
Per tali
interventi i condomini possono cedere la detrazione ai
fornitori che hanno effettuato gli interventi nonché a
soggetti privati, con la possibilità che il credito sia
successivamente cedibile. Rimane esclusa la cessione a
istituti di credito e intermediari finanziari. Tali
detrazioni sono usufruibili anche dagli Iacp, comunque
denominati, per gli interventi realizzati su immobili di
loro proprietà adibiti a edilizia residenziale pubblica.
Ristrutturazioni e sisma bonus.
La detrazione del 50% è prorogata fino al 31.12.2017.
Con riferimento agli interventi relativi all'adozione di
misure antisismiche a decorrere dal 01.01.2017 fino al
31.12.2021 è prevista una detrazione del 50%,
ripartita in 5 quote annuali di pari importo nell'anno di
sostenimento delle spese e in quelli successivi.
Gli
interventi dovranno essere finalizzati a favorire il
miglioramento, l'adeguamento antisismico e la messa in
sicurezza degli edifici esistenti. Il beneficio si applica
non solo agli immobili ricadenti nelle zone sismiche ad alta
pericolosità, ovvero nelle zone 1 e 2, di cui all'ordinanza
del presidente del consiglio dei ministri del 20.03.2003
n. 3274, ma anche agli edifici situati nella zona sismica 3
(in cui possono verificarsi forti terremoti ma rari) di cui
alla medesima ordinanza.
Qualora dalla realizzazione degli interventi relativi
all'adozione di misure antisismiche derivi una riduzione del
rischio sismico che determini il passaggio a una classe di
rischio inferiore, la detrazione di imposta spetta nella
misura del 70% della spesa sostenuta. Nel caso in cui
dall'intervento derivi il passaggio a due classi di rischio
inferiori, la detrazione spetta nella misura dell'80%.
Qualora gli interventi relativi all'adozione di misure
antisismiche siano realizzati sulle parti comuni di edifici
condominiali, le detrazioni di imposta spettano,
rispettivamente, nella misura del 75% (passaggio di una
classe di rischio inferiore) e dell'85% (passaggio di due
classi). Le detrazioni si applicano su un ammontare delle
spese non superiore a 96 mila euro moltiplicato per il
numero delle unità immobiliari di ciascun edificio.
Anche
per tali interventi, a decorrere al 01.01.2017, in
luogo della detrazione i soggetti beneficiari possono optare
per la cessione del corrispondente credito ai fornitori. Tra
le spese detraibili per la realizzazione degli interventi
relativi all'adozione di misure antisismiche, a decorrere
dal 01.01.2017, rientrano anche le spese effettuate per
la classificazione e verifica sismica degli immobili.
Le nuove detrazioni previste per le misure antisismiche
degli edifici non sono cumulabili con agevolazioni già
spettanti per le medesime finalità sulla base di norme
speciali per interventi in aree colpite da eventi sismici.
Le linee guida per la classificazione di rischio sismico
delle costruzioni, nonché le modalità per la attestazione,
da parte di professionisti abilitati, della efficacia degli
interventi effettuati devono essere individuati con decreto
del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, da
adottarsi entro il 28.02.2017, sentito il consiglio
superiore dei lavori pubblici.
Si ricorda che la detrazione fiscale per gli interventi di
recupero del patrimonio edilizio è stata introdotta
dall'articolo 1, commi 5 e 6, della legge 27.12.1997,
n. 449, successivamente modificata e prorogata e, infine,
resa stabile dal dl n. 201/2011 (art. 4, comma 1, lett. c)
che ha inserito nel Tuir l'articolo 16-bis.
Per le spese sostenute dal 26.06.2012 fino al 30.06.2013, l'art. 11, comma 1, del dl n. 83/2012 ha aumentato la
misura della detrazione dal 36% al 50% e ha innalzato il
limite di spesa massima agevolabile da 48 mila a 96 mila
euro per unità immobiliare.
Questi maggiori benefici sono poi stati successivamente
prorogati di anno in anno. Sembra interessante sottolineare
che l'Agenzia delle entrate, nella risoluzione n. 64/E/2016,
ha chiarito che il convivente more uxorio che sostiene le
spese di recupero del patrimonio edilizio, nel rispetto
delle condizioni previste dal richiamato articolo 16-bis,
può fruire della detrazione alla stregua di quanto previsto
per i familiari conviventi.
Bonus mobili. La proroga è di un anno, fino al 31.12.2017 della detrazione al 50% per le spese relative
all'acquisto di mobili. Tuttavia, in seguito alle
restrizioni poste dalla manovra, il limite di 10 mila euro
per l'acquisto di mobili ed elettrodomestici è considerato
per gli interventi iniziati nel 2016 al netto delle spese
per le quali si è già fruito della detrazione. Non è stata
invece prorogato il bonus mobili giovani coppie.
A tale
proposito si ricorda che la legge di Stabilità 2016 aveva
previsto un'ulteriore ipotesi di detrazione fiscale per
l'acquisto esclusivamente di mobili da adibire ad arredo
dell'abitazione principale acquistata da giovani coppie,
anche di fatto. La misura della detrazione era del 50%, da
ripartire tra gli aventi diritto in dieci quote annuali di
pari importo, per le spese sostenute nel 2016, ma il limite
di spesa è aumentato a 16 mila euro.
Riguardo al bonus mobili prorogato, per gli interventi
effettuati nel 2016 ovvero per quelli iniziati nel medesimo
anno e proseguiti nel 2017, l'ammontare complessivo massimo
di 10 mila euro deve essere calcolato al netto delle spese
sostenute nell'anno 2016 per le quali si è fruito della
detrazione.
Si ricorda che per usufruire del bonus è indispensabile
realizzare una ristrutturazione edilizia e usufruire della
relativa detrazione. La norma, infatti, riconosce ai
contribuenti che usufruiscono della detrazione per gli
interventi di ristrutturazione edilizia una detrazione del
50% per le ulteriori spese, fino a un ammontare massimo di
10 mila euro, documentate e sostenute per l'acquisto dei
seguenti prodotti finalizzati all'arredo dell'immobile
oggetto di ristrutturazione: mobili; grandi elettrodomestici
di classe non inferiore alla A+; forni di classe non
inferiore ad A.
Le spese per l'acquisto di mobili sono calcolate
indipendentemente da quelle sostenute per i lavori di
ristrutturazione. In altri termini, le spese per l'acquisto
di mobili possono anche essere più elevate di quelle per i
lavori di ristrutturazione, fermo restando il tetto dei 10
mila euro
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L'accesso
alle società è limitato. Stop a informazioni strategiche o
rilevanti per i mercati.
Lo studio di Assonime sulla trasparenza amministrativa negli
enti pubblici e quotate.
Trasparenza amministrativa fuori dalle società pubbliche e
dalle società quotate.
L'accesso civico è da escludere, nel caso delle società, se
riguarda informazioni di rilievo concorrenziale; e nel caso
delle società quotate è da escludere, perché la diffusione
di notizie potrebbe turbare i mercati.
È quanto sostenuto da Assonime con lo
studio
02.12.2016 n. 19/2016, nel
quale l'associazione dice la sua su limiti ed esclusioni
dell'istituto introdotto dal dlgs. 97/2016 all'articolo 5,
comma 2, del dlgs 33/2013.
Il Freedom of information act (Foia) all'italiana si ferma
davanti alla porta delle compagini: l'accesso civico
generalizzato, per l'associazione tra le spa italiane,
rischia di essere il grimaldello per consentire alle imprese
concorrenti di venire a conoscenza di notizie aziendali; o
peggio si rischia di alterare i mercati finanziari.
Trasparenza senza limiti.
L'accesso civico è una forma di trasparenza, che, stando
alla lettera della legge, dovrebbe essere senza limiti: non
ci sono restrizioni quanto alla titolarità del diritto
(assegnata a «chiunque») e neppure quanto all'uso
(consentito senza dover specificare una motivazione).
Ma tutta questa trasparenza, giustificata dal fatto che si
tratta pur sempre di soldi pubblici, può avere spazio
d'azione quando si parla di società, anche se partecipate
pubbliche? Ci si chiede se l'assoggettamento a forme
amplissime di trasparenza non esponga le società a deficit
concorrenziale: sarebbero costrette, ad esempio, a rivelare
il proprio know-how con possibile perdita di forza
commerciale. Inoltre la preoccupazione è che la diffusione
di notizie delle società possa pregiudicare la valutazione
delle società quotate.
Questi gli scenari descritti dall'Assonime, che propone
alcuni correttivi.
Partecipate pubbliche. La base di partenza è l'articolo
2-bis del dlgs 33, in base al quale la disciplina sulla
trasparenza si applica, in quanto compatibile, anche alle
imprese: per le società in controllo pubblico la disciplina
si applica in via generale; per le società partecipate,
limitatamente ai dati e documenti inerenti all'attività di
pubblico interesse.
Eppure, nota Assonime, le imprese sono diverse dalle
pubbliche amministrazioni, e devono muoversi sui mercati, in
concorrenza, effettiva non potenziale, con altre imprese.
Se le informazioni relative a questi aspetti fossero
liberamente accessibili ai concorrenti, le imprese a
partecipazione pubblica verranno a trovarsi in una
situazione di artificioso e ingiustificato svantaggio
concorrenziale rispetto ai concorrenti del settore privato e
alle imprese a partecipazione pubblica di altri stati.
Il soggetto che chiede l'accesso civico potrebbe agire per
conto di un concorrente, attuale o potenziale, nazionale o
estero, dell'impresa o può comunque trasmettere
successivamente le informazioni ottenute a un'impresa
concorrente, pregiudicando la competitività e il valore
dell'impresa partecipata.
L'accesso civico, denuncia la circolare in commento,
potrebbe anche essere facilmente utilizzato come strumento
per realizzare uno scambio di informazioni tra concorrenti,
e, quindi, eventuali intese collusive e cartelli in
violazione delle norme antitrust.
La proposta di Assonime è di interpretare le norme nel senso
che l'accesso civico generalizzato non sia compatibile per
tutti i dati e le informazioni che possono avere rilievo sul
piano concorrenziale.
L'impresa dovrebbe, quindi, poter legittimamente rifiutare
la richiesta di accesso civico ai dati e alle informazioni
laddove questi siano «rilevanti sotto il profilo
concorrenziale».
Società quotate.
Secondo una impostazione alle società quotate a controllo
pubblico o a partecipazione pubblica non di controllo, si
applicherebbe la disciplina dell'accesso civico, anche se
limitatamente alle attività di pubblico interesse.
La circolare in esame evidenzia un disallineamento con
l'articolo 22 del Testo unico sulle partecipate pubbliche
(decreto legislativo n. 175/2016), che assicura il massimo
livello di trasparenza, ma senza riferimento espresso alle
società quotate. Da ciò Assonime fa discendere che alle
società quotate, come definite dal Testo unico, non si
applica la disciplina della trasparenza prevista per le
pubbliche amministrazioni dal decreto legislativo n.
33/2013.
D'altra parte un regime di trasparenza applicato alle
società quotate è problematico, non solo per i profili
concorrenziali.
La nota ipotizza esemplificativamente il caso in cui un
soggetto diffondesse su internet una notizia relativa a una
società quotata sostenendo di averla ottenuta tramite
l'accesso civico.
Assonime pronostica rischi di diffusione di notizie
improprie o non veritiere, che richiederebbero l'intervento
della Consob a tutela degli azionisti e del corretto
funzionamento dei mercati.
La conclusione della Associazione è che la particolare
delicatezza delle informazioni relativa alle società quotate
comporti l'esclusione dell'accesso civico generalizzato
previsto dall'articolo 5, comma 2, del dlgs 33/2013
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2016). |
APPALTI: Precontenzioso,
vigila l'Anac. Pareri e raccomandazioni per ridurre le
controversie. Dal nuovo codice degli
appalti nuovi poteri nella risoluzione delle controversie
all'Autorità.
Nuovi poteri di precontezioso all'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac). Così il nuovo codice degli appalti e
delle concessioni (dlgs 18.04.2016 n. 50), che ha
conferito all'Anac numerosi poteri di vigilanza e di
controllo (art. 213 del codice).
Tra tali poteri si
annoverano quelli c.d. di precontezioso, che sono
puntualmente disciplinati dall'art. 211. Essi trovano
fondamento nella legge delega del codice (l. 28.01.2016
n. 11) e in particolare nell'art. 1, comma 1, lett. t) e aaa),
che prevedono espressamente la «razionalizzazione dei metodi
di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio
giurisdizionale, anche in materia di esecuzione del
contratto»).
Gli strumenti introdotti dall'art. 211 sono due: il parere
di precontenzioso, cui si riferisce la rubrica della norma,
e la raccomandazione.
Entrambi –e questo è un elemento di distinzione rispetto a
tradizionali istituti deflattivi del contenzioso in materia
di appalti pubblici (accordo bonario, arbitrato,
transazione)– sono destinati a intervenire non tanto nella
fase di esecuzione del contratto, ma nella fase antecedente
dell' evidenza pubblica. Investono dunque tutte le
controversie insorte nel corso della procedura di gara.
Quanto al primo strumento, il parere di precontenzioso, il
suo ambito applicativo è espressamente circoscritto alla
risoluzione di «questioni insorte» durante la gara. In
questo caso, l'Anac si attiva su iniziativa della stazione
appaltante o di una o più parti che hanno partecipato alla
procedura e decide entro un termine breve di trenta giorni.
Il parere è vincolante se le parti hanno previamente
acconsentito ad autovincolarsi. Contro il parere vincolante
è possibile proporre ricorso al Tar ai sensi dell'art. 120
c.p. Il procedimento di precontenzioso, nonché le modalità
di presentazione dell'istanza, sono state recentemente
disciplinate con il regolamento Anac del 05.10.2016,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19.10.2016.
Due breve considerazioni.
La prima riguarda l'efficacia vincolante del parere. Come si
è indicato, il parere vincola le parti solo se esse hanno
previamente deciso di conferire al parere tale efficacia,
che per legge non ha. Mancando una siffatta volontà, il
rischio è che l'intervento dell'Anac, da strumento di
risoluzione alternativa delle controversie, si trasformi in
un aggravio procedimentale, posto che la stazione
appaltante, non essendosi vincolata al parere, non è
obbligata a conformarsi a esso, ma può definire la
controversia in termini diversi, perfino contrari, da quanto
deciso dall'Autorità.
Ma vi è di più. Problemi ulteriori potrebbero sorgere ove
solo una delle parti, per esempio la stazione appaltante,
abbia deciso di ricorrere al parere dell'Anac, vincolandosi
a esso. Non così le altre parti, per esempio uno o più
concorrenti, che invece potrebbero aver preferito di
ricorrere direttamente al giudice amministrativo. In tale
situazione, si può creare il pericolo di un contrasto tra la
decisione dell'Autorità e quella giurisdizionale. A oggi, il
regolamento adottato dall'Anac sembra porre un rimedio a
tale evenienza, prevedendo l'inammissibilità o la
sopravvenuta improcedibilità dell'istanza di parere nel caso
di proposizione di ricorso giurisdizionale (art. 6 reg.).
La seconda considerazione riguarda l'immediata impugnabilità
del parere. Come correttamente riconosciuto dal consiglio di
stato in sede di parere sullo schema del codice, la facoltà
di impugnare la decisione dell'Autorità costituisce
corollario dei precetti costituzionali e in particolare
dell'indisponibilità delle posizione giuridiche soggettive,
incise dal parere. Il dubbio che però si pone è se la
previsione della strada giurisdizionale non contraddica
quelle finalità di deflazione del contenzioso, auspicate
dalla legge delega. L'impugnazione del parere dell'Anac
invero determina un'estensione del contenzioso originario,
sorto in sede di gara, a provvedimenti e parti ulteriori.
Il secondo strumento previsto dall'art. 211 è la
raccomandazione, che è ricondotta tra le forme di «controllo
collaborativo». In tal caso, l'Autorità invita, d'ufficio,
mediante atto di raccomandazione vincolante la stazione
appaltante ad agire in autotutela e a rimuovere gli atti
illegittimi frattanto adottati, entro un termine non
superiore a sessanta giorni. Il mancato adeguamento della
stazione appaltante alla raccomandazione entro il termine
fissato è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria
entro il limite minimo di 250 euro e il limite massimo di 25
mila euro posta a carico del dirigente responsabile. La
sanzione incide altresì sul sistema reputazionale delle
stazioni appaltanti.
Quanto alla natura di questo potere, la raccomandazione, più
che un vero e proprio invito all'Amministrazione, sembra
assumere le vesti di un ordine. L'infruttuosa scadenza del
termine assegnato dall'Autorità comporta l'applicazione
della sanzione amministrativa, salva la possibilità di
ricorrere al giudice amministrativo. Non è un caso che In
sede di parere sullo schema del codice, il consiglio di
stato abbia segnalato il possibile contrasto di un tal
sistema con il principio di presunzione di legittimità degli
atti amministrativi.
Quanto all'ambito di applicazione delle norma. Esso in
realtà non è definito. Tramite le raccomandazioni l'Anac può
intervenire in procedure di gara ancora in corso o già
concluse. L'intervento dell'Autorità non è precluso nemmeno
se è in corso di esecuzione il contratto. La norma invero
richiede solo che il vizio di legittimità riguardi atti
della procura di gara, a prescindere dallo stato di
avanzamento della procedura medesima.
Non è nemmeno definito l'ambito temporale dell'intervento.
Nessun termine è posto dalla norma all'esercizio del potere
di raccomandazione. Unico limite applicabile appare quello
dell'affidamento incolpevole delle parti.
In definitiva, il potere di raccomandazione di cui al
secondo comma dell'art. 211 sembra avere una latitudine ben
più ampia del potere precontenzioso previsto dal primo
comma. Consente all'Anac di intervenire in una procedura di
gara laddove il suo intervento non sia stato chiesto o
voluto dalle parti. In poche parole, la previsione di cui al
secondo comma assicura che l'esercizio delle funzioni di
controllo dell'Autorità non sia in qualche modo subordinato
al «volere» delle parti
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia e commercio, semplificazioni al via. Riforma della Pa.
In vigore da oggi le novità introdotte dal decreto legislativo «Scia 2».
«Scia 2» ai nastri di partenza. Formalmente da oggi
entrano in vigore le procedure semplificate in edilizia, ambiente e per
l’avvio di un’attività economica previste dal Dlgs 222/2016: uno dei decreti
attuativi della legge Madia di riforma della Pa sopravvissuti alla tagliola
della Corte costituzionale.
Un decreto “accompagnato” da un elenco (la «tabella A») che dettaglia tutte
le attività soggette ad assenso pubblico in materia di: commercio (su aree
private, su aree pubbliche, alimenti e bevande, strutture ricettive,
eccetera), edilizia privata (dalle manutenzioni ai grandi interventi),
ambiente (Via, Aia, rifiuti, dighe). In pratica è un vademecum (lungo 142
pagine) che indica, per ogni attività, se è libera, se serve una
comunicazione, una Scia, un provvedimento espresso e se scatta il
silenzio-assenso. Ma vediamo nel dettaglio.
Capitolo edilizia. Il decreto legislativo interviene sul Testo unico (Dpr
380/2001), riducendo i regimi abilitativi edilizi che con il tempo erano
saliti a sette. Adesso, invece, si torna a cinque. Per l’esattezza si tratta
di: attività di edilizia libera (che non necessita di permessi), Cila
(comunicazione di inizio lavori asseverata), Scia (segnalazione certificata
di inizio attività), permesso di costruire, permesso in alternativa alla
Scia.
Si allarga il perimetro degli interventi che possono essere fatti in
«edilizia libera» senza alcuna forma di comunicazione. Vi rientreranno,
infatti, le opere di pavimentazione e finitura degli spazi esterni (anche
per aree di sosta), l’installazione di pannelli solari e fotovoltaici a
servizio degli edifici (fuori dalle zone A, i centri storici), la
realizzazione di aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo
della aree pertinenziali.
Anche sul fronte delle attività economiche sono diverse le novità
economiche. Particolare rilievo assume la distinzione tra bar e pizzerie in
zone tutelate, nelle quali scatta il silenzio-assenso più la Scia ma non
serve l'autorizzazione. Nelle zone non tutelate è sufficiente la Scia unica.
Inoltre con l’entrata in vigore del Dlgs 222/2016 diventerà possibile
avviare una media struttura di vendita solo con il silenzio-assenso entro 90
giorni , mentre fino ad oggi era necessaria un’autorizzazione preventiva in
alcune aree.
Semplificazioni anche sul versante ambientale, dove una decina di situazioni
sottoposte a permessi diventano soggette a comunicazioni. Tra le altre, ci
sono lo smaltimento degli scarti alimentari trattati con dissipatore a
livello domestico e la valutazione previsionale del clima acustico per asili
nido, scuole, ospedali, case di cura e riposo, parchi e abitazioni vicine ad
autostrade.
La partita continuerà a giocarsi anche in ambito locale. Regioni e comuni,
infatti, avranno tempo fino al 30 giugno 2017 per attuare il decreto
legislativo sulla «Scia 2» (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.12.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scia
in facsimile in tutta Italia. Modello unico per avviare
subito lavori e attività d'impresa.
L'Anci ha predisposto formulario e ricevuta tipo validi in
tutto il paese dal 1° gennaio.
Dal 01.01.2017 arriva il modello unico per la
Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) valido in
tutta Italia, contenente la possibilità del privato di
indicare l'eventuale domicilio digitale per le comunicazioni
con l'amministrazione interessata.
In sostanza, la Scia unica per l'avvio di attività d'impresa
o per lavori in edilizia, diventa una semplice
comunicazione, da accogliere da parte della p.a. in modo
automatico, purché non servano autorizzazioni espresse.
L'eventuale richiesta di documenti aggiuntivi, viene
considerata infatti inadempienza sanzionata dal punto di
vista disciplinare.
È con il dlgs 30.06.2016 n. 126, che è stato riformato
l'istituto della Scia (segnalazione certificata di inizio
attività), attuando, quanto previsto dalla legge delega per
la riforma della p.a. (legge n. 124 del 2015).
L'Anci ha
predisposto dei modelli unificati e standardizzati (facsimile: modello scia unica e
ricevuta presentazione istanza), che definiscono
esaustivamente, per tipologia di procedimento, i contenuti
tipici e la relativa organizzazione dei dati delle istanze,
delle segnalazioni e delle comunicazioni.
Da tale data, alla presentazione del modello unico Scia deve
essere rilasciata immediatamente, anche in via telematica,
una ricevuta che ne attesta l'avvenuta presentazione e
indica i termini entro i quali l'amministrazione è tenuta a
rispondere o entro i quali il silenzio equivale ad
accoglimento dell'istanza.
In caso di Scia unica, la possibilità di iniziare subito
l'attività è circoscritta ai casi in cui non sono necessarie
autorizzazioni o titoli espressi. Il provvedimento di
sospensione dell'attività è limitato ai soli casi di
attestazioni non veritiere o di coinvolgimento di interessi
sensibili (per esempio, ambiente e paesaggi) .
Come presentare il modello unificato Scia.
In caso di
interventi che richiedono una Scia, il cittadino deve
presentare allo sportello unico telematico esclusivamente i
documenti contenuti nel modello unificato. L'ente che ha ricevuto la Scia la
trasmetterà immediatamente alle altre amministrazioni
interessate per consentire loro, per quanto di competenza,
il controllo sulla sussistenza dei requisiti e dei
presupposti per l'esercizio dell'attività medesima.
L'ufficio ricevente, fino a cinque giorni prima della
scadenza del termine di 60 giorni dalla ricezione della
segnalazione (30 giorni per la Scia edilizia), nel caso
accerti una carenza di requisiti, presenta
all'amministrazione che ha ricevuto la Scia, eventuali
proposte motivate per l'adozione di provvedimenti inibitori,
repressivi o sospensivi.
Questo iter riguarda, le sole attività «liberalizzate»,
ossia le attività per le quali l'amministrazione ha solo il
compito di verificare la sussistenza di requisiti o
presupposti fissati dalle norme.
In questi casi l'attività può essere iniziata dalla data di
presentazione della segnalazione certificata.
I moduli devono essere pubblicati sui siti istituzionali
delle pubbliche amministrazioni destinatarie delle istanze,
segnalazioni o comunicazioni. Laddove non sia possibile la
pubblicazione dei predetti moduli, le pubbliche
amministrazioni pubblicano in loro luogo l'elenco degli
stati, qualità personali e fatti oggetto di dichiarazione
sostitutiva, di certificazione o di atto di notorietà,
nonché delle attestazioni e asseverazioni dei tecnici
abilitati o delle dichiarazioni di conformità dell'agenzia
delle imprese, necessari a corredo della segnalazione,
indicando le norme che ne prevedono la produzione.
Ricevuta di avvenuta presentazione.
Il nuovo art. 18-bis
della legge n. 241/1990 (cosi come modificato dal dlgs 30.06.2016 n. 126) prevede «l'obbligo di comunicare ai
soggetti interessati, all'atto di presentazione di
un'istanza, i termini entro i quali l'amministrazione è
tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio
dell'amministrazione equivale ad accoglimento della
domanda».
Il dettato normativo prevede quindi il rilascio
immediato, anche in forma telematica, di una ricevuta (si
veda modello 2 sul sito di ItaliaOggi) che attesta
l'avvenuta presentazione dell'istanza, della segnalazione e
della comunicazione e indica i termini entro i quali l'ente
è tenuto, ove previsto, a rispondere, ovvero entro i quali
il silenzio della stessa amministrazione equivale ad
accoglimento dell'istanza.
Il termine per la convocazione della conferenza di servizi
(da parte dell'ente procedente) decorre dalla data di
presentazione dell'istanza (di cui alla stessa ricevuta). Le
istanze, segnalazioni o comunicazioni producono effetti
anche in caso di mancato rilascio della ricevuta, ferma
restando la responsabilità del soggetto competente
(articolo ItaliaOggi del 10.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Il
governo riparta dai comuni. Decaro: risorse certe e sblocco
del turnover per il rilancio. Il
presidente Anci chiede al nuovo esecutivo di intervenire
entro fine anno con decreto legge.
Ripartire dagli enti locali. Il nuovo governo dovrà avere
tra le sue priorità il varo in tempi stretti (entro la fine
dell'anno) di un decreto legge che risolva i tanti nodi
lasciati irrisolti dall'approvazione lampo (e senza
modifiche al senato) della Manovra a seguito delle
dimissioni del premier Matteo Renzi.
Nel giorno in cui il capo dello stato, Sergio Mattarella, ha
iniziato le consultazioni al Quirinale per la risoluzione
della crisi di governo, il presidente dell'Anci e sindaco di
Bari, Antonio Decaro, lancia l'allarme: «Senza un
provvedimento di urgenza da approvare entro fine anno i
comuni non riusciranno a chiudere i bilanci e a garantire i
servizi ai cittadini».
Domanda: Presidente, la crisi di governo è stata un fulmine
a ciel sereno per i comuni. Eppure le premesse erano ottime.
Ora?
Risposta. L'imperativo è fare presto per evitare che proprio
il comparto delle autonomie sia la prima vittima sacrificale
della crisi di governo con in testa i sindaci delle città
metropolitane che rischiano di essere dimissionari di fatto.
E dire che la Manovra nel testo approvato alla camera era
stata piuttosto benevola per gli enti locali, prevedendo 700
milioni per gli investimenti, 2,1 miliardi per la
riqualificazione delle periferie degradate, la conferma del
pareggio di bilancio e l'innalzamento al 75% della soglia di
turnover, seppure a determinate condizioni che noi
giudichiamo molto stringenti. Ma il grande nodo da
sciogliere riguardava la ripartizione del «Fondone» da 3
miliardi di euro che sarebbe dovuto servire a sterilizzare i
tagli a città metropolitane (250 milioni) e province (650
milioni), a finanziare il fondo perequativo Imu-Tasi
indispensabile a far quadrare i conti in circa 1.800
municipi, e a chiudere vecchie partite contabili passate
come i rimborsi Ici-Imu e quelli relativi alle spese
giudiziarie anticipate dai comuni.
D. Una coperta che già sembra troppo corta, visto che tra i
pretendenti ci sono anche le regioni.
R. La ripartizione sarebbe dovuta arrivare al senato. Il
varo lampo della Manovra ha lasciato questo fondo
indistinto. Ma proprio l'incertezza sulle risorse impedisce
ai comuni di predisporre i bilanci di previsione con
cognizione di causa. Ecco perché abbiamo chiesto anche la
proroga della deadline per i preventivi dal 28 febbraio al
31.03.2017.
D. C'è poi il tema del turnover che per voi è essenziale. La
legge di bilancio contiene già un primo alleggerimento, ma
voi chiedete l'innalzamento della soglia al 75% senza
paletti. Perché i comuni hanno così tanto bisogno di
assumere?
R. Perché senza risorse umane adeguate nel numero e nelle
competenze si rischia di vanificare anche il rilancio degli
investimenti. I fondi non sono l'unico elemento necessario
al rilancio. Serve personale adeguato e formato. La norma
contenuta nella legge di bilancio è un primo passo, ma ci
sono troppo paletti. In particolare, abbiamo chiesto di
eliminare il vincolo che impone ai sindaci di non lasciare
spazi finanziari inutilizzati superiori all'1% degli
accertamenti delle entrate finali, pena l'impossibilità di
assumere. Ci sembra un vincolo troppo restrittivo. Noi come
Anci vogliamo che la soglia del 75% sia estesa a tutti.
Anche perché, numeri alla mano (si veda ItaliaOggi del
18/11/2016, ndr) abbiamo dimostrato che una tale misura non
incrementerebbe di un centesimo la spesa di personale dei
comuni. Il governo Renzi si era convinto della bontà delle
nostre ragioni, tanto che ormai consideravamo l'innalzamento
del turnover come cosa fatta al senato. Non ci aspettiamo
sorprese dal prossimo esecutivo.
D. C'è poi il capitolo delle gestioni associate nei piccoli
comuni. Il dialogo tra Anci e governo sul progetto di
riforma basato sui bacini omogenei è rimasto in stand by in
attesa di conoscere l'esito del referendum. Il naufragio
della riforma della Costituzione potrebbe travolgere anche
questo disegno?
R. Il governo ha preferito attendere il referendum perché si
tratta di materia concorrente. Se la riforma costituzionale
fosse entrata in vigore le competenze concorrenti sarebbero
state eliminate e della governance degli enti locali si
sarebbe occupato il nuovo senato delle autonomie. Ora tutto
andrà concordato con le regioni che però non credo si
metteranno di traverso al progetto di riordino.
D. Nel frattempo però dal 1° gennaio, se non ci saranno
proroghe, i piccoli comuni saranno obbligati a mettersi
assieme per gestire in forma associata tutte le funzioni
fondamentali. Anche su questo bisognerà intervenire
subito...
R. Per un intervento del genere basterebbe il tradizionale
decreto Milleproroghe. È importante far slittare l'obbligo
di associazionismo in attesa di rivedere nel complesso la
materia
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti,
il congelamento delle assunzioni non è in vigore.
Il congelamento delle assunzioni dei dirigenti pubblici non
può più considerarsi vigente, sul piano sostanziale.
La legge 208/2015, all'articolo 1, comma 219, dispone:
«Nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi
degli articoli 8, 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124,
e dell'attuazione dei commi 422, 423, 424 e 425
dell'articolo 1 della legge 23.12.2014, n. 190, e
successive modificazioni, sono resi indisponibili i posti
dirigenziali di prima e seconda fascia delle amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165».
Come si nota, la disposizione ha sottoposto il blocco delle
assunzioni dei dirigenti a una condizione: l'entrata in
vigore dei decreti legislativi attuativi della riforma
Madia. Che, come è noto, specificamente per il decreto
legislativo attuativo del suo articolo 11, riguardante la
riforma della dirigenza, non entrerà in vigore, in quanto la
delega legislativa è scaduta a seguito della sentenza della
Consulta 251/2017.
Applicando i canoni basici di interpretazione, la condizione
posta dall'articolo 1, comma 219, è da considerare divenuta
impossibile.
Come tale, nel caso di specie, visto che è stata apposta a
una disposizione di legge e non a un contratto, deve essere
considerata come inesistente e, quindi, non più produttiva
di effetti.
Ragionando diversamente, si giungerebbe a una conclusione
paradossale: il blocco delle assunzioni dei dirigenti per un
tempo indeterminabile e lunghissimo, ben superiore a quello
immaginato (imprudentemente) dal legislatore, convinto che
la riforma della dirigenza avrebbe visto la luce entro la
fine del 2016.
Vi sono, quindi, forti argomentazioni per considerare
giuridicamente superata la disposizione. Le quali
argomentazioni dovrebbero superare qualsiasi altra eventuale
interpretazione maggiormente restrittiva proposte dalle
sezioni regionali di controllo della Corte dei conti o da
altri giudici, perché esse, appunto, incontrerebbero
l'insanabile vizio di logicità visto sopra.
Tuttavia, se sul piano giuridico e fattuale lo sblocco delle
assunzioni dei dirigenti va considerato acquisito, di fatto
esso non risulta ancora praticabile. Infatti, detto sblocco
è ulteriormente condizionato da due fattori.
Il primo è la completa ricollocazione dei dirigenti delle
province, che in alcune regioni non è stata ancora portata a
termine. Il secondo, discende dalla circostanza che
attualmente vi sono dirigenti iscritti nelle liste di
disponibilità dei dipendenti pubblici: pertanto,
l'obbligatorio ricorso alla procedura di ricollocazione
prevista dall'articolo 34-bis del dlgs 165/2001 comunque
impedirebbe, fino a che la lista non si svuoti, di
effettuare le assunzioni.
Diversa, invece, la situazione del blocco dei fondi
contrattuali decentrati. In questo caso è il comma 236
dell'articolo 1 della legge 208/2015 a imporre alle risorse
decentrate il tetto del 2015 e l'obbligo di una riduzione
proporzionata al costo delle cessazioni.
Questo comma si aggancia non tanto alla riforma della
dirigenza, quanto a quella più generale della pubblica
amministrazione, oggetto dell'articolo 17 della legge Madia:
in teoria vi sarebbe ancora tempo per adottare il decreto
attuativo di tale articolo, finalizzato a rivedere la
riforma Brunetta e, anche, a riscrivere le regole sui fondi
decentrati.
Certo, il rischio fortissimo è che anche in questo caso la
delega scada senza che il decreto veda mai la luce, dati gli
esiti referendari. Ma, fino a che la delega non sia scaduta
ed in assenza di norme correttive, l'efficacia del comma 236
non può considerarsi esaurita
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Opere,
regole per programmare. Possibile rivedere i progetti se
cambia l'esigenza del mercato. Linee
guida del Mit per la valutazione degli investimenti relativi
alle infrastrutture pubbliche.
Valutazione ex ante delle priorità infrastrutturali con il
Piano generale dei trasporti e della logistica;
programmazione e selezione delle opere con il Documento
pluriennale di pianificazione (semplificato per il 2017);
possibile la project review se cambiano le esigenze del
mercato.
Sono questi gli obiettivi che sarà possibile raggiungere a
seguito dell'approvazione delle «linee guida per la
valutazione degli investimenti in opere pubbliche»
predisposte dal ministero delle infrastrutture e dei
trasporti in base a quanto previsto dal decreto 228/2011 e
approvate il 1° dicembre dal Cipe.
Si tratta di un documento essenziale per l'avvio della nuova
programmazione delineata nel codice dei contratti pubblici
(decreto 50/2016) che si basa sul piano generale dei
trasporti e della logistica (Pgtl) e sul documento
pluriennale di pianificazione (Dpp) e che dovrebbe evitare
fenomeni negativi come quelli registrati con le opere della
legge Obiettivo (778 varianti concesse su 206 opere
strategiche individuate nel 2001).
Con le linee guida vengono fornite indicazioni operative sia
per le valutazioni sui fabbisogni di infrastrutture e
servizi e di singole opere, sia per le valutazioni
successive alla realizzazione degli interventi.
Va considerato che il processo di pianificazione
infrastrutturale parte dalla definizione di obiettivi e
strategie che delineano una visione di medio-lungo periodo
(2030) del sistema della mobilità e della logistica in
Italia, e quindi un quadro unitario nazionale condiviso in
base al quale definire i fabbisogni di infrastrutture
attraverso strumenti quantitativi di valutazione per la
previsione della domanda di mobilità e del livello di
utilizzo delle infrastrutture.
La programmazione e la selezione delle opere avverranno nel
rispetto dei vincoli di spesa e in coerenza con obiettivi e
strategie.
Il piano generale dei trasporti e della logistica sarà il
documento di pianificazione nazionale, redatto con metodo
partecipativo e adottato dal governo. I soggetti proponenti
(regioni, città metropolitane, aziende vigilate,
concessionari, promotori di project finance, e altro)
dovranno sottoporre al ministero delle infrastrutture le
proposte progettuali destinate al finanziamento pubblico,
previa valutazione ex ante. Per ciascuna opera sarà redatto,
a cura del proponente, un progetto di fattibilità secondo le
modalità definite nel decreto attuativo del nuovo codice
appalti sui livelli di progettazione (su proposta del
Consiglio superiore, dovrà essere emanato dal dicastero di
Porta Pia), e valutato secondo le linee guida approvate dal
Cipe.
Le linee guida riguardano le infrastrutture di trasporto,
ambientali e le risorse idriche, il settore energetico, le
opere e le infrastrutture sociali e prevedono un processo
semplificato di valutazione per la redazione del primo
Documento pluriennale di pianificazione (Dpp) che dovrebbe
essere varato entro un anno dall'entrata in vigore del
decreto 50/2016 (cioè entro il 18.04.2016).
Nelle linee guida sono previsti anche gli indicatori minimi
per la selezione delle opere e dei progetti di fattibilità
da ammettere a finanziamento nel triennio 2018-2020
riguardanti le infrastrutture da ricomprendere nel Pglt e
nel Dpp.
Il ministero, verificata la coerenza della valutazione ex
ante con modalità e criteri delle linee guida, applicherà i
criteri di selezione ai progetti di fattibilità. Il Dpp
includerà una selezione di opere e progetti di fattibilità
da finanziare nel triennio successivo, nonché le risorse per
la realizzazione di opere (fondo opere) e per la
progettazione di fattibilità (fondo progetti)
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: LEGGE
DI BILANCIO/ Aumentano ancora i premi per le fusioni di
comuni.
Aumentano ancora i premi per le fusioni di comuni. La
manovra, infatti, dovrebbe portare dal 40% al 50% il
contributo decennale parametrato ai trasferimenti storici
del 2010, oltre a introdurre una corsia preferenziale per
l'accesso agli sconti sul pareggio di bilancio.
Gli incentivi statali alle fusioni sono stati decisamente
rafforzati negli ultimi anni, fino a diventare un fattore in
grado di spiegare la maggiore appetibilità di tale istituto
rispetto ad altre modalità di riorganizzazione (come le
unioni e le convenzioni): non a caso, il numero dei municipi
italiani è sceso sotto «soglia 8.000», attestandosi a 7.998.
In base all'art. 20 del dl n. 16/2012, agli enti risultanti
dalla fusione viene riconosciuto, per un periodo di dieci
anni, un contributo straordinario annuale pari ad una
percentuale dei trasferimenti erariali attribuiti agli enti
preesistenti per l'anno 2010 (quindi prima della stagione
dei tagli). Fino al 2016, il coefficiente è fissato al 40%
(era al 20% fino al 2015), ma dal prossimo anno verrà
portato al 50% dal comma 447 della manovra votata alla
camera.
Tale contributo viene erogato entro il limite degli
stanziamenti finanziari previsti nel bilancio statale e in
misura non superiore, per ciascuna fusione, a 2 milioni di
euro (limite, quest'ultimo, introdotto dal dl 90/2014 ed
anch'esso incrementato negli anni passati).
L'ampliamento
del numero di enti facenti parte di un comune costituito
mediante fusione comporta la rideterminazione del contributo
straordinario originariamente attribuito. Non è più
prevista, invece, l'ulteriore premialità prevista dall'art.
31, comma 23, della l. 183/2011, che concedeva ai comuni fusi
un'esenzione (sia pure temporanea) dal Patto di stabilità
interno. Fino al 2014, era previsto che i relativi vincoli
iniziassero ad applicarsi al nuovo ente a partire dal terzo
anno successivo al perfezionamento della procedura, ma la
legge di Stabilità 2015 (l. 190/2014) aveva allungato tale
periodo fino al quinto anno successivo.
Il superamento del
Patto e l'introduzione del pareggio di bilancio ha travolto
tale disciplina, ma anche qui non mancano le misure
compensative. Già la legge 208/2015, al comma 729, ha
assegnato ai comuni istituiti per fusione a partire
dall'anno 2011 la priorità nell'assegnazione degli spazi
finanziari regionali. In senso analogo, si muove anche il
ddl bilancio 2017, il cui comma 492 mette in pole position
per l'assegnazione dei 700 milioni di spazi finanziari in
deroga al pareggio di bilancio per il triennio 2017-2019: i
comuni istituiti mediante fusione nel quinquennio precedente
all'anno di riferimento, a condizione che i processi si
siano conclusi entro il 1° gennaio di ciascun esercizio.
Occorre anche richiamare il comma 229 della l. 208/2015,
che, a decorrere dall'anno 2016, consente ai comuni fusi di
procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato
nel limite del 100% della spesa relativa al personale di
ruolo cessato dal servizio nell'anno precedente (fermi
restando i vincoli generali sulla spesa di personale).
Incentivi alle fusioni, infine, sono previsti anche a
livello regionale, perlopiù sotto forma di contributi
finanziari
(articolo ItaliaOggi dell'08.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Riscaldamenti
senza la bussola. Manca la norma tecnica che calcola le
spese condominiali. Il 31/12 scade
il termine entro cui installare le valvole termostatiche.
Anaci chiede la proroga.
A ridosso dell'obbligo (entro il 31.12.2016)
dell'installazione dei sistemi di contabilizzazione e
termoregolazione dei consumi individuali per il
riscaldamento e l'acqua calda sanitaria nei condomini con
impianto centralizzato si è ancora in attesa
dell'aggiornamento della norma Uni 10200:2015, indicata dal
dlgs 102/2014 come criterio per la ripartizione delle spese
tra condomini.
Tra i nodi da risolvere: il calcolo della
percentuale da assegnare alla quota fissa per i consumi
involontari e lo stato dell'edificio da considerare. Queste
alcune delle criticità segnalate dalle associazioni di
settore allo Sviluppo economico a cui dovrà fornire risposte
in vista della scadenza sui sistemi di contabilizzazione
calore (si veda ItaliaOggi Sette in edicola fino a venerdì).
La scadenza.
Dal 01.01.2017 la divisione delle spese per il riscaldamento
tra i condomini non avverrà più con il metodo tradizionale
delle tabelle dei millesimali di proprietà ma dipenderà solo
dall'effettivo consumo richiesto. Le spese del riscaldamento
saranno suddivise in consumi volontari (misurati dai
contabilizzatori) ed in consumi involontari. Ma ieri
l'Associazione nazionale amministratori di condominio (Anaci)
ha chiesto una proroga.
La Norma Uni 10200:2015.
La versione in vigore della norma Uni 10200:2015 è stata
sottoposta a un processo di revisione per mezzo di una
consultazione pubblica il cui termine è scaduto il 13 giugno
2016. L'articolo 16 comma 8 del dlgs n. 102/2014 prevede una
sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro per il
condominio che non ripartisce le spese in conformità a tale
norma Uni.
Pertanto quando sarà approvata la nuova norma Uni
10200 2016, i condomini dovranno dotarsi di una relazione,
redatta a cura di un tecnico abilitato, la quale accerti che
i criteri adottati per la ripartizione della spesa siano
conformi alla norma tecnica in vigore.
Ripartizione spese.
L'obbligo della contabilizzazione del calore, finalizzato ad
incentivare la razionalizzazione dei consumi, non è stato
accolto con molto favore da tutti i proprietari e affittuari
di immobili, che hanno dovuto sostenere delle spese, a volte
anche consistenti, al fine di conformarsi alle prescrizioni
di legge. Uno dei problemi però è stato, sin dall'inizio, la
ripartizione delle spese, da quando il dlgs n. 102/2014 ha
previsto, nel calcolare la quota di competenza spettante a
ciascun condomino, l'utilizzo della norma Uni 10200.
Quest'ultima però, nella sua edizione aggiornata al 2015,
non esamina fattispecie particolari, come ad esempio quella
dei condomini composti in maggioranza da seconde case, per
cui la metodologia generale non risulta adeguata.
Va dunque trovata un'adeguata soluzione al problema, così da
suddividere i costi equamente in tutte le tipologie di casi.
Il comitato termotecnico italiano già dall'anno scorso aveva
provveduto ad avviare i lavori di revisione della Uni 10200,
preparando la bozza di un nuovo testo (E0208F600) dal titolo
«Impianti termici centralizzati di climatizzazione
invernale, estiva e produzione di acqua calda sanitaria -
criteri di ripartizione delle spese di climatizzazione
invernale, estiva e produzione di acqua calda sanitaria»
(articolo ItaliaOggi dell'08.12.2016). |
ENTI LOCALI: Tanti
piccoli aiuti agli enti locali. Ma restano aperti i grandi
nodi: turnover e tagli alle città.
Tutte le novità del ddl. L'Anci chiede un decreto legge per
risolvere i temi lasciati in sospeso.
Rinvio al prossimo 31 dicembre del termine per la
presentazione della nota di aggiornamento del Dup 2017-2019.
Programmazione degli acquisti obbligatoria solo dal 2018.
Nuovi paletti per l'utilizzo degli oneri di urbanizzazione.
Estensione di un anno della facoltà di utilizzare senza
vincoli i proventi della rinegoziazione dei prestiti.
Conferma anche per il prossimo anno dell'innalzamento del
tetto per le anticipazioni di tesoreria. Ridefinizione delle
priorità per l'assegnazione delle deroghe al pareggio di
bilancio. Incremento degli incentivi a favore delle fusioni.
Nuovi aiuti alle amministrazioni alle prese con difficoltà
finanziarie.
Sono queste le principali novità per gli enti locali
introdotte dalla camera dei deputati al ddl di bilancio 2017
che andrà oggi al voto finale del senato.
Ancora in
stand-by, invece, gli attesi correttivi sul turnover e il
rifinanziamento del fondo Imu-Tasi per i quali l'Anci ha
chiesto ufficialmente ieri un decreto legge ad hoc. Vediamo
tutte le novità.
Nota di aggiornamento del Dup 2017-2019
Il nuovo comma 455 rinvia dal 15 novembre al 31.12.2016 il termine per la presentazione del documento da parte
delle giunte ai consigli. La proroga è un proforma, sia
perché il correttivo entrerà in vigore il 01.01.2017
(quindi, a tempo scaduto), sia perché la scadenza è
pacificamente non perentoria. Confermata, invece, la data
ultima del 28.02.2017 per il varo dei bilanci di
previsione.
Programmazione degli acquisti non
obbligatoria per quest'anno
L'obbligo previsto dal nuovo codice dei contratti pubblici
di approvare (includendolo nel Dup) un programma biennale
per le forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro
scatterà solo dal triennio 2018-2020 (comma 424). Non cambia
nulla per gli enti avevano già provveduto, mentre per gli
altri scatta una sorta di sanatoria.
Oneri meno liberi, ma economie da
rinegoziazione ancora utilizzabili senza vincoli
A decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli
abilitativi edilizi e delle relative sanzioni previste
potranno essere destinati esclusivamente e senza vincoli
temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e
straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei
centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di
riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di
costruzioni abusive, all'acquisizione e alla realizzazione
di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di
tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio,
anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del
rischio idrogeologico e sismico e della tutela e
riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a
interventi volti a favorire l'insediamento di attività di
agricoltura nell'ambito urbano.
Il 2017, quindi, sarà (salvo
ulteriori modifiche) l'ultimo anno in cui tali entrate
potranno essere utilizzati in parte corrente (verrà abrogato
l'art. 2, comma 8, della l 244/2007).
Ancora per il prossimo anno, invece, potranno concorrere
agli equilibri correnti le economie rivenienti dalle
operazioni di rinegoziazione mutui e prestiti obbligazionari
(comma 440).
Anticipazioni di tesoreria ancora a 5/12
Si allunga di altri dodici mesi l'innalzamento da 3/12 a
5/12 del tetto massimo per le anticipazioni di tesoreria
(comma 43).
Pareggio di bilancio e comuni fusi
Cambia l'ordine di priorità per l'assegnazione dei 700
milioni di spazi finanziari in deroga al pareggio di
bilancio per il triennio 2017-2019: il novellato comma 492
mette in pole position, a fianco dei comuni con meno di
1.000 abitanti, quelli istituiti mediante fusione nel
quinquennio precedente all'anno di riferimento, a condizione
che i processi si siano conclusi entro il 1° gennaio di
ciascun esercizio. Per i comuni fusi, inoltre, dal 2017 il
contributo decennale commisurato ai trasferimenti 2010
salirà dal 40 al 50%.
Misure anti default
Il comma 435 consente ai comuni in pre-dissesto di
modificare i piani di riequilibrio approvati prima del riaccertamento straordinario recependo le modalità di
ripiano più favorevoli previste dal dm 02.04.2015.
Ammorbidite anche le condizioni di accesso al fondo
rotativo. Per i comuni dissesto, in deroga alla previsioni
del Tuel, l'amministrazione dei residui attivi e passivi
relativi ai fondi a gestione vincolata compete all'organo
straordinario di liquidazione (comma 457).
Le richieste dell'Anci: proseguire il
dialogo
Dopo i positivi risultati raggiunti alla camera, l'Anci ha
auspicato che il dialogo col governo prosegua, nonostante le
dimissioni annunciate dal premier Matteo Renzi dopo la
sconfitta nel referendum sulle riforme costituzionali. Sul
tappeto restano infatti ancora «importanti questioni
irrisolte».
Il presidente dell'Associazione dei comuni,
Antonio Decaro, ha chiesto all'esecutivo un decreto legge ad
hoc «che contenga la soluzione ai nodi ancora aperti, in
modo che il confronto di merito possa proseguire con
l'esecutivo e con le forze parlamentari». Per Decaro vanno
eliminati i tagli a carico delle Città metropolitane e delle
province, affinché questi enti possano garantire i servizi
essenziali loro affidati.
Va garantito l'innalzamento al 75%
del turnover del personale in tutti i comuni. Sono
necessarie inoltre modifiche fondamentali delle norme
relative al sistema di perequazione per il riparto del Fondo
di solidarietà comunale, insieme al necessario slittamento
al 31 marzo del termine di approvazione dei bilanci».
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Convenzioni, più fondi ai comuni
capofila.
Fondo di solidarietà più ricco per i comuni capofila di
convenzione, ma solo dal 2018. Il disegno di legge di
bilancio 2017 approvato alla camera prevede, infatti, la
rimodulazione dei tagli previsti dalla spending review 2014,
accollandoli in parte agli altri municipi che fanno parte
della stessa gestione associata.
La novità è contenuta nel comma 459, inserito nel corso
dell'esame a Montecitorio. Tale norma modifica l'art. 47 del
dl 66/2014, prevedendo che, a decorrere dall'anno 2018,
qualora la spesa relativa ai codici Siope di cui alla
tabella A sia stata sostenuta da comuni che gestiscono, in
quanto capofila, funzioni e servizi in forma associata per
conto dei comuni facenti parte della stessa gestione
associata, le riduzioni sono applicate a tutti i comuni
compresi nella gestione associata, proporzionalmente alla
quota di spesa a essi riferibile.
Per capire il senso di tale norma, occorre ricordare che il
decreto legge n. 66 ha previsto una riduzione generalizzata
delle spese delle pubbliche amministrazioni per acquisti di
beni e servizi.
Per i comuni, ciò ha comportato l'imposizione di un taglio
sul fondo di solidarietà (a regime, pari a 540 milioni)
ripartito in proporzione alla spesa media sostenuta per
alcuni codici Siope, indicati appunto nella richiamata
tabella A.
Tale meccanismo, attuato dal dm 26.02.2015 (che ha
definito le riduzioni applicabili fino al 2018) è risultato
penalizzante per quei comuni che, in quanto capofila di
convenzione, realizzano acquisti che in parte sono
nell'interesse degli altri enti per conto dei quali
gestiscono determinate funzioni. I capofila, in altri
termini, si trovano «senza colpa» con una spesa e quindi con
un taglio più alti.
Da qui il correttivo, che come detto scatterà solo dal 2018,
perché richiede un ulteriore passaggio procedurale: entro il
prossimo 30 aprile, le regioni dovranno infatti acquisire
dai comuni capofila idonea certificazione della quota di
spesa riferibile ai comuni facenti parte della gestione
associata e trasmetterla al ministero dell'economia e delle
finanze e al ministero dell'interno, che ne terranno conto
in sede di predisposizione del dpcm di riparto del fondo.
In caso di mancata comunicazione da parte della regione, il
riparto non terrà conto della ripartizione proporzionale tra
i comuni convenzionati
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2016). |
PATRIMONIO:
Scuole a prova di fuoco entro il 2016. Il termine
per l’adeguamento al Dm del 1992 scade il 31 dicembre dopo
19 anni di proroghe.
Sicurezza. Esentati dall’obbligo gli edifici con certificato
di prevenzione in corso di validità o con Scia antincendio
già presentata.
Entro il prossimo
31 dicembre gli edifici scolastici e i locali adibiti a
scuole, esistenti alla data del 26.05.2016, dovranno
adeguarsi a una serie di requisiti di sicurezza antincendio,
già previsti dal Dm 26.08.1992. Si tratta di requisiti che
avrebbero dovuto in origine essere osservati entro il 1997,
ma che –di proroga in proroga (per 19 anni)– sono stati
differiti nel tempo.
L’Anci ha evidenziato che, in base ai più recenti dati
dell’Anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica
(dell’agosto 2015), oltre la metà degli edifici non è
adeguata ai requisiti e di conseguenza è probabile che molti
non potranno essere a norma neanche al termine di
quest’anno.
Le regole
La scadenza del 31.12.2016 è stata fissata dal Dm
12.05.2016: decreto che è entrato in vigore il 26 maggio
(giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta) e che
contiene le prescrizioni «per l’attuazione, con scadenze
differenziate, delle vigenti normative in materia di
prevenzione degli incendi per l’edilizia scolastica».
Sono esentati dall’obbligo gli edifici già in possesso del
certificato di prevenzione incendi (in corso di validità) o
dove sia stata presentata la Scia per l’adeguamento (ex Dpr
151/2011). Mentre devono presentare la segnalazione
certificata entro il 31 dicembre gli edifici per cui siano
in corso lavori di adeguamento al Dm del 1992, con progetto
approvato dai vigili del fuoco. Dal gennaio 2017 vi potranno
essere sopralluoghi ispettivi.
Il percorso di attuazione per gli edifici che non sono in
regola sul fronte antincendio è articolato in step, con
misure da raggiungere entro tre e sei mesi a partire dal 26
maggio scorso (quindi con due scadenze: 26 agosto e 26
novembre). Ma che –precisa il decreto– «devono comunque
essere attuate entro il 31.12.2016».
Le fasi
Il primo step riguarda:
- gli impianti elettrici, da rendere conformi ai criteri
della legge 186/1968, e dotare di interruttore generale con
comando di sgancio a distanza;
- i sistemi di allarme, in grado di avvertire in caso di
pericolo;
gli estintori portatili, disposti in modo da averne almeno
uno per ogni 200 metri quadrati di pavimento, con un minimo
di due per piano;
- la segnaletica di sicurezza (norme del Dpr 524/1982);
- le norme di esercizio, relative alla predisposizione del
registro controlli periodici e del piano di emergenza.
Sugli altri adeguamenti da effettuare, si fanno alcune
distinzioni. Sono infatti riportate misure comuni a tutte le
scuole oggetto del decreto, e altre dalle quali sono invece
esclusi gli edifici realizzati prima dell’entrata in vigore
del Dm 18.12.1975 («Norme tecniche relative all’edilizia
scolastica»).
Tra le prime rientrano:
- la separazione dei locali per attività scolastiche
(tramite strutture con determinate caratteristiche) da
quelli adiacenti ma di uso diverso;
- l’utilizzo, nei diversi ambienti, di materiali conformi
alle classificazioni di reazione al fuoco previste dal Dm
26.06.1984;
- le misure per l’evacuazione in caso di emergenza
(affollamento, deflusso, vie di uscita);
- il rispetto delle norme per gli impianti di produzione del
calore e delle norme specifiche per spazi di esercitazione,
di deposito, per l’informazione e le attività
parascolastiche (come l’auditorium), per servizi logistici
(mense, dormitori);
- la dotazione di reti di idranti, di un impianto elettrico
di sicurezza alimentato da una fonte distinta, e di impianti
fissi di rilevazione e/o estinzione incendi.
Gli esoneri
Gli edifici costruiti prima dell’arrivo del Dm del 1975 non
sono invece soggetti ad altri requisiti, previsti per le
restanti strutture. Vale a dire l’osservanza di tutte le
norme di comportamento al fuoco, la suddivisione in
compartimenti e le prescrizioni per scale, ascensori e
montacarichi, e il rispetto delle norme specifiche per tutte
le tipologie di impianti e servizi tecnologici presenti
nell’edificio.
Le regole a cui si intende finalmente dar seguito sono –a
parere degli stessi operatori– indubbiamente “datate”.
E l’elenco delle misure richiamate dal Dm 12.05.2016 non
esaurisce comunque per intero le disposizioni antincendio
contenute nel Dm 1992, visto che questo decreto tocca anche
altri aspetti (ad esempio, le caratteristiche costruttive).
Viene quindi precisato che solo le scuole realizzate «successivamente
alla data di entrata in vigore del decreto del ministro
dell’Interno del 26.08.1992 attuano tutte le misure ivi
previste».
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Per gli asili nido messa a norma divisa
in tre step. L’infanzia. Se ospitano più di 30 persone.
Per gli asili nido
un primo termine è da poco trascorso. Il 7 ottobre scorso
era infatti la data limite per adeguarsi alla regola tecnica
di prevenzione incendi (Dm 16.07.2014): decreto predisposto
dal ministero dell’Interno per minimizzare le cause di
incendio, limitarne la propagazione, garantire stabilità
delle strutture, evacuazione degli occupanti e operazioni di
soccorso sicure.
La scadenza delle disposizioni al 2016 è stata così
differita per effetto dell’articolo 4, comma 2-bis, del Dl
192/2014 (il cosiddetto Milleproroghe convertito in legge
11/2015). L’adeguamento è previsto per gli asili nido con
oltre 30 persone presenti –calcolati tra bambini/neonati e
personale operativo nella struttura– esistenti alla data del
28.08.2014 (entrata in vigore del decreto).
Per gli asili con meno di 30 presenti, il decreto rimanda
infatti a criteri generali di sicurezza antincendio e per la
gestione dell’emergenza nei luoghi di lavoro. L’obbligo di
adeguarsi non è però richiesto nel caso vi siano atti
abilitativi riguardanti anche la sussistenza dei requisiti
antincendio; oppure se siano in corso o siano stati
pianificati lavori di ristrutturazione o ampliamento sulla
base di un progetto approvato dai comandi dei vigili del
fuoco.
La normativa attuale detta in sostanza tre termini per
mettersi in regola, con scadenze il 07.10.2016, 2018 e 2021:
date entro cui dovrà essere quindi presentata la Scia
antincendio (ex articolo 4 del Dpr 151/2011). Il termine del
7 ottobre scorso si riferisce ai requisiti di sicurezza
elencati dal Dm all’articolo 6, comma 1, lettera a). E
dunque riguardanti: strutture di separazione e comunicazioni
tra le parti e gli ambienti degli edifici; resistenza al
fuoco dell’attività; caratteristiche di scale, uscite di
sicurezza e vie di esodo; conformità degli impianti di
sollevamento (ascensori o montacarichi); realizzazione e
installazione di impianti elettrici e illuminazione di
sicurezza; dotazione di estintori e sistemi di allarme;
tipologie di segnaletica di sicurezza; organizzazione e
gestione della sicurezza in caso di incendio.
La successiva scadenza prevista è quella del 07.10.2018,
quando scatterà il momento di adeguarsi ad altri requisiti
elencati nel Dm: reazione al fuoco dei materiali; impianto
idrico antincendio (previsto solo per gli asili con oltre
100 persone presenti); impianti fissi di rivelazione,
segnalazione e allarme. Tra cinque anni (il 07.10.2021) sarà
invece la volta di rispettare anche l’obbligo dei restanti
requisiti. Quelli relativi per esempio a ubicazione delle
strutture; dimensionamento del sistema di esodo, in
considerazione della densità di affollamento; locali adibiti
a depositi o per il lavaggio; impianti di produzione di
calore e confezionamento dei pasti
(articolo
Il Sole 24 Ore del 05.12.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Metà dei condomìni fuorilegge. Entro fine anno
gli impianti di riscaldamento vanno adeguati atte nuove
regole sulla termovegolazione. Il 50% non ce la fava. E non
ci sarà. proroga.
Al primo gennaio del nuovo anno quasi la metà dei condomîni
italiani sarà fuorilegge, e rischierà sanzioni fino a 2.500
euro per ogni appartamento. Il problema è quello di adeguare
gli impianti di riscaldamento alle regole sulla
termoregolazione e contabilizzazione del calore, in pratica
installare nella maggior parte dei casi apposite valvole in
grado di regolare al meglio l'erogazione del calore da ogni
singolo calorifero, evitando così gli sprechi.
Un adempimento con un costo di circa 400/500 euro per ogni
appartamento (meno della sanzione applicabile in caso di
inadempimento), ma che richiede comunque almeno una perizia
(progetto tecnico), due assemblee condominiali e un'attività
di installazione. Ragion per cui, chi non ha già attivato le
procedure non ha ormai più tempo per mettersi in regola
entro fine anno.
Singolare il fatto che anche la metà circa degli edifici
pubblici (scuole, ospedali, municipi ecc.) al momento non è
in regola, e dal 01.01.2017 sarà a rischio di sanzioni.
Nonostante ciò, secondo quanto risulta a ItaliaOggi Sette,
al ministero dello sviluppo economico si esclude la
possibilità di concedere una proroga dei termini per
mettersi in regola. Anche perché l'Italia correrebbe il
rischio di incappare in una ennesima infrazione comunitaria.
Al Mise si sta invece lavorando per preparare un documento,
probabilmente una circolare, con il quale rispondere ai
numerosi quesiti sollevati dalle organizzazioni di settore,
documento però che non arriverà prima del nuovo anno.
I problemi non mancano di sicuro, anche perché le ultime
modifiche normative risalgono al 18.07.2016, data di
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo
n. 141 che ha tra l'altro precisato che le sanzioni si
applicano nei confronti dei proprietari (e non di
fantomatici fornitori di servizi, come dettava la normativa
precedente) e definito i criteri di ripartizione delle spese
tra gli inquilini: ma anche in questo campo i dubbi rimasti
aperti sono numerosi.
E' quindi comprensibile che molti amministratori di
condominio e molte assemblee condominiali abbiano aspettato
di avere un quadro chiaro della situazione prima di
impegnarsi in lavori che, oltre che costosi, avrebbero
rischiato di esasperare la conflittualità tra condòmini.
Basti pensare che una sentenza della corte d'appello di
Trento del 10.05.2016 ha avuto modo di precisare che il
singolo proprietario non può rifiutarsi di installare sui
termosifoni di casa propria le valvole termostatiche e i
sistemi di contabilizzazione del calore deliberati
dall'assemblea condominiale e che deve assicurare ai tecnici
la possibilità, di accedere ai locali.
Di fronte a queste difficoltà la scelta di dilazionare
l'adempimento al momento nel quale si sarebbero avuti i
necessari chiarimenti poteva essere in molti casi la più
ragionevole.
Con il risultato però che i tempi si sono fatti stretti e ci
si è trovati ormai nella materiale impossibilità di
provvedere per tempo. Al di là della difficoltà di
raggiungere decisioni condivise in assemblea, ci sono poi
quelle relative alla non disponibilità immediata di tecnici
e di materiali che non possono certo essere in quantità
sufficiente da soddisfare in pochi mesi le disponibilità di
milioni di condomìni. Ci si trova quindi di fronte a una
strada cieca. Da un parte la impossibilità giuridica di
concedere una proroga del termine per adeguarsi (e non
basterebbero certo solo sei mesi), dall'altra. la
impossibilità materiale di provvedere all'adempimento
imposto dalla legge.
Applicare le pesanti sanzioni previste dalla. legge in una
situazione come questa, in parte determinata di ritardi
della pubblica amministrazione, sarebbe iniquo. Anche perché
la stessa pubblica amministrazione che dovrebbe irrogare le
sanzioni ha tassi di inadempienza maggiori dei proprietari
privati.
Ma una via d'uscita va trovata. E questa potrebbe consistere
nell'impegno a non applicare sanzioni per i prossimi due o
tre anni a quei condomini che, pur non avendo ancora
installato le valvole termostatiche, si siano impegnati in
assemblea a farlo nel più breve tempo possibile.
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Valvole, la metà dei condomìni non le ha ancora installate.
Manca meno di un mese all'entrata in vigore
delle sanzioni per chi non è in regola.
Manca meno di un mese alla scadenza del 31 dicembre imposta
a condomìni e condòmini per l'adeguamento degli impianti di
riscaldamento negli edifici alle nuove regole (di matrice
europea) per la termoregolazione e la contabilizzazione del
calore. E, a dispetto delle salate sanzioni previste, ad
oggi, secondo le stime Anaci, risulta che circa il 40-50%
dei condomini privati in Italia sia ancora indietro o
addirittura fermo con i lavori da eseguire.
Contabilizzazione del calore: a che punto siamo. È il
risparmio energetico l'obiettivo a cui punta l'obbligo di
installazione dei contabilizzatori del calore introdotto
dalla direttiva 2012/27/Ue, recepita in Italia con decreti
legislativi n. 102/2014 e n. 141/2016.
Il problema è che molti condomini italiani, a meno di un
mese dalla scadenza, non si sono ancora messi in regola. E,
se al massimo entro il 31.12.2016 non verranno
effettuati i necessari interventi tecnici, si rischia che
scatti una multa dai 500 ai 2.500 euro per singola unità
immobiliare.
Attualmente, si stima che mediamente almeno «il 40-50%» dei
condomini privati, a seconda delle zone geografiche, debba
ancora installare questo tipo di impianto, riferisce il
presidente di Anaci (associazione nazionale amministratori
di condominio) Francesco Burrelli, che ricorda anche come la
norma in questione riguardi tutti, e quindi non solo gli
edifici residenziali ma anche i locali pubblici e gli enti
pubblici come le regioni, i ministeri e i comuni.
«È chiaro che la quota relativa agli edifici residenziali
sia maggioritaria rispetto a quella pubblica, ma diciamo che
anche una grossa fetta relativa agli edifici pubblici,
diciamo intorno al 50-60%, deve ancora mettersi in regola»,
ha aggiunto il presidente degli amministratori di condominio
italiani.
Realisticamente, i tempi necessari a mettere a norma un
impianto di riscaldamento centralizzato non sono brevi e
difficilmente un condominio che fino a oggi non abbia ancora
fatto nulla in tal senso potrà rispettare la scadenza di
fine anno. Senza considerare che, vista l'enorme platea dei
soggetti interessati, la rincorsa alla scadenza comporterà
probabilmente maggiori difficoltà nel reperimento di tecnici
disponibili e allungherà di conseguenza i tempi.
La legge di derivazione europea però «va rispettata»,
commenta con convinzione Burrelli (contrario in questo caso
a ogni richiesta di proroga che allungherebbe ulteriormente
i tempi di esecuzione della norma) e aggiunge che «qualcosa
si potrebbe comunque fare». Il presidente dell'Anaci si
riferisce a una possibilità, che le regioni (sarà infatti
ogni Agenzia regionale per l' ambiente, l'Arpa, a doversi
attivare per le verifiche) potrebbero decidere di mettere in
pratica, ossia quella di non applicare le multe a tutti quei
condomini che pur non avendo ancora montato le termovalvole,
abbiano comunque deliberato entro il 31 dicembre di
quest'anno la loro installazione, così da riuscire poi a
mettersi in regola al massimo entro il 31.07.2017.
Ma c'è anche una questione che va oltre il timore delle
multe. Secondo Burrelli infatti, grazie a quest'obbligo: «la
gente può cominciare a capire che le valvole, i ripartitori
e i contabilizzatori non sono tutto quello che serve per
risparmiare energia. In questo modo, si comincia a ragionare
diversamente, riflettendo sulla volontà di tutelare le
proprie case in un'altra maniera, in modo tale da
risparmiare energia in valore assoluto».
Che questa norma possa essere fonte anche di un cambiamento
culturale importante da parte delle famiglie nei confronti
di un'esperienza di consumo di energia più efficiente lo
pensa anche il responsabile del settore energia dell'Unione
nazionale consumatori, Pieraldo Isolani, che dice no a
eventuali proroghe, visto che la decisione di dotare i
condomini delle valvole termostatiche «permette di
responsabilizzare i singoli condomini a un uso efficiente
dell'energia».
Si tratta di un obbligo «giusto, grazie al
quale con i ripartitori di calore ciascuno pagherà il
riscaldamento in base al proprio consumo e quindi ci starà
attento», ha aggiunto Isolani. Ogni proroga, anche il solo
parlarne, «significa procrastinare una cosa molto
importante», ha sottolineato l'esperto dell'Unc, ricordando
che le spese per l'installazione di questi impianti «sono
detraibili dalle tasse per il 65%».
Le spese da sostenere. I costi, appunto, ecco la nota
dolente. C'è da dire che non sono proprio bassi, ecco perché
molto spesso sono loro la causa delle mancate delibere
durante le assemblee condominiali e sicuramente dei ritardi.
«Per un appartamento medio, composto da quattro vani, un
bagno e un ingresso (con quindi almeno 5-6 corpi scaldanti)
servono almeno 400-500 euro», ha spiegato Giampiero
Giovannetti, presidente del Consiglio nazionale dei periti
industriali. Una cifra che, in termini di risparmio
energetico, si può recuperare in media nel corso dei primi
due anni dall'installazione dell'impianto, «anche se molto
dipende dall'esposizione dell'appartamento e dal fatto che
si trovi al centro del condominio (quindi più riparato e
quindi caldo perché gode del riscaldamento degli
appartamenti vicini) o ai margini, come ad esempio gli
attici», ha concluso Giovannetti.
C'è però chi fa notare come, a quasi un mese dalla scadenza
indicata dalla norma, il mercato che si occupa di questi
impianti non sia affatto saturo e che, se il trend attuale
rimanesse costante, «si potrebbe ipotizzare che per altri 2
o 3 anni sarà impossibile raggiungere l'adeguamento di tutti
gli immobili. Si parla, infatti, di numeri impressionanti:
solo in Lombardia si parla di 180 mila impianti termici e
quasi 2 milioni di utenze».
A dirlo è Antonello Guzzetti,
country manager di Qundis Italia, spiegando che ci sono
svariate ragioni per cui «non è possibile, e non è
auspicabile, muoversi più rapidamente». Fra queste, Guzzetti
indica l'attuale difficoltà di reperire materiali e
maestranze e quindi il rischio che, pur di evitare la
sanzione pecuniaria, a occuparsi dell'installazione sia
personale inadeguato.
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Sprint per verifiche e interventi.
Ultima chiamata per gli adempimenti:
dall'approvazione all'esecuzione dei lavori.
Ultima chiamata per gli adempimenti in materia di
termoregolazione e contabilizzazione del calore. Tra meno di
un mese, infatti, scade il termine per mettersi in regola
con quanto previsto dal dlgs n. 102/2014. Dal prossimo mese
di gennaio, a meno di improbabili rinvii dell'ultima ora,
potrebbero quindi scattare i controlli orchestrati dalle
amministrazioni regionali, dai quali potrebbero scaturire
sanzioni pecuniarie fino a 2.500 euro sia per i condomìni
che per i singoli condomini.
Nella tabella in pagina si è provveduto a sintetizzare cosa
occorre fare per rispettare gli adempimenti di legge.
Occorre a questo proposito ricordare come a decorrere dallo
scorso 26 luglio il dlgs n. 102/2014 sia stato modificato in
più parti dalle disposizioni del dlgs n. 141/2016, alle
quali quindi devono attenersi quanti a quella data non
avessero ancora completato l'iter di cui sopra con relativa
suddivisione delle spese.
Infatti il legislatore, nel tentativo di venire incontro
alle difficoltà manifestate relativamente all'applicazione
dei criteri di riparto di queste ultime (calcolo dei nuovi
millesimi di fabbisogno di energia termica utile a opera di
un termotecnico, da utilizzarsi in sostituzione dei
millesimi di proprietà e di quelli basati sulla potenza
installata; assenza di coefficienti correttivi per mitigare
l'impatto delle dispersioni termiche nelle unità immobiliari
svantaggiate), ha previsto che ove la norma tecnica Uni
10200 non sia applicabile o siano comprovate, con relazione
tecnica asseverata, differenze di fabbisogno termico per
metro quadro tra le unità immobiliari superiori al 50%, sia
possibile suddividere l'importo complessivo tra gli utenti
finali attribuendo una quota di almeno il 70% agli effettivi
prelievi volontari di energia termica.
In tal caso gli
importi rimanenti possono essere ripartiti secondo i
millesimi di proprietà, i metri quadrati o i metri cubi,
oppure secondo le potenze installate
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Inizio attività, a ognuno il suo. Procedimenti
amministrativi semplificati e diversificati.
Con decreto 222/2016 («Scia 2») si completa il
quadro normativo per la sburocratizzazione.
La semplificazione raddoppia. Dopo il primo decreto sulla
«Scia», la segnalazione certificata di inizio attività (dlgs
126/2016), arriva il decreto «Scia 2» (dlgs 222/2016).
Il
primo decreto ha tratteggiato le linee generali per la
sburocratizzazione del procedimento amministrativo. Il
secondo decreto ha scritto la mappa dei procedimenti in
settori nevralgici dell'economia (commercio, edilizia,
ambiente): la tabella allegata al decreto deve consentire
all'interessato di sapere con certezza quale procedimento si
applica a un singolo caso.
Le possibilità sono tante: segnalazioni, comunicazioni, con
o senza asseverazione, autorizzazioni, titolo abilitativo
tipico, silenzio-assenso.
Insomma le strade sono innumerevoli, ma almeno c'è un atto
ufficiale che spiega che cosa fare. Il cuore del decreto
Scia 2, dunque, è proprio la tabella allegata. Ma cerchiamo
di tirare le fila di questa manovra in due tempi, figlia
della legge delega n. 124/2015.
Il primo decreto «Scia 1». Il dlgs n. 126/2016 si muove su
più binari. Innanzi tutto si agisce sull'obbligo dei singoli
enti pubblici di predisporre e pubblicare in rete le
informazioni e la modulistica necessaria per un singolo
procedimento.
Il senso è dare all'impresa e al cittadino tutte le
informazioni e la modulistica di istanza, senza addossare a
impresa/cittadino l'onere di dovere rintracciare i dati
sparpagliati nelle leggi e nei regolamenti. L'obbligo è
sostanziale, in quanto la pubbliche amministrazioni si
auto-vincolano a non chiedere cose diverse da quelle
dettagliate con le informazioni diffuse al pubblico. La p.a.
inoltre non può bloccare una pratica se non per contrasto
tra quanto pubblicamente richiesto e con quanto pervenuto
dall'impresa/cittadino. Ma se l'impresa/cittadino ha fatto
l'istanza come ha detto la p.a. e ha consegnato esattamente
i documenti richiesti, allora, non può subire trabocchetti o
sorprese. I moduli predisposti dalla p.a., inoltre, devono
prevedere la possibilità del privato di indicare l'eventuale
domicilio digitale per le comunicazioni con
l'amministrazione.
Sempre nel quadro di dare certezza all'impresa/cittadino il
decreto «Scia 1» stabilisce limiti alla possibilità di
sospendere una segnalazione certificata di inizio attività.
Questa funziona così: l'impresa/cittadino, corredando la
pratica con la documentazione del caso, segnala alla p.a.
competente l'inizio della attività (ad esempio commerciale o
edilizia), ed effettivamente la può iniziare subito.
L'amministrazione ha un lasso di tempo per azzerare tutto.
Nelle more, il decreto stabilisce che l'attività possa
essere sospesa solo in alcuni casi circostanziati (falsità o
interessi pubblici di altissimo rango, come ambiente,
paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o
difesa nazionale).
L'altro punto importante è la ricevuta. Il decreto prevede
in capo alla p.a. l'obbligo di rilascio di ricevuta della
presentazione di istanze, segnalazioni o comunicazioni. La
ricevuta costituisce comunicazione di avvio del procedimento
e deve indicare i termini entro i quali l'amministrazione è
tenuta a rispondere o entro i quali il silenzio
dell'amministrazione equivale ad accoglimento.
Il secondo decreto «Scia 2». Il decreto «Scia 2» provvede
alla precisa individuazione delle attività oggetto di
procedimento, anche telematico, di comunicazione o
segnalazione certificata di inizio di attività o di silenzio
assenso, e di quelle per le quali è necessario il titolo
espresso.
Si prenda la tabella e si vede che i settori interessati
sono: attività commerciali (alimentari e non alimentari, su
aree private e su area pubblica), esercizi di
somministrazione e bevande, strutture ricettive e
stabilimenti balneari, attività di spettacolo e
intrattenimento, sale giochi, autorimesse, distributori di
carburanti, officine e carrozzerie, acconciatori ed
estetisti, panifici, tintolavanderie, tipografie e le altre
attività.
C'è poi la sezione dedicata all'edilizia, compresi gli
adempimenti successivi all'intervento e gli impianti
alimentati da fonti non rinnovabili.
Per l'ambiente abbiamo il censimento di autorizzazioni e
valutazioni di impatto, rifiuti, emissioni in atmosfera,
inquinamento acustico, scarichi idrici, dighe e altri
procedimenti.
Per ciascun procedimento viene specificato il regime
amministrativo (se si applica la Scia, la comunicazione
ecc.) e i riferimenti normativi. Si tratta di
un'enciclopedia dei procedimenti, che funziona come una
bussola.
Una colonna dello schema è dedicata alla concentrazione dei
procedimenti, e cioè alla ipotesi di più adempimenti che
devono essere coordinati tra loro.
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Con la Scia l'avvio è immediato. Gli
schemi procedimentali sono molti e ogni pratica ha il suo
regime.
Comunicazione.
Per lo svolgimento delle attività per le quali la tabella
indica la comunicazione, questa produce effetto con la
presentazione all'amministrazione competente o allo
Sportello unico.
Se per l'avvio, lo svolgimento o la
cessazione dell'attività siano richieste altre comunicazioni
o attestazioni, l'interessato può presentare un'unica
comunicazione allo Sportello competente. Alla comunicazione
devono essere allegate asseverazioni o certificazioni quando
espressamente previste da disposizioni legislative o
regolamentari.
Scia.
Per lo svolgimento delle attività per le quali la tabella
indica la Scia, l'attività può essere avviata
immediatamente. Entro 60 giorni (30 per l'edilizia)
l'amministrazione deve effettuare i controlli sulla
sussistenza dei requisiti. Se viene accertata la carenza dei
requisiti, l'amministrazione può vietare la prosecuzione
dell'attività o richiedere all'interessato di
regolarizzarsi.
Scia unica.
Quando la tabella indica la Scia Unica, vuole dire che ci
vogliono altre Scia, comunicazioni e notifiche,
l'interessato presenterà una Scia unica allo Sportello del
comune, che la trasmette alle altre p.a. coinvolte per i
controlli di competenza.
Scia condizionata.
Quando la tabella indica la Scia condizionata ad
autorizzazioni o pareri, vuole dire che l'interessato
presenterà una Scia e l'istanza delle altre autorizzazioni
allo Sportello unico, che convoca la conferenza dei servizi.
Autorizzazione.
Quando la tabella indica la autorizzazione, è necessario il
provvedimento espresso della p.a., salvo i casi in cui si
applica il silenzio-assenso.
Autorizzazione più Scia.
Quando la tabella indica l'autorizzazione più la Scia o la
Scia unica o la comunicazione, l'interessato dovrà
presentare insieme alla domanda per l'autorizzazione la
Scia, la Scia unica o la comunicazione.
Modalità.
Le istanze, segnalazioni, comunicazioni sono presentate
utilizzando la modulistica pubblicata sul sito del comune e
l'amministrazione non può chiedere informazioni o documenti
diversi da quelli pubblicati sul sito e non può nemmeno
chiedere informazioni o documenti già in possesso dell'ente.
Sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione deve
essere indicato lo Sportello unico, di regola telematico, al
quale presentare la Scia, anche in caso di procedimenti
connessi di competenza di altre amministrazioni o di diverse
articolazioni interne dell'amministrazione. Possono essere
istituite più sedi di tale Sportello, per garantire la
pluralità dei punti di accesso.
La Scia e la comunicazioni devono essere corredate delle
attestazioni e delle asseverazioni se richiesto dalla
normativa di settore. Regioni ed enti locali si devono
adeguare al decreto entro il 30/06/2017. Le amministrazioni
possono ricondurre le attività non elencate nella tabella,
anche in ragione delle specificità territoriali. In ogni
caso la tabella sarà periodicamente aggiornata (articolo ItaliaOggi Sette del
05.12.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Trasparenza,
strada a ostacoli. Accesso civico non utilizzabile per
interessi economici. Con il dlgs
97/2016 sembravano aprirsi le porte degli archivi delle p.a.
In realtà non è così.
Piena di ostacoli per le imprese la strada che porta ai
database delle p.a. L'accesso civico generalizzato non è
utilizzabile per far valere interessi economici. Eppure con
il decreto legislativo 97/2016 sembrava potersi aprire un
portone all'accesso degli operatori economici: porte aperte
agli archivi dei dati detenuti dagli enti pubblici; una
miniera di informazioni, da elaborare, magari con le
tecniche della Big Data analytics e trasformare in idee
imprenditoriali.
Il pendolo del legittimo interesse a trattare i dati
sembrava pendere a favore della libertà di impresa. Ma i
principi della legislazione primaria vivono, poi, nella
forma plasmata dalle disposizioni di attuazione, oltre che
ovviamente dalle dinamiche della prassi.
Ora, il dlgs 97/2016 (correttivo del precedente 33/2013,
dedicato alla trasparenza amministrativa) ha rinviato a
linee guida dell'Anac, l'Autorità nazionale contro la
corruzione, la definizione dei limiti e delle esclusioni del
diritto di accesso generalizzato. Tutte le pubbliche
amministrazioni sono, ora, chiamate a fare/aggiornare i
propri regolamenti sulla trasparenza e lo faranno sulla scia
delle linee guida. E il portone si è socchiuso e
l'autostrada per ottenere dati detenuti dalla p.a. si
profila come una strettoia e per di più in salita ripida (un
po' come avvenuto per l'accesso alle informazioni
ambientali).
Il nodo da sciogliere è un busillis nella formulazione di un
articolo, il 5, del decreto 33/13, come modificato dal
decreto 97/2016. Questa disposizione dice che l'accesso civico
generalizzato, quello che dovrebbe garantire
un'accessibilità totale e che incarna l'essenza della
libertà di informazione (sulla scia del Freedom of
Information Act, o Foia che dir si voglia, tipico degli
ordinamenti anglosassoni), proprio quello che dovrebbe
squarciare il velo steso sulle pareti vetro dei palazzi
pubblici, insomma l'accesso civico ha tre possibili
finalità: 1) controllo dell'attività delle p.a. e dei
funzionari pubblici (come lavorano, che risultano producono?
Raggiungono gli obiettivi?); 2) controllo della spesa
pubblica (come vengono spesi i soldi dei contribuenti?); 3)
partecipazione al dibattito pubblico.
Il problema è se questa trilogia di finalità comprenda o
meno finalità economico/imprenditoriali. Le imprese possono
chiedere dati, detenuti dalla p.a., per sviluppare progetti
di business?
L'Anac, con il Garante per la protezione dei dati personali,
sta preparando le Linee guida per dettare il dettaglio
dell'accesso generalizzato e la bozza evidenzia, tra le
altre, due cose: a) finalità diverse dalle tre elencate nel
decreto devono portare a un oscuramento dei dati personali;
b) l'amministrazione non ha l'obbligo di rielaborare i dati
ai fini dell'accesso, ma solo di consentire l'accesso ai
documenti nei quali siano contenute le informazioni già
detenute e gestite dall'amministrazione stessa.
A questo punto si potrebbe sostenere che le Linee guida
prospettano un ragionevole equilibrio tra opposte esigenze:
da un lato, quella delle imprese di avere dati integrali,
anche identificativi, frutto di una selezione e
rielaborazione adeguate ai fini del business coltivato;
dall'altro, quello delle persone a non vedersi spiattellare
i propri dati, senza prevedibile possibilità di controllo e
di determinare le condizioni di utilizzo delle informazioni
personali.
Peccato che il dlgs dichiari che chi richiede l'accesso
generalizzato non debba dichiarare alcuna specifica
motivazione. Lapidario l'articolo 5: «L'istanza di accesso
civico non richiede motivazione». Altrettanto lapidarie sono
le prime parole dell'articolo 1 del medesimo decreto
33/2013: la trasparenza è intesa come «accessibilità
totale».
Dal canto suo, lo schema delle Linee guida ritiene di
evidenziare che: «L'accesso civico è servente rispetto alla
conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. allo
scopo di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico (art. 5, comma 2, del dlgs n. 33/2013)».
«Di conseguenza», prosegue l'Anac, «quando l'oggetto della
richiesta di accesso riguarda documenti contenenti
informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali
«dati personali») non necessarie al raggiungimento del
predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio
che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non
pertinenti, l'ente destinatario della richiesta dovrebbe
accordare l'accesso parziale ai documenti, oscurando i dati
personali ivi presenti». Tra i dati personali lo schema di
Linee guida esemplifica: dati di persone fisiche quali, fra
l'altro, la data di nascita, il codice fiscale, il domicilio
o l'indirizzo di residenza, i recapiti telefonici o di posta
elettronica personali, l'Isee o la relativa fascia, i dati
bancari ecc.
La p.a., pertanto, dovrà valutare se l'istanza di accesso
generalizzato persegua o meno gli scopi tipici della norma,
ma dovrebbe fare ciò senza chiedere al richiedente di
dichiarare la sua motivazione. A questo punto non si esce
dall'impasse se non forzando, in un senso o in quello
opposto, la lettera della disposizione: o si chiede la
motivazione o si consegnano documenti e dati senza appurare
il tipo di motivazione.
Si vedrà come le autorità e le sentenze risolveranno questo
inghippo. Va da sé, però, che se si opta per la richiesta
della motivazione, verrebbe da dire che il tanto sbandierato
accesso civico generalizzato, quello per l'accessibilità
totale, in realtà non si distingue dal vecchio acceso civico
documentale (articoli 22 e seguenti della legge 241/1990).
Così come bisognerà aspettare per vedere come si
atteggeranno enti e tribunali sulla questione della
elaborazione dei dati.
Si ricorda che l'art. 5 del decreto 33/2013 prevede la
conoscibilità totale di «dati» e «documenti». Lo schema di
Linee guida, però, esclude che l'amministrazione sia tenuta
a formare o raccogliere o altrimenti procurarsi informazioni
che non siano già in suo possesso e inoltre che
l'amministrazione non ha l'obbligo di rielaborare i dati ai
fini dell'accesso generalizzato, ma solo a consentire
l'accesso ai documenti nei quali siano contenute le
informazioni già detenute e gestite dall'amministrazione
stessa.
Anche tale prescrizione è limitativa rispetto alla
finalità di accessibilità totale enunciata dalla legge.
Perché se si interpreta «dati» nel senso di documenti
contenenti dati, si limita l'accesso ai soli documenti
(tradendo la lettera della disposizione).
----------------
Informazioni ambientali se c'è
l'interesse.
Anche in materia di accesso alle informazioni ambientali la
trasparenza per le imprese è un bicchiere mezzo vuoto.
L'accesso alle informazioni ambientali (articolo 5 del dlgs
n. 195 del 2005) somiglia molto all'accesso civico
generalizzato: può essere esercitato da chiunque, senza la
necessità di dimostrare uno specifico interesse. Tuttavia le
sentenze hanno deciso che l'istanza debba essere
specificamente formulata con riferimento alle matrici
ambientali (Consiglio di stato, sez. IV, 20.05.2014, n.
2557).
In conseguenza, dice Palazzo Spada, il richiedente di
un'istanza, pur se astrattamente riguardante un'informazione
ambientale, deve dimostrare che l'interesse che intende far
valere è un interesse ambientale, come qualificato dal dlgs
n. 195 del 2005, non potendo l'ordinamento ammettere che di
un diritto nato con specifiche determinate finalità si
faccia uso per scopi diversi di tipo economico patrimoniale
(Consiglio di Stato, sez. V, 15.10.2009 n. 6339).
Se le
richieste sono volte all'acquisizione di informazioni che
possono essere rilevanti per l'impresa per motivi
concorrenziali e per finalità economico-patrimoniali, la
strada dell'accesso è sbarrata (Cons. stato, sez. III, 05.10.2015, n. 4636).
Lo stesso ragionamento potrà essere ripetuto per l'accesso
civico generalizzato: in astratto si tratta di atti e
documenti accessibili (articolo 5, comma 2, dlgs 33/2013, ma
se l'impresa, che coltivasse scopi economici, non dimostra
una finalità di partecipare al dibattito pubblico (concetto
a dire il vero molto fumoso) o di volere controllare
l'operato della p.a. e la spesa pubblica, gli archivi
rimarranno sotto chiave
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento
acustico al restyling.
Arriva il restyling della normativa in materia di
inquinamento acustico. Con l’introduzione di sanzioni
pecuniarie da euro 30.000 fino a 180.000 (per ogni mese di
ritardo) nei confronti delle società ed enti gestori dei
servizi pubblici di trasporto o delle relative
infrastrutture che non comunicano i dati sui flussi di
traffico utilizzati nell’elaborazione della mappatura
acustica.
Tali dati sono infatti indispensabili anche ai comuni per la
predisposizione della mappa acustica strategica da parte
dell’agglomerato. E l’applicazione di una sanzione
amministrativa fino a 50 mila euro a favore di quei soggetti
che immettono in commercio o mettono in servizio macchine e
attrezzature per le quali è riscontrato da parte dell’Ispra
il superamento del livello di potenza sonora garantito.
Il consiglio dei ministri, ha approvato lo scorso 24
novembre, in esame preliminare, due decreti legislativi in
materia di inquinamento acustico (il primo
sull’armonizzazione della normativa nazionale in materia di
inquinamento acustico e il secondo sull’immissione in
commercio di macchine rumorose e senza marcatura Ce).
Inquinamento acustico.
L’articolo 1 dello schema di dlgs «sull’armonizzazione della
normativa nazionale in materia di inquinamento acustico»
modifica l’articolo 2 del dlgs n. 194/2005, riformulando la
definizione di «zona silenziosa in aperta campagna» al fine
di adeguare la normativa nazionale alla direttiva 2002/49/CB
(Atto
del Governo n. 362 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni in materia di
armonizzazione della normativa nazionale in materia di
inquinamento acustico).
Allo stato attuale, infatti, non risulta individuata
l’autorità competente per la determinazione di tale area,
incaricata di inoltrare i relativi dati al ministero
dell’ambiente ai fini della successiva comunicazione alla
Commissione europea, in attuazione della direttiva
2002/49/CE.
In particolare, la «zona silenziosa in aperta
campagna» è definita come una zona esterna all’agglomerato,
delimitata dall’autorità territorialmente competente, su
proposta dell’autorità comunale, che non risente del rumore
prodotto da infrastrutture di trasporto, da attività
industriali o da attività ricreative. Qualora la zona ricada
nell’ambito territoriale di più comuni, ovvero di più
regioni, i diversi soggetti interessati stipulano un
apposito protocollo d’intesa al fine della delimitazione di
detta zona.
Immissione in commercio di macchine
rumorose. Il
secondo decreto reca invece disposizioni per far aderire la
normativa italiana con la direttiva 2000/14/Ce e con il
regolamento (Ce) n. 756/2008 (Atto
del Governo n. 363 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni per l'armonizzazione della
normativa nazionale in materia di inquinamento acustico con
la direttiva 2000/14/CE e con il regolamento (CE) n.
765/2008).
Nello specifico il provvedimento ha l’obiettivo di
ricondurre a norma l’insieme delle macchine rumorose
operanti all’aperto, importate da paesi extracomunitari (per
esempio dalla Cina) e poste in commercio nella distribuzione
di dettaglio per le quali mancava la certificazione e la
marcatura Ce. Si affida la responsabilità in materia agli
importatori presenti sul territorio comunitario, colmando
così un vuoto normativo e garantendo maggiore sicurezza
all’utenza.
Il testo mira anche a raggiungere obiettivi di
semplificazione sia nei procedimenti di autorizzazione degli
organismi di certificazione sia per i rinnovi in
concomitanza con gli accreditamenti o il loro rinnovo da
parte di Accredia. Viene inoltre rafforzata la disciplina
sanzionatoria prevista, conferendo ad Ispra maggiori poteri
di accertamento e verifica
(articolo ItaliaOggi del 02.12.2016). |
VARI: Etichettatura
obbligatoria per il latte e i suoi derivati.
Obbligo di etichettatura per latte e prodotti
lattiero-caseari. In caso di vendita di un prodotto con
etichette non conformi, le sanzioni pecuniarie che
scatteranno sono quelle previste dall’articolo 4 comma 10
della legge n. 4/2011. E cioè da 1.600 euro a 9.500 euro.
La
nuova etichettatura d’origine del latte, anche per gli
alimenti che lo contengono, non riguarderà il solo latte
vaccino, ma l’obbligo di trasparenza si estenderà a tutti i
generi di latte di origine animale. Quindi, anche al bufalino, all’ovi-caprino e al latte d’asina.
Questo è quanto si legge nel decreto interministeriale messo
a punto dai dicasteri delle politiche agricole e dello
sviluppo economico (Atto
del Governo n. 361 - Schema di decreto
interministeriale concernente l'indicazione dell'origine in
etichetta della materia prima per il latte e i prodotti
lattiero-caseari, in attuazione del regolamento (UE) n.
1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli
alimenti ai consumatori), sull’obbligo di indicazione
dell’origine in etichetta della materia prima per il latte e
i prodotti lattiero-caseari.
Ricordiamo che la conferenza stato-regioni del 20 ottobre
scorso (si veda ItaliaOggi 21.10.2016) ha dato il via libera
al decreto sull’indicazione di origine del latte attualmente
in discussione nelle commissioni agricoltura di camera e
senato. Il termine per la presentazione dei pareri è fissato
al 13.12.2016.
Le indicazioni sull’origine della materia
prima per il latte devono essere indelebili e riportate in
etichetta in modo da essere visibili e facilmente leggibili.
Esse non devono essere in nessun modo nascoste, oscurate,
limitate o separate da altre indicazioni scritte o grafi che
o da altri elementi suscettibili di interferire.
L’articolo
2, al comma 1, del decreto interministeriale, regola le
modalità di indicazione in etichetta dell’origine del latte
e del latte usato come ingrediente nei prodotti lattiero-caseari disponendo l’obbligo di indicare il paese
di mungitura e il paese di condizionamento o di
trasformazione mentre al comma 2 dello stesso articolo
prevede che nel caso in cui il latte sia stato munto,
condizionato o trasformato nello stesso paese l’obbligo di
cui al comma 1 può essere assolto con la dicitura: «origine
del latte»
(articolo ItaliaOggi del 02.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: La «Scia 2» dà
un taglio ai vincoli. Percorso
facilitato per gli interventi edilizi e per l’avvio delle
attività d’impresa.
Una tabella di 142
pagine che indica in maniera analitica, per attività
economica, edilizia e ambiente, cosa serve a livello
autorizzativo per fare una determinata cosa.
La
“semplificazione” della riforma Madia della pubblica
amministrazione (Dlgs 222/2016), che si salva dalla tagliola
della Corte costituzionale, realizza una codificazione delle
attività delineando un quadro aggiornato (in vigore dall’11
dicembre) di obblighi e di titoli abilitativi “massimi” che
servono; nel senso che a livello locale non si possono
chiedere titoli abilitativi di maggior peso. E questo
dovrebbe comportare una maggiore uniformità di trattamento
nelle singole realtà italiane laddove oggi si assiste anche
a situazioni molto differenziate.
Ad esempio, in fatto di edilizia i regimi amministrativi
definiti dal provvedimento sono quattro: attività di
edilizia libera; comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila);
segnalazione certificata di inizio attività (Scia), anche in
alternativa al permesso di costruire; permesso di costruire.
Per quanto riguarda l’edilizia, l’elenco degli interventi
realizzabili in regime di attività libera (e per i quali non
serve la comunicazione di inizio lavori) comprende:
installazione di pannelli solari e fotovoltaici a servizio
degli edifici fuori dai centri storici; pavimentazione e
finitura degli spazi esterni, anche per la sosta, entro
l’indice di permeabilità; realizzazione di aree ludiche
senza scopo di lucro; installazione di elementi di arredo
nelle aree pertinenziali degli edifici.
Il restauro e il risanamento conservativo che non interessa
le parti strutturali dell’edificio prevedono la Cila, mentre
per ristrutturazioni pesanti, interventi di nuova
costruzione in diretta esecuzione di strumenti urbanistici
generali, ristrutturazione urbanistica disciplinata da piani
attuativi è ammessa la Scia alternativa al permesso di
costruire e l’inizio dei lavori è fissato a 30 giorni dalla
sua presentazione. Per la nuova costruzione di manufatto
edilizio continua a servire il permesso di costruire.
Il soggetto che ha presentato la Scia o che è titolare del
permesso di costruire può richiedere il certificato di
agibilità entro 15 giorni dalla fine dei lavori o presentare
un’autocertificazione sottoscritta da un professionista.
Per quel che riguarda le attività economiche (le tipologie
censite sono 72) da ricordare la distinzione tra bar e
pizzerie in zone tutelate (dove scatta il silenzio assenso
più la Scia ma non serve l’autorizzazione) mentre nelle zone
non tutelate è sufficiente la Scia unica. Così come un dato
importante è la possibilità di avviare una media struttura
di vendita solo con il silenzio-assenso entro 90 giorni
(laddove fino ad oggi in alcune realtà serviva
l’autorizzazione preventiva).
Sul fronte dell’ambiente la necessità di autorizzazione cade
per situazioni apparentemente meno impattanti: dieci
situazioni sottoposte a permessi diventano soggette a
semplici comunicazioni (tra cui voltura dell’autorizzazione
integrata ambientale in caso, ad esempio, di cessione
dell’impianto; messa in esercizio dello stabilimento per le
emissioni in atmosfera; smaltimento degli scarti alimentari
trattati con dissipatore a livello domestico; valutazione
previsionale del clima acustico per asili nido, scuole,
ospedali, case di cura e riposo, parchi e abitazioni vicine
ad autostrade; utilizzo agronomico delle deiezioni animali
in allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi
oleari e delle acque reflue provenienti da piccole aziende
agroalimentari, prima sottoposte ad autorizzazione stante il
rischio rappresentato dai carichi di azoto e ammoniaca,
prima da autorizzare).
Debuttano poi quattro situazioni di
silenzio-assenso, prima sottoposti ad autorizzazione
(modifica non sostanziale di impianti già in possesso di Aia
o di Aua e utilizzo da parte dei consorzi di bonifica delle
acque fluenti nei canali per usi diversi da quello irriguo,
operazioni di invaso, sghiaiamento, sfangamento e manovra
degli scarichi delle dighe).
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Evitare il rischio di «obblighi» locali.
Il decreto legislativo 222/2016, conosciuto come Scia 2,
costituisce uno strumento decisivo per fare chiarezza sulle
procedure per l’avvio di tre categorie di attività: le
attività economiche regolamentate, gli interventi in materia
edilizia e quelli in materia ambientale. Ne consegue che le
attività non elencate devono ritenersi “libere”.
Le attività
libere sono esenti dalle quattro procedure, ma non da
obblighi che tutelano interessi sensibili come edilizia,
sanità e ambiente. Il legislatore si mostra consapevole
dell’impossibilità di individuare “tutte le attività” perché
le norme settoriali sono troppe e spesso ambigue e perché
sono destinate a rapida evoluzione.
Il decreto, quindi, all’articolo 2, comma 6 precisa il
comportamento dello Stato, Regioni ed enti locali che,
qualora riscontrino nelle materie di loro competenza,
attività non incluse nella tabella: «possono ricondurre le
attività non espressamente elencate… a quelle
corrispondenti» incluse nella tabella. Il rischio è che le
Pa propendano per ricondurre le attività non elencate tra
quelle regolamentate e non tra quelle libere. Il rischio
sarà evitato se, come previsto, Stato e Regioni procederanno
periodicamente all’aggiornamento della tabella.
Per ciascuna attività non è indicato solo il tipo di
procedimento (o regime amministrativo), ma anche gli
adempimenti delle Pa che intervengono su materie connesse
(sanità, sicurezza, ambiente); si tratta di una notevole
agevolazione per imprese e professionisti. È importante
anche aver definito i casi in cui si applicano due nuove
procedure introdotte dal Dlgs 126/2016: la Scia unica e la
Scia condizionata. Si usa la prima quando assieme alla Scia
principale vanno spedite altre Scia per attestare i
requisiti edilizi e ambientali. Si usa la seconda quando
assieme alla Scia principale vanno spedite domande di
autorizzazione in materie come la sanità e l’ambiente.
Il decreto fa chiarezza su due questioni: quando è prevista
la comunicazione, questa ha effetto dalla sua presentazione
all’ente competente o allo sportello unico; il termine dei
18 mesi entro cui l’ente può intervenire in autotutela
decorre trascorsi i 60 giorni dalla presentazione della
Scia. Vengono poi introdotte alcune semplificazioni
operative dall’11 dicembre: è soppressa la dichiarazione da
presentare all’autorità di Ps per esercitare il commercio di
cose antiche o usate; è agevolata la procedura
d’installazione di illuminazione per eventi straordinari; è
accelerata la procedura per utilizzare locali e impianti di
pubblico spettacolo con capienza non superiore alle 200
persone
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti,
ok al decreto hi-tech. Del Rio sulle
opere superspecialistiche.
Il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Graziano
Delrio, ha firmato il
decreto attuativo dell'articolo 89,
comma 11, del Nuovo codice dei contratti pubblici contenente
l'elenco delle opere cosiddette superspecialistiche. La
firma è avvenuta nell'ambito dei decreti attuativi del
Codice dei contratti pubblici, dopo il parere del Consiglio
di stato del 21 ottobre.
Per opere superspecialistiche si intendono quelle per le
quali sono necessari lavori o componenti di notevole
contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica,
quali strutture, impianti e opere speciali, nonché i
requisiti di specializzazione richiesti per la loro
esecuzione. Dopo la registrazione della Corte dei conti il
decreto sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Si tratta
della definizione dell'elenco delle opere cosiddette
superspecialistiche per le quali non è ammesso l'avvalimento
qualora il valore dell'opera superi il 10% dell'importo
totale dei lavori, e, ai sensi dell'articolo 105 comma 5,
non è consentito il subappalto oltre il 30% del valore delle
opere.
Il decreto conferma l'elenco previgente, prevedendone
inoltre l'integrazione con l'inserimento della categoria Os
12-B (Barriere paramassi, fermaneve e simili) e Os 32
(Strutture in legno). Ciò in presenza di due esigenze
specifiche: garantire l'adeguata competenza nell'esecuzione
di opere che hanno un particolare impatto sull'incolumità e
salute pubblica e garantire la concorrenza nel mercato degli
appalti e dunque l'accesso delle imprese, anche in
considerazione dei principi del Tfue.
Sono stati, inoltre, aggiornati i requisiti di
specializzazione che devono possedere gli operatori
economici per l'esecuzione delle opere. Il decreto non
interviene sul sistema di qualificazione e pertanto resta
ferma, ai fini della dimostrazione dei requisiti richiesti
per l'esecuzione, la vigente disciplina sulla qualificazione
fino all'adozione delle linee guida di cui all'articolo 83
del codice
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: La
p.a. apre ai professionisti. Atti pubblici delegabili alle
categorie ordinistiche. Ieri il primo incontro tra governo e
organi di vertice per vagliare le soluzioni possibili.
Atti della pubblica amministrazione decentrati: si va
dall'assistenza previdenziale per l'istruttoria e la
richiesta delle pensioni, alla semplificazione fiscale, alla
certificazione internazionale notarile.
Sono queste alcune delle funzioni sussidiarie che potrebbero
essere svolte dai lavoratori autonomi rispetto alla pubblica
amministrazione (p.a.) e presentate dai rappresentanti delle
categorie durante l'incontro di ieri al ministero della
giustizia a cui hanno preso parte il sottosegretario alla
presidenza del consiglio Tommaso Nannicini, il
sottosegretario alla giustizia Federica Chiavaroli, il
ministro della giustizia Andrea Orlando, e il presidente di
Confprofessioni, Gaetano Stella.
Un incontro organizzato alla luce della
delega contenuta all'art. 5 del ddl lavoro autonomo (Delega
al Governo in materia di atti pubblici rimessi alle
professioni ordinistiche) «a cui», ha precisato il
sottosegretario Chiavaroli a ItaliaOggi, «il governo vuole
essere pronto a dare attuazione nel più breve tempo
possibile non appena il ddl lavoro autonomo sarà approvato
in via definitiva».
Nel corso dell'incontro, è stato proprio
il presidente Stella a porre l'accento sul fatto che «sul
fronte del dialogo tra imprese e pubblica amministrazione
deve essere proposto un modello diverso rispetto al sistema
delle Agenzie per le imprese. I risultati sperati, infatti,
non si sono realizzati ed è pertanto indispensabile, per una
vera semplificazione, pensare a un nuovo assetto di questo
fascio di funzioni di prima assistenza alle imprese, in cui
certamente i professionisti possono svolgere un ruolo di
primo piano».
Tesi condivisa anche dai Consulenti del lavoro
che, tramite il vicepresidente del Cno, Vincenzo Silvestri,
hanno sottolineato come «l'esternalizzazione di funzioni
possa essere anche un'occasione per creare nuove competenze
e nuove opportunità di lavoro per i giovani che si
affacciano alla professione». Ecco, quindi, la proposta di
estendere ai professionisti che contribuiscono alla
costruzione delle storia previdenziale dei lavoratori
dipendenti, la competenza a trattare anche le prestazioni
assistenziali e previdenziali quali: richiesta pensione,
indennità disoccupazione, maternità e mobilità.
Misura
affiancata al fatto che le sedi di certificazione dei
rapporti di lavoro dovrebbero poter avere competenza a
certificare anche i contratti collettivi aziendali, per dare
certezza ed effettività agli stessi e garanzia di
corrispondenza ai dettami della legge. Frutto dei notai,
invece, le proposte di attribuire anche al Consiglio
notarile distrettuale la competenza per l'apposizione dell'Apostille
(certificazioni che convalida, con pieno valore giuridico,
sul piano internazionale l'autenticità di un atto pubblico)
al fine di ridurre il carico di lavoro delle Procure della
Repubblica.
Il tutto, affiancato anche dalla volontaria
giurisdizione, ovvero dall'attribuzione della competenza a
decidere in merito alla sussistenza dei presupposti per il
compimento degli atti di minori e incapaci, al notaio
incaricato di ricevere gli atti stessi, in alternativa
all'autorità giudiziaria, con l'effetto di riduzione del
carico giudiziario e di snellimento dell'attività negoziale.
Presenti, poi, anche i dottori commercialisti che, tramite
il vicepresidente del Consiglio nazionale Davide Di Russo,
hanno fatto presente come «i commercialisti possano svolgere
un ruolo importante per quanto attiene tutta la materia
della revisione legale e la riduzione e la semplificazione
in campo strettamente fiscale. Competenze in merito alle
quali la categoria non si è mai tirata indietro».
A
rimarcare, invece, la disponibilità di lavorare in zone di
prossimità attraverso la semplificazione della procedure di
assegnazione dei lavori, i dottori agronomi, accompagnati
dagli ingeneri, guidati da Armando Zambrano, anche
coordinatore della Rete delle professioni tecniche, che ha
fatto presente «sia la possibilità di ampliare l'attività di
asseverazione dei professionisti», sia la necessità «di
migliorare l'impianto del ddl lavoro autonomo lavorando sul
garantire una maggior tutela dei professionisti nei
confronti del committenti, tempi certi per i pagamenti dal
parte della pubblica amministrazione e misure di welfare
maggiori soprattutto per le professioniste che si trovano ad
affrontare la maternità».
Nel corso dell'incontro, inoltre, in modo condiviso è stata
avanzata la proposta di introdurre il rito del lavoro anche
i liberi professionisti
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI - CONDOMINIO: Appalti,
pagamenti tracciabili altrimenti scattano sanzioni.
Legge di bilancio. Possibile anche usare
mezzi diversi dal conto bancario.
Pagamenti
tracciabili anche in condominio: non è una novità, dato che
l’articolo 1129 del Codice civile (a seguito delle modifiche
introdotte dalla legge 220/2012) afferma che
«L'amministratore è obbligato a far transitare le somme
ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché
quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio,
su uno specifico conto corrente, postale o bancario,
intestato al condominio». Ma nel disegno di legge di
Bilancio, già votato dalla Camera e ora in passaggio al
Senato, all’articolo 7, comma 36, la previsione è rafforzata
inserendo la possibilità di usare altre «modalità idonee» e
prevedendo una sanzione amministrativa per l’inadempienza.
Se la norma passerà al Senato cambierà l’attuale articolo
all’articolo 25-ter del Dpr 600/1973, che dal 2007 stabilisce
per il condominio l’obbligo di pagare una ritenuta del 4%
sui corrispettivi dovuti per prestazioni relative a
contratti di appalto di opere o servizi. Vengono infatti inseriti due nuovi commi: il primo, 2-bis, contiene
una novità che semplifica la vita all’amministratore: il
versamento della ritenuta è effettuato «solo quando
l'ammontare delle ritenute operate raggiunga l'importo di
euro 500. Il condominio è comunque tenuto all'obbligo di
versamento entro il 30 giugno e il 20 dicembre di ogni anno
anche qualora non sia stato raggiunto l’importo stabilito al
primo periodo». Quindi per i condomìni medio-piccoli
l’obbligo si presenterà, dal 01.01.2017, solo due volte
all’anno e non ogni mese.
Il nuovo comma 2-ter, invece, stabilisce che il pagamento
dei corrispettivi pagati per gli appalti deve essere
eseguito dai condomìni «tramite conti correnti bancari o
postali a loro intestati ovvero secondo altre modalità
idonee a consentire all’amministrazione finanziaria lo
svolgimento di efficaci controlli, che possono essere
stabilite con decreto del Ministro delle finanze da emanare
ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23.08.1988, n. 400».
Quindi le cose si complicano: anzitutto si potranno fare i
pagamenti (anche se solo per gli appalti) non solo su c/c
bancario ma anche con altre «modalità idonee»; poi un
Dm regolamentare dell’Economia stabilirà come fare i
controlli (ma le Entrate possono procedere da subito con le
modalità ordinarie). E soprattutto scattano le sanzioni
fiscali: prima si trattava di un’inosservanza che, in casi
estremi, poteva portare alla revoca giudiziale
dell’amministratore. Ora si pagherà una sanzione
amministrativa da 250 a 2000 euro (articolo Il Sole 24 Ore del 29.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scia
unica per fare impresa. Cinque tipi differenti di
autorizzazione. Edilizia facilitata. In Gazzetta il dlgs
attuativo della riforma Madia. A ciascuna attività il suo
iter autorizzativo.
Semplificazioni in materia edilizia, con un taglio agli
adempimenti per diverse tipologie di lavoro. Facilitazioni
in fatto di valutazioni ambientali e per le attività
produttive, comprese quelle disciplinate dal testo unico di
pubblica sicurezza. E, soprattutto, individuazione specifica
di tutti gli adempimenti connessi per le diverse attività
imprenditoriali. Con l'applicazione pratica della Scia
(Segnalazione certificata di inizio attività) unica e della
Scia condizionata, che affiancano i già esistenti regimi
autorizzatori: la Scia ordinaria, l'autorizzazione e la
comunicazione.
Le novità sono contenute nel decreto legislativo 222 del 25
novembre e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 277 del
26/11/2016 (supplemento ordinario n. 52).
Il provvedimento
in questione è uno dei decreti legislativi emanati in
attuazione della legge 124/2015, la cosiddetta legge Madia e
segue, integrandolo il percorso avviato con dlgs 126/2016,
varato questa estate, che, tra l'altro, aveva introdotto
nell'ordinamento l'articolo 19-bis della legge 241/1990 che
prevede, appunto la Scia unica e la Scia condizionata.
Il
decreto legislativo 222/2016 può essere scomposto in due
distinte parti. Una prima, di modifica o di abrogazione di
leggi preesistenti ed una parte, innovativa e di sostanza,
che consiste in una tabella a tre sezioni: attività
commerciali ed assimilabili, edilizia e ambiente.
Le modifiche.
Le novità a carattere normativo contenute nel dlgs 222 che entrerà in vigore il prossimo 11 dicembre
riguardano principalmente il T.u. per l'edilizia (dpr
380/2001) ed introducono rilevanti novità, tra le quali la
sostituzione del certificato di agibilità, originariamente
di competenza del comune, con una Scia del privato corredata
dall'asseverazione del direttore dei lavori o, in sua
assenza, da un professionista abilitato.
Ulteriore novità è
la possibilità, per gli enti territoriali, di procedere al
controllo delle Scia a campione, contrariamente a quanto
stabilito dall'art. 19 della legge 241/1990 che non
prevedeva tale possibilità ma il controllo generalizzato.
La tabella A.
Ma la novità più rilevante contenuta nel dlgs
222/2016 e che il Consiglio di Stato nel parere reso sullo
schema di decreto ha definito «codificazione soft» è la
tabella A che individua, per ciascuna delle attività
elencate, il regime amministrativo, l'eventuale
concentrazione dei regimi ed i riferimenti normativi per
ogni distinta attività individuata.
Peraltro, lo chiarisce
il preambolo alla tabella vera e propria, istanze,
segnalazioni e comunicazioni indicate in tabella, andranno
presentate in base alla modulistica pubblicata sul sito del
Comune e l'amministrazione non potrà chiedere informazioni o
documenti diversi da quelli pubblicati sul sito o già in
possesso della p.a.
(articolo ItaliaOggi del 29.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Così
gli edifici a energia 0. Cappotto termico e una stretta
sugli impianti. Piano nazionale dello Sviluppo economico per
i nuovi immobili dal 2018.
Sarà considerato edificio a energia quasi zero, sia esso di
nuova costruzione o esistente, quello che risponderà a
specifici requisiti tecnici. Tra i requisiti richiesti è
previsto un maggiore isolamento termico dell'involucro
edilizio. Inoltre ogni edificio deve rispettare regole
stringenti sugli impianti termici. Essi devono essere
progettati e realizzati in modo da garantire il rispetto
della copertura, tramite il ricorso ad energia prodotta da
impianti alimentati da fonti rinnovabili, del 50% dei
consumi previsti per l'acqua calda sanitaria, il
riscaldamento e il raffrescamento. Questi devono essere
progettati e realizzati in modo da garantire il rispetto
della copertura, tramite il ricorso a energia da impianti
alimentati da fonti rinnovabili, del 50% dei consumi
previsti per l'acqua calda sanitaria il riscaldamento e il
raffrescamento.
Queste le novità contenute nel piano nazionale degli edifici
a energia quasi zero, allegato a uno schema di decreto
interministeriale stilato dal ministero delle sviluppo
economico -in collaborazione con altri dicasteri- e
finalizzato al miglioramento della prestazione energetica
degli edifici di nuova o esistente costruzione.
Le regole sono attuative del dlgs n. 192/2005 (aggiornato
con il decreto legge n. 63 del 2013), che prevede che entro
il 31.12.2020 tutti gli edifici di nuova costruzione
siano ad energia quasi zero e, a partire dal 31.12.2018, lo siano tutti gli edifici di nuova costruzione
occupati da enti pubblici e di proprietà di questi. L'indice
di prestazione energetica globale dell'edificio e la
conseguente classe saranno determinati in funzione di tutti
i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione invernale,
climatizzazione estiva, acqua calda sanitaria, illuminazione
e ventilazione).
Vi sarà una definizione più chiara dei
consumi energetici così da permettere all'utente di
individuare il consumo totale di energia e la quota di
energia rinnovabile utilizzata, la qualità dell'involucro e
degli impianti. La classificazione degli edifici avverrà in
base alla destinazione d'uso con format specifici e nuove
norme per il monitoraggio e il controllo della regolarità
amministrativa e tecnica della prestazione degli edifici.
I
requisiti minimi dovranno rispettare le valutazioni tecniche
ed economiche di convenienza, fondate sull'analisi costi
benefici del ciclo di vita economico degli edifici. Per le
nuove costruzioni e le ristrutturazioni importanti essi
saranno determinati con l'utilizzo dell' edificio di
riferimento, in funzione della tipologia edilizia e delle
fasce climatiche. Per il rispetto della qualità energetica
prescritta saranno previsti parametri specifici del
fabbricato (indici di prestazione termica e di trasmittanze)
e parametri complessivi (indici di prestazione energetica
globale, espressi sia in energia primaria totale che in
energia primaria non rinnovabile).
Il decreto ha
l'obiettivo, infine, di favorire una applicazione omogenea,
coordinata e immediatamente operativa delle norme per
l'efficienza energetica degli edifici su tutto il territorio
nazionale, attualmente molto variegate a causa dell'ampia
autonomia regionale nelle norme di recepimento della
precedente direttiva 2002/91/Ce. L'edifico a energia quasi
zero è un «edificio ad altissima prestazione energetica» con
un fabbisogno energetico molto basso o quasi nullo, coperto
in misura significativa da energia da fonti rinnovabili,
prodotta all'interno del confine del sistema
(articolo ItaliaOggi del 26.11.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi,
dirigenti col rischio. Spazio a soggetti extra-ruolo quando
la p.a. lo ritiene. CONSIGLIO DEI
MINISTRI/ Varato in via definitiva il decreto che attua la
riforma.
Le amministrazioni pubbliche potranno conferire incarichi
dirigenziali a persone extra ruolo che ciascuna
amministrazione «ritenga opportuno» non assegnare mediante
gli avvisi pubblici riservati ai dirigenti di ruolo. Una
formula che lascia aperta al sostanziale arbitrio la
decisione di non utilizzare i ruoli e di avvalersi di
dirigenti esterni, col solo vincolo della percentuale del
10% per gli incarichi dirigenziali di vertice e dell'8%
degli altri incarichi dirigenziali.
Previsto l'obbligo di fornire motivazione dell'assegnazione
degli incarichi, ma solo per quelli destinati a dirigenti di
ruolo.
È quanto si legge nel decreto di riforma della dirigenza
pubblica (Atto
del Governo n. 328 - Schema di decreto
legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica) approvato in via definitiva ieri dal Consiglio dei
ministri.
Il governo ha dato disco verde a un pacchetto di
decreti attuativi della riforma Madia (legge 07.08.2015,
n. 124): Testo unico sui servizi pubblici locali di
interesse economico generale; individuazione di procedimenti
oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di
inizio attività, silenzio-assenso e comunicazione e di
definizione dei regimi amministrativi applicabili a
determinate attività e procedimenti generale; riordino delle
funzioni e del finanziamento delle camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura; semplificazione delle
attività degli enti pubblici di ricerca.
Tornando al decreto sulla dirigenza, l'Esecutivo ha recepito
pochissime delle indicazioni delle commissioni parlamentari,
senza aver sostanzialmente tenuto conto invece delle
osservazioni del
parere 14.10.2016 n. 2113 del
Consiglio di stato, mantenendo, dunque, fermo l'impianto
essenziale del testo approvato lo scorso 25 agosto.
Permanenza nei ruoli
Resta fermo il meccanismo secondo il quale i dirigenti
stipulano un contratto di lavoro con l'amministrazione che
conferisce loro un incarico e nel caso di incarico
successivo si ha cessione del contratto. Tuttavia, il
dirigente, se passa da un'amministrazione del comparto al
quale appartiene il proprio ruolo di appartenenza, verso
un'amministrazione di comparto diverso, manterrà
l'iscrizione presso il ruolo iniziale. Il passaggio tra
ruoli sarà disciplinato dal regolamento di attuazione del
decreto.
Sezioni speciali
Presso ciascun ruolo, allo scopo di garantire peculiari
competenze professionali, saranno istituite sezioni
speciali, per funzioni dirigenziali che richiedano
particolari professionalità.
Regioni
Il nuovo testo riconosce la necessità che la disciplina del
ruolo dei dirigenti regionali avvenga per il tramite di
un'intesa Stato-regioni di tipo «forte», con specifiche
tutele, dunque, dell'autonomia regionale. Tuttavia, il
Governo mantiene l'ultima parola e quindi la possibilità di
istituire il ruolo dei dirigenti regionali e locali, laddove
in Conferenza stato-regioni non si riesca ad ottenere
l'intesa entro due sedute e 60 giorni complessivi
dall'indizione.
Commissioni
I membri delle commissioni passano da 7 a 9. Restano 4
componenti fissi: il direttore, della Scuola nazionale
dell'amministrazione, il Ragioniere generale dello stato, il
presidente dell'Anac il Capo dipartimento per gli affari
interni e territoriali del ministero dell'interno. Per
ciascuna delle tre commissioni (una per il ruolo dei
dirigenti statali, una per i dirigenti regionali, una per i
dirigenti locali), gli altri 5 componenti saranno scelti in
modo che tre siano dirigenti appartenenti ai ruoli e due
siano esperti indipendenti, competenti in organizzazione e
management sia pubblico, sia privato.
Sarà il dipartimento
della Funzione pubblica a fornire il supporto, sia
logistico, sia operativo per il funzionamento delle
Commissioni, chiamate ad amministrare qualcosa come 36 mila
dirigenti e, quindi, migliaia di procedure di incarico ogni
anno.
Apertura dei ruoli
Il nuovo testo consente alle amministrazioni di conferire
incarichi dirigenziali anche a dirigenti non appartenenti ai
ruoli (ad esempio, dirigenti scolastici o dirigenti dei
comparti non contrattualizzati), purché dipendenti da
amministrazioni pubbliche o organi costituzionali. Simili
incarichi potranno essere conferiti entro il 15% degli
incarichi dirigenziali generali e del 10% degli incarichi
dirigenziali non generali.
Potenzialmente, quindi, quasi un
quarto degli incarichi dirigenziali potrà essere assegnato a
dirigenti non appartenenti ai ruoli unici, con la
conseguenza di aumentare moltissimo le probabilità che tanti
dirigenti di ruolo si ritrovino senza incarico.
Regime transitorio
Si prevede un regime transitorio di 18 mesi dalla piena
applicabilità dei criteri che saranno stabiliti dalle
Commissioni preposte alle procedure di incarico, entro i
quali le amministrazioni potranno riservare gli incarichi ai
soli dirigenti facenti parte del ruolo del comparto al quale
appartiene l'amministrazione conferente. Ai dirigenti
generali sono attribuite maggiori garanzie di aspirare ad
incarichi dirigenziali di livello non inferiore rispetto a
quelli sin qui ricoperti.
Dirigenti apicali
Negli enti locali la figura del segretario comunale sarà
sostituita da quella del dirigente apicale. I segretari di
fascia C avranno riconosciuti i mesi di svolgimento del
servizio, al fine di conseguire i due anni necessari per
ottenere la verifica della professionalità necessaria per
l'iscrizione nel ruolo della dirigenza. I segretari comunali
continueranno a funzionare fino alla definizione dei criteri
generali per l'assegnazione degli incarichi da parte della
commissione per la dirigenza locale.
Tuttavia, in questo
regime transitorio i comuni con popolazione superiore a
100.000 abitanti e le città metropolitane potranno decidere
di non nominare più un segretario comunale e di affidarsi
solo al direttore generale e a un dirigente di ruolo, tra i
quali distribuire le funzioni previste dall'articolo 97 del dlgs 267/2000.
Responsabilità
Rimane confermata la responsabilità esclusiva in capo ai
dirigenti per danno erariale, anche se derivante
dall'attuazione di direttive politiche
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Scia,
consulenze gratis in p.a.. Assistenza pubblica sui placet,
salvo i diritti di segreteria.
CONSIGLIO DEI MINISTRI/Ok a due dlgs sulle autorizzazioni
d'impresa e gli enti camerali.
Le pubbliche amministrazioni faranno consulenza gratuita su
come compilare e presentare comunicazioni, Scia e richieste
di autorizzazione, salvo il pagamento dei soli diritti di
segreteria previsti dalla legge. E questo per tutti i
procedimenti collegati all'attività di impresa o per il
settore dell'edilizia, che il governo ha elencato in una
specifica tabella. Tabella che integra il decreto
legislativo sulla cosiddetta Scia2, approvato ieri in via
definitiva dal Consiglio dei ministri.
Diventa, inoltre, obbligatorio il parere delle associazioni
di categoria per le limitazioni al commercio in centro
storico previsto dal codice Urbani. E ancora, arriva una
individuazione precisa del regime amministrativo da
applicare per il commercio, la somministrazione e alcune
tipologie di attività artigiana o disciplinate dal testo
unico di pubblica sicurezza.
Il governo ha così rispettato i tempi di marcia; il dlgs
completa
(Atto
del Governo n. 322
- Schema di decreto legislativo recante individuazione di
procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA), silenzio assenso e
comunicazione e definizione dei regimi amministrativi
applicabili a determinate attività e procedimenti) il percorso avviato con la legge Madia dello scorso
anno, ovvero la legge 124/2015.
Il primo passo su questa strada è stato il dlgs 126/2016 ma,
vista la complessità della materia, era stato deciso lo
stralcio della individuazione, disposta con tabella, delle
tipologie procedimentali alle quali va ricondotta l'attività
di impresa in alcuni specifici settori. Ciò in quanto il
medesimo decreto approvato ieri ha specificatamente previsto
l'emanazione di uno o più ulteriori decreti integrativi per
le attività non ancora individuate ed ipoteticamente ancora
da semplificare.
Corposa la cosiddetta tabella A, allegata
al decreto, suddivisa in due distinte parti: una prima
relativa all'attività di impresa e la seconda relativa
all'edilizia, fermo restando che con il nuovo decreto
legislativo si va anche a modificare diverse disposizioni
contenute nel T.u. edilizia, ovvero il dpr 380/2001.
Il
provvedimento era stato licenziato dal governo, in via
preventiva, già il 15 giugno scorso e ha superato, con
parere favorevole -seppure a volte condizionato- il
complesso iter procedimentale. Lo stesso, infatti, vagliato
dalla Conferenza unificata nella riunione del 29 settembre
ha visto recepite le richieste delle regioni, nel senso che
gli enti locali territoriali, nel disciplinare i regimi
amministrativi di loro competenza, fermi restando i livelli
di semplificazione e le garanzie assicurate ai privati dal
decreto, potranno prevedere livelli ulteriori di
semplificazione.
Il decreto, nella sua stesura definitiva,
tiene conto anche delle osservazioni fornite dal Consiglio
di stato, espresso dalla sezione consultiva per gli atti
normativi il 21 luglio scorso Dalla lettura dei pareri
espressi e del testo approvato ieri in Consiglio dei
ministri, in sostanza, si può prendere atto che sono state
complessivamente recepite le istanze degli enti preposti
alla tutela dei diversi interessi.
Degna di nota, peraltro,
è l'abrogazione dell'art. 126 del Tulps il quale prevedeva
l'obbligo di comunicare al comune il commercio di cose
antiche e che l'ente locale era tenuto a segnalare agli
uffici preposti alla tutela dei beni culturali, in base al
codice Urbani. Corto circuito questo che rimuove, con un
colpo di spugna, le attività di monitoraggio sul commercio
di antichità
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cdc,
valzer dipendenti.
Personale in esubero delle camera di commercio verso la
mobilità, ricollocazione presso altre amministrazioni
pubbliche e risoluzione del rapporto di lavoro con
erogazione di un assegno straordinario, una tantum in misura
corrispondente al 60% del trattamento economico individuale,
cui si aggiungono i contributi da versare per la
prosecuzione in forma volontaria fino alla maturazione dei
requisiti (entro i successivi tre anni) per il
pensionamento.
Queste alcune delle novità contenute nel dlgs di riforma
delle camere di commercio sulla rideterminazione delle
dotazioni organiche di personale dipendente degli enti,
approvato ieri per la terza volta dal Consiglio dei
ministri (Atto
del Governo n. 327 - Schema di decreto
legislativo recante riordino delle funzioni e del
finanziamento delle camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura).
Ricordiamo infatti che il dlgs, è stata approvato la prima
volta dal Consiglio dei ministri ad agosto, è poi passato al
vaglio delle commissioni industria di Palazzo Madama e
Attività produttive di Montecitorio tra i mesi di settembre
e di ottobre. I pareri espressi dalle due commissioni erano
favorevoli ma accettati con riserva. Il testo è tornato così
la seconda volta in consiglio dei ministri ai primi di
novembre per una breve istruttoria.
Nel testo approvato ieri per la terza volta viene stabilito
che fino al completamento delle procedure di mobilità, alle
camere di commercio è in ogni caso vietata l'assunzione o
l'impiego di nuovo personale o il conferimento di incarichi,
a qualunque titolo e con qualsiasi tipologia contrattuale,
ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa e di somministrazione.
Per il finanziamento di programmi di riqualificazione del
personale delle unioni regionali e delle aziende speciali
interessato dal piano di razionalizzazione organizzativa, il
ministero dello sviluppo economico, su richiesta di
Unioncamere, può disporre l'aumento, per le camere
interessate, della misura del diritto annuale per gli
esercizi di riferimento, nella misura strettamente
necessaria al predetto finanziamento e fino ad un massimo
del 10%
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016). |
LAVORI PUBBLICI: General
contractor più vincolati. Ampliato l'obbligo di
raggruppamento fra i subappaltatori.
Il decreto del ministro delle infrastrutture porta le
categorie superspecialistiche da 13 a 15.
Passano da 13 a 15 le lavorazioni specialistiche per le
quali non si può utilizzare l'avvalimento se il loro importo
supera il 10% dell'appalto.
Dopo il parere del Consiglio di stato del 21 ottobre il
ministro delle infrastrutture ha firmato il
decreto
contenente l'elenco delle opere cosiddette
superspecialistiche attuativo dell'art. 89, comma 11, del
nuovo codice che per esse non ammette l'avvalimento qualora
il valore dell'opera superi il dieci per cento dell'importo
totale dei lavori, e, ai sensi dell'art. 105, comma 5, non
consente il subappalto oltre il 30% del valore delle opere,
imponendo quindi l'aggregazione dell'impresa specialistica
in un raggruppamento temporaneo di imprese.
Il decreto, adesso alla registrazione della Corte dei conti
una volta pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale si applicherà
ai bandi di gara emessi successivamente a tale data.
Previsto anche un monitoraggio sulla sua attuazione per i
successivi 12 mesi.
Fra gli elementi di maggiore interesse del provvedimento
emerge innanzitutto l'inclusione nell'elenco di tali opere
delle categorie OS 12-B (barriere «paramassi, fermaneve e
simili») e OS 32 (strutture in legno). Tali opere si
aggiungono a quelle già previste dalla precedente
disciplina: OG 11 (impianti tecnologici), OS 2-A (superfici
decorate di beni immobili del patrimonio culturale e beni
culturali mobili), OS 2-B (beni culturali mobili di
interesse archivistico e libraio), OS 4 (impianti
elettromeccanici trasportatori), OS 11 (apparecchiature
strutturali speciali), OS 12-A (barriere stradali di
sicurezza), OS 13 (strutture prefabbricate in cemento
armato), OS 14 (impianti di smaltimento e recupero rifiuti),
OS 18-A (componenti strutturali in acciaio), OS 18-B
(componenti per facciate continue), OS 21 (opere strutturali
speciali), OS 25 (scavi archeologici), OS 30 (impianti
interni elettrici, telefonici, radiotelefonici e
televisivi), OS 32 (strutture in legno).
Il decreto stabilisce, inoltre, quali debbano essere i
requisiti di specializzazione che devono possedere gli
operatori economici per l'esecuzione delle opere
superspecialistiche, fermi restando i requisiti previsti
dall'art. 83 del codice. In particolare, con riferimento a
quest'ultimo profilo, il decreto prevede che le imprese
debbano disporre nel proprio organico personale tecnico
specializzato, appositamente formato e periodicamente
aggiornato, per la corretta installazione e messa in
esercizio dei prodotti e dei dispositivi da costruzione,
anche complessi, impiegati nelle relative categorie di
lavori, nonché, nei casi previsti dalle norme tecniche di
riferimento, in possesso di attestazioni di qualificazione
rilasciate da organismi riconosciuti.
Tutto ciò per le categorie di lavori OS 11, OS 12-A, OS
12-B, OS 13, OS 18-A, OS 18-B, OS 21 e OS 32.
Invece per le categorie relative alle lavorazioni in OS 13,
OS 18-A, OS 18-B e OS 32 occorre che l'impresa abbia un
adeguato stabilimento industriale specificatamente adibito
alla produzione di beni oggetto della relativa categoria.
Infine, nella categoria OG 11 si richiede di possedere per
ciascuna delle categorie specializzate OS 3 (impianti
idrico-sanitari, cucine, lavanderie), OS 28 (impianti
termici e di condizionamento) e OS 30 (impianti interni
elettrici, radiofonici e televisivi), in una percentuale di
requisiti suddivisa nelle singole classifiche, cioè per la
categoria OS 3 il 40%, per la categoria OS 28 il 70% e per
la categoria OS 30 il 70%.
L'operatore in possesso dei
requisiti di cui all'ultimo punto nella categoria OG 11, può
eseguire i lavori in ciascuna delle categorie OS 3, OS 28 e
OS 30 per la classifica corrispondente a quella posseduta
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Stop
all'attività industriale? Attenti all'inquinamento.
Alla cessazione definitiva di un'attività industriale
soggetta ad Aia (Autorizzazione integrata ambientale)
l'imprenditore è tenuto ad attuare una serie di azioni
finalizzate alla prevenzione e riduzione dell'inquinamento.
Per esempio, dovrà procedere alla pulizia, protezione
passiva e messa in sicurezza degli impianti (si tratta di
una fase esplicitamente disciplinata nell'Aia, ai sensi
dell'articolo 29-sexies, comma 7, del dlgs 152/2006) e al
ripristino ambientale del sito alle condizioni della
relazione di riferimento, alla dismissione delle
infrastrutture e alla bonifica del sottosuolo e delle acque
sotterranee.
Questo è quanto si legge nelle linee guida del ministero
dell'ambiente sulle modalità applicative della disciplina in
materia di prevenzione e riduzione integrate
dell'inquinamento alla luce delle modifiche introdotte dal
dlgs 04.03.2014, n. 46.
In attuazione dell'Aia il gestore è tenuto a effettuare
controlli sulla installazione, comunicandone gli esiti. È
possibile che tali esiti indichino la verosimile presenza di
non conformità con le condizioni di esercizio autorizzate.
Peraltro gli esiti dell'autocontrollo potrebbero essere
affetti da imprecisioni o essere fraintesi, e pertanto senza
una verifica tecnica non costituiscono di per sé automatica
evidenza della violazione.
Pertanto anche in tali casi, ai
sensi dell'articolo 29-decies, comma 6, del dlgs 152/2006,
l'individuazione delle situazioni di mancato rispetto
dell'Aia e la proposizione delle misure da adottare è
compito degli enti di controllo, previa valutazione e
verifica delle comunicazioni del gestore.
In caso di
ripristino ambientale del sito alle condizioni della
relazione di riferimento è necessario in ogni caso
effettuare, una nuova valutazione dello stato di
contaminazione (ai sensi dell'articolo 29-sexies, comma
9-quinquies, lettera b, del dlgs 152/2006) e se del caso a
ripristinare il sito. Questa ultima fase è assicurata dalle
garanzie finanziarie fornite alla regione (ai sensi del
comma 9-septies del medesimo articolo)
(articolo ItaliaOggi del 24.11.2016). |
APPALTI BENI E SERVIZI: Acquisti
di beni e servizi, agli enti locali più tempo.
Gli enti locali avranno un anno di tempo in più per
pianificare i propri acquisti di beni e servizi.
Grazie a un emendamento alla manovra approvato ieri su
proposta del deputato Rocco Palese, è stato rinviato al 2018
l'obbligo previsto dal nuovo codice dei contratti pubblici
di approvare un programma biennale per le forniture di
importo pari o superiore a 40 mila euro.
L'adempimento è stato introdotto dall'art. 21 del dlgs
50/2016 e, in mancanza di correttivi, sarebbe da
considerarsi obbligatorio a decorrere dal triennio
2017-2019. Gli enti, quindi, avrebbero già dovuto inserirlo
nel Dup di quest'anno, insieme al programma triennale dei
lavori pubblici e al relativo elenco annuale.
La modifica approvata alla Camera, invece, sposta tutto al
prossimo bilancio, che riguarderà il triennio 2018-2020,
anche se, come detto, il contenitore degli atti di
programmazione settoriale, dopo la riforma contabile imposta
dal dlgs 118/2011, è il documento (non a caso definito)
unico di programmazione.
La novità semplifica la vita soprattutto a molti comuni
medio-piccoli, dato che il codice ha ampliato la platea
delle amministrazioni tenute ad adottare il programma, che
in base a quanto previsto dalla legge di Stabilità 2016
avrebbe dovuto riguardare solo gli acquisti sopra il milione
di euro. È anche vero, però, che molti enti avevano già
provveduto, per cui la misura si configura quasi come una
sanatoria
(articolo ItaliaOggi del 23.11.2016). |
APPALTI SERVIZI: Affidamenti
in house con verifica annuale sulle attività esterne.
Partecipate. La regola dell’80 per cento.
Il Testo unico delle partecipate ha il merito di soffermarsi
sull’in house providing, ovviamente in un’ottica di
recepimento della disciplina che regola la materia, ma
introducendo anche qualche novità rispetto al Codice degli
appalti.
Il Testo unico ripropone sia la definizione di controllo
analogo (articolo 2, comma 1, lettera c), sia di controllo
analogo congiunto (lettera d), facendo esplicito richiamo
all’articolo 5, comma 5, del Dlgs 50/2016. In base a
quest’ultima norma il controllo analogo si realizza quando
gli organi decisionali della società sono composti da
rappresentanti degli enti aggiudicatori partecipanti, di
modo che essi siano in grado di esercitare congiuntamente
un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle
decisioni significative della società, che pertanto non
possa perseguire interessi contrari a quelli dei soci.
L’articolo 5, al comma 1, ricorda i criteri costitutivi
dell’in house providing, prevedendo, oltre al controllo
analogo, che nella società non vi siano partecipazioni
dirette di capitali privati, «ad eccezione di forme di
partecipazione di capitali privati (…) che non esercitano
un’influenza determinante sulla persona giuridica
controllata» e che oltre l’80 per cento delle attività della
società sia effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa
affidati dagli enti controllanti.
Avere definito con chiarezza il livello quantitativo della
«prevalenza» è una scelta opportuna, che serve a definire in
modo puntuale i margini di operatività delle società in
house.
L’articolo 5 del Codice degli appalti prevede due modalità
di misurazione e verifica della attività, ovvero «il
fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa
basata sull’attività (…) per i tre anni precedenti
l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione» (comma
7). Quando però questo approccio non sia materialmente
applicabile o pertinente (ad esempio a causa di una
riorganizzazione dell’attività), «è sufficiente dimostrare,
segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la
misura dell’attività è credibile» (comma 8).
In argomento, il Testo unico fa un passo avanti rispetto
all’articolo 5 del Codice, immaginando anche un meccanismo
di salvaguardia del rapporto in house. Infatti, in base
all’articolo 16, comma 5, in caso di superamento del tetto
alle attività “esterne”, la società ha tempo tre mesi per
sanare l’irregolarità, «dalla data in cui la stessa si è
manifestata», rinunciando a una parte dei rapporti di
fornitura con soggetti terzi, sciogliendo i relativi
rapporti contrattuali, ove questo, nei sei mesi successivi
allo scioglimento del rapporto contrattuale, i servizi
dovranno essere riaffidati con procedure competitive.
Da questo punto di vista diventano cruciali due questioni.
La prima è l’opportunità di operare una verifica periodica
dei livelli di attività, che dovranno essere monitorati
almeno una volta l’anno, dalla società e conseguentemente
dai soci. Non sembra necessario un monitoraggio molto
frequente, dal momento che il metodo principe di misurazione
proposto dall’articolo 5, comma 7, del Dlgs 50/2016 consiste,
come detto, in un dato medio triennale. È importante però,
che soci e azienda condividano la procedura da adottare, e
quindi se sia da seguire la metodica del comma 7 o quella
del comma 8 dell’articolo 5, così da evitare elusioni della
norma o comportamenti opportunistici.
La seconda è la necessità di condividere, in caso di
sforamento del dato, anche il metodo di misurazione
dell’attività successivamente alle correzioni previste
dall’articolo 16, comma 5, sulla quale non ci sono
indicazioni esplicite ma che ci pare non possa che essere
assimilabile a quella prevista dall’articolo 5, comma 8,
ovvero quella fondata su proiezioni dell’attività, non
essendo il dato storico in questo caso significativo delle
azioni intraprese (articolo Il Sole 24 Ore del 21.11.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri,
sanzioni dietro l'angolo. Le semplificazioni informatiche?
Ancora sulla carta. Da gennaio
pienamente applicabili le norme contro le violazioni del
tracciamento rifiuti.
Piena applicazione delle robuste sanzioni Sistri, in un
rinnovato e stratificato contesto di norme da osservare, ma
senza la prevista e radicale semplificazione degli obblighi
cui adempiere.
Questo, in base all'attuale quadro normativo, lo scenario
nel quale dal 01.01.2017 dovranno operare le imprese
che, a titolo obbligatorio o volontario, utilizzano il
sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
Con lo
spirare del 31.12.2016, in mancanza di nuovi
interventi legislativi, avrà infatti termine la sospensione
(da ultimo) sancita dal dl 210/2015 dell'applicabilità delle
sanzioni previste dal dlgs 152/2006 (Codice ambientale) per
la violazione delle regole di tracciamento Sistri.
E questo,
di conseguenza, legittimando la sanzionabilità di tutte le
condotte non allineate al novero di precetti costituito dal
nuovo dm 78/2016 e relative istruzioni operative dettate dal
gestore del sistema.
Il rinnovato quadro normativo.
Dall'08.06.2016 le regole sul funzionamento del Sistri
sono recate dal decreto del ministero dell'ambiente 30.03.2016 n. 78, provvedimento che sostituisce il dm 52/2011
inserendosi nel più sofisticato sistema normativo costituito
in materia da:
- obblighi generali previsti dal dlgs 152/2006;
- disposizioni specifiche per taluni soggetti ex dm 24.04.2014 e legge 221/2015;
- deroghe al regime sanzionatorio in base al citato dl
210/2015.
Il dm 78/2016 conferma il sofisticato impianto hardware di cui
i soggetti Sistri devono munirsi per garantire il
monitoraggio dei rifiuti e le procedure software da seguire
previste dal decreto del 2011, promettendo tuttavia un
radicale superamento dell'impianto informatico. E questo su
un duplice piano: da un lato affidando a decreti non
regolamentari del Minambiente semplificazioni burocratiche
ed informatiche a favore dell'utenza; dall'altro impegnando
il nuovo gestore a introdurre alcune ottimizzazioni.
Rientrano tra gli interventi del dicastero la sospensione
dell'obbligo di installazione ed utilizzo delle «black box»
(ed, eventualmente, di connesse «chiavi Usb») sui mezzi di
trasporto rifiuti. Rientrano invece tra gli upgrade affidati
al nuovo gestore (individuato lo scorso 04.08.2016
mediante procedura ad evidenza pubblica) il futuro passaggio
dagli attuali dispositivi hardware a più efficaci strumenti
di tracciabilità, compilazione off-line e trasmissione
asincrona dati, maggiore interoperabilità del Sistri con i
software di aziende, associazioni categoria e società di
servizi.
Tuttavia, dei previsti decreti ministeriali non
regolamentari non vi è, alla data del 16.11.2016,
evidenza. Così come non arriveranno plausibilmente e
legittimamente prima del 01.01.2017, data stabilita dal
dl 101/2013 per il passaggio di consegne tra il vecchio ed
il nuovo gestore del Sistri, le altre citate semplificazioni
ex dm 78/2016.
La nuova «soft law» Sistri.
Una già efficace novità è però dallo stesso dm 78/2016 stata
introdotta in relazione alle istruzioni operative di ultimo
livello che i soggetti interessati devono osservare per
l'utilizzo del Sistri. Nel confermare la competenza del
gestore del servizio a predisporre manuali e guide per
l'utilizzo del Sistri, il dm 78/2016 prevede infatti che la
relativa pubblicazione di tale documentazione sul portale
www.sistri.it avvenga ora «previo visto di approvazione» del
dicastero.
A differenza delle pregresse istruzioni elaborate
dal gestore sub dm 52/2011, dunque, manuali e guide adottati
ex dm 78/2016 e forniti del «visto» del ministero
dell'ambiente sono plausibilmente da ricondurre nel novero
dei provvedimenti amministrativi, dunque nell'alveo degli
atti costituenti fonte di obblighi e dunque (ove
inadempiuti) di sanzioni.
In attuazione del decreto n. 78/2016, già lo scorso 07.06.2016 sono state adottate dal(l'oramai uscente) gestore le
«Procedure di iscrizione e gestione fascicolo azienda» e il
«Manuale operativo Sistri», pubblicati a seguito di
approvazione e autorizzazione Minambiente «Dd prot.
Rindec-2016-63».
Le deroghe in scadenza. Nelle more delle previste
semplificazioni si avvicina la data dell'01/01/2017 a partire
dalla quale, come accennato, saranno sanzionabili le
violazioni delle regole sul tracciamento telematico dei
rifiuti previsto dal citato quadro normativo.
E questo con la parallela scadenza dell'altra deroga
introdotta dal dl 210/2015, coincidente con la riduzione del
50% delle (già applicabili) sanzioni amministrative
pecuniarie per omessa iscrizione pagamento contributo Sistri
«fino al 31.12.2016 e comunque non oltre il collaudo
con esito positivo della piena operatività del nuovo sistema
di tracciabilità individuato a mezzo di procedura ad
evidenza pubblica».
Le conseguenze sull'obbligo di iscrizione.
Sempre radicali semplificazioni a venire, allo stato
dell'arte il rinnovato quadro normativo Sistri appare
interessare il mondo delle imprese almeno sotto due profili:
la necessaria (ri)verifica delle condizioni che obbligano
all'iscrizione; la ricognizione delle condotte sanzionabili.
Sotto il primo profilo, pur confermando il novero dei
soggetti obbligati ad aderire al Sistri, il dm 78/2016 e le
prime citate «vidimate» istruzioni operative appaiono
infatti introdurre alcune novità.
In primo luogo trova espressa collocazione nell'articolo 4
del nuovo decreto ministeriale l'obbligo di iscrizione anche
nella categoria «trasportatori» di coloro già
iscritti/iscrivibili quali «produttori» iniziali di rifiuti
speciali pericolosi che effettuano la movimentazione dei
rifiuti generati previa iscrizione all'Albo gestori
ambientali (categoria 2-bis). Ancora, trova collocazione
nell'articolo 14 dello stesso dm 78/2016 la parificazione
all'«intermediario» di rifiuti, dunque con relativo obbligo
di iscrizione Sistri, del soggetto che «organizza il
trasporto» transfrontaliero o intermodale dei rifiuti ma non
ne costituisca il produttore/trasportatore/destinatario.
Le conseguenze sulle sanzioni. Dall'01/01/2017 oltre alla
citata riespansione delle piene sanzioni per omessa
iscrizione/pagamento contributi Sistri, saranno (salvo
ulteriore proroga) applicabili per la prima volta le
sanzioni previste dagli articoli 260-bis, commi da 3 a 9, e
260-ter del dlgs 152/2006 per la violazione delle regole di
tracciamento operativo Sistri.
Costeranno, ove riferiti a rifiuti pericolosi: la sanzione
amministrativa fino a 93 mila euro l'omessa, erronea o
intempestiva compilazione delle schede informatiche Sistri,
la fornitura di informazioni incomplete o inesatte,
l'alterazione dei dispositivi hardware; la reclusione fino a
due anni, invece, la falsità in certificati di analisi
rifiuti e il trasporto senza copia cartacea della scheda
Sistri, o del certificato analitico dei rifiuti ove
richiesto. Questo unitamente al fermo o alla confisca del
mezzo di trasporto nelle più gravi ipotesi.
Ma, ancora, ex comma 5, art. 260-bis dlgs 152/2006 (se
riferibili a rifiuti pericolosi) delle stesse sanzioni fino
a 93 mila euro risponderanno per ciascuna violazione «i
soggetti che si rendono inadempienti agli ulteriori obblighi
su di loro incombenti ai sensi del predetto sistema di
controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri)».
Laddove, alla luce del rinnovato quadro normativo, la
locuzione «ulteriori obblighi» appare richiamare anche le
prescrizioni da rintracciare tra le pieghe dei nuovi atti di
«soft law» ex dl 78, dunque nelle regole dettate da manuali
e guide del gestore del sistema come «vidimati» dal
Minambiente
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
VARI: Bollette,
contatori 2.0 più vicini. Da fine dicembre addio apparecchi
con più di 15 anni. Con delibera del 10/11 dell'Autorità per
l'energia ulteriori regole per la messa in servizio.
Piani trasparenti e nuovi meccanismi incentivanti per la
riduzione dei costi nell'installazione dei nuovi contatori
intelligenti 2.0. I contatori elettrici che hanno raggiunto
i 15 anni di vita, ovvero la quasi totalità di quelli
installati nel 2001 (il 99%) potranno essere sostituiti tra
la fine di dicembre 2016 e tutto il 2017.
Grazie all'installazione del «contatore smart» si
elimineranno le code di fatturazione calcolate su misure
stimate, le procedure di cambio fornitura e di voltura
saranno più veloci ed efficienti e ogni consumatore potrà
visualizzare sul display i dati dettagliati al quarto d'ora
dei propri consumi di energia e della potenza rilevata, così
da diventare sempre più consapevole dei propri comportamenti
e della propria impronta energetica (energy footprinte dei
contatori intelligenti (smart meter) in bassa tensione di
seconda generazione 2G.
Con la
delibera 10.11.2016 n. 646/2016/R/eel, l'Autorità per
l'energia ha definito la nuova disciplina tariffaria valida
per i distributori elettrici per il riconoscimento dei costi
di installazione dei contatori intelligenti (smart meter) in
bassa tensione di seconda generazione 2G.
Si ricorda che le caratteristiche, le specifiche funzionali
e i livelli di performance erano già stati definiti
dall'Autorità lo scorso mese di marzo (deliberazione
87/2016/R/eel). Il nuovo quadro di regolazione promuove,
dunque, lo sviluppo di un servizio di misura elettrico più
efficiente e moderno, con meccanismi che garantiscono
trasparenza e neutralità anche in relazione allo svolgimento
di altre attività, come ad esempio il piano nazionale di
sviluppo della fibra ottica.
Su questo tema le nuove regole
confermano i già vigenti obblighi di separata
rendicontazione di costi e ricavi relativi alle attività
diverse dal servizio oggetto di riconoscimento tariffario e
prevedono specifiche norme di monitoraggio che consentano di
trasferire ai clienti del settore elettrico eventuali
benefici derivanti dalle sinergie con queste attività.
I contatori 2.0.
Andranno a sostituire quelli elettronici di
prima generazione installati a partire dal 2001 e che
progressivamente terminano la loro vita utile di 15 anni,
sono sì dotati di funzionalità avanzate ma, come specifica
la stessa Autorità, solo «una possibile evoluzione futura,
la versione 2.1 (attualmente in fase di studio), potrà
integrare canali di comunicazione oggi non ancora maturi per
la specifica applicazione dei misuratori 2G o non diffusi
sull'intero territorio nazionale, come quelli basati su
tecnologie wireless (nuova radiomobile dedicata) o wired
(fibra ottica)».
Le diverse funzionalità dei misuratori 2G.
Tra le diverse
funzionalità dei nuovi misuratori 2G:
- viene, per esempio, prevista la rilevazione dei dati
dell'energia ogni 15 minuti e la rilevazione continua della
potenza, per avere un quadro sempre aggiornato
quotidianamente dei nostri prelievi giornalieri e
comportamenti di consumo, con dati da visualizzare sul
display o da trasferire a dispositivi esterni;
- nella versione 2.0 dei contatori, quella di immediata
disponibilità, che già supporta tutti i benefici definiti,
vengono previste due possibili soluzioni di connessione per
la telelettura e telegestione, attraverso la rete elettrica
Plc (Power line carrier) o in radiofrequenza, con la
possibilità di lettura di tutti i registri, di aggiornamento
del funzionamento del misuratore in base agli accordi
contrattuali conclusi tra il cliente e il venditore;
- viene definito anche un canale di comunicazione diretto al
cliente, oltre al display a bordo contatore, per la
trasmissione dei dati a un dispositivo «intelligente» che
può essere installato in casa. Una possibile evoluzione
futura, la versione 2.1, potrà integrare canali di
comunicazione oggi non ancora maturi per la specifica
applicazione dei misuratori 2G o non diffusi sull'intero
territorio nazionale, come quelli basati su tecnologie
wireless (nuova radiomobile dedicata) o wired (fibra
ottica).
Il sistema di smart metering 2G, dal momento in cui è in
grado di fornire dati quartorari più prossimi al momento del
consumo nonché messi a disposizione degli utenti della
filiera con frequenza anche giornaliera, permette modifiche
sostanziali nei processi di fatturazione al cliente finale.
Ciò consente ai venditori di emettere le proprie fatture:
• in modo continuo nel corso del mese (fatturazione
scorrevole);
• con maggiore precisione, dal momento che, superando la
necessità di ricorrere a stime, la necessità di conguagli
resta limitata ai casi residuali in cui si verificano
anomalie.
Ad oggi, i venditori, ai fini del calcolo delle quantità
economiche oggetto di fatturazione ai propri clienti
(tipicamente clienti domestici e piccole aziende) ricevono
dati di misura validati una sola volta al mese. Inoltre i
dati, per quanto riguarda tali punti (che sono la grande
maggioranza), sono messi a disposizione entro il 20 del mese
e fanno riferimento a consumi relativi al mese precedente.
Questo si traduce, a livello operativo, in picchi che si
concentrano verso il termine del mese ai fini del calcolo e
dell'invio delle fatture oppure nel ricorso a fatture
contenente, in tutto o in parte, dati stimati. Similmente,
anche gli incassi delle fatture risentono delle tempistiche
relative alla messa a disposizione dei dati e alla
conseguente emissione delle fatture.
I contatori installati nel 2001 i primi interessati.
La vita
dei contatori domestici di energia elettrica è, in base alla
normativa in vigore, di 15 anni. La prima campagna di
installazione è partita nel 2001, questo significa che tra
la fine del 2016 e l'inizio del 2017 diversi misuratori
arriveranno alla fine del proprio ciclo di vita.
A partire
da questa data, quindi, i distributori di energia elettrica
potranno sostituirli con i nuovi misuratori 2G di seconda
generazione. Le singole imprese distributrici decideranno
quando e con quali tempi avviare la sostituzione. Per quanto
riguarda i costi dell'operazione, tutto dipende se i
contatori verranno sostituiti anticipatamente oppure dopo i
15 anni previsti.
Nel primo caso, infatti, se il fornitore
decide volontariamente di sostituire i misuratori prima dei
15 anni, gli eventuali costi saranno totalmente a carico
suo. Nel secondo caso, invece, l'Autorità sta studiando una
soluzione da proporre per coprire i costi richiesti dalle
sostituzioni.
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Incidenti provocati dal gas, dal 2017
polizza assicurativa rafforzata.
Dal 01.01.2017 rafforzamento della polizza assicurativa
a favore dei clienti finali in caso di incidenti provocati
dall'uso del gas. Rispetto a quella finora in vigore, la
nuova polizza, con costi individuabili in modo più chiaro in
bolletta (attualmente 0,6 euro/anno), avrà una durata
quadriennale e vedrà incrementati i massimali in caso di
risarcimento per le sezioni incendio e infortuni.
È con la
delibera 12.05.2016 n. 223/2016/R/gas dell'Autorità per
l'energia e il gas che vengono introdotte le novità in tema
di polizza assicurativa a favore dei clienti finali in caso
di incidenti provocati dall'uso del gas. Ai sensi della
nuova delibera 223/2016/R/gas dell'autorità per l'energia
elettrica e il gas, chiunque usi, anche occasionalmente, gas
metano o altro tipo di gas fornito tramite reti di
distribuzione urbana o reti di trasporto, beneficia in via
automatica di una copertura assicurativa contro gli
incidenti da gas.
La copertura assicurativa è valida su tutto il territorio
nazionale; da essa sono esclusi i clienti finali di gas
metano diversi dai clienti domestici o condominiali
domestici dotati di un misuratore di classe superiore a G25
(la classe del misuratore è indicata in bolletta) e i
consumatori di gas metano per autotrazione. Le garanzie
prestate riguardano la responsabilità civile nei confronti
di terzi, gli incendi e gli infortuni, che abbiano origine
negli impianti e negli apparecchi a valle del punto di
consegna del gas (a valle del contatore).
L'assicurazione è
stipulata dal Cig (comitato Italiano gas) per conto dei
clienti finali. I clienti finali titolari di un contratto di
fornitura afferente a un punto di riconsegna assicurato
godono di una assicurazione per gli infortuni, anche subiti
da familiari, conviventi e dipendenti, gli incendi e la
responsabilità civile, derivanti dall'uso del gas a valle
del medesimo punto di riconsegna assicurato.
Il contratto di assicurazione riproduce, per il periodo dal
01.01.2017 al 31.12.2020, condizioni equivalenti o
migliorative rispetto a quelle del contratto di
assicurazione stipulato dal contraente per il periodo dal
01.01.2014 al 31.12.2016
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.11.2016). |
APPALTI: Interinale
con appalto. Somministrazione di lavoro nel codice
contratti. Si perdono i margini di flessibilità operativa
della vecchia disciplina.
La somministrazione di lavoro, col nuovo codice dei
contratti, è da considerare un servizio pienamente
rientrante nella disciplina del codice stesso e non più
escluso, a differenza del precedente sistema del dlgs
163/2006, nel quale era da considerare come contratto
escluso dal campo di applicazione del codice, ai sensi
dell'articolo 20 e dell'allegato IIB.
In particolare, il punto 22 dell'allegato IIB al dlgs
163/2006 considerava i «servizi di collocamento e
reperimento di personale», a loro volta definiti dai codici
del vocabolario comune degli appalti da 79600000-0 a
79635000-4 (escluso 79611000-0, 79632000-3, 79633000-0), e
da 98500000-8 a 98514000-9. Il codice 79620000-6 «Servizi di
fornitura di personale, compreso personale temporaneo» era
specificamente riferito proprio alla somministrazione di
personale.
Col nuovo codice dei contratti, l'articolo 17, comma 1,
lettera g), si limita a stabilire che le disposizioni del
codice medesimo non si applicano agli appalti e concessioni
di servizi «concernenti i contratti di lavoro».
Si deve notare che i contratti di lavoro sono cosa diversa
dai servizi di collocamento e reperimento del personale. I
primi attengono specificamente all'instaurazione di un
rapporto di lavoro subordinato; i secondi sono riferiti ai
servizi di incontro domanda/offerta e anche
somministrazione, secondo lo schema normativo previsto, che
configura la somministrazione come appalto.
È da ricordare che il dlgs 50/2016 abolisce l'allegato IIB
al dlgs1 63/2006. Questo implica l'impossibilità di
continuare a considerare come contratti esclusi i «servizi
di collocamento e reperimento di personale», tra i quali
appunto rientrava la somministrazione di lavoro.
La conferma che la somministrazione non beneficia più della
possibilità di essere considerata come contratto escluso è
data dall'articolo 140 del dlgs 50/2016, riferito ai servizi
sociali e agli altri servizi specifici menzionati
dall'allegato IX al codice. Detto allegato contiene codici
del vocabolario comune degli appalti molto specifici
inerenti servizi di fornitura di personale, limitandoli al
personale medico, infermieristico, domestico e a soggetti
privati, senza riprodurre il rinvio ampio contenuto a suo
tempo nell'allegato IIB al dlgs 163/2006 riferito ai servizi
di collocamento e reperimento del personale.
V'è, poi, nell'allegato IX al dlgs 50/2016 il codice
79611000-0 «Servizi di ricerca lavoro», riferito appunto ad
attività svolte da soggetti autorizzati o accreditati
finalizzate alla ricerca di lavoro, ma non alla
somministrazione di manodopera.
Il risultato è, quindi, che il codice 79620000-6 «Servizi di
fornitura di personale, compreso personale temporaneo» non è
riferibile ai servizi concernenti contratti di lavoro come
contratto escluso, né è specificamente richiamato
dall'allegato IX al nuovo codice dei contratti. Questo
dimostra che la somministrazione di lavoro passa da servizio
escluso dal campo di applicazione del codice a servizio
pienamente incluso, perdendo gli spazi di flessibilità
operativa a suo tempo consentiti dal dlgs n. 163/2006.
Possibilità di semplificare le procedure di acquisizione
della somministrazione restano, nel nuovo sistema, legate
esclusivamente alla possibilità di applicare, nel sotto
soglia, le previsioni dell'articolo 36, comma 2, lettere a)
e b), tenendo presente che la somministrazione di lavoro,
non rientrando nell'allegato IX ha una soglia di rilievo
comunitario pari, ad oggi, a 209.000 euro
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Task
force per l'accesso civico. Ufficio ad hoc per gestire le
norme sulla trasparenza. Le istruzioni nelle linee guida
Anac elaborate in collaborazione col Garante privacy.
Task force per gestire l'accesso civico, che non si può
chiedere per motivi economici.
Lo schema di linee guida dell'Anac, elaborate in
collaborazione con il Garante della privacy, che deve
indicare limiti ed esclusioni dell'accesso civico (articoli
5 e 5-bis del dlgs 33/2013), consiglia agli enti pubblici di
adibire un ufficio unico con personale specializzato nella
trasparenza.
Possibilmente l'unità organizzativa ad hoc dovrebbe essere
insediata dal 23.12.2016.
E, in effetti, la babele dei diritti di trasparenza/accesso
richiede una conoscenza approfondita della normativa.
Le amministrazioni, infatti, devono, tra gli altri, fare i
conti con: l'accesso endoprocedimentale (art. 10, legge
241/1990), l'accesso documentale (articoli 22 e seguenti
della legge 241/1990), l'accesso del consigliere (articolo
43 del Testo unico enti locali), l'accesso ambientale (dlgs
195/2005), l'accesso dell'avvocato nelle investigazioni
difensive (articolo 391-quater codice di procedura penale),
l'accesso civico per gli obblighi di pubblicazione (articolo
5, comma 1, dlgs 33/2013), l'accesso civico generalizzato
(articolo 5, comma 2, dlgs 33/2013), l'accesso nelle
procedure di appalto (articolo 53, dlgs 50/2016), l'accesso
ai dati personali (articoli 7 e seguenti del Codice della
privacy).
Tra l'altro molto spesso le disposizioni non chiariscono con
nettezza che cosa il cittadino/impresa ha diritto di avere
in visione/copia, e che cosa no. In sostanza, in molti casi,
gli enti si devono assumere la responsabilità di bilanciare
la trasparenza con interessi pubblici o privati, e tra
questi ultimi, l'interesse alla riservatezza delle persone.
Una gimcana, che deve tenere conto però della necessità
della parità di trattamento. Bisogna costruire regole
standard per i casi concreti, e avere regole operative
all'interno di principi generali e astratti, come quelli
riepilogati nello schema di linee guida.
Quasi tutto è lasciato ai regolamenti interni e, in
particolare, è lasciata l'elencazione in concreto degli atti
sottratti all'accesso in maniera assoluta e l'elencazione
degli atti e dati per cui bisogna fare un bilanciamento.
Senza dimenticare che per l'accesso civico generalizzato, il
bilanciamento sarebbe da svolgere in astratto, perché chi fa
la richiesta di accesso non è tenuto a dare la motivazione
della sua istanza.
Questo, però, è un punto decisamente ambiguo. Da un lato
abbiamo la formulazione cristallina della norma (articolo 5,
comma 3, dlgs 33/2013): non è richiesta la motivazione e,
quindi, non si può chiedere che il richiedente espliciti la
ragione della richiesta.
Dall'altro lato le linee guida sostengono che se si sta al
di fuori delle motivazioni previste dall'articolo 5, comma
2, del dlgs 33/2013, l'accesso civico generalizzato è negato
ma allora bisognerebbe che il richiedente dica qualcosa
sulle sue effettive motivazioni.
Senza contare che il dlgs 33/2013 (articolo 5, comma 2)
prevede motivazioni dell'accesso generalizzato del tutto
fumose: «Favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche e promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico».
Ma non c'è solo questo rebus. L'accesso civico è bloccato in
radice da alcune cause ostative assolute, che comprendono
tutte le esclusioni previste da leggi speciali; è, poi,
limitato anche da altre cause da valutare di volta in volta.
L'impressione è che con tutte queste esclusioni e
limitazioni rimanga ben poco e che, anzi, raschiando
raschiando, non ci sia niente di nuovo, considerato che il
vecchio è sostanzialmente recuperato tutto con il gioco dei
richiami alla legislazione vigente. Addirittura, vale la
pena di sottolineare che nelle linee guida, contrariamente a
quello che ci si aspetterebbe, si legge che l'accesso
documentale (legge 241/1990) è, in alcuni casi, più esteso
dell'accesso civico generalizzato.
Lo schema di linee guida è in consultazione pubblica fino al
28.11.2016.
---------------
La solita alluvione burocratica.
L'analisi.
Il Foia all'Italiana crea l'ennesimo ginepraio
interpretativo e amplia la già enorme alluvione burocratica
che invade la p.a., in frontale contrasto con le esigenze
organizzative che le varie Authority e lo stesso legislatore
evidentemente non tengono in considerazione.
L'ultima ondata di burocrazia discende dallo schema Linee
guida recanti indicazioni operative ai fini della
definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso
civico, previsto dall'articolo 5 del dlgs 33/2013, come
recentemente riformato dal dlgs 97/2016.
La riforma non è riuscita a determinare in modo chiaro e
analitico i casi di esclusione dall'accesso civico garantito
a tutti gli atti non oggetto di pubblicazione. Lo schema di
Linee guida elaborato da Anac in accordo col Garante della
privacy sul punto non riesce a fornire indicazioni
conclusive e rimette, sostanzialmente, all'apprezzamento di
ciascuna amministrazione l'esame dei casi singoli.
Consapevole del fatto che ciò può comportare difformità di
visioni non solo tra amministrazioni diverse ma anche tra
uffici della medesima amministrazione, lo schema di linee
guida invita ad adottare adeguamenti organizzativi: «A
rafforzare il coordinamento dei comportamenti sulle
richieste di accesso si invitano le amministrazioni e gli
altri soggetti tenuti ad adottare anche adeguate soluzioni
organizzative, quali, ad esempio, la concentrazione della
competenza a decidere sulle richieste di accesso in un unico
ufficio (dotato di risorse professionali adeguate, che si
specializzano nel tempo, accumulando know how ed
esperienza), che, ai fini istruttori, dialoga con gli uffici
che detengono i dati richiesti».
Si tratterebbe dell'ennesimo ufficio che le amministrazioni
dovrebbero istituire al proprio interno: un nuovo carico
organizzativo e di lavoro, che si accompagna a tantissimi
altri, in aperto contrasto con le ormai limitatissime
risorse di personale, che creano serie difficoltà operative,
specie nei comuni, come noto nella gran parte dotati di
ridottissime quantità di personale.
La normativa, infatti, di uffici ne impone tantissimi altri.
Per individuare solo i principali, restando all'accesso, si
prevede l'Urp, ufficio relazioni col pubblico, quale punto
di contatto delle richieste di accesso. Per lo svolgimento
delle funzioni di responsabile della prevenzione della
corruzione, l'Anac nel piano nazionale anticorruzione invita
a creare un apposito ufficio di supporto. Simile ufficio di
supporto è previsto (solo facoltativamente) dal codice dei
contratti, per aiutare le funzioni dei responsabili unici
del procedimento. Altro uffici o servizi obbligatori?
L'ufficio per i procedimenti disciplinari, il servizio per
la gestione informatizzata dei flussi documentali (che si
interessa del sistema del protocollo), l'ufficio per la
riorganizzazione e digitalizzazione delle procedure previsto
dal codice dell'amministrazione digitale, il servizio di
prevenzione e protezione ai sensi della normativa anti
infortuni, il comitato unico di garanzia per le pari
opportunità.
Non mancano, poi, nei comuni molteplici «sportelli». È
giunto il momento di una ricognizione puntuale delle troppe
incombenze e «adeguamenti organizzativi» richiesti per
comprendere quanto l'organizzazione degli enti sia in grado
di sostenerli
(articolo
ItaliaOggi del 18.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Regolamento
edilizio tipo: è ufficiale. Gazzetta.
L'intesa del 20 ottobre fra governo, regioni e comuni in
conferenza unificata sul regolamento edilizio tipo è
pubblicata (Gazzetta Ufficiale n. 268 del 16.11.2016).
Sarà costituito da un unico glossario per l'intero paese e
un elenco di titoli che saranno il corpo dei regolamenti
edilizi in tutti i comuni.
Le 42 definizioni allegate allo
schema di regolamento rappresentano una sorta di mini
vocabolario per cui termini come porticato, tettoia o
veranda avranno lo stesso significato in tutta la penisola.
Suddiviso in due parti conterrà: un capitolo dedicato ai princìpi
generali e un secondo alle disposizioni regolamentali
comunali.
Dal momento dell'accordo le regioni avranno 180 giorni di
tempo per recepire il regolamento edilizio tipo e
stabiliranno le scadenze a cui i comuni si dovranno attenere
per uniformarsi
(articolo ItaliaOggi del 17.11.2016). |
APPALTI SERVIZI: Parametri
ecologici per la sanificazione.
Fissati i criteri ambientali minimi per l'affidamento dei
servizi di sanificazione e per la fornitura di prodotti
detergenti. Per «sanificazione» delle superfici ambientali
si intende l'insieme di tutte le procedure volte a renderle
igienicamente idonee per gli operatori e gli utenti. Tale
obiettivo viene raggiunto tramite appropriate procedure di
pulizia e disinfezione, da attuarsi in base al rischio di
infezione.
È con il decreto del ministero dell'ambiente del 18.10.2016
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 09.11.2016, n. 262)
che sono stati adottati i criteri ambientali minimi per
l'affidamento del servizio di sanificazione per le strutture
sanitarie e per la fornitura di prodotti detergenti.
Ricordiamo che con il dlgs 18.04.2016 attuativo delle
direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue vengono
introdotti obbligatoriamente nei documenti progettuali e di
gara i criteri ambientali minimi a seconda delle differenti
categorie di appalto.
L'ambito di applicazione del documento è il servizio di «sanificazione»,
quando è reso in strutture sanitarie, in ospedali, case di
cura, ambulatori e assimilati. In ambito ospedaliero le
attività di sanificazione delle superfici ambientali hanno
l'obiettivo di assicurare una situazione a rischio
controllato, contenendo la carica microbica entro limiti
igienicamente accettabili in relazione al tipo di zona da
trattare (per esempio, aree a bassa carica microbica come le
sale operatorie, aree pulite quali zone induzione o
risveglio nei blocchi operatori ecc.), da conseguire tramite
diverse e dettagliate procedure.
I criteri ambientali minimi verranno aggiornati, laddove
opportuno, in base all'eventuale innovazione tecnologica e
all'evoluzione del mercato di riferimento. Il documento
allegato al decreto del 18.10.2016 è parte integrante del
piano d'azione nazionale per la sostenibilità ambientale dei
consumi della pubblica amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
ma non troppo. Dati personali oscurati e molte esclusioni.
Bozza di linee guida dell'anticorruzione sulla richiesta di
atti alla p.a..
L'accesso civico parte il 23.12.2016. Ma le eccezioni
alla trasparenza sono tante e molto spesso gli atti dovranno
essere forniti con «omissis» sui nomi delle persone. Freno
all'accesso ai dati sensibili e giudiziari e ai dati dei
minori. In ogni caso le pubbliche amministrazioni devono
istituire un ufficio specializzato nel dare risposte alle
istanze di accesso dei cittadini e devono adeguare i propri
regolamenti entro il 23.06.2017.
Sono alcune delle indicazioni dello schema di linee guida in
attuazione dell'articolo 5 del dlgs 33/2013, modificato dal
dlgs 97/2016 (cosiddetto Foia), elaborate dall'Autorità
anticorruzione (Anac) con la partecipazione del garante per
la protezione dei dati personali.
Il documento è in
consultazione pubblica fino al 28.11.2016. Ma vediamo
di chiarire di che cosa stiamo parlando. Il decreto
legislativo 97/2016 ha integrato il dlgs 33/2013,
introducendo l'accesso civico generalizzato, ispirato agli
istituti anglosassoni sulla trasparenza amministrativa. Il
principio generale, almeno sulla carta, sarebbe
l'accessibilità totale di tutti i documenti e i dati
detenuti dalla pubblica amministrazione: chiunque potrebbe
accedere a tutti i dati e i documenti senza dover dimostrare
un particolare condizione e senza dover indicare una
specifica motivazione.
Questa, anzi, è proprio la
formulazione del nuovo articolo 5 del dlgs 33/2013. Ma lo
stesso articolo assoggetta l'accesso civico, che sembrerebbe
di potenzialità amplissima, ad alcuni limiti posti da
interessi pubblici e da interessi privati. Il decreto
33/2013, anche qui rivisitato dal correttivo del 2016, ha
elencato i limiti e per gli interessi privati ha indicato la
riservatezza delle persone fisiche. Il problema è che
l'elencazione è generica e il dlgs non dà indicazioni
specifiche sui singoli documenti e dati sottratti
all'accesso, abbandonando tutti gli enti a una applicazione
discrezionale, se non a macchia di leopardo e peggio
contraddittorie (magari un comune dice di sì e un altro
invece da un diniego a una istanza con lo stesso contenuto).
Inoltre la norma primaria esclude l'accesso non in relazione
a particolari interessi ma solo se questi interessi
subiscano una lesione in concreto e se il diniego è
necessario per evitare il pregiudizio. Insomma bisogna
decidere caso per caso. Per tentare di rimediare a questa
indeterminatezza, lo stesso dlgs 33/2013 ha affidato all'Anac
il compito di elaborare linee guida per aiutare gli enti
nella individuazione delle esclusioni e dei limiti
all'accesso civico. Di queste linee guida l'Anac ha
predisposto lo schema in consultazione pubblica, con
l'obiettivo di avere il testo definitivo per partire dal
23.12.2016.
Le linee guida si muovono su due piani: il primo è
organizzativo, il secondo riguarda il merito delle
esclusioni. Quanto al merito, posto che saranno le singole
amministrazioni a dovere indicare il dettaglio delle
esclusioni e delle limitazioni, il documento da alcuni
indirizzo generali: bianchetto sui dati personali, rispetto
delle finalità della trasparenza (con esclusione delle
finalità economiche), tutela della parte debole che rischia
ritorsioni e da furti di identità, velo sui dati sensibili e
giudiziari e dati dei minori.
Un'esclusione assoluta riguarda i dati sanitari e quelli
idonei a rivelare la vita sessuale o i dati identificativi
dei beneficiari di sussidi, se se ne ricavano informazioni
sanitarie o di disagio economico. Quanto al profilo
organizzativo si chiede alle p.a. di istituire un ufficio
specializzato per gestire le tantissime forme di accesso a
dati, informazioni o documenti
(articolo ItaliaOggi del 15.11.2016). |
SEGRETARI COMUNALI: Dirigenti
apicali con requisiti diversi per ruolo ed ente.
Riforma Pa. Le richieste del Parlamento.
In una risposta su
riformaPA@governo.it la ministra della Pubblica
amministrazione e semplificazione Marianna Madia aveva avuto
modo di affermare che «la riforma non vuole abolire il
segretario comunale ma riqualificarlo in dirigente apicale.
La finalità del decreto non è, infatti, quella di
sopprimere, tout court, la figura del segretario comunale;
al contrario, si intende riqualificarla in qualità di
dirigente apicale dell’amministrazione al fine di
coinvolgerla maggiormente nelle scelte gestionali. Si tratta
di una scelta operata prima di tutto dal Parlamento proprio
per accrescere, all’interno delle singole amministrazioni
locali, la professionalità degli attuali segretari comunali
preservandone i requisiti di imparzialità e competenza».
Sembrerebbe partire da queste affermazioni il parere della
Commissione Affari Costituzionali della Camera (si veda Il
Sole 24 Ore del 10 novembre) del quale il Governo dovrà
tener conto nell’elaborazione finale della parte del decreto
legislativo sui dirigenti dedicata alla disciplina della
figura del dirigente apicale negli enti locali.
Le «condizioni» della Commissione, ben esposte nel parere,
sono sia di natura organizzativa sia inerenti la
professionalità nel tempo acquisita dai segretari comunali.
Sotto il profilo organizzativo e funzionale per il parere
occorre risolvere la contraddizione dello schema di decreto
legislativo, che da un lato «reca l’obbligo per gli enti
locali di dotarsi di un dirigente apicale» e dall’altra ne
subordina l’assunzione ai «limiti delle dotazioni
organiche», chiarendo «che le nuove figure apicali
sostituiranno quelle dei segretari comunali e provinciali -attualmente a carico degli enti locali e non previsti nelle
relative piante organiche- nell’ambito delle risorse che
deriveranno dalla prevista soppressione dell’albo dei
segretari comunali e provinciali».
Si tratta di una sorta di trasformazione automatica con la
conseguenza, da esplicitare al meglio, che le funzioni già
esercitate dai segretari comunali sono trasferite ai
dirigenti apicali, ivi comprese quelle contenute in leggi
speciali e non solo nel testo unico degli enti locali.
Il punto più efficace del parere è la condizione posta dalla
Commissione in tema di requisiti e di certificazione del
percorso professionale svolto dagli ex segretari qualificato
non solo in fase di accesso, ma anche nella fase dinamica
della professione: dai più piccoli enti sino alle grandi
città. Su questo aspetto la Commissione afferma che occorre
prevedere «una disciplina afferente i requisiti
professionali necessari per gli incarichi di dirigente
apicale negli enti locali, anche correlata alle diverse
dimensioni demografiche nonché alla complessità
organizzativa degli enti medesimi e che tenga conto delle
competenze e del ruolo ricoperto (responsabile
dell’attuazione del programma, direzione e valutazione del
personale, coordinamento amministrativo e controllo della
legalità)».
Requisiti professionali che a regime non potranno che
riguardare anche i dirigenti degli enti locali che aspirano
alla dirigenza apicale. Tra le osservazioni di rilievo
l’opportunità di una sezione professionale ad hoc per i
dirigenti apicali nel ruolo della dirigenza degli enti
locali, soluzione che potrebbe essere estremamente utile
soprattutto in fase di prima applicazione; ed ancora, in
relazione alla «peculiarità dell’incarico di dirigente
apicale negli enti locali», una pre-selezione da parte della
Commissione per la dirigenza locale (articolo Il Sole 24 Ore del 14.11.2016). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
Durc segue la scia del Ccnl. La regolarità contributiva
riguarda anche le casse edili. Lo stabilisce il decreto
pubblicato sulla G.U. n. 245/2016. Semplificazioni per i
fallimenti.
Il Durc segue il contratto collettivo. Se l'azienda applica
un contratto del settore edile, infatti, la regolarità
contributiva riguarderà anche le casse edili, non soltanto
l'Inps e l'Inail (cioè com'è ordinariamente per le imprese
non edili).
A stabilirlo è il decreto 23.02.2016, pubblicato sulla
G.U. n. 245/2016, che modifica il decreto 30.01.2015
che disciplina il documento unico di regolarità
contributiva, Durc.
Oltre questa, una seconda novità è di
semplificazione per i casi di crisi d'impresa (fallimento,
liquidazione coatta amministrativa, amministrazione
straordinaria).
Il Durc è telematico.
Le novità dunque riguardano il «Durc
Online», un documento telematico che serve a verificare, con
un'unica interrogazione e in tempo reale, la regolarità
contributiva di un'impresa o di un lavoratore autonomo nei
confronti di Inps, Inail e, solamente per quelle imprese
classificate o classificabili ai fini previdenziali nel
settore industria o artigianato alle attività edilizie,
anche nei confronti delle casse edili.
La verifica di
regolarità può essere fatta da chiunque vi abbia un
interesse, compresa l'impresa o il lavoratore autonomo
medesimi, semplicemente indicando il codice fiscale del
soggetto che si vuole controllare e l'indirizzo Pec al quale
ricevere le relative notizie.
Il Durc e la novità per le imprese edili.
S'inserisce qui la
prima novità del recente provvedimento, a firma dei ministri
del lavoro e di quello dell'economia.
La novità è questa: la verifica della regolarità
contributiva delle imprese non appartenenti al settore
dell'edilizia, finora svolta solo nei confronti dell'Inps e
dell'Inail, è estesa anche alle casse edili nella specifica
ipotesi in cui le predette imprese (come detto non
appartenenti all'edilizia) applicano il contratto collettivo
nazionale del settore dell'edilizia. La norma, in
particolare, stabilisce che l'estensione della verifica vale
«ai soli fini Durc, per le imprese che applicano il relativo
contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle
organizzazioni, per ciascuna parte, comparativamente più
rappresentative».
La regolarità contributiva.
Tornando alle norme generali, ma
quando un'impresa o un lavoratore autonomo possono dirsi in
regola? I requisiti comprovanti la «regolarità contributiva»
sono stabiliti dal dm 30.01.2015 (pubblicato sulla G.U.
n. 125/2015) modificato dal recente dm 23.02.2016.
La
regolarità, effettuata in tempo reale, riguarda i pagamenti
dovuti dall'impresa scaduti sino all'ultimo giorno del
secondo mese antecedente a quello in cui si
richiede/effettua la verifica, a condizione che sia scaduto
anche il termine di presentazione delle relative denunce
retributive. Tali pagamenti comprendono tutte le somme
dovute per contributi, per premi e accessori incluse, ad
esempio, le richieste a seguito di liquidazione di verbali
ispettivi, riclassificazioni e altri provvedimenti simili.
Le deroghe e le eccezioni.
La disciplina sulla regolarità
contributiva, tuttavia, non è così rigida come si presenta.
Infatti, è previsto che essa sussista anche in presenza di
uno scostamento, «non grave», tra le somme dovute e quelle
versate, con riferimento a ciascun ente coinvolto (Inps,
Inail e ciascuna cassa edile). Si considera «non grave» uno
scostamento contenuto in un'omissione pari o inferiore a
150,00 euro. Non è tutto; peraltro, infatti, la regolarità
sussiste anche in caso di:
a) rateizzazioni concesse dall'Inps, dall'Inail o dalle
casse edili ovvero dagli agenti della riscossione sulla base
di disposizioni di legge e/o dei rispettivi regolamenti;
b) sospensione dei pagamenti in forza di disposizioni
legislative;
c) crediti in fase amministrativa oggetto di compensazione
per la quale sia stato verificato il credito;
d) crediti in fase amministrativa in pendenza di contenzioso
amministrativo sino alla decisione che respinge il ricorso;
e) crediti in fase amministrativa in pendenza di contenzioso
giudiziario sino al passaggio in giudicato della sentenza
(salva l'ipotesi cui all'art. 24, comma 3, del dlgs n.
46/1999 e cioè quando l'accertamento effettuato dall'ufficio
sia impugnato davanti all'autorità giudiziaria, caso per il
quale l'iscrizione a ruolo è eseguita in presenza di
provvedimento esecutivo del giudice;
f) crediti affidati per il recupero agli agenti della
riscossione per i quali sia stata disposta la sospensione
della cartella di pagamento o dell'avviso di addebito a
seguito di ricorso giudiziario.
L'eccezione per le imprese in crisi.
E qui s'inserisce la
seconda novità recente provvedimento: stabilisce che, in
caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa
con esercizio provvisorio (artt. 104 e 206 del regio decreto
n. 267/1942), l'impresa si considera regolare in riferimento
agli obblighi contributivi nei confronti dell'Inps,
dell'Inail e delle casse edili che siano scaduti
anteriormente alla data di autorizzazione all'esercizio
provvisorio.
Parimenti nei casi di amministrazione
straordinaria (dlgs n. 270/1999 e legge n. 39/2004) e sempre
in riferimento ai debiti contributivi dell'Inps, dell'Inail
e delle casse edili scaduti anteriormente alla data del
decreto che fissa l'apertura della procedura.
Regolarità valida per 120 giorni.
Se, in base ai predetti
requisiti, il soggetto risulta in regola, l'esito positivo
della verifica avrà validità di 120 giorni dalla data
dell'interrogazione, cosa attesta da un documento in formato
.pdf denominato «Durc On Line».
Qualora non sia possibile attestare la regolarità
contributiva in tempo reale, l'Inps, l'Inail e le casse
edili trasmettono tramite Pec, all'interessato (impresa,
lavoratore autonomo ecc.) o al soggetto da esso delegato
l'invito a regolarizzare con indicazione analitica delle
cause di irregolarità rilevate da ciascuno degli enti tenuti
al controllo.
Per l'Inail l'invito a regolarizzare contiene anche la
richiesta di fornire ogni elemento utile per l'esito
positivo della verifica. L'interessato può regolarizzare la
propria posizione e/o fornire gli elementi utili richiesti
entro il termine di 15 giorni dalla notifica dell'invito.
L'invito a regolarizzare impedisce ulteriori verifiche e ha
effetto per tutte le interrogazioni intervenute durante il
predetto termine di 15 giorni e comunque per un periodo non
superiore a 30 giorni dall'interrogazione.
In caso di mancata regolarizzazione, e comunque entro trenta
giorni dall'interrogazione, una eventuale risultanza
negativa della verifica sarà comunicata ai soggetti che
hanno effettuato l'interrogazione con indicazione degli
importi a debito e delle cause di irregolarità (ipotesi di
Durc negativo)
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Spoils
system esasperato nella riforma della dirigenza p.a..
Spoils system esasperato con pochissimi lievi correttivi.
I
pareri sullo schema di decreto legislativo attuativo della
riforma della dirigenza (Atto
del Governo n. 328 - Schema di decreto
legislativo recante disciplina della dirigenza della
Repubblica) resi dalle Commissioni affari
costituzionali di camera e senato danno il via libera al
disegno di sostanziale precarizzazione e politicizzazione
della dirigenza, facendo proprie in modo per altro molto
superficiale solo poche delle critiche alla riforma mosse
dal Consiglio di stato, lasciando di fatto intatto la
struttura della riforma.
Che si intenda puntare sulle mani libere nell'incaricare i
dirigenti lo dimostrano alcune delle condizioni e
osservazioni poste dalle Commissioni. Ad esempio, quella
sulla «motivazione» relativa agli incarichi. Il parere
raccomanda al governo di prevedere, in ossequio ai principi
di trasparenza e imparzialità che «l'obbligo di motivazione
sia esteso ad ogni decisione relativa al rinnovo degli
incarichi».
Ma, il Consiglio di stato aveva chiesto la
specificazione delle ragioni soprattutto del mancato
rinnovo, dal momento che da questo evento discende la
collocazione dei dirigenti in disponibilità, col taglio
dello stipendio e l'avvio di un processo che può portare
alla ricollocazione forzata o al licenziamento.
A proposito dei dirigenti senza incarico, cardine
dell'operazione di spoils system, i pareri delle Commissioni
affari costituzionali provano a limare gli effetti della
vistosa precarizzazione dello status dei dirigenti,
invitando il governo a valutare «l'opportunità che le
commissioni per la dirigenza pubblica definiscano i criteri
per l'assegnazione d'ufficio a coloro che rimangono privi di
incarico, tenendo conto, ad esempio, del caso in cui gli
avvisi pubblici siano andati deserti o della priorità da
assegnare a incarichi posti nelle vicinanze territoriali
rispetto al procedente incarico».
Si tratterebbe di una previsione mirata a evitare che i
dirigenti rimasti senza incarico non per valutazione
negativa (paradossale effetto del complesso della riforma)
restino troppo inutilizzati e a carico della collettività.
Lo schema di regolamento assegna al dipartimento della
funzione pubblica il compito di ricollocare d'ufficio i
dirigenti in disponibilità senza demerito vicini ai 24 mesi
di sospensione dal lavoro, ma non prevede nessun criterio,
sicché palazzo Vidoni potrebbe ad esempio imporre il
trasferimento dal Piemonte alla Puglia e viceversa, in piena
contraddizione, per altro, con i criteri della mobilità
d'ufficio tra i quali rientra il raggio di non oltre 50 km.
Le commissioni invitano, quindi, il governo in primo luogo a
non attendere i 24 mesi ma ad attivare la ricollocazione
ogni volta che un interpello possa andare deserto, tenendo
conto, come appare inevitabile, della collocazione
territoriale.
La raccomandazione più mirata alla conservazione ed
esaltazione dello spoils system è quella secondo la quale il
testo del decreto andrebbe arricchito prevedendo che la
partecipazione alle procedure per il conferimento degli
incarichi dirigenziali a soggetti non appartenenti ai ruoli
della dirigenza dovrebbe essere «consentita anche ai
dirigenti appartenenti ai ruoli della dirigenza».
Si tratta
di un'indicazione oggettivamente strana. Per un verso,
infatti, essa non pone alcun limite al ricorso ai dirigenti
esterni e, in particolare, non esime dalla valutazione
dell'esistenza di dirigenti di ruolo dotati della necessaria
professionalità, che, invece, secondo il Consiglio di stato
risulta necessaria.
Per altro verso, il suggerimento della Commissione, se
ascoltato, comporterebbe l'effetto davvero irrazionale per
il quale potrebbero concorrere per un incarico extra ruolo
persone non inserite nel ruolo e dirigenti che ne fanno
parte, con conseguenze applicative e logiche paradossali.
Infatti, per un verso, la partecipazione dei dirigenti di
ruolo confermerebbe la sussistenza di professionalità
interne (a meno che i soggetti valutatori non dimostrino che
i dirigenti di ruolo siano tutti incapaci), sicché il
ricorso a soggetti esterni risulterebbe ancor meno
giustificabile.
Per altro verso, si mettono in concorrenza
contemporaneamente soggetti appartenenti al ruolo, che la
p.a. ha «certificato» avendoli inseriti a seguito di
concorsi pubblici, con altri soggetti che del ruolo non
fanno parte, vanificando la funzione stessa dei concorsi di
accertare le persone in possesso dei requisiti per svolgere
la funzione dirigenziale, ma soprattutto la funzione della
riforma come volta a creare un «mercato» dei dirigenti di
ruolo.
Se non si introducono i vincoli all'attivazione degli
incarichi esterni richiesti dal Consiglio di stato (la
dimostrazione dell'assenza di professionalità, quanto meno
nell'ambito delle risposte alle singole procedure di
interpello), la funzione dei ruoli viene sostanzialmente
vanificata o ridotta ad una cortina fumogena per coprire
l'arbitraria scelta di dirigenti esterni, nonostante la
creazione di una banca dati di circa 36 mila dirigenti di
ruolo
(articolo ItaliaOggi del 12.11.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Aiuti
per le bonifiche di amianto. Credito d’imposta del 50% sulle
spese sostenute per lo smaltimento.
Ambiente. Dal 16 novembre le imprese potranno prenotare
l’incentivo attraverso il sito del ministero.
Scatta mercoledì 16
novembre il termine a decorrere dal quale le imprese
potranno chiedere al ministero dell’Ambiente il credito
d’imposta pari al 50% delle spese sostenute per le bonifiche
di amianto effettuate nel 2016, come previsto dal Dm 15.06.2016.
I dati del Rapporto Ispra sui rifiuti speciali 2015 indicano
una produzione di rifiuti contenenti amianti (Rca) pari a
340mila tonnellate di cui il 92,7% è dato da materiali da
costruzione contenenti amianto. Rispetto al 2012, il trend
appare in diminuzione (-36%). Tuttavia, poiché non esiste un
censimento delle strutture contenenti amianto, il dato
potrebbe anche riflettere una dispersione dei rifiuti. Il
nuovo incentivo, però, può sicuramente aiutare la gestione
legittima degli Rca derivanti da bonifica di amianto.
L’investimento nella bonifica dei beni e delle aree
contenenti amianto non può essere inferiore a 20.000 euro e
sono agevolate le spese per la rimozione e lo smaltimento
dell’amianto presente in coperture e manufatti di beni e
strutture produttive.
L’agevolazione, prevista dall’articolo 56, legge “green
economy” (n. 221/2015), trova il suo modulo organizzativo nel
Dm 15.06.2016 che, in vigore dal 17 ottobre, individua:
tipologie di interventi ammissibili; modalità e termini per
la concessione del beneficio; disposizioni per il rispetto
del limite massimo di spesa; determinazione dei casi di
revoca e decadenza;
procedure di recupero in casi di utilizzo illegittimo del
beneficio. Questo è alternativo e non cumulabile, per le
medesime voci di spesa, con ogni altra agevolazione
nazionale, regionale o comunitaria.
Il credito d’imposta è previsto a beneficio dei soggetti
titolari di reddito d’impresa che effettuano interventi di
bonifica dall’amianto, su beni e strutture produttive
ubicate in Italia, dal 01.01.2016 al 31.12.2016.
Natura giuridica, dimensioni aziendali e regime contabile
sono ininfluenti.
Sono ammesse le spese per la rimozione e lo smaltimento,
anche previo trattamento in impianti autorizzati, di lastre
di amianto piane o ondulate; coperture in eternit;
tubi, canalizzazioni e contenitori per il trasporto e lo
stoccaggio di fluidi, ad uso civile e industriale in
amianto; sistemi di coibentazione industriale in amianto.
Il credito d’imposta è riconosciuto nella misura del 50% di
quanto sostenuto per gli interventi ammessi ed effettuati
dal 01.01.2016 al 31.12.2016.
Per evitare di incorrere nei problemi relativi agli aiuti di
Stato, il beneficio è concesso nel rispetto dei limiti di
cui al regolamento (Ue) 1407/2013 relativo all’applicazione
degli articolo 107 e 108 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione agli aiuti “de minimis”. La spesa complessiva
sostenuta per ciascun progetto di bonifica, unitariamente
considerato, non può essere inferiore a 20.000 euro.
I costi ammessi sono limitati a 400.000 euro per ciascuna
impresa.
---------------
Conta l’ordine di presentazione. La
procedura. Lo stanziamento complessivo è pari a 17milioni di
euro.
Dal 16.11.2016
al 31.03.2017 le imprese possono presentare domanda al
ministero dell’Ambiente mediante accesso alla piattaforma
informatica sul sito www.minambiente.it. La domanda va
firmata dal legale rappresentante e indica il costo
complessivo degli interventi;
l’ammontare delle singole spese eleggibili e del credito
d’imposta richiesto; il mancato fruire di altre agevolazioni
per le medesime voci di spesa.
A pena di esclusione, la domanda va corredata da:
-
piano di lavoro del progetto di bonifica unitariamente
considerato presentato all’Asl competente; comunicazione
alla Asl di avvenuta ultimazione dei lavori/attività di cui
al piano di lavori già approvato comprensiva della
documentazione attestante l’avvenuto smaltimento in
discarica autorizzata e, nel caso di amianto friabile in
ambienti confinati, anche la certificazione di
restituibilità degli ambienti bonificati redatta da Asl;
-
l’attestazione dell’effettività delle spese sostenute;
-
la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà per gli
altri aiuti “de minimis” eventualmente fruiti durante
l’esercizio finanziario in corso e nei due precedenti.
Il credito d’imposta è riconosciuto previa verifica da parte
del ministero dell’ammissibilità in ordine al rispetto dei
requisiti previsti, secondo l’ordine di presentazione delle
domande e sino all’esaurimento del limite di spesa pari a 17
milioni.
Entro 90 giorni dalla data di presentazione delle domande il
ministero comunica all’impresa il riconoscimento o il
diniego del beneficio e, nel primo caso, l’importo
spettante.
Il credito d’imposta è ripartito e utilizzato in tre quote
annuali di pari importo ed è indicato nella dichiarazione
dei redditi relativa al periodo di imposta di riconoscimento
del credito e nelle dichiarazioni dei redditi relative ai
periodi di imposta successivi fino a quello nel corso del
quale se ne conclude l’utilizzo, a decorrere dalla
dichiarazione relativa al periodo di imposta in corso al 31.12.2016. La prima quota è utilizzabile a decorrere dal
01.01.2017.
L’agevolazione viene revocata se: viene accertata
l’insussistenza di uno dei requisiti previsti e la falsità
delle dichiarazioni rese; la documentazione presentata
contiene elementi non veritieri.
In tali casi, sono fatte salve le eventuali conseguenze di
legge civile, penale e amministrativa e, in ogni caso, si
provvede al recupero del beneficio indebitamente fruito
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
edilizi a lungo respiro.
Ristrutturazione edilizia e bonus sul risparmio energetico
con proroga a tutto il 2017. Confermata la misura del 50%
per gli interventi di recupero edilizio e del 65% per la
riqualificazione energetica, con l'aggiunta di detrazioni
maggiorate per gli interventi finalizzati all'adozione di
misure antisismiche.
Queste, in pillole, le principali disposizioni inserite nel
dl della legge di Bilancio 2017 riguardanti gli interventi
di ristrutturazione e di risparmio energetico per i futuri
periodi d'imposta (si arriva sino al 31/12/2021).
Com'è
noto, le detrazioni indicate sono state inserite, a regime,
nell'art. 16-bis, dpr 917/1986 (Tuir) grazie all'intervento
che il legislatore tributario ha fatto con il dl 201/2011,
in vigore a partire dal gennaio successivo (2012). Le
disposizioni hanno subito numerose modifiche e integrazioni
(dl 83/2012, dl 63/2013 e Stabilità 2016) sino alle
ulteriori previsioni inserite nella bozza di ddl della legge
di Bilancio per il 2017, con la conferma della detrazione
Irpef per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio
nella misura del 50%, per le spese sostenute nel corso del
2017, e la detrazione, nella misura del 65%, per le spese
destinate al risparmio energetico, tenendo conto dei tetti
per tipologia.
Sulla base di quanto indicato nella manovra
2017, peraltro, non viene prorogata la detrazione sulle
spese destinate alla installazione e messa in opera di
dispositivi multimediali per il controllo in remoto degli
impianti di riscaldamento e/o di produzione dell'acqua
calda, come introdotti dalla legge di Stabilità per il 2016.
Si conferma la detrazione anche per gli interventi
condominiali di riqualificazione energetica sino al
31/12/2021, con differente maggiorazione (70 e/o 75%) se i
detti interventi interessano l'involucro edilizio con
un'incidenza superiore al 25% della superficie disperdente
lorda (70%) o se gli interventi sono destinati al
miglioramento della prestazione invernale e/o estiva e
raggiungono la qualità media prevista dal provvedimento del
ministero dello sviluppo economico del 26/06/2015 (75%); la
spesa ha un limite a 40 mila euro e la stessa può essere
ceduta a coloro che hanno eseguito gli interventi (restano
escluse banche e intermediari finanziari), con ulteriore
possibilità di cedere il credito a terzi.
Infine, fin troppo
interessanti i bonus riferibili agli interventi antisismici
che la legge di Stabilità 2016 aveva già previsto per le
costruzioni collocate in aree sismiche ad alta pericolosità
(classificabili in aree 1 e 2 su una scala di 4), a
destinazione abitativa e/o ad attività produttive nella
misura del 65%.
La manovra 2017, in effetti, proroga sino al
31/12/2017 la detrazione generale per gli interventi
relativi all'adozione di misure antisismiche, di cui alla
lettera i), comma 1, art. 16-bis del Tuir e proroga sino al
2021, quindi per cinque anni, la detrazione delle spese per
interventi di adozione di misure antisismiche su tutte le
tipologie di costruzione (abitative e destinate alle
attività produttive), collocate nelle zone ad alta
pericolosità (classificati in aree 1, 2 e 3), riducendo la
detrazione al 50% da ripartire in cinque anni ma innalzando
di nuovo, rispettivamente al 70%, per gli interventi che
permettono di ridurre la classe di pericolo di una posizione
nella scala di determinazione del rischio, e all'80% per gli
interventi che permettono di ridurre la classe di pericolo
di due posizioni nella medesima scala, con ulteriore
maggiorazione del 5% se i lavori si riferiscono a parti in
comune di edifici condominiali, confermandosi il tetto di
spesa a 96 mila euro per unità immobiliare.
Sul punto sarà emanato un provvedimento del dicastero delle
infrastrutture e dei trasporti che indichi le linee guida
per la classificazione del rischio sismico degli edifici e
le modalità di attestazione dell'efficacia degli interventi
eseguiti da parte dei professionisti incaricati
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Gare
di progettazione per sole Stp costituite da professionisti.
Possono partecipare alle gare di ingegneria e di
architettura solo le Stp (cosiddette società tra
professionisti) costituite tra soli professionisti, iscritti
negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti
professionali. Nell'atto costitutivo delle Stp dovrà inoltre
essere indicato l'organigramma
aggiornato comprendente
i soci, gli amministratori,
i dipendenti e i consulenti
direttamente impiegati nello
svolgimento di funzioni
professionali e tecniche e di
controllo della qualità.
Tutto
questo lo prevede lo schema
di decreto del ministero delle
Infrastrutture, attuativo del codice degli appalti (articolo
24,
2 e 5 comma, del dlgs n. 501 2016)
che ha definito i requisiti per la partecipazione
degli operatori economici
e dei giovani professionisti, in forma
singola o associata, nei gruppi concorrenti
ai bandi relativi a incarichi di
progettazione (...continua)
(articolo ItaliaOggi dell'08.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
attesa della Scia unica titoli edilizi su sei livelli. Dal
1° gennaio protocollazione con la data di presentazione.
Semplificazione. Un Dm definirà gli schemi standard da
utilizzare in tutta Italia.
Anche per la
segnalazione certificata di inizio attività (Scia) tutte le
imprese e i cittadini degli oltre 8mila Comuni italiani
potranno presentare gli stessi moduli e allegare la stessa
documentazione. Indubbiamente una semplificazione, che però
diventerà operativa solo con il varo del decreto di adozione
dei moduli standard da parte del ministero della
Semplificazione, in attuazione del Dlgs 126 del 30.06.2016, (il cosiddetto decreto “Scia1”).
Nel frattempo. entro il 01.01.2017, i Comuni e le altre
amministrazioni devono attrezzarsi per il rilascio di una
ricevuta (anche telematica) contestuale alla presentazione
della Scia (o di un’altra istanza). E la data di
protocollazione deve coincidere con quella di rilascio della
ricevuta (e di presentazione dell’istanza).
Il decreto Scia1
L’articolo 5 della legge 124/2015, sulla riorganizzazione
della Pa delegava il Governo a individuare con precisione le
attività private per le quali è sufficiente la Scia oppure
opera il silenzio assenso, quelle che richiedono
un’autorizzazione e la disciplina generale applicabile ai
procedimenti delle attività assoggettate a Scia.
Una volta che tutti i decreti legislativi saranno emanati,
tutte le attività per le quali non è indicato il
procedimento da seguire potranno essere svolte liberamente .
Per ora, il Dlgs 126 definisce gli adempimenti che la Pa
deve mettere in campo per facilitare i cittadini e le
imprese che devono presentare una Scia (nei diversi
settori), dando loro certezze sulla documentazione da
allegare e sulle eventuali altre informazioni che possono
essere richieste.
I moduli standard
In attuazione del Dlgs 126/2016, il ministero per la
Semplificazione e quello competente per materia dovrà ora
emanare il decreto con i moduli standard che dovranno essere
adottati in ogni Comune, dal Brennero a Pantelleria. Prima
dell’approvazione, il decreto verrà sottoposto al vaglio
della conferenza unificata.
Quando il Dm sarà operativo, i Comuni dovranno pubblicare
sui loro siti i moduli standard da utilizzare per presentare
agli uffici comunali e regionali segnalazioni, comunicazioni
o istanze relative alla realizzazione di interventi edilizi
e all’avvio di attività produttive. In caso di inadempienza
è previsto l’intervento sostitutivo delle Regioni o, in
ultima istanza, dello Stato.
La situazione attuale
In attesa della definizione e del varo dei moduli standard,
gli operatori devono confrontarsi con un quadro composito e
articolato su sei “livelli” (si veda il grafico).
I Comuni dovranno pubblicare sui propri siti l’elenco della
documentazione da allegare alla segnalazione, specificando,
però, la norma che ne giustifica la richiesta.
Una volta che sul sito è stato pubblicato il modulo da
compilare e la lista di documenti, il Comune non potrà più
chiedere altri documenti, ma solo integrazioni se quelli
presentati sono incompleti.
Se chiede informazioni e documenti diversi da quelli
pubblicati sul sito, il funzionario responsabile del
procedimento può essere accusato di illecito disciplinare e
rischia la sospensione dal servizio e dallo stipendio da tre
giorni a sei mesi. Non possono essere richiesti documenti
già in possesso di un’amministrazione pubblica.
Il responsabile del procedimento deve anche stare attento a
non fare decorrere il termine per interrompere i lavori nel
caso in cui dall’esame della pratica risultino eseguiti in
difformità dalle norme vigenti.
La protocollazione
Per accrescere la trasparenza dell’attività della pubblica
amministrazione e per dare ai privati e alle imprese
certezza sulla tempistica, è stato introdotto un nuovo
articolo 18-bis della legge 241/1990 sull’ordinamento degli
enti locali. La data della protocollazione di una Scia o
un’altra istanza deve essere quella nella quale viene
presentata, anche se nell’immediato l’amministrazione
interessata può rilasciare solo una ricevuta (anche per via
telematica). Ma già quell’attestato deve indicare i tempi
entro cui l’amministrazione deve, se tenuta, rispondere, o
entro cui scatta il silenzio assenso e l’istanza può
ritenersi accettata (articolo Il Sole 24 Ore del 07.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Contabilizzatori,
installazione anche in autonomia. La
scadenza. Per sfuggire alle sanzioni.
Negli edifici che -obbligati alla contabilizzazione- non si è ancora
provveduto ai lavori di installazione scegliendo un’unica
ditta per le varie unità immobiliari, il condòmino, dopo le
ferie di agosto, si è ritrovato a essere formalmente il
destinatario degli obblighi di “installazione”.
Lo stesso
vale per le sanzioni (da 500 a 2.500 euro) che, in caso di
controllo da inizio 2017, gli verranno comminate per la
mancata installazione di sotto-contatori (negli impianti
orizzontali) o di contabilizzatori e termovalvole su ogni
radiatore (negli impianti verticali). Dove sono già accesi
gli impianti (al Nord), è ormai impossibile (o estremamente
difficile) intervenire tecnicamente sugli impianti; qualche
speranza in più di farcela vi è dove l’accensione avverrà a
metà novembre o al primo dicembre, a seconda delle fasce
climatiche di legge.
Poiché la normativa non definisce i poteri ed il ruolo di
assemblea condominiale e amministratore per quanto riguarda
le installazioni di contabilizzatori e termovalvole nella
singola unità immobiliare, mentre prevede chiaramente
l’obbligo di installazione a carico del singolo
proprietario, molti proprietari -in mancanza di un
(auspicabile) intervento a livello condominiale- potrebbero
valutare di fare installare direttamente e autonomamente,
entro fine anno, nella propria unità immobiliare contabilizzatori e termovalvole omologate (possibilmente
dello stesso modello).
Questo, per tentare di evitare le sanzioni individuali a
proprio carico, irrogabili dalle Regioni e Province autonome
di Trento e Bolzano competenti per territorio o Enti da esse
delegati (come la Arpa), in caso di controlli dal 2017,
chiedendo poi all’esecutore dei lavori di inviare apposita
comunicazione liberatoria all’Ente pubblico ed
all’amministratore, demandando al gestore dell’impianto
taratura ed allineamento dei contabilizzatori e
bilanciamento dell’impianto.
Si è sempre ragionato di contabilizzazione come di un
intervento condominiale, non solo per adeguamenti e lavori
in centrale termica e per nuovi criteri di riparto della
spesa, ma anche per le installazioni nelle singole unità;
ora la questione è aperta, stante la nuova formulazione
della normativa e il fatto che molti edifici condominiali
non riusciranno ad adeguarsi con delibere e lavori entro
fine anno, spesso anche per difficoltà delle ditte a far
fronte agli incarichi (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Esclusione del concorrente dalla gara per essere stato
destinatario di una sanzione dell’Agcm per intesa
restrittiva della concorrenza.
---------------
Gara – Esclusione per gravi illeciti
professionali - Art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 80 del
2016 – Discrezionalità della stazione appaltante – Limiti.
Gara – Esclusione per gravi illeciti professionali - Art.
80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 80 del 2016 – Sanzione Agcm
per intesa restrittiva della concorrenza – Non rientra nella
“altre sanzioni” – Ratio.
Gara – Esclusione per gravi illeciti professionali - Art.
80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 80 del 2016 – Automaticità
– Esclusione.
●
La discrezionalità rimessa alla stazione appaltante dalla
lett. c) del comma 5 dell’art. 80, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
–secondo cui deve essere disposta l’esclusione dalla gara
della concorrente ove la stazione appaltante dimostri con
mezzi adeguati che essa si è resa colpevole di gravi
illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua
integrità o affidabilità– attiene non all’individuazione
delle fattispecie espulsive –che senz’altro compete al
legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una
elencazione da considerare tassativa– bensì alla
riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta,
siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti
giuridici indeterminati (1).
●
La sanzione, irrogata ad un operatore economico
dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per la
realizzazione di una intesa restrittiva della concorrenza in
occasione di una gara Consip, non può essere astrattamente
ricondotta all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
18.04.2016, n. 50, nella parte in cui fa riferimento ad
“altre sanzioni” tra le conseguenze che possono derivare
dalla violazione dei doveri professionali e, segnatamente,
dalle “significative carenze nell’esecuzione di un
precedente contratto di appalto o di concessione” (2).
●
L’art. 80, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, che disciplina le
ipotesi di esclusione dalla gara degli operatori economici,
sembra escludere, in termini tendenziali, ogni forma di
automatismo derivante dalla perpetrazione delle condotte in
grado di incidere sulla moralità professionale,
contemplando, in maniera innovativa rispetto all’art. 38,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, un meccanismo per così dire
riabilitativo (cosiddetto self cleaning), in base al quale,
come disposto dal successivo comma 7 dello stesso art. 80,
“Un operatore economico, o un subappaltatore, che si trovi
in una delle situazioni di cui al comma 1, limitatamente
alle ipotesi in cui la sentenza definitiva abbia imposto una
pena detentiva non superiore a 18 mesi ovvero abbia
riconosciuto l’attenuante della collaborazione come definita
per le singole fattispecie di reato, o al comma 5, è ammesso
a provare di aver risarcito o di essersi impegnato a
risarcire qualunque danno causato dal reato o dall’illecito
e di aver adottato provvedimenti concreti di carattere
tecnico, organizzativo e relativi al personale idonei a
prevenire ulteriori reati o illeciti”.
---------------
(1) Ha
chiarito il Tar che la ratio della norma di cui
all’art. 80 del nuovo Codice dei contratti, che detta
disposizioni relative ai casi di esclusione del concorrente
dalla gara pubblica, risiede nell’esigenza di verificare
l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore
economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a
tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che
quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di
affidabilità morale e professionale.
Il citato art. 80 ripropone il contenuto dell’art. 38,
d.lgs. 12.04.2006, n 163, apportando però significative
modifiche al testo originario anche per quanto attiene al
più specifico ambito dei comportamenti incidenti sulla
moralità professionale delle imprese concorrenti. L’art. 38
presentava, infatti, la seguente diversa formulazione: “…secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara; o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio
della loro attività professionale, accertato con qualsiasi
mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
Ha chiarito il Tar che la diversità del tratto testuale
dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 non è tale da escludere
una precisa linea di continuità tra le due previsioni,
atteso che persiste in capo alla Stazione appaltante un
coefficiente di discrezionalità (cosiddetta monobasica), il
cui esercizio comporta l’esatta riconduzione della
fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito
professionale) a quella concretamente palesatasi nella
singola gara.
Il quadro normativo che connota l’ampia tematica dei
requisiti di ordine generale è storicamente caratterizzato
da profili di discrezionalità delle stazioni appaltanti,
ancorché collocati nella fase nevralgica delle
ammissioni/esclusioni dalla gara, che affondano le loro
radici nella stessa disciplina comunitaria, anch’essa
incline a configurare, sia pure entro certi limiti,
diaframmi di discrezionalità in capo alle amministrazioni
giudicatrici, segnatamente nelle ipotesi di cosiddetta
esclusione discrezionale dalla gara.
Ha aggiunto il Tribunale che il conferimento alle stazioni
appaltanti di un diaframma di discrezionalità in sede
applicativa affiora, pur in mancanza di una formulazione
della norma di segno univoco come quella contenuta nel
previgente Codice appalti (laddove si discorreva di “motivata
valutazione”), da quanto statuito a proposito della
consacrata necessità di dare “dimostrazione con mezzi
adeguati” della sussistenza della fattispecie espulsiva,
nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”, “gravi”)
e dalla omessa precisa elencazione di ipotesi escludenti,
che il legislatore infatti si limita ad individuare a fini
meramente esemplificativi.
(2) Ha
ricordato il Tar che, come precisato nel parere n. 2286 del
03.11.2016, reso dalla Commissione speciale del Consiglio di
Stato sullo schema delle Linee guida Anac “indicazione
dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione
di un precedente contratto di appalto che possano
considerarsi significative per la dimostrazione delle
circostanze di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett.
c), del Codice”, “possono essere considerate come
‘altre sanzioni’, l’incameramento delle garanzie di
esecuzione o l’applicazione di penali, fermo che la sola
applicazione di una clausola penale non è di per sé sintomo
di grave illecito professionale, specie nel caso di
applicazione di penali in misura modesta”.
La stessa Commissione speciale ha ancora evidenziato che la
previsione di cui all’art. 80 ha una portata molto più ampia
in quanto, da un lato, non si opera alcuna distinzione tra
precedenti rapporti contrattuali con la medesima o con
diversa stazione appaltante, e, dall’altro lato, non si fa
riferimento solo alla negligenza o errore professionale, ma,
più in generale, all’illecito professionale, che abbraccia
molteplici fattispecie, anche diverse dall’errore o
negligenza, e include condotte che intervengono non solo in
fase di esecuzione contrattuale, come si riteneva nella
disciplina previgente, ma anche in fase di gara (le false
informazioni, l’omissione di informazioni, il tentativo di
influenzare il processo decisionale della stazione
appaltante).
Ad avviso del Tar Salerno in tale ventaglio di ipotesi non
possono tuttavia rientrare anche i comportamenti
anti-concorrenziali, in quanto di per sé estranei al novero
delle fattispecie ritenute rilevanti dal legislatore, in
attuazione peraltro di una precisa scelta, se si pensi che
non sono state riprodotte, nell’àmbito del vigente
ordinamento nazionale, le ipotesi di cui alla lett. d) della
direttiva 2014/24, relativa agli accordi intesi a falsare la
concorrenza.
Ha aggiunto il Tribunale che la lett. c) del comma 5
dell’art. 80 non si presta ad una interpretazione estensiva
o analogica, in quanto risulterebbe in contrasto con le
esigenze di favor partecipationis che ispirano
l’ordinamento in subiecta materia.
In conclusione, l’ampia e generica dicitura della norma non
consente di includere nello spettro applicativo della stessa
anche il provvedimento sanzionatorio posto a base
dell’avversata determinazione, avendo il legislatore
ricollegato le “altre sanzioni” a comportamenti
inadempienti che alcuna attinenza hanno con quelli lesivi
della concorrenza.
L’irrogazione di una sanzione da parte dell’Authorithy
Antitrust non può quindi consolidare alcuna fattispecie
escludente di conio normativo e pertanto si configura la
lamentata violazione del principio di tassatività delle
cause di esclusione (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 02.01.2017 n. 10 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Anomalia dell’offerta e costo del personale.
---------------
Gara – Offerta anomala – Costo del
lavoro – Art. 97, comma 5, lett. d, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Disposizione erroneamente formulata – Ratio –
Individuazione.
Gara – Offerta anomala – Costo del lavoro – Costi medi della
manodopera – Tabelle ministeriali – Parametro inderogabile –
Nuovo Codice dei contratti pubblici - Esclusione.
Gara – Offerta anomala – Costo del lavoro – Offerta
economica giustificata con riferimento al ricorso al lavoro
supplementare - Illegittimità – Ratio.
●
La disposizione dettata
dall’art. 97, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 in tema di
valutazione della anomalia dell’offerta presentata in sede
di gara pubblica appare erroneamente formulata laddove, alla
lett. d) del comma 5, afferma che l’offerta è anormalmente
bassa e, quindi, deve essere esclusa, quando “il costo del
personale è inferiore ai minimi salariali retributivi
indicati nelle apposite tabelle” di cui all’art. 23, comma
16, dello stesso Codice dei contratti pubblici; dette
tabelle, infatti, non sono altro che quelle già previste,
con disposizione perfettamente sovrapponibile, dall’art. 86,
comma 3-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che ha individuato
la modalità di determinazione del costo del lavoro con
riferimento alle tabelle del Ministero del lavoro (1).
●
In tema di valutazione
della anomalia dell’offerta anche nella vigenza del nuovo
Codice dei contratti pubblici vige il principio secondo cui
i costi medi della manodopera, indicati nelle tabelle
ministeriali, non assumono valore di parametro assoluto ed
inderogabile, ma svolgono una funzione indicativa,
suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni
statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una
particolare organizzazione in grado di giustificare la
sostenibilità di costi inferiori; esprimendo solo una
funzione di parametro di riferimento è allora possibile
discostarsi da tali costi, in sede di giustificazioni
dell'anomalia, sulla scorta di una dimostrazione puntuale e
rigorosa.
●
In sede di valutazione
della anomalia dell’offerta illegittimamente la commissione
di gara ha reputato congrua l’offerta economica del
concorrente giustificata, per una parte rilevante,
attraverso il ricorso al lavoro supplementare, trattandosi
di un elemento aleatorio, ben diverso dal lavoro
straordinario (2).
---------------
(1) Ha
ricordato il Tar che il comma 3 bis dell’art. 86, d.lgs.
12.04.2006, n. 163 ha previsto che “il costo del lavoro è
determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal
Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base
dei valori economici previsti dalla contrattazione
collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed
assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle
differenti aree territoriali. In mancanza di contratto
collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in
relazione al contratto collettivo del settore merceologico
più vicino a quello preso in considerazione”.
Ebbene, le tabelle ministeriali, predisposte sulla base dei
valori economici dalla norma elencati, stabiliscono il costo
medio orario del lavoro, che è cosa ben diversa dal
trattamento minimo salariale stabilito dalla legge o dalla
contrattazione collettiva, al quale solo si riferisce la
previsione d’inderogabilità di cui all’art. 97, comma 6,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (secondo cui “non sono ammesse
giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi
inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate
dalla legge ….”) e all’art. 87, comma 3, d.lgs. n. 163
del 2006 (secondo cui “Non sono ammesse giustificazioni
in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili
stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge").
D'altra parte, ad avvalorare il rilievo mosso in sentenza
alla formulazione dell'art. 97, comma 5, lett. d, d.lgs. n.
50 del 2016 è la stessa norma dell'art. 23, comma 16, d.lgs.
n. 50 cit., puntualmente richiamata dal Tar Lazio, che, nel
definire il contenuto delle tabelle ministeriali, senza
nulla innovare rispetto alla pregressa formulazione
dell'art. 86, comma 3-bis, ultima parte, d.lgs. n. 163 del
2006, conferma che "Il costo del lavoro è determinato
annualmente, in apposite tabelle, dal Ministero del lavoro e
delle politiche sociali sulla base dei valori economici
definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le
organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di
lavoro comparativamente più rappresentativi, delle norme in
materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori
merceologici e delle differenti aree territoriali. In
mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del
lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo
del settore merceologico più vicino a quello preso in
considerazione."
Il costo del lavoro dalle tabelle indicato risulta essere,
dunque, il “costo medio orario del lavoro”, e non "i
minimi salariali retributivi", come affermato nella
norma di cui all'art. 97, comma 5, lett. d, d.lgs. n. 50 del
2016.
(2) Ha
chiarito il Tar che il lavoro supplementare è, ai sensi del
comma 1 dell’art. 6, d.lgs. 15.06.2015, n. 81, il lavoro
svolto oltre l'orario concordato fra le parti nell’ambito di
un contratto di part-time, anche in relazione alle giornate,
alle settimane o ai mesi.
Ha peraltro rilevato il Tribunale che nonostante le
modifiche apportate alla sua disciplina dal d.lgs. n. 81 del
2015, permane la differenza rispetto al lavoro
straordinario: mentre il lavoro straordinario può essere
imposto al lavoratore, il lavoro supplementare può essere
richiesto al lavoratore “in misura non superiore al 25%
delle ore di lavoro settimanali concordate. In tale ipotesi,
il lavoratore può rifiutare lo svolgimento del lavoro
supplementare ove giustificato da comprovate esigenze
lavorative, di salute, familiari o di formazione
professionale” (art. 6, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2015).
Sulla base dell’art. 33, CCNL Multiservizi, attualmente
vigente, “L’eventuale rifiuto del lavoratore allo
svolgimento di ore supplementari non integra gli estremi del
giustificato motivo di licenziamento né l’adozione di
provvedimenti disciplinari”.
Poiché dunque il lavoratore part-time può rifiutare lo
svolgimento di lavoro supplementare, è aleatoria la previa
quantificazione delle relative ore da parte del datore di
lavoro e, conseguentemente, affetto da un evidente errore di
fatto il giudizio di affidabilità dell’offerta espresso
dalla commissione, laddove appare aver considerato il lavoro
supplementare alla medesima stregua del lavoro straordinario
(TAR Lazio-Roma,
Sez. I-ter,
sentenza 30.12.2016 n. 12873 - commento tratto da
e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Omessa indicazione della terna di subappaltatori e soccorso
istruttorio a pagamento.
---------------
Gara – Subappalto – Indicazione terna
subappaltatori – Obbligo ex art. 105, comma 6, del nuovo
Codice dei contratti – Omissione – Soccorso istruttorio
oneroso ex art. 83, comma 9, del nuovo Codice – Possibilità.
Ai sensi dell’art. 105, comma 6, del nuovo Codice dei
contratti pubblici, non deve essere esclusa dalla gara
l’impresa che ha indicato nell’offerta di volersi avvalere
del subappalto ma che, in violazione della disciplina
introdotta dal Codice, non ha indicato una terna di
subappaltatori, trattandosi di irregolarità essenziale ma
sanabile con il c.d. soccorsi istruttorio oneroso ex art.
83, comma 9, dello stesso Codice (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che nella vigenza della disciplina
dettata dal “vecchio” Codice degli appalti (d.lgs.
12.04.2006, n. 163) l’Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici (AVCP e, in seguito, ANAC) aveva ripetutamente
affermato (determinazione ANAC n. 1 dell’08.01.2015,
paragrafo 2.3 punto 3; parere ANAC n. 11 del 30.01.2014;
determinazione AVCP n. 4 del 10.10.2012, paragrafo 8) il
principio dell’obbligatorietà della sola indicazione delle
lavorazioni che si intendono affidare in subappalto e
contestualmente escluso la cogenza dell’indicazione
nominativa del subappaltatore.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 02.11.2015, n. 9
ha poi chiarito che “le autorità istituzionalmente
provviste di competenza in ordine alla vigilanza sulla
corretta amministrazione delle procedure di affidamento
degli appalti pubblici hanno costantemente espresso l’avviso
della doverosità della sola indicazione delle lavorazioni da
subappaltare (e non anche del nome dell’impresa
subappaltatrice), validando gli schemi dei bandi
confezionati in coerenza a tale regola ed ingenerando,
perciò, un significativo affidamento circa la legittimità
del relativo modus procedendi”.
Ha aggiunto il Consiglio di Stato che “Le direttive in
materia di appalti pubblici hanno, infatti, rimesso alla
discrezionale scelta degli Stati membri o, comunque, delle
stazioni appaltanti l’opzione regolatoria attinente alla
doverosità dell’indicazione del nome del subappaltatore, ai
fini della partecipazione alla gara, astenendosi, quindi,
dall’imporre una qualsivoglia soluzione alla pertinente
questione”.
Ha aggiunto il Tar che il nuovo Codice dei contratti ha
disciplinato la materia del subappalto all’art. 105, il cui
comma 6 ha previsto che “E' obbligatoria l'indicazione
della terna di subappaltatori, qualora gli appalti di
lavori, servizi o forniture siano di importo pari o
superiore alle soglie di cui all'art. 35 e per i quali non
sia necessaria una particolare specializzazione. In tal caso
il bando o avviso con cui si indice la gara prevedono tale
obbligo. Nel bando o nell'avviso la stazione appaltante può
prevedere ulteriori casi in cui è obbligatoria l'indicazione
della terna anche sotto le soglie di cui all'art. 35”.
Il Consiglio di Stato, Comm. spec., 03.11.2016, n. 2286, nel
pronunciarsi sulle Linee guida ANAC (sull'indicazione dei
mezzi di prova adeguati e delle carenze nell'esecuzione di
un precedente contratto di appalto che possano considerarsi
significative per la dimostrazione delle circostanze di
esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c, del
Codice), ha richiamato sia l’art. 105, comma 6, del Codice
come disposizione che impone di enucleare sin dalla gara una
terna di nomi di subappaltatori –in deroga alla regola
generale secondo cui tali nomi non vanno indicati nel corso
della selezione, essendo sufficiente l’identificazione delle
prestazioni che l’impresa intende subappaltare, con facoltà
di deposito dei relativi contratti prima dell’inizio
dell’esecuzione– sia l’art. 80, commi 1 e 5, i quali
prevedono che le cause di esclusione ivi contemplate
determinano l’esclusione del concorrente principale anche se
riferite al subappaltatore.
Ha quindi affermato il Tar Brescia che conformemente
all’art. 83, comma 9, del nuovo Codice dei contratti
l’esclusione dalla gara del concorrente che abbia compiuto
omissioni nelle dichiarazioni rese è limitata ai soli casi
di irregolarità insanabili, individuate con le “carenze
della documentazione che non consentono l’individuazione del
contenuto o del soggetto responsabile della stessa”.
Il comma 9 del citato art. 83, al secondo alinea ha previsto
che “In particolare, la mancanza, l'incompletezza e ogni
altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento
di gara unico europeo di cui all'art. 85, con esclusione di
quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica, obbliga
il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore
della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno
per mille e non superiore all'uno per cento del valore della
gara e comunque non superiore a 5.000 euro. In tal caso, la
stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non
superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o
regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il
contenuto e i soggetti che le devono rendere, da presentare
contestualmente al documento comprovante l'avvenuto
pagamento della sanzione, a pena di esclusione. La sanzione
è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione. Nei
casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o
incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione
appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la
procedura di cui al periodo precedente, ma non applica
alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di
regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara …”.
L’ultimo alinea del comma 9 del citato art. 83 ha quindi
disposto che “Costituiscono irregolarità essenziali non
sanabili le carenze della documentazione che non consentono
l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile
della stessa”.
Tutto ciò chiarito, il Tar ha concluso che legittimamente è
stato attivato il meccanismo del soccorso istruttorio c.d.
oneroso, ritenendo l’irregolarità di natura formale ed
emendabile, seppur soggetta a sanzione pecuniaria.
L’impostazione predetta è avvalorata dalla possibilità di
sanare le lacune del contratto di avvalimento, istituto che
permette di integrare i requisiti di ammissione alla gara
mediante il ricorso a un operatore che assume una
responsabilità verso il committente (mentre il subappalto è
una modalità esecutiva della prestazione mediante
affidamenti di parti di essa a terzi, i quali intervengono
nella fase esecutiva e il soggetto responsabile è unicamente
l’appaltatore).
Se, dunque, sono consentite specificazioni e integrazioni
sul rapporto instaurato con l’impresa ausiliaria, a maggior
ragione si devono ammettere delucidazioni e chiarimenti sui
soggetti subappaltatori (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.12.2016 n. 1790 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E’ vero che un’attività collegiale dà luogo a un inevitabile
scambio di informazioni e riflessioni, per cui il naturale
dialogo tra Commissari comporta che ognuno di loro conosca
le opinioni degli altri e subisca una certa “influenza”.
In questo contesto, si è riconosciuta la correttezza della
procedura di attribuzione dei punteggi alle offerte
tecniche, nel caso di un verbale che riportava i punteggi
assegnati a ciascuna concorrente, con indicazione del
coefficiente espresso da ciascun Commissario in forma
individuale, e successiva esibizione della media, del peso e
del dato numerico finale.
Questo TAR ha affermato che l’identità del voto numerico
individuale (riconosciuto a ciascuna voce dai diversi
Commissari) non risulta sufficiente a far presumere che la
valutazione sia stata collegiale in violazione del metodo
previsto dalla lex specialis, ben potendo l’omogeneità
dipendere da una spontanea originaria coincidenza di
opinioni, o realizzarsi per confronto e discussione, in
presenza di un Collegio perfetto ai sensi dell’art. 84 del
D.Lgs. 163/2006, nel quale i Commissari non esprimono i
rispettivi giudizi in modo segreto.
---------------
In presenza della clausola del bando secondo la quale il
coefficiente dell'elemento di valutazione deriva dalla media
dei coefficienti che devono essere attribuiti
discrezionalmente dai singoli Commissari nessuno escluso,
non può valere il principio in base al quale gli
apprezzamenti dei questi ultimi sono destinati ad essere
assorbiti nella decisione collegiale finale costituente
momento di sintesi della comparazione e composizione dei
giudizi individuali.
Anche se la giurisprudenza ha riconosciuto alla separata
enunciazione dei punteggi attribuiti dai singoli Commissari
valore di formalità interna relativa ai lavori della
Commissione esaminatrice –i cui giudizi, ai fini della
verbalizzazione e della pubblicità esterna, sono
sufficientemente documentati con la sola attribuzione del
voto complessivo finale– è evidente che si deve dissentire
da tale conclusione quando è la legge di gara a imporre una
puntuale esibizione dei punteggi per ogni singolo componente
della Commissione, secondo un iter procedimentale idoneo a
garantire la massima trasparenza (requisito che si
accompagna all’imparzialità) dell’azione amministrativa.
---------------
Nel merito, la doglianza è fondata.
2.2 Secondo il paragrafo 4 (pagina 18) del bando, “La
commissione di gara attribuirà i punteggi previsti per la
valutazione dell’offerta tecnica considerando i parametri di
valutazione ed i relativi criteri di attribuzione del
punteggio sotto riportati. Il punteggio per ciascun
parametro deriverà dalla media della valutazione espressa
discrezionalmente da ciascun Commissario. La graduatoria
sarà determinata sulla base della sommatoria dei punteggi
conseguiti da ciascun Concorrente tra tutti i parametri
sotto riportati”.
Pertanto, ogni Commissario doveva
assegnare un punteggio (compreso tra 0 e un valore massimo)
a ciascuna delle 18 voci oggetto di esame (sub-parametri in
cui erano articolati i parametri generali), e poi insieme
avrebbero eseguito il calcolo della media: il risultato
finale costituiva l’attribuzione numerica associata al
sub-parametro.
2.3 E’ vero che un’attività collegiale dà luogo a un
inevitabile scambio di informazioni e riflessioni, per cui
il naturale dialogo tra Commissari comporta che ognuno di
loro conosca le opinioni degli altri e subisca una certa
“influenza” (TAR Emilia Romagna, sez. I – 30/03/2015 n.
328).
In questo contesto, si è riconosciuta la correttezza
della procedura di attribuzione dei punteggi alle offerte
tecniche, nel caso di un verbale che riportava i punteggi
assegnati a ciascuna concorrente, con indicazione del
coefficiente espresso da ciascun Commissario in forma
individuale, e successiva esibizione della media, del peso e
del dato numerico finale.
Questo TAR ha affermato (cfr.
sentenza Sezione 16/12/2015 n. 1726 confermata dal Consiglio
di Stato, sez. V – 31/8/2016 n. 3743), che l’identità del
voto numerico individuale (riconosciuto a ciascuna voce dai
diversi Commissari) non risulta sufficiente a far presumere
che la valutazione sia stata collegiale in violazione del
metodo previsto dalla lex specialis, ben potendo
l’omogeneità dipendere da una spontanea originaria
coincidenza di opinioni, o realizzarsi per confronto e
discussione, in presenza di un Collegio perfetto ai sensi
dell’art. 84 del D.Lgs. 163/2006, nel quale i Commissari
non esprimono i rispettivi giudizi in modo segreto (cfr.
sentenza TAR Basilicata – 08/07/2015 n. 399, che risulta
appellata, e la giurisprudenza dalla stessa richiamata).
2.4 Nella specie appena esaminata, tuttavia, dal verbale di
gara formato il 26/07/2016 (e riferito alla seduta del
21/07/2016), non si evince l’articolazione di un corretto
percorso di attribuzione del valore ai sub-parametri
qualitativi, essendo esposto il solo punteggio finale.
In
buona sostanza, non risulta che l'assegnazione dei punteggi
sia avvenuta seguendo le regole dettate dalla lex specialis
e, in particolare, che ciascun Commissario abbia formulato
un proprio voto sui singoli elementi delle offerte e sia
stata poi calcolata la media: al contrario, i documenti di
gara comprovano che la prescrizione procedimentale è rimasta
inosservata, laddove è stato inserito un unico dato finale
senza specificare i punteggi individuali. Alla luce di
quanto riportato nel verbale, i 3 membri hanno concordato un
valore numerico uniforme per ciascuna voce (con
un’anticipata “fusione” dei giudizi), senza esprimere ovvero
dare conto del voto assegnato in autonomia, e destinato a
concorrere con gli altri a determinare la “media”.
In
presenza della clausola del bando secondo la quale il
coefficiente dell'elemento di valutazione deriva dalla media
dei coefficienti che devono essere attribuiti
discrezionalmente dai singoli Commissari nessuno escluso,
non può valere il principio in base al quale gli
apprezzamenti dei questi ultimi sono destinati ad essere
assorbiti nella decisione collegiale finale costituente
momento di sintesi della comparazione e composizione dei
giudizi individuali (cfr. Consiglio di Stato, sez. III –
27/04/2015 n. 2159).
Anche se la giurisprudenza ha
riconosciuto alla separata enunciazione dei punteggi
attribuiti dai singoli Commissari valore di formalità
interna relativa ai lavori della Commissione esaminatrice –i cui giudizi, ai fini della verbalizzazione e della
pubblicità esterna, sono sufficientemente documentati con la
sola attribuzione del voto complessivo finale (Consiglio di
Stato, sez. V – 08/09/2015 n. 4209)– è evidente che si deve
dissentire da tale conclusione quando è la legge di gara a
imporre una puntuale esibizione dei punteggi per ogni
singolo componente della Commissione, secondo un iter
procedimentale idoneo a garantire la massima trasparenza
(requisito che si accompagna all’imparzialità) dell’azione
amministrativa.
2.5 Né può soccorrere la “rilettura”, per cui (cfr. verbale
della Commissione) “al termine dell’attribuzione dei
punteggi saranno verificati in seconda lettura tutti gli
aspetti considerati degni di un supplemento di valutazione”.
Il predetto adempimento, messo in luce dalla resistente CUC
nella memoria di costituzione, non consente certamente di
desumere l’attività compiuta dai Commissari singolarmente.
2.6 Infine, non assume un valore giuridicamente rilevante il
brogliaccio in formato excel detenuto da uno dei Commissari
e prodotto in atti (doc. 16 CUC), dato che la mancata
allegazione al verbale ufficiale non permette di desumere la
“certezza” della sua provenienza, né offre sufficienti
garanzie di genuinità e attendibilità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.12.2016 n. 1790 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Progettazione
per la Pa, parola al Tribunale.
Professionisti tecnici. Le Sezioni unite regolano i confini
della magistratura ordinaria rispetto alla Corte dei conti.
Va discussa dinanzi
al giudice ordinario (Tribunale) e non in Corte dei conti la
responsabilità della struttura tecnica incaricata sia della
progettazione sia della direzione lavori di un’opera
pubblica realizzata in ritardo.
Le Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione (ordinanza
28.12.2016 n. 27071), regolano i confini tra le due
magistrature con riferimento all’esecuzione di un ospedale.
L’opera risultava in parte collocata in un bosco, zona che
esige un’accurata verifica di compatibilità. Se tale
verifica ritarda l’esecuzione dell’opera, generando riserve
da parte dell’impresa esecutrice ed aggravio di costi,
occorre individuare quale sia stato il tecnico che,
omettendo un’ordinaria diligenza, sia responsabile dei danni
subiti dall’ente pubblico.
Su tali danni giudica la
magistratura ordinaria (tribunale civile) se vi è un errore
nella progettazione affidata a un libero professionista:
manca infatti una relazione funzionale tra professionista ed
ente pubblico, perché il tecnico non esercita poteri propri
del soggetto pubblico. Il progettista ha un incarico
professionale che è solo preceduto da una gara per
l’individuazione soggetto più idoneo.
Se l’errore riguarda l’attività del direttore dei lavori,
soggetto inserito -seppur occasionalmente- in un rapporto
di servizio, la responsabilità viene giudicata dalla Corte
dei conti perché l’operato del direttore dei lavori è
riferito all’ente. Il direttore lavori, anche se un
professionista esterno, una volta prescelto entra
nell’amministrazione con un rapporto di servizio equiparato
a quello del pubblico dipendente.
Già altre volte la Cassazione si è occupata del tema,
affidando alla Corte dei conti il giudizio sulla
responsabilità di un ingegnere per lesioni alla muratura ed
errata esecuzione di fondazioni di una scuola (Sezioni unite
340/2003); lo stesso giudice contabile è competente per i
danni conseguenti all’errata esecuzione di un rapporto
unitario, di progettazione ed esecuzione lavori, perché la
progettazione va ritenuta prodromica alla successiva
attività di direzione delle opere (Cassazione 28537/2008).
Nel caso specifico del dicembre 2016, la Corte dei conti si
era rivolta ad un’unica struttura tecnica, che cumulava
ambedue le funzioni (progettista e direttore lavori), ma le
Sezioni unite hanno fermato il procedimento di
responsabilità dinanzi ai giudici contabili, partendo da
un’analisi dei fatti e stabilendo che i danni erano
riconducibili a errori di progettazione e non di esecuzione.
Infatti, sarebbe stata normale, minima diligenza rilevare,
già prima della predisposizione del bando di gara e prima
dell’approvazione del progetto, gli elementi fondamentali
dei luoghi, fra cui vi era il bosco.
Le caratteristiche e
qualità della zona erano infatti note e non potevano essere
trascurate attraverso un affrettato inizio dei lavori:
spettava quindi al progettista sollecitare l’amministrazione
a chiedere le specifiche, necessarie autorizzazioni di legge
per la rimozione del vincolo boschivo esistente, con
attività che non riguarda l’esecuzione lavori bensì la
progettazione degli stessi.
Le spese e i costi del successivo, prevedibile fermo dei
lavori dovuto a varianti suppletive, andavano in conseguenza
imputate al progettista. In sintesi, aver trascurato il
vincolo ambientale ha generato danni giudicabili da un
Tribunale ordinario (articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per risoluzione anticipata da precede
contratto.
---------------
Gara – Esclusione – Per risoluzione anticipata da
precedente contratto – Risoluzione impugnata sin sede civile
– Art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016 –
Illegittimità.
Ai sensi dell’art. 80, comma 5,
lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è illegittima
l’esclusione dalla gara di un concorrente disposta per
asseriti gravi illeciti professionali nel caso in cui la
risoluzione contrattuale che è alla base del provvedimento
sia giurisdizionalmente contestata con giudizio civile
pendente, non sussistendo il presupposto delle
“significative carenze nell’esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, purché non contestata in
giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio”,
previsto dalla citata lett. c del comma 5 dell’art. 80 del
Codice dei contratti, che legittima l’esclusione dalla gara
(1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tribunale che l’art. 80 del Codice dei
contratti, a differenza della previgente similare disciplina
dettata dall’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006,
n. 163, rende irrilevante –ai fini della esclusione degli
operatori economici dalle procedure di gara indette dalla
P.A.– la risoluzione anticipata di un precedente contratto
di appalto o di concessione ancora sub judice.
Non è, ad avviso del Tribunale, assecondabile la tesi
secondo cui le espressioni letterali adoperate dal
legislatore nell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50
del 2016 possono portare al risultato pratico
(esplicitamente precluso, invece, dalla stessa norma) di
consentire alla stazione appaltante di escludere dalla gara
anche l’operatore economico nei cui confronti sia stata
disposta dalla P.A. una risoluzione contrattuale anticipata,
in ragione di ravvisate significative carenze
nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione, contestata in sede giurisdizionale e non
confermata -con sentenza (ancorché non definitiva)-
all’esito del relativo giudizio, ovvero contestata in un
giudizio non ancora concluso (nemmeno in primo grado), ma
nel quale l’istanza cautelare del privato sia stata non
accolta dal giudice.
Il Tar ha altresì escluso un contrasto della lett. c) del
comma 5 dell’art. 80, d.lgs. n. 50 così interpretato con
l’art. 57, punto 4, della Direttiva 2014/24/UE (recepito dal
legislatore italiano con tale norma) che, peraltro, non
avendo carattere puntualmente completo e dettagliato, non è
self executing (TAR
Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 22.12.2016 n. 1935 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
giustizia Ue: nelle piccole zone la valutazione Vas è
discrezionale.
La Corte di giustizia Ue con la
sentenza
21.12.2016 n. C-444/15, ha riconosciuto alle autorità amministrative nei
singoli stati membri un potere discrezionale di valutazione
del rischio ambientale secondo la Vas (Valutazione
ambientale strategica) allorché si tratti di esaminare piani
o programmi che interessano «piccole zone a livello locale».
La vicenda trae origine dal piano attuativo che disciplina
l'assetto localizzativo, gli usi, le volumetrie e le
tipologie costruttive degli interventi, prevedendo la
costruzione di 84 villette, per 24.990 mc su una superficie
territoriale di 29.195 mq.
La commissione regionale riteneva
che detto piano non fosse da sottoporre a Vas, in quanto,
pur trattandosi di un piano per il quale le autorità
amministrative avevano ritenuto necessaria una prima
valutazione di incidenza, esso riguardava l'uso di piccole
aree a livello locale, non produttive di effetti
significativi sull'ambiente. La valutazione di incidenza
veniva effettuata ai sensi della direttiva Habitat.
Italia
Nostra impugnava la deliberazione con cui veniva approvato,
senza Vas, il piano. Il Tar Veneto, con ordinanza 04.08.2015, sollevava tre questioni pregiudiziali relative alla
direttiva 2001/42, avente a oggetto la valutazione degli
effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente (la
direttiva Vas), la prima di validità e le altre
interpretative.
Per la Corte la norma della direttiva Vas è
valida e conforme ai trattati e ai principi dell'Ue. Appare,
dunque, ragionevole che, per i piani e programmi che
determinano l'utilizzo di piccole zone a livello locale, la
direttiva consenta alle autorità degli stati Ue di procedere
a un esame preliminare discrezionale, per verificare se un
piano sia suscettibile di incidenza sull'ambiente
(articolo ItaliaOggi del 22.12.2016).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1) L’esame della prima questione
pregiudiziale non ha rivelato alcun elemento atto ad
inficiare la validità dell’articolo 3, paragrafo 3, della
direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 27 giugno 2011, concernente la valutazione degli effetti
di determinati piani e programmi sull’ambiente, alla luce
delle disposizioni del Trattato FUE e della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea.
2) L’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2001/42, letto
in combinato disposto con il considerando 10 di tale
direttiva, dev’essere interpretato nel senso che la nozione
di «piccole aree a livello locale» di cui a detto paragrafo
3 dev’essere definita riferendosi alla superficie dell’area
interessata, alle seguenti condizioni:
- che il piano o il programma sia elaborato e/o adottato da
un’autorità locale, e non da un’autorità regionale o
nazionale, e
- che tale area costituisca, all’interno dell’ambito territoriale
di competenza dell’autorità locale, e proporzionalmente a
detto ambito territoriale, un’estensione minima. |
EDILIZIA PRIVATA: Per
gli interventi edilizi regole statali «centrali». Niente
Scia se le norme nazionali richiedono altri titoli.
Corte costituzionale. Bocciata la legge delle Marche che
estende i poteri locali.
È illegittima la norma regionale che
consente al Comune di autorizzare a titolo temporaneo
interventi edilizi su opere pubbliche, o di pubblico
interesse, nonostante siano difformi dalle previsioni degli
strumenti urbanistici comunali, per far fronte a esigenze di
carattere improrogabile e transitorio.
Lo ha dichiarato la Consulta -con la
sentenza 21.12.2016 n. 282- ricordando che la deroga dalla normativa
statale in materia di opere pubbliche, presupponga comunque
il rispetto delle prescrizioni edilizie ed urbanistiche.
A finire sotto la mannaia dei giudici costituzionali, la
legge 17/2015 della Regione Marche, con quattro articoli
dichiarati costituzionalmente illegittimi.
In particolare, è stata cassata la norma che sottopone a
semplice Scia (la segnalazione di inizio attività riservata
agli interventi minori) gli interventi di ristrutturazione
edilizia, di demolizione parziale e tutta una serie di opere
che, secondo la normativa nazionale, devono essere vincolati
al rilascio di una Dichiarazione di inizio attività (la
cosiddetta Dia).
«Secondo la giurisprudenza costituzionale -ricordano i
giudici- la definizione delle categorie di interventi
edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi,
costituisce principio fondamentale della materia di
competenza legislativa concorrente Stato-Regioni del governo
del territorio, vincolando così la legislazione regionale di
dettaglio».
In più, si legge nell’impugnativa, la norma censurata
avrebbe introdotto anche un nuovo titolo abilitativo, non
previsto dalla legislazione statale, invadendo anche sotto
questo profilo le competenze statali.
A violare i principi fondamentali del governo del
territorio, è anche l’articolo marchigiano che riconduce
all’attività edilizia libera una serie di fattispecie, che
la normativa statale subordina, invece, a permesso di
costruire, Scia, oppure Cil (Comunicazione di inizio
lavori). Così come fuori dal perimetro dell’edilizia libera
-secondo quanto prescritto dal Testo unico dell’edilizia-
devono essere considerati (contrariamente a quanto
prescritto dalla norma marchigiana) gli interventi sulle
parti strutturali degli edifici.
Ha ricevuto il niet dei giudici costituzionali anche
l’articolo 12 della norma regionale, relativo al
miglioramento sismico degli edifici.
«L’articolo 88 del Testo unico edilizia statale -stigmatizza la sentenza- riconosce soltanto al ministro
delle Infrastrutture la possibilità di concedere deroghe
all’osservanza delle norme tecniche, in zone considerate a
rischio».
Infine, l’autorizzazione temporanea introdotta dalla
disposizione regionale censurata, contrasta sotto più
profili con la disciplina statale del permesso di costruire
in deroga. In ogni caso -concludono i giudici- è precluso
al legislatore regionale introdurre atti di assenso
all’esecuzione di opere edilizie del tutto “atipici”
rispetto a quelli disciplinati dal Testo unico
dell’edilizia (articolo Il Sole 24 Ore del 22.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si
collega il regime dei titoli abilitativi costituisce
principio fondamentale della materia di competenza
legislativa concorrente fra Stato e regioni del «governo del
territorio», vincolando così la legislazione regionale di
dettaglio.
L’art. 6, comma 6, del TUE prevede che le regioni a statuto
ordinario possono estendere la disciplina dell’edilizia
libera a «interventi edilizi ulteriori» (lettera a), nonché
disciplinare «le modalità di effettuazione dei controlli»
(lettera b).
Nel definire i limiti del potere così assegnato alle
regioni, questa Corte ha escluso «che la disposizione appena
citata permetta al legislatore regionale di sovvertire le
“definizioni” di “nuova costruzione” recate dall’art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
L’attività demandata alla regione si inserisce pur sempre
nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n.
380 del 2001, attraverso la enucleazione di interventi
tipici da sottrarre a permesso di costruire e SCIA
(segnalazione certificata di inizio attività).
Non è perciò pensabile che il legislatore statale abbia reso
cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi,
spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei
principi fondamentali della materia, di determinare quali
trasformazioni del territorio siano così significative, da
soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio
attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare
secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che
sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n.
380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo
abilitativo».
Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6,
comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque,
nella possibilità di estendere «i casi di attività edilizia
libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”,
ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi
di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6».
---------------
L’art. 6, comma 1, lettera d), del TUE, prevede che nessun
titolo abilitativo è richiesto per i movimenti di terra, ma
soltanto se essi sono strettamente pertinenti all’esercizio
dell’attività agricola e alle pratiche agro-silvo-pastorali.
L’esenzione è giustificata dal fatto che si tratta di
modificazioni della forma del territorio, non accompagnate
dalla realizzazione di opere edilizie, inerenti all’usuale
pratica agricola, che verrebbe altrimenti disincentivata con
effetti pregiudizievoli anche per la buona manutenzione del
territorio.
Le attività di sbancamento del terreno finalizzate a usi
diversi da quelli agricoli, se destinate a incidere sul
tessuto urbanistico del territorio, sono invece assoggettate
a titolo abilitativo edilizio.
Al fine di stabilire se i movimenti di terreno costituiscano
o meno una trasformazione urbanistica del territorio,
occorre valutare l’entità dell’opera che si intende
realizzare, potendo gli stessi costituire, sia spostamenti
insignificanti sotto il profilo dell’insediamento abitativo,
per i quali non è necessario alcun titolo abilitativo, sia
rilevanti trasformazioni del territorio, in quanto tali
subordinate al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
---------------
Le regioni possono sì estendere la disciplina statale
dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a
quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non
anche differenziarne il regime giuridico, dislocando
diversamente gli interventi edilizi tra le attività
deformalizzate, soggette a cil e cila.
L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva
(asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo
delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve
indurre a riconoscere alla norma che la prescrive ‒al pari
di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi‒ la
natura di principio fondamentale della materia del “governo
del territorio”, in quanto ispirata alla tutela di interessi
unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto
coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le
differenziazioni delle legislazioni regionali.
Ne consegue che è precluso al legislatore regionale di
discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune
categorie di opere totalmente libere da ogni forma di
controllo, sia pure indiretto mediante denuncia.
---------------
Gli interventi di rimozione delle barriere architettoniche
che «comportino la realizzazione di rampe o ascensori
esterni» sono espressamente esclusi dall’articolo 6, comma
l, lettera b), del TUE dal regime dell’attività edilizia
libera.
Le opere necessarie alla loro realizzazione, compresi i
manufatti che alterino la sagoma, rientrano invece
nell’ambito applicativo dell’art. 22 del TUE e sono quindi
soggette a SCIA.
---------------
L'art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, deve essere
interpretato nel senso di escludere dal suo ambito
applicativo, sia gli interventi volti alla creazione di
nuove volumetrie (ad esempio: spogliatoi e docce), sia la
costruzione di piscine, in quanto opere comportanti
l’effettuazione di scavi e, come tali, del tutto estranee
alla nozione di edilizia libera.
---------------
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera a), del TUE, sono
soggetti a CILA «gli interventi di manutenzione
straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b),
ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di
pareti interne, sempre che non riguardino le parti
strutturali dell’edificio».
La manutenzione straordinaria è dunque sottoposta a CILA
quando interessi la rinnovazione o sostituzione di parti
interne delle singole unità immobiliari e quelle esterne non
strutturali.
---------------
2.1.‒ Secondo la giurisprudenza costituzionale, la
definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si
collega il regime dei titoli abilitativi costituisce
principio fondamentale della materia di competenza
legislativa concorrente fra Stato e regioni del «governo
del territorio», vincolando così la legislazione
regionale di dettaglio (sentenza n. 303 del 2003; in
seguito, sentenze n. 259 del 2014, n. 171 del 2012, n. 309
del 2011).
L’art. 6, comma 6, del TUE prevede che le regioni a statuto
ordinario possono estendere la disciplina dell’edilizia
libera a «interventi edilizi ulteriori» (lettera a),
nonché disciplinare «le modalità di effettuazione dei
controlli» (lettera b).
Nel definire i limiti del potere così assegnato alle
regioni, questa Corte ha escluso «che la disposizione
appena citata permetta al legislatore regionale di
sovvertire le “definizioni” di “nuova costruzione” recate
dall’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (sentenza n. 171 del
2012). L’attività demandata alla regione si inserisce pur
sempre nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la enucleazione di
interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e
SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Non è
perciò pensabile che il legislatore statale abbia reso
cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi,
spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei
principi fondamentali della materia, di determinare quali
trasformazioni del territorio siano così significative, da
soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio
attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare
secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che
sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n.
380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo
abilitativo» (sentenza n. 139 del 2013).
Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6,
comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque,
nella possibilità di estendere «i casi di attività
edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma
“ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli
interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6»
(ancora sentenza n. 139 del 2013).
...
L’art. 6, comma 1, lettera d), del TUE, prevede che nessun
titolo abilitativo è richiesto per i movimenti di terra, ma
soltanto se essi sono strettamente pertinenti all’esercizio
dell’attività agricola e alle pratiche agro-silvo-pastorali.
L’esenzione è giustificata dal fatto che si tratta di
modificazioni della forma del territorio, non accompagnate
dalla realizzazione di opere edilizie, inerenti all’usuale
pratica agricola, che verrebbe altrimenti disincentivata con
effetti pregiudizievoli anche per la buona manutenzione del
territorio. Le attività di sbancamento del terreno
finalizzate a usi diversi da quelli agricoli, se destinate a
incidere sul tessuto urbanistico del territorio, sono invece
assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Al fine di stabilire se i movimenti di terreno costituiscano
o meno una trasformazione urbanistica del territorio,
occorre valutare l’entità dell’opera che si intende
realizzare, potendo gli stessi costituire, sia spostamenti
insignificanti sotto il profilo dell’insediamento abitativo,
per i quali non è necessario alcun titolo abilitativo, sia
rilevanti trasformazioni del territorio, in quanto tali
subordinate al preventivo rilascio del permesso di costruire
(Corte di cassazione, terza sezione penale, 24.11.2011, n.
48479; Corte di cassazione, terza sezione penale,
05.03.2008, n. 14243).
...
Come questa Corte ha recentemente statuito, «[l]e regioni
possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia
libera ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti
dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche
differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente
gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate,
soggette a cil e cila. L’omogeneità funzionale della
comunicazione preventiva (asseverata o meno) rispetto alle
altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di
costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma
che la prescrive ‒al pari di quelle che disciplinano i
titoli abilitativi edilizi‒ la natura di principio
fondamentale della materia del “governo del territorio”, in
quanto ispirata alla tutela di interessi unitari
dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto
coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le
differenziazioni delle legislazioni regionali» (sentenza
n. 231 del 2016).
Ne consegue che è precluso al legislatore regionale di
discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune
categorie di opere totalmente libere da ogni forma di
controllo, sia pure indiretto mediante denuncia.
...
Gli interventi di rimozione delle barriere architettoniche
che «comportino la realizzazione di rampe o ascensori
esterni» sono espressamente esclusi dall’articolo 6,
comma l, lettera b), del TUE dal regime dell’attività
edilizia libera. Le opere necessarie alla loro
realizzazione, compresi i manufatti che alterino la sagoma,
rientrano invece nell’ambito applicativo dell’art. 22 del
TUE e sono quindi soggette a SCIA (Consiglio di Stato,
sezione sesta, 24.11.2010, n. 7129).
Con tali previsioni, da considerare come principi
fondamentali della materia, la norma regionale si pone
quindi in contrasto.
...
Mentre la norma statale subordina la stessa tipologia di
interventi alla previa comunicazione dell’inizio dei lavori
da parte dell’interessato, la previsione regionale non
impone analogo onere formale. Il contrasto con la disciplina
statale non è escluso dalla precisazione, contenuta nella
norma regionale, che la realizzazione delle aree ludiche e
delle opere di arredo non deve comportare «creazione di
volumetria» e che da esse va esclusa la realizzazione «delle
piscine».
Anche l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, deve essere
interpretato nel senso di escludere dal suo ambito
applicativo, sia gli interventi volti alla creazione di
nuove volumetrie (ad esempio: spogliatoi e docce), sia la
costruzione di piscine, in quanto opere comportanti
l’effettuazione di scavi e, come tali, del tutto estranee
alla nozione di edilizia libera; ma questo non rileva quanto
alla circostanza che la norma regionale non subordina a CIL
gli interventi in essa previsti, mentre tale subordinazione
non può essere omessa, alla stregua di quanto previsto, come
principio, dalla legge statale.
...
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera a), del TUE, sono
soggetti a CILA «gli interventi di manutenzione
straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b),
ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di
pareti interne, sempre che non riguardino le parti
strutturali dell’edificio».
La manutenzione straordinaria è dunque sottoposta a CILA
quando interessi la rinnovazione o sostituzione di parti
interne delle singole unità immobiliari e quelle esterne non
strutturali. Le corrispondenti categorie di opere prese in
considerazione dalla impugnata lettera h) non sono invece
assoggettate a comunicazione asseverata (CILA), e neppure a
comunicazione semplice (CIL) (Corte Costituzionale,
sentenza 21.12.2016 n. 282). |
APPALTI:
La tutela cautelare nel nuovo Codice dei contratti.
---------------
Gara – Contenzioso - Tutela cautelare – Con il nuovo
Codice dei contratti – Individuazione.
Gara – Contenzioso – Rito superaccelerato ex artt. 204,
d.lgs. n. 50 del 2016 e 120, comma 6-bis, c.p.a. – Mancata
pubblicazione procedimento di amminisione e esclusione nel
sito “Amministrazione trasparente” – Inapplicabilità.
Gara – Contenzioso - Tutela cautelare – Con il nuovo Codice
dei contratti – Tutela ante causam e monocratica –
Possibilità – Tutela cautelare ordinaria – Esclusione.
Gara – Contenzioso - Tutela cautelare – Con il nuovo Codice
dei contratti – Tutela ante causam e monocratica –
Motivazione specifica - Necessità.
Gara – Contenzioso – Rito superaccelerato ex artt. 204,
d.lgs. n. 50 del 2016 e 120, comma 6-bis, c.p.a. –
Differenza con il rito elettorale ex art. 129 c.p.a. –
Individuazione.
●
Il
rito appalti ex art. 204 del nuovo Codice dei contratti
pubblici ha apportato modifiche con riferimento alla tutela
cautelare disciplinata dagli artt. 119 e 120 c.p.a., perché
sono stati di fatto introdotti due sottosistemi processuali
avverso le diverse fasi della procedura di evidenza
pubblica, aventi un chiaro impatto sull’utilità della tutela
cautelare; il primo, relativo ai casi di impugnazione
dell’aggiudicazione, non è frutto di una modifica dell’art.
120 c.p.a. ma è desumibile dal confronto con l’art. 32 dello
stesso Codice dei contratti, relativo alle fasi di
affidamento, in forza del quale si crea un effetto
sospensivo automatico per effetto della definitività
dell’aggiudicazione che impedisce la stipulazione del
contratto prima di trentacinque giorni dall'invio
dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di
aggiudicazione (art. 32, comma 9); il secondo, scaturente
dall’introduzione di un rito c.d. superaccelerato ad opera
dell’art. 204, comma 1, lett. b) e d), del Codice, in
materia di impugnazione delle esclusioni e delle ammissioni
(1).
● Il rito
superaccelerato previsto dall'art. 120, commi 2-bis e 6-bis,
c.p.a., introdotto dall’art. 204 del nuovo Codice dei
contratti pubblici, non trova applicazione nel caso in cui
la Stazione appaltante non ha pubblicato nella apposita
sezione “Amministrazione trasparente” del proprio profilo,
nei successivi due giorni dalla data di adozione dei
relativi atti, il provvedimento con il quale procede alle
ammissioni o alle esclusioni.
●
Nel rito appalti ex art. 204 del nuovo Codice dei contratti
pubblici la possibilità di richiedere la tutela cautelare
ante causam e, soprattutto, quella monocratica d’urgenza non
può essere esclusa, e, anzi, deve essere garantita, anche
nei casi di astratta ammissibilità del rito superaccelerato,
in ragione del diritto di difesa delle parti, che può
ritenersi soddisfatto, anche in chiave comunitaria; non è
invece confoiguirabile la tutela cautelare ordinaria posto
che in caso di semplice pregiudizio grave e irreparabile la
parte non può pretendere che il giudice amministrativo,
fissando la camera di consiglio ordinaria, possa
legittimamente derogare al procedimento superaccelerato
introdotto dal nuovo Codice dei contratti (2).
●
Nel rito appalti ex art. 204 del nuovo Codice dei contratti
pubblici la richiesta di misure cautelari (tutela cautelare
ante causam e, soprattutto, quella monocratica d’urgenza)
deve essere motivata in senso rafforzato, dovendo la parte
appositamente giustificare non solo i contenuti della
richiesta (sotto un profilo delle esigenze cautelari così
come previste dal Codice del processo), ma la ragione stessa
della domanda proposta, la quale, di fatto, costituisce una
deroga al sistema processuale superaccelerato del comma
6-bis dell’art. 120 (introdotto dal citato art. 204) e
rimette al giudice il potere di dettare i tempi della prima
fase del giudizio, che sembravano essergli stati sottratti
dalla nuova disciplina (2).
●
Le somiglianze tra il rito elettorale ex art. 129 c.p.a. e
il rito appalti ex art. 204 del nuovo Codice dei contratti
pubblici si concentrano, e parimenti si esauriscono, nella
struttura bifasica del contenzioso, differenziandosene sotto
altri aspetti, in quanto mentre nel procedimento elettorale
la scansione legislativa è puntuale e coordinata con la
disciplina processuale, questo non avviene nel procedimento
di aggiudicazione; inoltre nel procedimento ex art. 129
c.p.a. non sono ammissibili ricorsi contro ammissioni di
candidati concorrenti, salvo il caso di confondibilità dei
contrassegni (3).
---------------
(1) Con
riferimento al primo dei c.d. sottosistemi processuali
avverso le diverse fasi della procedura di evidenza
pubblica, relativo ai casi di impugnazione
dell’aggiudicazione, ha ricordato il Tar che è noto che il
meccanismo di standstill era già presente dal 2010 per
effetto della sua introduzione, nel nostro sistema, da parte
del d.lgs. 20.03.2010, n. 53, e che con il nuovo Codice dei
contratti esso subisce una contrazione (essendo escluso per
quasi tutti i contratti sotto soglia).
Si ritiene tuttavia opportuno ribadirne l’effetto in termini
di impatto sul regime della tutela cautelare, posto che nel
caso venga impugnata l’aggiudicazione, la tutela cautelare
ante causam e quella con decreto presidenziale
perdono, in linea di massima, di utilità, perché il
ricorrente non ha interesse alla pronuncia cautelare
immediata.
Tuttavia, gli istituti in questione riacquistano interesse:
a) nei casi di mancata applicazione del suddetto termine dilatorio
nei casi previsti dalla legge (art. 32, comma 10, lett. a) e
b), del Codice dei contratti);
b) nei casi in cui, anche qualora venga impugnata l’aggiudicazione,
il ricorrente voglia utilizzare una tutela d’urgenza in
quanto si siano verificate circostanze eccezionali di
mancato rispetto del termine dilatorio. Tali casi consistono
essenzialmente: 1) nell’avvio dell’esecuzione d’urgenza
dell’appalto, da parte della stazione appaltante, pur in
assenza di un contratto formalmente stipulato (art. 32,
commi 13 e 8, del Codice); 2) nella violazione dell’effetto
sospensivo automatico da parte della stazione appaltante;
c) qualora dette forme di tutela vengano richieste direttamente
dalla stazione appaltante resistente o dai controinteressati,
per ottenere il prima possibile una pronuncia cautelare ad
essi favorevole, che renda possibile la stipulazione del
contratto. Ha ancora chiarito il Tar che la tutela cautelare
d’urgenza (ante causam e/o monocratica) è certamente
utilizzabile quando il ricorrente impugni atti diversi
dall’aggiudicazione e quindi non si produca alcun effetto
sospensivo automatico (il riferimento è alla impugnazione di
bandi, sanzioni, iscrizioni nel casellario informatico,
ecc.).
La tutela cautelare collegiale tradizionale, invece, non è
in discussione, posto che il comma 11 dell’art. 32 del
Codice stabilisce testualmente che “se è proposto ricorso
avverso l'aggiudicazione con contestuale domanda cautelare,
il contratto non può essere stipulato, dal momento della
notificazione dell'istanza cautelare alla stazione
appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che
entro tale termine intervenga almeno il provvedimento
cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo
della sentenza di primo grado in caso di decisione del
merito all'udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di
detti provvedimenti se successiva. L'effetto sospensivo
sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame
della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente
ai sensi dell'art. 15, comma 4, c.p.a. o fissa con ordinanza
la data di discussione del merito senza concedere misure
cautelari o rinvia al giudizio di merito l'esame della
domanda cautelare, con il consenso delle parti, da
intendersi quale implicita rinuncia all'immediato esame
della domanda cautelare”.
Alla tutela cautelare si applica la disciplina ordinaria di
cui all’art. 55 c.p.a., ma con termini dimezzati, ai sensi
dell’art. 119, comma 2, c.p.a. Si applicano altresì: il
comma 8-bis dell’art. 120 c.p.a. (introdotto dal d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114);
l’art. 9, commi 1 e 2-sexies, d.l. 12.09.2014, n. 133 (nel
testo risultante dalla l. di conversione 11.11.2014, n.
164), che ha imposto limiti alla tutela cautelare nella
materia degli appalti pubblici quando vi è pericolo per
l’incolumità pubblica; infine, il comma 8-ter dell’art. 120
c.p.a., introdotto dall'art. 204, comma 1, lett. f), del
Codice, in forza del quale “nella decisione cautelare, il
giudice tiene conto di quanto previsto dagli artt. 121,
comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un
interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone
conto nella motivazione”, così introducendo un nuovo
onere motivazionale dei provvedimenti cautelari specifico
per la materia degli appalti
Con riferimento al secondo dei c.d. sottosistemi processuali
scaturente dall’introduzione di un rito c.d. superaccelerato
ad opera dell’art. 204, comma 1, lett. b) e d), del Codice,
in materia di impugnazione delle esclusioni e delle
ammissioni, ha ricordato il Tar che il nuovo comma 6-bis
dell’art. 120 c.p.a. stabilisce che “nei casi previsti al
comma 2-bis, il giudizio è definito in una camera di
consiglio da tenersi entro trenta giorni dalla scadenza del
termine per la costituzione delle parti diverse dal
ricorrente. Su richiesta delle parti il ricorso è definito,
negli stessi termini, in udienza pubblica”. Esso
introduce una scansione precisa del procedimento
giurisdizionale in quanto:
a) il decreto di fissazione dell’udienza è comunicato alle parti
quindici giorni prima dell’udienza;
b) le parti possono produrre documenti fino a dieci giorni liberi
prima dell’udienza, memorie fino a sei giorni liberi e
presentare repliche ai nuovi documenti e alle nuove memorie
depositate in vista della camera di consiglio, fino a tre
giorni liberi prima;
c) la camera di consiglio o l’udienza possono essere rinviate solo
in caso di esigenze istruttorie, per integrare il
contraddittorio, per proporre motivi aggiunti o ricorso
incidentale;
d) l'ordinanza istruttoria fissa per il deposito di documenti un
termine non superiore a tre giorni decorrenti dalla
comunicazione o, se anteriore, notificazione della stessa;
e) la nuova camera di consiglio deve essere fissata non oltre
quindici giorni. Inoltre, non può essere disposta la
cancellazione della causa dal ruolo e l'appello deve essere
proposto entro trenta giorni dalla comunicazione o, se
anteriore, notificazione della sentenza e non trova
applicazione il termine lungo decorrente dalla sua
pubblicazione. La camera di consiglio deve essere tenuta
entro trenta giorni dalla scadenza del termine per la
costituzione delle parti diverse dal ricorrente, senza che
ciò possa essere mutato dalla richiesta di udienza pubblica
formulata da una delle parti e potendo essere ammesso il
differimento solo nei casi ivi previsti (istruttoria,
termini a difesa, etc.).
Il giudizio, quindi, è concepito come rito "immediato"
che può diventare abbreviato solo in pochi casi limitati.
Fatte queste precisazioni, il Tar ha circoscritto l'ambito
dell'indagine al rapporto tra nuovo rito superaccelerato e
tutela cautelare, nella specie, monocratica, ex art. 56
c.p.a., perché è quella la cui concessione comporta
obbligatoriamente (art. 56, comma 4 c.p.a.) la fissazione
della camera di consiglio di cui all'art. 55, comma 5,
c.p.a. e, quindi, il prosieguo del giudizio secondo le forme
“tradizionali” del giudizio cautelare ordinario che
risultano materialmente incompatibili con il nuovo rito
immediato superaccelerato. La tutela cautelare nel rito
accelerato non è stata esclusa dal parere (01.04.2016, n.
855) reso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto
legislativo recante il nuovo Codice dei contratti, che però
non ha considerato la possibilità di richiesta al presidente
di interventi di estrema urgenza o, addirittura, ante causa.
Da qui il lungo excursus dei giudici napoletani
sull'evoluzione della tutela cautelare nella legislazione
nazionale, passando attraverso le pronunce della Corte
costituzionale, e soprattutto quelle della Corte di
giustizia (i famosi casi Factortame, Zuckerfabrik, Atlanta).
Alla luce della chiarita necessità della tutela cautelare
per assicurare l'effettività della giurisdizione anche in
presenza di un rito accelerato, come quello previsto dai
nuovi commi 2-bis e 6-bis dell'art. 120 c.p.a., il Tar è
giunto alla conclusione che tale tutela sia comunque
possibile e necessaria, nonostante le criticità rilevate,
soprattutto dai primi commentatori e interpreti delle
disposizioni in questione, in ordine all'obbligo di
impugnativa immediata dei provvedimenti di aggiudicazione e
esclusione indicati a fronte dell’assenza di un interesse
concreto e attuale al ricorso.
Nel mettere in evidenza che a questa prima obiezione si
potrebbe replicare che l'interesse strumentale ha assunto un
peso maggiore dopo le sentenze Fastweb e Puligienica, il Tar
campano ha sviscerato ulteriori criticità del nuovo rito,
quali, sinteticamente:
a) l'aver accomunato provvedimenti di esclusione e provvedimenti di
ammissione, che sono categorie di atti che presentano
effetti lesivi molto diversi, sicché la disciplina
sostanziale, anche per effetto dei vincoli del diritto
europeo, non favorisce la netta distinzione tra la fase
definitiva di cristallizzazione dei concorrenti ammessi e lo
stadio successivo di valutazione, sicché il sistema
processuale "bifasico" risulta, rapportato alla
disciplina sostanziale, difficilmente realizzabile;
b) l’art. 57 della direttiva 2014/24/UE (recepito dall'art. 80 del
nuovo Codice), il quale stabilisce che le amministrazioni
aggiudicatrici escludono un operatore economico in qualunque
momento della procedura qualora risulti che si trovi, a
causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della
procedura, in una delle situazioni di cui ai paragrafi 1 e 2
(condanne penali per reati espressamente tipizzati, e
violazioni di obblighi fiscali); da questo si deduce che la
fase di ammissione non si conclude necessariamente mediante
l’adempimento agli obblighi di pubblicazione di cui all’art.
29, comma 1, secondo periodo, del Codice che espressamente
stabilisce che “al fine di consentire l'eventuale
proposizione del ricorso ai sensi dell’art. 120 c.p.a., sono
altresì pubblicati, nei successivi due giorni dalla data di
adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina
le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni
all'esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali”, e 76
comma 3, in base al quale, contestualmente alla
pubblicazione prevista dal comma 1 dell’art. 29, "è dato
avviso ai concorrenti, mediante PEC o strumento analogo
negli altri Stati membri, del provvedimento che determina le
esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad
essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando
l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato
dove sono disponibili i relativi atti.";
c) tale rito è circoscritto esclusivamente ai provvedimenti di
esclusione e ammissione emessi “all'esito della
valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali” e quindi non sembra potersi
applicare ai medesimi provvedimenti quando questi siano
fondati su presupposti diversi da quelli di carattere
soggettivo di cui all'art. 83 del Codice (il Tar ha
ricordato che l’Adunanza Plenaria n. 9 del 25.02.2014 ha
individuato le cause di esclusione, sotto un profilo
funzionale, e sia pure nella vigenza del precedente Codice
dei contratti, sulla scorta di due diversi criteri, di cui
uno consiste nella incertezza assoluta sul contenuto o
provenienza dell’offerta, nella non integrità dei plichi o
in altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi tali
da dimostrare in concreto la violazione del principio di
segretezza delle offerte, sicché in questi casi il rito
superaccelerato non potrebbe applicarsi).
La disomogeneità del contenzioso de quo si estende anche
alle ipotesi di impugnazione delle ammissioni, in quanto la
contestazione di queste ultime involge solo parzialmente i
requisiti di partecipazione sopra indicati, potendo avere
riguardo ad ulteriori profili che l’art. 204 del Codice non
ha assolutamente contemplato (a titolo esemplificativo, si
pensi alla contestazione della intempestività della domanda
di partecipazione alla gara; alla carenza di elementi
essenziali dell’offerta) o con finalità diverse dalla
contestazione dell’ammissione pure e semplice (per esempio,
contestazione dell’ammissione altrui al fine di
rideterminazione delle medie, oppure dell’ammissione del
solo vincitore per ottenere lo scorrimento, come pure
dell’ammissione di tutti gli altri concorrenti per ottenere
la ripetizione della procedura).
Il Tar ha fatto anche un breve accenno al problema del
contemperamento tra rito accelerato ex art. 6-bis e rito
ordinario, in caso di impugnazione, uno actu, di
provvedimenti assoggettati a riti differenti come, ad
esempio, l’aggiudicazione definitiva e la precedente
ammissione (citando, sul punto, Tar Bari n. 1367 del 2016).
(2)
Secondo il Tar la possibilità di richiedere la tutela
cautelare ante causam e, soprattutto, quella
monocratica d’urgenza non può essere esclusa, e, anzi, deve
essere garantita, anche nei casi di astratta ammissibilità
del rito superaccelerato, in ragione del diritto di difesa
delle parti, che può ritenersi soddisfatto, anche in chiave
comunitaria (vedi Direttiva 2007/66/CE) solo se
l’ordinamento consente al soggetto leso di valutare cognita
causa se ne esistono i presupposti, senza costringerlo a
proporre un ricorso “al buio”, che è quello che
avverrebbe ora in quanto la durata delle diverse fasi di
ammissione e selezione è disomogenea e non predeterminabile,
per cui non vi è una sicura e rapida scansione cronologica
del procedimento di verifica delle offerte.
Ciò vale a maggior ragione nel caso di impugnazione delle
ammissioni, che rappresentano la vera novità nonché
criticità di applicazione del nuovo regime processuale,
posto che per le esclusioni la necessità di una tutela
cautelare immediata esiste da sempre.
Il Tar ha cercato di conciliare queste conclusioni con la
legislazione vigente in cui la valutazione delle esigenze
cautelari della parte ricorrente è fatta a monte dal
legislatore, che ha di fatto previsto un sistema di
definizione della controversia che lo stesso Consiglio di
Stato, nel parere reso sullo schema di Codice dei contratti
il 01.04.2016, ha considerato idoneo a sopperire all’assenza
di una apposita tutela cautelare (che non ha certamente
escluso ma ha ritenuto pressoché superflua).
Ed è qui che i giudici napoletani, in modo alquanto
innovativo ma logicamente coordinato con quanto illustrato,
ipotizzano che la richiesta di misure cautelari debba essere
motivata in senso rafforzato, dovendo la parte appositamente
giustificare non solo i contenuti della richiesta (sotto un
profilo delle esigenze cautelari così come previste dal
Codice del processo), ma la ragione stessa della domanda
proposta, la quale, di fatto, costituisce una deroga al
sistema processuale superaccelerato del comma 6-bis e
rimette al giudice il potere di dettare i tempi della prima
fase del giudizio, che sembravano essergli stati sottratti
dalla nuova disciplina.
È quindi ipotizzabile, sempre in chiave armonizzatrice della
nuova disciplina con i principi generali in materia di
efficacia della tutela giurisdizionale mediante l’utilizzo
delle misure cautelari, un onere motivazionale aggiuntivo
dell’istanza cautelare in relazione alla deroga della
normativa vigente, un onere aggiuntivo che esalti ancora di
più l’estrema gravità del pregiudizio per giustificare,
appunto, l’intervento del giudice a monte dell’instaurando
processo.
È infatti evidente che l’operare delle regole ordinarie di
cui agli artt. 55 e ss. c.p.a. si ponga in contrasto con la
disciplina di cui al comma 6-bis dell’art. 120, posto che è
quanto meno difficile conciliare la fissazione della camera
di consiglio “cautelare” con quella, a distanza di
pochissimi giorni, di una camera di consiglio “camerale”
sul medesimo oggetto, anche in ragione del fatto che il
collegio ben potrebbe definire la causa già con sentenza in
forma semplificata o rinviare di lì a massimo 45 giorni ad
un’udienza pubblica, sempre definitiva, secondo il rito del
comma 6 dell’art. 120 c.p.a.
Pertanto, fermo restando l’obbligo motivazionale sopra
indicato, in questi casi il rito ordinario del comma 6
prevarrebbe, per ragioni logiche e anche temporali, su
quello del comma 6-bis. Le forme di tutela cautelare
richieste, tuttavia, sarebbero circoscritte a quelle
d'urgenza ante causam e monocratiche, ciò perché il
regime derogatorio sopra ipotizzato, unitamente all’obbligo
motivazionale rinforzato, sarebbe ammissibile e legittimo
solo laddove esso presenti caratteristiche di
straordinarietà tali da consentire la deroga della
disciplina processuale accelerata in ragione della superiore
esigenza di tutela del diritto di difesa del ricorrente.
Il tutto dovrà essere conciliato con il nuovo comma 8-ter
dell'art. 120 c.p.a., sul quale il Tar napoletano non prende
posizione perché non inerente al giudizio, ma che tende a
ridimensionare in quanto parrebbe illogico che sia il
giudice a valutare la concedibilità della tutela cautelare
attraverso una prognosi sull’esito del giudizio, collegato
al rinvio agli artt. 121, comma 1, e 122 c.p.a. (ed in
particolare alla possibilità per il ricorrente di ottenere
la tutela in forma specifica subentrando nel contratto),
quando ci si trova nell’ambito di un giudizio contro
ammissioni o esclusioni e ancora non si conosce quale
concorrente sarà dichiarato aggiudicatario.
È quindi ipotizzabile ritenere che la suddetta disposizione
non si applichi al rito superaccelerato, perché presuppone
comunque l’affidamento e forse addirittura l’esistenza di un
contratto.
(3) Il
Tar ha svolto un ulteriore interessante passaggio nel
confrontare il rito superaccelerato con il rito elettorale
del 129 c.p.a., cui il sistema del 6-bis è chiaramente
ispirato sotto il profilo dell’anticipazione della tutela,
pervenendo alla conclusione che le somiglianze tra i due
sistemi si concentrano, e parimenti si esauriscono, proprio
nella struttura bifasica del contenzioso, differenziandosene
sotto altri aspetti, in quanto mentre nel procedimento
elettorale la scansione legislativa è puntuale e coordinata
con la disciplina processuale, questo non avviene nel
procedimento di aggiudicazione; inoltre, per giurisprudenza
pacifica, nel procedimento ex art. 129 c.p.a. non sono
ammissibili ricorsi contro ammissioni di candidati
concorrenti, salvo il caso di confondibilità dei
contrassegni.
Pertanto, mentre la fase del procedimento elettorale
preparatorio, che si concretizza essenzialmente nella
presentazione delle liste, è certamente qualificabile come
fase a “chiusura certa”, non così è per quanto
riguarda le fasi di svolgimento della procedura di gara.
Poiché il legislatore del 2016 non ha correttamente recepito
l'art. 56 della Direttiva 24/2014, nell’attuale sistema
degli appalti non sembra esservi una fase di ammissione
delle offerte che possa concludersi con un provvedimento
definitivo e tombale, seguito da una possibile “omologa”
da parte del giudice, e questo a differenza del procedimento
elettorale, dove la fase preparatoria e di presentazione
delle liste è completamente separata da quella relativa allo
svolgimento della competizione elettorale.
In conclusione, perdurando quello che i primi commenti alla
disciplina de quo hanno definito “dovere di controllo
aperto”, da parte della stazione appaltante, almeno sino
alla aggiudicazione, e in assenza di una sicura e rapida
scansione cronologica del procedimento di verifica delle
offerte, è evidente che le analogie tra il rito
superaccelerato in materia di appalti e il rito elettorale
terminano rapidamente.
Pertanto, l’assenza di previsione di una tutela cautelare
anche d’urgenza in quest’ultimo giudizio non può fare da
viatico per ipotizzare che la medesima sorte tocchi al nuovo
rito appalti, posto che molto diverse si presentano le fasi
della procedura e, di conseguenza, le situazioni soggettive
meritevoli di tutela giurisdizionale in tutte le sue varie
forme (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 20.12.2016 n. 5852 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali.
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Gara – Esclusione – Per gravi illeciti professionali –
Congrua dimostrazione da parte dell’Amministrazione – Art.
80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 80 del 2016 – Necessità.
Ai sensi dell’art. 80, comma 5,
lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, l’operatore economico
può essere escluso dalla gara per “gravi illeciti
professionali” solo se l’Amministrazione ha dimostrato con
mezzi adeguati che si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità. (1)
---------------
(1) La lett. c) del comma 5 dell’art. 80 del Codice dei contratti
prevede che tra i “gravi illeciti professionali” di
cui si deve essere reso colpevole l’operatore, tali da
rendere dubbia la sua integrità o affidabilità, rientrano:
le significative carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno
dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad
altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il
processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere
informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il
fornire, anche per negligenza, informazioni false o
fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero
l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione.
L’art. 38, comma 1, lett. f., d.lgs. 12.04.2006, n. 163
prevedeva che erano esclusi dalla gara i concorrenti che, “secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio
della loro attività professionale, accertato con qualsiasi
mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
La modificazione nel testo normativo rispetto alla
precedente formulazione implica che l’accertamento in ordine
all’esistenza della violazione deve essere effettuato sulla
base delle indicazioni contenute nella medesima disposizione
ovvero, anche, secondo altre e differenti modalità
analiticamente descritte da parte della stazione appaltante
(TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 19.12.2016 n. 2522
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento della procedura negoziata in via
d'urgenza ex art. 63 d. lgs.vo 50/2016, per conclusione
accordo quadro affidamento in convenzione servizio
accoglienza nella provincia di catanzaro cittadini stranieri
richiedenti protezione internazionale per il periodo
01/08/2016-31/10/2016 (prot. agid 20160009120 del 25/10/2016)
...
Con ricorso la Ma.Tu. chiedeva di annullare i
provvedimenti indicati in ricorso con i quali la stessa era
stata esclusa dalla procedura in questione e di accertare il
diritto della cooperativa stessa a partecipare alla
procedura oggetto di gara.
La ricorrente è stata esclusa dalla gara avente ad oggetto
procedura negoziata in via di urgenza per la conclusione di
un accordo quadro per l’affidamento in convenzione del
servizio di accoglienza nel territorio della provincia di
Catanzaro in favore di cittadini stranieri richiedenti
protezione internazionale. L’esclusione è motivata con
riferimento alle contestazioni che hanno comportato la
risoluzione di precedente analogo rapporto contrattuale ai
sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50 del
2016.
Il ricorso deve trovare accoglimento.
La citata disposizione prevede che l’esclusione del
concorrente è condizionata al fatto che la stazione
appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore
economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità.
Tra questi rientrano: le significative carenze
nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata,
non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di
un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al
risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di
influenzare indebitamente il processo decisionale della
stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai
fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza,
informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare
le decisioni sull'esclusione, la selezione o
l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai
fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
Nel caso di specie, anche in seguito alla richiesta
istruttoria formulata in corso di causa e della produzione
documentale da parte della resistente, emerge che non si
riscontrino adeguati elementi per ritenere che
l’amministrazione abbia dimostrato con mezzi adeguati che
l’operatore si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità. Gli inadempimenti allegati e relativi a
precedente rapporto contrattuale risultano, infatti, essere
stati tutti contestati da parte ricorrente e ciò in modo
espresso (nel senso della diretta impugnazione delle note
adottate dalla Prefettura) o in forma non espressa (le
contestazioni di cui alla nota n. 91546 del 05.02.2016
risultano essere oggetto del procedimento civile pendente,
cfr. ricorso per riassunzione allegato da parte ricorrente
alla memoria del 12.12.2015).
Ne discende che l’allegato
inadempimento difetta della prova dei caratteri della definitività e della gravità dell’inadempimento. Parte
resistente non ha, pertanto, provato con mezzi adeguati che
l’operatore si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali.
La modificazione nel testo normativo rispetto alla
precedente formulazione (art. 38, lett. f., d.lgs. n. 163/2006)
implica che
l’accertamento in ordine alla esistenza della
violazione debba essere effettuato sulla base delle
indicazioni contenute nella medesima disposizione ovvero,
anche, secondo altre e differenti modalità analiticamente
descritte da parte della stazione appaltante.
Nel caso di
specie, posta la sussistenza di un’analitica contestazione
giudiziale dei vari inadempimenti allegati e la mancanza di
un’adeguata descrizione di fatti estranei e differenti
rispetto a quelli oggetto di contestazione giudiziale, deve
ritenersi non integrata l’ipotesi descritta nella
fattispecie in esame con il conseguente accoglimento del
ricorso.
Si precisa che, ugualmente, la citata disposizione fa
riferimento e pertanto richiede la condanna al risarcimento
del danno ovvero la condanna ad altre sanzioni che devono
analiticamente essere motivate nell’ambito del procedimento
applicativo della relativa sanzione.
Come precisato nel
parere reso dalla commissione speciale del Consiglio di
Stato (Linee guida ANAC “indicazione dei mezzi di prova
adeguati e delle carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto che possano considerarsi significative
per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui
all’art. 80, comma 5, lett. c), del codice”)
“possono essere
considerate come “altre sanzioni”, l’incameramento delle
garanzie di esecuzione o l’applicazione di penali, fermo che
la sola applicazione di una clausola penale non è di per sé
sintomo di grave illecito professionale, specie nel caso di
applicazione di penali in misura modesta”.
Nel caso di
specie, viste le contestazioni giudiziali e l’entità delle
penali non contestate, non appaiono adeguatamente provati i
presupposti applicativi della citata disposizione.
La domanda di caducazione dell’intera procedura non può
invece trovare accoglimento in mancanza di adeguata e
specifica descrizione dei motivi di caducazione dell’intera
procedura. Allo stesso modo, non può trovare accoglimento la
domanda diretta ad accertare il diritto della cooperativa
alla stipulazione della convenzione, rientrando nei poteri
istruttori e discrezionali della pubblica amministrazione,
né la rimozione di altre penalità riguardanti atti o fatti
estranei all’odierno giudizio. |
APPALTI:
Responsabile unico del procedimento presidente di
Commissione di gara.
---------------
Gara – Commissione di gara – Art. 77, prima parte, d.lgs.
n. 50 del 2016 – Applicabilità solo dopo la creazione
dell’albo dei Commissari.
Gara – Commissione di gara – Presidente – Responsabile unico
del procedimento – Possibilità.
L’art. 77, prima parte, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, che disciplina la formazione e l’attività
delle commissioni di gara, si applica solo a regime, ovvero
dopo che sarà stato creato l’albo dei commissari cui essa
allude, e che al presente ancora non esiste; sino a quel
momento, ai sensi del comma 12 dello stesso art. 77, “la
commissione continua ad essere nominata dall'organo della
stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del
soggetto affidatario del contratto, secondo regole di
competenza e trasparenza preventivamente individuate da
ciascuna stazione appaltante”.
Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 77, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, può essere nominato presidente della
commissione di gara anche il Responsabile unico del
procedimento (1).
---------------
(1) Ha evidenziato il Tar che a questa conclusione era pervenuta la
giurisprudenza (Cons. St., sez. V, 20.11.2015, n. 5299 e
26.09.2002, n. 4938) formatasi nella vigenza del d.lgs.
12.04.2006, n. 163; assurgendo a principio generale non
riferentesi ad una specifica disciplina delle gare, si deve
ritenere estensibile anche nel vigore della nuova normativa
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 19.12.2016 n. 1757
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
MASSIMA
6. Infondato è anche il secondo motivo, poiché
la norma dell’art. 77, prima parte, del d.lgs.
50/2016 invocata è destinata a valere solo a regime, ovvero
dopo che sarà stato creato l’albo dei commissari cui essa
allude, e che al presente ancora non esiste; sino a quel
momento, ai sensi del comma 12, “la commissione continua
ad essere nominata dall'organo della stazione appaltante
competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario
del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza
preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante”.
7. In tal senso, il cumulo delle funzioni
di RUP e di presidente della commissione di gara non viola
le regole di imparzialità, come ritenuto da costante
giurisprudenza, che argomenta in termini di principio, e non
con riguardo ad una specifica disciplina delle gare, e
quindi si deve ritener condivisibile anche nel vigore della
nuova normativa:
si vedano C.d.S. sez. V 20.11.2015 n. 5299 e 26.09.2002 n.
4938. |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 6,
comma 2, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001, “le opere di
pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per
aree di sosta, che siano contenute entro l'indice di
permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico
comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini
interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta
delle acque, locali tombati”.
L’aver cosparso il terreno di materiali di risulta (o di
ghiaia, come sostenuto dalla parte ricorrente) rientra
pertanto tra le attività edilizie libere ai sensi dell’art.
6 d.P.R. n. 380/2001; giova anzi osservare come una tale
attività appaia anche meno invasiva della stessa
pavimentazione, trattandosi di un tipo di intervento che
consente un più agevole ripristino del terreno.
Invero, è solo il superamento dell’indice di
permeabilità a determinare la necessità di un titolo
abilitativo per interventi di questo tipo, che altrimenti
rientrano tra le attività edilizie libere.
---------------
... per l'annullamento della disposizione dirigenziale n.
001/A del 12.02.2016 con cui è stato ordinato il ripristino
dello stato dei luoghi relativamente ad un suolo ubicato in
Napoli alla via ... n. 19, che si assume
essere stato trasformato in piazzale cosparso di materiali
di risulta con spessore di circa 30 cm; nonché di ogni altro
atto comunque presupposto, connesso o consequenziale.
...
La parte ricorrente impugnava i provvedimenti in epigrafe
per i seguenti motivi:
1) non è affatto vero che il terreno
sia stato trasformato in piazzale cosparso di materiali di
risulta; si tratta di un vero e proprio terreno, in parte
coltivato;
2) e 3) non è affatto cosparso di materiali di
risulta, ma di uno strato di ghiaia (materiale naturale) che
non determina l’impermeabilizzazione del terreno; ai sensi
dell’art. 6 d.P.R. n. 380/2001, si tratta dunque di
un’attività edilizia libera;
4) il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza n. 532/2014) ha considerato lo spargimento di
brecciame come un’attività libera, in un caso del tutto
analogo.
L’Amministrazione eccepiva l’infondatezza del ricorso,
atteso che attraverso lo spargimento di ghiaia sull'area in
questione il proprietario intendeva effettivamente
modificare la destinazione agricola dell'area, determinando,
così, una trasformazione urbanistica che necessitava di
concessione edilizia (sulla necessità di concessione
edilizia per ogni intervento che determini una perdurante
modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul
suolo, pur in assenza di opera in muratura, anche C.d.S.,
sez. V, 21.10.2003, n. 6519).
Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito
precisati.
Come già rilevato in sede cautelare, ai sensi dell’art. 6,
comma 2, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001, “le opere di
pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per
aree di sosta, che siano contenute entro l'indice di
permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico
comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini
interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta
delle acque, locali tombati”.
L’aver cosparso il terreno di materiali di risulta (o di
ghiaia, come sostenuto dalla parte ricorrente) rientra
pertanto tra le attività edilizie libere ai sensi dell’art.
6 d.P.R. n. 380/2001; giova anzi osservare come una tale
attività appaia anche meno invasiva della stessa
pavimentazione, trattandosi di un tipo di intervento che
consente un più agevole ripristino del terreno.
Come rilevato in sede cautelare –nonché in altri precedenti
di questa Sezione (Tar Campania, Napoli, Sez. IV, n.
5240/2013)– è solo il superamento dell’indice di
permeabilità a determinare la necessità di un titolo
abilitativo per interventi di questo tipo, che altrimenti
rientrano tra le attività edilizie libere.
Orbene, il provvedimento impugnato nulla dice sul
superamento del predetto indice di permeabilità e, sotto
tale profilo, appare carente di motivazione; giova osservare
che neanche nella memoria difensiva l’Amministrazione ha
fornito precisazioni sul superamento dell’indice di
permeabilità
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 15.12.2016 n. 5796 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Risulta inammissibile, per carenza del requisito della
lesività, il ricorso proposto per l’annullamento
giurisdizionale di un atto comunale recante una mera “diffida”,
trattandosi di atto che assume carattere meramente
preparatorio.
Secondo la pacifica giurisprudenza, è
inammissibile, per carenza del requisito della lesività, il
ricorso proposto per l'annullamento giurisdizionale di un
atto comunale recante una mera “diffida”, trattandosi,
infatti, di atto che assume carattere meramente
preparatorio, a rigore nemmeno necessario, rispetto
all'adozione della successiva ordinanza contingibile ed
urgente, la quale costituisce il provvedimento conclusivo
del procedimento.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione, della diffida
prot. PG/2015/20297 del 22.09.2015 della Direzione Centrale
ambiente, tutela del territorio e del mare - Servizio difesa
idrogeologica del territorio e sicurezza abitativa del
Comune di Napoli e del relativo verbale di notifica.
...
FATTO
Con l’atto introduttivo del giudizio, notificato
l’11.11.2015 e depositato il 23 seguente, la società
ricorrente ha premesso di essere titolare di un’azienda che
fabbrica fuochi d’artificio, sita in Napoli, alla via ...,
in area già interessata in passato da dissesti
idrogeologici.
Ciò posto, l’instante ha impugnato l’atto, in epigrafe
specificato, con cui la Direzione Centrale ambiente, tutela
del territorio e del mare - Servizio difesa idrogeologica
del territorio e sicurezza abitativa del Comune di Napoli
l’ha diffidata, in data 22.09.2015, a non praticare e a non
far praticare la fabbrica ed a rimuovere il materiale
infiammabile.
A sostegno della domanda di annullamento, l’esponente ha
dedotto tre motivi di diritto, coi quali ha lamentato i
seguenti vizi: violazione e falsa applicazione art. 97 Cost.
– difetto assoluto di motivazione – violazione art. 3 L.
241/1990 – eccesso di potere per contraddittorietà e
ingiustizia manifesta, erroneità dei presupposti di fatto,
carenza assoluta d’istruttoria.
Ha resistito in giudizio il Comune di Napoli.
In esito alla camera di consiglio del 17.12.2015, con
ordinanza n. 2250/2015, la Sezione ha respinto la domanda
cautelare.
La parte ricorrente ha prodotto memoria difensiva e
documenti insistendo nella propria domanda.
Il Comune di Napoli ha depositato varie memorie difensive e
documenti, eccependo l’inammissibilità e/o l’improcedibilità
del ricorso, stante l’adozione dell’ordinanza sindacale n.
85 del 04.12.2015, notificata il 15 dicembre seguente (cfr.
produzione del 23.09.2016) e restata inoppugnata.
DIRITTO
Il ricorso va dichiarato inammissibile per carenza
d’interesse, in relazione alla natura non provvedimentale
dell’atto gravato, con cui la Direzione Centrale ambiente,
tutela del territorio e del mare - Servizio difesa
idrogeologica del territorio e sicurezza abitativa del
Comune di Napoli ha diffidato la ricorrente a non far
praticare la fabbrica di fuochi d’artificio ed a rimuovere
il materiale infiammabile.
Invero, secondo la pacifica giurisprudenza, anche di questa
Sezione (cfr. per tutte, Consiglio di Stato, sez. V,
20.08.2015, n. 3955; TAR Campania, Napoli, sez. V,
26.05.2016, n. 2719), è inammissibile, per carenza del
requisito della lesività, il ricorso proposto per
l'annullamento giurisdizionale di un atto comunale recante
una mera “diffida”, trattandosi, infatti, di atto che
assume carattere meramente preparatorio, a rigore nemmeno
necessario, rispetto all'adozione della successiva ordinanza
contingibile ed urgente, la quale costituisce il
provvedimento conclusivo del procedimento.
Nel caso di specie, alla diffida del 22.09.2015 ed alla
mancata spontanea ottemperanza da parte del destinatario è
conseguita l’ordinanza sindacale n. 85 del 04.12.2015,
notificata il 15 dicembre seguente, restata inoppugnata,
ancorché assuma evidente connotazione autoritativa, essendo
stata emessa dal Sindaco di Napoli nell’esplicito esercizio
della potestà prevista dall’art. 54, comma 4, T.U.E.L.,
nella ritenuta sussistenza dei presupposti di necessità ed
urgenza, a tutela della pubblica incolumità.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso
va dichiarato inammissibile per carenza d’interesse (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 15.12.2016 n. 5782 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
firma illeggibile non esclude dalla gara. Se è solo
questione di calligrafia.
La sottoscrizione non leggibile per mere ragioni
calligrafiche non legittima l'esclusione da una gara che
invece è necessaria se vi sia una oggettiva incertezza su
chi abbia sottoscritto l'offerta.
È quanto ha precisato il Consiglio di stato -Sez. V-
con la
sentenza 15.12.2016 n. 5317 relativamente a
una gara per appalto di servizi in cui il disciplinare di
gara, nel paragrafo intitolato «Informazioni sulla
compilazione della documentazione di gara», stabiliva
espressamente che l'offerta economica, pena l'esclusione
dalla gara, dovesse essere incondizionata e sottoscritta in
modo chiaro e leggibile da uno dei legali rappresentanti.
Il
ricorrente aveva eccepito la non riconoscibilità della firma
ma sia in sede cautelare, sia nel merito il Consiglio di
stato ha respinto il ricorso dichiarandolo infondato. In
particolare, i giudici hanno affermato che la declaratoria
di esclusione si riferiva a due ipotesi, peraltro in modo
conforme alle ordinarie esigenze di tutte le stazioni
appaltanti: evitare offerte condizionate ed evitare offerte
non imputabili a uno specifico concorrente.
Per quanto riguarda la seconda ipotesi, la sentenza
evidenzia che la sottoscrizione «costituisce lo strumento
giuridico per imputare una determinata dichiarazione a un
soggetto» e che la comminatoria di esclusione può scattare
soltanto nelle ipotesi in cui la sottoscrizione apposta
generi obiettiva incertezza sul soggetto a cui imputare
l'offerta. E questo, peraltro, anche a prescindere da una
clausola specifica e anche attualmente in regime di
tassatività delle clausole di esclusione ex art. 46, comma
1-bis, del Codice dei contratti pubblici.
Il Consiglio di stato richiama il principio generale per cui
non è causa di invalidità di un atto amministrativo la
circostanza che sia illeggibile la sottoscrizione, quando
non sussista dubbio sulla provenienza dell'atto da chi
risulti nell'intestazione o nel corpo del medesimo e sulla
qualifica del sottoscrittore.
Da ciò discende per i giudici che la prescrizione di
esclusione contenuta nel disciplinare deve essere
interpretata nel senso che è vietata la comminatoria di
esclusioni per mere ragioni calligrafiche, legate
all'apparenza estetica della firma, il che si risolverebbe
in un mero ed inammissibile formalismo burocratico
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Principio di rotazione nell’appalto servizi sotto soglia.
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Gara – Appalto servizi sotto soglia – Mancato invito
gestore uscente – Principio di rotazione - Art. 36, comma 1,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Legittimità.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, in applicazione del principio di
rotazione è legittimo il mancato invito, ad una gara per
l’affidamento di un appalto di servizi sotto soglia, del
gestore uscente (1).
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(1) Ha chiarito il Tar, richiamando un precedente in termini
(Tar L’Aquila 09.06.2016, n. 372), che la Stazione
appaltante non ha alcun obbligo di invitare, ad una gara
informale, il gestore uscente, ma una mera facoltà, di cui,
proprio per il principio di massima partecipazione, e in
caso di esercizio effettivo, la stessa stazione appaltante
deve dare motivato conto all'esterno; in sostanza, ove
l'Amministrazione si determini a invitare anche il
precedente gestore, dovrebbe spiegare l'apparente contrasto
con il principio, normativamente fissato, di rotazione (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 15.12.2016 n. 1906
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La società ricorrente, premesso di aver gestito
ininterrottamente il servizio informatico del comune di
Uggiano della Chiesa, ha impugnato gli atti con i quali il
Comune ha disposto l’affidamento del servizio di gestione
del sistema informativo comunale alla società Pa. 3.26.
La ricorrente sostiene: che il Comune, avendo deciso di
procedere attraverso il modulo della procedura negoziata
senza previa pubblicazione del bando, avrebbe dovuto
invitare la ricorrente a presentare la propria offerta, che
non è mai stata contestata dal Comune l’inadeguatezza del
servizio da lei reso; che l’offerta della Parsec non è
migliorativa della propria offerta.
Alla camera di consiglio, avvertire le parti ex art. 60
c.p.c, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
È da rilevare anzitutto che il Comune non ha provveduto
attraverso la procedura negoziata ma ha deciso di scegliere
l’affidamento diretto, come d’altronde si rileva chiaramente
anche dalla delibera del 14.07.2016 impugnata con il
presente ricorso nella quale si legge <<visto l’art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016 che, al comma 2, così dispone “… le
stazioni appaltanti procedono all’affidamento di lavori,
servizi e forniture … di importo inferiore a 40.000 euro
mediante affidamento diretto…>>.
Posto ciò, è da osservare che,
avendo la ricorrente
effettuato il servizio negli anni precedenti, il mancato
invito alla procedura si giustifica agevolmente con
l’applicazione del principio di rotazione.
Infatti,
trova applicazione alla fattispecie l’art. 36, comma
primo, d.lgs. 50/2016, il quale prevede espressamente il
“rispetto del principio di rotazione”, e, trattandosi di una
norma speciale relativa alle gare sotto soglia, essa prevale
sulla normativa sulle gare in generale
(cfr. Tar Friuli
Venezia Giulia, sez. I, 04.10.2016, n. 419).
“Non può configurarsi, in linea di principio, alcun obbligo
per la Stazione appaltante di invitare, ad una gara
informale … il gestore uscente, ma una mera facoltà, di cui,
proprio per il principio di massima partecipazione, e in
caso di esercizio effettivo, la stessa stazione appaltante
deve dare motivato conto all'esterno; in sostanza, ove
l'Amministrazione si determini a invitare anche il
precedente gestore, dovrebbe spiegare l'apparente contrasto
con il principio, normativamente fissato, di rotazione” (Tar
Aquila, sez. I, 09.06.2016, n. 372).
In sostanza,
il mancato invito risulta legittimo e conforme
alla legge di gara, a nulla rilevando la questione delle
previe contestazioni, posto che il tipo di gara in
questione, sotto soglia, determina l’applicazione del
principio di rotazione.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto. |
APPALTI:
Rispetto degli obblighi retributivi minimi e anomalia
dell’offerta.
---------------
Gara – Offerta – Anomalia dell’offerta – Artt. 97 e 30,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Mancato rispetto obblighi
retributivi minimi – Esclusione dalla gara – Congruità
dell’offerta nel complesso - Irrilevanza ex se.
In tema di giudizio di anomalia
dell’offerta il rinvio operato dall’art. 97, comma 5, lett.
a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 al precedente art. 30, comma 3,
implica che, nell’esecuzione degli appalti pubblici, gli
operatori economici sono tenuti a rispettare le norme poste
a tutela dei diritti sociali, ambientali e del lavoro,
essendo preciso obbligo della stazione appaltante chiedere i
necessari giustificativi in sede di verifica sull’anomalia
dell’offerta.
Ne consegue il vincolato esito della dovuta esclusione
dell’offerta proposta in spregio degli obblighi retributivi
minimi, e ciò anche indipendentemente dalla congruità
dell’offerta valutata nel suo complesso, in ciò
sostanziandosi il novum rispetto alla pregressa disciplina
(1).
---------------
(1) Ad avviso del
Tar la conclusione cui è pervenuto trova conferma all’esito
della lettura della stessa direttiva 24/2014 UE (art. 69);
da un esame testuale e sistematico emerge invero che la
ratio del nuovo Codice è chiaramente orientata per il
rigoroso rispetto dei diritti minimi laddove involgano i
primari interessi ambientali, sociali e, come nel caso di
specie, lavoristici (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 15.12.2016 n. 1315
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso merita di essere accolto, attesa la
fondatezza del primo e assorbente motivo di gravame.
3. Al riguardo, deve osservarsi che, in ossequio al
principio dispositivo nonché a quello che riserva alla parte
la disponibilità della domanda sotto il profilo della scelta
consapevole di graduazione dei motivi di ricorso, va
esaminato primieramente ed in via assorbente il primo motivo
di diritto, come articolato in ricorso (punto B.2.
dell’atto).
L’esponente ha infatti contestato la apparente incongruità
dell’offerta della controinteressata nonché aggiudicataria
Si. srl, nella parte in cui quest’ultima società ha
ribassato il costo del lavoro risultante dalle tabelle
ufficiali del Ministero del Lavoro, giustificando lo
scostamento per mezzo della stipula di un “contratto di
prossimità”, asseritamente redatto in violazione della
normativa di settore; ribasso esitato nella offerta
vincente, che tuttavia presenterebbe evidenti profili di
inattendibilità.
Invero, rileva il Collegio che l’aggiudicataria ha indicato
in offerta l’utilizzo di quattro guardie giurate del IV
livello contrattuale, dichiarando di dover sopportare un
costo orario pari ad € 16,77, a fronte di un costo pari ad
€ 18,63 per il lavoro diurno ed € 19,55 per il lavoro
notturno, come da tabelle del Ministero del Lavoro, allegate
in atti.
Ciò posto l’art. 97 del d.lgs 50/2016 prevede che la
Stazione Appaltante debba escludere il concorrente la cui
offerta sia stata sottoposta a verifica se il concorrente
non giustifica il basso livello dei prezzi e dei costi
proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4
ovvero se ha accertato, con le modalità di cui al primo
periodo della norma, che l’offerta era normalmente bassa, in
quanto:
-
non rispetta gli obblighi di cui all’art. 30, comma 3
(lettera a, art. 97) ovvero il costo del personale è
inferiore ai minimi salariali retributivi nelle apposite
tabelle di cui all’art. 23, comma 16 (lettera d del detto
articolo).
Posto che il ribasso dei costi del lavoro stabiliti dalle
tabelle ministeriali deve essere ritenuto inderogabile, si
rileva che la Si. ha giustificato il ribasso del
costo del lavoro rispetto alle tabelle, invocando
l’applicazione di un “contratto di prossimità” ai sensi
dell’art. 8 D.L. 138/2011.
Tuttavia, osserva il Collegio la correttezza di quanto
contestato da parte ricorrente in ordine all’utilizzo di
tale strumento contrattuale, come introdotto dall’ art. 8
D.L. n. 138/2011.
In disparte la considerazione che, come dedotto da parte
ricorrente, il contratto di prossimità (sostanziandosi in un
accordo di II livello che ha la funzione di integrare il CCN
di categoria ovvero di derogare alla disciplina legale e a
quella prevista dalla contrattazione collettiva, per la
finalità del raggiungimento di specifici obiettivi, quali la
salvaguardia dell’occupazione, l’avvio di nuove attività,
l’emersione del lavoro irregolare) non risulta esser stato
stipulato da un sindacato legittimato (il che potrebbe
ridondare in termini di irregolarità dell’accordo) nonché il
rilievo che per il principio di vicinanza della prova,
l’onere della dimostrazione della sufficiente
rappresentatività avrebbe dovuto essere assolto dalla parte
controinteressata (che ha mancato di costituirsi in
giudizio) ovvero dall’Amministrazione resistente (cosa che
non è avvenuta), si osserva che l’oggetto dell’appalto de
quo non sembra avere attinenza con le attività
tassativamente previste dal comma 2 dell’art. 8 D.L. n.
138/2011 convertito con modificazioni dalla legge n.
148/2011.
Il citato comma 2 invero contempla infatti l’operatività del
cd. “contratto di prossimità” solo ed inderogabilmente al
fine di regolare le materie inerenti l’organizzazione del
lavoro e della produzione con riferimento:
a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove
tecnologie;
b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e
inquadramento del personale;
c) ai contratti a termine, ai contratti ad orario ridotto,
modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli
appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di
lavoro;
d) alla disciplina dell’orario di lavoro;
e) alle modalità di disciplina del rapporto di lavoro,
comprese le collaborazioni continuate e continuative a
progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione
dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal
rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento
discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in
concomitanza del matrimonio, il licenziamento della
lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al
termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino
ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato
dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per
la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del
lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione od
affidamento.
La conferma della tassatività dell’elenco è stata peraltro
ribadita dalla sentenza n. 221 della Corte Costituzionale
resa il 04.10.2012, citata pure da parte istante, ed
intervenuta a dirimere una vertenza in ordine ad una
asserita incostituzionalità della norma per violazione del
riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.
Ma ancora più assorbente, ed anzi decisiva, appare la
doglianza proposta dalla società ricorrente, laddove ha
contestato l’inammissibilità delle giustificazioni offerte
dall’aggiudicataria, nella parte in cui comportano e si
fondano su di una inammissibile lesione del diritto alla
giusta retribuzione spettante ai lavoratori coinvolti
nell’accordo de quo.
Ed infatti esso contempla un trattamento retributivo
deteriore rispetto ai minimi stabiliti dal CCNL di settore,
laddove il costo del lavoro è connesso alla eliminazione
della quattordicesima mensilità nonché di tutte le indennità
ivi previste.
Critica questa, ancora una volta, non specificamente
contestato dalle parti interessate.
Risulta altresì che nelle giustificazioni offerte da
Si., in occasione del controllo di anomalia, gli
stessi contributi previdenziali e assistenziali sono stati
conseguentemente computati sulla minore retribuzione annuale
come risultante dal CCNL di settore (in violazione dell’art.
1, comma 1, D.L. 338/1989 nonché della circolare n. 7/2016 del
Ministero del Lavoro).
Plausibili sono le asserzioni di Eu. nella parte in cui
ricordano che la stazione appaltante, alla luce della nuova
cornice ordinamentale costituita dal d.lgs. n. 50/2016
(nuovo Codice de Contratti Pubblici), è obbligata ad
escludere il concorrente, quando sia stato accertato che
l’offerta è anormalmente bassa, in quanto, tra l’altro, non
rispetta gli obblighi di cui all’art. 30, comma 3, lett. a),
ovvero il costo del personale è inferiore ai minimi
salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui
all’art. 23, comma 16, del Codice medesimo.
Tale ultima previsione, in conformità all’art. 86, comma 3-bis, del vecchio codice dei contratti, contempla il costo del
lavoro “determinato annualmente in apposite tabelle, dal
Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali sulla base
dei valori economici definiti dalla contrattazione
collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le
organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed
assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle
differenti aree territoriali”.
In buona sostanza
il rinvio operato dall’art. 97, comma 5,
lett. a), all’art. 30, comma 3, implica che, nella esecuzione
degli appalti pubblici, gli operatori economici sono
obbligati a rispettare le norme poste a tutela dei diritti
sociali, ambientali e del lavoro, essendo preciso obbligo
della stazione appaltante chiedere i necessari
giustificativi in sede di verifica sull’anomalia
dell’offerta.
Con il vincolato esito della dovuta esclusione dell’offerta
proposta in spregio degli obblighi retributivi minimi, e
ciò, si badi bene, anche indipendentemente dalla congruità
dell’offerta valutata nel suo complesso; in ciò
sostanziandosi il novum rispetto alla pregressa disciplina.
Invero,
la linea ermeneutica del nuovo sistema di tutela,
come illuminata in ricorso, deve essere condivisa proprio
all’esito della lettura della stessa direttiva 24/2014 UE
(art. 69); da un esame testuale e sistematico emerge invero
che la ratio del nuovo codice è chiaramente orientata per il
rigoroso rispetto dei diritti minimi laddove involgano i
primari interessi ambientali, sociali e, come nel caso di
specie, lavoristici.
Da tutto quanto sopra esposto deriva:
-
la apparente incongruità dell’offerta avanzata
dall’aggiudicataria e l’inammissibilità dei giustificativi
offerti;
-
la difettosità delle determinazioni conseguenti prese
dall’Amministrazione, la quale ha recepito acriticamente le
giustificazioni fornite da Si. srl;
-
la ricorrenza dei vizi lamentati dalla ricorrente con il
primo motivo di gravame.
Stante l’espressa graduazione dei motivi di diritto, è
precluso lo scrutinio della seconda doglianza articolata in
ricorso, che pure involgerebbe la regolarità della gara
medesima.
Ne consegue l’annullamento degli atti impugnati ai punti A),
B) e C) dell’epigrafe con obbligo dell’Amministrazione di
rideterminarsi alla stregua degli effetti conformativi che
derivano dalla presente pronuncia. |
PUBBLICO IMPIEGO: Valido
il licenziamento se si esce senza timbrare. Pubblico
impiego. Applicabilità anche prima della riforma Madia.
È valido il
licenziamento del dipendente pubblico che si allontana senza
timbrare il cartellino.
Lo ha stabilito la
Corte di Cassazione -Sez. lavoro- con la
sentenza 14.12.2016 n. 25750, chiamata a decidere sulla legittimità del
licenziamento irrogato ex art. 55-quater del dlgs 165/2001
a un dipendente, accusato di avere tratto in inganno il
datore di lavoro in ordine all’orario di servizio prestato,
in vigenza della normativa antecedente alle modifiche
introdotte dalla cosiddetta Riforma Madia (dlgs 116/2016).
Nel caso in esame, il dipendente non aveva alterato i
sistemi di rilevamento della presenza o fatto timbrare
l’uscita da qualcun altro al suo posto, ma si era
allontanato senza autorizzazione negli intervalli tra la
timbratura d’ingresso e quella d’uscita, omettendo di
registrare le timbrature intermedie e così fornendo una
attestazione non veritiera sulla sua effettiva presenza nel
luogo di lavoro.
Entrambi i giudizi di merito avevano escluso che tale
condotta potesse giustificare il licenziamento, valorizzando
il dato letterale dell’articolo 55-quater “ante riforma”,
che sanzionava il comportamento fraudolento volto ad
alterare e/o manomettere i sistemi di rilevamento della
presenza. La Cassazione, però, sottolineando la «finalità
chiarificatrice» delle modifiche apportate proprio su questo
punto dalla Riforma Madia, ha evidenziato come «la chiara
formulazione della disposizione (articolo 55-quater, dlgs
165/2001 “ante riforma”, ndr) ed anche la sua “ratio” …
inducono ad affermare che la registrazione effettuata
attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della
presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se
nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in
uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio,
mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui
miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il
lavoratore è presente in ufficio dal momento della
timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita».
Secondo la Corte, se è vero che solo con la Riforma Madia è
stato chiaramente disposto come costituisca falsa
attestazione della presenza in servizio qualunque modalità
fraudolenta posta in essere per far risultare il dipendente
in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso cui
lavora circa il rispetto dell’orario di lavoro, è
altrettanto vero che anche prima la normativa non potesse
essere interpretata nel senso di ridurre la condotta
sanzionata con il licenziamento ai soli casi di
alterazione/manomissione del sistema di rilevazione.
La mancata segnalazione dell’uscita nel sistema di
rilevazione della presenza in servizio è una condotta
sussumibile entro la fattispecie che punisce con il
licenziamento la «falsa attestazione della presenza in
servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento
della presenza o con altre modalità fraudolente», dovendosi
considerare falsa e fraudolentemente attestata qualsiasi
registrazione che «miri a fare emergere, in contrasto con il
vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento
della timbratura in entrata a quello della timbratura in
uscita» (articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Che rischio se mi allontano dal lavoro senza
timbrare il cartellino?
Legittimo il licenziamento
del dipendente pubblico che nell’orario di
lavoro si allontani dal posto di lavoro senza
timbrare il badge.
Il dipendente pubblico che si allontana dal
proprio ufficio senza timbrare il cartellino
rischia il licenziamento.
Lo ha chiarito la
Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 14.12.2016 n. 25750.
Mai la pausa caffè o sigaretta è costata così
tanto al lavoratore. Anche per pochi minuti la
sua assenza dall’ufficio deve essere “vidimata”
dal badge. Non registrare la momentanea uscita
dall’ufficio può costare il posto. La misura
del licenziamento è infatti prevista dalla
legge [1]
quando le violazioni del lavoratore, in forza
presso la pubblica amministrazione, siano
particolarmente gravi, come ad esempio quella
di false attestazioni sulla propria presenza
sul posto di lavoro.
La recente riforma Madia ha ulteriormente
sottolineato tale ineluttabile conseguenza
[2]
anche se la vicenda decisa dalla Cassazione si
riferisce a fatti avvenuti prima della novella
legislativa. Ma proprio la legge Madia deve
essere considerata come base per interpretare
l’intenzione del legislatore, anche prima
della riforma, di attribuire la sanzione del
licenziamento al dipendente che si allontana,
senza autorizzazione, nel periodo intermedio
che va dalla timbratura d’ingresso a quella
d’uscita, omettendo di registrare le
timbrature intermedie e così fornendo una
attestazione non veritiera sulla sua effettiva
presenza nel luogo di lavoro.
La registrazione effettuata attraverso
l’utilizzo del sistema di rilevazione della
presenza sul luogo di lavoro (cosiddetto
badge) è corretta e non falsa solo se
nell’intervallo compreso tra le timbrature in
entrata ed in uscita il lavoratore è
effettivamente presente in ufficio, mentre è
falsa e fraudolentemente attestata nei casi in
cui miri a far emergere, in contrasto con il
vero, che il lavoratore è presente in ufficio
dal momento della timbratura in entrata a
quello della timbratura in uscita.
È vero, solo la Riforma Madia ha chiarito che
si considera «falsa attestazione della
presenza in servizio» qualunque modalità
fraudolenta posta in essere per far risultare
il dipendente in servizio o trarre in inganno
l’amministrazione presso cui lavora circa il
rispetto dell’orario di lavoro; e solo la
riforma Madia ha precisato che l’ineludibile
conseguenza è il licenziamento. Ma ciò non
toglie che anche prima questo comportamento
fosse da considerare altrettanto grave e che
altre soluzioni rispetto allo scioglimento del
rapporto di lavoro non potevano essere
ravvisate.
Dunque, la mancata segnalazione dell’uscita
dal lavoro, anche se temporanea (sia solo per
pochi minuti) attraverso il badge è una
condotta che fa scattare il licenziamento in
quando costituisce illecito di «falsa
attestazione della presenza in servizio,
mediante l’alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o con altre
modalità fraudolente». È infatti
attestazione falsa e fraudolenta qualsiasi
registrazione che «miri a fare emergere, in
contrasto con il vero, che il lavoratore è
presente in ufficio dal momento della
timbratura in entrata a quello della
timbratura in uscita».
---------------
[1] Art. 55-quater del dlgs 165/2001.
[2] Dlgs 116/2016 (commento tratto da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo
il licenziamento se il dipendente pubblico non timbra il
cartellino d’uscita.
Ai
sensi dell'art. 55-quater, c. 1, lett. a), del D.Lgs. n. 165
del 2001 la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo
del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di
lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo
compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il
lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è
falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a
far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è
presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata
a quello della timbratura in uscita.
La fattispecie disciplinare di cui
all'art. 55-quater, c. 1, lett. a), del D.Lgs. n. 165 del
2001 si realizza non solo nel caso di
alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in
cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della
presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il
lavoratore è rimasto in ufficio durante l'intervallo
temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in
entrata ed in uscita.
---------------
Sintesi del motivo di ricorso
5. Con l'unico motivo il ricorrente denuncia, ai sensi
dell'art. 360, c. 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa
applicazione degli artt. 55-quater del D.Lgs. 165/2001 ,
2119 c.c. e 640 c.p..
6. Assume che, ai sensi dell'art. 55-quater del D.Lgs.
165/2001, l'uso fraudolento delle apparecchiature atte a
documentare la presenza sul luogo di lavoro e l'utilizzo
alterato di queste ultime non si consuma solo nella
commissione di condotte volte ad alterare fisicamente il
sistema di rilevazione delle presenze ovvero nel far
timbrare il cartellino da altri colleghi, ma anche
nell'omessa registrazione dell'uscita dal luogo di lavoro e
nella attestazione non veritiera sulla effettiva presenza
sul luogo di lavoro.
Esame del motivo
7. Il motivo è fondato.
8. L'art. 55-quater, c. 1, lett. a), del D.Lgs. 165/2001
(nel testo applicabile "ratione temporis" alla
vicenda dedotta in giudizio, realizzatasi prima delle
modifiche introdotte dall'art. 3, c. 1, del D.Lgs. 116/2016)
sanziona con il licenziamento la falsa attestazione della
presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente
e la giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una
certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno
stato di malattia.
9. La chiara formulazione della disposizione ed anche la sua
"ratio", questa evincibile dall' obiettivo, enunciato
nel c. 1 dell'art. 67 del D.Lgs. n. 150 del 2009, di "potenziamento
del livello di efficienza degli uffici pubblici e di
contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di
assenteismo", inducono ad affermare che
la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo
del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di
lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo
compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il
lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è
falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a
far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è
presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata
a quello della timbratura in uscita.
10. La fattispecie disciplinare di fonte
legale si realizza, dunque, non solo nel caso di
alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in
cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della
presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il
lavoratore è rimasto in ufficio durante l'intervallo
temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in
entrata ed in uscita.
11. La condotta che si compendia
nell'allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare,
mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica,
i periodi di assenza economicamente apprezzabili è, infatti,
idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione
di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e
costituisce, ad un tempo, condotta penalmente rilevante ai
sensi del c. 1 dell'art. 55-quinquies del D.Lgs. n. 165 del
2001.
12. Il Collegio reputa che utili elementi a conforto della
innanzi esposta ricostruzione della condotta tipizzata dal
legislatore nella lett. a) del c. 1 dell'art. 55-quater
possono desumersi dall'art. 3, c. 1, del D.Lgs. n. 116 del
2016. Tale norma ha introdotto nell'art. 55-quater il comma
1-bis che dispone "costituisce falsa attestazione della
presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in
essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il
dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione
presso la quale il dipendente presta attività lavorativa
circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso. Della
violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria
condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta".
13. E' certo innegabile che l'intervento additivo,
sicuramente non qualificabile come fonte di interpretazione
autentica, non ha efficacia retroattiva; è, nondimeno,
indiscutibile la potestà del legislatore di produrre norme
aventi finalità chiarificatrici, idonee, sia pure senza
vincolare per il passato, ad orientare l'interprete nella
lettura di norme preesistenti, in applicazione del principio
di unità ed organicità dell'ordinamento giuridico (Cass.
SSUU n. 18353/2014; Cass. 22552/2016).
14. Indipendentemente dall'intervento riformatore, la
ricostruzione innanzi effettuata era, comunque, evincibile
dal tenore letterale della disposizione (cfr. p. 9 di questa
sentenza), dal quale non si ricava alcun elemento che
consenta di affermare che, invece, nel passato la condotta
tipizzata fosse individuabile nei soli casi di
alterazione/manomissione del sistema di rilevazione delle
presenze (Cass. 17637/2016, 17259/2016).
15. Va precisato che rimane fermo il
principio secondo cui la valutazione della proporzionalità è
coessenziale all'applicazione dell'art. 54-quater, lett. a),
del D.Lgs. 165/2001, dovendo escludersi la configurabilità
in astratto di qualsivoglia automatismo nell'irrogazione di
sanzioni disciplinari e permanendo il sindacato
giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione
rispetto al fatto addebitato
(Cass. 17259/2016, 17335/2016, 11639/2016, 10842/2016,
1315/2016, 24796/2010, 26329/2008; Cort. Costit. 971/1988,
239/1996, 286/1999).
16. I principi sopra richiamati sono stati affermati anche
con riguardo all'art. 55-quater (Cass. 17259/2016,
1351/2016), sul rilievo che l'art. 2106 c.c. risulta oggetto
di espresso richiamo da parte dell'art. 55, c.2, e sul
rilievo che alla giusta causa ed al giustificato motivo fa
riferimento il c. 1 dell'art. 55-quater.
17. Tanto precisato, va rilevato che non è mai stato
contestato che il giorno 02.08.2010 il Mi., negli intervalli
temporali compresi tra le timbrature in ingresso (ore 9,16)
e in uscita (15,46), si era allontanato dal lavoro senza
alcuna autorizzazione e senza che risultasse alcuna
timbratura intermedia che attestasse il suo allontanamento
dal luogo di lavoro.
18. Non possono, pertanto, nutrirsi dubbi sul fatto che, dal
punto di vista oggettivo, il comportamento contestato al Mi.
è sussumibile entro la fattispecie astratta prevista dalla
disposizione sopra richiamata, nella parte in cui, appunto
punisce con il licenziamento la "falsa attestazione della
presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente".
Attraverso la mancata segnalazione dell'uscita nel sistema
di rilevazione della presenza in servizio, da effettuarsi
attraverso il sistema di "timbratura", risultò,
infatti, attestata falsamente, e con l'elusione del sistema
di rilevamento, una circostanza non vera e cioè la presenza
in servizio del Mi..
19. La sentenza impugnata, che non si è attenuta ai principi
sopra richiamati, va cassata con rinvio alla Corte di
Appello di Napoli, in diversa composizione, che dovrà
attenersi ai seguenti principi di diritto, provvedendo anche
in ordine alle spese del giudizio di legittimità:
20. "Ai sensi dell'art. 55-quater, c. 1,
lett. a), del D.Lgs. n. 165 del 2001 la registrazione
effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione
della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa
solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in
entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente
in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei
casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero,
che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della
timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita".
21. "La fattispecie disciplinare di cui
all'art. 55-quater, c. 1, lett. a), del D.Lgs. n. 165 del
2001 si realizza non solo nel caso di
alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in
cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della
presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il
lavoratore è rimasto in ufficio durante l'intervallo
temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in
entrata ed in uscita"
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 14.12.2016 n. 25750). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sanzioni
disciplinari per gli impreparati.
Il legale che assume la difesa nella causa ma non ha la
necessaria preparazione, al punto da articolare domande
generiche e prove inammissibili è soggetto a sanzione
disciplinare. A questa responsabilità si aggiunge quella
civile per il danno all'assistito.
Così hanno stabilito le Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione con la
sentenza
14.12.2016 n. 25633.
La Corte specifica che nel procedimento
disciplinare non è necessaria una contestazione degli
addebiti minuziosa, ma è sufficiente che l'incolpato, con la
lettura dell'imputazione, possa difendersi in maniera efficace. Il caso riguarda lavoratrice che si rivolge al
professionista per agire in giudizio contro il datore.
Il
legale tuttavia non è diligente né prima né durante la
stesura del ricorso. La descrizione dei fatti negli atti
introduttivi del giudizio è confusa e priva di sostanza
giuridica. Ma soprattutto il ricorso contiene errori di
diritto ingiustificabili: si chiede ad esempio la reintegra
della lavoratrice all'azienda che ha meno di quindici
dipendenti. Per questi motivi scatta la sanzione
disciplinare.
La Corte sottolinea che all'avvocato sono
state contestata varie violazioni del codice deontologico
forense. In particolare la violazione dei doveri di
diligenza, di competenza, nonché di adempiere il mandato
correttamente
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sanzione
disciplinare all'avvocato incompetente.
Tempi duri per l'avvocato incompetente. Scatta la sanzione
disciplinare al legale che assume la difesa nella causa ma
non ha la necessaria preparazione, al punto da articolare
domande generiche e prove inammissibili. Ai fini della
contestazione basta che sia chiara la condotta addebitata
all'incolpato e il Consiglio dell'Ordine ben può procedere
d'ufficio, al di là dell'esposto del cliente deluso. La
cattiva esecuzione del mandato, poi, rileva in modo autonomo
sul piano disciplinare indipendentemente da profili
civilistici d'inadempimento e danno in pregiudizio
dell'assistito.
Lo stabiliscono le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con
la
sentenza
14.12.2016 n. 25633.
Errori di diritto
Diventa definitiva la censura inflitta all'avvocato dopo che
il giudice ha respinto il suo ricorso in favore
dell'assistito. Al professionista si rivolge una lavoratrice
che agisce in giudizio contro il datore. E la sanzione
disciplinare scatta perché il legale non è diligente prima e
durante la stesura del ricorso.
«Confusa» la descrizione dei
fatti negli atti introduttivi del giudizio. Ma soprattutto
il ricorso contiene errori di diritto «ingiustificabili»: si
chiede ad esempio la reintegra della lavoratrice all'azienda
che ha meno di quindici dipendenti.
È peraltro il giudice a
rilevare la superficialità con cui sono confezionati gli
atti difensivi. Risulta evidente che all'incolpato viene
addebitata l'inosservanza del dovere di diligenza: va dunque
ritenuta sufficiente la contestazione rispetto ai
comportamenti tenuti, che risultano collegati a concetti
generalmente compresi dalla collettività, vale a dire
l'inadeguatezza dell'avvocato rispetto al diritto del
lavoro.
Infine, anche se la firma dell'esposto all'Ordine fosse
stata falsa il procedimento disciplinare resterebbe valido:
si tratta di un innesco occasionale per l'esercizio
dell'azione del Coa, non di una fonte di prova. E nel
penale, ad esempio, sono spesso denunce anonime che portano
all'apertura delle indagini (articolo ItaliaOggi del 15.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai
tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante
l’esistenza di manufatti abusivi.
E' atto pubblico facente fede sino ad
impugnazione di falso, ai sensi dell’art. 476 cpv. c.p., il
processo verbale di sequestro redatto da un ufficiale di
polizia giudiziaria nell’esercizio delle sue funzioni di
accertamento ed assicurazione del corpo del reato.
La compilazione di tale atto costituisce infatti
manifestazione del potere di documentazione fidefaciente
espressamente attribuito all’ufficiale di polizia
giudiziaria dall’art. 222 cpv. c.p.p..
In materia di edilizia e urbanistica, è sufficientemente
motivato il provvedimento che, a fronte di un abuso
edilizio, ne ordina la demolizione con il mero richiamo al
verbale di sopralluogo dei tecnici comunali dato che il
provvedimento sanzionatorio in materia edilizia ha natura
del tutto vincolata giacché è conseguente ad un accertamento
tecnico della consistenza delle opere abusive realizzate.
Inoltre, il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e
dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante
l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico,
fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell’art.
2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia
relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status
quo ante.
----------------
1. L’appello è infondato, e va respinto, il che consente di
prescindere dalla puntuale disamina dell’eccezione di
inammissibilità del medesimo formulata dall’appellata
Amministrazione comunale in ultimo con la memoria depositata
il 23.10.2016.
2. Tutte le censure di parte appellante sono apoditticamente
formulate e mettono in dubbio le risultanze di causa.
2.1. La giurisprudenza penale e quella amministrativa hanno
raggiunto sin da tempo risalente una concordanza di opinioni
nel ritenere che gli atti redatti dalla Polizia Giudiziaria,
anche in materia di immobili abusivi, facciano piena prova
sino a querela di falso pure con riguardo alla consistenza
dell’immobile.
Si è detto pertanto (Cass. pen., sez. V, 24.11.1983,) che “è
atto pubblico facente fede sino ad impugnazione di falso, ai
sensi dell’art. 476 cpv. c.p., il processo verbale di
sequestro redatto da un ufficiale di polizia giudiziaria
nell’esercizio delle sue funzioni di accertamento ed
assicurazione del corpo del reato. La compilazione di tale
atto costituisce infatti manifestazione del potere di
documentazione fidefaciente espressamente attribuito
all’ufficiale di polizia giudiziaria dall’art. 222 cpv.
c.p.p.” e con più specifico riferimento alla fattispecie
per cui è processo si è rilevato che (tra le tante TAR
Napoli, 08.01.2016, n. 17; Cons. Stato, sez. IV, 14.02.2012,
n. 703; TAR Napoli, sez. IV, 14.11.2011, n. 5322; TAR
Napoli, sez. IV, 04.08.2011, n. 4207) “in materia di
edilizia e urbanistica, è sufficientemente motivato il
provvedimento che, a fronte di un abuso edilizio, ne ordina
la demolizione con il mero richiamo al verbale di
sopralluogo dei tecnici comunali dato che il provvedimento
sanzionatorio in materia edilizia ha natura del tutto
vincolata giacché è conseguente ad un accertamento tecnico
della consistenza delle opere abusive realizzate; inoltre,
il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici
del Comune a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza
di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico,
fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell’art.
2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia
relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status
quo ante” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.12.2016 n. 5262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è ben vero che, di regola, l’incompletezza
della documentazione onera l’amministrazione a richiedere
chiarimenti:
- "qualora l’Amministrazione, a fronte di una domanda di condono
edilizio incompleta, richieda all’interessato l’integrazione
della documentazione, assegnandogli un termine per
provvedere, quest’ultimo deve ritenersi -salvi i casi di
impossibilità non imputabile- tassativo, sicché
l’inottemperanza a tale richiesta determina la chiusura
della pratica e costituisce legittimo motivo di diniego
della concessione edilizia in sanatoria. È ovvio, infatti,
che l’incompletezza della domanda non consente neppure lo
svolgimento dell’istruttoria”,
è vero altresì, però, che è certo che di fronte ad una
documentazione incompleta non può essere ottenuto il
condono, ed è altresì vero che nel caso di specie l’elemento
centrale del diniego si rinviene nel contrasto tra le
indicazioni fornite dall’appellante circa la data di
completamento, e quelle rilevabili da atti pubblici
fidefacienti.
-----------------
E' rimasto accertato che la domanda di condono era priva
degli allegati (perizia giurata e documentazione
fotografica, per cui giammai avrebbe potuto formarsi il
silenzio-assenso:
- "il silenzio-assenso non può formarsi in assenza della
documentazione completa prescritta dalle norme in materia
per il rilascio della concessione edilizia, in quanto
l’eventuale inerzia dell’amministrazione nel provvedere non
può far guadagnare agli interessati un risultato che gli
stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un
provvedimento espresso. Ne consegue che, nonostante
l’impugnato diniego di concessione edilizia sia stato
effettivamente adottato oltre i sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza da parte del privato, non può
ritenersi esistente alcuna fattispecie di silenzio-assenso
ai sensi dell’art. 69, l.prov. n. 13/1997, e
conseguentemente, che non possono ritenersi sussistenti gli
effetti giuridici connessi, equiparati al rilascio della
concessione edilizia, dal momento che nessun documento
prescritto dalla legge è stato depositato nel procedimento
de quo.
---------------
Per costante giurisprudenza allorquando una concessione
edilizia in sanatoria sia stata ottenuta dall’interessato in
base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della
realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il
proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza
necessità di esternare alcuna particolare ragione di
pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi
sussistente in re ipsa.
Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale prevalente ha
individuato dei casi in cui la discrezionalità della P.A. in
subiecta materia si azzera vanificando sia l’interesse del
destinatario del provvedimento ampliativo da annullare sia
il tempo trascorso, e ciò si verifica quando il privato
istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in
errore l’Amministrazione attraverso una falsa
rappresentazione della realtà.
----------------
3. In concreto, l’odierno appellante (che non ha proposto
alcuna querela di falso) si limita a contestare le
risultanze del verbale di sopralluogo e deduce quale prova
contraria elementi che neppure induttivamente possono
mettere in dubbio quanto ivi contenuto, in quanto:
a) le affermazioni provenienti dalla ditta che eseguì i lavori
(potenzialmente corresponsabile dell’abuso) hanno, per
evidenti ragioni, portata e spessore probatorio minimo, se
non inesistente;
b) la circostanza che in prima battuta la istanza di sanatoria
fosse stata accolta dalla Commissione Straordinaria il
21.07.1997 nulla dimostra, se non la circostanza che in
quella occasione si procedette ad un esame superficiale
della documentazione;
c) è ben vero che, di regola, l’incompletezza della documentazione
onera l’amministrazione a richiedere chiarimenti (tra le
tante TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 13.05.2013, n. 287:
“qualora l’Amministrazione, a fronte di una domanda di
condono edilizio incompleta, richieda all’interessato
l’integrazione della documentazione, assegnandogli un
termine per provvedere, quest’ultimo deve ritenersi -salvi i
casi di impossibilità non imputabile- tassativo, sicché
l’inottemperanza a tale richiesta determina la chiusura
della pratica e costituisce legittimo motivo di diniego
della concessione edilizia in sanatoria. È ovvio, infatti,
che l’incompletezza della domanda non consente neppure lo
svolgimento dell’istruttoria”); è vero altresì, però,
che è certo che di fronte ad una documentazione incompleta
non può essere ottenuto il condono, ed è altresì vero che
nel caso di specie l’elemento centrale del diniego si
rinviene nel contrasto tra le indicazioni fornite
dall’appellante circa la data di completamento, e quelle
rilevabili da atti pubblici fidefacienti;
d) è rimasto accertato (e neppure parte appellante ciò nega) che la
domanda di condono era priva degli allegati (perizia giurata
e documentazione fotografica, vedasi capo 1.2., secondo cpv,
della sentenza impugnata), per cui giammai avrebbe potuto
formarsi il silenzio-assenso (tra le tante: Cons. Stato,
sez. VI, 06.12.2013, n. 5852: “il silenzio-assenso non
può formarsi in assenza della documentazione completa
prescritta dalle norme in materia per il rilascio della
concessione edilizia, in quanto l’eventuale inerzia
dell’amministrazione nel provvedere non può far guadagnare
agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero
mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso. Ne
consegue che, nonostante l’impugnato diniego di concessione
edilizia sia stato effettivamente adottato oltre i sessanta
giorni dalla presentazione dell’istanza da parte del
privato, non può ritenersi esistente alcuna fattispecie di
silenzio-assenso ai sensi dell’art. 69, l.prov. n. 13/1997,
e conseguentemente, che non possono ritenersi sussistenti
gli effetti giuridici connessi, equiparati al rilascio della
concessione edilizia, dal momento che nessun documento
prescritto dalla legge è stato depositato nel procedimento
de quo”);
e) per costante giurisprudenza (tra le tante Cons. Stato, sez. IV,
08.01.2013, n. 39; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 04.04.2006, n.
1831) allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia
stata ottenuta dall’interessato in base ad una falsa o
comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è
consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re
ipsa: infatti, l’insegnamento giurisprudenziale
prevalente ha individuato dei casi in cui la discrezionalità
della P.A. in subiecta materia si azzera vanificando
sia l’interesse del destinatario del provvedimento
ampliativo da annullare sia il tempo trascorso, e ciò si
verifica quando il privato istante abbia ottenuto il
permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione
attraverso una falsa rappresentazione della realtà, sicché
anche tenuto conto dell’art. 21-octies, secondo comma, della
legge 07.08.1990, n. 241. e ss.mm. (statuente che “…Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”);
f) è rimasto altresì chiarito (tra le tante TAR Toscana, sez. III,
27.05.2015, n. 825) che detto orientamento in ultimo citato
è traslabile pienamente alle ipotesi di condono.
4. Conclusivamente, l’appello è del tutto destituito di
fondamento e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.12.2016 n. 5262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Impugnazione immediata del bando di gara con il nuovo Codice
appalti e criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa per l'affidamento del servizio “ad alta
intensità di manodopera".
---------------
Gara – Rito appalti – Atti impugnabili – Bando di gara –
Impugnazione immediata – Clausola contenente criterio di
aggiudicazione – E’ immediatamente impugnabile.
Gara – Servizio “ad alta intensità di manodopera" –
Aggiudicazione – Criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa.
Con l’entrata in vigore del nuovo
Codice dei contratti, caratterizzato dalla presenza di
disposizioni (artt. 204 sul rito “super accelerato” e 211
sui pareri precontenzioso) volte ad una sollecita, se non
“immediata”, definizione delle controversie, è consentito
all’operatore economico interessato a partecipare alla gara
di chiedere l’immediata verifica della legittimità della lex
specialis, nella parte relativa alla scelta del criterio di
aggiudicazione, senza dover necessariamente partecipare alla
selezione (con eventuale celebrazione del giudizio sulle
ammissioni) e senza doverne attendere l’esito (1).
Il servizio “ad alta intensità di manodopera", previsto
dall’art. 50, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, deve essere
aggiudicato con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, e non con quello del minor prezzo (2).
---------------
(1)
Ad avviso del Tar Lazio costituisce indice dell’immediata
sindacabilità di questo tipo di determinazione lo specifico
obbligo motivazionale introdotto dall’art. 95, comma 5, del
Codice, a tenore del quale “Le stazioni appaltanti che
dispongono l’aggiudicazione ai sensi del comma 4 ne danno
adeguata motivazione e indicano nel bando di gara il
criterio applicato per selezionare la migliore offerta”.
Tale disposizione, sebbene sembri riferire l’obbligo alla
fase (e al provvedimento) di aggiudicazione, va più
ragionevolmente intesa nel senso esposto dalle Linee guida
Anac n. 2 del 2016 in materia di offerta economicamente più
vantaggiosa (approvate con delib. 21.09.2016, n. 1005), in
cui si fa menzione delle stazioni appaltanti “che
intendono procedere all’aggiudicazione utilizzando il
criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 5”
(le Linee guida precisano, ancora, che le stazioni
appaltanti “devono dare adeguata motivazione della scelta
effettuata ed esplicitare nel bando il criterio utilizzato
per la selezione della migliore offerta […]”).
In conclusione, secondo il tribunale, la necessità di dar
conto delle ragioni dell’utilizzo del criterio del minor
prezzo sin dagli atti di avvio della procedura implica la
possibilità di contestare immediatamente la scelta.
(2) A supporto di tale conclusione il Tar richiama l’art. 95 del
Codice sui criteri di aggiudicazione, che:
a) al comma 2 stabilisce la regola generale
secondo cui le stazioni appaltanti (fatte salve “le
disposizioni legislative, regolamentari o amministrative
relative al prezzo di determinate forniture o alla
remunerazione di servizi specifici”) “procedono
all’aggiudicazione […] sulla base del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
miglior rapporto qualità/prezzo o sulla base dell’elemento
prezzo o del costo, seguendo un criterio di comparazione
costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita,
conformemente all’art. 96”;
b) al comma 3 individua alcune categorie di “contratti”
aggiudicabili “esclusivamente sulla base del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo”; tra
questi, i contratti relativi ai servizi “ad alta
intensità di manodopera, come definiti all’art. 50, comma 1”
(lett. a), ossia “quelli nei quali il costo della
manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale
del contratto” (art. 50, comma 1, ultimo periodo);
c) al comma 4 elenca i casi di possibile utilizzo
del “criterio del minor prezzo”, tra cui i servizi “con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato” (lett. b) e quelli “di importo
inferiore alla soglia di cui all’articolo 35, caratterizzati
da elevata ripetitività” (esclusi, però, “quelli di
notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere
innovativo”; lett. c).
Chiarisce ancora il Tar che la questione controversa attiene
al nesso tra tali disposizioni, occorrendo in particolare
stabilire se, fermo il rapporto regola-eccezione
intercorrente tra i commi 2 e 4, il comma 3 abbia introdotto
una previsione ulteriormente derogatoria (e dunque
autonoma), nel senso che per i casi ivi indicati non sarebbe
mai possibile utilizzare il criterio del minor prezzo (come
ipotizzato dalla ricorrente), o se, al contrario, esso
costituisca una mera specificazione del co. 2 (in punto di
metodiche di aggiudicazione), risultando di conseguenza
derogabile nelle ipotesi del comma 4 (come implicitamente
sostenuto dalla resistente).
La formulazione testuale delle disposizioni potrebbe indurre
alla condivisione di questa seconda opinione, dal momento
che l’art. 95, declinate al comma 2 le metodiche applicative
del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (“miglior
rapporto qualità/prezzo”, “elemento prezzo”, “costo”),
specifica al comma 3 il novero dei contratti da aggiudicare
“esclusivamente sulla base del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
miglior rapporto qualità/prezzo”, potendosi in astratto
ritenere che la norma abbia semplicemente voluto inibire il
ricorso agli altri due sistemi (“elemento prezzo” o “costo”;
in caso contrario, essa avrebbe dovuto essere formulata in
modo da far percepire la cesura tra gli aspetti in
considerazione).
Ad avviso del Tribunale a questa lettura si oppone il dato,
parimenti testuale, ricavabile dalla legge di delega
28.01.2016, n. 11. Infatti l’art. 1, comma 1, lett. ff),
della legge delega indica, tra i “principi e criteri
direttivi specifici”, l’utilizzo, per l’aggiudicazione,
del “criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”,
con riferimento all’“approccio costo/efficacia, quale il
costo del ciclo di vita” e al “«miglior rapporto
qualità/prezzo» valutato con criteri oggettivi […]”
(primo periodo), prevedendo altresì la “regolazione
espressa dei criteri, delle caratteristiche tecniche e
prestazionali e delle soglie di importo entro le quali le
stazioni appaltanti ricorrono al solo criterio di
aggiudicazione del prezzo o del costo, inteso come criterio
del prezzo più basso o del massimo ribasso d’asta […]”
(secondo periodo).
La successiva lett. gg), per i contratti relativi (tra gli
altri) ai servizi “ad alta intensità di manodopera”,
precisa che l’aggiudicazione può avvenire “esclusivamente
sulla base del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, come definita dalla lettera ff), escludendo in
ogni caso l’applicazione del solo criterio di aggiudicazione
del prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più
basso o del massimo ribasso d’asta” .
Corollario obbligato di tale premessa è, ad avviso del Tar,
che l’unica interpretazione ammissibile, perché
costituzionalmente orientata (tale cioè da evitare pur
ipotizzabili profili di eccesso di delega), delle previsioni
in esame appare essere quella che assegna portata autonoma,
e natura inderogabile, al comma 3; ne consegue che la gara
per cui è controversia non può essere aggiudicata in base al
criterio del minor prezzo (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-ter,
sentenza 13.12.2016 n. 12439
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Considerato:
- che le società ricorrenti, già esecutrici del medesimo
servizio posto in gara (per 3 anni a far tempo
dall’01.10.2013, in forza di contratto del 25.09.2013; all. 6
ric.), contestano con i primi tre motivi la scelta del
criterio di aggiudicazione operata dal punto V.2 bando e
dall’art. 15 del disciplinare, a tenore del quale
“l’aggiudicazione avverrà secondo il criterio del minor
prezzo in conformità a quanto espressamente previsto
nell’art. 95, comma 4, lettera b), del d.lgs. 50/2016”;
A) in rito:
- che non è condivisibile l’eccezione di inammissibilità
sollevata dall’Agenzia sul rilievo dell’insussistenza di
impedimenti alla formulazione dell’offerta (offerta,
peraltro, concretamente presentata dalle ricorrenti);
- che, sotto il profilo dell’interesse, le società istanti
hanno condivisibilmente dedotto come la scelta del criterio
del minor prezzo, preclusivo di apprezzamenti su aspetti di
tipo qualitativo, influirebbe sulla formulazione
dell’offerta, incidendo irrimediabilmente sulle
determinazioni dell’impresa, per un verso “costretta a
strutturare la propria offerta non in rapporto alla qualità
del servizio” e, per altro verso, impossibilitata, in
ipotesi di aggiudicazione (non avendone l’interesse), “a
rimuovere la situazione (antigiuridica) che l’ha portata a
dover praticare [un] prezzo enormemente più basso rispetto
alla qualità del servizio che intende rendere” (mem.
05.12.2016);
- che con riferimento al caso di specie, avuto riguardo
anche alle considerazioni della parte privata, appare
meritevole di rimeditazione il tradizionale indirizzo in
materia di impugnazione della lex specialis (su cui fa leva
l’Agenzia);
- che
in linea generale il d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
applicabile alla procedura in esame, ha operato una
rilevante revisione dei meccanismi di tutela giurisdizionale
con riferimento (tra l’altro) sia alla fase cautelare, “al
fine di garantire l’efficacia e la speditezza delle
procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti”
(come si esprime la legge di delega; v. art. 1, co. 1, lett.
aaa, l. 28.01.2016, n. 11),
sia allo stesso giudizio
ordinario, attraverso la previsione di un rito ad hoc
(c.d.
“super-speciale”; cfr. Cons. Stato, sez. III, 25.11.2016, n. 4994)
per le controversie sulle ammissioni ed
esclusioni, anche questo preordinato all’“immediata
risoluzione del contenzioso relativo all’impugnazione dei
provvedimenti di esclusione dalla gara o di ammissione alla
gara per carenza dei requisiti di partecipazione”
(art. 1, co. 1, lett. bbb, l. n. 11/2016 cit.);
- che
dalle riportate indicazioni legislative, trasfuse in
puntuali modifiche di norme processuali (v. in particolare
art. 120 c.p.a.), ma sottese anche ad altri rilevanti
istituti (a es. “pareri di precontenzioso” ex art. 211
d.lgs. n. 50/2016),
emerge in modo ancor più evidente di
quanto non fosse in passato la necessità di coniugare, nel
settore in esame, le esigenze di tutela giurisdizionale con
quelle di sollecita se non “immediata” definizione delle
controversie, con la conseguenza che l’interprete dovrebbe
privilegiare, tra varie opzioni esegetiche, quella idonea a
garantire il perseguimento di entrambi gli obiettivi;
- che, in questa ottica,
è preferibile un’impostazione che
consenta all’operatore economico interessato a partecipare
alla gara di chiedere l’immediata verifica della legittimità
della lex specialis, nella parte relativa alla scelta del
criterio di aggiudicazione, senza dover necessariamente
partecipare alla selezione
(con eventuale celebrazione del
giudizio sulle ammissioni)
e senza doverne attendere
l’esito;
- che
costituisce indice dell’immediata sindacabilità di
questo tipo di determinazione lo specifico obbligo
motivazionale introdotto dall’art. 95, co. 5, d.lgs. cit., a
tenore del quale “Le stazioni appaltanti che dispongono
l’aggiudicazione ai sensi del comma 4 ne danno adeguata
motivazione e indicano nel bando di gara il criterio
applicato per selezionare la migliore offerta”;
- che
la disposizione, sebbene sembri riferire l’obbligo
alla fase (e al provvedimento) di aggiudicazione, va più
ragionevolmente intesa nel senso esposto dalle Linee guida Anac n. 2/2016 in materia di offerta economicamente più
vantaggiosa
(approvate con delib. 21.09.2016, n.
1005),
in cui si fa menzione delle stazioni appaltanti “che
intendono procedere all’aggiudicazione utilizzando il
criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 5”
(enf.
agg.; le Linee guida precisano, ancora, che le stazioni
appaltanti “devono dare adeguata motivazione della scelta
effettuata ed esplicitare nel bando il criterio utilizzato
per la selezione della migliore offerta […]”);
- che
la necessità di dar conto delle ragioni dell’utilizzo
del criterio del minor prezzo sin dagli atti di avvio della
procedura implica la possibilità di contestare
immediatamente la scelta;
- che, peraltro, l’eccezione in disamina non avrebbe miglior
sorte nemmeno alla stregua dell’orientamento formatosi
durante la vigenza del d.lgs. n. 163/2006;
- che infatti
la più recente giurisprudenza
(v. da ultimo
Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2016, n. 4180),
nel
confermare il consueto indirizzo in tema di impugnazione
della lex specialis –secondo cui “l’illegittimità di regole
inidonee a consentire una corretta e concorrenziale offerta
economica incide direttamente sulla formulazione
dell’offerta, impedendone la corretta e consapevole
elaborazione, sicché la lesività della stessa disciplina di
gara va immediatamente contestata, senza attendere l’esito
della gara per rilevare il pregiudizio che da quelle
previsioni è derivato, ed anzi nemmeno sussiste l’onere di
partecipazione alla procedura di colui che intenda
contestarle, in quanto le ritiene tali da impedirgli l’utile
presentazione dell’offerta e, dunque, sostanzialmente
impeditive della sua partecipazione alla gara”–, aderisce a
una concezione “ampliativa” della nozione di “clausole del
bando immediatamente escludenti”, individuate con
riferimento (non solo a quelle afferenti ai requisiti
soggettivi, ma anche) a quelle “attinenti alla formulazione
dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico laddove
esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una
offerta”
(per l’indirizzo in rassegna, rientrano in tale
nozione più ampia le clausole “impositive, ai fini della
partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o
del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti
della procedura concorsuale” o che “rendano la
partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura
impossibile”, le “disposizioni abnormi o irragionevoli che
rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed
economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero
prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la
presentazione dell’offerta”, le “condizioni negoziali che
rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e
obiettivamente non conveniente”, l’“imposizione di obblighi
contra ius”, le “gravi carenze nell’indicazione di dati
essenziali per la formulazione dell’offerta” o la presenza
di “formule matematiche del tutto errate”, la carenza dei
costi della sicurezza non soggetti a ribasso);
- che in analogo ordine di idee si è mossa anche questa
Sezione in una fattispecie in cui è stata ritenuta
ammissibile l’immediata impugnazione di alcune previsioni
dello schema di contratto (non preclusive della
partecipazione alla gara), sul rilievo, tra l’altro, che
il
tradizionale meccanismo di tutela giurisdizionale
(alla
stregua del quale la contestazione delle clausole in
questione, una volta trasfuse nel contratto, andrebbe
riservata alla sede civile, a meno di non volerne ipotizzare
l’impugnazione in sede amministrativa, ma subito dopo
l’aggiudicazione)
determinerebbe “un’inefficienza dell’agere
amministrativo, risolventesi in possibile alterazione della
par condicio”, mentre “una tempestiva correzione dello
schema contrattuale consentirebbe a tutti i concorrenti di
conoscere per tempo il definitivo assetto pattizio del
futuro rapporto con la stazione appaltante e di assumere le
conseguenti determinazioni, anche in termini di offerta”
(sent. 16.11.2012, n. 9483);
- che il caso oggi in esame può essere ricondotto alle
ipotesi innanzi riportate, condividendone la ratio;
B) nel merito:
- che con il primo motivo le ricorrenti invocano il divieto
di utilizzo del criterio del minor prezzo, venendo in
rilievo un servizio “ad alta intensità di manodopera” ex
art. 50 d.lgs. n. 50/2016, come univocamente attestato dalla
“relazione asseverata” in atti (all. 7 ric.);
- che l’Agenzia non contesta tale qualificazione (v. anche
pag. 7 mem. 05.12.2016), ma assume la piena legittimità, anche
in base alle citate Linee guida Anac n. 2/2016, del criterio
del minor prezzo perché il servizio rientrerebbe (altresì)
nella categoria prevista dall’art. 95, co. 4, lett. b),
d.lgs. n. 50/2016 (v. mem. 05.12.2016 cit., con cui la parte
resistente ha illustrato gli elementi da cui evincere la
natura “standardizzata” delle prestazioni, richiamando la det. Anac n. 9/2015, linee guida per l’affidamento del
servizio di vigilanza privata, laddove si precisa che in
caso di servizio “altamente standardizzato […] sarebbe
preferibile adottare il criterio del prezzo più basso”);
- che la qualificazione proposta dalle società istanti può
darsi per accreditata al giudizio, in assenza di
contestazioni della controparte e alla luce delle
risultanze, parimenti non contestate, del menzionato
elaborato tecnico;
- che, sul piano giuridico, la disciplina d’interesse
dimostra la correttezza della tesi delle ricorrenti;
- che l’art. 95 cit., sui criteri di aggiudicazione:
i) al co. 2 stabilisce la regola generale secondo cui le
stazioni appaltanti (fatte salve “le disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative relative al
prezzo di determinate forniture o alla remunerazione di
servizi specifici”) “procedono all’aggiudicazione […] sulla
base del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto
qualità/prezzo o sulla base dell’elemento prezzo o del
costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia
quale il costo del ciclo di vita, conformemente all’articolo
96”;
ii) al co. 3 individua alcune categorie di “contratti”
aggiudicabili “esclusivamente sulla base del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo”; tra questi,
i contratti relativi ai servizi “ad alta intensità di
manodopera, come definiti all’articolo 50, comma 1” (lett.
a), ossia “quelli nei quali il costo della manodopera è pari
almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”
(art. 50, co. 1, ult. per.);
iii) al co. 4 elenca i casi di possibile utilizzo del
“criterio del minor prezzo”, tra cui i servizi “con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato” (lett. b)
e quelli “di importo
inferiore alla soglia di cui all’articolo 35, caratterizzati
da elevata ripetitività” (esclusi, però, “quelli di notevole
contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo”;
lett. c);
- che la questione controversa attiene al nesso tra tali
disposizioni, occorrendo in particolare stabilire se, fermo
il rapporto regola-eccezione intercorrente tra i commi 2 e
4, il co. 3 abbia introdotto una previsione ulteriormente
derogatoria (e dunque autonoma), nel senso che per i casi
ivi indicati non sarebbe mai possibile utilizzare il
criterio del minor prezzo (come ipotizzato dalla
ricorrente), o se, al contrario, esso costituisca una mera
specificazione del co. 2 (in punto di metodiche di
aggiudicazione), risultando di conseguenza derogabile nelle
ipotesi del co. 4 (come implicitamente sostenuto dalla
resistente);
- che la formulazione testuale delle disposizioni potrebbe
indurre alla condivisione di questa seconda opinione, dal
momento che l’art. 95, declinate al co. 2 le metodiche
applicative del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa (“miglior rapporto qualità/prezzo”, “elemento
prezzo”, “costo”), specifica al co. 3 il novero dei
contratti da aggiudicare “esclusivamente sulla base del
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo”,
potendosi in astratto ritenere che la norma abbia
semplicemente voluto inibire il ricorso agli altri due
sistemi (“elemento prezzo” o “costo”; in caso contrario,
essa avrebbe dovuto essere formulata in modo da far
percepire la cesura tra gli aspetti in considerazione);
- che a questa lettura si oppone il dato, parimenti
testuale, ricavabile dalla legge di delega (l. n. 11/2016
cit.);
- che infatti l’art. 1, co. 1, lett. ff), l. cit. indica,
tra i “principi e criteri direttivi specifici”, l’utilizzo,
per l’aggiudicazione, del “criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa”, con riferimento
all’“approccio costo/efficacia, quale il costo del ciclo di
vita” e al “«miglior rapporto qualità/prezzo» valutato con
criteri oggettivi […]” (1° per.),
prevedendo altresì la
“regolazione espressa dei criteri, delle caratteristiche
tecniche e prestazionali e delle soglie di importo entro le
quali le stazioni appaltanti ricorrono al solo criterio di
aggiudicazione del prezzo o del costo, inteso come criterio
del prezzo più basso o del massimo ribasso d’asta […]” (2°
per.);
- che la successiva lett. gg), per i contratti relativi (tra
gli altri) ai servizi “ad alta intensità di manodopera”,
precisa che l’aggiudicazione può avvenire “esclusivamente
sulla base del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, come definita dalla lettera ff), escludendo in
ogni caso l’applicazione del solo criterio di aggiudicazione
del prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più
basso o del massimo ribasso d’asta” (enf. agg.);
- che perciò
l’unica interpretazione ammissibile, perché
costituzionalmente orientata
(tale cioè da evitare pur
ipotizzabili profili di eccesso di delega),
delle previsioni
in esame appare essere quella che assegna portata autonoma,
e natura inderogabile, al co. 3;
- che pertanto, venendo al caso di specie, la gara per cui è
controversia non può essere aggiudicata in base al criterio
del minor prezzo, con conseguente illegittimità della scelta
operata dalla lex specialis;
Considerato altresì:
- che la fondatezza della censura innanzi esaminata esonera
dallo scrutinio del secondo e del terzo motivo, in quanto
logicamente subordinati rispetto al primo (con essi vengono
infatti prospettate doglianze implicitamente poggianti
sull’applicabilità dell’art. 95, co. 4);
- che il quarto mezzo è invece infondato (in disparte la
questione di ammissibilità della censura), dal momento che
l’art. 50 d.lgs. n. 50/2016 configura l’inserimento nel
bando di “specifiche clausole sociali volte a promuovere la
stabilità occupazionale del personale impiegato” in termini
di mera facoltà della stazione appaltante, con la
conseguenza che l’omissione di tale inserimento non è
illegittima
(è appena il caso di precisare, peraltro, che le
ricorrenti non hanno prospettato vizi motivazionali);
Considerato in conclusione:
- che il ricorso è fondato nei sensi innanzi precisati,
sicché la lex specialis è illegittima e va pertanto
annullata nella parte relativa al criterio di aggiudicazione
(punto V.2 bando e art. 15 discipl.); |
APPALTI:
Collegamento tra imprese che partecipano alla gara per lotti
diversi.
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Gara – Requisiti di partecipazione – Art.- 80, comma 5,
lett. m), d.lgs. n. 80 del 2016 – Collegamento tra imprese –
Partecipazione alla gara per lotti diversi – Esclusione.
Il comma 5, lett. m, dell’art. 80,
d.lgs. 18.04.2016, n. 80 (secondo cui è escluso dalla gara
l'operatore economico che si trovi rispetto ad un altro
partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una
situazione di controllo di cui all'art. 2359 c.c. o in una
qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di
controllo o la relazione comporti che le offerte sono
imputabili ad un unico centro decisionale), non si applica
nell’ipotesi in cui le offerte presentate dalle imprese si
riferiscano a lotti diversi, e ciò in quanto un bando di
gara pubblica, suddiviso in lotti, costituisce un atto ad
oggetto plurimo e determina l'indizione non di un'unica
gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali vi è
un'autonoma procedura si conclude con un'aggiudicazione (1).
---------------
(1)
Il Tar Lazio ha desunto l’autonomia dei singoli lotti
dall’attribuzione a ciascuno di essi di specifici CIG;
dall’individuazione di uno specifico importo a base di gara
per ciascuno dei lotti; dalla possibilità, per ciascun
concorrente, di concorrere per tutti i lotti, sebbene la
stazione appaltante, quale misura pro concorrenziale, abbia
previsto che questi potrà risultare aggiudicatario di un
solo lotti); dalla previsione della stipulazione di distinti
contratti per ciascun lotto; dalla richiesta di pagamento
del contributo in favore dell’ANAC per ogni singolo lotto al
quale si partecipa; dalla prescrizione della lex
specialis relativa alla presentazione di dichiarazioni
sostitutive, relative ai requisiti di ordine generale, per
ogni lotto;
Il Tar ha ancora chiarito che il reciproco condizionamento
tra le aggiudicazioni dei vari lotti (nel senso del divieto
di aggiudicazione di più di un lotto alla medesima impresa)
non comporta il venir meno dell’autonomia di ciascuna
procedura selettiva, volta all’affidamento del singolo
lotto, in quanto detta prescrizione del disciplinare incide
solo ex post, successivamente all’apertura delle
offerte, e quindi dopo la redazione delle distinte
graduatorie (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 13.12.2016 n. 12405 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
● Premesso che la società ricorrente è stata esclusa dalla
procedura aperta per la stipula di un accordo quadro ex art.
54 del d.lgs. n. 50/2016 per l’affidamento “dei lavori
attinenti la manutenzione e l’esercizio degli impianti
elevatori installati presso gli edifici di proprietà e
pertinenza di Roma Capitale”;
● Rilevato che tale esclusione è avvenuta in applicazione
dell’art. 80, comma 5, lett. m), del d.lgs. n. 50/2016 ed in
ragione del collegamento esistente con la società Gr.Gr. s.r.l.;
● Rilevato che, ai fini della partecipazione ai lotti 2 e 4 la
società Ar.Li. ha reso la seguente dichiarazione
sostitutiva: “di non essere a conoscenza della
partecipazione alla medesima procedura di altri operatori
economici che si trovano, nei suoi confronti, in una delle
situazioni di controllo di cui all’art. 2359 del codice
civile e di avere formulato autonomamente l’offerta”,
riportando, altresì, i dati di iscrizione alla CCIAI di
Roma, tra cui la composizione societaria, da cui risulta la
partecipazione al 99,82% di Gr.Gr. s.r.l.;
● Rilevato che detta società non ha presentato domanda per il
lotto in esame né per il lotto n. 4;
● Considerato che
la disposizione di cui all’art. 80, comma 5,
lett. m) del d.lgs. n. 50/2016 (come già l’omologa
previsione di cui all’art. 38, comma 1, lett. m–quater del
d.lgs. n. 163/2006), non trova applicazione nell’ipotesi in
cui le offerte presentate dalle imprese si riferiscano a
lotti diversi; ciò in quanto un bando di gara pubblica,
suddiviso in lotti, costituisce un atto ad oggetto plurimo e
determina l'indizione non di un'unica gara, ma di tante
gare, per ognuna delle quali vi è un'autonoma procedura si
conclude con un'aggiudicazione (cfr.,
ex plurimis TAR
Napoli, sez. I, sentenza n. 5572 del 02.12.2015, Consiglio di
Stato, sez. V, sentenza n. 3241 del 26.6.2015; TAR Lazio,
sez. II-ter, sentenza n. 6048 del 5.5.2015);
● Rilevato che, nel caso di specie, l’autonomia dei singoli
lotti emerge –così come fatto rilevare da parte ricorrente– tra l’altro:
- dall’attribuzione ai singoli lotti di specifici CIG;
- dall’individuazione di uno specifico importo a base di
gara per ciascuno dei 4 lotti (par. 1.2 del disciplinare di
gara);
- dalla possibilità, per ciascun concorrente, di concorrere
per tutti e 4 i lotti, sebbene la stazione appaltante, quale
misura pro concorrenziale, abbia previsto che questi “potrà
risultare aggiudicatario di un solo lotto” (par. 2.3);
- dalla previsione della stipulazione di distinti contratti
per ciascun lotto (part. 10.5);
- dalla richiesta di pagamento del contributo in favore
dell’ANAC per ogni singolo lotto al quale si partecipa (par.
12);
- dalla prescrizione relativa alla presentazione di
dichiarazioni sostitutive, relative ai requisiti di ordine
generale, per ogni lotto (par. 16.2);
● Ritenuto, altresì, che
il reciproco condizionamento tra le
aggiudicazioni dei vari lotti (nel senso del divieto di
aggiudicazione di più di un lotto alla medesima impresa) non
comporta il venir meno dell’autonomia di ciascuna procedura
selettiva, volta all’affidamento del singolo lotto, in
quanto detta prescrizione del disciplinare incide solo ex
post, successivamente all’apertura delle offerte, e quindi
dopo la redazione delle distinte graduatorie;
● Ritenuto che, in considerazione di quanto precede,
l’amministrazione abbia fatto malgoverno delle disposizioni
di cui all’art. 80, comma 5, lett. m) e comma 6, del d.lgs.
n. 50/2016, restandone comunque impregiudicate, all’esito
della competizione, le ulteriori valutazioni in ordine
all’applicazione della clausola pro concorrenziale, in
considerazione del rapporto di controllo esistente tra le
società; |
APPALTI SERVIZI:
L'art. 172 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Codice
dell'ambiente), in tema di "gestioni esistenti", ha
stabilito che per quanto riguarda il servizio idrico
integrato "in relazione alla scadenza del termine di cui
al comma 15-bis dell'articolo 113 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, l'Autorità d'ambito dispone i nuovi
affidamenti, nel rispetto della parte terza del presente
decreto, entro i sessanta giorni antecedenti tale scadenza".
La norma ha quindi rinviato alla disciplina generale del
comma 15-bis dell'art. 113, d.lgs. n. 267/2000 il quale
ratione temporis si riferiva a tutti i servizi pubblici
locali e non faceva alcun cenno al "servizio idrico
integrato"; solo successivamente,
con la L. n. 248/2006 di conversione del D.L. n. 223/2006,
si è modificata la prima parte del citato comma 15-bis,
prevedendo per tutti i servizi pubblici locali di rilevanza
economica affidati con procedura diversa dall'evidenza
pubblica la cessazione "entro e non oltre la data del
31.12.2006, relativamente al solo servizio idrico
integrato al 31.12.2007".
---------------
La disciplina del sevizio idrico rimane di pertinenza delle
norme del Codice Ambiente, sia in punto di definizione del
sistema idrico integrato, per la disciplina della
riorganizzazione dei servizi idrici, sia infine per ciò che
qui interessa, per la disciplina delle gestioni esistenti ex
art. 172 citato.
Peraltro, ad ulteriore sostegno della tesi qui
rappresentata, si evidenzia che sarebbe
irrazionale che il legislatore ammettesse, con l’art. 34 (commi
20 e ss., D.L. n. 179/2012), il
reingresso di ipotesi di perpetuazione di gestioni
frammentate dei servizi idrici, di cui invece auspica il
superamento, anche in un logica di contenimento dei costi e
di razionalizzazione dell’offerta dei servizi a vantaggio
della comunità locale
(cfr. art. 147, comma 2, lett. b) Codice Ambiente),
nonché di tutela del bene pubblico Acqua quale
risorsa da preservare proprio attraverso la gestione
unitaria delle fasi che compongono il ciclo delle acque
(cfr. Direttiva n. 60-2000 UE, cd. Direttiva Acqua).
---------------
Invero:
- la disciplina del settore idrico impone che i
servizi di cui consta la gestione del ciclo delle acque
siano esclusivamente da intendersi secondo la definizione di
sistema idrico integrato, a tutela dei superiori valori
sopra evidenziati, sistema da intendersi quale insieme di
segmenti la cui gestione deve avvenire mediante un unico
gestore;
- l’art. 113, comma 15-bis e l’art. 23-bis D.L. n.
112/2008 è norma speciale, la quale consente in via di
eccezione l’ammissione alla deroga della continuazione delle
gestioni in essere, ma solo di quelle gestioni aventi i
connotati definiti dalla normativa di settore richiamata (ex
art. 141 Codice Ambiente), ovvero i connotati di sistema
idrico integrato;
- pertanto, a nulla rileva la circostanza
relativa alla natura in house di Hidrogest, che non è
elemento sufficiente a ritenere legittimata la proroga delle
gestioni in essere;
- non è in discussione, infatti, la
legittimità degli affidamenti in house disposti dai Comuni
soci di Hidrogest, ma la legittimità della loro prosecuzione
in deroga ai termini di legge, vista la riorganizzazione del
servizio attuata dall’ATO secondo gli obiettivi del Codice
Ambiente sopra evidenziati.
E’ evidente, conclusivamente, che
tutte le norme rilevanti nella fattispecie (art. 34 D.L. n.
179/2012, art. 113, comma 15-bis TUEL, art. 23-bis D.L. n.
112/2008 e art. 12 L.R. n. 26/2003, nonché tutta la
normativa successiva modificativa o integrativa, non possono
prescindere dalla specialità del settore idrico e dalla
centralità in esso della nozione di sistema idrico
integrato.
---------------
Non è qui in discussione la possibilità di una pluralità di
gestori nell’ATO Bergamo, atteso che in nessun atto emerge
una volontà dell’Autorità di agevolare l’appellata Uniacque
S.p.A. quale unico soggetto deputato all’esercizio del
sistema idrico integrato, potendosi certamente
verificare che in esito all’istruttoria si realizzasse
l’ipotesi di una compresenza di più operatori all’interno
dell’ATO.
---------------
La perizia di parte in atti evidenzia la mancanza della
gestione dei servizi di fognatura, riportando unicamente i
dati riscontrati di realizzazione di tratti di
infrastrutture intercomunali e di tratti di reti di
collettamento fognario, ovvero quella porzione di rete che
convoglia la fogna comunale al depuratore, ma nulla dimostra
in merito alle reti fognarie di proprietà dei Comuni che
siano concesse in gestione a Hidrogest.
La stessa perizia smentisce la tesi della parte appellante
e, comunque, non dimostra la gestione del servizio idrico
integrato da parte di quest’ultimo, a prescindere dalla
circostanza che Hidrogest svolgerebbe attività “inerenti” o
“connesse” ai servizi di cui non è affidataria, quali la
bollettazione e fatturazione, ovvero l’acquisizione della
pareristica (tecnica) prodromica al rilascio delle
autorizzazioni fognarie, che non rendono di per sé la
gestione del servizio ai sensi richiesti dalla norma del
Codice ambiente (ovvero secondo il paradigma del sistema
idrico integrato).
---------------
... sul ricorso numero di registro generale 4445 del 2014,
proposto da:
- Comune di Almenno San Bartolomeo, Comune di Barzana, Comune di
Bottanuco, Comune di Brembate, Comune di Carvico, Comune di
Chignolo D'Isola, Comune di Mapello, Comune di Medolago,
Comune di Monte Marenzo, Comune di Palazzago, Comune di
Presezzo, Comune di Roncola, Comune di Solza, Comune di
Suisio e Comune di Villa D'Adda, in persona dei Sindaci pro
tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato...;
- contro
Ufficio D'Ambito della Provincia di Bergamo, in persona del
legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso
dagli avvocati...;
- nei confronti
di Uniacque Spa, Comune di Bonate Sopra, Comune di Bonate
Sotto, Comune di Calusco D'Adda, Comune di Caprino
Bergamasco, Comune di Cisano Bergamasco, Comune di Ponte San
Pietro, Comune di Terno D'Isola e Presidente della
Conferenza dell'ATO della Provincia di Bergamo, non
costituiti in giudizio;
- per la riforma della
sentenza 12.03.2014 n. 239 del TAR LOMBARDIA -
SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZ. II, resa tra le parti,
concernente la cessazione del servizio di erogazione acque.
...
1. Con l’appello in esame i Comuni appellanti hanno
impugnato la sentenza del TAR Lombardia, Brescia, con la
quale è stata confermata la legittimità del provvedimento
nei confronti della società Hidrogest S.p.A., adottato
dall’Autorità d’Ambito (oggi AATO, già Ufficio d’Ambito), di
diniego della prosecuzione della gestione dei servizi idrici
in deroga ai termini di cui all’art. 113, comma 15-bis TUEL
e art. 23-bis, D.L. n. 112/2008.
L’appello deve considerarsi
complessivamente infondato,
e ciò esime il Collegio dall’esame delle preliminari
eccezioni opposte dalle parti appellate.
2. Sempre in via preliminare devono premettersi due
considerazioni, una in punto di fatto, una in
punto di diritto.
In punto di fatto, deve precisarsi che Hidrogest
risulta partecipata dalla società Unica Servizi S.p.A.,
dalla provincia di Bergamo e dai Comuni di Capriate San
Gervasio, Madone, Sotto il Monte Giovanni XXIII, Brembate di
Sopra, Filago e Pontida.
A sua volta, la Unica Servizi S.p.A. è partecipata da
Hidrogest S.p.A. e da altri 27 Comuni (Calusco d’Adda, Ponte
San Pietro, Brembate, Carvico, Bonate Sopra, Mapello, Bonate
Sotto, Terno d’Isola, Bottanuco, Suisio, Presezzo, Cisano
Bergamasco, Chignolo d’Isola, Almenno San Bartolomeo,
Ambivere, Medolago, Solza, Palazzago, Caprino Bergamasco,
Valbrembo, Monte Marenzo, Torre dé Busi, Barzana, Roncola,
Osnago e Bellusco.
In particolare, i comuni di Osnago, Monte Marenzo in
provincia di Lecco e Bellusco, della provincia di Monza e
Brianza, non ricadono nell’ATO bergamasco.
Inoltre, non sono soci né di Hidrogest S.p.A., né di Unica
Servizi S.p.A. i Comuni di Curno e Mozzo, ricadenti nell’ATO
di Bergamo, per i quali la società svolge unicamente i
servizi di Depurazione.
In punto di diritto, l'art. 172
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Codice dell'ambiente), in tema di
"gestioni esistenti", ha stabilito che per quanto
riguarda il servizio idrico integrato "in
relazione alla scadenza del termine di cui al comma 15-bis
dell'articolo 113 del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, l'Autorità d'ambito dispone i nuovi affidamenti, nel
rispetto della parte terza del presente decreto, entro i
sessanta giorni antecedenti tale scadenza".
La norma ha quindi rinviato alla disciplina generale del
comma 15-bis dell'art. 113, d.lgs. n. 267/2000 il quale
ratione temporis si riferiva a tutti i servizi pubblici
locali e non faceva alcun cenno al "servizio idrico
integrato"; solo successivamente, con
la L. n. 248/2006 di conversione del D.L. n. 223/2006, si è
modificata la prima parte del citato comma 15-bis,
prevedendo per tutti i servizi pubblici locali di rilevanza
economica affidati con procedura diversa dall'evidenza
pubblica la cessazione "entro e non oltre la data del
31.12.2006, relativamente al solo servizio idrico
integrato al 31.12.2007".
Tale quadro preliminare è funzionale all’esame e alla
valutazione di singoli motivi di appello.
3. Con il primo motivo di appello si deduce, in
sostanza, la violazione delle sopravvenute previsioni
dell’art. 34, commi 20 e ss., D.L. n. 179/2012.
Secondo questo Collegio, il TAR ha
correttamente deciso questo profilo, atteso che la
disposizione citata non interferisce con le previsioni del
TUEL e del D.L. n. 112/2008, in quanto l’art. 172 d.lgs.
03.04.2006, n. 152 (Codice dell'ambiente),
peraltro invocato a fondamento della stessa istruttoria,
richiama espressamente la “scadenza del termine
di cui al comma 15-bis dell’art. 113 del d.lgs. 18.08.2000,
n. 267” e, dunque, opera un rinvio di tipo sostanziale e
recettizio ad una disposizione puntuale della disciplina dei
servizi pubblici locali.
Peraltro, l’art. 34 D.L. n. 179/2012, laddove ha inteso
incidere su discipline di settore è intervenuto
direttamente, come nel caso del settore del gas (comma 18),
in quello dell’energia elettrica (comma 19) e dei rifiuti
(comma 23).
La disciplina del sevizio idrico, dunque,
rimane di pertinenza delle norme del Codice Ambiente, sia in
punto di definizione del sistema idrico integrato, per la
disciplina della riorganizzazione dei servizi idrici, sia
infine per ciò che qui interessa, per la disciplina delle
gestioni esistenti ex art. 172 citato.
Peraltro, ad ulteriore sostegno della tesi qui
rappresentata, si evidenzia che sarebbe
irrazionale che il legislatore ammettesse, con l’art. 34, il
reingresso di ipotesi di perpetuazione di gestioni
frammentate dei servizi idrici, di cui invece auspica il
superamento, anche in un logica di contenimento dei costi e
di razionalizzazione dell’offerta dei servizi a vantaggio
della comunità locale
(cfr. art. 147, comma 2, lett. b) Codice Ambiente),
nonché di tutela del bene pubblico Acqua quale
risorsa da preservare proprio attraverso la gestione
unitaria delle fasi che compongono il ciclo delle acque
(cfr. Direttiva n. 60-2000 UE, cd. Direttiva Acqua).
4. Anche le successive doglianze, articolate in una
pluralità di argomentazioni, sono da ritenersi infondato.
Infatti:
- la disciplina del settore idrico impone che i
servizi di cui consta la gestione del ciclo delle acque
siano esclusivamente da intendersi secondo la definizione di
sistema idrico integrato, a tutela dei superiori valori
sopra evidenziati, sistema da intendersi quale insieme di
segmenti la cui gestione deve avvenire mediante un unico
gestore;
- l’art. 113, comma 15-bis e l’art. 23-bis D.L. n.
112/2008 è norma speciale, la quale consente in via di
eccezione l’ammissione alla deroga della continuazione delle
gestioni in essere, ma solo di quelle gestioni aventi i
connotati definiti dalla normativa di settore richiamata (ex
art. 141 Codice Ambiente), ovvero i connotati di sistema
idrico integrato;
- pertanto, a nulla rileva la circostanza relativa
alla natura in house di Hidrogest, che non è elemento
sufficiente a ritenere legittimata la proroga delle gestioni
in essere;
- non è in discussione, infatti, la legittimità
degli affidamenti in house disposti dai Comuni soci
di Hidrogest, ma la legittimità della loro prosecuzione in
deroga ai termini di legge, vista la riorganizzazione del
servizio attuata dall’ATO secondo gli obiettivi del Codice
Ambiente sopra evidenziati.
E’ evidente, conclusivamente, che tutte le
norme rilevanti nella fattispecie (art. 34 D.L. n. 179/2012,
art. 113, comma 15-bis TUEL, art. 23-bis D.L. n. 112/2008 e
art. 12 L.R. n. 26/2003, nonché tutta la normativa
successiva modificativa o integrativa, non possono
prescindere dalla specialità del settore idrico e dalla
centralità in esso della nozione di sistema idrico
integrato.
Il Collegio deve inoltre osservare che l’opposta tesi
sostenuta nell’atto di appello non è in sé irragionevole, è
ben argomentata ed è in astratto compatibile con il quadro
normativo richiamato nel medesimo atto di appello; sotto il
profilo strettamente tecnico-giuridico, quindi,
l’interpretazione accolta dalla parte appellante ha la
stessa dignità di quella ricavata dal sistema di norme sulla
cui base è stata disposta la decadenza oggetto del presente
giudizio.
Tale esito è frutto, senza dubbio, di un quadro normativo
che, in punto proroga delle concessioni, è da ritenersi
confuso, disorganico ed ambiguo, e che genera così, a causa
di una scarsa qualità normativa e dell’assenza a monte di
una scelta politica netta, incertezza tra gli operatori del
settore.
L’opzione per la tesi accolta dal TAR, e
condivisa da questo Collegio, si basa, dunque, sulla
valorizzazione della ratio tutela dei superiori
valori evidenziati al punto 3 della sentenza, nonché
sull’ovvia constatazione che, trattandosi di verificare la
sussistenza di un regime di proroga chiaramente derogatorio,
è sempre preferibile, quale criterio euristico, l’opzione
interpretativa che eviti il protrarsi di situazioni
eccezionali o, comunque, dichiaratamente non fisiologiche.
Infine, deve aggiungersi, in relazione alle contestazioni
mosse sul punto, che non è qui in
discussione la possibilità di una pluralità di gestori nell’ATO
Bergamo, atteso che in nessun atto emerge una volontà
dell’Autorità di agevolare l’appellata Uniacque S.p.A. quale
unico soggetto deputato all’esercizio del sistema idrico
integrato, potendosi certamente verificare che in esito
all’istruttoria si realizzasse l’ipotesi di una compresenza
di più operatori all’interno dell’ATO.
5. In relazione al motivo di appello con cui si contesta che
la società Hidrogest S.p.A. svolgerebbe il servizio secondo
il sistema idrico integrato, il Collegio osserva, in punto
di fatto, che:
- in qualche Comune la gestione era operata in via
di mero fatto, senza il sostegno di alcuna documentazione
giuridica del rapporto
(ad es. Almenno San Bartolomeo per Depurazione);
- in altre realtà locali le concessioni, ancorché
risalenti agli anni ‘90, non sono mai state sottoscritte tra
le parti (Barzana
per il servizio Depurazione; Bottanuco per il servizio
Acquedotto);
- in altri Comuni ancora le concessioni, ancorché
approvate dai rispettivi organi consiliari non sono state
mai prodotte (Chignolo
d’Isola per il servizio di Acquedotto; Cisano Bergamasco,
Palazzago, Pontida per il servizio di Depurazione; Roncola
per il servizio di Fognatura; Sotto il Monte e Terno d’Isola
per il servizio di Acquedotto).
Molti dei Comuni, alla fine del 2006, ma in
epoca successiva all’affidamento da parte dell’ATO della
gestione del servizio idrico integrato in capo ad Uniacque
S.p.A., disposto il 20.03.2006 e sottoscritto il 01.08.2006,
hanno approvato una bozza di convenzione proposta da
Hidrogest S.p.A., senza addivenire mai alla relativa
sottoscrizione
(cfr. pagg. 127–139 Report depositato sub doc. 11 del
ricorso).
Anche la perizia di parte in atti, come nel
ricorso in appello connesso RG n. 4110/2014, evidenzia la
mancanza della gestione dei servizi di fognatura, riportando
unicamente i dati riscontrati di realizzazione di tratti di
infrastrutture intercomunali e di tratti di reti di
collettamento fognario, ovvero quella porzione di rete che
convoglia la fogna comunale al depuratore, ma nulla dimostra
in merito alle reti fognarie di proprietà dei Comuni che
siano concesse in gestione a Hidrogest.
Con riferimento poi ai comuni di Filago, Curno e Mozzo,
inoltre, non sono state barrate le caselle corrispondenti
alla gestione da parte della società dei servizi di
Acquedotto la cui conduzione, come evidenziato poco più
sopra, è effettuata da Uniacque S.p.A. (Curno pag. 50;
Filago pag. 51; Mozzo pag. 53).
Relativamente al Comune di Roncola, lo stesso documento
denuncia la carenza di gestione della fase di depurazione
(pag. 55).
In definitiva, quindi, la stessa perizia
smentisce la tesi della parte appellante e, comunque, non
dimostra la gestione del servizio idrico integrato da
parte di quest’ultimo, a prescindere dalla circostanza che
Hidrogest svolgerebbe attività “inerenti” o “connesse”
ai servizi di cui non è affidataria, quali la bollettazione
e fatturazione, ovvero l’acquisizione della pareristica
(tecnica) prodromica al rilascio delle autorizzazioni
fognarie, che non rendono di per sé la gestione del servizio
ai sensi richiesti dalla norma del Codice ambiente (ovvero
secondo il paradigma del sistema idrico integrato).
Con l’ulteriore
conseguenza che
la decadenza definita al
31.12.2007 avrebbe avuto senso solo nell’ipotesi in cui la
società avesse comunque vantato la gestione del servizio
idrico integrato completo di tutte le attività in esso
rientranti.
6. E’, inoltre, infondata
la pretesa incompetenza dell’atto finale del procedimento
sottoscritto dal Presidente dell’ATO, poiché il diniego è
stato disposto con atto della Conferenza d’Ambito e
comunicato con provvedimento a firma del Presidente che ne
ha la legale rappresentanza e nessuna determinazione è stata
assunta dal Presidente in quanto tale, il quale si è
limitato a riportare pedissequamente le conclusioni finali
dell’istruttoria approvata dall’organo assembleare, operando
un rinvio integrale e ricettizio in ordine alla motivazione
del diniego opposto.
7. Infine, l’asserita mancanza della comunicazione di avvio
del procedimento ai Comuni soci di Hidrogest non incide
sulla legittimità dell’atto atteso che la procedura è
avvenuta ad istanza di parte e che i Comuni, facendo parte
obbligatoriamente della Conferenza d’Ambito erano del tutto
edotti della procedura in corso, Comuni tutti peraltro
presenti e votanti in sede di assunzione della delibera n.
22/2008.
Anche il quinto motivo di appello, con il
quale si denuncia la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990
è, pertanto, infondato, anche in considerazione del fatto
che, trattandosi di provvedimento ad esito
vincolato, basato sull’accertamento di determinati
presupposti previsti dalla legge, l’eventuale assenza
dell’avviso di avvio del procedimento è, nel caso di specie,
per quanto detto, evidentemente ininfluente sulla
legittimità del provvedimento, ai sensi dell’art. 21-octies
L. n. 241/1990.
8. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni,
l’appello deve essere respinto, in quanto infondato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2016 n. 5235 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: L'art.
172 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Codice dell'ambiente), in
tema di "gestioni esistenti", ha stabilito che per quanto
riguarda il servizio idrico integrato "in relazione
alla scadenza del termine di cui al comma 15-bis
dell'articolo 113 del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, l'Autorità d'ambito dispone i nuovi affidamenti, nel
rispetto della parte terza del presente decreto, entro i
sessanta giorni antecedenti tale scadenza".
La norma ha quindi rinviato alla disciplina generale del
comma 15-bis dell'art. 113, d.lgs. n. 267/2000 il quale
ratione temporis si riferiva a tutti i servizi pubblici
locali e non faceva alcun cenno al "servizio idrico
integrato"; solo successivamente,
con la L. n. 248/2006 di conversione del D.L. n. 223/2006,
si è modificata la prima parte del citato comma 15-bis,
prevedendo per tutti i servizi pubblici locali di rilevanza
economica affidati con procedura diversa dall'evidenza
pubblica la cessazione "entro e non oltre la data del
31.12.2006, relativamente al solo servizio idrico
integrato al 31.12.2007".
---------------
La disciplina del sevizio idrico, dunque, rimane di
pertinenza delle norme del Codice Ambiente, sia in punto di
definizione del sistema idrico integrato, per la disciplina
della riorganizzazione dei servizi idrici, sia infine per
ciò che qui interessa, per la disciplina delle gestioni
esistenti ex art. 172 citato.
Peraltro, ad ulteriore sostegno della tesi qui
rappresentata, si evidenzia che sarebbe
irrazionale che il legislatore ammettesse, con l’art. 34 (commi
20 e ss., D.L. n. 179/2012),
il reingresso di ipotesi di perpetuazione di gestioni
frammentate dei servizi idrici, di cui invece auspica il
superamento, anche in un logica di contenimento dei costi e
di razionalizzazione dell’offerta dei servizi a vantaggio
della comunità locale
(cfr. art. 147, comma 2, lett. b) Codice Ambiente),
nonché di tutela del bene pubblico Acqua quale
risorsa da preservare proprio attraverso la gestione
unitaria delle fasi che compongono il ciclo delle acque
(cfr. Direttiva n. 60/2000 UE, cd. Direttiva Acqua).
---------------
Invero:
- la disciplina del settore idrico impone che i
servizi di cui consta la gestione del ciclo delle acque
siano esclusivamente da intendersi secondo la definizione di
sistema idrico integrato, a tutela dei superiori valori
sopra evidenziati, sistema da intendersi quale insieme di
segmenti la cui gestione deve avvenire mediante un unico
gestore;
- l’art. 113, comma 15-bis e l’art. 23-bis D.L. n.
112/2008 è norma speciale, la quale consente in via di
eccezione l’ammissione alla deroga della continuazione delle
gestioni in essere, ma solo di quelle gestioni aventi i
connotati definiti dalla normativa di settore richiamata (ex
art. 141 Codice Ambiente), ovvero i connotati di sistema
idrico integrato;
- pertanto, a nulla rileva la circostanza
relativa alla natura in house di Hidrogest, che non è
elemento sufficiente a ritenere legittimata la proroga delle
gestioni in essere;
- non è in discussione, infatti, la
legittimità degli affidamenti in house disposti dai Comuni
soci di Hidrogest, ma la legittimità della loro prosecuzione
in deroga ai termini di legge, vista la riorganizzazione del
servizio attuata dall’ATO secondo gli obiettivi del Codice
Ambiente sopra evidenziati.
E’ evidente, conclusivamente, che
tutte le norme rilevanti nella fattispecie (art. 34 D.L. n.
179/2012, art. 113, comma 15-bis TUEL, art. 23-bis D.L. n.
112/2008 e art. 12 L.R. n. 26/2003, nonché tutta la
normativa successiva modificativa o integrativa, non possono
prescindere dalla specialità del settore idrico e dalla
centralità in esso della nozione di sistema idrico
integrato.
---------------
Non è qui in discussione la possibilità di una pluralità di
gestori nell’ATO Bergamo, atteso che in nessun atto emerge
una volontà dell’Autorità di agevolare l’appellata Uniacque
S.p.A. quale unico soggetto deputato all’esercizio del
sistema idrico integrato, potendosi certamente
verificare che in esito all’istruttoria si realizzasse
l’ipotesi di una compresenza di più operatori all’interno
dell’ATO.
---------------
La perizia di parte in atti evidenzia la mancanza della
gestione dei servizi di fognatura, riportando unicamente i
dati riscontrati di realizzazione di tratti di
infrastrutture intercomunali e di tratti di reti di
collettamento fognario, ovvero quella porzione di rete che
convoglia la fogna comunale al depuratore, ma nulla dimostra
in merito alle reti fognarie di proprietà dei Comuni che
siano concesse in gestione a Hidrogest.
La stessa perizia smentisce la tesi della parte appellante
e, comunque, non dimostra la gestione del servizio idrico
integrato da parte di quest’ultimo, a prescindere dalla
circostanza che Hidrogest svolgerebbe attività “inerenti” o
“connesse” ai servizi di cui non è affidataria, quali la
bollettazione e fatturazione, ovvero l’acquisizione della
pareristica (tecnica) prodromica al rilascio delle
autorizzazioni fognarie, che non rendono di per sé la
gestione del servizio ai sensi richiesti dalla norma del
Codice ambiente (ovvero secondo il paradigma del sistema
idrico integrato).
---------------
... sul ricorso numero di registro generale 4110 del 2014,
proposto da:
- Hidrogest S.p.A., in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati...;
- contro
Ambito Territoriale Ottimale della Provincia di Bergamo, in
persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato
e difeso dagli avvocati...;
Ufficio D'Ambito Provincia di Bergamo, Provincia di Bergamo
e Consorzio Autorità d'Ambito Provincia di Bergamo, non
costituiti in giudizio;
- nei confronti
di Uniacque Spa, in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato...;
- per la riforma della
sentenza 12.03.2014 n. 247 del TAR LOMBARDIA -
SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZ. II, resa tra le parti,
concernente la verifica dei requisiti per l’affidamento in
gestione dei servizi di erogazione acque.
...
1. Con l’appello in esame la società Hidrogest S.p.A. ha
impugnato la sentenza del TAR Lombardia, Brescia, con la
quale è stata confermata la legittimità del provvedimento
adottato dall’Autorità d’Ambito (ATO, oggi Ufficio d’Ambito)
di diniego della prosecuzione della gestione dei servizi
idrici in deroga ai termini di cui all’art. 113, comma
15-bis TUEL e art. 23-bis, D.L. n. 112/2008.
L’appello deve considerarsi
complessivamente infondato,
e ciò esime il Collegio dall’esame delle preliminari
eccezioni opposte dalle parti appellate.
2. Sempre in via preliminare devono premettersi due
considerazioni, una in punto di fatto, una in
punto di diritto.
In punto di fatto, deve precisarsi che Hidrogest
risulta partecipata dalla società Unica Servizi S.p.A.,
dalla provincia di Bergamo e dai Comuni di Capriate San
Gervasio, Madone, Sotto il Monte Giovanni XXIII, Brembate di
Sopra, Filago e Pontida.
A sua volta, la Unica Servizi S.p.A. è partecipata da
Hidrogest S.p.A. e da altri 27 Comuni (Calusco d’Adda, Ponte
San Pietro, Brembate, Carvico, Bonate Sopra, Mapello, Bonate
Sotto, Terno d’Isola, Bottanuco, Suisio, Presezzo, Cisano
Bergamasco, Chignolo d’Isola, Almenno San Bartolomeo,
Ambivere, Medolago, Solza, Palazzago, Caprino Bergamasco,
Valbrembo, Monte Marenzo, Torre dé Busi, Barzana, Roncola,
Osnago e Bellusco.
In particolare, i comuni di Osnago, Monte Marenzo in
provincia di Lecco e Bellusco, della provincia di Monza e
Brianza, non ricadono nell’ATO bergamasco.
Inoltre, non sono soci né di Hidrogest S.p.A., né di Unica
Servizi S.p.A. i Comuni di Curno e Mozzo, ricadenti nell’ATO
di Bergamo, per i quali la società svolge unicamente i
servizi di Depurazione.
In punto di diritto, l'art. 172
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Codice dell'ambiente), in tema di
"gestioni esistenti", ha stabilito che per quanto
riguarda il servizio idrico integrato "in
relazione alla scadenza del termine di cui al comma 15-bis
dell'articolo 113 del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, l'Autorità d'ambito dispone i nuovi affidamenti, nel
rispetto della parte terza del presente decreto, entro i
sessanta giorni antecedenti tale scadenza".
La norma ha quindi rinviato alla disciplina generale del
comma 15-bis dell'art. 113, d.lgs. n. 267/2000 il quale
ratione temporis si riferiva a tutti i servizi pubblici
locali e non faceva alcun cenno al "servizio idrico
integrato"; solo successivamente, con
la L. n. 248/2006 di conversione del D.L. n. 223/2006, si è
modificata la prima parte del citato comma 15-bis,
prevedendo per tutti i servizi pubblici locali di rilevanza
economica affidati con procedura diversa dall'evidenza
pubblica la cessazione "entro e non oltre la data del
31.12.2006, relativamente al solo servizio idrico
integrato al 31.12.2007".
Tale quadro preliminare è funzionale all’esame e alla
valutazione di singoli motivi di appello.
3. Con il primo motivo di appello si deduce, in
sostanza, la violazione delle sopravvenute previsioni
dell’art. 34, commi 20 e ss., D.L. n. 179/2012.
Secondo questo Collegio, il TAR ha
correttamente deciso questo profilo, atteso che la
disposizione citata non interferisce con le previsioni del
TUEL e del D.L. n. 112/2008, in quanto l’art. 172 d.lgs.
03.04.2006, n. 152 (Codice dell'ambiente),
peraltro invocato a fondamento della stessa istruttoria,
richiama espressamente la “scadenza del termine
di cui al comma 15-bis dell’art. 113 del d.lgs. 18.08.2000,
n. 267” e, dunque, opera un rinvio di tipo sostanziale e
recettizio ad una disposizione puntuale della disciplina dei
servizi pubblici locali.
Peraltro, l’art. 34 D.L. n. 179/2012, laddove ha inteso
incidere su discipline di settore è intervenuto
direttamente, come nel caso del settore del gas (comma 18),
in quello dell’energia elettrica (comma 19) e dei rifiuti
(comma 23).
La disciplina del sevizio idrico, dunque,
rimane di pertinenza delle norme del Codice Ambiente, sia in
punto di definizione del sistema idrico integrato, per la
disciplina della riorganizzazione dei servizi idrici, sia
infine per ciò che qui interessa, per la disciplina delle
gestioni esistenti ex art. 172 citato.
Peraltro, ad ulteriore sostegno della tesi qui
rappresentata, si evidenzia che sarebbe
irrazionale che il legislatore ammettesse, con l’art. 34, il
reingresso di ipotesi di perpetuazione di gestioni
frammentate dei servizi idrici, di cui invece auspica il
superamento, anche in un logica di contenimento dei costi e
di razionalizzazione dell’offerta dei servizi a vantaggio
della comunità locale
(cfr. art. 147, comma 2, lett. b) Codice Ambiente),
nonché di tutela del bene pubblico Acqua quale
risorsa da preservare proprio attraverso la gestione
unitaria delle fasi che compongono il ciclo delle acque
(cfr. Direttiva n. 60/2000 UE, cd. Direttiva Acqua).
4. Anche il secondo motivo d’appello, articolato in
una pluralità di argomentazioni è da ritenersi infondato.
Infatti:
- la disciplina del settore idrico impone che i
servizi di cui consta la gestione del ciclo delle acque
siano esclusivamente da intendersi secondo la definizione di
sistema idrico integrato, a tutela dei superiori valori
sopra evidenziati, sistema da intendersi quale insieme di
segmenti la cui gestione deve avvenire mediante un unico
gestore;
- l’art. 113, comma 15-bis, e l’art. 23-bis D.L.
n. 112/2008 è norma speciale, la quale consente in via di
eccezione l’ammissione alla deroga della continuazione delle
gestioni in essere, ma solo di quelle gestioni aventi i
connotati definiti dalla normativa di settore richiamata (ex
art. 141 Codice Ambiente), ovvero i connotati di sistema
idrico integrato;
- pertanto, a nulla rileva la circostanza relativa
alla natura in house di Hidrogest, che non è elemento
sufficiente a ritenere legittimata la proroga delle gestioni
in essere;
- non è in discussione, infatti, la legittimità
degli affidamenti in house disposti dai Comuni soci
di Hidrogest, ma la legittimità della loro prosecuzione in
deroga ai termini di legge, vista la riorganizzazione del
servizio attuata dall’ATO secondo gli obiettivi del Codice
Ambiente sopra evidenziati.
E’ evidente, conclusivamente, che tutte le
norme rilevanti nella fattispecie (art. 34 D.L. n. 179/2012,
art. 113, comma 15-bis TUEL, art. 23-bis D.L. n. 112/2008 e
art. 12 L.R. n. 26/2003, nonché tutta la normativa
successiva modificativa o integrativa, non possono
prescindere dalla specialità del settore idrico e dalla
centralità in esso della nozione di sistema idrico
integrato.
Il Collegio deve inoltre osservare che l’opposta tesi
sostenuta nell’atto di appello non è in sé irragionevole, è
ben argomentata ed è in astratto compatibile con il quadro
normativo richiamato nel medesimo atto di appello; sotto il
profilo strettamente tecnico-giuridico, quindi,
l’interpretazione accolta dalla parte appellante ha la
stessa dignità di quella ricavata dal sistema di norme sulla
cui base è stata disposta la decadenza oggetto del presente
giudizio.
Tale esito è frutto, senza dubbio, di un quadro normativo
che, in punto proroga delle concessioni, è da ritenersi
confuso, disorganico ed ambiguo, e che genera così, a causa
di una scarsa qualità normativa e dell’assenza a monte di
una scelta politica netta, incertezza tra gli operatori del
settore.
L’opzione per la tesi accolta dal TAR, e
condivisa da questo Collegio, si basa, dunque, sulla
valorizzazione della ratio tutela dei superiori
valori evidenziati al punto 3 della sentenza, nonché
sull’ovvia constatazione che, trattandosi di verificare la
sussistenza di un regime di proroga chiaramente derogatorio,
è sempre preferibile, quale criterio euristico, l’opzione
interpretativa che eviti il protrarsi di situazioni
eccezionali o, comunque, dichiaratamente non fisiologiche.
Infine, deve aggiungersi, in relazione alle contestazioni
mosse sul punto, che non è qui in
discussione la possibilità di una pluralità di gestori nell’ATO
Bergamo, atteso che in nessun atto emerge una volontà
dell’Autorità di agevolare l’appellata Uniacque S.p.A. quale
unico soggetto deputato all’esercizio del sistema idrico
integrato, potendosi certamente verificare che in esito
all’istruttoria si realizzasse l’ipotesi di una compresenza
di più operatori all’interno dell’ATO.
5. In relazione al motivo di appello con cui si contesta che
l’appellante svolgerebbe il servizio secondo il sistema
idrico integrato, il Collegio osserva, in punto di fatto,
che:
- in qualche Comune la gestione era operata in via
di mero fatto, senza il sostegno di alcuna documentazione
giuridica del rapporto
(ad es. Almenno San Bartolomeo per Depurazione);
- in altre realtà locali le concessioni, ancorché
risalenti agli anni ‘90, non sono mai state sottoscritte tra
le parti (Barzana
per il servizio Depurazione; Bottanuco per il servizio
Acquedotto);
- in altri comuni ancora le concessioni, ancorché
approvate dai rispettivi organi consiliari non sono state
mai prodotte (Chignolo
d’Isola per il servizio di Acquedotto; Cisano Bergamasco,
Palazzago, Pontida per il servizio di Depurazione; Roncola
per il servizio di Fognatura; Sotto il Monte e Terno d’Isola
per il servizio di Acquedotto).
Molti dei Comuni, alla fine del 2006, ma in
epoca successiva all’affidamento da parte dell’ATO della
gestione del servizio idrico integrato in capo ad Uniacque
S.p.A., disposto il 20.03.2006 e sottoscritto il 01.08.2006,
hanno approvato una bozza di convenzione proposta da
Hidrogest S.p.A., senza addivenire mai alla relativa
sottoscrizione
(cfr. pagg. 127–139 Report depositato sub doc. 11 del
ricorso).
Anche la perizia di parte depositata in
grado di appello,
a prescindere dalla sua dubbia ammissibilità,
evidenzia peraltro la mancanza della gestione dei
servizi di fognatura, riportando unicamente i dati
riscontrati di realizzazione di tratti di infrastrutture
intercomunali e di tratti di reti di collettamento fognario,
ovvero quella porzione di rete che convoglia la fogna
comunale al depuratore, ma nulla dimostra in merito alle
reti fognarie di proprietà dei Comuni che siano concesse in
gestione a Hidrogest.
Con riferimento poi ai comuni di Filago, Curno e Mozzo,
inoltre, non sono state barrate le caselle corrispondenti
alla gestione da parte della società dei servizi di
Acquedotto la cui conduzione, come evidenziato poco più
sopra, è effettuata da Uniacque S.p.A. (Curno pag. 50;
Filago pag. 51; Mozzo pag. 53).
Relativamente al Comune di Roncola, lo stesso documento
denuncia la carenza di gestione della fase di depurazione
(pag. 55).
In definitiva, quindi, la stessa perizia
smentisce la tesi dell’appellante e, comunque, non dimostra
la gestione del servizio idrico integrato da parte di
quest’ultimo, a prescindere dalla circostanza che Hidrogest
svolgerebbe attività “inerenti” o “connesse”
ai servizi di cui non è affidataria, quali la bollettazione
e fatturazione, ovvero l’acquisizione della pareristica
(tecnica) prodromica al rilascio delle autorizzazioni
fognarie, che non rendono di per sé la gestione del servizio
ai sensi richiesti dalla norma del Codice ambiente (ovvero
secondo il paradigma del sistema idrico integrato).
Con l’ulteriore
conseguenza che la decadenza definita al
31.12.2007 avrebbe avuto senso solo nell’ipotesi in cui la
società avesse comunque vantato la gestione del servizio
idrico integrato completo di tutte le attività in esso
rientranti.
6. Anche il quinto motivo di appello è infondato,
posto che i provvedimenti impugnati non fondano le proprie
conclusioni sulla carenza di sottoscrizione dei contratti,
ma sulla mancata integrazione della gestione di tutti i
servizi di cui si compone il servizio idrico integrato.
Relativamente ai soli Comuni di Curno e Mozzo, l’ATO ha
anche rilevato che detti Comuni non sono soci di Hidrogest
S.p.A., il che porterebbe d escludere anche il requisito del
modulo gestorio dell’in house providing,
rappresentando una fattispecie di esternalizzazione diretta
e senza gara del (solo) servizio di Depurazione gestito da
Hidrogest S.p.A., a nulla rilevando la considerazione della
contiguità territoriale e/o la collaborazione intercomunale,
che non rende certo di per sé legittimo l’affidamento
diretto della gestione di un servizio ad opera di un Comune
non socio.
7. In punto di motivazione per relationem si deve
ribadire quanto statuito dal TAR, corrispondente all’ormai
pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui
il provvedimento amministrativo preceduto da atti
istruttori o da pareri può ritenersi adeguatamente motivato
per relationem anche con il mero richiamo ad essi,
giacché tale richiamo sottintende l’intenzione dell’Autorità
emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa
della determinazione adottata, ma a condizione che dal
complesso degli atti del procedimento siano evincibili le
ragioni giuridiche che supportano la decisione, onde
consentire al destinatario di contrastarle con gli strumenti
offerti dall’ordinamento e al giudice amministrativo, ove
investito della relativa controversia, di sindacarne la
fondatezza (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.02.2011,
n. 1156).
La messa in discussione delle competenze dei consulenti
legali quale ulteriore motivo di censura degli atti gravati
viene svolta per la prima volta in grado di appello ed è,
quindi, inammissibile.
Né può dirsi che la mancata sottoscrizione da parte della
Segreteria Tecnica può comportare la nullità invocata da
Hidrogest e dai Comuni, essendo palese la provenienza
dell’atto in quanto esso si è fuso nella delibera di
Conferenza d’Ambito che nella versione ufficiale,
sottoscritta dal Presidente e dal Segretario verbalizzante e
pubblicata all’Albo provinciale, ha approvato in toto i
contenuti e gli esiti dell’istruttoria.
E’, infine, infondata la pretesa incompetenza dell’atto
finale del procedimento sottoscritto dal Presidente dell’ATO,
poiché il diniego è stato disposto con atto della Conferenza
d’Ambito e comunicato con provvedimento a firma del
Presidente che ne ha la legale rappresentanza e nessuna
determinazione è stata assunta dal Presidente in quanto
tale, il quale si è limitato a riportare pedissequamente le
conclusioni finali dell’istruttoria approvata dall’organo
assembleare, operando un rinvio integrale e ricettizio in
ordine alla motivazione del diniego opposto.
Inoltre, l’asserita mancanza della comunicazione di avvio
del procedimento ai Comuni soci di Hidrogest non incide
sulla legittimità dell’atto atteso che la procedura è
avvenuta ad istanza di parte e che i Comuni, facendo parte
obbligatoriamente della Conferenza d’Ambito erano del tutto
edotti della procedura in corso, Comuni tutti peraltro
presenti e votanti in sede di assunzione della delibera n.
22/2008.
Anche tale motivo di appello, con il quale
si denuncia la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990
è, pertanto, infondato, anche in considerazione del fatto
che, trattandosi di provvedimento ad esito
vincolato, basato sull’accertamento di determinati
presupposti previsti dalla legge, l’eventuale assenza
dell’avviso di avvio del procedimento è, nel caso di specie,
per quanto detto, evidentemente ininfluente sulla
legittimità del provvedimento, ai sensi dell’art. 21-octies
L. n. 241-1990.
8. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni,
l’appello deve essere respinto, in quanto infondato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2016 n. 5233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il provvedimento amministrativo preceduto da atti
istruttori o da pareri può ritenersi adeguatamente motivato
per relationem anche con il mero richiamo ad essi, giacché
tale richiamo sottintende l’intenzione dell’Autorità
emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa
della determinazione adottata, ma a condizione che dal
complesso degli atti del procedimento siano evincibili le
ragioni giuridiche che supportano la decisione, onde
consentire al destinatario di contrastarle con gli strumenti
offerti dall’ordinamento e al giudice amministrativo, ove
investito della relativa controversia, di sindacarne la
fondatezza.
---------------
... sul ricorso numero di registro generale 4110 del 2014,
proposto da:
- Hidrogest S.p.A., in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati...;
- contro
Ambito Territoriale Ottimale della Provincia di Bergamo, in
persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato
e difeso dagli avvocati...;
Ufficio D'Ambito Provincia di Bergamo, Provincia di Bergamo
e Consorzio Autorità d'Ambito Provincia di Bergamo, non
costituiti in giudizio;
- nei confronti
di Uniacque Spa, in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato...;
- per la riforma della
sentenza 12.03.2014 n. 247 del TAR LOMBARDIA -
SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZ. II, resa tra le parti,
concernente la verifica dei requisiti per l’affidamento in
gestione dei servizi di erogazione acque.
...
7. In punto di motivazione per relationem si deve
ribadire quanto statuito dal TAR, corrispondente all’ormai
pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui
il provvedimento amministrativo preceduto da atti
istruttori o da pareri può ritenersi adeguatamente motivato
per relationem anche con il mero richiamo ad essi,
giacché tale richiamo sottintende l’intenzione dell’Autorità
emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa
della determinazione adottata, ma a condizione che dal
complesso degli atti del procedimento siano evincibili le
ragioni giuridiche che supportano la decisione, onde
consentire al destinatario di contrastarle con gli strumenti
offerti dall’ordinamento e al giudice amministrativo, ove
investito della relativa controversia, di sindacarne la
fondatezza (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.02.2011,
n. 1156).
La messa in discussione delle competenze dei consulenti
legali quale ulteriore motivo di censura degli atti gravati
viene svolta per la prima volta in grado di appello ed è,
quindi, inammissibile.
Né può dirsi che la mancata sottoscrizione da parte della
Segreteria Tecnica può comportare la nullità invocata da
Hidrogest e dai Comuni, essendo palese la provenienza
dell’atto in quanto esso si è fuso nella delibera di
Conferenza d’Ambito che nella versione ufficiale,
sottoscritta dal Presidente e dal Segretario verbalizzante e
pubblicata all’Albo provinciale, ha approvato in toto i
contenuti e gli esiti dell’istruttoria.
E’, infine, infondata la pretesa incompetenza dell’atto
finale del procedimento sottoscritto dal Presidente dell’ATO,
poiché il diniego è stato disposto con atto della Conferenza
d’Ambito e comunicato con provvedimento a firma del
Presidente che ne ha la legale rappresentanza e nessuna
determinazione è stata assunta dal Presidente in quanto
tale, il quale si è limitato a riportare pedissequamente le
conclusioni finali dell’istruttoria approvata dall’organo
assembleare, operando un rinvio integrale e ricettizio in
ordine alla motivazione del diniego opposto.
Inoltre, l’asserita mancanza della comunicazione di avvio
del procedimento ai Comuni soci di Hidrogest non incide
sulla legittimità dell’atto atteso che la procedura è
avvenuta ad istanza di parte e che i Comuni, facendo parte
obbligatoriamente della Conferenza d’Ambito erano del tutto
edotti della procedura in corso, Comuni tutti peraltro
presenti e votanti in sede di assunzione della delibera n.
22/2008.
Anche tale motivo di appello, con il quale
si denuncia la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990
è, pertanto, infondato, anche in considerazione del fatto
che, trattandosi di provvedimento ad esito
vincolato, basato sull’accertamento di determinati
presupposti previsti dalla legge, l’eventuale assenza
dell’avviso di avvio del procedimento è, nel caso di specie,
per quanto detto, evidentemente ininfluente sulla
legittimità del provvedimento, ai sensi dell’art. 21-octies
L. n. 241-1990.
8. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni,
l’appello deve essere respinto, in quanto infondato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2016 n. 5233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Bandi
di gara gratuiti ko. Incarichi professionali da retribuire
sempre. Il Tar Calabria sul ricorso
presentato dagli ordini delle categorie.
Stop a incarichi professionali a titolo gratuito per bandi e
il disciplinare di gara negli appalti pubblici. Il
corrispettivo della prestazione è elemento imprescindibile
nell'ambito di una gara d'appalto, e dunque la prestazione
stessa non può essere svolta a titolo gratuito. La natura
essenzialmente onerosa del contratto di appalto è imposta
non solo dalla disciplina civilistica, ma anche dalle regole
e principi che reggono gli appalti pubblici.
Questo il principio espresso dal
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.12.2016 n. 2435
sul corrispettivo economico da attribuire alla prestazione
del professionista che partecipa ad un gara d'appalto.
Nel dettaglio, il Tar Calabria ha accolto il ricorso
presentato da un gruppo di ordini professionali della
provincia di Catanzaro (architetti, ingegneri, agronomi,
geologi, geometri e periti) coadiuvato dai Consigli
nazionali di architetti e ingegneri.
Il ricorso è stato presentato contro la determinazione del
Comune di Catanzaro con cui era stato approvato il bando e
il disciplinare di gara aventi ad oggetto la «procedura
aperta per l'affidamento dell'incarico per la redazione del
piano strutturale del Comune di Catanzaro, ai sensi della
legge regionale Calabria 19/2002 e relativo regolamento
edilizio urbanistico» che prevedevano un importo a base
di gara pari a 1 euro e un rimborso spese nel limite massimo
di 250 mila euro.
Per i giudici amministrativi, «il principio della qualità
delle prestazioni che l'amministrazione aggiudicatrice
intende acquistare sul mercato e che si traduce nella
serietà dell'offerta sotto il profilo quantitativo, è
infatti alla base della regolamentazione specifica
dell'anomalia dell'offerta, poiché, anche nella prospettiva
del perseguimento da parte dell'amministrazione del
risparmio di spesa, le offerte che appaiono anormalmente
basse rispetto ai lavori potrebbero basarsi su valutazioni o
prassi errate dal punto di vista tecnico, economico o
giuridico, così rischiando di rivelarsi, nel lungo periodo,
poco convenienti».
La necessaria predeterminazione del prezzo del servizio
oggetto di appalto, quindi, anche quando tale componente
quantitativa sia valutata unitamente a quella qualitativa,
nell'ottica del legislatore sia nazionale che europeo, è
funzionale a garantire il principio di qualità della
prestazione e della connessa affidabilità dell'operatore
economico, rispetto al quale va contemperato e per certi
versi anche misurato il principio generale di economicità,
cui solo apparentemente sembra essere coerente il risparmio
di spesa indotto dalla natura gratuita del contratto di
appalto atipico
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2016).
---------------
MASSIMA
1. Con il ricorso in oggetto gli ordini provinciali
professionali indicati in epigrafe hanno impugnato la
determinazione del Comune di Catanzaro n. 3059 del 24.10.2016 con cui è stato approvato il bando e il
disciplinare di gara aventi ad oggetto la “procedura aperta
per l’affidamento dell’incarico per la redazione del piano
strutturale del Comune di Catanzaro, ai sensi della L.R.
Calabria 19/2002 e relativo regolamento edilizio
urbanistico”, nonché la determinazione 2905 del 10.10.2016, con cui è stato approvato il relativo capitolato
speciale di appalto, nonché la deliberazione della Giunta
Comunale n. 33 del 17.02.2016 con cui è stata
condivisa “la possibilità di formulare un bando che preveda
incarichi professionali a titolo gratuito, delegando il
dirigente del settore Pianificazione territoriale
all’approvazione dello stesso con determinazione
dirigenziale”.
2. Le diverse censure poste a fondamento della domanda di
annullamento dei predetti atti – rubricate come violazione
di legge con riferimento agli artt. 1655 e 2233 c.c., a
plurime norme del D.lgs. 50/2016 (artt. 35, 95, 83, 93, 97),
come violazione dei principi di trasparenza, economicità,
imparzialità, buon andamento e come eccesso di potere, sotto
molteplici profili, attengono tutte ad una medesima
doglianza: l’illegittimità del bando di gara nella parte in
cui ha previsto la natura gratuita del contratto di appalto
di servizi, cui è finalizzata la procedura, avendo il punto
2.1 del bando stimato il valore della prestazione pari ad
“1,00 euro” e stabilito che “l’appalto è a titolo gratuito”,
salva la previsione di una somma di euro 250.000,00
comprensiva di iva a solo titolo di rimborso spese per come
indicato nel disciplinare di gara.
In sintesi, ad avviso dei ricorrenti, la natura
essenzialmente onerosa contratto di appalto è imposta non
solo dalla disciplina civilistica (ai sensi dell’art. 1655
c.c.), ma anche dalle regole e principi che reggono gli
appalti pubblici, le quali sono articolate sul presupposto
della causa onerosa del contratto: così, in particolare,
quelle che concernono l’individuazione delle soglie di
rilevanza europea e dei requisiti di partecipazione con
riferimento al fatturato minimo (artt. 35, 95, co. 3, e 83, co.
4 e 5, del D.Lgs. 50/2016); che impongono l’obbligo di
prestare la garanzia fideiussoria (art. 93 del D.Lgs.
50/2016); che disciplinano il sub-procedimento di verifica
dell’anomalia dell’offerta (art. 95 e ss. del D.Lgs.
50/2016); che stabiliscono il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, il quale può –in
determinati casi indicati dall’art. 95, c. 7, del D.Lgs.
50/2016, non ricorrenti nel caso di specie– articolarsi su
un prezzo o costo fisso, che però deve comunque essere in
quanto tale predeterminato.
3. Hanno spiegato atto di intervento ad adiuvandum, i
Consigli nazionali degli ordini professionali indicati in
epigrafe nazionali.
4. Si è costituito il Comune di Catanzaro, sollevando
preliminarmente eccezione di tardività del ricorso; di
difetto di legittimazione a ricorrere da parte degli ordini
professionali; di mancata notifica ai controinteressati (che
gli stessi Ordini avrebbero avuto l’onere di individuare
interpellando tra i propri iscritti coloro disponibili a
rendere una prestazione a titolo gratuito).
Nel merito, l’amministrazione ha concluso per il rigetto del
ricorso, sul presupposto che non vi è alcuna norma che vieti
l’affidamento gratuito di un appalto pubblico.
5. Alla Camera di Consiglio del 30.11.2016, il ricorso
è stato trattenuto in decisione, previo avviso alle parti ex
art. 60 c.p.a.
6. Il ricorso è fondato e va accolto.
7. Vanno preliminarmente respinte le eccezioni processuali
sollevate da parte resistente.
La domanda di annullamento ha ad oggetto, in via principale,
il bando di gara che risulta pubblicato sulla G.U. della
Repubblica Italiana in data 24.10.2016 e la cui
previsione di gratuità della prestazione di servizi è idonea
a manifestare immediatamente la sua attitudine lesiva,
incidendo sull’interesse attuale alla partecipazione. Il
ricorso è stato notificato all’amministrazione resistente in
data 10.11.2016 e depositato il successivo 14
novembre, con conseguente sua tempestività.
Quanto alla legittimazione a ricorrere degli ordini
professionali, è sufficiente il rinvio ex art. 88, co. 2,
lett. d), c.p.a. alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV,
18.11.2013, n. 5451 che, distinguendo tra interessi
superindividuali, di cui sono titolari anche i singoli
appartenenti alla categoria, e “interesse collettivo” nella
esclusiva titolarità dell’ente esponenziale, riconosce la
legittimazione ad agire dell’ordine professionale che faccia
valere l’interesse omogeneo della categoria, anche se in
concreto il provvedimento ritenuto lesivo sia ritenuto
“vantaggioso” da singoli professionisti (per una
fattispecie analoga a quella in esame: cfr. Cons. St., IV
sez., 12.08.2011 n. 4776).
Quanto all’eccezione di difetto di contraddittorio per
mancata notifica ad un controinteressato, deve osservarsi
che non si ravvisa, nel caso di specie, né il requisito
sostanziale -costituito della titolarità in capo a terzi di
un interesse alla conservazione dell’atto impugnato di
natura uguale e contraria a quello “collettivo” fatto valere
dagli ordini professionali, proprio alla luce della
distinzione tra interesse individuale ed interesse
collettivo richiamata supra lett. b)- né quello formale
della facile identificabilità nominativa di soggetti cui
possa essere riconosciuta la qualifica di controinteressati.
8. Nel merito, ritiene il Collegio che alla questione
giuridica, concernente la configurabilità di un appalto
pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero “atipico”
rispetto alla disciplina normativa di cui al D.Lgs. 50/2016
sottesa alle doglianze di parte ricorrente, debba darsi
soluzione negativa.
La qualificazione dell’oggetto della gara in esame –peraltro
formalmente riconosciuta dalla stessa Amministrazione nel
richiamo alle diverse norme del D.Lgs. 50/2016–
quale
appalto di servizi è desumibile dalla natura imprenditoriale
che si richiede all’organizzazione delle risorse,
soprattutto umane, da parte dell’operatore economico
partecipante, in considerazione della peculiare complessità
dell’oggetto della specifica organizzazione e dalla
predeterminazione della sua durata (cfr. Cons. St., sez. V,
11.05.2012, n. 2370 Cons., sez. IV, 24.02.2000, n.
1019).
L’affidamento ha infatti ad oggetto la “elaborazione,
stesura e redazione integrale del Piano Strutturale del
Comune di Catanzaro” e di tutte le norme, discipline, atti,
piani, programmi e accordi di governo del territorio, di
settore e di programmazione, comunque correlati (ivi
compresa la redazione del regolamento edilizio e
urbanistico); ovvero la redazione di un atto di
pianificazione territoriale, compresa la relativa necessaria
“Valutazione Ambientale Strategica”, che non tenga conto
solo del profilo urbanistico, ma anche dei diversi profili
connessi (specificatamente indicati: geologici,
idrogeologici, sismici, ambientali, culturali, tecnologici,
storico-architettonici, socio-demografici, economici); la
natura organizzativo-imprenditoriale è peraltro imposta
dalla stessa stazione appaltante che richiede specificamente
all’operatore di avvalersi di una pluralità di figure
professionali, specializzate in funzione delle diverse
competenze tecniche richieste dalla particolare complessità
del servizio di progettazione (cfr. art. 1, lett. b, nn.
1,2,3,4,5,6,7, del capitolato speciale di appalto, all. 4
fascicolo parte ricorrente).
L’appalto pubblico di servizi rientra, come è noto,
nella
categoria dei “contratti speciali di diritto privato”
connotata da una disciplina, di derivazione europea,
derogatoria dei contratti di diritto comune, in ragione
degli interessi pubblici sottesi e della natura soggettiva
del contraente pubblico, e che trova la sua principale fonte
nel cd. Codice di Contratti Pubblici (D.Lgs. 50/2016).
Non
vi è dubbio che, alla stregua di tale normativa speciale, il
contratto di appalto sia contraddistinto dalla necessaria
“onerosità” e sinallagmaticità delle prestazioni, essendo
connotato sia dalla sussistenza di prestazioni a carico di
entrambe le parti che dal rapporto di reciproco scambio tra
le stesse.
E’ sufficiente sul punto richiamare la definizione normativa
di cui all’art. 3, co. 1, lett. ii, di “appalti pubblici” di
cui al D.Lgs. 50/2016 quali contratti a titolo oneroso e
stipulati per iscritto; e, quanto alla tipologia dei
“servizi di architettura ed ingegneria e altri servizi
tecnici” alla definizione rinvenibile nell’art. 3, lett. vvvv,
come quelli “riservati ad operatori economici esercenti una
professione regolamentata ai sensi dell’art. 3 della
Direttiva 2005/36/CE”.
A tale specifica tipologia di servizi fa inoltre riferimento
anche la norma di cui all’art. 95, co. 3, lett. b, del D.lgs.
50/2016 che stabilisce come obbligatorio il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, nell’ipotesi
di contratti relativi all’affidamento dei servizi di
ingegneria e architettura, e degli altri servizi di natura
tecnica ed intellettuale, di importo superiore a 40.000
euro, così confermando la necessità che sia specificato il
valore della prestazione richiesta, ovvero che sia previsto
come elemento essenziale del contratto il corrispettivo.
Sul punto, come correttamente rappresentato da parte
ricorrente, assumono particolare rilievo le linee guida n. 1
e 2 adottate dall’ANAC, rispettivamente con delibera del 14
e del 21.09.2016.
Con le prime, recanti “indirizzi generali sull’affidamento
dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria”, e
dirette a garantire la promozione dell’efficienza, della
qualità delle stazioni appaltanti, della omogeneità dei
procedimenti amministrativi ex art. 213, co. 2, del D.Lgs.
50/2016, si sottolinea l’esigenza che il corrispettivo degli
incarichi e servizi di progettazione ex art. 157 Codice
degli Appalti venga determinato secondo criteri fissati dal
decreto del Ministero della Giustizia 17.06.2016 “nel
rispetto di quanto previsto dall’art. 9, co. 2, del decreto 24.01.2012 n. 1, convertito con modificazioni dalla Legge
24.03.2012 n. 27, così come ulteriormente modificato
dall’art. 5 della legge 134/2012”, al fine di garantire
anche il controllo da parte dei potenziali concorrenti della
congruità della remunerazione.
Con le Linee Guida n. 2 “Offerta economicamente più
vantaggiosa”, si specifica che la valutazione dell’offerta
sulla base di un prezzo o costo fisso è ammessa solo entro i
limiti rigorosi dell’art. 95 co. 7 del Codice, ovvero o
nell’ipotesi in cui esso sia rinvenibile sulla base di
“disposizioni legislative, regolamentari o amministrative
relative al prezzo di determinate forniture o alla
remunerazione di servizi specifici”, o, in mancanza,
“valutando con attenzione le modalità di calcolo o di stima
del prezzo o costi fisso. Ciò al fine di evitare che il
prezzo sia troppo contenuto per permettere la partecipazione
di imprese “corrette” o troppo elevato, producendo danni per
la stazione appaltante”; fermo restando, in questa ultima
ipotesi, l’obbligo di un particolare impegno motivazionale
dal quale emerga l’iter logico comunque seguito per la
determinazione del prezzo fisso, a garanzia della
imparzialità della scelta del contraente e in generale
dell’obiettivo che la concorrenza si svolga nel rispetto
della sostenibilità economica e quindi “serietà” delle
offerte.
La necessaria predeterminazione del prezzo del servizio
oggetto di appalto, anche quando tale componente
quantitativa sia valutata unitamente a quella qualitativa,
nell’ottica del legislatore sia nazionale che europeo, è
funzionale a garantire il principio di qualità della
prestazione e della connessa affidabilità dell’operatore
economico, rispetto al quale va contemperato e per certi
versi anche “misurato” il principio generale di economicità,
cui solo apparentemente sembra essere coerente il risparmio
di spesa indotto dalla natura gratuita del contratto di
appalto “atipico”.
Il principio della qualità delle prestazioni che
l’amministrazione aggiudicatrice intende acquistare sul
mercato e che, in termini economici, si traduce nella
“serietà” dell’offerta sotto il profilo quantitativo, è
infatti alla base della regolamentazione specifica
dell’anomalia dell’offerta (ora disciplinata dall’art. 97
del Codice degli Appalti), poiché, anche nella prospettiva
del perseguimento da parte dell’amministrazione del
“risparmio di spesa”, le offerte che appaiono “anormalmente
basse rispetto ai lavori, alle forniture o ai servizi
potrebbero basarsi su valutazioni o prassi errate dal punto
di vista tecnico, economico o giuridico” (considerando 103
della Direttiva 2014/24 UE), così rischiando di rivelarsi,
nel lungo periodo, poco convenienti, foriere di ritardi,
inadempimenti, contenziosi giurisdizionali (cfr. Corte
Cost. 05.03.1998 n. 40 i cui principi sono applicabili
anche nel vigore delle norme attuali; cfr. anche TAR
Brescia, sez. I, 09.07.2007 n. 621).
9. Alla luce della natura essenzialmente onerosa del
contratto di appalto pubblico di servizi, devono ritenersi
pertanto fondate le censure di violazione delle norme del
Codice degli appalti sopra indicate, che, come indicato in
premessa, costituiscono applicazioni specifiche del
principio di onerosità del contratto di appalto di servizi.
10. Per mera completezza di motivazione pare opportuno
aggiungere che ad una diversa figura contrattuale, quella
del contratto di opera di prestazione professionale
intellettuale ex art. 2230 e ss.cc. si riferisce invece la
delibera della Corte dei Conti sezione regionale di
controllo per la Calabria del 29.01.2016 n. 6, cui
rinvia espressamente la determinazione del Comune 3059 del
24.10.2016.
La considerazione che, almeno per una parte
della giurisprudenza civilistica, il corrispettivo in tale
tipo contrattuale sia considerato quale elemento “naturale”
e non essenziale del contratto non rileva nel caso di
specie, poiché, anche alla stregua della disciplina
civilistica, il contratto in controversia deve essere invece
qualificato come appalto di servizi, poiché connotato dalla
organizzazione dell’attività di servizi in forma
imprenditoriale (cfr. Cass. 12519/2010);
in quanto tale
“tipicamente” oneroso e commutativo anche secondo la
disciplina civilistica, come attestato dall’art. 1657 c.c.
che, in caso di mancata determinazione del corrispettivo,
rimette in via sussidiaria tale determinazione al giudice;
né il contratto di appalto pubblico di servizi “gratuito”
potrebbe essere configurato facendo leva sulla generale
capacità dell’amministrazione di stipulare contratti atipici
ex art. 1322 c.c., la quale deve essere comunque esercitata
compatibilmente la realizzazione degli interessi pubblici,
ostandovi, da un lato, la natura “speciale” e vincolante
della disciplina pubblicistica dei contratti di appalto;
dall’altro, la considerazione che, proprio alla luce dei
principi di imparzialità, tutela della concorrenza ed
economicità dell’azione amministrativa cui risponde il
requisito della “onerosità” del contratto di appalto di
servizi come sopra indicato, il contratto di appalto
pubblico di servizi “atipico” perché gratuito non
supererebbe comunque il vaglio di meritevolezza ex art. 1322,
comma 2 c.c.
11. In conclusione, il ricorso va pertanto accolto e gli
atti oggetto di impugnazione annullati
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.12.2016 n. 2435 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Industrie
con deroga al rumore. I limiti acustici in ex aree
industriali tutelino le imprese. Una
sentenza Tar Toscana limita l'amministrazione comunale nella
zonizzazione acustica.
L'amministrazione comunale, nel decidere limitazioni
all'inquinamento acustico, deve tener conto degli interessi
delle attività economiche insediatesi sul territorio prima
di insediamenti abitativi successivi. Le esigenze delle
imprese trovano tutela proprio in virtù della loro risalente
ubicazione. Di conseguenza tali esigenze non sono cedevoli
rispetto a quelle degli insediamenti abitativi sopraggiunti.
E questo nonostante la zonizzazione acustica abbia lo scopo
di migliorare la situazione ambientale, senza limitarsi a
fotografarla.
È questo il senso delle recente
sentenza
12.12.2016 n. 1771 del TAR Toscana,
Sez. I,
riguardante la classificazione del territorio sotto il
profilo acustico.
Il caso riguarda un insediamento produttivo in un comune
della provincia Lucca, che da più di 50 anni si trova in una
zona industriale e che il Consiglio comunale, nell'adottare
il nuovo piano di zonizzazione acustica, fa ricadere in
«aree prevalentemente industriali» e «aree di intensa
attività umana», con i correlativi limiti di emissione
sonora. E ciononostante le osservazioni fatte pervenire
dall'azienda ricorrente.
La sentenza fa riferimento ai precedenti pronunciamenti che
hanno già avuto modo di affermare che nell'adozione del
piano di classificazione acustica, l'articolo 4 della legge
n. 447/1995 impone al comune di tenere adeguato conto delle
preesistenti destinazioni d'uso delle aree, come individuate
dagli strumenti urbanistici in vigore, al fine di non
sacrificare le consolidate aspettative di coloro che vi si
sono legittimamente insediati (Tar Toscana, sez. II, 04.11.2011 n. 1650, id., sez. II, 11.12.2010
n. 6724).
Infatti, le scelte effettuate dal comune in materia di
classificazione acustica non afferiscono al merito
dell'attività pianificatoria o programmatoria dell'ente,
insindacabile in sede di giudizio di legittimità, ma sono
espressione di discrezionalità tecnica, ancorata
all'accertamento di specifici presupposti di fatto, il primo
dei quali è proprio il preuso del territorio (cfr. Tar
Veneto, sez. III, 24.01.2007, n. 187, Tar Liguria, sez.
I, 21.02.2007 n. 354) e la considerazione delle
posizioni di interesse dei privati interessati (Tar Lazio,
Latina, sez. I, 16.09.2015, n. 616; Tar Veneto, sez.
I, 30.05.2016, n. 568).
Con riferimento all'inquinamento acustico va ricordato che è
stato recentemente approvato in via preliminare lo schema di
decreto legislativo recante «Disposizioni in materia di
armonizzazione della normativa nazionale in materia di
inquinamento acustico».
Tra i criteri che dovrà rispettare
il legislatore delegato quanto stabilito dall'art, 14, comma
24-bis, della legge 246/2005 ovvero il divieto di «gold
plating», cioè non introdurre o mantenere livelli di
regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla
direttive europee
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2016).
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MASSIMA
osservato che:
- questo TAR ha già avuto modo di affermare che
nell'adozione del piano di classificazione acustica, l'art.
4 l. n. 447/1995 impone al Comune di tenere adeguato conto
delle preesistenti destinazioni d'uso delle aree, come
individuate dagli strumenti urbanistici in vigore, al fine
di non sacrificare le consolidate aspettative di coloro che
vi si sono legittimamente insediati
(TAR Toscana, sez. II, 04.11.2011 n. 1650, id., sez. II,
11.12.2010 n. 6724);
- in tema si è altresì argomentato che
le scelte effettuate dal Comune in materia di
classificazione acustica non afferiscono al merito
dell’attività pianificatoria o programmatoria dell’Ente,
insindacabile in sede di giudizio di legittimità, ma sono
espressione di discrezionalità tecnica, ancorata
all’accertamento di specifici presupposti di fatto, il primo
dei quali è proprio il preuso del territorio
(cfr. TAR Veneto, sez. III, 24.01.2007, n. 187, TAR Liguria,
sez. I, 21.02.2007 n. 354);
-
se è vero che zonizzazione acustica costituisce esercizio di
potere pianificatorio discrezionale che ha lo scopo di
migliorare, ove possibile, la situazione, senza quindi
limitarsi a fotografare l'esistente
(TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.04.2015 n. 477),
è però indubitabile che la pianificazione acustica non è
diretta ad orientare lo sviluppo dal punto di vista
urbanistico-edilizio, ma è rivolta a governare l'assetto del
territorio sotto il distinto profilo della salute ambientale
e della salute umana, di talché non può ritenersi legittimo
l’utilizzo di tale strumento al fine di precostituire le
condizioni per una diversa allocazione degli insediamenti
urbani;
- in ogni caso
anche l’eventuale esercizio del potere discrezionale volto a
indurre un miglioramento della situazione non può che essere
esercitato secondo i principi di proporzionalità e
ragionevolezza i quali impongono alla Pubblica
Amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente
quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo
prefissato tenendo conto delle posizioni di interesse dei
privati interessati
(TAR Lazio, Latina, sez. I, 16.09.2015, n. 616; TAR Veneto,
sez. I, 30.05.2016, n. 568);
- nel caso di specie ciò comporta che
l’amministrazione comunale deve tenere conto delle attività
economiche precedentemente insediate sul territorio, le cui
esigenze trovano tutela in virtù della loro risalente
ubicazione, per cui non sono cedevoli rispetto agli
insediamenti che si radichino sul territorio successivamente
(TRGA Trento, 24.10.2008, n. 271);
- non ha pregio la tesi del Comune in ordine alla situazione
emergente dal precedente Piano e alla sua inoppugnabilità
dal momento che esso è stato emanato all’esito di una nuova
istruttoria e reca prescrizioni lesive che la ricorrente ha
interesse ad impugnare;
- sulla base degli strumenti pianificatori vigenti lo
stabilimento della ricorrente è situato in una zona
classificata come industriale;
ritenuto, pertanto, che:
- per le ragioni esposte, il ricorso è fondato e va accolto
con conseguente annullamento dell’atto impugnato, nei limiti
dell’interesse dedotto dalla deducente; |
APPALTI:
Principio del tempus regit actum per l’applicazione
delle singole disposizioni nuovo Codice dei contratti.
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Gara – Disciplina applicabile – Tempus regit actum –
Esclusione.
Ai sensi dell’art. 216, d.lgs.
18.04.2016, n. 80, le disposizioni dettate dal precedente
art. 83, comma 9, in materia di soccorso istruttorio non si
applicano alle procedure di gara il cui bando sia stato
pubblicato prima dell’entrata in vigore dello stesso Codice,
dovendosi escludere la possibilità di applicare singole
disposizioni del nuovo Codice degli appalti seguendo il
principio tempus regit actum e, ciò, anche considerando che
laddove il Legislatore abbia inteso introdurre un regime
transitorio differente da quello previsto dal comma 1, e per
quanto concerne specifiche disposizioni, ne ha fatto
menzione espressamente nei rimanenti commi dello stesso art.
216 (1).
---------------
(1)
Il Tar ha quindi aderito ai principi espressi dal giudice di
appello (Cons. St., sez. III, 25.11.2016, n. 4994), nella
parte in cui ha evidenziato che quanto contenuto nell’art.
216 “impedisce ogni esegesi di questioni ermeneutiche di
diritto intertemporale che si fondi sulla regola tempus
regit actum, che si rivela, evidentemente, recessiva
rispetto a una disposizione normativa che regola la
successione nel tempo delle leggi, e vincola, al contrario,
l'interprete ad attenersi alla stretta applicazione della
disciplina transitoria” (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 12.12.2016 n. 1756 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1.1 E’ infondato, in particolare, il primo motivo con il
quale si sostiene che le modifiche intervenute a seguito
dell’atto di rettifica avrebbero dovuto determinare
l’Amministrazione ad applicare l’art. 83, comma 9, del D.Lgs.
50/2016, disposizione sopravvenuta che prevede una sanzione
pecuniaria massima pari a 5.000,00 euro.
1.2 A parere della cooperativa ricorrente l’Amministrazione
avrebbe erroneamente applicato il soccorso istruttorio
previsto dall’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. 163/2006,
richiedendo il pagamento di una sanzione eccessiva in
violazione della disciplina di cui al nuovo codice degli
appalti.
1.3 Dette argomentazioni non possono essere condivise.
1.4 E’ evidente che il mutamento dell’indicazione della
stazione appaltante, sostituendo il riferimento all’Estar
con quello riferito alla Regione Toscana quale ente
aggregatore, unitamente alla variazione dell’importo a base
di gara e all’incremento della cauzione provvisoria, non
possono essere considerati elementi suscettibili di
richiedere una rinnovazione della procedura, con una nuova
pubblicazione del bando di gara.
1.5 In primo luogo è necessario considerare che il bando di
gara pubblicato sulla GURI del 15.04.2016 evidenziava
chiaramente che si era in presenza di una gara indetta dalla
"Regione Toscana -Soggetto Aggregatore", circostanza
quest’ultima che, unitamente alla tipologia dei servizi
messi a gara (servizio di pulizia per le aziende sanitarie
della Regione Toscana), non consentiva l’insorgere di dubbi
o incertezze circa l’effettivo committente della procedura
di cui si tratta.
1.6 Si consideri, peraltro, che questo Tribunale (sentenza
n. 1129/2016 del 21.06.2016) ha già avuto modo di
evidenziare che la qualificazione della Regione Toscana come
“soggetto aggregatore” è conseguente all’adozione dei
provvedimenti attuativi di quanto contenuto nell’art. 9 del
D.L. n. 66 del 2014 (convertito in legge n. 89 del 2014),
rubricato “acquisizione di beni e servizi attraverso
soggetti aggregatori e prezzi di riferimento”, nella parte
in cui prevede, al comma 1, l’istituzione dell’elenco dei
soggetti aggregatori di cui fanno parte Consip s.p.a. e una
centrale di committenza per ciascuna Regione.
1.7 Sempre nella sopra citata pronuncia si è ricordato che,
con la delibera della Giunta Regionale Toscana n. 1232 del
2014, è stato designato quale soggetto aggregatore la stessa
Regione Toscana, prevedendo che essa operi avvalendosi di
ESTAR, circostanza quest’ultima poi confermata dallo schema
di convenzione di cui alla delibera di Giunta Regionale n.
63 del 2015.
1.8 E’, quindi, evidente che la modifica del bando con
l’inserimento della Regione Toscana come “soggetto
aggregatore” costituiva un atto pressoché “dovuto” a seguito
dell’emanazione delle delibere regionali e delle sopra
citate disposizioni.
1.9 Altrettanto “non sostanziali” sono le rimanenti
modifiche, riconducibili all’incremento del valore del lotto
3 e dei relativi servizi per complessivi 27.000,00 Euro (su
un contratto che prevedeva un importo complessivo pari a
Euro 594.000,00), la proroga di due giorni del termine di
scadenza per la presentazione delle offerte e l’incremento
della polizza fidejussoria, conseguente quest’ultimo
all’aumento del valore del lotto.
2. Dette modifiche non hanno inciso sui criteri di
aggiudicazione, sulle caratteristiche dell’appalto, sui
requisiti di partecipazione, elementi questi ultimi idonei a
caratterizzare inequivocabilmente una procedura di gara
(Consiglio di Stato, sez. III, con sentenza del 09/05/2012
n. 2685).
Solo la modifica di detti presupposti, laddove fosse stata
posta in essere, avrebbe necessariamente richiesto una
rinnovazione della procedura, il cui bando era stato
originariamente pubblicato sulla GURI il 15.04.2016.
2.1 Non sussistono, pertanto, dubbi che la procedura fosse
assoggettata nel suo complesso al D.Lgs. 163/2006,
considerando che l’art. 216, comma 1, precisa che,
ad essere
sottoposte al nuovo codice degli appalti, sono solo le
procedure relative a bandi o avvisi pubblicati
successivamente alla data dell’entrata in vigore del D.Lgs.
50/2016 e, quindi, a partire dal 19.04.2016.
2.2 Il tenore complessivo dell’art. 216 esclude, poi,
la
possibilità di applicare singole disposizioni del nuovo
codice degli appalti (come quelle ad esempio in materia di
soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9) seguendo il
principio “tempus regit actum” e, ciò, anche considerando
che laddove il Legislatore ha inteso introdurre un regime
transitorio differente da quello previsto dal comma 1, e per
quanto concerne specifiche disposizioni, ne ha fatto
menzione espressamente nei rimanenti commi dello stesso art.
216.
2.3 Al tal fine è possibile condividere i principi fatti
propri da una recente pronuncia (Cons. Stato Sez. III,
25.11.2016, n. 4994), nella parte in cui ha evidenziato che
quanto contenuto nell’art. 216 “impedisce ogni esegesi di
questioni ermeneutiche di diritto intertemporale che si
fondi sulla regola tempus regit actum, che si rivela,
evidentemente, recessiva rispetto a una disposizione
normativa che regola la successione nel tempo delle leggi, e
vincola, al contrario, l'interprete ad attenersi alla
stretta applicazione della disciplina transitoria”.
La censura è, pertanto, infondata e va respinta. |
APPALTI:
Appalti, lotto unico ok se non pregiudica le pmi.
Il subappalto non è obbligatorio.
Non esiste un obbligo assoluto di suddivisione in lotti di un appalto;
legittimo affidare un unico lotto se la scelta non pregiudica la
partecipazione delle pmi all'appalto e se viene incontro ad esigenze di
spending review.
È quanto ha affermato il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza 12.12.2016 n. 1755 relativa a un appalto avente ad oggetto un solo lotto
di importo superiore a 75 milioni di euro per l'affidamento del servizio di
raccolta e smaltimento di rifiuti sanitari.
I giudici premettono che
l'articolo 51 del nuovo codice dei contratti «ha mantenuto e in parte
rafforzato il principio della suddivisione in lotti», posto in essere «al
fine di favorire l'accesso delle microimprese, piccole e medie imprese alle
gare pubbliche, già previsto dall'art. 2, comma 1-bis, del dlgs n. 163 del
2006».
Ciò non significa però che si tratta di una norma che si esprime in
senso assoluto e tale riguardo la sentenza specifica che «nel nuovo regime,
il principio non risulta posto in termini assoluti e inderogabili, giacché
il medesimo art. 51, al comma 1, secondo periodo, afferma che le stazioni
appaltanti motivano la mancata suddivisione dell'appalto in lotti nel bando
di gara o nella lettera d'invito e nella relazione unica di cui agli
articoli 99 e 139».
È ammesso quindi derogare al principio generale «seppur attraverso una
decisione che deve essere adeguatamente motivata». Ma per capire i margini
per motivare la scelta dell'unico lotto il Tar rileva che occorre
contemperare interessi pubblici contrapposti: garantire la partecipazione
delle pmi alle gare d'appalto, con lotti di importo limitato, e assicurare
la razionalizzazione e il contenimento della spesa attraverso la
centralizzazione e aggregazione delle gare medesime (come previsto
dall'articolo 9 del decreto-legge n. 66 del 2014).
Alla luce di questa
impostazione la gara oggetto di ricorso non viene quindi censurata dal
momento che il soggetto aggregatore ha correttamente motivato la scelta di
non procedere alla suddivisione in lotti, statuendo che «la gara è impostata
in unico lotto per ottenere economie di mercato, a fronte di tipologie di
prestazioni uguali per tutta la regione» e che «l'attuale assetto di
mercato, come evidenziato dal dialogo tecnico effettuato, non pregiudica la
partecipazione alla gara» (si chiedevano 2,8 milioni di fatturato medio
annuo) (articolo ItaliaOggi del 16.12.2016).
---------------
MASSIMA
6 – Con il primo motivo di ricorso l’Impresa individuale Do.Gi.
censura il bando di gara impugnato, per aver lo stesso indetto una gara di
consistenti dimensioni senza divisione in lotti, come imposto dall’art. 51
del d.lgs. n. 50 del 2016, in tal modo restringendo la concorrenza, in
palese violazione dei principi comunitari volti a favorire gare pubbliche
nelle quali sia garantito un confronto concorrenziale aperto anche alle
imprese di piccole e medie dimensioni.
La Sezione si è già pronunciata su tematica simile nella sentenza n. 1129
del 2016, ancorché resa su gara alla quale si applicava la disciplina di cui
al d.lgs. n. 163 del 2006; la questione deve quindi essere ripresa e
analizzata nel nuovo contesto disciplinare di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 e
della normativa europea di cui esso costituisce recepimento. Anche nel nuovo
quadro disciplinare la censura è infondata alla luce delle considerazioni di
seguito esplicitate.
6.1 – L’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016 ha mantenuto e in parte
rafforzato il principio della “suddivisione in lotti”, posto in
essere “al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie
imprese” alle gare pubbliche, già previsto dall’art. 2, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 163 del 2006.
Deve tuttavia evidenziarsi che, anche nel nuovo regime, il principio non
risulta posto in termini assoluti e inderogabili, giacché il medesimo art.
51, al comma 1, secondo periodo, afferma che “le stazioni appaltanti
motivano la mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel bando di gara o
nella lettera d’invito e nella relazione unica di cui agli articoli 99 e 139”.
Il principio della “suddivisione in lotti” può dunque essere
derogato, seppur attraverso una decisione che deve essere adeguatamente
motivata; residua tuttavia la necessità di comprendere le indicazioni
che l’ordinamento fornisca in ordine ai valori o interessi nel perseguimento
dei quali la deroga può avvenire, giacché la regolamentazione procedimentale
(obbligo di motivazione), pur significativa e importante, non copre lo
spazio ancor più rilevante della legalità sostanziale e cioè della scelta
del contemperamento degli interessi pubblici contrapposti.
Risposta al quesito pare rinvenibile dall’esame della disciplina europea, di
cui quella nazionale costituisce recepimento.
Il <considerando> n. 78 della direttiva 2014/24/UE, occupandosi della
questione, dopo aver posto in evidenza la necessità di garantire la
partecipazione delle PMI alle gare pubbliche e il correlato strumento della
suddivisione in lotti, si occupa anche della possibile scelta della
stazione appaltante di non procedere all’articolazione in lotti e, oltre a
prevedere la necessità di motivazione, si spinge anche a considerare le
possibili ragioni giustificative di una tale scelta: evidenzia quindi che “tali
motivi potrebbero, per esempio, consistere nel fatto che l’amministrazione
aggiudicatrice ritiene che tale suddivisione possa rischiare di limitare la
concorrenza o di rendere l’esecuzione dell’appalto eccessivamente difficile
dal punto di vista tecnico o troppo costosa, ovvero che l’esigenza di
coordinare i diversi operatori economici per i lotti possa rischiare
seriamente di pregiudicare la corretta esecuzione dell’appalto”.
Tra gli interessi che possono essere valorizzati dalle stazioni
appaltanti per non procedere alla suddivisione in lotti vi è dunque anche
quello dei costi cui la suddivisone in lotti può condurre.
Ecco che già a livello europeo compare la tensione tra i due contrapposti
obiettivi costituiti, da un lato, dalla finalità di garantire la
partecipazione delle PMI alle gare d’appalto, con conseguente loro
suddivisione in lotti di importo limitato, e, dall’altro, della finalità di
garantire razionalizzazione e contenimento della spesa attraverso la
centralizzazione e aggregazione delle gare medesime. |
ENTI
LOCALI: Addio
obbligato alle società dalla gestione inefficace. Consiglio
di Stato. I vincoli al mantenimento delle quote.
Gli enti locali hanno l’obbligo di
liquidare le società partecipate che non perseguono in modo
adeguato le loro finalità istituzionali, in particolare
quando rilevano che questo modello prescelto per la gestione
di un servizio non è efficace.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
09.12.2016 n. 5193 fornisce
importanti chiarimenti sull’analisi che le amministrazioni
devono condurre sulla coerenza delle partecipazioni con le
attività di interesse generale o strumentali connesse alle
funzioni istituzionali. La verifica va condotta a spettro
ampio e deve focalizzarsi sulla sostenibilità operativa ed
economica del modulo societario.
Quando ad esempio sia rilevato che le condizioni economiche
previste dai patti parasociali e dallo statuto sono
antieconomiche e di fatto spossessano il Comune da ogni
beneficio economico, è evidente per l’amministrazione che il
modello societario per il servizio pubblico (nel caso
specifico quello di gestione di un’area demaniale) non è
efficace, né economico, laddove dovrebbe essere improntato
all’economicità, efficacia ed efficienza, oltre che
corrispondere a una finalità propria dell’ente.
Il Consiglio di Stato evidenzia che la scelta della
soluzione più idonea tra una società interamente partecipata
o una società mista o altro modulo organizzativo è propria
dell’ente e può essere effettuata secondo una logica
discrezionale. Rispetto al quadro delle opzioni per la
gestione di un servizio pubblico, la sentenza fa rilevare
come la circostanza che la gestione sia assunta da una
partecipata pubblica prevalente induce a ravvisare una
connotazione in termini di servizio pubblico, in quanto la
regola generale desumibile dall’articolo 4 del Dlgs 175/2016
sancisce ora che le amministrazioni pubbliche non possono
costituire società aventi per oggetto attività di produzione
di beni e servizi non strettamente necessarie per le proprie
finalità istituzionali, né acquisire o mantenere
partecipazioni, anche di minoranza, in tali società.
Tuttavia i giudici chiariscono che la preferenza per l’uno o
l’altro modello deve essere adeguatamente motivata circa le
ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano, anche
tenendo conto del processo valutativo che deve essere svolto
in base all’articolo 34 (commi 20 e 21) del Dl 179/2012 per
produrre la relazione esplicativa della sostenibilità
dell’affidamento del servizio pubblico.
Pertanto, quando manca il requisito dell’economicità della
gestione (e questo può essere desunto dal fatto che il
Comune, pur socio di maggioranza, non trae più alcuna
partecipazione agli utili) e diventa evidente che un modello
alternativo è più conveniente (come una semplice
concessione, nella quale l’ente percepirebbe un canone),
emerge una diseconomia che, a parità di servizio erogato, si
ingenera in capo all’amministrazione.
In tali situazioni, quindi, si deve dar corso alla
liquidazione della società (articolo Il Sole 24 Ore del 19.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: Appalti
diretti alle società in house solo se controllate.
Affidamenti
diretti di appalti pubblici a società in house solo se la
partecipata lavora prevalentemente per gli enti/soci. Per la
verifica del requisito dell'attività prevalente non si conta
il fatturato per servizi/lavori resi a p.a. diverse da
quelle titolari delle partecipazioni. E non si conta neppure
l'attività svolta per enti pubblici su ordine di una p.a.,
che a sua volta non sia socia.
La restrizione della possibilità di affidamento diretto
(senza gara) alle public companies è affermata dalla
sentenza 08.12.2016
causa C-553/15
della Corte di giustizia dell'Unione europea.
La Corte di Lussemburgo è stata chiamata a risolvere una
questione relativa al vecchio codice italiano dei contratti
pubblici (dlgs. 163/2006). La materia trova, peraltro, una
disciplina espressa nel nuovo codice di settore (dlgs
50/2016, articoli 5 e 192). In particolare si tratta di
vedere quando una p.a. può soprassedere all'applicazione
delle regole sulle gare e stipulare un contratto
direttamente con una società partecipata da enti pubblici.
I criteri principali sono due: la p.a. socia deve esercitare
sulla società partecipata un controllo analogo a quello
svolto sui propri uffici e servizi; la partecipata deve
lavorare prevalentemente per i propri soci enti pubblici.
Se, invece, la public company lavora per il mercato (per
clienti diversi dalle p.a. socie), non c'è ragione per la
deroga all'obbligo di gara e la stessa deve misurarsi in
procedure selettive per acquisire gli appalti.
La Cgue ha precisato come si calcola il criterio
dell'attività prevalente: non si deve tenere in conto
l'attività che la società svolga per enti terzi (cioè non
soci della società medesima); si deve, invece, tenere conto
dell'attività svolta dalla società a favore di enti facenti
parte della compagine sociale anche prima dell'affidamento
dell'appalto.
La materia, comunque, è stata disciplinata dal dlgs 50/2016,
che, oltre al resto, stabilisce la soglia dell'80%: la
partecipata deve superare questo livello di fatturato
(inteso come totale medio per i tre anni precedenti
l'aggiudicazione) con la p.a. controllante
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Niente
onere di costruzione Il comune deve sanzionare.
L'amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare,
nei confronti dell'intestatario di un titolo edilizio, la
sanzione pecuniaria per tardivo pagamento dei contributi di
costruzione anche in caso di tardiva escussione della
garanzia fideiussoria.
È con la
sentenza
07.12.2016 n. 24 che l'adunanza
plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata
sull'applicabilità delle sanzioni pecuniarie per tardivo
pagamento dei contributi di costruzione anche in caso di
tardiva escussione della garanzia fideiussoria. L'adunanza
plenaria del Consiglio di stato ha affermato che non
sussiste alcuna base normativa che correli il potere
sanzionatorio del comune al previo esercizio dell'onere di
sollecitazione del pagamento presso il debitore principale
ovvero presso il fideiussore.
Ed invero, il sistema di pagamento del contributo di
costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale
di una garanzia prestata per l'adempimento del debito
principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti,
con chiara funzione di deterrenza dell'inadempimento, che
trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi
dell'inadempimento dell'obbligato principale.
In tale sistema, l'amministrazione comunale, allo scadere
del termine originario di pagamento della rata ha solo la
facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde
ottenere il soddisfacimento del suo credito. Ma ove ciò non
accada, l'amministrazione avrà comunque il dovere/potere di
sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del
contributo a percentuali crescenti all'aumentare del
ritardo.
Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini fissati al
debitore per l'adempimento (e quindi dopo aver applicato le
massime maggiorazioni di legge), l'amministrazione avrà il
potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del
credito nei confronti del debitore principale (articolo 43,
dpr n. 380 del 2001)
(articolo ItaliaOggi del 13.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessioni,
ritardi con aumenti. L’adunanza plenaria sottolinea la
natura sanzionatoria delle previsioni.
Consiglio di Stato. Oneri edilizi maggiorati fino all’80 per
cento nonostante le fideiussioni bancarie.
Aumenti fino all’80%
per chi non versa i contributi di concessione entro otto
mesi, anche se vi è la fideiussione di una banca: sono
aumenti legittimi
secondo il Consiglio di Stato (sentenza
07.12.2016 n. 24, presidente F. Patroni Griffi, estensore
G. Castriota Scanderbeg).
La questione interessa il privato che intenda costruire,
tenuto a versare specifici importi («costo di costruzione»
ed «oneri di urbanizzazione»), che spettano al Comune con
pagamenti anche rateizzati. L’articolo 16, comma 3, del Dpr
380 prevede garanzie fideiussorie qualora si ottengano
pagamenti rateizzati, con serie conseguenze in caso di
ritardo nei pagamenti (art. 42 Dpr 380/2001).
L’ente locale
può infatti esigere fino al 20% in più del capitale, per
ritardo di 120 giorni; fino al 40% per ritardo di 180
giorni, fino all’80% in più per ritardo di 240 giorni. A
nulla vale l’esistenza di una fideiussione a garanzia dei
pagamenti frazionati, perché il Comune ha interesse alla
continuità delle proprie entrate e non è tenuto a riscuotere
la somma rivolgendosi al garante che abbia fornito la
fideiussione.
Secondo il Consiglio di Stato, il Comune, resosi conto del
ritardo, non è tenuto ad evitare l’aggravio sul privato e
quindi non deve chiedere al fideiussore, in occasione della
prima scadenza (che già causa un aumento del 20%), il
pagamento del dovuto. evitando ulteriori aggravi. Le
sanzioni previste dall’articolo 42 del Dpr 380/2001 in caso
di ritardo, intendono infatti generare un effetto
deterrente, più che un mero riequilibrio delle finanze
dell’amministrazione comunale creditrice.
Quindi non si
applica all’edilizia, secondo i giudici amministrativi, il
principio di leale collaborazione tra creditore (il Comune)
e privato (costruttore), perché prevale l'esigenza di
continuità delle entrate. Beninteso, nulla vieta al Comune
di rivolgersi subito al fideiussore, alla prima scadenza,
senza aspettare l’impennata del debito a carico dell’impresa
costruttrice: ma se il fideiussore non viene coinvolto, il
debito comunque lievita.
Non mancano gli effetti paradossali
perché, come sottolinea lo stesso giudice, l’aumento del
debito ( fino all'80% del capitale, dopo soli 240 giorni), a
sua volta non è garantito dalla fideiussione, che riguarda
solamente il debito principale (Cassazione n. 7885/2001) e
non le sanzioni.
Con questa sentenza i giudici amministrativi invertono la
progressiva tendenza a estendere il «dovere di soccorso»
presente nelle gare di appalto, dove vi è la possibilità di
regolarizzare documenti imperfetti (articolo 46, decreto
legislativo 163/2006, articolo 83, decreto legislativo
50/2016), nonché presente nelle procedure amministrative,
dove l’articolo 10-bis della legge 241/1990 prevede un
preavviso di rigetto per i provvedimenti sfavorevoli. Solo
nell’edilizia è rimasto un moltiplicatore automatico e molto
gravoso, insieme a una fideiussione valida solo per il
capitale.
Il debito del costruttore si impenna perché ha natura
sanzionatoria, mentre basterebbe applicare l’ articolo 7 del
decreto legislativo 231/2000 (pagamenti nelle transazioni
commerciali, direttive Ue 2000/35 e 7/2011) che prevede la
nullità degli accordi tra imprenditori pubbliche
amministrazioni che risultino «gravemente iniqui», imponendo
per buona amministrazione l’immediato utilizzo della
fideiussione (articolo Il Sole 24 Ore del 09.12.2016). |
APPALTI: Appalti,
no al trasferimento verso la società subentrata.
Non sussiste alcun diritto per i dipendenti di una impresa
appaltatrice di un pubblico servizio di ottenere il
trasferimento del rapporto di lavoro presso una società in
house che è subentrata nell'appalto.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 06.12.2016 n. 24972.
Nel caso in esame alcuni dipendenti di una ditta, che aveva
vinto l'appalto della gestione dei parcheggi comunali,
avevano chiesto il riconoscimento del loro diritto di
proseguire ex art. 2112 c.c. alle dipendenze di una società
in house costituita dalla p.a., alla quale era stato
conferito il servizio stesso.
I giudici della Suprema Corte rigettano le domande. Tale
diritto, infatti, non è configurabile dal momento che non
risulta che vi sia stato un trasferimento d'azienda
riconducibile alla nozione di cui all'art. 2112 c.c. tra la
cooperativa precedente appaltatrice del servizio e la
società in house.
E sebbene, in virtù di giurisprudenza
ormai consolidata, si ritiene che per l'applicabilità
dell'art. 2112 c.c. basti che il complesso organizzato dei
beni dell'impresa sia passato ad un diverso titolare in
forza di una vicenda giuridica, è pur necessario che questo
si accompagni al passaggio di beni di non trascurabile
entità e tali da rendere possibile lo svolgimento di una
specifica impresa: circostanza questa assente nel caso di
specie.
Non può neppure sostenersi che un trasferimento d'azienda
avrebbe dovuto esservi per il solo fatto dell'attribuzione a
un nuovo appaltatore dell'appalto anteriormente affidato
alla cooperativa precedente appaltatrice: al contrario, non
costituisce trasferimento ex art. 2112 c.c. la mera
assunzione dei lavoratori in caso di cambio di soggetto
appaltatore, «ostandovi l'esplicito contrario disposto
dell'art. 29, co. 3, dlgs n. 276/2003 secondo il quale
l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a
seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge,
di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola
del contratto d'appalto, non costituisce trasferimento
d'azienda o di parte d'azienda»
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Notaio
può stipulare nello studio del parente. Cassazione. Non c’è
violazione quando la scelta è sporadica e di comodo.
Il notaio che occasionalmente e per
comodità, stipula degli atti nello studio professionale di
un parente, non viola il codice deontologico.
La Corte di
Cassazione (Sez. II civile,
sentenza
06.12.2016 n. 24962) accoglie sul punto il ricorso di
un notaio, “accusato” di aver violato la regola che vieta
«la ricorrente presenza» presso «studi di altri
professionisti ed organizzazioni estranee al notariato».
Il notaio era finito nel mirino dei probiviri che gli
contestavano due illeciti: l’essersi assentato nei giorni di
presenza obbligatoria dalla sede principale per andare a
stipulare presso uffici secondari e l'aver “frequentato” a
tale scopo studi di altri professionisti. Delle due
“incolpazioni” la Cassazione conferma la responsabilità solo
per la prima.
La Corte d’Appello nella sua ordinanza aveva
accertato, sulla base degli atti ricevuti e autenticati
fuori sede, che 69 di questi, negli 11 mesi considerati,
erano stati “lavorati” in altra sede proprio nei tre giorni
settimanali dedicati all’assistenza obbligatoria. Un numero
che, rapportato ai 1151 atti rogati in totale, era
considerato troppo alto per invocare l’occasionalità e
l’eccezionalità della condotta o la particolarità delle
ragioni che l’avevano determinata. I giudici ricordano che,
in base all’articolo 9 del codice deontologico, la sede
dello studio notarile è tutt’ora il luogo cui il notaio deve
incentrare la sua attività.
La libertà di spostarsi in tutto
il territorio del distretto della corte d’Appello e di
aprire un ufficio secondario non ha fatto venire meno il
legame notaio-sede “principale”. Resta, infatti, fermo
l’obbligo di tenere aperto l’”ufficio” nel Comune o nella
frazione assegnata e di prestare l’assistenza obbligatoria
nei giorni e negli orari preventivamente segnalati
all'utenza. Né, precisano i giudici, può essere considerata
rilevante l’accortezza di stipulare gli atti negli uffici
secondari nelle ore non comprese nella fascia oraria
vincolata se l’incidenza percentuale dei “documenti” più
significativi lavorati all’esterno, denota comunque il
mancato rispetto dell’obbligo di assistere personalmente
allo studio anche oltre i giorni e gli orari stabiliti.
Non
passa il tentativo del notaio di giustificare le assenze,
dovute a precise richieste della clientela e all’urgenza. In
entrambi i casi, secondo la Corte, si trattava di esigenze
che andavano affrontate in tempi diversi e non nei giorni
deputati all’assistenza in sede. Il notaio ha ragione invece
per quanto riguarda l’accusa di aver svolto l’attività in
uffici secondari non comunicati presso altri professionisti.
Per i giudici, infatti, gli studi frequentati erano scelti
per motivi «occasionali, di comodità» e facevano capo a
persone con le quali il professionista aveva rapporti
familiari. La circostanza non integrava dunque, né sotto il
profilo della reiterazione né per quanto riguarda la
tipologia di strutture utilizzate, «la ricorrente presenza»
presso studi di professionisti estranei al notariato (articolo Il Sole 24 Ore del 09.12.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’asilo
nido in condominio è un’«attività rumorosa». Il regolamento
deve essere interpretato in senso ampio.
Immobili. La Cassazione boccia l’impresa anche se a
lamentarsi erano in pochi.
L’asilo nido è una
«attività rumorosa». E poco conta a che a dichiararsi
disturbati siano pochissimi condòmini e (ovviamente) solo di
giorno: la Corte di Cassazione - Sez. II civile (sentenza
06.12.2016 n. 24958) ha bocciato inesorabilmente
l’attività di una cooperativa, condannandola anche al
pagamento delle spese di giudizio.
La censura si basa soprattutto sull’enunciato del
regolamento di condominio che vieta, all’articolo 3, un uso
degli appartamenti «contrario alla tranquillità dell’intero
fabbricato», e sulle affermazioni del Ctu incaricato dalla
Corte d’appello che era pervenuto alla conclusione per cui
«le immissioni provenenti dall’asilo nido superano i limiti
di normale tollerabilità in due degli appartamenti
indagati».
La cooperativa che gestiva l’asilo nido aveva invocato
un’interpretazione letterale del regolamento, puntando
proprio sul concetto di «intero» fabbricato, sostenendo che
il fastidio non riguardava tutto l’edificio ma solo una
parte e in particolare, stando alla relazione del Ctu, solo
due condòmini.
La Cassazione ha però affermato che la Corte di merito ha
correttamente «ancorato il riscontro cui ha poi
concretamente atteso, alla previsione del regolamento ove
(...) è “fatto divieto di destinare gli appartamenti ad
esercizi rumorosi” (...) sicché il concetto di rumoroso va
delineato in relazione al suo concreto espletamento».
In sostanza, quindi, una volta appurato che l’attività è da
considerarsi rumorosa, e che le attività rumorose sono
proibite, anche se genericamente, dal regolamento di
condominio (non è specificato se contrattuiale o meno ma
questo, evidentemente, non ha importanza per la Cassazione),
queste devono cessare immediatamente.
La Cassazione sembra quindi comunque orientata a contenere
le attività disturbanti, quanto meno quando non viene fatto
appello alla conoscibilità del regolamento condominiale
(questione comunque non invocata nel contenzioso sull’asilo
nido).
Su questo punto, anche se ondivaga, la suprema Corte ha
infatti insistito nel recente passato, “assolvendo” le
attività imprenditoriali. Così il divieto di vari tipi di
attività (estetista, bed & breakfast, pizzeria,
rispettivamente con le sentenze 19212, 21024 e 21307, tutte
del 2016) è stato di fatto aggirato grazie al fatto che le
clausole del regolamento condominiale non erano
espressamente richiamate nei rogiti o (in modo più
restrittivo) il regolamento stesso non risultava trascritto
nei pubblici registri immobiliari (articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
formati o censurati. L'aggiornamento professionale è sempre
obbligatorio. Due sentenze della Corte di cassazione sulla
responsabilità disciplinare del legale.
Le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la
sentenza 05.12.2016 n. 24739 hanno evidenziato
che l'avvocato che non assolve all'obbligo circa la
formazione prevista dal codice deontologico sarà soggetto
alla sanzione della censura ed, inoltre, una eventuale
tardiva impugnazione della sanzione, non potrà trovare
giustificazione nei problemi economici dell'avvocato stesso.
Il thema decidendum della sentenza in commento vedeva il
consiglio nazionale forense impugnare la sentenza
dichiarando inammissibile il ricorso proposto dall'avvocato
Tizio avverso la decisione del consiglio dell'ordine degli
avvocati che gli aveva irrogato la sanzione della censura
per violazione degli obblighi formativi.
Il Cnf riteneva che il ricorso dell'avvocato fosse tardivo e
che non potesse essere accolta la richiesta di rimessione in
termini, giustificata dal ricorrente con difficoltà
economiche inidonee a determinare un impedimento assoluto.
Proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del
consiglio nazionale forense, l'avvocato Tizio chiedeva la
sospensione della decisione impugnata, deducendo che la
sanzione irrogatagli gli avrebbe precluso l'esercizio
dell'attività di difensore d'ufficio, unica sua possibile
fonte attuale di reddito; ma la richiesta veniva rigettata
dalla Cassazione con ordinanza. A sostegno del ricorso per
cassazione Tizio deduceva, quindi, due motivi
d'impugnazione.
Secondo i giudici di piazza Cavour il ricorso veniva
inammissibilmente proposto anche contro il consiglio
nazionale forense, che non era parte, ma giudice nel
presente giudizio: e pertanto gli Ermellini si sono limitati
ad esaminarlo solo in quanto proposto nei confronti del
consiglio dell'ordine degli avvocati.
Circa la censura sulla mancata restituzione nei termini per
proporre impugnazione, lamentando che sia stata erroneamente
disconosciuta la forza maggiore che avrebbe impedito a Tizio
la tempestiva impugnazione decisione del consiglio
dell'ordine degli avvocati, la Cassazione ha evidenziato il
motivo come inammissibile, poiché l'avvocato non avrebbe
neppure allegato le specifiche ragioni per cui le sue
condizioni reddituali gli abbiano precluso una tempestiva
impugnazione.
Per quanto riguardava, poi, la lamentata violazione da parte
di Tizio del suo diritto di difesa per non essere stato
convocato dal consiglio nazionale forense per l'udienza in
cui fu decisa la sua impugnazione, anche ciò risultava
infondato a parere delle sezioni unite, visto che l'avviso
dell'udienza fu notificato al ricorrente presso il consiglio
nazionale forense, non essendo stata possibile la notifica
presso il domicilio eletto
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Danno
erariale per le spa.
La Corte dei conti è competente a giudicare sul danno al
patrimonio cagionato dagli amministratori di un spa che sia
solo formalmente di diritto privato ma di fatto un organismo
di diritto pubblico.
Lo hanno deciso le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con
l'ordinanza 05.12.2016 n. 24737 (est. Frasca).
Il caso sottoposto all'attenzione della Suprema corte
riguarda la responsabilità erariale degli amministratori di
una spa, la Scr Piemonte, società a totale partecipazione
della regione Piemonte, che, dal punto di vista patrimoniale
risultava formalmente distinta dall'ente ma, per quanto
concerne la attività svolte, doveva essere considerata
sostanzialmente ente pubblico.
Proprio questa, secondo gli
Ermellini, è la ragione per cui amministratori e dipendenti
vanno considerati sottoposti alla giurisdizione contabile,
fermo restando che «la veste formale, e dunque la qualità di
soggetto societario, conservano rilevanza a tutti gli altri
effetti». La Suprema corte ha fissato i paletti entro cui la
connotazione societaria di un soggetto giuridico può non
essere decisiva per negare la sussistenza della
giurisdizione contabile in tema di danno erariale.
La regola
generale, secondo la Cassazione, è che un soggetto,
formalmente sottoposto alla disciplina del codice civile,
dovrebbe soggiacere alla disciplina propria del fenomeno
societario di appartenenza. Tuttavia, analizzati gli
elementi caratterizzanti la struttura societaria, e in
particolare lo statuto, si può verificare se una società
possa definirsi in sostanza organismo di diritto pubblico.
Nel caso in esame, ha concluso la Corte, la Scr Piemonte, al
di là della veste formale societaria, si presenta come un
organismo che tramite i suoi amministratori e dipendenti
opera in modo non dissimile da un ente pubblico regionale e,
perciò, deve essere assoggettata alla giurisdizione
contabile
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ necessaria la doppia conformità urbanistica al fine del
rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Il provvedimento in esame si pone come
atto confermativo del rigetto tacito dell’istanza maturato
con il decorso del termine previsto per la formazione del
silenzio-rigetto ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001.
Il Collegio, invero, ritiene necessario il requisito della
cosiddetta doppia conformità, in quanto la sanatoria
prevista dall'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, già
disciplinata dall'art. 13, l. n. 47 del 1985, è diretta a
sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite
senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella
sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area
su cui sorgono, vigente sia al momento della loro
realizzazione che al momento della presentazione
dell'istanza di conformità (c.d. doppia conformità).
Il provvedimento di accertamento dell'istanza di conformità
assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata,
priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l'autorità
procedente valutare l'assentibilità dell'opera eseguita
sulla base della normativa urbanistica ed edilizia, vigente
in relazione ad entrambi i momenti considerati dalla norma.
Tale orientamento è, peraltro, in linea con la più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui una
corretta applicazione dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del
2001 implica e presuppone l'accertamento in ordine alla
doppia conformità dell'intervento edilizio.
---------------
2) Nel merito, è infondata l’impugnativa del provvedimento
di accertamento dell’inottemperanza all'ordinanza di
demolizione del comune di Durazzano n. 2 del 2011 e della
nota del 26/09/2015 prot. 3356, esplicativa delle ragioni
del rigetto dell’istanza di permesso per costruire.
2.1) In particolare, parte ricorrente non ha sollevato
alcuno specifico motivo di ricorso avverso il provvedimento
di accertamento dell’inottemperanza dell'ordinanza di
demolizione.
2.2) Per quanto riguarda la nota del 26/09/2015, prot. 3356,
esplicativa delle ragioni del rigetto dell’istanza di
permesso per costruire in sanatoria, parte ricorrente ha
lamentato che il requisito della doppia conformità, ex art.
36 DPR. 380/2001, non sia necessario giacché un’opera
abusiva, se conforme alla sola normativa in vigore al
momento del deposito della domanda, può essere sanata
indipendentemente dalla normativa in vigore al momento della
realizzazione dell'abuso.
Il Collegio rileva in primo luogo come il provvedimento in
esame si pone come atto confermativo del rigetto tacito
dell’istanza maturato con il decorso del termine previsto
per la formazione del silenzio-rigetto ai sensi dell’art. 36
D.P.R. n. 380/2001.
Il medesimo Collegio, in conformità con la giurisprudenza di
questo TAR, ritiene necessario il requisito della cosiddetta
doppia conformità, in quanto la sanatoria prevista dall'art.
36 del D.P.R. n. 380 del 2001, già disciplinata dall'art.
13, l. n. 47 del 1985, è diretta a sanare le opere solo
formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo
rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla
disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui
sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che
al momento della presentazione dell'istanza di conformità
(c.d. doppia conformità). Il provvedimento di accertamento
dell'istanza di conformità assume una connotazione
eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti
discrezionali, dovendo l'autorità procedente valutare l'assentibilità
dell'opera eseguita sulla base della normativa urbanistica
ed edilizia, vigente in relazione ad entrambi i momenti
considerati dalla norma (TAR Campania Napoli, Sez. VI,
24/11/2016, n. 5468; TAR Campania Napoli, sez. VI,
17/09/2015, n. 4565; TAR Campania Napoli, sez. VIII,
17/12/2014, n. 6724).
Tale orientamento è, peraltro, in linea con la più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui una
corretta applicazione dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del
2001 implica e presuppone l'accertamento in ordine alla
doppia conformità dell'intervento edilizio (Cons. Stato Sez.
VI, 18.07.2016, n. 3194).
Legittimo risulta pertanto, in ogni caso, il diniego
dell’istanza di accertamento di conformità a causa della
mancata attestazione dell’esistenza di tale requisito,
ovverosia per l’assenza nella medesima istanza della
verifica di doppia conformità urbanistica da parte del
tecnico incaricato.
Né in senso contrario può valere la circostanza che il
Comune di Durazzano si trova nell’attuale impossibilità di
consentire ai cittadini di esaminare il PDF ai fini della
verifica della doppia conformità per la ragione che esso è
stato trafugato nell'anno 2012 -come da dichiarazione resa
dal Responsabile dell' U.T.C. dell'Ente- perché l’istanza di
accertamento di conformità carente di tale attestazione è
stata presentata in data precedente al 2012 (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza
05.12.2016 n. 5611 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine
di rimessione in pristino deve essere rivolto nei confronti
di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente
dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile
dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando
tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non certo ai fini della
legittimità dell’ordine di ripristino.
Tale ordine, infatti, può legittimamente essere emanato nei
confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l’ordinanza ha
carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione.
---------------
2.2. Con riguardo alla parte della doglianza che assume il
difetto di legittimazione passiva degli attuali proprietari,
non essendo gli stessi i responsabili dell’abuso, va
richiamata la consolidata giurisprudenza, condivisa dal
Collegio, secondo cui l’ordine di rimessione in pristino
deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la
disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che
tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo
concretamente realizzato, rilevando tale aspetto
esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale,
ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di
ripristino; tale ordine, infatti, può legittimamente essere
emanato nei confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l’ordinanza ha
carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 03.11.2016, n. 2013; TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n. 2588).
Nel caso de quo, i singoli proprietari delle varie parti
dell’edificio “utilizzato abusivamente” sono i soggetti che
hanno sicuramente l’obbligo di eseguire l’ordine di
rimessione in pristino, al fine di reintegrare i luoghi
violati dall’abuso, avendo la disponibilità giuridica e
materiale del manufatto (cfr. TAR Lazio, Roma, I-quater,
24.02.2016, n. 2588)
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 05.12.2016 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla legittima condotta del comune che, in assenza di
apposita formale istanza del soggetto titolare della
concessione, si è limitato a prendere atto dell’intervenuta
decadenza del titolo -decadenza i cui
effetti si sono prodotti quantunque in assenza di
provvedimento espresso- ed a diffidare la ricorrente
dall’eseguire i lavori.
La giurisprudenza più recente ritiene che non abbia pregio
l’assunto che il termine debba ritenersi automaticamente
sospeso in presenza di una causa di forza maggiore, quale
nel caso il sequestro penale dell’area interessata
dall’intervento, atteso che non è ipotizzabile nell’attuale
sistema giuridico la sospensione automatica del titolo
edilizio, essendo sempre necessaria, al fine di ottenere la
sospensione, la presentazione di una formale istanza di
proroga, cui deve seguire un provvedimento da parte della
stessa amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio
e che accerti l’impossibilità del rispetto del termine ab
origine fissato in relazione al factum principis o ad una
causa di forza maggiore.
Nel caso di specie, peraltro, la questione non potrebbe
essere suscettibile di apprezzamento favorevole neppure
sulla base della nuova formulazione dell’art. 15 del d.P.R.
n. 380 del 2001.
La giurisprudenza formatasi successivamente alla novella
contenuta nella l. n. 164 del 2014 (art. 17, comma 1, lett.
f), e dai cui approdi il Collegio non ravvisa ragioni per
discostarsi, è nel senso di ritenere che è comunque
necessaria «la presentazione di una formale istanza di
proroga».
---------------
Ai fini di una migliore comprensione delle questioni
sottoposte all’attenzione del Tribunale, vanno succintamente
ricostruite le fasi salienti della vicenda procedimentale
nella quale si è innestata la presente controversia.
La ricorrente società ha esposto di aver chiesto ed
ottenuto, in data 08.02.2002 la concessione edilizia
per la costruzione di un fabbricato con destinazione
alberghiera in località Champoluc e che, secondo quanto
indicato nel medesimo provvedimento, il termine di
conclusione lavori era originariamente previsto per il 29.05.2007 per poi essere successivamente prorogato al 28.12.2008.
La concessione edilizia del 2002 è stata
rinnovata nel 2009 con atto n. 24/2009, con conseguente
fissazione di nuovo termine per l’inizio dei lavori fissato
al 01.01.2010 e di un nuovo termine di conclusione
stabilito nei cinque anni successivi.
In data 15.01.2010 la ricorrente ha chiesto il rilascio di una concessione
edilizia in sanatoria «per opere in difformità unitamente a
variante per cambio d’uso da albergo a residenza turistico-alberghiera» e tale istanza, previa adozione di
apposita diffida alla rimozione delle opere, è stata
rigettata con provvedimento del 24.02.2011, cui ha
fatto seguito il sequestro dell’intero immobile (dal 14.04.2011 al 25.06.2015) e conseguente ordinanza di
demolizione.
Ottenuto l’annullamento giurisdizionale del
diniego di concessione in sanatoria e conseguito il relativo
titolo abilitativo (nonché il dissequestro dell’immobile),
la ricorrente ha, tra l’altro, comunicato il completamento
dei lavori già previsti nella concessione edilizia
rilasciata nel 2009, siccome rinnovata.
A tale richiesta il Comune ha risposto con l’impugnato
provvedimento di diffida dall’eseguire i medesimi lavori sul
presupposto che, per la realizzazione degli stessi,
occorrerebbe un nuovo titolo abilitativo e ciò perché i
termini originari entro i quali gli stessi avrebbero dovuto
essere realizzati sarebbero spirati. Tale tesi è stata
ritenuta erronea da parte della ricorrente la quale sostiene
che lo spatium temporale di cui trattasi debba essere
considerato al netto del periodo in cui l’immobile è rimasto
sequestrato.
Sul piano penale la vicenda contenziosa si è conclusa con
una condanna del responsabile della ditta «Le re.» per
gli abusi edilizi commessi con riferimento al complesso
alberghiero di cui trattasi.
Così definito il perimetro fattuale della controversia, con
l’impugnato provvedimento il Comune ha preso atto
dell’intervenuta decadenza del titolo abilittivo. Il
carattere vincolato di tale provvedimento non risente
dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento sul
rilievo che nessun utile apporto partecipativo era nel caso
di specie astrattamente ipotizzabile (e, per il vero, parte
ricorrente non ha qui offerto spunti in senso contrario).
Anche sul piano della motivazione, la ridetta natura
vincolata del provvedimento non imponeva l’esplicazione di
ulteriori considerazioni circa la necessita di dichiarare la
decadenza di cui trattasi.
Nel merito della scelta operata, la giurisprudenza più
recente (cfr. Cons. St. n. 5378 del 2014) ritiene che non
abbia pregio l’assunto che il termine debba ritenersi
automaticamente sospeso in presenza di una causa di forza
maggiore, quale nel caso il sequestro penale dell’area
interessata dall’intervento, atteso che non è ipotizzabile
nell’attuale sistema giuridico la sospensione automatica del
titolo edilizio, essendo sempre necessaria, al fine di
ottenere la sospensione, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento da
parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il
titolo edilizio e che accerti l’impossibilità del rispetto
del termine ab origine fissato in relazione al factum principis o ad una causa di forza maggiore (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 18.05.2012, n. 2915).
Nel caso di
specie, peraltro, la questione non potrebbe essere
suscettibile di apprezzamento favorevole neppure sulla base
della nuova formulazione dell’art. 15 del d.P.R. n. 380 del
2001.
La giurisprudenza formatasi successivamente alla
novella contenuta nella l. n. 164 del 2014 (art. 17, comma
1, lett. f), e dai cui approdi il Collegio non ravvisa
ragioni per discostarsi, è nel senso di ritenere che è
comunque necessaria «la presentazione di una formale istanza
di proroga» (TAR Veneto, n. 375 del 2016).
Calando i su espressi principi al caso di specie, va ritenuta
immune da vizi la condotta dell’Amministrazione la quale, in
assenza di apposita formale istanza del soggetto titolare
della concessione, si è limitata a prendere atto
dell’intervenuta decadenza del titolo -decadenza i cui
effetti si sono prodotti quantunque in assenza di
provvedimento espresso- ed a diffidare la ricorrente
dall’eseguire i lavori.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso va
rigettato
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 05.12.2016 n. 59 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di precarietà - Manufatti su ruote -
Struttura prefabbricata realizzati in zona sismica e
sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale - Opera
considerata unitariamente e non nelle sue singole componenti
- Costruzione di un massetto - Artt. 44, lett. e), 64, 65,
71, 72, 93, 94 e 95, T.U. Edilizia.
In materia edilizia, rientra nella nozione di precarietà di
manufatti su ruote, una costruzione può definirsi precaria
e, quindi, non soggetta a concessione edilizia, solo se
viene realizzata per motivi di carattere contingente, a
prescindere dal materiale adoperato e dalla più o meno
facile rimovibilità, e cioè quando sia destinata
oggettivamente ad uso temporaneo e limitato (Sez. 3, n.
11420 del 02/07/1987 - dep. 10/11/1987, Albaione, relativa a
fattispecie di rigetto di ricorso, in cui l'imputato aveva
sostenuto l'insussistenza del reato in quanto il manufatto,
privo di fondazioni e munito di ruote, non aveva il
requisito della stabilità).
Nella specie la esclusione della precarietà della casa
ruotata era stata correttamente desunta dalla esistenza di
tubi di scarico collegati alla stessa, che escludevano la
destinazione non contingente dello stesso manufatto. Analogo
discorso vale per i residui manufatti, non rilevando la
struttura e la loro consistenza, atteso che la natura
precaria di una costruzione non dipende dalla natura dei
materiali adottati e quindi dalla facilità della rimozione,
ma dalle esigenze che il manufatto è destinato a soddisfare
e cioè dalla stabilità dell'insediamento indicativa
dell'impegno effettivo e durevole del territorio.
A tal fine l'opera deve essere considerata unitariamente e
non nelle sue singole componenti, affinché ne emerga la
eventuale stabilità e il carattere tendenzialmente
permanente della funzione. Ne consegue che la costruzione
del massetto (come avvenuto nel caso di specie), che è opera
oggettivamente stabile e di non immediata ed agevole
rimozione, rivela di per sé la funzione permanente
dell'insediamento, costituito dal prefabbricato che vi è
ancorato e che, malgrado la struttura leggera, ha con il
massetto un collegamento fisso e una propria destinazione
non limitata nel tempo.
Condanna per reati edilizi - Manufatti
abusivi - Subordine al beneficio della sospensione
condizionale della pena alla demolizione - DIRITTO
PROCESSUALE PENALE - Obbligo di motivazione - Artt. 164, c.
1, 165, c. 1, e 165, c. 2 c.p.
In materia di reati edilizi, in caso di condanna sussiste il
potere discrezionale di subordinare il beneficio della
sospensione condizionale della pena alla demolizione dei
manufatti abusivamente realizzati quando, in considerazione
delle circostanze di fatto, la prognosi di astensione del
reo dal commettere nuovi reati può essere positivamente
pronunciata solo in presenza di una manifestazione di
effettivo ravvedimento, che si traduce nell'adempimento di
un obbligo di "facere" direttamente funzionale al
ripristino del bene offeso.
Pertanto, il giudice, nel concedere la sospensione
condizionale della pena inflitta per il reato di esecuzione
di lavori in assenza di concessione edilizia o in
difformità, legittimamente può subordinare detto beneficio
all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato
mediante demolizione dell'opera eseguita, disposta in sede
di condanna del responsabile.
Tuttavia, non è sufficiente affermare che l'ordine di
demolizione ha la funzione di eliminare le conseguenze
dannose del reato, ma è necessario spiegare perché, sul
piano prognostico di cui all'art. 164 c.p., comma 1, si
ritenga necessario porre l'esecuzione di tale ordine come
condizione per la fruizione del beneficio della sospensione
condizionale della pena.
Altrimenti ragionando si finirebbe per elidere ogni
differenza tra l'ipotesi, facoltativa, di cui all'art. 165
c.p., comma 1, e quella, obbligatoria, di cui all'art. 165
c.p., comma 2.
Reati edilizi - Particolare tenuità del
fatto e reato permanente o plurime violazioni - Effetti
giuridici - Art. 131-bis cod. pen.
In tema di
particolare tenuità del fatto, il reato permanente, in
quanto caratterizzato dalla persistenza, ma non dalla
reiterazione, della condotta, non è riconducibile nell'alveo
del comportamento abituale che preclude l'applicazione di
cui all'art. 131-bis cod. pen., anche se importa una attenta
valutazione con riferimento alla configurabilità della
particolare tenuità dell'offesa, la cui sussistenza è tanto
più difficilmente rilevabile quanto più a lungo si sia
protratta la permanenza. In particolare, ad escludere in
radice la particolare tenuità, milita il rilievo per cui il
ricorrente ha violato più disposizioni della legge penale,
commettendo plurime violazioni della normativa urbanistica,
antisismica ed in materia di cemento armato.
Pertanto, la causa di esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod.
pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del
predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più
reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della
stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla
medesima "ratio punendi", come nel caso di specie),
poiché è la stessa previsione normativa a considerare il
"fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una
valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale
particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si
articola (v., da ultimo: Sez. 5, n. 26813 del 28/06/2016,
Grosoli) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.11.2016 n. 50767 -
link a www.ambientediritto.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
il compenso non può essere simbolico.
Non si possono liquidare al legale somme
simboliche non consone al decoro della professione:
lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza
30.11.2016 n. 24492.
A parere del collegio della VI Sez. civile, in ciò
richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali sul punto,
la facoltà che l'ordinamento riconosce al giudice, ex art. 9
del regolamento per la determinazione dei parametri per la
liquidazione dei compensi professionali da parte di un
organo giurisdizionale (dm 140/2012), di ridurre fino alla
metà il corrispettivo del difensore per l'opera svolta nelle
controversie, «incontra un limite nell'art. 2233, comma 2,
c.c., che preclude di liquidare, al netto degli esborsi,
somme praticamente simboliche, non consone al decoro della
professione».
Il limite di cui alla norma citata prevede
infatti espressamente che in ogni caso la misura del
compenso dovrebbe essere adeguata all'importanza dell'opera
svolta ed al decoro della professione. Sulla base di queste
argomentazioni ha ritenuto «manifestamente fondato» il
ricorso che un avvocato aveva mosso avverso il decreto del
tribunale circondariale con il quale non era stata accolta
l'opposizione allo stato passivo della spa che lo stesso
legale aveva difeso, opposizione nella quale chiedeva
l'ammissione del suo credito: nel respingere l'istanza, il
giudice del merito aveva ritenuto che all'opponente andavano
liquidate «competenze solo per le fasi necessarie
dell'attività svolta e ai valori minimi, con riferimento
alle fasi di studio, introduttiva e decisoria».
Gli
ermellini hanno quindi accolto la censura, cassando il
decreto impugnato e rinviando la causa al tribunale
competente in diversa composizione, chiarendo al contempo
come in tema di spese processuali «i compensi dei
professionisti, quando sono riferiti a più fasi di giudizio,
devono essere liquidati distinguendo ciascuna fase di esso,
in modo da consentire la verifica della correttezza dei
parametri utilizzati e il rispetto delle relative tabelle»
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2016). |
TRIBUTI:
Tarsu, ko ogni sanzione diversa dalla generale.
In tema di rifiuti, le sanzioni Tarsu sono disciplinate nei
regolamenti comunali; tuttavia, poiché la legge istitutiva
del tributo non reca alcuna disciplina specifica per le
sanzioni, potranno essere applicate solo le norme generali
in tema di sanzioni amministrative tributarie di cui
all'articolo 13 del dlgs n. 471/1997, pari al 30% del
tributo omesso. Ogni altra sanzione applicata è, dunque,
illegittima e può essere annullata proponendo ricorso
dinanzi al giudice tributario.
Sono le conclusioni raggiunte dalla Sez. IX della
Commissione tributaria regionale di Roma nella
sentenza 30.11.2016 n. 7672/9/2016.
La vertenza tratta di una omissione della dichiarazione dei
rifiuti per gli anni ricompresi tra il 2007 e il 2012. Il
contribuente aveva proposto ricorso avverso gli accertamenti
emessi dal comune di Roma; ricorsi che, la Commissione
tributaria provinciale di Roma aveva completamente
rigettato.
Tra i motivi di opposizione, il contribuente
aveva contestato l'applicazione delle sanzioni disposte dal
regolamento del comune di Roma «perché la Corte
costituzionale con la sentenza n. 238/2009 ha osservato che
l'articolo 49 del dlgs n. 22/1997 non reca alcuna disciplina
specifica in tema di sanzioni potendo, quindi, applicarsi
solo le norme generali in tema di sanzioni amministrative
tributarie, ritenendo che possa trovare applicazione
l'articolo 13 del dlgs n. 471/1997 pari al 30% del tributo
omesso».
La Commissione tributaria regionale di Roma ha
confermato gli accertamenti per quanto riguarda il tributo
sulla base del regolamento comunale, unitamente agli
interessi come per legge; per le sanzioni, invece, ha
aderito alla richiesta subordinata del contribuente,
riducendole nella misura del 30% come stabilito
dall'articolo 13 del dlgs n. 471/1997.
Ciò perché la norma istitutiva della Tarsu non prevede alcun
tipo di sanzione: così che le sanzioni applicate dai Comuni,
determinate sulla base dei regolamenti comunali, sono
illegittime. La violazione, dunque, è punibile soltanto in
base al citato articolo 13, che reca una disciplina
generale, disponendo che «chi non esegue, in tutto o in
parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i
versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo
dell'imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in
questi casi l'ammontare dei versamenti periodici e in
acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione
amministrativa pari al 30% di ogni importo non versato »
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La contribuente, come rappresentata e difesa, propone
appello alla sentenza n. 22755/4/15 della Commissione
tributaria provinciale di Roma che ha rigettato il suo
ricorso contro l'avviso di accertamento Tarsu anni dal 2007
al 2012 n. 122075655 perché non ha dimostrato la veridicità
di quanto asserito.
Contesta l'applicazione delle sanzioni
disposte dal regolamento del comune di Roma perché la Corte
costituzionale con la sentenza n. 23 8/2009 ha osservato che
l'art. 49 del dlgs n. 22/1997 non reca alcuna disciplina
specifica in tema di sanzioni potendo applicarsi solo le
norme generali in tema di sanzioni amministrative tributarie
e ritiene che possa trovare applicazione l'art. 13 del dlgs
n. 471/1997 pari al 30%.
Si costituisce in giudizio AMA per
chiarire che la contribuente è proprietaria dal 28/09/2005
dell'immobile e non ha presentato l'apposita comunicazione
prevista dal regolamento comunale in caso di occupazione o
non occupazione dello stesso per cui l'accertamento in caso
di omissione è valido per un anno in più e dunque dalla data
di domicilio fiscale risultante all'anagrafe tributaria del
02/01/2007 al 30/06/2012 è debitrice di Tari.
[omissis] L'appello è parzialmente fondato e va accolto per
quanto di ragione.
Poiché l'Ama ha accertato che nel periodo dall'01/04/20008 al
07/10/2011 gli occupanti dell'abitazione erano in numero di
2, mentre la ricorrente non ha mai presentato dichiarazioni
ai fini dell'imposta notificatala si è congiunta al coniuge
in data 07/10/2010, risulta di tutta evidenza che dal periodo
01/04/2008 a tutt'oggi l'imposta è dovuta nella misura
corrispondente annualmente sulla base del regolamento
comunale, unitamente agli interessi come per legge e alla
sanzione nella misura del 30% come sancito dall'art. 13 del dlgs n. 471 del 18/12/1997 per l'omesso pagamento di
tributi.
Per le motivazioni suesposte e ogni altra eccezione
disattesa restando assorbita da quanto prefato, l'appello
deve essere parzialmente accolto calcolando l'imposta Tarsu/Tia
dall'01/04/2008 al 31/12/2012 sulla base delle tariffe
annualmente stabilite dal regolamento comunale oltre agli
interessi come per legge e la sanzione del 30%.
La reciproca soccombenza è motivo legittimo di compensazione
delle spese.
PQM La Commissione tributaria regionale di Roma, sezione n.
9, definitivamente decidendo, accoglie parzialmente come in
motivazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso senza opere -
SCIA - Presupposti - Violazione delle prescrizioni del Piano
di Fabbricazione Comunale - Destinazione agricola -
Sequestro preventivo dell'area - Prevalenza della
destinazione d'uso - Verifiche e limiti - Destinazione mista
e destinazione univoca - Artt. 23, 44, d.P.R. 380/2001.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a O.I.A. (ora SCIA), ma a condizione che
intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria o,
se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n.
26455 del 05/04/2016, Stellato; Sez. 3, n. 39897 del
24/06/2014, Filippi; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013,
Tortora).
Nella specie, ne consegue l'irrilevanza, della indagine
sulla prevalenza della destinazione d'uso del fondo, giacché
tale accertamento deve essere eseguito solamente in caso di
destinazione mista, allo scopo di stabilire quale sia la
destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare
se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa.
Allorquando (come nel caso di specie, nel quale,
pacificamente, tutti i fondi di proprietà del ricorrente,
avevano destinazione agricola) si sia verificato un
mutamento rilevante della originaria univoca destinazione
d'uso, in conseguenza di un utilizzo del fondo diverso
rispetto a quello originario, tale da assegnare l'immobile
ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nel
primo comma dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, non occorre
compiere alcuna indagine sulla prevalenza della destinazione
d'uso dell'immobile, essendo sufficiente, in presenza di
destinazione univoca, l'utilizzo diverso del fondo (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2016 n. 50503
- link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI: La
perdita di chance va provata. Non vale il criterio della
durata dell’illecito e del tipo di azienda. Liquidazione
equitativa per l’impresa tagliata fuori dalle gare per colpa
grave della Pa.
Il giudice non può condannare la
pubblica amministrazione a risarcire la perdita di chance
all’impresa che perde l’occasione di partecipare alle gare,
non avendo ottenuto il “bollino blu”, basandosi sulla durata
del comportamento illegittimo della Pa e sul tipo di
azienda. Per quantificare il danno occorre valutare, in base
agli elementi forniti dal danneggiato, le possibilità
concrete che l’azienda avrebbe avuto di conseguire vantaggi
economici senza il comportamento “illecito”.
La Corte di
Cassazione (Sez. I civile -
sentenza
29.11.2016 n. 24295) accoglie il ricorso del
ministero delle Infrastrutture e dei trasporti -la cui tesi
difensiva era stata bocciata nei due gradi precedenti-
limitatamente alla liquidazione del danno.
I titolari
dell’impresa avevano citato in giudizio il ministero che
aveva negato l’iscrizione all’albo dei costruttori,
all’epoca dei fatti non ancora sostituito dalle Soa. Un
parere negativo che non era stato rimosso malgrado due
sentenze del Tar, con le quali i giudici amministrativi
avevano affermato la colpa grave della Pa per non aver
eseguito il giudicato. Il tribunale aveva fissato il
risarcimento in 10 miliardi di lire, mentre nella sentenza
di appello, arrivata circa 10 anni dopo, il danno era stato
quantificato in 750 mila euro.
Secondo la Corte di
territoriale era impossibile stabilire quali sarebbero stati
gli effetti della partecipazione dell’impresa a gare alle
quali non aveva potuto accedere, ma un danno c’era comunque
stato. La mancata partecipazione aveva ridotto le occasioni
per conseguire dei ricavi «e quindi le perdite di chances,
suscettibili di valutazione economica sia pure equitativa».
Per la corte d’Appello la cifra indicata del tribunale era
eccessiva in considerazione dell’incertezza e della mancanza
di parametri di valutazione ben definiti, come inappropriato
era il riferimento ai dati statistici forniti dal Ctu, utili
per uno studio teorico ma non idonei a fornire elementi
sicuri. La corte d’Appello aveva ritenuto “prudente”
stabilire un danno di 750 mila euro, compresa la
rivalutazione degli interessi tenuto conto della durata
temporale dell’inadempimento e del tipo di impresa.
Il
ministero fa un ricorso accolto sul punto dalla Cassazione.
La Suprema corte conferma la colpa grave della Pa che aveva
disatteso la sentenza del Tar, malgrado questo avesse
spiegato con successivo verdetto che l’amministrazione non
godeva di nessuna discrezionalità nel disattendere il
giudicato. Affermata la responsabilità ai fini risarcitori
la Cassazione boccia il criterio con il quale la Corte
d’Appello aveva riconosciuto la perdita di chance per un
danno non attuale.
Per il “pregiudizio” è necessario ricorrere al criterio
prognostico, basato su concrete e ragionevoli, non
ipotetiche, possibilità di risultati utili. Il danno
patrimoniale per la mancata chance è un danno futuro, che
non consiste nella perdita di un vantaggio economico ma
della sola possibilità di conseguirlo «secondo una
valutazione “ex ante” da ricondursi, diacronicamente, al
momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale
possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale.
L’accertamento e la liquidazione, in via equitativa,
spettano al giudice di merito e sono insindacabili in sede
di legittimità se adeguatamente motivati. In questo caso
però la motivazione non indica il processo logico seguito.
Il riferimento al tempo del comportamento illecito e al tipo
di impresa è inadeguato. La valutazione deve basarsi su
elementi di fatto forniti dall’impresa, chiarendo quali
erano le probabilità concrete di vantaggi economici prima
dell’illecito» (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2016).
---------------
MASSIMA
1.2.- Col secondo motivo, il Ministero denuncia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225,
1226, 1227, 2043, 2056 c.c., nonché il vizio di motivazione,
per avere la Corte d'appello riconosciuto danno da perdita
di chances in presenza di danno non attuale, senza
nesso di causalità diretto col comportamento della PA, senza
rispondere ai rilievi della parte e senza indicare, se non
in maniera del tutto generica, i criteri ed i parametri
utilizzati per il calcolo della somma riconosciuta.
2.2.- Il motivo è fondato.
La Corte del merito ha ritenuto che la preclusione per il
D'An. della partecipazione a talune gare, per la mancata
iscrizione in talune categorie, aveva certamente ridotto le
occasioni per conseguire dei ricavi, e che a riguardo ben si
poteva ritenere la perdita di chances, suscettibili
di valutazione economica, perdita equitativamente
determinata in euro 750.000,00, ivi compresi rivalutazione
ed interessi alla data della pronuncia, "tenendo conto
del lasso temporale durante il quale l'indebita omissione si
protrasse e del tipo di impresa in considerazione".
Detta statuizione è erronea in diritto, atteso che per il
danno in oggetto va fatto ricorso al criterio prognostico,
basato su concrete e ragionevoli, non ipotetiche,
possibilità di risultati utili.
Come infatti affermato nella pronuncia 2737/2015,
il danno patrimoniale da perdita di "chance"
è un danno futuro, consistente nella perdita non di un
vantaggio economico, ma della mera possibilità di
conseguirlo, secondo una valutazione "ex ante" da
ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il
comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in
termini di conseguenza dannosa potenziale; l'accertamento e
la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa,
sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in
sede di legittimità se adeguatamente motivati.
In altre parole, il danno in oggetto
presuppone la prova, in via presuntiva e probabilistica,
della concreta e non meramente ipotetica possibilità di
conseguire vantaggi economicamente apprezzabile.
E' altresì censurabile la motivazione addotta a fondamento
del ricorso alla valutazione equitativa.
Secondo la giurisprudenza di questa corte, «l'esercizio
in concreto del potere discrezionale conferito al giudice di
liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di
sindacato in sede di legittimità, quando la motivazione
della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale
facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito»
(così, tra le altre, le pronunce 5090/2016, 85/2003,
13077/2002, 8807/2001). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensore
vietato se rende inaccessibili le parti private. Condominio.
Anche in presenza di disabili.
Il condominio non può mettere
l’ascensore, anche quando serve a eliminare la barriera
architettonica per un portatore di handicap, se viene
limitato l’accesso ai box di proprietà esclusiva di un
condomino. Il no all’ascensore scatta a prescindere dal
fatto che il proprietario del locali adibiti a box li abbia
o meno usati per posteggiarci la macchina.
La Corte di Cassazione - Sez. II civile, con la
sentenza 29.11.2016 n. 24235, accoglie
il ricorso del proprietario di un’area adibita a “garage”
che si trovava proprio alle spalle dell’ascensore che
l’assemblea aveva deliberato di far installare.
Secondo il
ricorrente l’impianto avrebbe limitato l’accesso ai suoi
box, lasciando un varco di un solo metro e 12 centimetri,
come affermato dallo stesso condominio: una misura inferiore
a quella, fissata in un metro e 20, dal Dm 235 del 1989 sul
superamento delle barriere architettoniche per la lunghezza
delle rampe di scale. La misura ridotta impediva, secondo i
ricorrenti, anche il passaggio contemporaneo di due persone
e quello di una barella.
Il tribunale aveva dato in prima battuta ragione al
condominio, con una decisione capovolta dalla Corte
d’Appello che aveva respinto le ragioni dell’assemblea
secondo la quale lo spazio lasciato libero era sufficiente
ad accedere a manufatti, comunque mai usati dai proprietari
per mettere l’auto.
La Cassazione, con una decisione in linea con il Codice
civile, fa invece prevalere il diritto di proprietà
sull’esigenza di eliminare gli ostacoli sul percorso dei
portatori di handicap. La condizione di inservibilità del
bene comune all’uso o al godimento anche da parte di un solo
condomino rende, in base all’articolo 1120, secondo comma, del
codice civile, illegittima e dunque vietata qualunque
innovazione deliberata dagli altri condomini.
Per i giudici è chiaro che il “paletto” non scatta solo in
caso di inservibilità totale, ma anche nell’ipotesi in cui
l’innovazione limiti l’utilità che il condomino aveva
precedentemente. Alla regola non si può fare eccezione per i
lavori diretti a togliere le barriere architettoniche, come
nel caso dell’ascensore: l’articolo 1120 secondo comma del
codice civile non può essere derogato.
Per la Suprema corte
hanno sbagliato i giudici di appello ad escludere la lesione
sulla base dell’uso, o meglio del non uso, che i proprietari
avevano fatto negli anni dei loro box. Il fatto che i
“garage” non fossero mai stati utilizzati per metterci le
vetture, secondo la Cassazione, è del tutto priva di
significato a fronte della limitazione all’accesso, in virtù
dello spazio ridotto, che compromette un diritto di
proprietà che non viene meno per il mancato utilizzo (articolo Il Sole 24 Ore del 30.11.2016). |
VARI: Patente,
obbligo di delazione. Cassazione:
non basta pagare la multa.
In caso di decurtazione di punti sulla patente prevista da
una violazione del codice della strada il proprietario del
veicolo ha sempre l'obbligo di comunicare i dati
dell'effettivo trasgressore. Non basta, a tale scopo, il
semplice pagamento della sanzione stradale. Infatti, la
delazione richiesta dal codice della strada si configura
come un obbligo autonomo rispetto all'obbligazione
principale scaturente dal verbale di contestazione di una
norma di comportamento.
Lo ha precisato la II Sez. civile della Corte di Cassazione
con la
sentenza 29.11.2016 n. 24233.
Il giudice di pace di Civita Castellana aveva accolto il
ricorso di un utente stradale contro il verbale per omessa
comunicazione dei dati del conducente per la decurtazione di
punti sulla patente di guida. Il comune di Viterbo aveva poi
proposto appello al tribunale di Viterbo, eccependo
l'impossibilità di considerare estintivo del procedimento il
tempestivo pagamento della sanzione relativa al verbale
originario. Il tribunale di Viterbo aveva respinto
l'eccezione e il comune ha quindi proposto ricorso in
Cassazione.
Secondo la seconda sezione civile, risulta essere
irrilevante la mancata dichiarazione dell'incompetenza (pur
concretamente sussistente), in quanto la causa è stata
comunque assunta correttamente dal giudice di appello,
mentre l'obbligo di comunicare i dati del trasgressore si
configura come un obbligo autonomo e distinto rispetto a
quello connesso alla contestazione della violazione
principale.
In sostanza, con la richiesta dei dati del trasgressore, si
instaura un differente iter sanzionatorio, che non può
essere sospeso o eliminato dall'eventuale ricorso né dal
tempestivo pagamento della sanzione correlata alla
violazione stradale presupposta
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
APPALTI: Aggiudicazioni,
revoca prima della stipula. Anche col nuovo codice dei
contratti.
Anche con il nuovo codice dei contratti è legittima la
revoca dell'aggiudicazione prima della stipula del contratto
di appalto; necessaria la presenza di ragioni a tutela
dell'interesse pubblico.
È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato -Sez. III- con la
sentenza 29.11.2016 n. 5026, relativa a una gara per la
fornitura di impianti ospedalieri per il Policlinico di Bari
nella quale era in contestazione la revoca
dell'aggiudicazione e la conseguente indizione di nuova gara
con aggiudicazione ad altro concorrente.
La sentenza ripercorre innanzitutto i punti fondamentali
dell'istituto collegandolo alla normativa generale: «La
revoca dei provvedimenti amministrativi è disciplinata
dall'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990 (e
introdotta dall'art. 14 della legge n. 15 del 2005) che ne
elenca i presupposti per il valido esercizio: sopravvenienza
di motivi di interesse pubblico, mutamento della situazione
di fatto (imprevedibile al momento dell'adozione del
provvedimento) e rinnovata (e diversa) valutazione
dell'interesse pubblico originario (tranne che per i
provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi
economici)».
Per il collegio giudicante la revoca del provvedimento di
aggiudicazione deve quindi avvenire prima della stipula del
contratto d'appalto perché dopo la stipula è ammesso
soltanto il recesso. La revoca però soggiace ad alcune
condizioni che la stazione appaltante deve verificare in
maniera attenta e rigorosa e che hanno ad oggetto il
contemperamento degli interessi, pubblici e privati,
coinvolti.
Nel caso specifico, la revoca riguardava un ripensamento
della stazione appaltante «circa il grado di satisfattività
della prestazione messa a gara» e non «l'assoluta inidoneità
della prestazione inizialmente richiesta dalla stessa
amministrazione (e, quindi, dovuta dall'aggiudicatario) a
soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a
contrarre».
Ad avviso dei giudici, quindi, il provvedimento
di revoca era illegittimo perché fondato sulla generica
affermazione circa il non allineamento dell'oggetto della
fornitura alle attuali esigenze dell'amministrazioni.
Importante notare che, dice la sentenza, questi «canoni di
condotta restano validi anche per le procedure di
aggiudicazione soggette alla disciplina del dlgs 50/2016»
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2016
- tratto da
www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
4.1- Al fine di scrutinare la fondatezza delle censure
indirizzate al giudizio di legittimità del predetto atto di
ritiro, occorre premettere alcune sintetiche considerazioni
sui presupposti del corretto esercizio del potere di
autotutela nelle procedure di aggiudicazione di appalti
pubblici.
4.2- In via generale,
la revoca dei provvedimenti amministrativi, disciplinata
dall’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990 (e
introdotta dall’art. 14 della legge n. 15 del 2005), si
configura come lo strumento dell’autotutela decisoria
preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc (e,
quindi, non retroattiva), di un atto ad efficacia durevole,
in esito a una nuova (e diversa) valutazione dell’interesse
pubblico alla conservazione della sua efficacia.
I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi
sono definiti dall’art. 21-quinquies
(per come modificato dall’art. 25, comma 1, lett. b-ter,
d.l. n. 133 del 2014)
con formule lessicali (volutamente) generiche e consistono
nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel
mutamento della situazione di fatto (imprevedibile al
momento dell’adozione del provvedimento) e in una rinnovata
(e diversa) valutazione dell’interesse pubblico originario
(tranne che per i provvedimenti autorizzatori o attributivi
di vantaggi economici).
Ora,
ancorché l’innovazione del 2014 abbia inteso accrescere la
tutela del privato da un arbitrario e sproporzionato
esercizio del potere di autotutela in questione (per mezzo
dell’esclusione dei titoli abilitativi o attributivi di
vantaggi economici dal catalogo di quelli revocabili in
esito a una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico
originario), il potere di revoca resta connotato da un’ampia
(e, forse, eccessiva) discrezionalità
(cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 06.05.2014,
n.2311)
A differenza del potere di annullamento d’ufficio, che
postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello
di revoca esige, infatti, solo una valutazione di
opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti
dettagliate all’art. 21-quinquies l. cit. (e che, nondimeno,
sono descritte con clausole di ampia latitudine semantica),
sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque,
rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale
dell’Amministrazione procedente.
La configurazione normativa del potere di autotutela in
esame si presta, quindi, ad essere criticata, nella misura
in cui omette un’adeguata considerazione e un’appropriata
protezione delle esigenze, sempre più avvertite come
ineludibili, connesse alla tutela del legittimo affidamento
(qualificato come “principio fondamentale”
dell’Unione Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE)
ingenerato nel privato danneggiato dalla revoca e
all’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici
costituiti dall’atto originario, nonché, più in generale,
alla stabilità dei provvedimenti amministrativi.
E non vale, di per sé, la previsione della debenza di un
indennizzo ai privati danneggiati dalla revoca a compensare
gli squilibri regolativi sopra segnalati.
Un’esegesi e un’applicazione della disposizione in esame che
siano coerenti con i principi generali dell’ordinamento
della tutela della buona fede, della lealtà nei rapporti tra
privati e pubblica amministrazione e del buon andamento
dell’azione amministrativa
(che ne implica, a sua volta, l’imparzialità e la
proporzionalità)
impongono, allora, la lettura e l’attuazione della norma
secondo i canoni stringenti di seguito enunciati:
a) la revisione dell’assetto di interessi recato dall’atto
originario dev’essere preceduta da un confronto
procedimentale con il destinatario dell’atto che si intende
revocare;
b) non è sufficiente, per legittimare la revoca, un ripensamento
tardivo e generico circa la convenienza dell’emanazione
dell’atto originario;
c) le ragioni addotte a sostegno della revoca devono rivelare la
consistenza e l’intensità dell’interesse pubblico che si
intende perseguire con il ritiro dell’atto originario;
d) la motivazione della revoca dev’essere profonda e convincente,
nell’esplicitare, non solo i contenuti della nuova
valutazione dell’interesse pubblico, ma anche la sua
prevalenza su quello del privato che aveva ricevuto vantaggi
dal provvedimento originario a lui favorevole.
---------------
4.3- Così chiariti presupposti, contenuti e finalità
dell’istituto della revoca, occorre declinarne i relativi
principi nella fattispecie sostanziale delle procedure di
aggiudicazione di appalti pubblici.
Deve premettersi, in via generale, che,
mentre la revoca resta impraticabile dopo la stipula del
contratto d’appalto, dovendo utilizzarsi, in quella fase, il
diverso strumento del recesso
(come chiarito dall’Adunanza Plenaria con la decisione in
data 29.06.2014, n. 14),
prima del perfezionamento del documento contrattuale, al
contrario, l’aggiudicazione è pacificamente revocabile
(cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 13.04.2011,
n.2291).
Così riconosciuta, in astratto, la revocabilità
dell’aggiudicazione (prima, si ripete, della stipulazione
del contratto), occorre precisare che
la peculiarità della regolazione della funzione considerata
(l’amministrazione di procedure di aggiudicazione di appalti
pubblici) impone di definire le condizioni del valido
esercizio della potestà di autotutela in questione secondo
parametri ancora più stringenti.
A fronte, infatti, della nota strutturazione procedimentale
della scelta del contraente,
la definizione regolare della procedura mediante la
selezione di un’offerta (giudicata migliore) conforme alle
esigenze della stazione appaltante (per come cristallizzate
nella lex specialis) consolida in capo all’impresa
aggiudicataria una posizione particolarmente qualificata ed
impone, quindi, all’Amministrazione, nell’esercizio del
potere di revoca, l’onere di una ponderazione
particolarmente rigorosa di tutti gli interessi coinvolti.
Il ritiro di un’aggiudicazione legittima postula, in
particolare, la sopravvenienza di ragioni di interesse
pubblico (o una rinnovata valutazione di quelle originarie)
particolarmente consistenti e preminenti sulle esigenze di
tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che
ha diligentemente partecipato alla gara, rispettandone le
regole e organizzandosi in modo da vincerla, ed esige,
quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i
contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa
dei predetti interessi
(cfr. Cons. St., sez. V, 19.05.2016, n. 2095).
Resta da chiarire che
i canoni di condotta appena precisati restano validi anche
per le procedure di aggiudicazione soggette alla disciplina
del d.lgs. n.50 del 2016, nella misura in cui il paradigma
legale di riferimento resta, anche per queste ultime, l’art.
21-quinquies l. n. 241 del 1990, e non anche la disciplina
speciale dei contratti, che si occupa, infatti, di regolare
il recesso e la risoluzione del contratto, e non anche la
revoca dell’aggiudicazione degli appalti (ma solo delle
concessioni).
4.4- Così precisate le coordinate valutative alla cui
stregua dev’essere formulato il giudizio di legittimità
della revoca controversa, occorre, ancora, chiarire che,
quando si appunta sulle caratteristiche dell’oggetto
dell’appalto (come nel caso in esame), il ripensamento
dell’Amministrazione, per legittimare il provvedimento di
ritiro dell’aggiudicazione, deve fondarsi sulla sicura
verifica dell’inidoneità della prestazione descritta nella
lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali
che hanno determinato l’avvio della procedura.
Premesso, infatti,
che le Amministrazioni pubbliche devono preliminarmente
verificare le proprie esigenze, poi definire, coerentemente
con gli esiti dell’anzidetta analisi, gli elementi
essenziali del contratto e, solo successivamente, indire una
procedura di affidamento avente ad oggetto la prestazione
già individuata come necessaria
(Cons. St., sez V, 11.05.2009, n. 2882),
appare chiaro che l’aggiudicazione della gara a un’impresa
che ha diligentemente confezionato la sua offerta in
conformità alle prescrizioni della lex specialis può
essere validamente rimossa, con lo strumento della revoca,
solo nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e,
comunque, tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta
inidoneità della prestazione inizialmente richiesta dalla
stessa Amministrazione (e, quindi, dovuta
dall’aggiudicatario) a soddisfare i bisogni per i quali si
era determinata a contrarre.
Al contrario, non può in alcun modo giudicarsi idoneo a
giustificare la revoca un ripensamento circa il grado di
satisfattività della prestazione messa a gara.
Se si ammettesse, infatti, la revocabilità delle
aggiudicazioni sulla sola base di un differente e
sopravvenuto apprezzamento della misura dell’efficacia
dell’obbligazione dedotta a base della procedura, si
finirebbe, inammissibilmente, per consentire l’indebita
alterazione delle regole di imparzialità e di trasparenza
che devono presidiare la corretta amministrazione delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, con
inaccettabile sacrificio dell’affidamento ingenerato nelle
imprese concorrenti circa la serietà e la stabilità della
gara, ma anche con un rischio concreto di inquinamento e di
sviamento dell’operato delle stazioni appaltanti.
...
4.6- La riscontrata illegittimità della revoca risulta,
peraltro, avvalorata e confermata anche dall’ulteriore
vizio dell’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento all’impresa destinataria dell’atto di ritiro
dell’aggiudicazione.
Come,
infatti, affermato
da un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non
si ravvisano ragioni per discostarsi,
l’esercizio dei poteri di autotutela finalizzati al ritiro
dell’aggiudicazione definitiva impone alla stazione
appaltante di assicurare la partecipazione dell’impresa
aggiudicataria, onde consentirle di tutelare adeguatamente,
in sede procedimentale, la posizione qualificata validamente
acquisita, per mezzo della necessaria osservanza della
prescrizione di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990
(cfr. ex multis Cons., St., sez. V, 27.04.2011, n.
2456). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Progettazione per privati, nelle gare la prestazione fa
curriculum anche se il lavoro non è realizzato.
La pregressa prestazione progettuale
dichiarata costituisce indice adeguato della capacità
tecnica richiesta, a prescindere dal dato successivo della
realizzazione o meno delle opere.
Una volta che emerga un pregresso servizio di progettazione
svolto per un committente privato, il quale risulti
comprovato, deve ritenersi che tale prestazione sia per ciò
stesso riconoscibile quale indice di capacità tecnica in
forza della regola dettata dalla seconda parte dell'art.
263, comma 2, del Dpr n. 207/2010.
Lo ha affermato il TAR Toscana, Sez. I, nella
sentenza 29.11.2016 n. 1730.
Il Tribunale amministrativo regionale della Toscana ricorda
che l'art. 263 del Dpr n. 207/2010, nel regolare la
maturazione dei requisiti di capacità tecnica spendibili
nelle procedure di gara, distingue tra progetti
commissionati dall'Amministrazione e progetti "svolti per
committenti privati", disciplinandoli separatamente.
Tuttavia, l'inciso per cui: "Non rileva al riguardo la
mancata realizzazione dei lavori ad essa relativi" deve
correttamente essere inteso come riferito alla progettazione
svolta nell'ambito di entrambi i settori di riferimento,
senza che rilevi la distinzione tra pubblico e privato.
In particolare, per quanto concerne la disciplina
specificamente prevista per i progetti svolti per
committenti privati, è precisato che l'operatore economico
può di regola limitarsi a dichiarare la buona e regolare
esecuzione dei servizi prestati, salvo l'onere di fornire,
su richiesta della stazione appaltante, la prova
dell'avvenuta esecuzione degli stessi servizi attraverso "gli
atti autorizzativi o concessori, ovvero il certificato di
collaudo, inerenti il lavoro per il quale è stata svolta la
prestazione, ovvero tramite copia del contratto e delle
fatture relative alla prestazione medesima."
Un significativo indirizzo giurisprudenziale ha evidenziato
come la riconosciuta possibilità di dimostrare l'avvenuta
esecuzione dei servizi di progettazione, anche fornendo
semplicemente copia del contratto e delle fatture relative
alla prestazione medesima, impone di riconoscere che anche
per i progetti di committenza privata valga la regola per
cui ai fini del riconoscimento dei servizi stessi "Non
rileva ... la mancata realizzazione dei lavori ... relativi",
dal momento che dell'esecuzione effettiva di tali lavori non
è affatto preteso che venga data dimostrazione.
Dunque, una volta che risulti lo svolgimento in favore di un
committente privato di un pregresso servizio di
progettazione, il quale sia debitamente comprovato dal
relativo contratto nonché dalle conferenti fatture, oppure
dai certificati di regolare esecuzione, deve ritenersi che
la pregressa prestazione progettuale dichiarata costituisca
indice adeguato della capacità tecnica richiesta, a
prescindere dal dato successivo della realizzazione o meno
delle opere ad essa conseguenti, di cui, appunto, non si
richiede venga fornita dimostrazione.
Del resto, una volta riconosciuta la possibilità di spendere
nelle gare pubbliche anche la professionalità acquisita nel
settore delle committenze private, è del tutto logico che la
valutazione in ordine all'effettiva corretta esecuzione
dell'incarico progettuale competa al medesimo committente
che lo ha remunerato, senza che rilevi l'utilizzo successivo
del progetto stesso da parte di quest'ultimo (Cons. Stato,
V, 10.2.2015, n. 692): la norma non esige nemmeno, quale
condizione per il riconoscimento in discussione, che
l’appalto dei lavori previsti nel progetto sia stato
aggiudicato (commento tratto da e link a
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
3. Con la prima parte della seconda censura l’esponente
deduce che la controinteressata non ha dato prova
dell’esperienza professionale richiesta dall’art. 7.A, punto
4.b, del disciplinare di gara (progettazione di edificio
analogo negli ultimi 5 anni), in quanto ai sensi dell’art.
263 del d.p.r. n. 207/2010 i servizi di progettazione svolti
per conto del committente privato (nel caso in esame, Al.
s.r.l.) possono essere addotti come requisito di capacità
tecnica solo se i lavori connessi alla progettazione siano
stati eseguiti, mentre invece gli edifici 4, 5 e 6 dell’Atrium
di Parma sono ancora in costruzione, ed anzi le prestazioni
professionali relative all’edificio n. 6 sono successive al
bando.
Il rilievo è infondato.
Ai sensi dell’art. 263, comma 2, del d.p.r.
n. 207/2010, i pregressi servizi di progettazione svolti per
un committente privato, addotti come requisito di capacità
tecnica, sono legittimamente documentati mediante
certificati di regolare esecuzione,
che infatti la controinteressata ha fornito alla stazione
appaltante; quali ulteriori documenti
idonei a comprovare il possesso del predetto requisito la
norma indica la copia del contratto relativo alla
prestazione professionale e la copia delle fatture
concernenti la prestazione medesima (parimenti esibiti
dall’aggiudicataria).
Il citato art. 263, nel regolare la maturazione dei
requisiti di capacità tecnica spendibili nelle procedure di
gara, distingue tra progetti commissionati
dall'Amministrazione e progetti "svolti per committenti
privati", disciplinandoli separatamente. Tuttavia,
l'inciso per cui: "Non rileva al riguardo la
mancata realizzazione dei lavori ad essa relativi" deve
correttamente essere inteso come riferito alla progettazione
svolta nell'ambito di entrambi i settori di riferimento,
senza che rilevi la distinzione tra pubblico e privato.
In particolare, per quanto concerne la
disciplina specificamente prevista per i progetti svolti per
committenti privati, è precisato che l'operatore economico
può di regola limitarsi a dichiarare la buona e regolare
esecuzione dei servizi prestati, salvo l'onere di fornire,
su richiesta della stazione appaltante, la prova
dell'avvenuta esecuzione degli stessi servizi attraverso
"gli atti autorizzativi o concessori, ovvero il certificato
di collaudo, inerenti il lavoro per il quale è stata svolta
la prestazione, ovvero tramite copia del contratto e delle
fatture relative alla prestazione medesima."
Un significativo indirizzo
giurisprudenziale ha evidenziato come la riconosciuta
possibilità di dimostrare l'avvenuta esecuzione dei servizi
di progettazione anche fornendo semplicemente copia del
contratto e delle fatture relative alla prestazione
medesima, "impone di riconoscere che anche per i progetti
di committenza privata valga la regola per cui ai fini del
riconoscimento dei servizi stessi "Non rileva ... la mancata
realizzazione dei lavori ... relativi", dal momento che
dell'esecuzione effettiva di tali lavori non è affatto
preteso che venga data dimostrazione (che non verrebbe, del
resto, nemmeno dalla produzione -pure reputata sufficiente
dalla norma- degli "atti autorizzativi o concessori")"
(TAR Puglia, Bari, I, 22.04.2015, n. 627).
Dunque, una volta che risulti,
come nel caso sottoposto all'esame del Collegio,
lo svolgimento in favore di un committente privato
di un pregresso servizio di progettazione, il quale sia
debitamente comprovato dal relativo contratto nonché dalle
conferenti fatture, oppure dai certificati di regolare
esecuzione, deve ritenersi che la pregressa prestazione
progettuale dichiarata costituisca indice adeguato della
capacità tecnica richiesta, a prescindere dal dato
successivo della realizzazione o meno delle opere ad essa
conseguenti, di cui, appunto, non si richiede venga fornita
dimostrazione.
Del resto, una volta riconosciuta la possibilità di spendere
nelle gare pubbliche anche la professionalità acquisita nel
settore delle committenze private, è del tutto logico che la
valutazione in ordine all'effettiva corretta esecuzione
dell'incarico progettuale competa al medesimo committente
che lo ha remunerato, senza che rilevi l'utilizzo successivo
del progetto stesso da parte di quest'ultimo
(Cons. Stato, V, 10.2.2015, n. 692): la
norma della cui interpretazione si tratta non esige nemmeno,
quale condizione per il riconoscimento in discussione, che
l’appalto dei lavori previsti nel progetto sia stato
aggiudicato.
Una volta che emerga un pregresso "servizio
svolto per un committente privato", il quale risulti
comprovato, deve ritenersi che tale prestazione sia per ciò
stesso riconoscibile quale indice di capacità tecnica in
forza della regola dettata dalla seconda parte dell'art.
263, comma 2 (il cui incipit è appunto in questi
termini: "Sono valutabili anche i servizi svolti per
committenti privati documentati ...").
Tale conclusione porta a disattendere non solo la censura
incentrata sulla violazione dell’art. 263 del d.p.r. n.
207/2010, ma anche il precedente motivo di ricorso, nella
parte riferita alle indicazioni del certificato di collaudo;
è infatti evidente che, se ai fini della valutazione del
requisito de quo rileva la regolare esecuzione del
progetto in sé (certificata dal committente privato), è
irrilevante il fatto che l’opera progettata subisca, durante
l’esecuzione dei lavori, delle varianti, e che il
certificato di collaudo indichi un diverso progettista delle
strutture in legno ad esito di vicende successive alla
progettazione svolta dal soggetto che vanta il requisito di
capacità tecnica previsto dall’art. 263 del d.p.r. n.
207/2010.
In siffatto contesto, e considerata la documentazione
probatoria menzionata nella trattazione della precedente
censura, la dichiarazione sottoscritta dall’ingegner No., di
essere in realtà lui il progettista delle strutture in legno
degli edifici n. 1, 2 e 3 dell’Atrium di Parma (documento n.
2 depositato in giudizio dal ricorrente in data 26.09.2016),
non inficia la validità della dichiarazione resa
dall’aggiudicataria in sede di gara in ordine al possesso
del requisito di pregressa esperienza progettuale.
Ciò a prescindere dalla questione dell’irrilevanza o della
valenza indiziaria delle dichiarazioni scritte presentate
nel processo amministrativo e dalle deduzioni della difesa
della controinteressata incentrate sulla dichiarazione da
ultimo resa da Al. s.p.a., sottoscritta anche dall’ingegner
No. (documento n. 14 depositato in giudizio il 18.10.2016). |
APPALTI:
L’obbligo di dichiarazione dei requisiti
morali di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 riguarda
gli amministratori muniti di potere di rappresentanza, e non
la titolarità in sé della carica di componente del consiglio
di amministrazione o del collegio sindacale.
Inoltre, la disciplina antimafia di cui all'art. 85 del
d.lgs. n. 159/2011 attiene ad adempimenti propedeutici alla
stipula del contratto di appalto, e non a dichiarazioni da
rendere, a pena di esclusione, in sede di gara.
---------------
6. Con il terzo
motivo il ricorrente deduce che le dichiarazioni
richieste dall’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 sono state
omesse da un consigliere e da un sindaco della capogruppo
Se.Ma.Ge. s.r.l., da due soci (uno dei quali consigliere di
amministrazione) e dai componenti del Collegio sindacale
della mandante Da.Ho. & K. s.p.a., e che l’art. 85, comma 2,
lett. b, e comma 2-bis, del d.lgs. n. 159/2011 statuisce che
la documentazione antimafia vada riferita al direttore
tecnico, al legale rappresentante nonché ai componenti
dell’organo di amministrazione e del collegio sindacale.
La doglianza non è condivisibile.
L’obbligo di dichiarazione dei requisiti morali di cui
all’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 riguarda gli
amministratori muniti di potere di rappresentanza, e non la
titolarità in sé della carica di componente del consiglio di
amministrazione o del collegio sindacale (TAR Basilicata, I,
25.10.2016, n. 950; TAR Friuli Venezia Giulia, I,
09.01.2015, n. 13).
Inoltre, la disciplina antimafia di cui all'art. 85 del
d.lgs. n. 159/2011 attiene ad adempimenti propedeutici alla
stipula del contratto di appalto, e non a dichiarazioni da
rendere, a pena di esclusione, in sede di gara (TAR Lazio,
Roma, I, 21.07.2014, n. 7796) (TAR
Toscana, Sez. I, nella
sentenza 29.11.2016 n. 1730
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti
Arpa ufficiali di Pg. Per la Cassazione gli ispettori
svolgono funzioni con rilevanza penale.
Ambiente. La Terza penale fissa i limiti, ampi, della
competenza del personale delle agenzie regionali.
Al personale delle agenzie regionali
di protezione dell’ambiente e del territorio deve essere
riconosciuta la qualifica di ufficiali di polizia
giudiziaria. Pertanto gli atti di accusa in un procedimento
penale possono consistere anche nella sola attività e nei
rilievi del dipendenti dell’Arpa, e la eventuale condanna
non può essere eccepita per violazione di una norma
procedurale e conseguente inutilizzabilità degli atti di
indagine.
Lo ha sancito la III Sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza
28.11.2016 n. 50352) accogliendo il ricorso della
Procura di Firenze a margine dell’assoluzione di un imputato
a giudizio per abbandono di rifiuti e attività di gestione
dei rifiuti non autorizzata (rispettivamente gli articoli
192 e 256 del Codice ambientale del 2006).
Il Gip toscano aveva infatti dichiarato il non luogo a
procedere per insussistenza del fatto ascritto, ma con
l’unica motivazione secondo cui l’accusa si fondava
«esclusivamente su atti di indagine compiuti da personale
dell’Arpat, al quale non può essere riconosciuta la
qualifica di polizia giudiziaria, sì da risultare gli atti
medesimi radicalmente inutilizzabili».
Nella motivazione del
proscioglimento, il Gip fiorentino aveva dato atto del
carattere controverso della questione di diritto, preferendo
scegliere al termine la “soluzione fiorentina” (sic), una
prassi cioè che privilegia il non riconoscimento della
qualifica ai dipendenti delle agenzie regionali di tutela
ambientale.
Per la Corte, però, la motivazione oltre che bizzarra nel
taglio eminentemente “pragmatico” è affetta da un’errata
applicazione delle leggi vigenti, unanimi nel riconoscere il
ruolo di agenti e ufficiali di pg a una serie di impiegati
degli enti e delle aziende pubblici. A cominciare dalla
regola codicistica (l’articolo 55 della procedura penale:
«La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa,
prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a
conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli
atti necessari per assicurare le fonti di prova e
raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione
della legge penale») per continuare con la legge quadro
della disciplina sanitaria (502/1992) e poi con il dm
58/1997 , che proprio in materia di ambiente e di lavoro
riconosce compiti ispettivi e di vigilanza -nei limiti
delle riespettive attribuzioni- a ufficiali di polizia
giudiziaria.
Secondo la Terza penale questo chiaro quadro
legislativo e regolamentare si applica poi all’intero
territorio nazionale, mentre le restrizioni previste dalla
legge toscana (30 del 2009), che rimettono al direttore
generale dell’Arpat -in luogo del prefetto- l’indicazione
degli ufficiali di pg, sono «irrilevanti».
In sostanza, argomenta la Terza, poiché la tutela
dell’ambiente è materia presidiata dalla legge penale, le
funzioni di vigilanza e controllo che la normativa statale
riconosce ai tecnici delle agenzie regionali «non possono
non essere ricondotte» nell’alveo delle funzioni
disciplinate dal codice di procedura penale alla voce
“ufficiali di polizia giudiziaria”. La sentenza impugnata è
stata quindi annullata con rinvio al tribunale di Firenze (articolo Il Sole 24 Ore del 29.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Edifici
abusivi. Sequestro solo con danni ad ambiente o paesaggio.
La Corte di
Cassazione - Sez. III penale, con la
sentenza
28.11.2016 n. 50336, ha
annullato con rinvio un’ordinanza che aveva rigettato il
riesame del decreto di sequestro preventivo, per violazione
delle norme penali edilizie e paesaggistiche, di un
manufatto adibito a bed & breakfast e realizzato in una zona
vincolata paesaggistica, dichiarato di notevole interesse
pubblico.
Per mantenere la validità del decreto non basta
dimostrare e sostenere l’entità delle opere abusive edilizie
realizzate, ma anche la loro incidenza nelle diverse matrici
ambientali ovvero il loro impatto nelle zone oggetto di
particolare tutela paesaggistica .
La Corte in particolare afferma che «un giudizio di
sussistenza del periculum in mora non può essere ancorato,
in via semplicistica, al mancato completamento
dell’intervento edilizio o di trasformazione del territorio,
e quindi all’incidenza dell’opera nel paesaggio, inteso come
forma visibile del territorio, ma deve piuttosto essere
considerata la compromissione ambientale, in relazione alle
matrici ambientali interessate ed alle specifiche aree
tutelate».
La Corte conclude che «le nozioni di stretta
pertinenza edilizia ed urbanistica (quali “superficie utile”
o “volumetria realizzata”, e quindi “carico urbanistico”)
non possono connotare, per ciò solo, anche il giudizio sui
requisiti del periculum in mora, afferente la compromissione
ambientale e paesaggistica».
L’articolo 146, comma 9, del Dlgs 42/2004 prevede che con
regolamento siano stabilite procedure semplificate per
l’autorizzazione per interventi di lieve entità. Il Dpr
139/2010 li consente su aree o immobili sottoposti alle
norme di tutela se non comportano alterazione dei luoghi o
dell’aspetto esteriore degli edifici.
Il Dl 40/2010 limita
tale liberalizzazione facendo salve le più restrittive leggi
regionali, le prescrizioni degli strumenti urbanistici, le
norme di settore incidenti sull’attività edilizia, le norme
antisismiche, di sicurezza ed antincendio,
igienico-sanitarie, di efficienza energetica e il Codice
dei beni culturali e del paesaggio (Dlgs 42/2004) (articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2016).
---------------
MASSIMA
2. Orbene, nel caso di specie, è condivisibile la
valutazione del Collegio che ha
respinto la asserita estinzione del reato edilizio (e
paesaggistico) per il decorso
del termini prescrizionali, in quanto rispondente a principi
di diritto consolidati,
che non consentono nella fase delle indagini preliminari di
trasferire le eventuali
incertezze in ordine al tempus commissi delicti innanzi al
giudice del riesame, al
fine di ottenere un'anticipata piena cognitio sul punto,
salvo che tale
determinazione non emerga con solare evidenza dagli atti
trasmessi al Tribunale
del riesame.
Pertanto, allo stato nessuna incidenza in
questa sede può avere la
declaratoria di illegittimità costituzionale del disposto di
cui all'art. 181, comma 1-bis, richiamata nella memoria,
posto che non emerge con chiarezza la data di
commissione del reato.
3. Di contro, ritiene questo Collegio discutibile l'adesione
da parte del Tribunale
di Salerno ad un indirizzo giurisprudenziale, peraltro di
minoranza, che ammette
la presunzione del requisito del periculum in mora, laddove
la realizzazione della
struttura abusiva incida in zona a tutela paesaggistica.
Deve infatti
essere
innanzitutto ribadito il principio che la sussistenza dei
requisiti per disporre la
misura cautelare reale di cui all'art. 321, comma 1 c.p.p.,
non può mai essere
presunta, né in relazione al fumus delicti, né quanto al
periculum in mora,
dovendo l'autorità giudiziaria fornire motivata ragione del
vincolo reale apposto,
quanto alla sussistenza degli indici di reato e delle
esigenze cautelari, ossia del
pericolo, concreto ed attuale, che la libera disponibilità
della cosa pertinente al
reato posta in sequestro possa aggravare o protrarre le
conseguenze di esso.
4. La giurisprudenza di legittimità più recente ha fornito,
del resto, essenziali
indicazioni in questa ottica proprio in riferimento ai reati
paesaggistici: è stato
sottolineato che la mera esistenza di una struttura abusiva
ultimata "non integra
i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in
assenza di ulteriori
elementi idonei a dimostrare che la disponibilità della
stessa, da parte del
soggetto indagato o di terzi, possa implicare una effettiva
lesione dell'ambiente e
del paesaggio" (sez. 3, n. 48958 del 13/10/2015, Giordano, Rv. 266011; Sez.
3, n. 40486 del 27/10/2010, Pm in proc. Petrina e altro, Rv.
248701, che ha
precisato che "l'esclusione dell'idoneità dell'uso della
cosa a deteriorare
ulteriormente l'ecosistema, protetto dal vincolo, deve
formare oggetto di un
esame particolarmente approfondito"; principio di recente
ribadito da Sez. 3, n.
35456 del 24/08/2016, Forino, non mass.)
5. Va pertanto riaffermato il principio che per valutare il
periculum in mora il
giudice consideri non solo l'entità delle opere realizzate,
ma l'incidenza delle
stesse nelle diverse matrici ambientali ovvero il loro
impatto nelle zone oggetto
di particolare tutela paesaggistica-ambientale.
E' infatti
assodato che rientrano,
ad esempio, nelle aree tutelate paesaggisticamente, ai sensi
dell'art. 142, c. 1,
lett. f), del d.lgs. n. 42/2004, le aree naturali protette
(SIC e ZPS).
L'elenco dei
beni così tutelati per legge, in forza della citata
disposizione normativa,
comprende poi:
a) i territori costieri compresi in una
fascia della profondità di
300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni
elevati sul mare;
b) i
territori con-termini ai laghi compresi in una fascia della
profondità di 300
metri dalla linea di battigia, anche per i territori elevati
sui laghi;
c) i fiumi, i
torrenti, i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti
dal testo unico delle
disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici,
approvato con R.D. 11/12/1933, n. 1775, e le relative sponde
o piedi degli argini per una fascia di
150 metri ciascuna;
d) le montagne per la parte eccedente
1.600 metri sul
livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul
livello del mare per la
catena appenninica e per le isole;
e) i ghiacciai e i circhi
glaciali;
f) i parchi e le
riserve nazionali o regionali, nonché i territori di
protezione esterna dei parchi;
g) i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché
percorsi o danneggiati
dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento,
come definiti
dall'articolo 2, commi 2 e 6, del d.lgs. 18/05/2001, n. 227;
h) le aree
assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi
civici;
i) le zone
umide incluse nell'elenco previsto dal D.P.R. 13/03/1976, n.
448;
l) i vulcani;
m)
le zone di interesse archeologico.
6. Risulta con ciò evidente che l'ambito di tutela del d.lgs.
n. 42 del 2004 ha delle
peculiarità di carattere esclusivamente "nazionale",
rispetto alla normativa del
c.d. Codice dell'ambiente ed alla legislazione di tutela
dell'ambiente (anche
mediante lo strumento del diritto penale), la quale
costituisce attuazione della
normativa europea - come del resto espressamente indicato
nella sentenza della
Corte di Giustizia del 06.03.2014 (causa C- 206/13),
che
ha escluso la
riconducibilità della legge italiana di protezione del
paesaggio all'ambito della
disciplina comunitaria afferente l'ambiente.
La legge
menzionata, infatti, tutela
sia il paesaggio in senso stretto, che l'ecosistema: si può
infatti ravvisare un
profilo di stretta tutela ambientale anche in riferimento
alle zone sottoposte a
vincolo c.d. paesaggistico, tutte le volte in cui si sia
verificata un'incidenza
dell'intervento edilizio, o di trasformazione del
territorio, sui beni sopraindicati
(quale conseguenza, ad esempio, del consumo del suolo,
dell'invasione dei
perimetri fluviali e dell'erosione delle zone costiere e
delle sempre più limitate
aree boschive).
Tale incidenza deve avere rilievo non solo
quando si sia
verificato un evento di danno, ossia un nocumento, una
lesione effettiva del
bene sottoposto a vincolo paesaggistico, ma anche nel caso
di cui ne derivi un
nocumento potenziale, considerata la situazione fattuale
concreta, come
accertata, ovvero come risultante allo stato delle indagini
nel caso in cui la
verifica debba essere operata in sede cautelare.
7. Quanto rilevato comporta, di per sé, l'annullamento
dell'ordinanza impugnata,
risultando la stessa non fornita di motivazione specifica
sulla valutazione circa il
permanere della lesività della struttura abusiva già
completata, sotto il profilo,
quanto meno, del pericolo concreto per il paesaggio e/o
ecosistema, ossia
quanto ad incidenza nel paesaggio, ovvero nell'ecosistema
specifico della zona
sottoposta a tutela paesaggistica.
8. A tale proposito, va evidenziato che un giudizio di
sussistenza del periculum in
mora non può essere ancorato, in via semplicistica, al
mancato completamento
dell'intervento edilizio o di trasformazione del territorio,
e quindi all'incidenza
dell'opera nel paesaggio, inteso come forma visibile del
territorio, ma deve
piuttosto essere considerata la "compronnissione
ambientale", in relazione alle
matrici ambientali interessate ed alle specifiche aree
tutelate, compromissione
che potrebbe essere ritenuta comunque sussistente non solo
nel caso di opera
già realizzata, ma anche nel caso di interventi edilizi di
minore consistenza, i
quali, qualora non superino le soglie volumetriche indicate
non risultano più
inclusi nella più grave ipotesi delittuosa di cui all'art.
181, comma 1-bis, proprio
in virtù del pronunciamento del Giudice delle leggi n. 56
del 2016.
Il rilievo
conferma il principio che le nozioni di stretta pertinenza
della disciplina edilizia ed
urbanistica (quali "superficie utile" o "volumetria
realizzata", e quindi "carico
urbanistico") non possono connotare, per ciò solo, anche il
giudizio sui requisiti
del periculum in mora, afferente la compromissione
ambientale e paesaggistica.
Di conseguenza, l'ordinanza impugnata deve essere annullata
con rinvio al
Tribunale di Salerno per nuovo esame sul punto. |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: La
domanda di partecipazione telematica deve lasciare traccia.
La domanda di partecipazione telematica a un concorso
pubblico non può essere cancellata dal sistema senza
lasciare tracce, in quanto si tratta di una informazione che
va protocollata e conservata.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, con la
sentenza
25.11.2016 n. 11786.
I giudici capitolini hanno dato
l'altolà ai meccanismi selettivi che dispongono esclusioni
de facto riconducibili a mere anomalie informatiche. In
particolare quando l'interessato manifesti l'intenzione di
prendere parte alla competizione con le tradizionali (e
probabilmente più sicure) modalità cartacee, invocando il
soccorso istruttorio.
La vicenda aveva preso le mosse da una candidatura online
riguardante l'insegnamento. La richiesta era stata inoltrata
attraverso la piattaforma informatica del ministero
dell'istruzione. All'esito della comunicazione delle date
delle prove scritte, la malcapitata risultava esclusa
dall'elenco degli ammessi.
A seguito dei chiarimenti richiesti, parte ricorrente
apprendeva che, avendo operato talune modifiche sulla
domanda di partecipazione inoltrata on-line, il sistema
informativo aveva proceduto a «cancellare» la domanda in
automatico, senza che della stessa restasse nemmeno l'ombra.
Il collegio ha affermato in primo luogo che la
«cancellazione» informatica di una domanda di partecipazione
al concorso senza che a ciò corrisponda una precisa volontà
in tal senso e senza che rimanga alcun segno documentale
dell'accaduto costituisce un comportamento antigiuridico
sulla base delle vigenti disposizioni normative in materia.
Infatti ciò esprime l'erronea progettazione del sistema di
gestione documentale dell'amministrazione, sviluppato senza
tener conto dei principi del codice dell'amministrazione
digitale, del codice in materia di trattamento dei dati
personali oltre che della legge sul procedimento
amministrativo.
In secondo luogo è stato sottolineato che la domanda di
concorso deve considerarsi un vero e proprio documento
informatico e tali devono essere ritenute anche le eventuali
richieste di «cancellazione».
In terzo luogo l'amministrazione, anche con riferimento ai
procedimenti telematizzati, deve ritenersi onerata di
custodire «i documenti informatici con modalità tali da
ridurre al minimo i rischi di distruzione, perdita, accesso
non autorizzato o non consentito o non conforme alla
finalità della raccolta»
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
- Ritenuto:
- che, ad avviso del Collegio,
la “cancellazione” informatica di una domanda di
partecipazione al concorso senza che a ciò corrisponda una
precisa volontà in tal senso e senza che peraltro sia data
traccia a Sistema dei relativi passaggi costituisca
comportamento antigiuridico sulla base delle vigenti
disposizioni normative in materia e che, evidentemente, non
possa imputarsi a parte ricorrente l’erronea progettazione
del Sistema di gestione documentale dell’amministrazione,
sviluppato senza tener conto dei principi del Codice
dell’amministrazione digitale, del Codice in materia di
trattamento dei dati personali oltre che della legge sul
procedimento amministrativo;
- che, invero,
la domanda di partecipazione deve considerarsi un vero e
proprio documento informatico e tali devono essere ritenute
anche le eventuali domande di “cancellazione”, le cui
informazioni devono essere debitamente protocollate e
conservate
(cfr. D.p.c.m. 03.12.2013 e 13.11.2014);
- che, infatti,
l’amministrazione anche con riferimento ai procedimenti
telematizzati –così come per quelli tradizionali, in forma
cartacea- deve ritenersi onerata, ai sensi dell’art. 51 del
d.lgs. n. 82/2005, di custodire "i documenti informatici
(...) con modalità tali da ridurre al minimo i rischi di
distruzione, perdita, accesso non autorizzato o non
consentito o non conforme alla finalità della raccolta”,
e ciò senza neppure volere considerare le conseguenze di cui
all’art. 490 del Codice Penale (cd. “falso per
distruzione”, laddove la lesione o messa in pericolo
dell'interesse tutelato si realizza quando l'eliminazione di
un documento, non riproducibile nella stessa forma, natura o
condizione, fa venir meno la prova di un determinato
accadimento o di una particolare situazione che il contenuto
del documento stesso tendeva a rappresentare);
- che, peraltro,
anche il Codice in materia di protezione dei dati personali,
D.Lgs. 30/06/2003, n. 196 impone espressamente
all’amministrazione l’onere di rendere disponibili
all’interessato tutti i dati trattati con modalità
telematica, ivi inclusa quindi l’eventuale domanda di
cancellazione): ed
invero, l’Art. 31 (Obblighi di sicurezza) prescrive che “I
dati personali oggetto di trattamento sono custoditi e
controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in
base al progresso tecnico, alla natura dei dati e alle
specifiche caratteristiche del trattamento, in modo da
ridurre al minimo, mediante l'adozione di idonee e
preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o
perdita, anche accidentale, dei dati stessi, di accesso non
autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme
alle finalità della raccolta”;
- che certamente
le falle del sistema che non hanno consentito la
conservazione di tali documenti e informazioni non possono
essere addebitate a parte ricorrente, in quanto ciò viola
pesantemente il principio di affidamento;
- che, in considerazione di quanto evidenziato, il Collegio
può prescindere dal disporre una costosa consulenza tecnica
sul Sistema Informativo del MIUR, potendosi nel caso
specifico ritenere addirittura confermato dalla guida alla
compilazione della domanda on-line (pag. 27, punto 4.3) che
dalle modifiche apportate sia conseguita una cancellazione “involontaria”
della domanda di parte ricorrente, che avrebbe invero dovuto
essere conservata a sistema unitamente alla documentazione
informatica comprovante le modifiche successivamente
apportate;
- che, a maggior ragione
quando parte ricorrente -vistasi ingiustificatamente esclusa
dalla partecipazione al concorso- si faccia tempestivamente
parte diligente, manifestando la volontà di partecipare alle
prove con le tradizionali modalità cartacee, non può non
addebitarsi all’amministrazione l’omessa attivazione del
c.d. “dovere di soccorso”, che nel caso in esame
poteva consentire a parte ricorrente di essere ammessa alle
prove, quantomeno con riserva dei successivi approfondimenti
tecnici;
- che, in tal senso, si è di recente espresso anche il Tar
Puglia, secondo cui “nel caso di specie,
si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento di
esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna
motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica
Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia
correttamente esternato le relative determinazioni
provvedimentali
potendosi inoltre rinviare alle motivazioni espresse dallo
specifico precedente conforme di questa sezione del
27.06.2016, n. 806/2016, con cui
si è evidenziata la manifesta irragionevolezza, ingiustizia
ed irrazionalità di un sistema di presentazione delle
domande di partecipazione ad un concorso che, a causa di
meri malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare
impersonalmente attività amministrativa sostanziale,
disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie
informatiche”
e che “pro futuro ed in un’ottica
conformativa del potere, l’Amministrazione debba
predisporre, unitamente a strumenti telematici di
semplificazione dei flussi documentali in caso di procedure
concorsuali di massa, altresì procedure amministrative
parallele di tipo tradizionale ed attivabili in via di
emergenza, in caso di non corretto funzionamento dei sistemi
informatici predisposti per il fisiologico inoltro della
domanda” (cfr.
Tar Puglia, Bari, n. 896/2016); |
APPALTI: Lecita
la seduta riservata per aprire l'offerta tecnica.
Aggiudicazioni con aste telematiche.
Non è obbligatorio aprire le offerte tecniche in seduta
pubblica quando l'appalto viene aggiudicato con asta
elettronica.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato -Sez. III- con la
sentenza 25.11.2016 n. 4990 rispetto a una gara che si è
svolta, vigente il vecchio codice dei contratti pubblici,
attraverso la piattaforma telematica regionale Sintel. Nel
ricorso, respinto dai giudici, si eccepiva che l'apertura
delle offerte tecniche non fosse avvenuta in seduta
pubblica.
Il collegio ha affermato che trattandosi di procedura
telematica era rimesso alla scelta della stazione appaltante
di effettuare in seduta riservata la valutazione delle
offerte in conformità al criterio di aggiudicazione
prescelto, come consente l'art. 85, comma 7, del dlgs 163
del 2006. Il disciplinare di gara (paragrafo «modalità di
svolgimento della gara») a tal proposito disponeva due
sedute pubbliche: una per l'apertura della documentazione
amministrativa; la seconda per l'apertura dell'offerta
economica e la proclamazione dell'aggiudicatario.
In difetto di altra previsione, la sentenza afferma che deve
ritenersi che la stazione appaltante abbia scelto di aprire
le offerte tecniche in seduta riservata, opzione che le era
consentita. Le preoccupazioni del ricorrente vengono in
qualche modo smontate dalla pronuncia laddove precisa che la
gestione telematica della gara offre il vantaggio di una
maggiore sicurezza nella «conservazione» dell'integrità
delle offerte in quanto permette automaticamente l'apertura
delle buste in esito alla conclusione della fase precedente
e garantisce l'immodificabilità delle stesse, nonché la
tracciabilità di ogni operazione compiuta.
Quindi, nessun
rischio di «inquinamento» anche perché nessuno degli
addetti alla gestione della gara può accedere ai documenti
dei partecipanti fino alla data ed all'ora di seduta della
gara, specificata in fase di creazione della procedura. Le
stesse caratteristiche della gara telematica escludono in
radice e oggettivamente la possibilità di modifica delle
offerte.
Nel nuovo codice dei contratti la materia è trattata
all'articolo 56, comma 5, ma è saltato il riferimento alla «seduta
riservata» per la «valutazione completa delle offerte»,
presente nella precedente norma
(articolo ItaliaOggi del 02.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
2. – Infondato è anche il secondo motivo di appello.
Nella procedura telematica non è necessaria una seduta
pubblica per l’apertura delle offerte tecniche.
La gara si è svolta attraverso la piattaforma telematica
regionale Sintel e trattandosi di procedura telematica era
rimesso alla scelta della stazione appaltante di effettuare
in seduta riservata la valutazione delle offerte in
conformità al criterio di aggiudicazione prescelto, come
consente l’art. 85, comma 7, del D.lgs. 163 del 2006.
Il disciplinare di gara (paragrafo “modalità di
svolgimento della gara”) a tal proposito disponeva due
sedute pubbliche: una per l’apertura della documentazione
amministrativa; la seconda per l’apertura dell’offerta
economica e la proclamazione dell’aggiudicatario.
In difetto di altra previsione, deve ritenersi che la
stazione appaltante abbia scelto di aprire le offerte
tecniche in seduta riservata, opzione che le era consentita.
La gestione telematica della gara offre il vantaggio di una
maggiore sicurezza nella “conservazione”
dell’integrità delle offerte in quanto permette
automaticamente l’apertura delle buste in esito alla
conclusione della fase precedente e garantisce l’immodificabilità
delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione
compiuta; inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della
gara potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla
data ed all'ora di seduta della gara, specificata in fase di
creazione della procedura.
Le stesse caratteristiche della gara telematica escludono in
radice ed oggettivamente la possibilità di modifica delle
offerte
(C.d.S. V sez., 5377 del 29.10.2014; sez. III, n. 4050 del
03.10.2016). |
APPALTI:
Il procedimento di verifica dell'anomalia
dell'offerta non mira ad individuare specifiche e singole
inesattezze nella sua formulazione, ma piuttosto ad
accertare in concreto che l'offerta economica risulti nel
suo complesso attendibile in relazione alla corretta
esecuzione dell'appalto.
Peraltro, il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni
compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte è
circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica
erroneità o irragionevolezza, in considerazione della
discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali
riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio
margine di apprezzamento.
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E' inammissibile la contestazione della valutazione operata
dalla Commissione di gara, volta a sollecitare l'esercizio
di un sindacato di merito sulle valutazioni
tecnico-discrezionali riservate dalla legge all’organo
amministrativo in sede di attribuzione del punteggio alle
offerte tecniche, salvo che non siano manifestamente
illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero
fondate su di un palese e manifesto travisamento dei fatti.
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1. - L’appello è infondato.
1.1. – Infondato è il primo motivo.
Il diverso importo dell’offerta indicato solo a pag. 4 dei
giustificativi presentati da Tecnologie Sanitarie non
avrebbe potuto determinare alcuna incertezza o
indeterminatezza dell’offerta economica: difatti, si tratta
di mera svista, come è reso evidente dalla circostanza che
l’importo indicato a pag. 5 -riepilogo delle voci di costo
giustificate -corrisponde esattamente all’importo indicato
nell’apposito modulo dell’offerta.
Né l’errore, evidentemente materiale, avrebbe dovuto indurre
la stazione appaltante a maggiore severità nella valutazione
dell’offerta, o a disporre approfondimento istruttorio,
perché non si tratta di “rimodulazione dell’offerta”.
In particolare, non vengono evidenziati profili di
illogicità o errori di fatto macroscopici ed evidenti nel
giudizio di congruità formulato dalla Commissione in esito
alla verifica di anomalia, neppure per le voci “costo del
personale” e “servizi aggiuntivi”.
A tal proposito, va ricordato che il procedimento di
verifica dell'anomalia dell'offerta non mira ad individuare
specifiche e singole inesattezze nella sua formulazione, ma
piuttosto ad accertare in concreto che l'offerta economica
risulti nel suo complesso attendibile in relazione alla
corretta esecuzione dell'appalto (Consiglio di Stato, sez.
V, 31/08/2016, n. 3752).
Peraltro, il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni
compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte è
circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica
erroneità o irragionevolezza, in considerazione della
discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali
riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio
margine di apprezzamento (Consiglio di Stato, A.P.
29/11/2012, n. 36; sez. V, 13/09/2016, n. 3855 e 13/06/2016,
n. 2524).
3. – Infondato è il terzo motivo di appello.
L’appellante ha sollevato censure riguardanti il merito
tecnico degli apprezzamenti discrezionali svolti dalla
Commissione che mirano a sostituire quelle valutazioni della
Commissione con diverse valutazioni svolte dalla stessa
appellante.
Si tratta di inammissibile contestazione della valutazione
operata dalla Commissione di gara, volta a sollecitare
l'esercizio di un sindacato di merito sulle valutazioni
tecnico-discrezionali riservate dalla legge all’organo
amministrativo in sede di attribuzione del punteggio alle
offerte tecniche, salvo che non siano manifestamente
illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero
fondate su di un palese e manifesto travisamento dei fatti
(Consiglio di Stato, sez. V, 25/06/2014, n. 3223).
Le doglianze dell’appellante non evidenziano illogicità o
travisamenti dei fatti tali da far ritenere ammissibile la
contestazione, anche perché ove, per qualche profilo,
potesse accedersi alla tesi dell’appellante di arbitrarietà
della valutazione, rimarrebbe comunque indimostrato
l’interesse (l’offerta tecnica dell’aggiudicataria ha
conseguito un punteggio tale, nel confronto a coppie, che
non sarebbe agevole all’appellante dimostrare la possibilità
dell’aggiudicazione in proprio favore) (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 25.11.2016 n. 4990
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
Consulta non ha salvato i furbetti del cartellino.
Non è corretto affermare che la sentenza della Corte
costituzionale di bocciatura di parte della riforma Madia
salva i furbetti del cartellino e impedisce il rinnovo dei
contratti del pubblico impiego.
A seguito della
sentenza 25.11.2016 n. 251, il governo ha sostenuto
che l'effetto della decisione della Consulta sarebbe quello
di vanificare il dlgs 116/2016 anti furbetti, i quali se
coinvolti in un procedimento disciplinare per il
licenziamento potranno chiedere alla Consulta la pronuncia
di incostituzionalità e farla franca.
La tesi come proposta non è accoglibile. C'è, in primo
luogo, da osservare che i furbetti del cartellino potevano
essere licenziati già prima, con le vecchie disposizioni del
dlgs 165/2001. La prova di ciò è data da quanto accaduto al
comune di Sanremo, le cui vicende hanno dato il la alla
riforma: il comune ligure ha licenziato decine di dipendenti
infedeli, applicando la vecchia normativa e non quella
derivante dalla legge Madia.
In secondo luogo, non è affatto da dare per scontato che il
ricorso alla Consulta contro il dlgs 116/2016 possa aver
successo. Infatti, nel caso della regolamentazione del
licenziamento disciplinare non pare affatto emergano potestà
legislative regionali inestricabilmente legate alla potestà
legislativa statale e, dunque, meritevoli dell'intesa
obbligatoria in sede di Conferenza Stato regioni: infatti,
il licenziamento disciplinare attiene alla materia del
lavoro privatizzato, rientrante nella potestà legislativa
esclusiva dello stato.
La sentenza della Consulta 251/2016, in secondo luogo, non
ha visibilmente alcun riflesso sulla contrattazione
collettiva.
La contrattazione nazionale collettiva, sempre perché è
esplicazione della potestà dello Stato quale datore di
diritto privato, non ha alcuna connessione, né diretta, né
indiretta, con potestà legislative concorrenti delle
regioni. Il ministro della pubblica amministrazione Marianna
Madia ha evidenziato che per la parte normativa del
contratto collettivo, però, potrebbero porsi problemi,
perché con essa si vorrebbe in qualche misura modificare la
riforma-Brunetta: ma, potrebbero esservi interferenze con
l'autonomia organizzativa delle regioni.
Si tratta di un'argomentazione che va fuori bersaglio. In
primo luogo, perché nulla impone di stipulare un contratto
collettivo che si interessi di istituti normativi tali da
modificare l'assetto vigente delle leggi. In secondo luogo,
le modifiche normative presupporrebbero comunque che prima
si modifichi il dlgs 165/2001, come prevede l'articolo 17
della legge 124/2015 e poi, solo poi, col contratto
nazionale collettivo si disciplinino istituti normativi
modificando le regole imposte dalla riforma Brunetta nel
2009.
Dunque, a questo scopo occorre comunque attendere la riforma
complessiva del pubblico impiego, non intaccata in nessuna
sua parte dalla sentenza 251/2016, anche perché non è
nemmeno stato avviato ancora il suo iter
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2016). |
APPALTI: Bocciati
i «vecchi» collegi arbitrali. Appalti. La Consulta boccia i
limiti in vigore tra il 2010 e la riforma del Codice del
2016.
Sono illegittime le incompatibilità
rimaste in vigore tra il 2010 e il 2016 per il presidente
del collegio arbitrale in materia di appalti.
Lo ha stabilito la
Corte costituzionale con la sentenza 25.11.2016 n. 250,
che ha bocciato la «razionalizzazione» dell’istituto operata
attraverso la legge Comunitaria per il 2008.
Nell'esecuzione di quella delega -che recepiva la direttiva
2007/66/Ce- il legislatore secondo la Consulta è andato un
po’ oltre (dlgs 53 del 2010), fissando un’incompatibilità
per il presidente -e relativa nullità dell’eventuale lodo
emesso- non prevista dal delegante.
La parte censurata dal giudice delle leggi, all’articolo
241, comma 5, del Codice appalti del 2006, è quella in cui si
stabilisce che il presidente del collegio arbitrale nelle
controversie su appalti pubblici è scelto «comunque tra
coloro che nell’ultimo triennio non hanno esercitato le
funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi
arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad eccezione
delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca
adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente
pubblico».
Questa patente di “terzietà" quantomeno formale,
secondo la Consulta, è del tutto arbitraria perché viola il
meccanismo della delega legislativa prevista dalla
Costituzione (articolo 76) .
Il caso, rimesso alla Corte costituzionale dallo stesso
Collegio arbitrale di Roma coinvolto nella questione,
riguardava un appalto affidato ben 20 anni dal ministero dei
Trasporti a una spa, arrivato all’arbitrato 11 anni più
tardi e dopo l’entrata in vigore del Codice appalti del 2006
ma con la costituzione del collegio terminata solo nel 2012,
quindi con le norme limitative introdotte nel 2010.
Riconosciuta in prima battuta la legittimazione degli
arbitri a sollevare direttamente il quesito costituzionale,
la Corte ha poi subito rilevato l’eccesso di delega
nell’articolo contestato, poiché nella norma originaria non
c’era alcun accenno alle incompatibilità -ma solo il
vincolo di implementare l’efficacia delle procedure di
ricorso nella materia degli appalti.
L'unico criterio che
avrebbe permesso al legislatore delegato di introdurre la
norma censurata, scrive il relatore, sarebbe stato appunto
«dettare disposizioni razionalizzatrici dell’arbitrato»
(articolo 44, comma 3, lettera , della legge n. 88 del
2009), valide per tutti i collegi, e non solo per quelli del
codice appalti.
La Corte ha risolto il quesito nonostante la norma
contestata sia stata abrogata dal nuovo Codice degli appalti
(dlgs 50/2016) perché lo ius superveniens non ha in questo
caso efficacia retroattiva (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti,
cambia formazione degli arbitrati.
Illegittima costituzionalmente la previsione che il
presidente dei collegi arbitrali degli appalti siano scelti
tra coloro che nell'ultimo triennio non hanno esercitato le
funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi
arbitrali, ad eccezione delle ipotesi in cui l'esercizio
della difesa costituisca adempimento di dovere d'ufficio del
difensore dipendente pubblico a pena di nullità del lodo.
La Corte costituzionale, con la sentenza 25.11.2016 n. 250
ha considerato illegittimo l'articolo 241, comma 5, del dlgs
163/2006, come modificato dal dlgs 53/2010, mandando in
soffitta quindi i criteri di nomina e composizione degli
arbitrati.
La sentenza, comunque, vale solo per gli
arbitrati nati sotto il regime del «vecchio» codice dei
contratti, ma non ha effetto per il futuro. È la stessa
Corte costituzionale a spiegare che l'articolo 241, comma 5,
del dlgs 163/2006 è stato abrogato dall'articolo 217, comma
1, lettera e), del sopravvenuto decreto legislativo 50/2016,
a decorrere dal 19.04.2016 e che l'articolo 209, commi
4, 6 e 7, del nuovo codice dei contratti normativo «ha
introdotto una nuova disciplina delle modalità della nomina,
dei requisiti degli arbitri e degli effetti conseguenti alla
mancanza degli stessi».
Tuttavia, la questione esaminata
dalla Consulta risulta rilevante perché «l'intervenuta
abrogazione e la nuova regolamentazione del profilo in esame
non assumono tuttavia rilievo, atteso che lo jus
superveniens, privo di efficacia retroattiva, non può venire
in evidenza nel giudizio principale, che continua a essere
disciplinato dal citato art. 241, comma 5. In particolare,
non influisce sul vizio (avente carattere preliminare
rispetto agli altri denunciati dal rimettente) di difetto di
delega»
(articolo ItaliaOggi del 26.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti
pubblici e privati – Direttiva 2011/92/UE – Progetto
sottoposto alla valutazione – Allegato I, punto 7 – Accordo
europeo sulle grandi strade a traffico internazionale (AGR)
– Ampliamento di una strada a quattro corsie su una
lunghezza di meno di 10 km.
---------------
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte
sull’interpretazione della direttiva 2011/92/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 13.12.2011,
concernente la valutazione dell’impatto ambientale di
determinati progetti pubblici e privati (GU 2012, L 26, pag.
1).
2. Tale domanda è stata introdotta nell’ambito di una
controversia tra il Bund Naturschutz in Bayern eV e il sig.
Harald Wilde, da una parte, e il Freistaat Bayern (Land
della Baviera, Germania), dall’altra, in merito alla
legittimità della decisione presa da quest’ultimo di
approvare il riassetto di determinate parti di una strada
situata nel territorio della Stadt Nürnberg (città di
Norimberga, Germania), senza aver effettuato una valutazione
dell’impatto ambientale di tale riassetto.
...
Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara:
1) L’allegato I, punto 7, lettera c), della
direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 13.12.2011, concernente la valutazione dell’impatto
ambientale di determinati progetti pubblici e privati, non
può essere interpretato nel senso che tale disposizione si
applica ad un progetto di riassetto viario che, pur
riferendosi, come nel procedimento principale, ad un tratto
di lunghezza inferiore a 10 km, consiste invero in un
allargamento o in un riassetto di una strada preesistente a
quattro o più corsie.
2) L’allegato I, punto 7, lettera b), della
direttiva 2011/92 deve essere interpretato nel senso che le
«vie di rapida comunicazione», ai sensi di tale
disposizione, sono le strade le cui caratteristiche tecniche
sono quelle contenute nella definizione di cui all’allegato
II, punto II.3, dell’accordo europeo sulle grandi strade a
traffico internazionale (AGR), concluso a Ginevra il
15.11.1975, anche qualora tali strade non facciano parte
della rete di grandi strade di traffico internazionale
disciplinata da tale accordo o siano situate in zona urbana.
3) La nozione di «costruzione», ai sensi
dell’allegato I, punto 7, lettera b), della direttiva
2011/92, deve essere interpretata nel senso che si riferisce
alla realizzazione di opere prima inesistenti oppure alla
modifica, in senso fisico, di opere preesistenti. Nel
valutare se una siffatta modifica possa essere considerata
equivalente, per portata e modalità, a detta costruzione,
spetta al giudice del rinvio tener conto dell’insieme delle
caratteristiche dell’opera interessata, e non soltanto della
sua lunghezza o del mantenimento del suo tracciato iniziale
(Corte di Giustizia UE, Sez. VI,
sentenza 24.11.2016 C-645/15). |
TRIBUTI: Pec,
non è valida nelle liti tributarie.
Ordinanza della cassazione sull'invio elettronico.
Notifiche a mezzo Pec, posta elettronica certificata, ancora
invalide.
Con l'ordinanza
23.11.2016 n. 23904 la Corte di Cassazione -Sez.
VI civile- ha dato
seguito al principio già espresso nella precedente ordinanza
n. 17941 del 2016 secondo la quale nemmeno l'art. 3-bis,
legge n. 53/1994 (che dal 2014 autorizza gli avvocati a
notificare atti processuali a mezzo Pec) legittimerebbe
l'utilizzo della posta certificata nelle liti tributarie.
Le ragioni che fondano tali pronunce sono sostanzialmente
quattro:
(i) l'art. 16, c. 4, dpr 68/2005 esclude il
processo tributario dall'applicazione del regolamento sulle
Pec;
(ii) l'art. 3-bis, legge n. 53/1994 è inapplicabile
alla materia tributaria, perché è prevista soltanto «in
materia civile, amministrativa e stragiudiziale»;
(iii) il
Ptt (processo telematico tributario) è operativo (dal 2015)
solo in Umbria e Toscana;
(iv) le notifiche a mezzo Pec
degli avvocati non sono applicabili al processo tributario
nemmeno se si volessero accentuare i suoi caratteri
«amministrativi» e lo si guardasse perciò come processo su
un atto amministrativo, poiché neppure nel processo
amministrativo sarebbe ammessa la notifica a mezzo Pec di
cui all'art. 3-bis, legge n. 53/1994.
Sennonché nessuna delle suddette argomentazioni appare
coerente con il diritto positivo e lo sviluppo normativo
avvenuto negli ultimi anni.
L'art. 16, c. 4, dpr 68/2005, infatti, è norma in gran parte
superata dallo sviluppo della normativa settoriale: basti
pensare che l'esclusione ivi prevista comprende anche il
processo civile e quello amministrativo.
Quanto alla presunta inapplicabilità al processo tributario
della legge n. 53/1994, invece, sono innumerevoli i
precedenti della stessa Corte di cassazione contrari
all'ordinanza n. 17941 (cfr. Cass. nn. 6811/2011, 1089/2013,
18385/2013, 3078/2014, 9310/2014, 22204/2014, 5058/2015),
tanto che si potrebbe parlare di vero e proprio diritto
vivente e di vincolatività per l'interprete (C. cost.
266/2006).
Una pur legittima modifica giurisprudenziale, pertanto, non
potrebbe avvenire con lo strumento della semplice ordinanza
e dovrebbe comunque passare dal vaglio delle sezioni unite
ex art. 374 c.p.c. con tutto ciò che ne consegue anche in
materia di overruling (applicazione solo pro futuro dei
principi innovativi giurisprudenziali).
Anche il richiamo alla sperimentazione del Ptt soltanto in
Umbria e Toscana non pare argomento conferente: le notifiche
a mezzo Pec, infatti, hanno vita propria indipendente dal
Ptt, come dimostra il fatto che tale strumento è ormai
generalmente utilizzato dalle segreterie da tutte le
commissioni tributarie per le loro comunicazioni.
Analoghe considerazioni, infine, valgono pure con
riferimento al processo amministrativo, giacché anche in
tale ambito è consolidato l'orientamento che, pur in assenza
di norme specifiche, riconosce la validità delle notifiche
degli avvocati a mezzo Pec ex art. 3-bis, legge n. 53/1994
(si veda Cds 91/2016, 4570/2015, Cds 2682/2015, Tar Napoli
4083/2016, Tar Roma 8625/2016, Tar Lecce 1106/2016, Tar
l'Aquila 248/2016, Tar Firenze 612/2016, Tar Trieste
253/2016, Tar Brescia, 514/2015)
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Compensi alti solo per onorari dettagliati.
La Cassazione: non vanno presentate note spese succinte.
Niente alto compenso per l'avvocato che presenta una
domanda per la liquidazione dei propri onorari dal contenuto succinto:
è quanto hanno affermato i giudici della Corte di Cassazione -Sez. II
civile- nella
sentenza 23.11.2016 n. 23897.
Il caso sul quale sono stati chiamati a intervenire aveva a oggetto il
ricorso proposto da un legale per la cassazione dell'ordinanza con la quale
la corte di merito aveva provveduto a ridurne il corrispettivo: l'originaria
pretesa richiesta era stata, infatti, qualificata come elevatissima rispetto
all'opera prestata nell'interesse della propria assistita, visto che le
attività difensive espletate non erano state particolarmente impegnative e
anche l'oggetto del giudizio al quale aveva partecipato come professionista
di parte (una divisione ereditaria) «non presentava particolari questioni».
A parere della II Sez. civile, rispetto alle censure avanzate soprattutto
sulla «scarsa chiarezza» del criterio utilizzato dal giudice del merito per
la scelta dei parametri cui fare riferimento al fine di stabilire se le
somme richieste dovessero essere vicine ai minimi o ai massimi tariffari,
sarebbe stato onere dell'avvocato dimostrare di aver fornito tutti gli
elementi sufficienti per ricavare un valore diverso e maggiore rispetto a
quello adoperato: in altre parole non ci si doveva limitare ad affermare
che, nel giudizio nel quale aveva prestato il proprio mandato, si erano
scontrati tre consulenti e che lo stesso si era svolto in quattro udienze,
senza al contempo fornire ulteriori dettagli e documentare le attività che
concretamente erano state espletate.
A ciò doveva aggiungersi, per consolidato principio, che a fronte della
propria richiesta il libero professionista avrebbe dovuto altresì indicare
le singole voci della tariffa, per diritti e onorari, risultanti nella nota
spese, in ordine alle quali il giudice sarebbe incorso in errore.
Così argomentando ha quindi rigettato il ricorso e condannato la ricorrente
alle spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’intervista
«sospende» il concorso.
Scuola. Il Tar di Milano applica in modo innovativo ai
commissari la norma che impone di astenersi da procedure che
toccano interessi propri.
I commissari d’esame
non possono esprimersi sull’utilità del concorso in cui sono
coinvolti: questo è il principio adottato dal TAR Lombardia-Milano
(Sez. III,
ordinanza 23.11.2016 n. 1486) che sospende in
Lombardia il concorso per docenti di composizione musicale
(classe di concorso A64) previsto dalla legge 107 del 2015.
Il presidente della commissione esaminatrice aveva espresso,
su un quotidiano nazionale, disagio e dubbi sull’opportunità
di esaminare nuovi docenti da immettere poi in un tessuto
specialistico quale quello dei licei musicali. In tali
scuole medie superiori infatti, da anni vi sono docenti che
dovrebbero cedere il passo ai vincitori di concorso,
generando gravi effetti sulla continuità didattica per
l’improvvisa e radicale sostituzione della maggioranza degli
insegnanti in servizio.
I disagi conseguenti all’allontanamento di insegnanti
esperti, sostituiti con i pur meritevoli colleghi giudicati
idonei per gli insegnamenti musicali, è stato letto dai
candidati alle prove d’esame come sintomo di possibile
ostilità nei confronti degli esaminandi: potrebbe esserci
un’eccessiva severità, perché la commissione è
potenzialmente orientata a mantenere lo status quo, negando
le idoneità e garantendo continuità insegnanti già presenti.
Questo rischio di avversione verso i vincitori di concorso,
seppur motivata dall’interesse generale alla continuità
didattica, è stato ritenuto incompatibile con l’imparzialità
che va richiesta ai componenti di commissioni d’esame. Quindi,
il ricorso al Tar di alcuni candidati, che hanno chiesto di
eliminare i dubbi sull’imparzialità della commissione
giudicatrice, è stato accolto in via di urgenza, facendo
leva sul contenuto di un’intervista a un quotidiano
nazionale che lasciava trasparire il venir meno del
necessario equilibrio di giudizio. Anche se le critiche
espresse dal commissario erano indirizzate verso il sistema
scolastico in generale. Il Tar, disponendo la sospensione
del concorso e la sostituzione della commissione, ha
applicato l’articolo 7 del Dpr 62/2013, che impone ai
dipendenti pubblici di astenersi da procedure che possono
coinvolgere interessi propri o di persone abitualmente
frequentate.
Di solito, il principio è applicato per evitare favoritismi,
ma il Tar lo utilizza in modo innovativo, per garantire la
parità di trattamento e imparzialità ambientale. Il diritto
di critica, che pure è garantito al pubblico dipendente, non
può infatti generare dubbi sull’imparzialità e sul buon
andamento, facendo ipotizzare trattamenti eccessivamente
severi, seppur finalizzati a garantire risultati utili nel
medio periodo.
Ha quindi prevalso l’esigenza di serenità del concorso,
sospendendo le prove e cambiando la commissione; la
pronuncia riguarda la sola commissione d’esame milanese, sia
per la specificità delle critiche svolte dal commissario,
sia per il particolare settore (liceo musicale) oggetto di
concorso, con insegnamenti che esigono una particolare
continuità didattica (articolo Il Sole 24 Ore del 30.11.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ambiente,
il diritto alle info prevale su segreti industriali.
Il diritto di accesso alle informazioni ambientali prevale
sul segreto commerciale e industriale. In questo contesto la
nozione di «informazioni sulle emissioni nell'ambiente»
comprende la natura e gli effetti delle emissioni di un
pesticida nell'aria, nell'acqua, nel suolo o sulle piante.
Lo ha stabilito il 23 novembre scorso la corte di giustizia
dell'Unione europea con due sentenze riguardanti il diritto
di accesso ai documenti in materia ambientale (sentenza
23.11.2016 C-673/13P e
sentenza 23.11.2016 C-442/14).
Primo caso: due associazioni olandesi richiedono
alla Commissione europea l'accesso a informazioni sul glifosato, uno degli erbicidi più usati al mondo. La
Commissione autorizza l'accesso solo in parte, poiché alcuni
documenti contengono informazioni riservate (es.
composizione chimica e processo di fabbricazione). Il
Tribunale ordina l'accesso totale, ma la Commissione chiede
alla Corte di annullare tale decisione.
Secondo caso:
un'associazione olandese per la protezione delle api chiede
all'autorità olandese competente (il Ctb) informazioni sulle
autorizzazioni all'immissione in commercio di fitosanitari e
biocidi. La società titolare delle autorizzazioni (Bayer),
si oppone alla divulgazione poiché ciò violerebbe la
riservatezza delle informazioni commerciali e industriali.
Il Ctb divulga solo parte dei documenti, e la questione,
come il caso dell'erbicida, arriva alla Corte di giustizia.
Per risolvere la questione la Corte deve chiarire se la
documentazione richiesta dalle associazioni rientrano nelle
«informazioni sulle emissioni nell'ambiente». Per la
Corte la nozione include il rilascio nell'ambiente di
prodotti o sostanze, come i prodotti fitosanitari o i
biocidi o le sostanze attive contenute in tali prodotti, se
tale rilascio sia effettivo o prevedibile in condizioni
normali o realistiche di utilizzo del prodotto o della
sostanza.
In questi casi il diritto di accesso prevale. Sono invece
escluse le emissioni ipotetiche, come quelle ricavate da
studi sull'uso di quantità di prodotto ampiamente superiore
alla dose autorizzata che sarà usata in pratica
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opera edilizia in zona sismica - Preventiva
autorizzazione da parte del Genio civile - Necessità -
Nozione di "costruzione" - Controlli sul rispetto della
normativa in materia di costruzione in zone sismiche - Artt.
93, 94 e 95 D.P.R. n. 380/2001 - Fattispecie: muro di
contenimento in cemento armato.
In zona
sismica, qualsiasi realizzazione edilizia rientra nella
nozione di "costruzione", in relazione alla quale,
gli artt. 93 e 94 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
impongono, rispettivamente, la denuncia allo sportello unico
(cui deve essere allegato il progetto firmato da un tecnico
autorizzato e dal direttore dei lavori) nonché la preventiva
autorizzazione da parte del Genio civile, organo tecnico
regionale competente.
Ciò conformemente all'orientamento consolidato della
giurisprudenza di legittimità, che ha interpretato la
nozione di costruzione in maniera assai ampia,
comprendendovi qualsiasi opera, a prescindere dalle sue
caratteristiche o dimensioni, purché costituente manufatto
in muratura, in modo da consentire i dovuti controlli sul
rispetto della normativa in materia di costruzione in zone
sismiche.
In assenza della prescritta autorizzazione, si integrata la
contravvenzione contestata, considerando come del tutto
ininfluente, ai fini della commissione del reato, avente
natura istantanea, l'asserito rilascio della prescritta
autorizzazione successivamente all'esecuzione dei lavori.
Fattispecie: muro di contenimento in cemento armato della
lunghezza di circa 3,75 metri e con altezza massima pari a 3
metri.
Individuazione dei comuni e delle zone
sottoposti alla legislazione antisismica - Presunzione di
conoscenza della legislazione antisismica - Ignoranza della
legge - Casi di oggettiva impossibilità di conoscenza del
precetto - Criteri cd. soggettivi e oggettivi.
In tema
urbanistico, l'individuazione dei comuni e delle zone
sottoposti alla legislazione antisismica avviene con norme
poste da fonti normative secondarie di diritto oggettivo.
Sicché, grava sull'agente una presunzione di conoscenza
della legge, che può essere superata, secondo
l'interpretazione avallata dalla sentenza n. 364 del 1988
della Corte costituzionale, pronunciata in relazione alla
previsione dell'art. 5 cod. pen., solo nei casi di oggettiva
impossibilità di conoscenza del precetto, l'inevitabilità
dell'errore sul divieto non dovendo essere commisurata alla
stregua di criteri cd. soggettivi puri (ossia di parametri
che valutino dati influenti sulla conoscenza del precetto
esclusivamente alla luce delle specifiche caratteristiche
personali dell'agente), quanto piuttosto secondo criteri
oggettivi; ed anzitutto in base a criteri (cd. oggettivi
puri) secondo i quali l'errore sul precetto è inevitabile
nei casi d'impossibilità di conoscenza della legge penale da
parte d'ogni consociato (Cass., Sez. 3, n. 5455 del
28/11/2013, Nincheri e altro; Cass. Sez. 3, n. 23494 del
17/04/2014, Bonura) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.11.2016 n. 49266
- link a http://www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Posti
auto, diritto con scadenza. Prescrizione dopo il non uso del
parcheggio per 20 anni. La Cassazione: resta il vincolo di
destinazione a favore dei condomini o di terzi.
Il mancato utilizzo del parcheggio in condominio per oltre
20 anni fa venire meno il relativo diritto.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione
con la
sentenza 21.11.2016 n. 23669.
I fatti.
Alcuni condomini avevano citato in giudizio altri condomini,
discendenti dell'originario costruttore dello stabile, per
accertare il proprio diritto di utilizzare aree destinate ai
rispettivi parcheggi che erano state viceversa espressamente
escluse dagli atti di trasferimento della proprietà delle
rispettive unità immobiliari in presunta violazione di
legge, visto che nelle nuove costruzioni avrebbero dovuto
essere riservati appositi spazi adibiti a parcheggio in
numero sufficiente per ciascun appartamento.
I condomini
convenuti in giudizio si erano difesi eccependo, tra le
altre cose, l'intervenuta usucapione dell'intera area in
questione, che negli ultimi 20 anni non era mai stata
utilizzata come parcheggio. Accolta parzialmente la domanda
in primo grado, avendo il tribunale riconosciuto il diritto
d'uso limitatamente a una parte di minore estensione
dell'area in questione, la stessa era stata però rigettata
in sede di appello, poiché i giudici di secondo grado
avevano ritenuto che detto diritto si fosse prescritto per
il decorso di oltre 20 anni dall'acquisto.
La Cassazione.
I giudici di legittimità hanno evidenziato come ai sensi
dell'art. 41-sexies della c.d. legge urbanistica, nel testo
vigente all'epoca dell'introduzione della controversia,
nelle nuove costruzioni, così come nelle aree di pertinenza,
dovessero essere riservati appositi spazi per parcheggi in
misura non inferiore a un metro quadrato per ogni 10 metri
cubi di costruzione.
Tale norma è stata interpretata dalla
giurisprudenza della Suprema corte nel senso che il diritto
d'uso attribuito sugli spazi di parcheggio ai proprietari
delle singole unità immobiliari, dei quali il venditore si
sia riservato la proprietà, è di natura reale e può
estinguersi per non uso soltanto con il decorso del periodo
di 20 anni, fermo restando il vincolo di destinazione, che
ha carattere pubblicistico e permanente.
Tuttavia detto
vincolo può esplicarsi sia a favore dei proprietari delle
unità immobiliari sia dei terzi proprietari dell'area, che
potrebbero per esempio concedere in locazione i relativi
spazi ad altri soggetti. Secondo i giudici, infatti, la
scissione tra la proprietà dell'appartamento e l'uso dello
spazio adibito a parcheggio assolve a finalità pratiche,
perché non tutti i proprietari di un'unità immobiliare sono
necessariamente anche possessori di un veicolo e lo scopo
della norma è quello di mantenere una data proporzione tra
cubatura edificata e posti auto disponibili.
Secondo la
Cassazione, infatti, proprio il carattere pubblico e
permanente del vincolo di destinazione pone quest'ultimo al
riparo dalle vicende private, essendo indifferente, ai fini
del corretto assetto urbanistico del territorio, che l'area
di parcheggio sia goduta dai proprietari di quei medesimi
appartamenti in relazione ai quali essa è stata calcolata
oppure da terzi.
La fondatezza di detta conclusione, secondo
i giudici, è ulteriormente dimostrata dalla successiva
evoluzione legislativa dell'art. 41-sexies della legge
urbanistica, alla quale nel 2005 è stato aggiunto un secondo
comma il quale prevede che le predette aree non siano
gravate da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti
d'uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e
siano trasferibili autonomamente da esse
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016).
---------------
MASSIMA
2. - Col secondo, subordinato motivo i ricorrenti
allegano la violazione degli artt. 41-sexies legge n.
1150/1942 e degli artt. 1020 e 2934 c.c., in relazione
all'art. 360, n. 3 c.p.c.
Sostengono al riguardo che anche nella motivazione della
sentenza impugnata la prescrizione del diritto d'uso non
incide sulla destinazione dell'area a parcheggio.
Inderogabile per la sua natura pubblica, detta destinazione
non può che avvantaggiare il condomino e sembra che debba
superare l'avvenuta prescrizione del diritto d'uso, non
avendo altrimenti significato alcuna la persistenza del
vincolo.
Sostiene parte ricorrente che la sopravvivenza della
destinazione imposta dalla legge n. 1150/42 deve essere
effettivamente rispondente al dettato normativo, rendendo
imprescrittibile il diritto d'uso da parte dell'unico
soggetto in favore del quale la destinazione è stata
prevista, essendo la protezione della sua posizione il mezzo
attraverso il quale è salvaguardato l'interesse collettivo
alla migliore disciplina degli spazi nelle zone in corso
d'urbanizzazione, con il corollario finale che è questo
stesso fine che integra l'interesse richiesto dall'art. 2934
c.c. per ritenere imprescrittibile il diritto d'uso.
2.1. - Il motivo è infondato, poiché le argomentazioni
addotte non paiono idonee a modificare l'indirizzo di questa
Corte ad oggi costante.
Ai sensi dell'art. 41-sexies della legge
urbanistica, nel testo vigente all'epoca d'introduzione
della lite, nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di
pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere
riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di
costruzione.
Tale disposizione, com'è noto, è stata
interpretata dalla giurisprudenza di questo S.C.
(v. n. 3961/2006) nel senso che il diritto
attribuito ex lege ai proprietari delle singole unità
immobiliari sugli spazi di parcheggio, dei quali il
venditore si sia riservato la proprietà, è di natura reale e
può estinguersi per non uso soltanto con il decorso di venti
anni in base al combinato disposto degli artt. 1014 n. 1 e
1026 c.c. (cfr.,
tra le altre. Cass. n. 14731/2000), fermo
restando in ogni caso il vincolo di destinazione, che ha
carattere pubblicistico e permanente
(cfr., per tutte, Cass. n. 12736/1997).
Orbene, la permanenza del vincolo
pubblicistico di destinazione trae punto che questo possa
esplicarsi solo a favore dei proprietari delle res
principales (cioè, nella specie, dei condomini), ben
potendo essere attuato anche dai terzi proprietari
dell'area, ad es. locando i relativi spazi a terzi.
Come ammette (con onestà intellettuale) la stessa parte
ricorrente (v. pagg. 4 e 5 della memoria ex art. 378 c.p.c.)
la scissione tra la proprietà dell'appartamento e
l'uso del relativo spazio adibito a parcheggio assolve
finalità pratiche, perché non tutti i proprietari di un
alloggio sono necessariamente anche possessori di un
veicolo, e lo scopo della norma è quello di mantenere una
data proporzione tra cubatura edificata e parcheggi
disponibili.
Tale interesse pubblico, ed è questo il punto su cui la
censura sollecita la riflessione, non giustifica però
l'imprescrittibilità del diritto d'uso del proprietario
dell'appartamento ai sensi dell'art. 2934. cpv. c.c.,
espressamente invocato dalla parte ricorrente.
Vi osta la duplice ragione che detta norma nel riferirsi ai
diritti indisponibili intende i c.d. iura status,
vale a dire i diritti relativi allo stato e alla capacita
delle persone, il diritto di proprietà, nel senso della
imprescrittibilità dell'azione di rivendicazione e delle
facoltà che formano il contenuto di un diritto soggettivo
(v. Cass. n. 2386/1962): e che proprio il
carattere pubblico e permanente del vincolo di destinazione
pone quest'ultimo al riparo dalle vicende private, essendo
indifferente, ai fini del corretto assetto urbanistico del
territorio, se l'area di parcheggio sia goduta dai
proprietari di quei medesimi appartamenti in relazione ai
quali essa è stata calcolata, ovvero da terzi (come del
resto dimostra l'evoluzione dell'art. 41-sexies legge
urbanistica, cui l'art. 12, comma 9, della legge n. 246/2005
ha aggiunto un secondo comma, in base al quale gli spazi per
parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono
gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti
d'uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e
sono trasferibili autonomamente da esse). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti,
il Consiglio decide il prezzo. Non basta la revisione
dell’importo deliberata dalla Giunta comunale.
Revisione contratti. La Cassazione riapre una causa
trentennale relativa a un cantiere di manutenzione stradale.
Non basta il via libera del sindaco
e/o della giunta comunale per far scattare la revisione dei
prezzi nel contratto di appalto. L’incremento dei costi per
la Pa-committente diventa efficace, e produce quindi effetti
per il creditore-appaltatore, solo con la delibera del
Consiglio comunale, unico organo abilitato a manifestare la
volontà dell’ente.
La I Sez. civile della Corte di Cassazione, con la
sentenza 21.11.2016 n. 23628,
rimette in gioco un procedimento aperto da quasi trent’anni
in Basilicata e relativo a lavori di manutenzione stradale.
Si trattava di un piccolo appalto del Comune di Noepoli
(Potenza) -poco più di 200 milioni di lire, valore nominale
a fine anni ’80- per il quale, all’esito dei lavori, la
Giunta municipale aveva previsto appunto la revisione dei
prezzi. Da qui l’impresa esecutrice aveva ottenuto, tra
l’altro, un decreto ingiuntivo a titolo di interessi per il
ritardato pagamento -poi revocato- calcolando il dies a
quo dalla data delle delibera di Giunta, non essendo
necessario -secondo la versione dell’impresa- neppure
alcuna domanda di “azionamento” da parte del creditore.
La Prima sezione civile ha però accolto il ricorso
dell’amministrazione comunale, cassando la decisione
dell’appello di Potenza che aveva considerato titolo valido
per il pagamento la delibera della giunta municipale. Per i
giudici di legittimità, infatti, c’è una «consolidata
giurisprudenza di questa Corte» che riconosce solo ed
esclusivamente al Consiglio comunale il potere di
manifestare la volontà dell’ente (Sezioni Unite, sentenza
4463/2009 e, precedentemente, 6993/2005).
Già nel 1999 (sentenza
165) il massimo organo giurisdizionale aveva stabilito che
«non può assurgere a valido ed efficace riconoscimento del
diritto dell’appaltatore alla revisione il provvedimento,
pur espressamente attributivo della revisione stessa, pur
quando adottato dal sindaco e dalla Giunta municipale in via
d’urgenza, ove la delibera non sia stata ratificata dal
Consiglio comunale».
In sostanza, scrive la Prima, pur essendo la revisione di
prezzi un istituto «strutturato come un procedimento concessorio rimesso alla discrezionalità
dell’amministrazione appaltante», esso risponde a una serie
di leggi che lo “fissano” alla capacità di manifestazione
della volontà dell’ente. A cominciare dal Regio decreto 148
del 1915 che pone a capo del consiglio comunale il potere di
deliberare nuove e maggiori spese, «nonché lo storno di
spese da una categoria a un’altra del bilancio», e non
invece della giunta municipale. E anche quando all’esecutivo
comunale viene concesso di deliberare sul tema in via
d’urgenza, l’efficacia della decisione rimane subordinata
alla ratifica dell’organo elettivo (il Consiglio).
Il contenzioso sulla manutenzione della stradina di Noepoli
riguardava anche un tema di riconoscimento implicito
dell’obbligazione, considerato che l’impresa esecutrice
aveva incassato nel tempo un acconto sul conteggio degli
interessi del prezzo revisionato. Anche su questo punto,
però, la Prima sezione civile ha ritenuto che lo stesso
«riconoscimento implicito» del debito è legato alla validità
del titolo da cui nasce il rapporto; pertanto la
manifestazione di volontà da cui origina l’obbligazione deve
provenire dall’organo deliberativo del soggetto pubblico
appaltante.
Quindi la percezione dell’acconto, scrive la
Corte, può ritenersi «riconoscimento implicito» del debito
da parte della stazione appaltante «solo in quanto
riconducibile a una volontà dell’organo del Comune a tanto
abilitato» (articolo Il Sole 24 Ore del 22.11.2016). |
APPALTI: In
gara non si possono regolarizzare i contributi.
Partecipa solo chi ha il durc in regola.
Non ammesse regolarizzazioni postume in gara della propria
posizione previdenziale.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza 18.11.2011 n. 4801 su
una questione già posta, peraltro dalla stessa sezione di
Palazzo Spada, all'adunanza plenaria per sapere se l'obbligo
degli istituti previdenziali di invitare l'interessato alla
regolarizzazione del Durc (cosiddetto preavviso di Durc
negativo), sussista anche nel caso in cui la richiesta
provenga dalla stazione appaltante in sede di verifica della
dichiarazione resa dall'impresa in sede di autodichiarazione
dei requisiti ai sensi dell'art. 38, comma 1, lettera i), del dlgs n. 163 del 2006.
In altri termini, veniva richiesto se
la mancanza dell'invito alla regolarizzazione impedisse di
considerare come «definitivamente accertata» la situazione
di irregolarità contributiva (tale quindi da determinare
l'esclusione dalla gara).
L'adunanza plenaria si era pronunciata negativamente:
l'impresa deve essere in regola con l'assolvimento degli
obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla
presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un
eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione
contributiva.
Su questo punto va segnalato che anche la Corte di giustizia
europea La Corte Ue, con la sentenza del 10.11.2016,
relativa alla causa C-199/15, ha rilevato che è legittima la
norma nazionale che prevede l'esclusione del concorrente
dalla gara per mancata regolarità contributiva, anche se
tale irregolarità sia sanata successivamente, prima
dell'aggiudicazione e della verifica d'ufficio.
Pertanto,
non solo non rileva la regolarizzazione tardiva ma, a
maggiore ragione, in base all'adunanza plenaria, non è
possibile evitare l'esclusione dell'impresa che versi in
stato di irregolarità contributiva al momento della
presentazione dell'offerta, venga previamente invitata a
regolarizzare la propria posizione previdenziale e
nonostante tale invito perseveri nell'inadempimento dei
propri obblighi contributivi.
L'istituto dell'invito alla regolarizzazione può, dunque,
operare solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale,
ma non rileva per la stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2016).
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MASSIMA
6. L’appello non è fondato.
6.a) Come aveva già rilevato questa Sezione in occasione
dell’esame della domanda cautelare (cfr. motivazione citata
ordinanza n. 4487/2015), i profili di censura della sentenza
di primo grado, così come prospettati dalla parte
appellante, avrebbero dovuto trovare definitiva risoluzione
all’esito della decisione dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato interessata per un’analoga controversia.
In particolare, questa Sezione, con ordinanza 29.09.2015, n.
4540, ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione se
l’obbligo degli Istituti previdenziali di invitare
l’interessato alla regolarizzazione del DURC (c.d. preavviso
di DURC negativo), previsto dall’art. 7, comma 3, D.M.
24.10.2007 e ribadito dall’art. 31, comma 8, del decreto
legge n. 69 del 2013, sussista anche nel caso in cui la
richiesta provenga dalla stazione appaltante in sede di
verifica della dichiarazione resa dall’impresa ai sensi
dell’art. 38, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 163 del
2006. Se, in altri termini, la mancanza dell’invito alla
regolarizzazione impedisca di considerare come “definitivamente
accertata” la situazione di irregolarità contributiva.
6.b) Con sentenza n. 5 del 29.02.2016 l’Adunanza Plenaria ha
deciso la questione.
Dopo avere riassunto i contrasti a riguardo in
giurisprudenza, la Plenaria ha concluso che andava data
continuità, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31,
comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, all’indirizzo
interpretativo secondo cui
non sono consentite regolarizzazioni postume in sede di gara
della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in
regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed
assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e
conservare tale stato per tutta la durata della procedura di
aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante,
restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento
tardivo dell'obbligazione contributiva.
Tale principio, già espresso dall’Adunanza Plenaria nella
sentenza 04.05.2012, n. 8, non doveva ritenersi superato
dalla norma introdotta con l’articolo 31, comma 8, del
decreto legge n. 69 del 2013.
In sostanza, secondo l’Adunanza Plenaria,
non si può subordinare il carattere definitivo della
violazione previdenziale (che ai sensi dell’art. 38 d.lgs.
n. 163 del 2006 rappresenta un elemento ostativo alla
partecipazione alle gare d’appalto) alla condizione che
l’impresa che versi in stato di irregolarità contributiva al
momento della presentazione dell’offerta venga previamente
invitata a regolarizzare la propria posizione previdenziale
e che nonostante tale invito perseveri nell’inadempimento
dei propri obblighi contributivi.
L’Adunanza Plenaria ritiene,
al contrario,
che l’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013 non
abbia in alcun modo modificato la disciplina dettata
dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 e che, pertanto, la
regola del previo invito alla regolarizzazione non trovi
applicazione nel caso di DURC richiesto dalla stazione
appaltante ai fini della verifica delle dichiarazioni rese
dall’impresa ai fini della partecipazione alla gara.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d.
preavviso di DURC negativo) può, dunque, operare solo nei
rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con
riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC
richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della
veridicità dell’autodichiarazione.
6.c) Alla luce dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2016, alla
cui ampia motivazione si rinvia anche con riferimento alla
compatibilità con il quadro comunitario, non possono
ritenersi fondate le censure mosse dalla parte appellante
alla sentenza del TAR di Lecce.
Esse, infatti, muovono tutte dalla presupposizione della
valenza nel caso di specie dell’art. 31, comma 8, del DL n.
69/2013, circostanza invece smentita dall’Adunanza Plenaria.
6.d) Neppure l’eccepita omessa pronuncia del TAR sulla
rappresentata illegittimità del DURC e sul mancato esame
delle giustificazioni presentate dalla Te. Srl ha
fondamento.
Il mancato espletamento della fase di regolarizzazione del
DURC negativo, previsa dall’art. 7 del DM del 24.10.2007,
non incide infatti sulla sua validità.
La regola del previo invito alla regolarizzazione non trova,
come detto, applicazione nel caso di richiesta della
certificazione preordinata alle verifiche effettuate dalla
stazione appaltante ai fini della partecipazione alle gare
(cfr. sul punto la richiamata A.P. del Consiglio di Stato n.
8/2012).
Inoltre, l’Amministrazione ha esaminato le giustificazioni
presentate dalla Te. Srl.
La stazione appaltante ha valutato, come risulta in atti, le
osservazioni e i documenti presentati e li ha ritenuti
insufficienti a giustificare il requisito partecipativo in
capo alla stessa Te. in quanto postumi rispetto al momento
della presentazione della richiesta di partecipazione.
7. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e di
conseguenza va confermata la sentenza del TAR Puglia, Lecce,
n. 2841/2015. |
EDILIZIA PRIVATA:
Immobile abusivamente realizzato - Ultimazione
dei lavori - Individuazione giuridica.
In materia edilizia, l'ultimazione dei lavori coincide con
la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni,
quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del
18/10/2011, Ventura), di modo che anche il suo utilizzo
effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle
utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è
sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione
dell'immobile abusivamente realizzato (Sez. 3, n. 48002 del
17/09/2014, Surano).
Attività edilizia illecita -
Consumazione del reato urbanistico edilizio o ambientali -
Natura permanente - Momento di cessazione della condotta
antigiuridica - Artt. 44, comma 1, lett. c), d.p.r. n.
380/2001 - Art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42/2004.
Entrambi i reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. c),
d.p.r. n. 380 del 2001 e 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del
2004, hanno natura permanente, sicché la loro consumazione
si protrae per tutto il tempo in cui continua l'attività
edilizia illecita (Cass. Sez. U., n. 17178 del 08/05/2002,
Cavallaro), cessando soltanto o al momento della totale
sospensione dei lavori, conseguente all'adozione di un
provvedimento autoritativo ovvero al momento della
desistenza volontaria da parte dell'agente, consistente in
un comportamento inequivoco di definitiva cessazione del
persistere della condotta antigiuridica (in argomento v.
Sez. 3, n. 49990 del 04/11/2015, P.G. in proc. Quartieri e
altri; Sez. 3, n. 12156 in data 08/10/1998, La Spina F ed
altro).
Subordine della sospensione condizionale
della pena alla demolizione del manufatto - Acquisizione
dell'immobile al patrimonio del Comune - Eliminazione delle
conseguenze dannose del reato - Giurisprudenza.
In materia edilizia, la scelta dei giudici di merito di
subordinare la sospensione condizionale della pena alla
demolizione del manufatto è perfettamente legittima,
trattandosi di statuizione pacificamente rientrante tra le
facoltà del giudice procedente, alla stregua di un
consolidato orientamento giurisprudenziale e costantemente
riproposto, avendo l'ordine di demolizione dell'opera, alla
stregua di quanto previsto dall'art. 165 cod. pen., la
funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato.
Inoltre, la decisione del giudice di subordinare il
beneficio della sospensione della pena alla demolizione
dell'opera abusiva non è ostativa con l'eventuale avvenuta
acquisizione dell'immobile al patrimonio del Comune, poiché
anche quest'ultima è finalizzata alla demolizione del
manufatto abusivamente costruito (in questi termini, da
ultimo, Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro;
Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2014, Russo; Sez. 3, n. 28356 del
21/05/2013, Farina) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.11.2016 n. 48577 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
giudice non surroga la p.a.. Sezioni
unite civili della suprema corte.
Le decisioni del giudice amministrativo sono viziate per
eccesso di potere giurisdizionale e, quindi, sindacabili per
motivi inerenti alla giurisdizione, laddove detto giudice
compia una diretta e concreta valutazione della opportunità
e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale,
pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima la
volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella
dell'Amministrazione pubblica.
È quanto ribadito dai giudici delle Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione con la
sentenza
17.11.2016 n. 23395.
I giudici di piazza Cavour hanno, poi, ribadito nella
medesima sentenza in commento che secondo un ormai
consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza
(Cass., Sez. un. 08.02.2013, n. 3037), «il ricorso
avverso la sentenza del Consiglio di Stato con il quale si
deduce l'omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento dei
danni, può integrare motivo inerente alla giurisdizione,
denunciatile ai sensi dell'art. 362 cod. proc. civ., solo se
il rifiuto della giurisdizione è giustificato dalla ritenuta
estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali
del giudice amministrativo, non quando si prospettino come
omissioni dell'esercizio del potere giurisdizionale errori
«in iudicando» o «in procedendo» (Cass. Sez. un., 26.01.2009, n. 1853)»
Si osserva, inoltre, che il ricorso col quale venga
denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice
amministrativo va certamente a rientrare fra i motivi
attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 362 cod.
proc. civ., solo nel caso in cui il rifiuto sia stato
determinato dall'affermata estraneità alle attribuzioni
giurisdizionali dello stesso giudice della domanda, che non
possa essere da lui conosciuta.
Il thema decidendum vedeva una Società agricola e altri 11
proprietari e conduttori di terreni impugnare davanti al Tar
il dm 30.09.2010, recante le modifiche del
disciplinare di produzione dei vini a denominazione di
origine controllata e garantita Barolo, nella parte in cui
aveva consentito che la detta denominazione potesse essere
seguita da menzioni geografiche aggiuntive.
Il G.A. accolse la domanda sul rilievo che le denominazioni
geografiche individuate dal decreto ministeriale
confondevano le denominazioni assegnate alle diverse zone,
comportando confusione per il consumatore, e quindi violando
la ratio della normativa comunitaria e nazionale in materia.
Il Consiglio di stato, adito in appello dal ministero delle
politiche agricole e forestali, ricostruito il quadro
normative di riferimento, segnatamente con riguardo alla
disciplina delle sottozone e delle indicazioni geografiche
aggiuntive nella legislazione nazionale, dettata prima dalla
legge n. 164 del 10.02.1992 e successivamente dal dlgs 08.04.2010, n. 61, recante tutela delle denominazioni
d'origine e delle indicazioni geografiche dei vini, in
attuazione dell'art. 15 della legge 07.07.2009, n. 88, e
chiarita la funzione dell'indicazione geografica aggiuntiva,
accoglieva il gravame
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
Comune stop alla pubblicità. Consiglio di Stato. Legittimo
il diniego all’uso dei lampioni per apporvi «gonfaloni».
L’uso dei pali di pubblica
illuminazione non è soggetto ai principi della direttiva
Bolkestein sulla libera attività di impresa.
Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 17.11.2016 n. 4794, relativa a impianti pubblicitari.
Oggetto del contendere erano più di mille metri quadrati di
superfici che sarebbero stati disponibili lungo le strade di
Firenze per collocarvi gonfaloni pubblicitari ancorati ai
pali dell’illuminazione. Alcune imprese del settore della
pubblicità avevano infatti chiesto al Comune di autorizzare
tali sistemi, sfruttando i supporti già esistenti; il Comune
aveva tuttavia risposto negativamente, eliminando dal
regolamento della pubblicità l’utilizzo di stendardi e
gonfaloni.
La controversia è stata decisa su due livelli: da un lato si
è escluso che la direttiva 2006/123/CE (Bolkestein)
ampliasse i diritti dei cittadini comunitari ad esercitare
prestazioni imprenditoriali o professionali; dall’altra, si
è ritenuto sufficiente un generico riferimento ad esigenze
di stabilità statica per escludere in assoluto la
possibilità di collocare i gonfaloni.
Il primo dei due argomenti è applicabile a tutte le attività
imprenditoriali e libero professionali, poiché modera il
primato assoluto dell’attività di impresa, secondo il quale
l’iniziativa economica privata va preferita ed anteposta ad
altri interessi. Per impedire un’attività, in altri termini,
occorre che la pubblica amministrazione motivi adeguatamente
su temi di sicurezza, libertà e dignità umana, rispettando
comunque principi di proporzionalità e non discriminazione.
Applicando questa logica agli impianti pubblicitari, è sorto
un contrasto tra la libertà di iniziativa (collocare i
gonfaloni) e gestione dei beni pubblici (i pali che
sarebbero supporto): per negare l’uso dei pali, il Comune
avrebbe dovuto motivare in modo specifico, zona per zona e
tipologia per tipologia.
Il Consiglio di Stato ha deciso la controversia limitando
l’applicazione della direttiva Bolkestein, perché la
pubblica amministrazione ha una posizione di autorità
rispetto al privato tutte le volte che vi siano specifici
motivi di interesse generale. Questi motivi possono anche
essere generici se riguardano la pubblica sicurezza, la
sanità pubblica, la tutela dei lavoratori, la protezione
dell’ambiente e gli altri elementi elencati nella stessa
direttiva Bolkestein.
È stato quindi sufficiente che il
Comune di Firenze richiamasse generici motivi di sicurezza,
per escludere in assoluto l’utilizzo dei gonfaloni
pubblicitari. In primo grado, il Tar toscano aveva ritenuto
necessaria un’attenta valutazione delle strutture (i pali),
verificando l’operatività di nuove soluzioni tecniche
proposte dall'imprenditore privato (sugli agganci e sugli
effetti del vento), senza quindi divieti generalizzati.
Il giudice di appello, invece, comprime le aspettative degli
imprenditori, ritenendo sufficienti motivazioni generali,
relative all’intero territorio comunale. Per adesso quindi
la libertà di impresa non conquista i pali della luce (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2016).
---------------
MASSIMA
Il Collegio ritiene fondate le censure con cui sia
l’appellante principale che l’appellante incidentale
deducono che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di
prime cure:
a) l’impugnata delibera n. 17 del 2015 non necessitava di
specifica motivazione;
b) l’amministrazione comunale non era tenuta a prendere in
specifica considerazione l’ipotesi di sostituire i pali
dell’illuminazione;
c) la circostanza che la relazione tecnica posta a base del
decidere rechi una data (26.02.2015) posteriore a
quella della proposta di deliberazione (24.02.2015)
non dà luogo alla riscontrata “inversione procedimentale”,
idonea, a sua volta, a esser fonte “di vari profili di
eccesso di potere”.
Anzitutto occorre premettere il dato di fondo che -diversamente da quanto afferma l’impugnata sentenza- anche
dopo la direttiva comunitaria 2006/123/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 12.12.2006, relativa ai
servizi nel mercato interno (c.d. Bolkestein) recepita in
Italia mediante il d.lgs. 26.03.2010, n. 59 –
gli
interessati non possono accampare un incondizionato diritto
soggettivo all’esercizio dell’iniziativa economica quali che
siano gli interessi in conflitto (la sentenza parla di
diritto soggettivo «che non è tendenzialmente sottoposto ad
alcun provvedimento ampliativo teso a verificarne la
compatibilità con l'interesse pubblico»; dal che il
superamento «relativamente alle attività rientranti
nell'ambito di applicazione del d.lgs. n. 59/2010, il
principio per il quale gli atti generali e regolamentari non
vanno motivati»).
Anche a tutto per ipotesi concedere circa il preteso primato
assoluto dell’attività di impresa (prescindendo dai limiti
costituzionali ad es. dell’art. 41, secondo comma, Cost. –per il quale l’iniziativa economica privata «non può
svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana»- e da considerazioni di sistema, che non accorda
preferenza all’iniziativa economica su qualsivoglia altro
interesse), quella stessa specifica normativa –la cui
finalità è di garantire le libertà di stabilimento e di
circolazione dei servizi- afferma che la liberalizzazione
dell’attività di impresa incontra limitazioni o deroghe che
ben possono essere giustificate dalla prevalenza
dell’interesse generale, che è espresso mediante l’icastica
e ritornante –nella stessa produzione giurisprudenziale e
normativa dell’Unione europea- formula dei “motivi
imperativi di interesse generale”, ancorché “nel rispetto
dei principi di proporzionalità e non discriminazione” (v.
ad es. Considerando 40 della Direttiva; artt. 8, lett. h) e
12 d.lgs. n. 59 del 2010; cfr. Corte cost., 19.12.2012,
n. 291).
Il che, del resto, è -seppur contraddittoriamente con la
detta conclusione- affermato dalla stessa sentenza
impugnata laddove riconosce che l’iniziativa economica “può
essere limitata solo per motivi imperativi di interesse
generale”. Tra questi, a detta del Considerando 40 della
Direttiva e dell’art. 8, lett. h) d.lgs. n. 59 del 2010,
rientrano la «pubblica sicurezza» e la «sicurezza stradale».
Non si tratta dunque di un diritto soggettivo assoluto: ma
di un’attività che ben può cedere a fronte dei detti
interessi generali (di cui l’art. 23 Cod. strada, posto a
base dell’atto impugnato, rappresenta un manifesto
riflesso).
Occorre comunque rilevare che nel caso di specie l’impugnata
deliberazione consiliare 23.02.2015, n. 17 non
interferisce in termini generali sull’esercizio
dell’attività pubblicitaria, ma soltanto su una particolare
modalità di sua esecuzione.
La deliberazione, infatti, ha stabilito che i pali
dell’illuminazione non erano utilizzabili per
l’installazione di “gonfaloni” pubblicitari.
Ma a parte la già sufficiente proporzione compiuta rispetto
all’esigenza generale di sicurezza, valeva la considerazione
di fondo che, essendo i detti pali di titolarità comunale,
era nel pieno potere dominicale dell’ente locale stabilire
quale uso potessero farne i terzi, e così senz’altro
escludere che potessero essere usati come sostegno per i
“gonfaloni” pubblicitari, visto anche che una tale funzione
è del tutto estranea a quella propria dei pali
dell’illuminazione (che, tra l’altro, non risultano
omologati per un tale ulteriore e diverso scopo).
Posto che il divieto è stato introdotto con atto generale
(la citata deliberazione n. 17 del 2015) il Comune non era
tenuto a motivare la ragioni della scelta.
Con inequivoca chiarezza -che non può essere disattesa,
perché il giudice è per precetto costituzionale soggetto
alla legge: art. 101, secondo comma, Cost.-
l’art. 3, comma
2, l. 07.08.1990, 241 prescrive che “la motivazione non è
richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto
generale”.
Tale previsione ha la sua ragione nella circostanza che
l’atto amministrativo generale non decide in concreto
dell’assetto degli interessi proprio perché ha portata
generale, ma solo identifica regole suscettibili di
successive applicazioni. Perciò essa, contrariamente a
quanto indimostratamente si spinge ad affermare la sentenza,
disciplina anche le ipotesi che rientrano nell’ambito di
applicazione del d.lgs. n. 59 del 2010.
Invero, questa regola legislativa dell’art. 3, comma 2 -già
di elaborazione giurisprudenziale- si spiega in relazione al
fatto che gli atti normativi e quelli a
contenuto generale, diversamente da quelli a carattere
puntuale, non sono tendenzialmente idonei a incidere a
titolo particolare sulla posizione degli interessati. Il che
vale indipendentemente dal tipo di attività disciplinata:
sicché non vi è ragione di escludere dall’ambito operativo
della disposizione gli atti che si riferiscono ad attività
soggette alle norme del d.lgs. n. 59 del 2010.
L’onere di motivazione si estende agli atti generali
soltanto nelle eccezionali ipotesi, fra le quali non rientra
quella per cui è causa, in cui questi siano idonei a
incidere su una specifica situazione soggettiva qualificata
(cfr. Cons. Stato, IV, 26.04.2006, n. 2297).
Alle conclusioni svolte occorre aggiungere che, comunque,
nel caso concreto il Comune, pur non essendovi tenuto, ha
esternato le ragioni che lo hanno condotto a vietare l’uso
dei “gonfaloni” quali mezzi pubblicitari.
Nell’impugnata delibera, infatti, si evidenzia, richiamando
anche la relazione istruttoria datata 26.02.2015,
predisposta dalla “Direzione Nuove Infrastrutture e
Mobilità”, che il loro utilizzo può mettere in pericolo la
“stabilità dei pali della pubblica illuminazione”.
Motivazione questa che di suo è congrua a una cura doverosa
per l’ente pubblico ed è comunque sufficiente a sorreggere
il contestato divieto generalizzato.
Non può poi
l’amministrazione locale, malgrado la riconosciuta
sussistenza delle ragioni generali di sicurezza (ammesse
dalla stessa grava sentenza), essere poi iussu iudicis
obbligata a comunque operare un bilanciamento tra
quell’esigenza generale di sicurezza e l’iniziativa
economica degli interessati («tra il diritto all’esercizio
dell’attività d’impresa da parte delle ricorrenti e la
necessità di tutelare la stabilità dei pali della pubblica
illuminazione, anche verificando l’operatività di nuove
soluzioni tecniche eventualmente proposte dalle ricorrenti
medesime»): in disparte ogni considerazione sul principio di
separazione dei poteri (specie circa l’ordine di rieditare
il potere pianificatorio secondo i principi della sentenza,
effettuando «adempimenti, prescritti in via conformativa»),
logica impone di considerare che una volta accertata quella,
un siffatto, asserito bilanciamento semplicemente la
smentirebbe o attenuerebbe, in insanabile contraddizione.
Non è poi dato trarre dall’asserita priorità della
iniziativa economica la conseguenza che possa ipotizzarsi
sussistere un qualche specifico onere dell’amministrazione
comunale di verificare «l’operatività di nuove soluzioni
tecniche eventualmente proposte dalle ricorrenti medesime»
per l’uso del medesimo mezzo pubblicitario.
L’assunto
postula l’inversione di un principio di base dell’attività
economica privata, per cui (a meno che la legge non disponga
altrimenti) è lo stesso privato imprenditore a procurare a
se stesso mezzi e risorse per la propria attività, senza esternalizzarne i costi gravandone l’amministrazione
pubblica o addirittura arrivando a potestativamente piegare
le risorse pubbliche ad un facere specifico a favore della
sua impresa. Non ha ragioni, pertanto, detta prospettata
idea che al Comune possa addirittura farsi carico di
sostituire i pali dell’illuminazione allo specifico fine di
consentirvi alle appellate l’uso dei gonfaloni pubblicitari.
Una pretesa del genere non ha base giuridica e figura
un’inammissibile e irragionevole subordinazione
dell’interesse pubblico gestorio del patrimonio a quello
privato imprenditoriale.
Il Tribunale amministrativo afferma, ancora, che è dirimente
che la proposta di deliberazione alla stregua della quale è
stato adottato l’avversato “Regolamento sulla pubblicità e
sull’applicazione del Canone degli Impianti Pubblicitari”
sia stata avanzata il 24.02.2015 e cioè senza poter
conoscere i contenuti della relazione istruttoria del
successivo 26.02.2015. Ciò darebbe luogo ad
un’“inversione procedimentale sintomo di vari profili di
eccesso di potere”.
Il ragionamento della sentenza non può essere condiviso.
Ciò che conta, è infatti, che il Consiglio comunale, organo
deputato ad assumere la decisione, disponesse della
relazione tecnica al momento di deliberare: situazione
questa puntualmente verificatasi nella fattispecie, posto
che la delibera n. 17 è stata adottata in data 23.03.2015
e non è contestato che la detta relazione del 26.02.2015 fosse già pervenuta al Consiglio comunale.
Gli appelli meritano, quindi, accoglimento. |
EDILIZIA PRIVATA: Si
paga l'abuso edilizio altrui. Proprietario condannato per le
violazioni del costruttore. Tar
Puglia: la sanzione ha natura reale e punta a eliminare
situazioni antigiuridiche.
Condannato anche se in buona fede. Deve rassegnarsi il
proprietario del negozio che si ritrova a dover sborsare 400
mila euro per l'abuso edilizio compiuto dal costruttore che
gli ha venduto l'immobile. E ciò anche se all'atto della
compravendita non era in alcun modo possibile prevedere il
contenzioso che avrebbe portato all'annullamento del
permesso di costruire per i locali. La sanzione pecuniaria,
infatti, risulta alternativa alla demolizione e dunque ha la
stessa natura di quest'ultima.
È quanto emerge dalla
sentenza
16.11.2016 n. 1290, pubblicata dalla
III Sez. del TAR
Puglia-Bari.
Natura reale.
Non resta che pagare al titolare della ditta
individuale che ha acquistato lo spazio commerciale in un
centro polifunzionale. Nel rogito del cespite l'impresa
edile venditrice confermava che il bene era stato realizzato
in conformità alle concessioni e ai provvedimenti
amministrativi citati nell'atto. Nulla dunque lasciava
presagire il successivo stop al titolo edilizio da parte del
comune.
A nulla è valso, per l'imprenditore, dire di non
essere lui il responsabile dell'abuso. Il punto è che la
sanzione pecuniaria di cui all'articolo 38 del Testo unico
dell'edilizia ha un'indiscussa natura reale e, come la
demolizione, punta a eliminare una situazione obiettivamente
antigiuridica come la permanenza dell'opera che risulta in
contrasto con le norme urbanistiche: può quindi essere
inflitta in modo legittimo all'attuale proprietario
dell'opera.
I precedenti.
Secondo la giurisprudenza amministrativa anche
chi non è «colpevole» per la violazione della normativa
urbanistica ne risponde perché la stretta relazione che lo
lega all'immobile ben gli consente di attivarsi per renderlo
conforme alle leggi vigenti. Ecco allora che il
costruttore-venditore dell'immobile ha compiuto l'abuso
edilizio, ma i condannati a demolire sono il nudo
proprietario e l'usufruttuario di casa e garage: è legittimo
l'ordine del comune rivolto agli attuali titolari
dell'immobile che hanno con il cespite una relazione
giuridica qualificata.
Lo precisa la sentenza 456/2012,
pubblicata dal Tar Basilicata. Inutile per i proprietari
dell'appartamento e dell'autorimessa impugnare il
provvedimento dell'ente locale. L'amministrazione aveva
scoperto una serie di abusi edilizi dopo la denuncia di un
condomino che lamentava la realizzazione d'un vano
sottoterra a diretto contatto con le fondamenta dello
stabile da parte di un altro proprietario esclusivo.
Dalla
«spiata» del vicino emergevano violazioni «a catena» delle
norme urbanistiche: alcune sono sanzionate pecuniariamente,
ma per quelle eliminabili scattava l'ordine di demolizione
nei confronti di ciascun singolo titolare/proprietario delle
unità immobiliari incluse nel fabbricato. C'è tutto il
campionario dei furbetti all'italiana: porte e finestre
spostate, tramezzi «ballerini», addirittura una scala nuova
di zecca per l'ingresso indipendente all'appartamento. Tutto
da abbattere.
L'ordine di demolizione, osservano i giudici,
è una misura volta a garantire il ripristino della legalità
violata e non opera soltanto come sanzione rivolta contro il
responsabile dell'abuso, ma senz'altro può essere irrogata
nei confronti del proprietario dell'immobile. Il principio
vale anche per l'usufruttuario il quale, in virtù della
particolare ampiezza del diritto di cui titolare, può essere
equiparato al proprietario
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.12.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
8.2.- La domanda dell’odierno ricorrente verte,
conclusivamente, su di un’unica questione di diritto,
attinente alla titolarità passiva della sanzione di cui
all’art. 38 cit.
La tesi prospettata non è fondata.
La sanzione pecuniaria prevista dall’art.
38 D.P.R. 380/2001,
come invece, dedotto dagli odierni resistenti,
appartiene al genus delle misure
ripristinatorie.
Significativa in tal senso si appalesa la
circostanza che essa è prevista dalla norma in sostituzione
della misura demolitoria, di cui è indiscussa la natura
reale.
Pertanto, posto il carattere reale dell’una
(quella demolitoria), non può che concludersi che anche
l’altra (quella pecuniaria) partecipa dell’identica natura,
attesa l’alternatività delle misure in questione.
Deve, dunque, concludersi che la misura di
cui all’art. 38 cit. è diretta all’eliminazione della
situazione obiettivamente antigiuridica conseguente alla
realizzazione e permanenza di un’opera contrastante con la
vigente disciplina urbanistica nonché, al conseguente
ripristino dell’ordine urbanistico violato.
La predetta natura reale conferisce alla
sanzione de qua la prerogativa di seguire l’immobile nei
suoi successivi trasferimenti di proprietà, sicché essa è
legittimamente comminata in capo all’attuale proprietario
dell’opera abusiva
(cfr., ex multis, TAR Piemonte n. 52874 del 2003; TAR
Liguria n. 306 del 2009; TAR Toscana n. 361 del 2012). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevare
a prova di sisma. Si può alzare il condominio solo se
l'edificio è in sicurezza. Una
sentenza della Cassazione interviene sui lavori in terrazza.
E pone delle condizioni.
Si può sopraelevare in terrazza solo se la struttura
sottostante dell'edificio è adeguata a fronteggiare il
rischio sismico. E il proprietario dell'ultimo piano è
tenuto a presentare una progettazione antisismica dell'opera
eseguita e dell'intero edificio, a seguito di una verifica
della struttura complessiva e delle fondazioni del
fabbricato. Solo così sarà possibile compiere la
sopraelevazione.
È con
sentenza 15.11.2016 n. 23256
che la Corte di Cassazione (II Sez. civile) si è
pronunciata in merito alla possibilità di sopraelevazione in
terrazza e del connesso rischio sismico.
Ricordano i giudici
di piazza Cavour che il divieto di sopraelevazione per
inidoneità delle condizioni statiche dell'edificio, previsto
dall'articolo 1127, comma 2, c.c., debba interpretarsi non
nel senso che la sopraelevazione sia vietata soltanto se le
strutture dell'edificio non consentano di sopportarne il
peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in
cui le strutture siano tali che, una volta elevata la nuova
fabbrica, non permettano di sopportare l'urto di forze in
movimento quali le sollecitazioni di origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano
particolari cautele tecniche, da adottare in ragione delle
caratteristiche del territorio, queste vanno considerate
come integrative dell'articolo 1127, comma 2, c.c., nella
sopraelevazione degli edifici. Di più: l'inosservanza di
queste cautele tecniche determinerà una presunzione di
pericolosità della sopraelevazione, che potrà essere vinta
solo mediante la prova, incombente sull'autore della nuova
fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la
struttura sottostante siano idonee a fronteggiare il rischio
sismico; senza che questo abbia rilievo dirimente, ai fini
della valutazione della legittimità delle opere sotto il
profilo del pregiudizio statico, ai fini del conseguimento
della concessione edilizia relativa ai corpi di fabbrica
elevati sul terrazzo dell'edificio.
Aspetto architettonico.
La Suprema corte ricorda inoltre che «l'aspetto
architettonico, cui si riferisce l'articolo 1127, comma 3,
c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende una
nozione diversa da quella più restrittiva di decoro
architettonico, contemplata dagli articoli 1120, comma 4,
1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento
edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile
del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia
in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne
l'originaria fisionomia e alterare le linee impresse dal
progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione
sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in
ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche
stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno
economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata
al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al
sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame,
congruamente motivato»
(articolo ItaliaOggi del 19.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
E' noto come l'art. 1127 c.c. sottopone il diritto di
sopraelevazione
del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti
dettati dalle
condizioni statiche dell'edificio che non la consentono,
ovvero
dall'aspetto architettonico dell'edificio stesso, oppure
dalla
conseguente notevole diminuzione di arie e luce per i piani
sottostanti.
Il limite segnato dalle condizioni statiche si
intende da questa Corte, in particolare,
come espressivo di
un divieto assoluto,
cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime
dei
condomini, il proprietario sia autorizzato all'esecuzione
delle opere
di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere
idoneo il
fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione.
Ne
consegue
che le condizioni statiche dell'edificio rappresentano un
limite
all'esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, e non
già l'oggetto
di verificazione e di consolidamento per il futuro esercizio
dello
stesso, limite che si sostanzia nel potenziale pericolo per
la stabilità
del fabbricato derivante dalla sopraelevazione, il cui
accertamento
costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di
merito, non
sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato
(Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 21491 del 30/11/2012).
E' comunque consolidato l'orientamento di questa Corte
secondo il
quale il divieto di sopraelevazione per inidoneità delle
condizioni
statiche dell'edificio, previsto dall'art. 1127, comma 2,
c.c., debba
interpretarsi non nel senso che la sopraelevazione sia
vietata soltanto
se le strutture dell'edificio non consentano di sopportarne
il peso, ma
nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le
strutture
siano tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non
permettano di
sopportare l'urto di forze in movimento quali le
sollecitazioni di
origine sismica.
Pertanto, qualora le leggi antisismiche
prescrivano
particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle
caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli
edifici, esse
sono da considerarsi integrative dell'art. 1127, comma 2,
c.c., e la
loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità
della
sopraelevazione, che può essere vinta esclusivamente
mediante la prova, incombente sull'autore della nuova
fabbrica, che non solo la
sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia
idonea a
fronteggiare il rischio sismico, senza che abbia rilievo
dirimente, ai
fini della valutazione della legittimità delle opere sotto
il profilo del
pregiudizio statico, il conseguimento della concessione
edilizia
relativa ai corpi di fabbrica elevati sul terrazzo
dell'edificio (v. Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 10082 del 26/04/2013; Cass. Sez. 2,
Sentenza n.
3196 del 11/02/2008).
Nel caso di specie, la Corte di Catanzaro ha richiamato le
conclusioni dell'indagine peritale rinnovata in sede di
gravame,
avendo il CTU specificato che l'ampliamento in
sopraelevazione
realizzato dalla condòmina Pi., mediante chiusura del
terrazzo
prospiciente l'appartamento del settimo piano e incremento
dei
carichi del 40%, comunque non pregiudicava la stabilità
sismica
dell'edificio condominiale, "non mancando di sottolineare
che il
fabbricato Igea -al pari di quello contiguo- non risultava
a norma
rispetto alla normativa attuale indipendentemente dalla
sopraelevazione".
La sentenza d'appello, poggiando su tali
premesse argomentative, contravviene il ricordato
orientamento di
questa Corte, secondo il quale, come visto,
la domanda di
demolizione può essere paralizzata unicamente dalla prova
che non
solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante
sia
adeguata a fronteggiare il rischio sismico; di talché, se
detta prova
non è acquisita, il diritto di sopraelevare non può sorgere.
Condizione di liceità della sopraelevazione eseguita dalla Pi.,
è,
dunque, la verifica che il fabbricato Palazzo Igea
sia stato
reso
conforme alle prescrizioni tecniche dettate dalla
legislazione
speciale (art. 14, L. n. 64 del 1974), dovendosi acquisire
elementi sufficienti a dimostrare scientificamente la
sicurezza antisismica
della sopraelevazione e dell'edificio sottostante.
Soltanto
la
presentazione di una progettazione antisismica dell'opera
eseguita e
dell'intero edificio, conseguente ad una verifica della
struttura
complessiva e delle fondazioni del fabbricato, permette di
ottemperare alla presunzione di pericolosità derivante
dall'inosservanza delle prescrizioni tecniche dettate dalla
normativa
speciale.
La considerazione del CTU, secondo cui "dopo quasi
venti
anni non sono mai stati rilevati segnali di cedimento o
instabilità
locale" non serve, evidentemente a tranquillizzare circa
l'idoneità
dell'edificio a resistere alle sollecitazioni di un
eventuale evento
tellurico. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Sì
al piano in più ma antisismico. Condominio. Via libera alle
sopraelevazioni a norma.
Via libera alla sopraelevazione solo
se la nuova opera e l’intero edificio sono in grado di
resistere a un sisma. E la prova dell’idoneità a
fronteggiare il rischio la deve fornire l’autore della
sopraelevazione.
La Corte di Cassazione, (Sez. II civile -
sentenza 15.11.2016 n. 23256,
relatore Antonio Scarpa) accoglie il ricorso del condominio
per la parte in cui affermava che la realizzazione di un
nuovo appartamento sul terrazzo di proprietà esclusiva di
una condòmina pregiudicava la stabilità di un fabbricato
posto in un’area critica dal punto di vista geologico. La
proprietaria di un appartamento e di una terrazza al settimo
piano aveva ottenuto dall’assemblea un via libera per
coprire il tetto del suo immobile in modo da arginare le
infiltrazioni d’aria provenienti dal lastrico solare.
Di
fatto la signora aveva realizzato un nuovo appartamento.
Un’opera, secondo il condominio, pericolosa per la staticità
dell’edificio. La signora aveva avuto però partita vinta in
entrambi i gradi di merito. Il Ctu della Corte d’appello
aveva escluso che il maggior carico creato dalla condòmina
mettesse a rischio la stabilità, in caso di terremoto, di un
edificio che comunque non era in linea con la normativa
antisismica.
La Cassazione ricorda che l’articolo 1127 del Codice civile
pone dei limiti al diritto di sopraelevazione legati alla
staticità dell’edificio, all’aspetto architettonico e alla
diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti. Il
riferimento alle condizioni statiche va inteso come un
divieto assoluto di sopraelevare, superabile solo se il
proprietario, con il consenso di tutti i condòmini, si
addossa l’onere di consolidare in fabbricato in modo che
possa reggere il nuovo peso.
La sopraelevazione non è
vietata solo quando le strutture non sono in grado di
reggerne il peso ma anche quando, «una volta elevata la
nuova fabbrica non permettano di sopportare l’urto di forze
in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica».
Per questo le leggi antisismiche che prescrivono particolari
cautele tecniche nella sopraelevazione, in considerazione
delle caratteristiche del territorio,vanno considerate parte
integrante dell’articolo 1127.
La domanda di demolizione può essere, dunque, bloccata solo
dalla prova che sopraelevazione e palazzo sono in linea con
la normativa antisismica (legge 64/1974). Solo la
presentazione di un progetto antisismico, dopo verifica di
struttura e fondazioni, permette di superare la presunzione
di pericolosità che deriva dall’inosservanza delle
prescrizioni della normativa speciale (articolo Il Sole 24 Ore del 17.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Abilitazione
revocata per false dichiarazioni.
Mercato elettronico della p.a..
La falsa dichiarazione sulle condanne penali, in ambito Mepa,
comporta la revoca dell'abilitazione da parte di Consip.
È quanto ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II, con la
sentenza 14.11.2016 n. 11286
rispetto a una vicenda che aveva visto Consip revocare
l'abilitazione alla piattaforma Mepa (Mercato elettronico
della pubblica amministrazione) di un soggetto che aveva
dichiarato l'inesistenza di condanne penali nonostante fosse
invece stata emessa una ammenda (ancorché di soli 110 euro)
per un reato in materia di lavoro.
Consip segnalava ad Anac
e alla procura l'operatore per false dichiarazioni.
A fronte del ricorso, il Tar del Lazio ha ritenuto però
inapplicabile la tesi difensiva poggiata sulla teoria del
cosiddetto falso innocuo, considerata dai giudici
«incompatibile con l'obbligo dichiarativo posto dall'art.
38, comma 2, dlgs n. 163/2006», oggi articolo 80 del nuovo
codice dei contratti pubblici.
Per il collegio giudicante
l'omissione e la falsa attestazione circa l'esistenza di
precedenti penali comportano senz'altro l'esclusione dalla
gara in quanto viene impedito alla stazione appaltante di
valutarne la gravità. Pertanto nulla di diverso poteva fare Consip se non procedere alla revoca dell'abilitazione, anche
perché l'abilitazione sul mercato digitale Mepa si fonda
sulle autodichiarazioni rese dalla imprese circa il possesso
e il mantenimento dei requisiti prescritti.
Il sistema di e-procurement, analogamente a quanto avviene nella fase di
ammissione alle gare che si svolgono in modo tradizionale,
si basa sull'affidamento della p.a. nella veridicità delle
autodichiarazioni dei concorrenti. Pertanto, una volta che
l'amministrazione abbia conseguito la certezza della non
veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le
necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare
applicazione dell'art. 21-nonies della legge n. 241/1990, le
cui disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di
autotutela aventi natura tipicamente discrezionale.
D'altro
canto, si legge nella sentenza, il Mepa consente alle
stazioni appaltanti di soddisfare rapidamente le proprie
esigenze di approvvigionamento, nella misura in cui la
centrale di committenza ha già provveduto a verificare i
requisiti e la qualificazione richiesti agli operatori
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
2. Nel merito, il ricorso è infondato e deve essere
respinto.
2.1. Giova in primo luogo ricordare che, come ancora
recentemente sottolineato dal Consiglio di Stato (ad es.,
sez. V, sentenza n. 2106 del 19.05.2016),
la novella recata
dall’art. 39, comma 1, del d.l. 24.06.2014, n. 90, all’art.
38 del d.lgs. n. 163/2006, ha chiarito la volontà del
legislatore di evitare (nella fase del controllo delle
dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle
offerte presentate) esclusioni dalla procedure per mere
carenze documentali, ivi compresa, secondo una parte della
giurisprudenza amministrativa, la mancanza assoluta delle
dichiarazioni.
Questione diversa, però, è quella della dichiarazione non
veritiera, e dell’operatività, in un simile contesto, di
quanto disposto dall’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000 («Fermo
restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal
controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità
del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera»).
Tale è il caso di specie, in cui, nella dichiarazione resa
l’11.05.2015, l’amministratore della società ricorrente
ha attestato, contrariamente al vero, che, nei propri
confronti “non sono state pronunciate sentenze penali di
condanna passate in giudicato o decreti penali di condanna
divenuti irrevocabili o sentenze di applicazione della pena
su richiesta, ai sensi dell’art. 444 c.p.p. o condanne per
le quali si sia beneficiato delle non menzione”.
2.2. Ciò posto, con un primo ordine di rilievi, parte
ricorrente imputa a Consip di non aver considerato che
l’amministratore è incorso in un reato contravvenzionale
particolarmente lieve, e, comunque, diverso da quello
effettivamente punito con il decreto penale di condanna.
2.2.1. E’ agevole osservare che
l’amministrazione non ha
alcun potere di sindacare la qualificazione del reato e la
ricostruzione del fatto, quale operata dal giudice penale,
mentre, invece, ha il dovere di valutarne l’incidenza
concreta sulla professionalità morale dell’impresa.
Tuttavia, nel caso di specie, Consip non è stata messa in
grado di operare siffatta valutazione, poiché, perlomeno
fino alla dichiarazione del 25.09.2015, l’amministratore
della società ha attestato, contrariamente al vero,
l’insussistenza di precedenti penali.
Va ancora soggiunto che,
nelle gare pubbliche, non può
operare la teoria del “falso innocuo” essendo la stessa
incompatibile con l’obbligo dichiarativo posto dal cit. art.
38, comma 2, d.lgs. n. 163/2006. Pertanto, l’omissione e/o
la falsa attestazione circa l’esistenza di precedenti
penali, comporta senz’altro l’esclusione dalla gara in
quanto viene impedito alla stazione appaltante di valutarne
la gravità
(Cons. St., sez. V, sentenza n. 3402 del
27.07.2016; id., 02.12.2015, n. 5451 e 02.10.2014,
n. 4932; IV, 29.02.2016, n. 834; cfr, anche, da
ultimo, la sentenza di questa Sezione n. 7586 dell’01.07.2016
e Cons. St., sez. V, sentenza 12.10.2016, n. 4219 ).
2.3. Gran parte delle ulteriori argomentazioni della società
ricorrente si basa poi sul preteso difetto di
“proporzionalità” del provvedimento di revoca.
Esse, tuttavia, non si attagliano al caso di specie poiché
l’esclusione da una procedura di affidamento, disposta dalla
stazione appaltante o dalla centrale di committenza in
ragione della presentazione di una dichiarazione non
veritiera, non è una sanzione avente finalità “punitiva”,
quanto ripristinatoria, essendo posta a presidio
dell’imparzialità e della trasparenza dei procedimenti di
affidamento delle pubbliche commesse.
Diversamente, le sanzioni irrogabili dall’ANAC in caso di
presentazione di false dichiarazioni o falsa documentazione,
rivestono effettivamente una funzione afflittiva e/o
preventiva (cfr. il comma 1-ter del più volte cit. art. 38
del d.lgs. n. 163/2006).
Per tale ragione, l’Autorità è chiamata a valutare se le
dichiarazioni siano state rese con dolo o colpa grave,
laddove invece l’esclusione dalla procedura consegue in via
automatica alla dichiarazione radicalmente omessa o non
veritiera.
Come già evidenziato,
la non veridicità di quanto dichiarato
rileva, ai sensi del cit. art. 75, d.P.R. n. 445/2000, sotto
un profilo oggettivo e quindi indipendentemente da ogni
indagine sull’elemento soggettivo del comportamento
ascrivibile al dichiarante.
Attesa la natura del provvedimento di esclusione, non giova
quindi alla tesi di parte ricorrente la circostanza che l’ANAC
abbia archiviato il procedimento sanzionatorio di propria
competenza.
Gli obblighi dichiarativi imposti ai concorrenti nelle
pubbliche gare si basano sul principio di autoresponsabilità,
richiamato anche dalle Regole del Sistema di e-procurement
qui in rilievo (cfr., in particolare, l’art. 18, comma 5,
secondo cui «il Soggetto Aggiudicatore e il Fornitore si
impegnano, anche in assenza di espressa richiesta da parte
del MEF e/o di Consi, a comunicare, tramite l’apposita
procedura prevista dal Sito qualsiasi mutamento dei
requisiti oggettivi e/o soggettivi e di tutte le
informazioni dichiarate al momento della domanda di
Registrazione e di Abilitazione, incluse le caratteristiche
dei Beni e dei Servizi contenuti nei Cataloghi. Il Soggetto
Aggiudicatore e il Fornitore, prendono atto e accettano che
l’intervenuto mutamento dei predetti requisiti potrà
comportare l’eventuale Sospensione o Revoca della
Abilitazione”).
In coerenza con tale previsione, l’art. 20, comma 2, delle
medesime Regole testé citate, stabilisce che “La Sospensione
o la Revoca potranno essere disposte da Consip anche
automaticamente, ove ricorrano le condizioni previste […]”».
Come già ricordato
è poi tuttora vigente l’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000, che, unitamente ai principi fondamentali
che regolano le pubbliche gare, porta ad escludere la
possibilità di emendare e/o regolarizzare dichiarazioni
mendaci.
In tal senso, si è espressa anche l’ANAC, secondo la quale,
se l’omessa indicazione delle sentenze di condanna riportate
“avviene secondo modalità che integrino gli estremi di una
dichiarazione negativa del concorrente (perché dichiara
espressamente di non averne riportate, eventualmente anche
contrassegnando sul modulo predisposto dalla stazione
appaltante la casella relativa all’assenza delle sentenze),
laddove, invece, le stesse sussistano, la fattispecie
integra gli estremi del falso in gara con tutte le
implicazioni in termini di non sanabilità della
dichiarazione resa (perché la stessa non sarebbe
semplicemente mancante ovvero carente ma non corrispondente
al vero) e conseguente esclusione del concorrente dalla gara
nonché segnalazione del caso all’Autorità. Diversamente, se
la dichiarazione relativa alla presenza delle sentenze di
condanna è completamente omessa, ovvero se si dichiara di
averne riportate senza indicarle, può essere richiesto
rispettivamente di produrla o di indicare le singole
sentenze riportate.
La novella in esame, infatti, non incide sulla disciplina
delle false dichiarazioni in gara, che resta confermata.
Pertanto ai sensi dell’art. 38, comma 1-ter, del Codice, ove
la stazione appaltante accerti che il concorrente abbia
presentato una falsa dichiarazione o una falsa
documentazione, si dà luogo al procedimento definito nel
citato comma 1-ter dell’art. 38 ed alla comunicazione del
caso all’Autorità per l’applicazione delle sanzioni interdittive e pecuniarie fissate nella disciplina di
riferimento (art. 38, comma 1-ter e art. 6, comma 11, del
Codice)"
(così la determinazione n. 1 dell’08.01.2015).
In definitiva, è «onere di chiunque si accinga a rendere una
dichiarazione autocertificativa ai sensi del citato d.P.R.
n. 445 del 2000, avente ad oggetto l'esistenza o meno di
precedenti penali a proprio carico, di procedere a "visura"
di tutte le iscrizioni esistenti a proprio carico nel
casellario giudiziale, mediante lo strumento disciplinato
dall'art. 33 d.P.R. 14.11.2002, n. 313, che consente a
qualsiasi cittadino di conoscere -ancorché senza valore certificativo- anche le condanne assistite dal beneficio
della non menzione; ed è a tale adempimento che egli deve
procedere, prima di emettere la dichiarazione da allegare
alla domanda di partecipazione alla gara pubblica, a
garanzia della serietà della stessa e delle connesse
responsabilità. Completezza e veridicità della dichiarazione
sostitutiva di notorietà rappresentano, invero, lo strumento
indispensabile, adeguato e ragionevole per soddisfare
l'interesse pubblico, delle amministrazioni appaltanti, a
verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono
ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla
moralità professionale, evitandosi così ritardi e
rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza
pubblica di scelta del contraente, pregiudizievoli per il
più celere soddisfacimento delle finalità pubbliche
perseguite con la gara di appalto» (Cons. St., sez. V,
sentenza n. 3402/2016 del 27.07.2016).
2.4. Parte ricorrente non può essere seguita nemmeno là dove
sostiene che, nel disporre la revoca, Consip ne avrebbe leso
“l’affidamento”, determinato dall’avvenuta aggiudicazione di
un contratto sulla piattaforma MePA.
In disparte il fatto che tale aggiudicazione è stata
autonomamente disposta da un soggetto diverso da Consip, va
detto che, come già evidenziato,
l’abilitazione su tale
mercato digitale si fonda sulle autodichiarazioni rese dalla
imprese circa il possesso e/o il mantenimento dei requisiti
prescritti.
E’ quindi semmai vero il contrario e cioè che
il sistema di e-procurement, analogamente a quanto avviene nella fase di
ammissione alle gare che si svolgono in modo tradizionale,
si basa sull’affidamento della p.a. nella veridicità delle
autodichiarazioni dei concorrenti.
Pertanto,
una volta che l’amministrazione abbia conseguito
la certezza della non veridicità di quanto dichiarato, ha il
dovere di trarne le necessarie conseguenze, senza alcuna
possibilità di fare applicazione dell’art. 21-nonies della
l. n. 241/1990, le cui disposizioni riguardano esclusivamente
i procedimenti di autotutela aventi natura tipicamente
discrezionale
(cfr. TAR Milano, sez. III, sentenza n. 458
del 12.02.2015).
3. La società ha poi esteso l’impugnativa alle regole del
sistema di e-procurement, in particolare alle disposizioni
recate dagli articoli 18 e 20, nella parte in cui le stesse
consentono a Consip di disporre la revoca in modo automatico
e, comunque, senza l’obbligo di valutare in concreto la
moralità professionale o gli errori commessi dagli
operatori.
Il Collegio reputa però che siffatte previsioni, nella parte
in cui sono riferibili anche alle falsità dichiarative,
siano pienamente conformi all’interpretazione letterale e
sistematica delle fonti normative sovraordinate in
precedenza ricordate, ovvero l’art. 38, comma 2, del d.lgs.
n. 163/2006 e l’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000.
In particolare,
per quanto riguarda la “sanzione espulsiva”,
la giurisprudenza ritiene che l'inosservanza dell'obbligo di
rendere, al momento della presentazione della domanda di
partecipazione, le dovute dichiarazioni, comporti
l'esclusione del concorrente anche in assenza di un'espressa
comminatoria nella “lex specialis”, stante la
eterointegrazione con la norma di legge
(Consiglio di Stato,
sez. V, sentenza n. 5972 del 03.12.2014)
e anzi, che, ove la
legge di gara detti una disciplina incompatibile con i
precetti stabiliti a pena di esclusione dal d.lgs. n. 163
del 2006, la portata imperativa di tali norme conduca, ai
sensi dell'art. 1339 c.c., all'inserzione automatica della
clausola espulsiva, ovvero alla eterointegrazione del bando
che risultasse silente sul punto
(così, ad esempio, TAR
Bologna, sez. I, sentenza n. 1115 del 17.11.2014).
3.1. Appaiono infine inconferenti i rilievi, sviluppati con
le memorie conclusionali, secondo cui, da un lato,
l’iscrizione alla piattaforma Consip non è assimilabile ad
un procedimento di gara, e, dall’altro, che la condanna
penale è intervenuta successivamente all’iscrizione al MePa.
In primo luogo, è noto che l’istituzione del Mercato
Elettronico della pubblica amministrazione trae origine dal
regolamento di attuazione del previgente codice dei
contratti (cfr. l’art. 328 del d.P.R. n. 207/2010).
Esso «consente acquisti telematici basati su un sistema che
attua procedure di scelta del contraente interamente gestite
per via elettronica e telematica» nel rispetto delle
disposizioni e dei principi organizzativi indicati nel
regolamento e, comunque, «dei principi di trasparenza e
semplificazione delle procedure, di parità di trattamento e
non discriminazione”» (art. 328, comma 2, decreto ult. cit.).
Avvalendosi del mercato elettronico le stazioni appaltanti
possono quindi effettuare acquisti di beni e servizi sotto
soglia, sia «attraverso un confronto concorrenziale delle
offerte pubblicate all'interno del mercato elettronico o
delle offerte ricevute sulla base di una richiesta di
offerta rivolta ai fornitori abilitati», sia «in
applicazione delle procedure di acquisto in economia […]»
(comma 4).
L’“abilitazione” dei fornitori gestita da Consip è quindi
parte di un peculiare procedimento di affidamento che
consente alle stazioni appaltanti di soddisfare rapidamente
le proprie esigenze di approvvigionamento, nella misura in
cui la centrale di committenza ha già provveduto a
verificare i requisiti e la qualificazione richiesti agli
operatori.
In disparte tale, invero elementare, rilievo non va poi
dimenticato che il più volte cit. art. 75 del d.P.R. n.
445/2000 reca disposizioni di carattere generale, ed è
quindi applicabile non solo alle procedure di affidamento
dei contratti pubblici, ma ad ogni provvedimento
amministrativo «emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera» dal quale siano derivati «benefici».
Pure irrilevante appare infine la circostanza che la
condanna penale sia intervenuta dopo l’abilitazione al
Sistema, poiché,
come ormai chiarito dall’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato
(decisione n. 8 del 20.07.2015),
nelle
gare di appalto per l'aggiudicazione di contratti pubblici i
requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai
candidati non solo alla data di scadenza del termine per la
presentazione della richiesta di partecipazione alla
procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della
procedura stessa fino all'aggiudicazione definitiva ed alla
stipula del contratto, nonché per tutto il periodo
dell'esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità.
4. In definitiva, per quanto argomentato, il ricorso deve
essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVORO: Risponde
dei danni chi rinuncia al direttore lavori. Cassazione
civile. Responsabilità ampliata.
Può costare caro eseguire lavori edili senza un direttore
lavori, cioè senza un professionista abilitato che segua
l’impresa man mano che procede l’esecuzione dell’opera data
in appalto.
Questo principio, sottolineato dalla Corte di Cassazione
-Sez. III civile- con la
sentenza
10.11.2016 n. 22884, accresce le responsabilità dei
committenti per tutta una serie di lavori che vengono
affidati direttamente all’impresa, confidando nelle capacità
di quest’ultima.
La direzione lavori è prevista come obbligatoria dalle norme
edilizie, in particolare quando si intervenga su strutture o
con utilizzo del cemento armato, insieme alla figura del
progettista ed al professionista che segue i calcoli. Quando
tuttavia il committente ritiene, per modesti lavori, di fare
a meno (soprattutto per motivi economici) del direttore dei
lavori, non significa che l’intera responsabilità della
corretta esecuzione dell’opera ricada sull’impresa
appaltatrice.
La Cassazione sottolinea infatti che dalla mancanza del
direttore dei lavori può dedursi che i lavori stessi siano
stati eseguiti sotto la direzione e responsabilità diretta e
concorrente degli stessi committenti. Nel caso specifico, i
danni causati da errori esecutivi saranno quindi risarciti
sia dall’impresa che dai privati committenti, perché la
mancanza del direttore lavori non accresce, di per sé sola,
la responsabilità dell’impresa esecutrice. Un problema
analogo era già sorto in una vicenda in cui il direttore
lavori, pur essendo stato nominato, risultava non avere
sufficienti competenze per controllare in dettaglio la
correttezza di alcune modalità esecutive dell’opera, e in
particolare il rispetto dei calcoli di cemento armato. Con
sentenza 7370/2015 la Cassazione aveva sottolineato che
risponde dei danni edilizi anche il direttore lavori che,
per estrazione e competenza professionale (in quanto
geometra), riteneva di non essere responsabile perché non in
grado di valutare in corso d’opera in quale modo
l’appaltatore (l’impresa) ed i suoi ausiliari avevano
eseguito un lavoro.
Osservano i giudici che il direttore lavori, accettando
l’incarico, deve poter garantire al committente quantomeno
una capacità di supervisione e di controllo sulla corretta
esecuzione degli elementi portanti, anche se la
progettazione non rientri nella sua competenza. In parole
povere, anche un tecnico che non è in grado di progettare è
comunque in grado di controllare.
Per i danni che possano derivare dall’esecuzione dei lavori,
la figura del direttore ha un peso eguale (Cassazione,
sentenza 18521/2016) a quello dell’appaltatore: entrambi
infatti rispondono in modo solidale dei danni, anche se tali
danni sono il risultato di diverse condotte, l’errata
costruzione dell’appaltatore e l’omessa sorveglianza del
direttore dei lavori (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Effetti
dell'errore, l'onere grava sui clienti.
L'avvocato non potrà essere considerato responsabile solo in
presenza di un semplice errore o di una omissione, ma sta al
cliente la necessità di dimostrare che ci sarebbero state
probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza
della condotta che viene dichiarata colpevole.
È quanto sottolineato dai giudici della terza sezione civile
della Corte di Cassazione -Sez. III civile- con la
sentenza 10.11.2016 n. 22882.
Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici di piazza
Cavour vedeva il Tribunale dichiarare l'infondatezza
dell'azione di responsabilità proposta dalla casa di cura
Caia nei confronti degli avvocati Tizio e Sempronio,
ritenendoli non imputabili della pur lamentata illegittimità
degli atti di una procedura di licenziamento collettivo
adottata dall'attrice su loro suggerimento, in mancanza di
prova della attribuibilità ai predetti avvocati della
condotta generatrice del lamentato evento di danno.
La Corte di appello, investita dell'impugnazione proposta
dalla casa di cura, la ritenne inammissibile ex art. 348-ter
c.p.c..
Costituisce, difatti, ius receptum il principio secondo il
quale la responsabilità dell'avvocato non può dirsi
esistente, e conseguentemente affermarsi, in presenza di un
semplice errore (od omissione), stante la necessità di
dimostrare, da parte del cliente, la ragionevole probabilità
di un diverso e più favorevole esito in assenza di quella
condotta asseritamente colpevole: la sentenza impugnata, sia
pur implicitamente, appare perfettamente orientata da tali
principi, a parere degli Ermellini, avendo correttamente
valutato, altrettanto correttamente giudicando, in ordine
agli oneri di allegazione e prova gravanti
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
dividere casa basta la Cila. Stop al regolamento comunale
che vieta il frazionamento. Tar
Toscana: l'attività edilizia libera si sottrae a controlli
preventivi o successivi.
Il comune non può bloccare i lavori avviati con Cila per
dividere in tre l'appartamento in centro invocando la
contrarietà al regolamento urbanistico dell'ente: l'attività
edilizia libera, infatti, rientra ormai nella manutenzione
ordinaria e straordinaria, che soltanto in casi eccezionali
risulta soggetta alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici. D'altronde il frazionamento dell'immobile non
aumenta il carico urbanistico ammesso nella zona né incide
sull'aspetto dell'edificio.
È quanto emerge dalla
sentenza
10.11.2016 n. 1625,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana.
Accolto il ricorso proposto dal proprietario
dell'appartamento da suddividere: è annullato il regolamento
urbanistico del comune nella parte in cui vieta l'aumento di
unità immobiliari nell'ambito di operazioni di frazionamento
che costituiscono manutenzione straordinaria ai sensi
dell'articolo 3, comma 1, lettera c), del Testo unico
dell'edilizia.
Dopo la riforma, il legislatore ha sottratto
l'attività edilizia libera a ogni forma di controllo
preventivo o successivo. E il fatto che le opere intraprese
con la comunicazione di inizio lavori rifluiscano nella
manutenzione le fa rientrare nel nucleo delle attività
connesse al diritto di proprietà che non può essere
compresso dagli strumenti urbanistici: il prg e gli altri
atti mettono soprattutto i paletti per la tutela del
paesaggio o del patrimonio storico e artistico. Non si
capisce, dunque, quali siano le superiori ragioni di
interesse pubblico che spingono il comune a stoppare di
fatto la Cila.
I precedenti.
La prima conseguenza è che per abbattere tramezzi o rifare
pavimenti gli oneri di costruzione vanno rimborsati perché
non dovuti. Il comune è condannato a restituire le somme
incassate per i lavori laddove le opere edilizie realizzate
sono soggette a mera Scia o Cila e quindi non implicano un
incremento del carico urbanistico: a ottenere la rifusione
del denaro versato è la società che gestisce il centro
commerciale, tenuta a realizzare in continuazione ai lavori
di allestimento dei punti vendita che dà in affitto, con
abbattimento di tramezzi e rifacimento di pavimenti secondo
le esigenze del commerciante nuovo conduttore. È quanto
emerge dalla sentenza 1769/2016, pubblicata dal Tar Campania.
Secondo l'amministrazione gli interventi eseguiti sono di
vera e propria ristrutturazione: nei negozi del mall di
provincia si rifanno bagni e controsoffitti e si
costruiscono vere e proprie pareti, per quanto di
cartongesso. Ma anche a voler aderire alla tesi del comune
le opere realizzate non richiedono comunque il permesso di
costruire o la Dia sostitutiva: manca l'incremento per il
volume complessivo degli immobili oltre che della
destinazione d'uso o della sagoma.
In ogni caso i lavori
sono comunque assimilabili a interventi di manutenzione
straordinaria. E senza cambio di destinazione d'uso non si
può scaricare sul privato i costi sociali degli oneri di
urbanizzazione visto che manca la trasformazione di cui
avvantaggiarsi.
Ancora.
Basta la Cila per ristrutturare il bagno del negozio nel
centro storico della città, senza che proprietario e gestore
siano costretti anche a interventi sulla facciata
dell'edificio, che pure è di pregio. E ciò perché la
comunicazione di inizio lavori asseverata risulta
sufficiente quando i lavori previsti non incidono sulla
struttura del fabbricato, mentre il comune non può imporre
anche un intervento sul prospetto dell'immobile. È quanto
emerge dalla sentenza 240/2016, pubblicata dalla sede di Lecce
del Tar Puglia.
Accolto il ricorso del proprietario delle mura e del
commerciante: compie un eccesso di potere l'amministrazione
locale quando dichiara decaduta la Cila sostenendo che per
portare a termine il progetto sarebbe necessario il permesso
a costruire.
In realtà i lavori riguardano l'intonaco e i pavimenti, si
punta a rifare il bagno, a tinteggiare le pareti, a
restaurare gli infissi e sostituire gli impianti. Nulla di
particolarmente invasivo, insomma. Né si può imporre il
titolo edilizio più complesso per un cambio di destinazione
d'uso laddove i locali un tempo ospitavano un bar e sono
sempre stati destinati ad attività commerciale
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.12.2016).
---------------
MASSIMA
La controversia in esame ha ad oggetto la pretesa del
Sig. Er.Sc. di frazionare liberamente un appartamento di sua
proprietà ubicato in Forte dei Marmi alla via ... n. 5 in
relazione al quale egli ha presentato una CILA ex art. 6
t.u.e. dichiarata inefficace dall’omonimo comune in base
all’assunto che l’intervento contrasterebbe con il divieto
di incremento delle unità immobiliari previsto dalle n.t.a.
del vigente regolamento urbanistico.
Il comune di Forte dei Marmi, costituitosi in giudizio, ha
eccepito in primo luogo la tardività del ricorso in quanto
il provvedimento impugnato avrebbe carattere meramente
confermativo di precedenti atti con cui l’Ente si era già
espresso in ordine alla non conformità dell’intervento allo
strumento urbanistico.
L’eccezione è priva di fondamento per le ragioni che si
vanno ad esporre.
Il regime della edilizia libera di cui
all’art. 6 del D.P.R. 380 del 2001, diversamente da quello
della scia, non prevede una fase di controllo successivo (da
esperirsi entro un termine perentorio) che –in caso di esito
negativo- si chiude con un provvedimento di carattere
inibitorio.
Gli interventi che rientrano nella sfera di “libertà”
definita dalla predetta norma non sono infatti soggetti ad
alcun titolo edilizio tacito o espresso: in relazione agli
stessi, pertanto, l’amministrazione dispone di un unico
potere che è quello sanzionatorio da esercitarsi nel caso in
cui gli stessi vengano realizzati in contrasto con la
disciplina urbanistica o edilizia.
Eventuali pronunciamenti anticipati dell’ente in ordine alla
ammissibilità degli interventi comunicati con CILA non
hanno, quindi, carattere provvedimentale ma meramente
informativo, non rispondendo gli stessi ad un potere
legislativamente tipizzato.
Dalla predetta premessa non consegue, tuttavia,
l’inammissibilità del ricorso, atteso che il ricorrente non
ha solo formulato una domanda di annullamento ma ha anche
richiesto l’accertamento della legittimità dell’intervento
che intende realizzare.
A tale domanda non osta il disposto dell’art. 34 c.p.a
laddove prevede che il g.a. non possa pronunciarsi con
riferimento a poteri non ancora esercitati.
Con tale formula il legislatore ha voluto, infatti,
conservare il carattere reattivo del processo amministrativo
prevedendo che lo stesso non possa surrogarsi al
procedimento amministrativo e presupponga, quindi, un
preventivo esercizio della funzione.
Si tratta, però, di un principio che non va assolutizzato
dovendo lo stesso bilanciarsi con altra regola fondamentale
di ogni tipo di processo che è quella dell’interesse ad
agire.
L’interesse ad agire, denotando un bisogno di tutela
riferito ad una posizione soggettiva, radica l’esercizio del
diritto di azione assicurato a difesa dei diritti e degli
interessi legittimi dall’art. 24 Cost.. E poiché l’interesse
legittimo è oramai pacificamente considerato come posizione
sostanziale che preesiste all’atto non vi possono essere
ostacoli ad ammettere la sussistenza di un interesse alla
sua tutela –entro i limiti della giurisdizione di
legittimità- anche prima della adozione di un provvedimento
lesivo tutte le volte che la dinamica procedimentale si
riveli, per una qualche ragione, insufficiente o inidonea ad
assicurarne la soddisfazione (come, ad esempio, accade nei
casi di mancato rispetto del termine per la conclusione del
procedimento).
Con riferimento al regime della edilizia
libera non v’è dubbio che l’interesse del titolare del
diritto sul bene all’accertamento circa la realizzabilità
dell’intervento divisato può insorgere ancor prima che sia
irrogata dalla p.a. una eventuale misura sanzionatoria
(impugnabile con domanda di annullamento).
Siffatto interesse diviene, infatti, attuale e concreto già
nel momento in cui vi sia stata in ordine all’intervento una
contestazione preventiva da parte dell’amministrazione,
contestazione che, sebbene (per le ragioni già dette) non
possa assumere carattere propriamente provvedimentale, vale,
comunque, a creare i presupposti per l’esperimento innanzi
al g.a. di un’azione di accertamento (sulla falsa riga di
quanto accade anche nel processo civile).
Nel merito il ricorso è fondato.
Il comune di Forte dei Marmi asserisce che l’attività
edilizia libera si connoterebbe come tale solo per il fatto
di non essere sottoposta, diversamente dalle attività
soggette a permesso, dia o scia, ad un potere amministrativo
di controllo preventivo o successivo, ma non formerebbe,
invece, un ambito sottratto al potere di regolamentazione
della attività edilizia, restando subordinata al rispetto
delle previsioni degli strumenti urbanistici comunali e
delle altre normative di settore.
In altre parole la categoria in esame, secondo questa tesi,
sarebbe stata concepita dal legislatore in un ottica di mera
liberalizzazione dai controlli ma non come deregolazione
sostanziale.
Siffatta impostazione, tuttavia, non coglie appieno l’esatta
portata giuridica della categoria in esame.
Il legislatore,
infatti, non si è limitato a sottrarre le
tipologie di intervento che vi rientrano ad ogni forma di
controllo preventivo o successivo ma le ha contestualmente
fatte refluire nell’ambito delle categorie della
manutenzione ordinaria e straordinaria.
Tale operazione possiede una sua specifica rilevanza in
quanto manutenzione ordinaria e straordinaria sono da sempre
considerate forme di gestione che, in quanto finalizzate
alla tutela della integrità ed alla conservazione funzionale
del patrimonio edilizio esistente, non possono essere
indiscriminatamente vietate.
Si tratta, in altre parole, di attività rientranti nel
nucleo del diritto dominicale che deve ritenersi normalmente
incomprimibile da parte degli strumenti urbanistici e
territoriali i quali possono disciplinarne il quo modo solo
in funzione di specifiche esigenze che, solitamente,
attengono alla tutela del paesaggio o del patrimonio storico
artistico (Corte
Cost. 529/1995).
Non a caso, infatti, il loro svolgimento è
ex lege ammesso anche nei comuni e nelle zone privi
di disciplina urbanistica ed è sottratto al controllo
paesaggistico nei casi in cui non comporti un’alterazione
dell’aspetto esteriore degli edifici.
La specifica qualificazione manutentiva dei lavori che il
legislatore ha incluso nell’ambito della edilizia libera è,
quindi, rivelatrice del fatto che gli stessi sono stati
considerati come facoltà di uso del bene che, non incidendo
–di regola– sugli interessi protetti dalle varie discipline
che regolamentano l’uso del territorio, costituiscono una
libera manifestazione del diritto di proprietà che recede
solo a fronte di esigenze pubbliche ben determinate e
riconoscibili.
Per cui, se è ben vero,
come rimarca la difesa comunale, che a
mente dell’art. 6 del D.P.R. 380 del 2001
(e dell’art. 136, comma 1, della L.R. 64/2015 che deve
essere interpretato in senso ad esso conforme)
gli interventi di edilizia libera possono essere
soggetti alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
comunali, nondimeno, a seguito delle recenti modifiche
legislative del D.P.R. 380 del 2001, ciò può avvenire solo
nelle ipotesi eccezionali in cui la regolamentazione
urbanistica ed edilizia delle costruzioni possa riguardare
gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Nel caso di specie la norma che secondo il
comune osterebbe alla ammissibilità dell’intervento pone un
divieto di incremento di unità abitative nella zona del
centro, andando così a precludere l’esercizio di una facoltà
che a mente del combinato disposto dell’art. 3, comma 1,
lett. c), e dell’art. 6, comma 1, del D.P.R. 380 del 2001
rientra nell’ambito degli interventi manutentivi di edilizia
libera.
Non si comprendono, tuttavia, le superiori ragioni di
interesse pubblico che tale norma intenderebbe proteggere.
Il frazionamento non incide, infatti, sull’aspetto esteriore
dell’edificio e non chiama, quindi, in causa profili di
tutela del paesaggio.
Nemmeno può dirsi che il frazionamento in sé determini una
indesiderata variazione del carico urbanistico ammesso nella
zona, posto che lo stesso (concretandosi in una perequazione
di superfici già autorizzate interne ad un medesimo
edificio) non comporta un incremento complessivo di
superficie utile o di volume (che costituiscono i parametri
in relazione ai quali si commisurano gli standards giusto il
disposto dell’art. 3, comma 1, del DM 1444 del 1968).
Sicché, la norma in questione nella parte in cui va a
limitare indiscriminatamente una attività di tipo
manutentivo rientrante nell’ambito della edilizia libera ai
sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, e 6,
comma 1, del d.p.r. 380 del 2001 deve considerarsi
illegittima e deve, quindi, essere annullata. |
APPALTI: Offerta
valida solo se c’è il Durc. Non è sufficiente la regolarità
contributiva all’aggiudicazione.
Gare. La Corte di giustizia Ue ritiene la norma nazionale
compatibile con il diritto comunitario.
Può essere esclusa da una gara
l’azienda che risulta in possesso del documento unico di
regolarità contributiva (Durc)al momento
dell’aggiudicazione, ma non al momento della presentazione
dell’offerta: la regola che fissa tale esclusione, infatti,
non contrasta con le norme stabilite dal diritto comunitario
in materia di appalti pubblici.
La Corte di giustizia europea, con la
sentenza 10.11.2016 - C-199/15, fornisce l’esatta interpretazione
che deve essere data all’articolo 45 della direttiva
2004/18/Ce relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici.
La norma stabilisce che può essere escluso dalla
partecipazione all’appalto ogni operatore economico che non
sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei
contributi previdenziali e assistenziali, secondo la
legislazione del Paese dove è stabilito o del Paese
dell’amministrazione aggiudicatrice.
La normativa italiana vigente al momento della lite -articolo 38, paragrafo 1, lettera i) del decreto legislativo
163/2006, il codice appalti (normativa abrogata a seguito
dell’introduzione del nuovo codice)- escludeva dalle
procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti i
soggetti responsabili di violazioni gravi, definitivamente
accertate, delle norme in materia di contributi
previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione
italiana o dello Stato in cui sono stabiliti.
Venivano considerate, ai sensi della stessa normativa, come
«gravi» tutte le violazioni che impedivano il rilascio del
documento unico di regolarità contributiva (Durc), con un
margine di tolleranza per le inadempienze confinate in
misura inferiore o pari al 5% tra le somme dovute e quelle
versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di
contribuzione, o comunque di importo inferiore a 100,00
euro.
La controversia che ha reso necessaria la valutazione di
questa normativa è stata promossa da un consorzio di imprese
che ha partecipato a una procedura di gara per l’affidamento
di servizi di pulizia presso un ente pubblico,
qualificandosi in prima posizione. Al momento
dell’aggiudicazione del servizio, è emerso che alla data di
presentazione dell’offerta una delle società del consorzio -pur avendo dichiarato il contrario- non era in regola con
il pagamento dei premi assicurativi. La posizione debitoria
era stata sanata prima che si sapesse dell’esito della gara,
ma il consorzio è stata esclusa ugualmente dalla gara.
Il Tar ha ritenuto legittima l’esclusione, mentre il
Consiglio di Stato ha investito della questione la Corte di
giustizia europea, sollevando il dubbio che l’estremo
formalismo della disciplina italiana risulti in contrasto
con il diritto comunitario.
La Corte europea, come accennato, ha giudicato infondato
questo dubbio, stabilendo che non è in contrasto con la
direttiva 2004/18 una normativa nazionale, come quella
italiana, che obbliga le amministrazioni aggiudicatrici a
valutare la mancanza del Durc al momento della data di
partecipazione a una gara d’appalto.
La norma giudicata lecita dalla Corte è stata oggi abrogata,
ma il principio di diritto affermato dal giudice comunitario
sembra applicabile anche rispetto al nuovo codice appalti (Dlgs
50/2016), in quanto l’articolo 80 del nuovo testo ha
riprodotto in termini uniformi la vecchia disciplina.
Tale norma, infatti, continua a far coincidere il momento in
cui deve essere posseduto il Durc con il termine di
presentazione dell’offerta; la nuova disposizione precisa
che l’esclusione non può essere deliberata se l’impresa ha
ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo
vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali
dovuti, compresi eventuali interessi o multe, purché il
pagamento o l’impegno siano stati formalizzati prima della
scadenza del termine per la presentazione delle domande (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2016). |
APPALTI:
Durc negativo, l'impresa va esclusa anche se poi
l'irregolarità viene sanata.
Sentenza della Corte Ue: non conta che l'importo mancante
sia stato versato al momento dell'aggiudicazione.
L'impresa con un Durc (documento unico
di regolarità contributiva) negativo deve essere esclusa
dalla gara d'appalto, anche se successivamente
l'irregolarità contributiva è stata sanata. Non importa che
l'importo mancante sia stato versato al momento
dell'aggiudicazione: va considerato solo il termine di
partecipazione alla gara.
Così si è pronunciata la Corte di giustizia europea nella
sentenza 10.11.2016 - C-199/15.
La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dal
Consiglio di Stato nell’ambito di una controversia tra, da
un lato, il consorzio Ciclat Soc. coop. e, dall’altro, la
Consip SpA e l’Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture in merito a una
procedura di aggiudicazione per la fornitura di servizi di
pulizia e di altri servizi di manutenzione degli immobili,
degli istituti scolastici e dei centri di formazione della
Pubblica amministrazione.
Il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte la seguente
questione pregiudiziale: «Se l’articolo 45 della
direttiva 2004/18, letto anche alla luce del principio di
ragionevolezza, nonché gli articoli 49, 56 del TFUE, ostino
ad una normativa nazionale che, nell’ambito di una procedura
d’appalto sopra soglia, consenta la richiesta d’ufficio
della certificazione formata dagli istituti previdenziali (DURC)
ed obblighi la stazione appaltante a considerare ostativa
una certificazione dalla quale si evince una violazione
contributiva pregressa ed in particolare sussistente al
momento della partecipazione, tuttavia non conosciuta
dall’operatore economico –il quale ha partecipato in forza
di un DURC positivo in corso di validità– e comunque non più
sussistente al momento dell’aggiudicazione o della verifica
d’ufficio».
Nella sentenza la Corte Ue ha chiarito che l’articolo 45
della direttiva 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, deve essere interpretato
nel senso che non osta a una normativa nazionale, come
quella di cui trattasi nel procedimento principale, che
obbliga l’amministrazione aggiudicatrice a considerare quale
motivo di esclusione una violazione in materia di versamento
di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da
un certificato richiesto d’ufficio dall’amministrazione
aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali,
qualora tale violazione sussistesse alla data della
partecipazione ad una gara d’appalto, anche se non
sussisteva più alla data dell’aggiudicazione o della
verifica d’ufficio da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice (commento tratto da
http://www.casaeclima.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Scivolata
per la legge Madia. Sulla dirigenza pubblica serviva
l'intesa stato-regioni. La Consulta
dichiara l'illegittimità parziale della delega. Effetti
incerti sul decreto.
Riforma della dirigenza pubblica in salita. Il testo
attuativo della riforma Madia approvato giovedì scorso dal
consiglio dei ministri in via definitiva non è stato ancora
pubblicato in G.U. che già trova un ostacolo.
Con la
sentenza 09.11.2016 n. 251, la Corte costituzionale
ha sancito ieri l'illegittimità di quella norma della legge
delega che prevede che i decreti attuativi siano approvati
previo semplice parere della Conferenza unificata anziché
previa intesa in Conferenza stato-regioni.
Con un comunicato
la Consulta ha poi un po' ammorbidito gli effetti della
decisione, spiegando che per sancire l'illegittimità
(derivata) del decreto bisognerà attendere ulteriore
impugnazione e verificare che nel frattempo il governo non
abbia posto rimedio. Ma andiamo con ordine.
La sentenza.
La sentenza accoglie parzialmente il ricorso
proposto dalla regione Veneto contro l'articolo 11 della
legge Madia, la legge 124/2015.
In particolare, la sentenza accerta «l'illegittimità
costituzionale dell'art. 11, comma 1, lettere a), b), numero
2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o),
p) e q), e comma 2, della legge 07.08.2015, n. 124
(deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che i
decreti legislativi attuativi siano adottati previa
acquisizione del parere reso in sede di Conferenza
unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza
stato-regioni».
La pronuncia evidenzia un grave vizio di legittimità
costituzionale della legge delega, consistente nella
circostanza che per garantire l'autonomia costituzionalmente
riconosciuta alle regioni, la riforma non avrebbe dovuto
limitarsi a chiedere alla Conferenza unificata un mero
«parere» su elementi come l'accesso alla carriera, la
costituzione del ruolo unico regionale ed i criteri per
assegnare e revocare gli incarichi dirigenziali.
Trattandosi, infatti, di elementi in parte rientranti nella
potestà legislativa concorrente delle regioni, la legge
avrebbe dovuto prevedere una forma più intensa di
concertazione tra regioni e stato, che non desse a
quest'ultimo la possibilità, di una decisione finale, senza
tenere conto delle indicazioni delle regioni.
Il problema è che nel frattempo i lavori della riforma sono
andati avanti e che il testo del decreto legislativo
attuativo, approvato in via definitiva dal governo il 24
novembre è stato redatto acquisendo il parere in Conferenza
unificata e non ottenendo l'intesa in sede di Conferenza
stato-regioni.
Un vizio procedurale molto grave, che inficia l'intero
decreto e accertato dalla Consulta in zona Cesarini:
infatti, la delega legislativa scade il 27 novembre e non
c'è materialmente più il tempo per ottenere dalla Conferenza
stato-regioni l'intesa saltata a piè pari, a causa della
norma della legge delega considerata incostituzionale.
Gli effetti.
Secondo molti interpreti e il sindacato Unadis,
il decreto legislativo attuativo non può che essere
destinato a decadere. Quindi, il governo dovrebbe ripartire
da zero.
Probabilmente anche a partire dalla modifica dell'articolo
11 della legge 124/2015. Infatti, la sentenza della Consulta
non rientra tra quelle «interpretative di rigetto», che non
accolgono il ricorso suggerendo un certo modo di leggere la
norma a sospetto di incostituzionalità, ma considera
l'articolo 11 della legge Madia affetto dal vizio di non
aver imposto l'intesa in Conferenza stato-regioni: dunque,
occorrerebbe prima modificare la legge e renderla conforme
alla Costituzione e, poi, ripartire con l'iter di formazione
del decreto attuativo, rispettando gli obblighi del
passaggio in Conferenza stato-regioni.
È da tenere presente che il governo, approvando in via
definitiva il testo del decreto, ha sostanzialmente ignorato
sia il parere (formalmente positivo, ma sostanzialmente
fortemente negativo) del Consiglio di stato, sia quello
espresso dalle regioni in Conferenza unificata, forse anche
più critico di quello di Palazzo Spada.
Ripartire da zero, dunque, potrebbe significare anche dover
riscrivere in maniera radicale il contenuto della riforma,
perché le regioni diano la propria intesa,
costituzionalmente obbligatoria.
Decisione smussata.
È facilmente immaginabile la reazione
del governo, che farà in modo di fornire una chiave di
lettura tale da depotenziare gli effetti potenzialmente
deflagranti della sentenza.
La stessa Consulta, peraltro, nel suo comunicato sulla
pronuncia, intende blandire gli effetti della sua decisione,
affermando che «le pronunce di illegittimità costituzionale,
contenute in questa decisione, sono circoscritte alle
disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015,
oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative
disposizioni attuative.
Nel caso di impugnazione di tali
disposizioni, si dovrà accertare l'effettiva lesione delle
competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni
correttive che il governo riterrà di apprestare al fine di
assicurare il rispetto del principio di leale
collaborazione». Tale chiave di lettura, opposta a quella
dei sindacati, considera la sentenza priva di effetti
diretti sull'iter seguito fin qui: per bloccare la riforma,
quindi, occorrerebbe un nuovo ricorso da parte delle
regioni.
---------------
Il commento. L'ultima di tante norme
scritte male.
La sentenza della Consulta sull'illegittimità costituzionale
della legge Madia sulla dirigenza rivela la dimensione ormai
incontrollata e grave della carenza di qualità tecnica degli
uffici a supporto della politica.
È abbastanza incredibile che una riforma considerata
«strategica» come quella dei dirigenti pubblici, sulla quale
il governo punta molta della propria credibilità nella
volontà di cambiamento, inciampi su un aspetto di apparente
dettaglio: la mancata previsione dell'obbligo di ottenere
con le regioni una vera e propria intesa sulla disciplina
della dirigenza regionale e non un semplice parere, come
previsto dall'articolo 11 della legge 124/2015 e come colto
dagli occhiutissimi avvocati reclutati dal presidente della
regione Veneto, Luca Zaia, che ha dato la stura alla grana
che sta scoppiando a palazzo Chigi.
Ma di sentenze della Consulta che hanno bacchettato governo
e Parlamento su aspetti di dettaglio tecnico ve ne sono
molte, anzi troppe, ormai da anni.
Pensiamo alla clamorosa sentenza sui dirigenti delle agenzie
fiscali, la 37/2015: era chiarissimo a tutti che le norme
per sanare la posizione dei funzionari «promossi» a
dirigenti senza concorso erano insostenibili sul piano
costituzionale, specie dopo molteplici precedenti pronunce
di Tar e consiglio di stato.
Uno scivolone su una buccia di banana è stata anche la norma
sul contributo di solidarietà sulle pensioni superiori a 90
mila euro chiesto ai dirigenti pubblici dal dl 98/2011,
silurato dalla sentenza della Consulta 116/2013.
Altro esempio è stata la riforma delle province abbozzata
dal governo Monti e immediatamente abortita: la sentenza
della Corte costituzionale ebbe gioco facilissimo nel
bocciarla (con sentenza 220/2013), perché la riforma venne
adottata con un decreto legge e non con legge ordinaria,
cosa del tutto impossibile vista la copertura costituzionale
all'autonomia delle martoriate province.
Un conto è che la Consulta corregga il tiro di Parlamento (e
governo) su questioni di legittimità legate a grandi temi
che investano i principi generali, scelte anche di merito
politico che implicano creatività, responsabilità e il
giusto rischio innovativo nell'esercizio dell'indirizzo
politico di una maggioranza. Ben diverso è constatare un
continuo intervento della corte costituzionale, chiamata
letteralmente a «bacchettare» il legislatore su aspetti di
dettaglio tecnico, quelli dei quali il politico, attento
appunto a scenari generali, non dovrebbe nemmeno curarsi, ma
che rientrano nella sfera delle «alte competenze» di capi di
gabinetto, capi dipartimento uffici legislativi e
«consiglieri giuridici» che a vario titolo compongono gli
staff di presidente del consiglio, ministri e uffici
parlamentari.
Il florilegio delle sentenze della Consulta che bocciano le
leggi su elementi tecnici essenziali, come tali in teoria
impossibili da violare, fornisce indizi ben poco
rassicuranti sulla qualità complessiva degli staff di
supporto agli organi di governo, confermando ancora una
volta che se il tempo di produzione delle leggi è un
problema certo rilevante e da affrontare, una vera riforma
necessaria al paese è quella che mira ad aumentare e di
molto la qualità dei testi delle leggi, troppo lontana,
nella media, dall'accettabilità
(articolo ItaliaOggi del 26.11.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Quando
l’avvocato è responsabile verso il cliente.
La responsabilità professionale dell’avvocato presuppone la
prova di un danno effettivo che sia stato causato solo dalla
condotta del professionista.
L’avvocato non risponde per le «cause perse» anche se
ha commesso un grave errore di negligenza professionale.
Questo perché, per poter chiedere il risarcimento al proprio
legale, il cliente deve dimostrare, oltre all’errore di
quest’ultimo, anche il danno conseguente a detto errore:
danno consistente, ad esempio, nell’aver perso la causa.
Pertanto, se anche senza lo sbaglio dell’avvocato, il
giudice avrebbe dato torto alla parte, quest’ultima non può
pretendere alcun indennizzo.
È quanto ricorda la Cassazione con una recente sentenza
[1].
La Corte riprende un orientamento ormai stabile nella
giurisprudenza. Per potersi avere responsabilità
professionale dell’avvocato verso il cliente è necessario
verificare che l’azione giudiziale, senza l’errore del
professionista, avrebbe probabilmente avuto un esito
favorevole [2].
Pertanto, non è sufficiente il solo fatto del non corretto
adempimento dell’attività professionale, ma occorre anche
verificare se il danno lamentato dal cliente sia
riconducibile alla condotta dell’avvocato, se un danno vi
sia stato effettivamente e se, ove questi avesse tenuto il
comportamento dovuto, il suo assistito, con buona
probabilità, avrebbe ottenuto il riconoscimento delle
proprie ragioni dal tribunale.
Di conseguenza, il cliente danneggiato deve dimostrare la
colpa del professionista, ossia la violazione dei doveri di
diligenza richiesti dal codice civile nonché il danno
derivato dalla eventuale omissione o errore riscontrato. Il
danno consiste nell’aver perso una causa che, altrimenti,
sarebbe stata vinta senza la negligenza del legale. Se, al
contrario, il giudizio avrebbe avuto comunque un esito
negativo, non si può pretendere alcun risarcimento. Il
professionista, infatti, non può garantire l’esito
favorevole auspicato dal cliente, dipendendo ciò da diversi
fattori. Il danno per il cliente, pertanto, può dirsi
sussistente solo quando, sulla base di criteri
necessariamente probabilistici, si accerti che senza quella
omissione il risultato sperato sarebbe stato conseguito nel
relativo giudizio.
Che differenza c’è tra imperizia ed errata strategia
processuale?
L’errore dell’avvocato non sempre coincide con una strategia
processuale sbagliata, anche se la differenza è minima.
L’errore professionale si ha quando l’avvocato ignori o
violi precise disposizioni di legge, oppure sbagli nel
risolvere questioni giuridiche non suscettibili di diversa
interpretazione. Al contrario, la scelta di una strategia
processuale sbagliata può comportare una responsabilità
purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato
perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice
di merito sulla base dell’esito del giudizio.
Ricordiamo in ultimo che l’avvocato ha l’obbligo di non
consigliare azioni inutili o pretestuose e di informare il
cliente sulle caratteristiche della controversia e sulle
possibili soluzioni. In particolare, l’avvocato deve
dissuadere il cliente da azioni prive di fondamento.
---------------
[1] Corte di Cassazione -Sez. III civile-
con la
sentenza 08.11.2016 n. 22606
[2] Per l’affermazione della responsabilità dell’avvocato
non è possibile, per la peculiarità dell’obbligazione dello
stesso avvocato, seguire il criterio del sicuro fondamento
dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta o
diligentemente coltivata. Ne consegue che, al criterio della
certezza della condotta, può sostituirsi quello della
probabilità di tali effetti e dell’idoneità della condotta a
produrli (commento
tratto da www.laleggepertutti.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Un
limite alla responsabilità. La negligenza del professionista
non sempre è punita. AVVOCATI/ La
Cassazione su un caso di mancata denuncia da parte del
legale.
La responsabilità dell'avvocato subisce dei limiti: la
negligenza professionale dell'avvocato non sempre viene
punita.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione -Sez. III civile-
con la
sentenza 08.11.2016 n. 22606,
che si è soffermata sulla responsabilità professionale di un
legale che si sia reso protagonista di diverse inadempienze
tra cui la mancata denuncia di truffa per mancata consegna
di beni in leasing.
Due coniugi avevano citato in giudizio il proprio avvocato
chiedendo che fosse condannato al risarcimento dei danni da
loro subiti per le sue negligenze professionali.
Difatti, avendo stipulato due contratti di leasing, i due
tizi si erano rivolti al suddetto professionista che li
aveva assistiti in una serie di procedimenti giudiziari ma
agendo in modo negligente.
Oltre al Tribunale, anche la Corte d'appello ha respinto le
richieste presentate dai due clienti affermando che «era
infondato l'addebito di negligenza conseguente alla mancata
presentazione dell'istanza di conversione del pignoramento
nell'ambito della procedura esecutiva».
Parimenti, la Corte non ha ritenuto consona «la pretesa
risarcitoria collegata al mancato espletamento del giudizio
di nullità del contratto di leasing in conseguenza della
mancata indicazione dei numeri di matricola delle macchine
concesse in leasing». Infatti, «l'assenza del numero di
matricola non aveva alcun peso in ordine al perfezionamento
del contratto in questione».
Anche nel giudizio in Cassazione i coniugi hanno dovuto
perdere ogni speranza risarcitoria, difatti, i giudici di
legittimità hanno dovuto constatare che non basta la
circostanza della negligenza del professionista tenuta
durante l'adempimento dell'attività professionale svolta, ma
occorre anche verificare se il danno subito dal cliente sia
riconducibile alla condotta dell'avvocato e se vi sia stato
effettivamente.
Occorre, infine, accertare, ove il legale si fosse ben
comportato, se il cliente avrebbe comunque ottenuto il
riconoscimento delle proprie ragioni dal tribunale o meno.
Insomma, il cliente che ha subito danni deve, quindi,
dimostrare la colpa del professionista, ossia la violazione
dei doveri di diligenza, nonché il danno derivato
dall'eventuale errore riscontrato
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.11.2016). |
TRIBUTI: Convenzione
scaduta, accertamento Tarsu ko.
Le intimazioni di pagamento, così come gli altri atti di
accertamento o riscossione emessi dall'ente affidatario del
servizio di accertamento e riscossione dei tributi comunali,
sono nulli se, prima della loro emissione, è scaduta la
convenzione tra il comune e l'ente stesso; sussiste, in tal
caso, un difetto di legittimazione attiva in capo al
concessionario, che abbia agito per conto del comune
scavalcando i termini di vigenza della specifica
convenzione.
Sono i principi che afferma la Ctp di Taranto, nella
sentenza 08.11.2016 n. 2573/03/2016.
La lite tributaria si origina dall'impugnazione di due
intimazioni di pagamento, relative ad altrettante cartelle
pregresse per la Tarsu, notificate da una Spa esercente
l'attività di accertamento e riscossione dei tributi locali,
per conto di alcuni comuni. Quale motivo preliminare, la
difesa eccepiva che le intimazioni erano state notificate
nell'anno 2013, mentre la convenzione tra l'ente di
riscossione e il relativo comune era scaduta in data
31/12/2009; da ciò l'eccezione di difetto di legittimazione
attiva in capo al concessionario.
La Commissione ha accolto il ricorso ritenendo fondato il
motivo (unitamente agli altri analizzati nel prosieguo). Una
volta scaduta la convenzione, spiega la Ctp, l'ente deve
restituire al comune i carichi residui, unitamente a una
relazione sullo stato dell'attività in essere; ma
soprattutto, a partire da quella data, non può più emettere
atti di accertamento o riscossione, altrimenti illegittimi.
Analoghe conclusioni si leggevano nella sentenza n.
5974/08/16 della Ctp di Salerno, con cui il giudice campano
aveva accolto il ricorso presentato da una contribuente
contro un avviso di accertamento Tarsu. La difesa di parte
ricorrente aveva eccepito, in primis, il difetto di
legittimazione attiva della società concessionaria,
rilevando che la convenzione con il comune di fosse scaduta
nel maggio del 2015, mentre l'accertamento risultava
notificato a dicembre 2015.
Il motivo aveva fatto breccia nel pensiero del collegio
giudicante, tant'è che la Ctp di Salerno aveva accolto il
ricorso e annullato l'avviso di accertamento, pur mitigando
la decisione con la compensazione integrale delle spese di
giudizio.
A differenza dei colleghi di Salerno, i giudici di Taranto,
nella sentenza in commento, hanno ritenuto di dover
condannare alle spese la società concessionaria, per aver
agito (e creato danni ai contribuenti) dopo la scadenza
della convenzione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Esaminati gli atti la Commissione ritiene essere
condivisibili le ragioni espresse dal ricorrente.
È indiscusso che il mandato affidato dal comune alla Spa in
anni precedenti è scaduto il 31/12/2009 ed è anche certo che
il comune con suo atto del 12/12/2010 indirizzato alla Spa
nel confermare alla stessa società la scadenza della
convenzione per la gestione della riscossione alla data del
31/12/2009, ha manifestato anche la volontà di sostituire
dal giorno 01/01/2010 la gestione precedente con la gestione
diretta in economia delle Entrate comunali.
Sul punto, nel contenzioso nato per la vicenda, si è
definitivamente espresso anche il Consiglio di Stato
riconoscendo la definitiva cessazione del contratto tra i
due enti richiamati alla data del 31/12/2009.
Da quella data, poiché trattasi di contratto di mandato, la
società avrebbe dovuto restituire al mandante comune tutti i
carichi residui, tutti gli atti riguardanti lo stato
dell'attività esercitata e avrebbe dovuto formare una
relazione conclusiva dell'intera attività svolta.
Nonostante che la Spa non abbia ottemperato a tutto quanto
annotato, la stessa non aveva più il potere di porre in
essere alcun atto per il comune a partire, appunto dal
giorno 01/01/2010 e pertanto l'azione costituita dalla
notifica delle intimazioni di pagamento delle quali oggi si
parla non può essere riconosciuta legittima.
Per altro la Spa agli atti di questo procedimento non ha
dimostrato che le cartelle di pagamento prodromiche e
indicate nelle intimazioni, siano state compiutamente e
ritualmente notificate dacché deriva altresì che le
intimazioni, siano state emesse in assenza di un valido
titolo propedeutico.
Per il credito dunque, alla data della notifica delle
intimazioni (10/09/2013) si è concretizzata la prescrizione
in favore del ricorrente.
Ritiene la Commissione di non poter sottacere la mancanza di
motivazione degli avvisi di intimazione che contenendo solo
i riferimenti numerici delle cartelle di pagamento.
Ciò costituisce violazione della L. 241/1990 e della
L. 212/2000, disposizioni che impongono alla p.a. per gli
atti contenenti richieste di somme per tributi,
l'indispensabilità di esprimere una chiara, semplice e
completa esposizione delle ragioni di richiesta a pena di
nullità dell'atto emesso.
Nel considerare assorbente quanto riportato anche per tutto
quanto altro riportato agli atti di causa e non
espressamente trattato, la Commissione ritiene di dover
provvedere alla liquidazione di tale danno in via di equità.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Marciapiede
L'uso chiede concessione. Area storica.
Il ristorante affacciato su un'area archeologica importante
non può occupare con tavoli e sedie l'area attigua al
fabbricato senza ottenere preventivamente una concessione
per l'uso del suolo pubblico dal comune. A prescindere dalla
proprietà pubblica o privata della strada su cui insiste
l'esercizio.
Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la
sentenza
07.11.2016 n. 10997.
I vigili di Roma capitale hanno sanzionato un esercente che
ha occupato abusivamente un tratto di strada chiusa,
affacciato sui fori imperiali, con tavoli, sedie, tettoia e
pedana. Contro il conseguente ordine di ripristino dello
stato dei luoghi l'interessato ha proposto ricorso al
collegio ma senza successo.
Anche se il sistema viario capitolino non beneficia
particolarmente del tratto stradale oggetto della vertenza,
a parere del Tar l'occupazione fisica di quel tratto di
strada, che può essere considerato un marciapiede, deve
essere autorizzata dal comune
(articolo ItaliaOggi del 19.11.2016).
---------------
MASSIMA
La determinazione impugnata, nel riportare il contenuto
degli accertamenti della violazione effettuati dal Gruppo di
Polizia Locale, non contiene ulteriori riferimenti riguardo
la natura pubblica dell’area, ma tale qualificazione risulta
congruamente ed adeguatamente comprovata dalle allegazioni
di parte resistente, desunte dalla documentazione esistente
nel fascicolo.
Orbene, risulta in atti che l’area in questione, consistente
nella rientranza dell’area di circolazione, civici 1b, 2 e
3, denominata Foro Traiano (già Piazza Colonna Traiana), è
pervenuta al Comune con “Motu Proprio di Pio IX del
01/10/1847”. L’area è stata “iscritta nell’inventario dei
beni immobili del comune di Roma alla matricola Ibu VBL
12589 del libro A) beni demaniali”.
La nota del Dipartimento Patrimonio, protocollo 18805 del
09/07/2009, certifica tale circostanza.
Ciò posto,
va rilevato che, in assenza di atti formali costituitivi di
diritti sull’area, ogni altra circostanza –come ad esempio
l'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie gravate da
uso pubblico o l’iscrizione, come nella specie,
nell'inventario dei beni immobili del Patrimonio
di Roma Capitale (matricola Ibu VBL 12589 del libro A)
beni demaniali,
come da nota del Dipartimento Patrimonio in data
090/7/2009)-
pur non avendo natura costitutiva e portata assoluta,
tuttavia pone una presunzione di pubblicità dell'uso che è
superabile con la prova contraria della natura della strada
e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte di
coloro che sono al riguardo legittimati mediante un'azione
negatoria di servitù.
Conseguentemente,
la controversia circa la sussistenza di diritti di uso
pubblico su una strada privata è devoluta alla giurisdizione
del giudice ordinario, posto che essa investe l'accertamento
dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei
privati ovvero del Comune medesimo
(cfr. Cass. Civ., SS.UU., 17.03.2010, n. 6406);
né diversamente accade per l'accertamento dei presupposti di
una servitù di pubblico passaggio di cui dell'istituto della
dicatio ad patriam, parimenti rientrante nell'ambito
della giurisdizione del giudice ordinario
(cfr. sul punto Cass. Civ., SS.UU., 18.03.1999, n. 158 ).
Il giudice amministrativo, invece, ai sensi dell’art. 8 del
Cod. proc. amm., può e deve risolvere la questione del
carattere pubblico ovvero privato di una strada, nonché la
sussistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada
privata -eventualmente costituita anche mediante dicatio
ad patriam- allorquando sia richiesto di risolverla non
già come questione principale, sulla quale pronunciarsi con
efficacia di giudicato, ma come questione preliminare ad
altra, ovvero alla questione, dedotta in via principale -e
all'evidenza rientrante nella sua giurisdizione- concernente
la legittimità di un provvedimento del tipo di quelli qui
impugnati
(così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2006 n. 5209).
Dall'analisi della documentazione versata in atti non si
rinvengono elementi di fatto sufficienti per escludere che
sull’area de qua si sia formato il diritto di godimento
(passaggio pubblico) a favore della collettività.
I fatti e la documentazione versati in ricorso dalla società
(regolamento di condominio del 1979; spiazzo privo di
sbocchi rispetto al sistema viario capitolino) costituiscono
circostanze non rilevanti e comunque non sufficienti e/o
idonei a comprovare il diritto della società ricorrente ad
occupare l’area ad essa prospiciente.
Assume invece rilevanza il fatto notorio del pubblico
passaggio sull’area, come anche comprovato dalle stesse
riproduzioni fotografiche dell’area allegate dalla medesima
ricorrente, nonché la circostanza che l’area in questione
costituisce la prosecuzione fisica del marciapiede di via
del Foro Traiano destinata per la percorrenza indiscriminata
dei pedoni che la utilizzano, per la sua particolare
esposizione, come “affaccio terrazzato” sui resti
archeologici del Foro Traiano.
Gli indici di prova forniti dall’Amministrazione sono idonei
e sufficienti a comprovare, nei limiti del sindacato
consentito al giudice della legittimità dell’atto impugnato,
che l’area è di fatto messa a disposizione della
collettività indifferenziata da sempre e che non ne è stato
sottratto alla stessa, nel tempo, il suo uso pubblico: ciò
comporta –indipendentemente dal regime dominicale del bene-
l'assunzione da parte del bene stesso delle caratteristiche
analoghe a quelle di un bene demaniale, con conseguente
assoggettamento alla disciplina in materia di Osp e di Cosap
di cui alla regolamentazione comunale della Delibera di C.C.
n. 75 del 2010.
Proprio lo strumento della concessione Osp e del pagamento
del canone consente di compensare la diminuzione dell’utilitas
di passaggio (pur sempre consentito) subita dalla
collettività per la presenza degli arredi collocati
sull’area e sono atti che contemperano altresì i distinti
interessi pubblici e privati convergenti nella stessa
fattispecie (viabilità pedonale, tutela architettonica,
libera attività imprenditoriale, esercizio del diritto di
proprietà).
La determinazione impugnata si regge, pertanto, su
congruenti presupposti di fatto.
Ne consegue, che l’occupazione dell’area in questione
realizzata mediante “tettoia, pedana, sedie, banco,
frigo, elementi di illuminazione e cancello a chiusura del
tratto di strada interessato dalla o.s.p., per totali mq
64,80" è illegittima siccome priva di titolo concessorio.
Va chiarito che la determinazione impugnata non indica, tra
gli arredi censiti come abusivi, la “tenda di tela con
l’insegna Ristorante Ul.”, che parte ricorrente dichiara
oggetto di apposita istanza di condono edilizio, per cui le
doglianze di parte ricorrente appaiono in parte qua
inconferenti.
Ad ogni modo, anche per la corretta regolazione del rapporto
sostanziale, resta inibito all’Amministrazione perseguire
tale tipo di arredo prima che venga definita la pratica di
condono edilizio.
In conclusione, il ricorso in esame è infondato e va,
perciò, respinto. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Notai,
l'assistenza è d'obbligo. C'è responsabilità se manca
un'adeguata consulenza. Tribunale di
Trento: la stipula dell'atto non esaurisce i doveri del
professionista.
Responsabilità professionale per il notaio
rogante che non presti adeguata assistenza:
lo ha precisato il TRIBUNALE di Trento con la sentenza n.
649/2016.
Secondo il giudice di merito, il pubblico ufficiale non
avrebbe infatti solamente il dovere di stipulare atti
formalmente corretti, ma dovrebbe altresì rispettare
l'obbligo di prestare ai propri clienti adeguata assistenza,
in particolare, fornendo loro la consulenza giuridica adatta
alle problematiche connesse all'atto che gli viene
richiesto.
Il caso sottoposto all'esame del giudice aveva ad oggetto la
causa promossa da una sas nei confronti del professionista:
l'ente societario conveniva in giudizio il notaio per
sentirlo condannare al pagamento dei danni derivanti da sua
responsabilità professionale, derivante da condotta
negligente, avendo questi omesso, nell'espletamento
dell'intero incarico (quindi, non solo nella stipula
dell'atto di trasferimento ma anche nell'attività di
consulenza in ordine alle problematiche connesse), di
evidenziare la mancanza di una valida denuntiatio e
la nullità della dichiarazione di rinuncia alla prelazione.
Convenuto in giudizio, il notaio contestava la fondatezza
della domanda di parte attrice e concludeva per la reiezione
della stessa deducendo di avere svolto diligentemente il
proprio mandato.
Di diverso avviso è stato il giudice, secondo il quale «il
Notaio rogante ha non solo l'obbligo di concludere e
stipulare atti formalmente corretti ma anche l'obbligo di
prestare ai propri clienti un'adeguata assistenza». Detta
assistenza –chiarisce– consiste nel dovere di fornire
consulenza giuridica in ordine alle problematiche connesse
all'atto che gli viene richiesto di rogare, in particolare
indicando ed illustrando «al cliente le questioni giuridiche
propedeutiche alla stipula dell'atto chiamato a rogare».
Nel caso di specie, avrebbe dovuto senz'altro informare la
parte attrice della prelazione legale e degli «incombenti
preparatori da seguire al fine di ottenere una valida
dichiarazione di rinuncia alla prelazione legale del
conduttore», cosa che non era emersa. A causa di questa
omissione è stato, quindi, condannato per responsabilità
professionale
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ecoreati,
esame a tutto campo. Prevista la punibilità anche se il
danno è reversibile. La prima
sentenza della Cassazione applica la disciplina
sull'inquinamento ambientale.
Commette il delitto di «inquinamento ambientale» chi produce
un'alterazione dell'ecosistema incisiva e oggettivamente
rilevabile, anche se reversibile, prodotta violando norme
non strettamente ambientali e senza necessariamente superare
i valori limite dettati da regole di settore.
È il ritratto del nuovo eco-reato in vigore dal 09/05/2015 che
appare emergere dalla prima sentenza in materia pronunciata
lo scorso novembre 2016 dalla suprema Corte di Cassazione,
Sez. III penale.
Il contesto normativo.
La
sentenza 03.11.2016 n. 46170, la prima sulla nuova
disciplina, effettua una ricognizione sul delitto previsto
dall'articolo 452-bis del codice penale, integrato da
chiunque abusivamente cagioni una compromissione o un
deterioramento significativi e misurabili di acque, aria,
porzioni estese e significative suolo o sottosuolo,
peculiare ecosistema, biodiversità, flora o fauna.
La
pronuncia in parola, che segue la prima analisi effettuata
dall'ufficio del Massimario della stessa Corte all'atto
dell'esordio della neodisciplina, accerta anche il confine
che separa tale fattispecie dal più greve reato di «disastro
ambientale» ex articolo 452-quater dello stesso Codice.
Delitto, quest'ultimo, di cui risponde invece chi
abusivamente cagiona un'alterazione dell'equilibrio
dell'ecosistema irreversibile o con eliminazione
particolarmente onerosa tramite provvedimenti eccezionali
oppure una rilevante offesa della pubblica incolumità.
I
citati nuovi delitti, lo ricordiamo, sono stati inseriti
nell'Ordinamento giuridico dalla legge 68/2015 unitamente
alle altre fattispecie di «morte o lesioni come conseguenza
di inquinamento ambientale» (articolo 452-ter) e traffico o
abbandono di materiale altamente radioattivo (452-sexies),
«omessa bonifica» (452-terdecies), «impedimento di
controlli» (452-septies).
Il caso.
La pronuncia della Suprema corte prende le mosse dalla
condotta di una ditta incaricata della bonifica di fondali
marini, accusata del nuovo delitto di inquinamento
ambientale per aver omesso in fase di dragaggio il rispetto
delle relative norme progettuali provocando dispersione di
sedimenti e trasporto degli inquinanti contenuti
(idrocarburi e metalli pesanti) cagionando degrado delle
acque.
La Corte di cassazione risponde sulla bontà
dell'ordinanza con la quale il Tribunale del riesame aveva
annullato (non ritenendo integrato il delitto sotto il
profilo della «significatività del deterioramento delle
acque») il sequestro sia del cantiere che del sito disposto
dal gip su prima istanza della procura.
Gli elementi del delitto di inquinamento.
Accogliendo il ricorso della stessa procura, con la sentenza
46170/2016 la Cassazione sindaca il citato provvedimento di
dissequestro (annullandolo) nella parte in cui riteneva
integrabile il nuovo delitto di inquinamento ex articolo
452-bis del codice penale solo in presenza di una
«tendenziale irrimediabilità» del danno ambientale. E questo
offrendo anche una ricognizione su tutti gli elementi della
nuova fattispecie penale.
La condotta abusiva.
Sebbene in via incidentale, la sentenza 46170/2016
sottolinea come debba essere considerata abusiva la condotta
posta in essere in violazione di leggi statali o regionali
anche non strettamente pertinenti al settore ambientale così
come la condotta in dispregio di prescrizioni
amministrative.
Ciò confermando quanto anticipato dalla
citata relazione 29/05/2016 della stessa Corte, per la quale:
sotto il primo profilo, la mancanza nella neo norma incriminatrice di un riferimento alle sole violazioni di
regole ambientali rende il reato di inquinamento
configurabile anche per l'infrazione di regole volte a
tutelare in via immediata interessi diversi ma collegati
all'ecosistema (come, per esempio, la normativa
sull'esposizione all'amianto, posta a presidio di salute e
sicurezza sul lavoro); sotto il secondo profilo, è da
considerarsi abusiva, oltre alla condotta non autorizzata,
quella in contrasto con prescrizioni e limiti imposti da
titoli autorizzativi validi, quella proseguita in presenza
di atti scaduti o formalmente corretta ma di fatto
incongruente con le facoltà concesse.
Compromissione o deterioramento.
In base alla sentenza 46170/2016 la «compromissione» è da
intendersi come squilibrio funzionale (perché incidente sui
normali processi naturali correlati alla specificità della
matrice ambientale o dell'ecosistema); il «deterioramento» è
invece uno squilibrio strutturale (caratterizzato da un
decadimento di stato o qualità degli elementi naturali).
Entrambi gli eventi costituiscono un'alterazione
dell'ecosistema e, viene sottolineato, per integrare il
relativo delitto di inquinamento ambientale non occorre che
siano caratterizzati da una irreversibilità anche solo
tendenziale; qualità, quella della irreversibilità, che
rende invece solo maggiormente punibile la condotta, poiché
integrante il più grave reato di disastro ambientale ex
articolo 452-quater, c.p. Con la precedente relazione
29/05/2016 l'ufficio del Massimario aveva puntualizzato come
l'evento della «compromissione» si distingua da quello del
«deterioramento» per una proiezione dinamica degli effetti,
nel senso del maggior contenuto di pregiudizio futuro del
danno cagionato.
Significatività e misurabilità
dell'inquinamento.
Per la sentenza 46170/2016 la significatività è indice della
incisività e rilevanza del danno ambientale. La misurabilità
indica invece la necessità che il danno sia
quantitativamente apprezzabile o oggettivamente rilevabile.
Ma tale misurabilità, evidenzia la Corte, non è correlata in
via assoluta a eventuali valori limite o parametri di
inquinamento previsti dalle norme di settore (in quanto non
richiamati dalla norma incriminatrice).
Dunque, appare dalla
sentenza evincersi come possa anche verificarsi che: pur in
assenza di limiti normativi, la situazione di danno sia
comunque di macroscopica evidenza o concretamente
accertabile (evidentemente ai fini dell'integrazione del
delitto); in presenza, invece, di limiti normativi, lo
«scostamento e ripetitività» registrato nel loro
superamento, pur costituendo utile riferimento per valutare
la compromissione/deterioramento, non rappresenti (ove si
tratti di mero superamento) necessariamente sintomo di
significatività (e, quindi, della consumazione del reato).
Anche su quest'ultimo punto la pronuncia appare confermare
la relazione della Suprema corte, nella parte in cui
anticipava che a soddisfare la necessità di quantificazione
dell'inquinamento concorrono i parametri scientifici
dell'alterazione, tra cui quelli biologici, chimici,
organici e naturalistici.
Con la stessa relazione la
Cassazione aveva altresì tracciato i confini del delitto di
inquinamento ambientale «per contrasto» con gli altri, ossia
individuando quelli che, lungo l'ideale linea della
progressione criminale, costituiscono per gravità, gli
illeciti che rispettivamente lo precedono e seguono. Così:
immediatamente prima del delitto di inquinamento si colloca
la contravvenzione di «inquinamento» di suolo e acque ex
articolo 257 del dlgs 152/2006, integrata dal mero
superamento delle «concentrazioni soglia di rischio» (valori
limite stabiliti dallo stesso Codice ambientale in relazione
alla presenza di determinate sostanze chimiche);
immediatamente dopo si pone invece (come confermato dalla
sentenza in analisi) il citato delitto disastro ambientale,
caratterizzato (questo sì) dalla tendenziale irrimediabilità
dell'inquinamento provocato.
In base alla stessa relazione
Massimario il carattere «irreversibile» dell'alterazione che
fa scattare il più greve reato di disastro può inoltre
essere relativo, dovendosi riconoscerlo anche qualora
occorra, per una eventuale reversibilità dell'alterazione,
il decorso di un ciclo temporale talmente ampio da non poter
essere rapportabile alle categorie dell'agire umano.
Le matrici ambientali interessate.
Rileva da ultimo la sentenza 46170/2016 come in relazione
alle acque il nuovo delitto di inquinamento ambientale non
subisca limiti di carattere dimensionale, non essendo per
tale matrice previsto il necessario coinvolgimento di
«porzioni estese o significative» sancito invece dalla norma
incriminatrice per il degrado di suolo e sottosuolo
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.12.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento?
Significativo e misurabile.
L'inquinamento ambientale deve essere significativo e
misurabile.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, introduce
una nuova interpretazione del delitto di inquinamento
ambientale e precisa il significato da attribuire ai termini
«compromissione» e «deterioramento» di beni ambientali in
essa previsti (sentenza
03.11.2016 n. 46170).
Tale reato si configura quando la condotta abusiva di un
soggetto determina una compromissione o un deterioramento
«significativo» e «misurabile» di elementi riconducibili al
bene giuridico ambiente (la norma, infatti, menziona le
acque, l'aria, il suolo, il sottosuolo, l'ecosistema, la
biodiversità, la flora e la fauna). Secondo la suprema
corte, la «compromissione» e il «deterioramento»
dell'ambiente, richiesti dalla norma, si risolvono entrambi
in un'alterazione, ossia in una modifica dell'originaria
consistenza della matrice ambientale o dell'ecosistema
caratterizzata, nel caso della compromissione, in una
condizione di rischio o pericolo che potrebbe definirsi di
«squilibrio funzionale», perché incidente sui normali
processi naturali correlati alla specificità della matrice
ambientale o dell'ecosistema e, in quello del
deterioramento, come «squilibrio strutturale»,
caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di
questi ultimi.
La sentenza precisa che la compromissione o
il deterioramento devono essere significativi e misurabili
circoscrivendo l'ambito di operatività del reato alle
condotte che hanno un elevato livello di lesività per
l'ambiente.
Secondo la decisione giurisprudenziale, anche se
l'interprete non è vincolato a valutare l'esistenza di un
pregiudizio per l'ambiente sulla base di parametri imposti
dalla disciplina di settore, essi «rappresentano un utile
riferimento nel caso in cui possono fornire un elemento
concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o
il deterioramento causati siano effettivamente significativi
come richiesto dalla legge, mentre tale condizione,
ovviamente, non può farsi automaticamente derivare dal mero
superamento dei limiti»
(articolo ItaliaOggi del 19.11.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Ecoreati
senza vincoli rigidi. I giudici chiariscono quando
l’inquinamento è significativo e misurabile.
Ambiente. Prima sentenza di Cassazione dopo le modifiche
della legge 68/2015 al Codice penale.
La Corte di Cassazione fissa i punti
fermi nell’interpretazione del reato di inquinamento
ambientale.
Lo fa con la
sentenza
03.11.2016 n. 46170,
la prima che affronta gli “ecodelitti” introdotti dalla
legge 68/2015 nel Codice penale (articolo 452-bis). La
pronuncia, depositata il 3 novembre, fissa i primi
importanti princìpi interpretativi sul nuovo delitto.
Ma veniamo ai fatti. La Corte ha annullato con rinvio al
Tribunale di La Spezia una vicenda sul dragaggio delle acque
del golfo spezzino. Con il rinvio la Cassazione,
sottolineando la novità, si sofferma opportunamente sugli
elementi costituitivi del nuovo delitto, dando corpo ai suoi
tratti salienti.
Primo tra tutti il concetto di abusività della condotta.
Ripercorsa la propria giurisprudenza sull’attività
organizzata di traffico illecito di rifiuti, la Corte
ricorda che la condotta non è abusiva solo in assenza
dell’autorizzazione (attività clandestina), ma anche quando
questa sia scaduta o palesemente illegittima e comunque non
commisurata al tipo di rifiuti ricevuti, di diversa natura
rispetto a quelli autorizzati. Per i giudici, «tali princìpi
sono senz’altro utilizzabili» anche in relazione al delitto
di inquinamento ambientale, dove la condotta abusiva
comprende «non soltanto quella posta in essere in violazione
di leggi statali o regionali» anche se non strettamente
pertinenti al settore ambientale, ma anche di prescrizioni
amministrative.
Tale circostanza era stata riconosciuta anche dai giudici
del riesame. La diversità di lettura, da cui è derivato
l’annullamento da parte della Cassazione, si è appuntata sui
parametri della significatività e della misurabilità della
compromissione o del deterioramento derivanti dall’azione
dell’agente, richiesti dalla norma ai fini del concretarsi
della condotta delittuosa: la «o» disgiuntiva apposta dalla
legge tra le parole «compromissione» e «deterioramento»,
secondo la Corte, «svolge una funzione di collegamento tra i
due termini (autonomamente considerati dal legislatore, in
alternativa fra loro) che indicano fenomeni sostanzialmente
equivalenti negli effetti».
Infatti, entrambi si manifestano
in un’alterazione. Cioè una «modifica dell’originaria
consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema». Ma,
in caso di compromissione, la modifica è caratterizzata da
una condizione di rischio o di pericolo, quasi uno
«squilibrio funzionale»: incide su normali processi naturali
«correlati alla specificità della matrice ambientale o
dell’ecosistema». Nel caso del deterioramento, invece, lo
squilibrio è strutturale, in quanto si caratterizza in
ragione di un «decadimento di stato o di qualità» delle
indicate matrici o dell’ecosistema.
Ai fini del concretarsi del reato di inquinamento
ambientale, è irrilevante che il fenomeno sia reversibile.
Ciò rileva solo ai fini della distinzione con il delitto di
disastro ambientale (articolo 452-quater del Codice penale),
colpito più severamente.
La Corte analizza anche il significato dei termini
«significativo» e «misurabile», affrontando uno dei piani
che più aveva impensierito i primi interpreti. Sul primo,
afferma che «denota senz’altro incisività e rilevanza»; sul
secondo che «può dirsi di ciò che è quantitativamente
apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile» a
prescindere dall’esistenza di limiti. Questo perché vi sono
casi in cui, pur in assenza di limiti imposti da norme, la
situazione di danno o pericolo per l’ambiente «è di
macroscopica evidenza o, comunque, concretamente
accertabile». Opportunamente la Corte precisa che
compromissione e deterioramento significativi non possono
farsi «automaticamente derivare dal mero superamento dei
limiti».
In un intorbidamento delle acque con moria di molluschi, il
Tribunale non aveva ravvisato né compromissione né
deterioramento, che riteneva si concretassero in una
«tendenziale irrimediabilità». Ma la Cassazione sottolinea
che la norma non la prevede (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2016). |
APPALTI: Subappaltatori,
non serve la previa indicazione.
In una gara pubblica, in sede di offerta, non è necessaria
la previa indicazione del subappaltatore.
È quanto affermato dai giudici della III Sez. del Consiglio
di Stato con la
sentenza 03.11.2016 n.
4617.
Nella sentenza sottoposta all'attenzione dei supremi giudici
amministrativi, la parte appellante osservava che poiché il
subappalto non offre le stesse garanzie contrattuali dell'avvalimento,
è necessario che il subappaltatore individuato e di fatto
«entrato» nell'offerta e, quindi, nella gara, venga
verificato nelle sue specifiche capacità prima
dell'affidamento, essendo sufficiente la mera indicazione
della volontà di subappaltare nelle sole ipotesi in cui il
ricorso al subappalto rappresenti una facoltà.
I giudici di
palazzo Spada hanno però evidenziato come, in ossequio anche
ad un ormai consolidato orientamento proposto dalla
giurisprudenza (Adunanza plenaria nella sentenza n. 9/2015),
in sede di offerta, non è necessaria l'indicazione
nominativa dell'impresa subappaltatrice, qualora la
concorrente sia sprovvista del requisito di qualificazione
per alcune categorie scorporabili e abbia manifestato
l'intenzione di subappaltare le relative lavorazioni.
Tale
affermazione va a risolvere quel contrasto giurisprudenziale
in tema di subappalto necessario, escludendo dunque
l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del
subappaltatore già in sede di presentazione dell'offerta,
anche nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la
qualificazione nelle categorie scorporabili previste
dall'art. 107, comma 2, del dpr 207/2010. Tale orientamento
conduce ad escludere, quindi, la necessità della previa
indicazione del subappaltatore.
I giudici amministrativi
hanno, infine, affermato che il subappalto è un istituto che
attiene alla fase di esecuzione dell'appalto (e che rileva
nella gara solo negli stretti limiti della necessaria
indicazione delle lavorazioni che ne formeranno oggetto), di
talché il suo mancato funzionamento (per qualsivoglia
ragione) dev'essere trattato alla stregua di un
inadempimento contrattuale, anche l'indicazione nominativa
del subappaltatore desumibile già in sede di offerta non può
avere l'effetto di vincolare il concorrente alla scelta di
quell'impresa come subappaltatrice, impedendogli di indicare
una diversa impresa al momento opportuno
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
12.1. Il Collegio osserva che, secondo quanto affermato
dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 9/2015,
in sede di offerta, non è necessaria l'indicazione
nominativa dell'impresa subappaltatrice, qualora la
concorrente sia sprovvista del requisito di qualificazione
per alcune categorie scorporabili e abbia manifestato
l'intenzione di subappaltare le relative lavorazioni.
Con questa affermazione è stato risolto il contrasto
giurisprudenziale in tema di subappalto necessario,
escludendo dunque l'obbligatorietà dell'indicazione del
nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione
dell'offerta, anche nell'ipotesi in cui il concorrente non
possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili
previste dall'art. 107, comma 2, del d.P.R. 207/2010.
Tale orientamento ha superato quello espresso dalle pronunce
invocate dall’appellante, e conduce ad escludere, anche con
riferimento alla procedura in esame, la necessità della
previa indicazione del subappaltatore.
L’appellante, tenuto conto di tale arresto, rispetto alla
prospettazione disattesa dal TAR enfatizza l’indicazione
della società Be., quale subappaltatore, contenuta
nell’offerta dell’aggiudicataria, per trarne la conclusione
che l’offerta risulterebbe comunque viziata per effetto
della mancanza di requisiti in capo alla società Be..
Il Collegio osserva che, se, come ha precisato la predetta
sentenza, il subappalto è un istituto che attiene alla fase
di esecuzione dell'appalto (e che rileva nella gara solo
negli stretti limiti della necessaria indicazione delle
lavorazioni che ne formeranno oggetto), di talché il suo
mancato funzionamento (per qualsivoglia ragione) dev'essere
trattato alla stregua di un inadempimento contrattuale,
anche l’indicazione nominativa del subappaltatore desumibile
già in sede di offerta non può avere l’effetto di vincolare
il concorrente alla scelta di quell’impresa come
subappaltatrice, impedendogli di indicare una diversa
impresa al momento opportuno.
12.2. Si tratta di valutare se un analogo vincolo potesse
derivare dalla rilevanza che detta indicazione del
subappaltatore ha assunto ai fini della valutazione
dell’offerta.
L’esame dell’offerta, per come focalizzata dall’appellante
nella sua memoria di replica, evidenzia l’indicazione della
Lavanderia Be., nell’ambito del progetto tecnico presentato
(migliorativo rispetto ai contenuti prestazionali minimi
richiesti), quale lavanderia esterna dove si sarebbe
effettuato il servizio relativo alla biancheria piana.
Tuttavia, considerata la non vincolatività dell’indicazione
dell’appaltatore in questa fase della procedura,
l’indicazione deve essere considerata come parte integrante
del progetto tecnico offerto limitatamente all’utilizzazione
della metodologia (ed in particolare del sistema per il
letto, ritenuto innovativo, c.d. sleep-knit) ed al rispetto
delle altre caratteristiche indicate (con riferimento alla
Be.) per lo svolgimento del servizio, ed apprezzate dalla
Commissione di gara mediante attribuzione dei (cfr. verbale
del 17.11.2014).
L’Azienda afferma che non vi è stata alcuna modifica nei
contenuti dell’offerta e che (dopo il primo mese, durante il
quale Nu.As. avrebbe provveduto direttamente utilizzando i
locali delle strutture delle r.s.a.) il servizio di lavanolo
è ormai stabilmente svolto, in base all’autorizzazione al
subappalto di cui alla delibera n. 48 in data 29.06.2015,
dalla subappaltatrice L. S.r.l.
Nu.As., d’altra parte, sottolinea che il subappalto a L.
contiene comunque le prestazioni considerati sufficienti
secondo le previsioni della lex specialis.
Non sembra che ciò venga specificamente confutato
dall’appellante.
Peraltro, sembra al Collegio che, anche volendo supporre che
cambiamenti riguardo alla prestazione del servizio di
lavanderia in fase di esecuzione vi siano stati e che
possano astrattamente inficiare l’aggiudicazione, risulti
comunque dirimente la prospettazione dell’aggiudicataria,
anche in questo caso non adeguatamente confutata da
controparte, della loro inidoneità a sovvertire la
graduatoria.
Infatti, secondo quanto sembra desumibile dagli atti, la
parte del progetto tecnico in relazione alla quale potrebbe
rilevare l’indicazione della Be. ha assunto rilievo (cfr.
disciplinare, pag. 25) in base all’elemento 3.a. “Lavanderia/guardaroba:
caratteristiche dei materiali e del servizio con riferimento
all’allestimento del posto letto”,
che prevedeva un massimo di 2 punti, effettivamente
attribuiti a Nu.As.; tuttavia, sottraendo 2 punti dal
punteggio tecnico dell’aggiudicataria, questa (che
sopravanza l’appellante di 7,93 punti, dei quali 4,55 per
l’offerta tecnica e 3,38 per quella economica) resterebbe
comunque prima in classifica.
12.3. Quanto esposto conduce a ritenere infondato il primo
motivo di appello. |
INCARICHI PROGETTUALI: Gare
limitate agli iscritti agli albi.
Possono partecipare alle gare di ingegneria e di
architettura solo le Stp (c.d. società tra professionisti)
costituite esclusivamente tra professionisti iscritti negli
appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti
professionali. Nell'atto costitutivo delle Stp dovrà inoltre
essere indicato l'organigramma aggiornato comprendente i
soci, gli amministratori, i dipendenti e i consulenti
direttamente impiegati nello svolgimento di funzioni
professionali e tecniche e di controllo della qualità.
Lo prevede il decreto del ministero delle infrastrutture,
attuativo del Codice degli appalti (articolo 24, 2° e 5°
comma, del dlgs 18.04.2016 n. 50) che ha definito i
requisiti per la partecipazione degli operatori economici e
dei giovani professionisti, in forma singola o associata,
nei gruppi concorrenti ai bandi relativi a incarichi di
progettazione.
Il decreto ha ricevuto il via libera
definitivo anche dal Consiglio di Stato, con
parere
03.11.2016 n. 2285.
L'articolo 4 del decreto del Mit stabilisce che le società
di ingegneria per la partecipazione alle gare di
progettazione e di architettura dovranno avere almeno un
direttore tecnico che collabori alla definizione delle
strategie e controlli le prestazioni dei progettisti. Il
direttore tecnico dovrà possedere una laurea in ingegneria o
architettura o in una disciplina tecnica attinente
all'attività prevalente svolta dalla società ed essere
abilitato all'esercizio della professione da almeno dieci
anni. Il direttore tecnico avrà il compito di controfirmare
i progetti ed è responsabile, in solido con la società di
ingegneria, nei confronti della stazione appaltante.
Anche
le società di ingegneria, per essere considerate in regola,
dovranno avere un organigramma aggiornato. L'organigramma
dovrà riportare, altresì, l'indicazione delle specifiche
competenze e responsabilità. Se la società svolge anche
attività diverse dalle prestazioni di servizio (articolo 46
del dlgs 18.04.2016 n. 50) nell'organigramma dovrà essere
indicata la struttura organizzativa e le capacità
professionali espressamente dedicate alla suddetta
prestazione di servizi. Due società di ingegneria con lo
stesso direttore tecnico non potranno infine partecipare
alla medesima gara d'appalto. In questi casi è infatti
prevista l'esclusione.
I professionisti dovranno essere in possesso della laurea in
ingegneria o architettura o in una disciplina tecnica
attinente all'attività prevalente oggetto del bando di gara.
Nelle procedure di affidamento che non richiedono il
possesso della laurea, sarà necessario avere il diploma di
geometra o un altro diploma tecnico attinente alla tipologia
dei servizi da prestare.
A prescindere dal titolo di studio
richiesto, i professionisti dovranno essere abilitati
all'esercizio della professione e iscritti al relativo albo
professionale o, in alternativa, essere abilitati
all'esercizio della professione secondo le norme dei paesi
dell'Unione europea di appartenenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 28.11.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Ingegneria,
ok gare per le Stp. Dal cds.
Via libera del Consiglio di stato alla partecipazione alle
gare di ingegneria e di architettura per le sole società tra
professionisti costituite solo tra professionisti iscritti
negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti
professionali.
È con il
parere
03.11.2016 n. 2285 che l'adunanza
speciale del Cds ha espresso parere positivo allo schema di
decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti
recante «Schema di
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti
recante “definizione dei requisiti che devono possedere gli
operatori economici per l’affidamento dei servizi di
architettura e ingegneria e individuazione dei criteri per
garantire la presenza di giovani professionisti, in forma
singola o associata, nei gruppi concorrenti ai bandi
relativi a incarichi di progettazione, concorsi di
progettazione e di idee, ai sensi dell’art. 24, commi 2 e 5
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50».
Le società di ingegneria
per la partecipazione alle gare di progettazione e di
architettura dovranno avere almeno un direttore tecnico che
collabori alla definizione delle strategie e controlli le
prestazioni dei progettisti. Il direttore tecnico dovrà
possedere una laurea in ingegneria o architettura o in una
disciplina tecnica attinente all'attività prevalente svolta
dalla società ed essere abilitato all'esercizio della
professione da almeno dieci anni.
Il direttore tecnico avrà
il compito di controfirmare i progetti ed è responsabile, in
solido con la società di ingegneria, nei confronti della
stazione appaltante. Anche le società di ingegneria, per
essere considerate in regola, dovranno avere un organigramma
aggiornato. L'organigramma dovrà riportare, altresì,
l'indicazione delle specifiche competenze e responsabilità.
Se la società svolge anche attività diverse dalle
prestazioni di servizio (art. 46 del dlgs 18.04.2016 n. 50)
nell'organigramma dovrà essere indicata la struttura
organizzativa e le capacità professionali espressamente
dedicate alla suddetta prestazione di servizi. Due società
di ingegneria con lo stesso direttore tecnico non potranno,
infine, partecipare alla medesima gara d'appalto. In questi
casi è, infatti, prevista l'esclusione
(articolo ItaliaOggi del 19.11.2016). |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettisti,
ok Cds. Promosse le norme sui requisiti. Consiglio di stato,
parere sullo schema di decreto.
Via libera del Consiglio di stato sul regolamento che
definisce i requisiti dei progettisti, ma necessarie alcune
precisazioni sul giovane professionista, sulle
incompatibilità dei professionisti e sui direttori tecnici
delle società di ingegneria.
E questo l'effetto del parere pronunciato nell'adunanza
della commissione speciale del 26.10.2016 (diffuso ieri,
parere 03.11.2016 n. 2285) sullo "Schema di
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti
recante “definizione dei requisiti che devono possedere gli
operatori economici per l’affidamento dei servizi di
architettura e ingegneria e individuazione dei criteri per
garantire la presenza di giovani professionisti, in forma
singola o associata, nei gruppi concorrenti ai bandi
relativi a incarichi di progettazione, concorsi di
progettazione e di idee, ai sensi dell’art. 24, commi 2 e 5
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”.
Lo schema viene valutato positivamente dai giudici di
Palazzo Spada che rilevano come le disposizioni siano «coerenti
con gli obiettivi enunciati dal dicastero proponente e
adeguate al raggiungimento di tali scopi» (trasparenza,
efficienza, sviluppo della concorrenza, crescita
dell'occupazione, aumento della competitività).
Il parere formula alcune osservazioni che auspica siano
accolte positivamente, in primo luogo sulle incompatibilità
per il professionista a partecipare alla stessa gara in
proprio quando alla stessa gara partecipi anche una società
di professionisti o di società di ingegneria di cui egli sia
socio, dipendente o collaboratore. In particolare la
disposizione viene censurata in quanto introdurrebbe una «ulteriore
incompatibilità rispetto a quelle individuate nella
normativa primaria del codice» (art. 48, comma 7 e
dall'art. 80, comma 5, lettera d, che prevede i conflitti di
interesse «non diversamente risolvibili»).
La richiesta è quindi di sopprimere la norma anche perché
divieti «assoluti e aprioristici» sono stati già
censurati dall'Unione europea a favore di accertamenti caso
per caso. Sulla promozione della presenza di giovani
professionisti il parere chiede che la previsione di
punteggi premiali nel bando di gara sia da espungere dal
testo perché già prevista all'art. 95 del codice e nelle
linee guida Anac 1 e 2/2016.
Nei raggruppamenti temporanei, inoltre, il giovane
professionista (meno di cinque anni di abilitazione) deve
figurare presente «quale progettista», come già era
previsto nell'abrogato dpr 207/2010. Per i requisiti delle
società di ingegneria, confermato il casellario presso l'Anac,
il parere chiede di chiarire il rapporto fra società e
professionista delegato ad approvare e controfirmare gli
elaborati (articolo ItaliaOggi del 04.11.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuovi
impianti tecnologici, avviso preventivo.
Urbanistica. La Corte costituzionale boccia la legge della
Liguria che esonera da Cia e Scia le installazioni ex novo.
La Consulta utilizza una norma della
Regione Liguria in materia urbanistica per riordinare i
confini della competenza statale e chiarire le tipologie di
titoli edilizi.
La sentenza 03.11.2016 n. 231 riordina la distinzione
tra opere (soprattutto di manutenzione e ristrutturazione)
chiarendo le differenza tra edilizia libera, Cia
(comunicazione inizio attività), Cia asseverata, Dia, super
Dia, Scia e permesso di costruire. La sentenza è di monito
anche per altre Regioni, in quanto sottolinea la prevalenza
dell’ordinamento statale (il testo unico 380/2001).
Secondo la Regione Liguria (legge regionale 12/2015,
articolo 6), l’installazione di nuovi impianti tecnologici,
anche senza creazione di volumetria, sarebbe libera da Cia e
Scia. La Corte dissente, perché riconosce come liberi solo
gli interventi di integrazione e mantenimento in efficienza
di impianti già esistenti, non quelli nuovi, (unica
eccezione perle pompe di calore aria aria con potenza
inferiore a 12 kW che in tutto il territorio nazionale sono
considerate eseguibili con manutenzione ordinaria). Quindi
per i nuovi impianti occorre quantomeno una comunicazione al
Comune.
Inoltre, le opere di arredo urbano e privato pertinenziali
che non creino volumetrie non possono essere considerate “libere”
(come voleva la Regione) ma vanno assoggettate a Dia. Gli
unici arredi realizzabili senza titoli abilitativi sono
quelli che, per precarietà strutturale e funzionale,
soddisfino esigenze contingenti, senza alterare volume,
superficie coperta, prospetto o sagoma di edifici. Le
distanze tra costruzioni, previste dal Dm 1444/1968, si
applicano anche al recupero dei sottotetto di edifici
esistenti e non possono essere derogate per interventi su
singole costruzioni, come avrebbe consentito la legge
regionale. Deroghe a distanze sono possibili solo nel caso
di specifiche maglie del territorio, cioè con una visione
che superi il singolo manufatto.
La ristrutturazione edilizia con incrementi di superficie
all’interno di singole unità immobiliari o dell’edificio non
può essere realizzata con Scia: occorre il permesso di
costruire o la Dia, se vi sono modifiche all’esterno. Per
modifiche si intende anche quelle di adattamento delle
forature, quelle di dettaglio; così si riducono le
agevolazioni (Scia) per chi intenda aumentare il numero dei
solai nelle ristrutturazioni.
Le ristrutturazioni edilizie che comportano mutamenti di
destinazione d'uso nelle zone A (centri storici) sono
possibili con super Dia o permesso di costruire. In Liguria
si prevedeva la sola super Dia, ma la Consulta ritiene che i
privati possano pretendere un documento di assenso
esplicito, col permesso di costruire, a garanzia della
certezza dei loro diritti (ad esempio, in caso di mutui
edilizi).
Ancora, non sì può esonerare dal contributo di costruzione
gli interventi sul patrimonio edilizio esistente che
aumentino la superficie agibile dell’edificio o delle
singole unità immobiliari per meno di 25 mq o derivino dalla
mera eliminazione di muri divisori. Incostituzionale anche
l’esonero dal contributo nei casi di frazionamento di unità
immobiliari che non raddoppino il numero delle unità:
l’onerosità è imposta dal Tu nell’ambito del governo del
territorio, di competenza statale
(articolo
Il Sole 24 Ore del 04.11.2016).
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MASSIMA (tratta da www.ambientediritto.it)
Interventi edilizi liberi - Art. 6,
cc. 3, 8 e 11 l.r. Liguria n. 12/2015 – Impianti tecnologici
– Contrasto con la disciplina del TUE – Illegittimità
costituzionale.
La definizione
delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il
regime dei titoli abilitativi costituisce principio
fondamentale della materia concorrente del «governo del
territorio», vincolando la legislazione regionale di
dettaglio. Cosicché, pur non essendo precluso al legislatore
regionale di esemplificare gli interventi edilizi che
rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione,
per essere costituzionalmente legittima, deve essere
coerente con le definizioni contenute nel testo unico
dell’edilizia.
In particolare, l’art. 6 del TUE identifica le categorie di
interventi edilizi c.d. “liberi”, ovvero non
condizionati al previo ottenimento di un assenso da parte
dell’amministrazione, distinguendo: le attività libere per
le quali l’interessato è del tutto esonerato da oneri (art.
6, comma 1); le attività libere per le quali viene
prescritta una comunicazione dell’interessato di inizio dei
lavori, cosiddetto “cil” (art. 6, comma 2); le
attività libere che richiedono comunicazione di inizio dei
lavori asseverata da tecnico abilitato, cosiddetto “cila”
(art. 6, comma 4).
Nel novero delle attività completamente deformalizzate, il
TUE include «gli interventi di manutenzione ordinaria»,
definiti come «gli interventi edilizi che riguardano le
opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle
finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o
mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti»
(art. 3, comma 1, lettera a, del TUE).
La previsione di cui all’art. 6, commi 3, 8, secondo
trattino, e 11, terzo trattino, della legge della Regione
Liguria 07.04.2015, n. 12, non limitandosi a considerare
l’integrazione o il mantenimento in efficienza di impianti
tecnologici già esistenti, e includendo, con l’espressione «installazione»,
anche la realizzazione di nuovi impianti (sia pure non
comportanti la creazione di volumetria), si pone in
contrasto con la disciplina del TUE che assoggetta
quest’ultima tipologia di intervento al regime della cila o
della SCIA, a seconda della consistenza del manufatto.
Interventi edilizi liberi - Art. 6, cc.
3, 8 e 11 l.r. Liguria n. 12/2015 – Installazione di
elementi di arredo urbano e privato pertinenziali –
Riconduzione alla nozione di manutenzione ordinaria –
Illegittimità costituzionale.
Le regioni
possono estendere la disciplina statale dell’edilizia libera
ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti
dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche
differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente
gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate,
soggette a cil e cila.
Essendo precluso al legislatore regionale di discostarsi
dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di
opere totalmente libere da ogni forma di controllo, neppure
indiretto mediante denuncia, l’art. 6 della legge reg.
Liguria n. 12 del 2015, che riconduce nella nozione di
manutenzione ordinaria ‒e, quindi, al regime giuridico della
edilizia libera, ai sensi dell’art. 21, comma 1, lettera a),
della legge reg. n. 16 del 2008‒ l’installazione di elementi
di arredo urbano e privato pertinenziali non comportanti
creazione di volumetria, deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo limitatamente ai commi 3, 8,
secondo trattino, e 11, terzo trattino.
Disciplina delle distanze minime tra
costruzioni – Competenza legislativa statale – Regioni –
Limiti in deroga alle distanze minime – Punto di equilibrio
– Art. 9, ultimo comma, d.m. 1444/1968 – Art. 6, c. 6, l.r.
Liguria n. 12/2015 – Illegittimità costituzionale.
La disciplina
delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia
dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare
limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle
normative statali, solo a condizione che la deroga sia
giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio. Nella delimitazione dei
rispettivi ambiti di competenza, il punto di equilibrio è
stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n.
1444 del 1968, dotato di efficacia precettiva e
inderogabile.
Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite
dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle
distanze tra edifici sono consentite se inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
Il sesto comma dell’art. 6 della legge reg. Liguria n. 12
del 2015 all’art. 18, comma l, in tema di distanze da
osservare negli interventi sul patrimonio edilizio esistente
e di nuova costruzione, non affidando l’operatività dei suoi
precetti a «strumenti urbanistici» e non essendo funzionale
ad un «assetto complessivo ed unitario di determinate zone
del territorio», riferisce la possibilità di deroga a
qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli
edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di
fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in
materia di «governo del territorio», in violazione
del limite dell’«ordinamento civile» assegnato alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Interventi di ristrutturazione edilizia
- Art. 6, c. 11 l.r. Liguria n. 12/2015 – Illegittimità
costituzionale.
L’art. 6,
comma 11, secondo trattino, della legge reg. Liguria n. 12
del 2015, assoggettando a SCIA gli interventi di
ristrutturazione edilizia con «contestuali modifiche
all’esterno», si pone in evidente contrasto con l’art.
10, comma l, lettera c), del TUE ‒costituente principio
fondamentale della materia «governo del territorio»‒
il quale prevede che gli interventi di ristrutturazione
edilizia comportanti modifiche «dei prospetti» sono
assoggettati a permesso di costruire o a DIA alternativa
(art. 22, comma 3, lettera a, del TUE).
Interventi di ristrutturazione edilizia
- Art. 6, c. 15, l.r. Liguria n. 12/2015 – Previsione della
DIA “obbligatoria” come modello procedimentale sostitutivo
del permesso di costruire, anziché come modello alternativo
– Illegittimità costituzionale.
È fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma
15, della legge reg. Liguria n. 12 del 2015, nella parte in
cui assoggetta obbligatoriamente a DIA gli interventi di
ristrutturazione edilizia comportanti mutamenti della
destinazione d’uso aventi ad oggetto immobili compresi nelle
zone omogenee A o nelle zone o ambiti ad esse assimilabili,
per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in
riferimento all’art. 10, comma l, lettera c), del TUE, il
quale subordina a permesso di costruire la realizzazione
delle opere di ristrutturazione edilizia sugli immobili
compresi nelle zone omogenee A, che comportino mutamenti
della destinazione d’uso. Per la stessa tipologia di opere,
l’art. 22, comma 3, del TUE consente all’interessato, per
ragioni di carattere acceleratorio, di optare per la
presentazione della DIA (cosiddetta “super DIA”).
L’art. 23, comma 1, della legge reg. n. 16 del 2008, come
novellato dalla norma censurata, assoggetta a comunicazione
di inizio dei lavori e a DIA “obbligatoria” vari
interventi, tra i quali i lavori di ristrutturazione
edilizia comportanti mutamenti della destinazione d’uso su
immobili compresi nelle zone omogenee A o nelle zone o
ambiti ad esse assimilabili (lettera b). La previsione della
DIA “obbligatoria” come modello procedimentale
sostitutivo del permesso di costruire, anziché come modello
alternativo (secondo quanto previsto nel TUE), rappresenta
un disallineamento non consentito della disciplina regionale
rispetto a quella statale.
La facoltà per il privato, prevista dal legislatore statale,
di chiedere il permesso di costruire o di presentare,
alternativamente, denuncia di inizio di attività per la
realizzazione degli interventi previsti all’art. 22, comma
3, del TUE, ricade nella disciplina dei titoli abilitativi,
e quindi tra i principi fondamentali della materia
concorrente del «governo del territorio».
Contributo di costruzione - Esonero -
Art. 6, cc. 20 e 21, l.r. Liguria n. 12/2015 – Illegittimità
costituzionale.
Con l’art. 6,
commi 20 e 21, primo trattino, della legge reg. Liguria n.
12 del 2015, il legislatore regionale esonera dal contributo
di costruzione due categorie di intervento che secondo la
legge statale devono invece restare soggette a
contribuzione, nei termini fissati dal TUE: gli interventi
sul patrimonio edilizio esistente che determinano un aumento
della superficie agibile dell’edificio o delle singole unità
immobiliari, quando l’incremento della superficie agibile
all’interno delle unità immobiliari sia inferiore a 25 metri
quadrati, e quando le variazioni di superficie derivino da
mera eliminazione di muri divisori; gli interventi di
frazionamento di unità immobiliari che determinino un numero
di unità immobiliari inferiore al doppio di quelle
esistenti, sia pure con aumento di superficie agibile.
A seconda delle loro concrete caratteristiche costruttive,
questi interventi possono rientrare nella nozione di «manutenzione
straordinaria», come definita agli artt. 3, comma 1,
lettera b) e 6, comma 2, lettera a), del TUE, o in quella di
«ristrutturazione edilizia», come definita dall’art.
3, comma 1, lettera d), del TUE.
La disciplina statale prevede per la prima una riduzione del
contributo alla sola parte corrispondente alla incidenza
delle opere di urbanizzazione, e per la seconda la regola
del pagamento del contributo per intero, salvi casi
particolari di esonero, come quello della ristrutturazione
di edifici unifamiliari, o di riduzione, come quello della
ristrutturazione di immobili dismessi o in via di
dismissione. Le fattispecie di esonero introdotte dalle
norme regionali impugnate vanno al di là di queste ipotesi e
contrastano, dunque, con i principi fondamentali della
materia.
L’onerosità del titolo abilitativo riguarda infatti un
principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi
ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la
rubrica “governo del territorio”, e anche le deroghe
al principio, in quanto legate a quest’ultimo da un rapporto
di coessenzialità, partecipano della stessa natura di
principio fondamentale. |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Istanze
valide anche se a uffici incompetenti.
L'istanza di rimborso proposta a un ufficio dell'Agenzia
delle entrate territorialmente incompetente è comunque
valida, con la conseguenza che l'ufficio convenuto deve
considerarsi utilmente investito dell'onere procedurale di
trattare la richiesta, alla luce del carattere unitario da
riconoscersi all'Agenzia delle entrate.
È quanto si legge nella
sentenza 02.11.2016 n. 2826/14/2016 della Ctr di
Bologna.
Il giudice emiliano era chiamato a pronunciarsi su un
ricorso per riassunzione, proposto da una cooperativa di
Reggio Emilia, su rinvio della Corte di cassazione.
Il caso riguarda l'originaria impugnazione di un silenzio
rifiuto, formatosi su un'istanza di rimborso presentata
dalla cooperativa, in relazione ai benefici fiscali
conseguenti alle assunzioni di soggetti svantaggiati. Unica
questione controversa rimasta in piedi, dopo i vari gradi di
giudizio, riguardava il fatto che l'istanza era stata
avanzata nei confronti di un ufficio dell'Agenzia delle
entrate incompetente (la spettanza del credito nel merito,
spiega la Ctr, era già coperta da giudicato); così che,
secondo l'amministrazione finanziaria, la richiesta doveva
ritenersi inefficace e, di conseguenza, neppure poteva
considerarsi formato alcun silenzio rifiuto.
La Ctr di Bologna, uniformandosi alla linea tracciata dalla
Cassazione, ha stabilito che, pur se non competente a
ricevere un'istanza, l'ufficio destinatario della stessa,
facendo parte del medesimo plesso amministrativo, e in forza
del carattere unitario dell'Agenzia delle entrate, «doveva
considerarsi utilmente investito dell'onere procedurale di
trattare la svolta richiesta; ne consegue che nessuna
censura può essere posta a carico della parte privata, con
riguardo all'inoltro dell'istanza all'Agenzia di Reggio
Emilia, anziché al Centro operativo di Pescara».
Spettava, dunque, all'ufficio destinatario dell'istanza,
inoltrarla all'articolazione competente, onde vagliarne la
richiesta. Essendo del tutto regolare e valida l'istanza di
rimborso presentata dal contribuente all'ufficio sbagliato,
è di conseguenza ammissibile il ricorso proposto contro il
silenzio rifiuto, formatosi per effetto della «non risposta»
dell'amministrazione nei 90 giorni successivi all'inoltro
dell'istanza. L'errore commesso dal contribuente
nell'individuazione dell'ufficio competente, ha indotto la
Ctr a compensare le spese di giudizio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con rituale atto di riassunzione la cooperativa, in persona
del legale rappresentate pro tempore, radicava giudizio
dinanzi a questa Commissione tributaria regionale in seguito
alla pronuncia resa dalla suprema Corte di cassazione (cron.
21595, Rgn 18774/2010) su ricorso principale di detta
società cooperativa e controricorso proposto dall'Agenzia
delle entrate.
La particolare natura di questo giudizio di rinvio impone al
presente Collegio una rigorosa preliminare definizione della
materia del contendere, da trattarsi con rispetto dei dicta
definiti dai giudici di legittimità.
La Suprema corte ha accolto il solo primo motivo del ricorso
(proposto dalla società cooperativa) dichiarando assorbiti
in detto motivo i restanti altri, talché ogni questione
afferente la sostanza della materia trattata, il diritto ai
benefici fiscali conseguenti alle assunzioni di soggetti
svantaggiati, nelle differenti premesse e modalità previste
dalla legge, sono da considerare coperti dal giudicato
endoprocessuale intervenuto con la resa sentenza di
legittimità.
Parimenti conosciuto e deciso dai giudici di Roma la
questione, pacifica, della impugnabilità di un silenzio
rifiuto serbato dall'amministrazione finanziaria.
La sola questione da decidere riguarda pertanto
l'ammissibilità di una istanza proposta dal richiedente
privato a un ufficio incompetente a riceverla e conoscerla
(ufficio di Reggio Emilia in luogo del Centro operativo di
Pescara individuato dalla legge come competente a decidere
sulla istanza).
La Corte di cassazione ha precisato che, ancorché non
competente a ricevere detta istanza, l'ufficio destinatario
della stessa, facendo parte dello stesso plesso
amministrativo, e in forza del «carattere unitario della
Agenzia delle entrate» doveva considerarsi utilmente
investito dell'onere procedurale di trattare la svolta
richiesta; ne consegue che nessuna censura può essere posta
a carico della parte privata con riguardo all'inoltro della
stanza dell'Agenzia di Reggio Emilia anziché al Centro
operativo di Pescara.
In questo preciso senso va pertanto riformata la sentenza
dei giudici della Commissione tributaria regionale di
Bologna, sezione distaccata di Parma, n. 34/21/10 depositata
il 22/02/2009.
PQM La Commissione accoglie il ricorso in riassunzione e
riforma la sentenza di appello indicata (n. 34/21/10 dep. il
22/02/2010) nei sensi di cui in motivazione. Compensate le
spese (articolo
ItaliaOggi Sette del 28.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria
esclude prescrizioni. Titolo edilizio riconosciuto solo se
c'è doppia conformità. Il Tar Campania: non c'è terza
opzione per il comune che dà l'ok e poi impone interventi.
Sanatoria o prescrizioni edilizie. Non
c'è una terza opzione per il comune che prima riconosce il
titolo edilizio di cui all'articolo 36 del dpr 380/2001 e poi
impone interventi edilizi al titolare, dichiarandolo in
seguito decaduto per la mancata realizzazione. E ciò perché
il permesso di costruire in sanatoria può essere rilasciato
unicamente quando l'opera risulta conforme alle norme
edilizie e urbanistiche sia al momento della realizzazione
sia all'epoca della domanda: se invece l'ente locale ritiene
decisivi gli interventi che ha prescritto deve annullare il
titolo in sanatoria che in quanto tale non poteva essere
concesso.
È quanto emerge dalla
sentenza
28.10.2016 n. 5010, pubblicata
dalla Sez. VIII del TAR Campania-Napoli.
I fatti.
Accolto il ricorso dei proprietari dell'immobile
che hanno concluso il contratto di locazione con un colosso
delle telecomunicazioni per installare in cima alla
costruzione una mega-antenna per telefoni cellulari.
In
realtà il comune non sarebbe potuto intervenire dichiarando
la decadenza di cui all'articolo 15 del Testo unico per
l'edilizia: il requisito per il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria è rappresentato dalla «doppia
conformità» dell'immobile, mentre l'ente locale che nel
concedere il titolo prescrive anche interventi edilizi non
secondari o accessori finisce per snaturare il provvedimento
e viola così il principio di tipicità degli atti
amministrativi.
E se le opere edilizie ritenute mancanti non
risultano accessorie o marginali l'autorizzazione non può
essere riconosciuta perché l'immobile è evidentemente privo
del requisito della conformità al momento della
realizzazione e della domanda.
I precedenti.
Il comune si rimangia la sanatoria concessa senza motivare
sull'interesse pubblico all'annullamento in autotutela del
titolo edilizio. Possibile? Sì, se il privato «bara» sulle
condizioni dell'immobile: in tal caso è stato il cittadino a
fuorviare l'amministrazione con una falsa rappresentazione
della realtà e dunque l'ente locale non ha bisogno di
spiegare altro perché è interesse di tutti il rispetto della
normativa urbanistica.
Ecco allora che scatta la demolizione per il fabbricato che
si rivela più alto del dovuto. È quanto emerge dalla
sentenza 825/2015, pubblicata dalla terza sezione del Tar
Toscana. Il comune prima concede l'attestazione di
conformità in sanatoria poi è costretto a ripensarci dopo il
sopralluogo della polizia municipale che constata alcuni
abusi edilizi agli interessati. L'attenzione dei vigili
urbani, in particolare, si sofferma sull'altezza dell'intero
fabbricato.
Non ha buon gioco uno dei comproprietari dell'immobile a
sostenere che la circostanza sarebbe ininfluente ai fini
delle opere per le quali è stata chiesto il placet
dell'ente. In realtà dal sopralluogo viene fuori la punta di
un iceberg che consente all'amministrazione di scoprire vari
abusi.
Infine, il comune non può negare la sanatoria sulla Scia
votata dal condominio a maggioranza di due terzi. Bocciata
l'ordinanza di demolizione emessa dall'ente: la delibera non
deve essere adottata all'unanimità quando serve la mera
volontà di conservare le modifiche strutturali apportate. È
quanto emerge dalla sentenza 5458/15, pubblicata dall'ottava
sezione del Tar Campania
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.12.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Condanna
doppia per chi agisce in una causa «persa». Tribunale di
Genova. Sfratto per morosità.
Promuovere una causa “persa”, o
difenderla, può costare al soccombente in mala fede, o che
abbia agito con colpa grave, una doppia condanna: per lite
temeraria e per condotta processuale scorretta. Il rischio,
oltre a dover sborsare le spese di giudizio, è di dover
risarcire il danno e pagare per la slealtà.
Lo precisa il
TRIBUNALE di Genova, con sentenza 28.10.2016.
Apre il caso una controversia di sfratto per morosità
inerente un contratto di locazione non abitativa, avente ad
oggetto un immobile ad uso albergo. Domanda definita con
ordinanza di rilascio. Il convenuto, però, già prima della
fase di convalida, ceduti l’azienda e il contratto di
locazione ad una Srl, aveva perso la legittimazione passiva
alle richieste di controparte. Ma l’uomo –nonostante l’opponibilità
al locatore di tali tipi di cessione sia subordinata alla
comunicazione che il conduttore deve inviare al locatore–
tenta comunque di dimostrare l’accettazione tacita della
cessione.
Due, a suo dire, gli elementi da valutare: la presunzione di
conoscibilità da parte del locatore dell’atto di cessione di
azienda e di locazione, giacché iscritto nel Registro
imprese, e il fatto che alcuni canoni sarebbero stati pagati
direttamente dalla società. Rilievo difensivo, il primo,
palesemente temerario – annota il Tribunale – poiché si
ignora il principio generale di specialità, per cui una
norma dettata in una materia particolare deroga al principio
generale. Quanto, poi, al pagamento dei mensili da parte
della Srl., non ve ne era alcuna prova. Incontrovertibile,
dunque, la legittimazione passiva del convenuto.
Certa, anche la sua morosità. Eccezioni e domande –connotate da dolo o colpa grave– che hanno sorretto la
decisione del giudice ligure di condannare l’uomo al
risarcimento dei danni procurati a parte avversa, ai sensi
del primo comma dell’articolo 96 del Codice di procedura
civile. Danno per lite temeraria, quindi, da liquidarsi,
secondo l’insegnamento della Cassazione cui si conforma la
pronuncia, secondo i parametri della Legge Pinto.
Il Tribunale, però, va oltre e, sulla scorta della sua
precedente ordinanza del 15.01.2016, applica,
congiuntamente, primo e terzo comma della norma, precetto
autonomo rispetto all’altro. Condanna rafforzata, allora, e
sostanzialmente motivata dalla diversità dei comportamenti
rilevanti tenuti dal soccombente, chiamato, così, a pagare –non solo per aver «resistito alla pretesa di controparte con
dolo o colpa grave»- ma altresì per avere, nel merito
«tenuto una condotta scorretta all’interno del processo».
Il
comma e), del resto, recita che «in ogni caso, quando
pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice,
anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente
al pagamento, a favore della controparte, di una somma
equitativamente determinata». Un «in ogni caso» che,
conclude il Tribunale, riguarda «condotte più ampie del mero
agire o resistere in giudizio con dolo o colpa grave,
comprendendo solo quei comportamenti endoprocessuali posti
in essere in violazione dell’articolo 88 del Codice di
procedura civile».
Disposto che consente al giudice di condannare la parte,
seppure vincitrice nel merito, anche al pagamento delle
spese processuali, in caso di trasgressione al dovere di
lealtà e probità (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Caldaie,
la negligenza costa. Scatta il reato di omicidio colposo per
controlli incompleti. La Cassazione:
è responsabile il tecnico che non certifica l'impianto
difettoso.
Risponde di omicidio colposo il tecnico che controllando una
caldaia ometta di certificarne le carenze funzionali tali da
cagionare la morte del proprietario dell'immobile. Il
tecnico, dopo aver riscontrato le carenze tecniche avrebbe
dovuto diffidare l'occupante dal suo utilizzo, indicano le
operazioni necessarie per il ripristino delle «condizioni di
sicurezza».
Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di
Cassazione, Sez. feriale penale, con la
sentenza 26.10.2016 n. 44968 in
merito alla responsabilità di un tecnico manutentore nella
fase di revisione di una caldaia difettosa.
Il fatto. I giudici di piazza Cavour condannavano per
omicidio colposo omissivo (articoli 40, 110 e 589 codice
penale) il tecnico inidoneo a effettuare la manutenzione e i
controlli di legge di una caldaia. Quest'ultimo infatti,
dopo aver effettuato il controllo della caldaia nel rapporto
di controllo, in violazione di quanto prescritto nella
normativa UNI 1729 e dal dlgs n. 192/2005 (allegato G),
dichiarava come positive le seguenti voci di verifica:
- «idoneità locale di installazione»;
- «adeguate dimensioni delle aperture di ventilazione»;
- «aperture
di ventilazione libere da ostruzioni»;
- «verifica efficienza evacuazione fumi», nonostante la
caldaia fosse di tipo B (aperta), e fosse ubicata in un
locale chiuso da vetrate con superficie di aerazione
permanente provvista di griglia ostruita da grassi e polvere
e nonostante fosse stato riscontrato un valore di Co
(monossido di carbonio, ndr) pari a 198.
Ometteva altresì nello spazio «raccomandazioni e
prescrizioni» di prescrivere un qualche tipo di intervento
in merito alla tipologia del locale, inadatto per caldaie
tipo B.
Il proprietario dell'immobile decedeva a seguito di collasso
cardiorespiratorio terminale da asfissia acuta da inibizione
dei centri del respiro in seguito all'intossicazione di
monossido di carbonio. La quantità di monossido di
carbonio, a causa del cattivo funzionamento della caldaia
stessa e dell'inidoneità del locale in cui la caldaia era
ubicata, risultava in quantità estremamente elevata e
superiore alla soglia di letalità.
Il Collegio di appello aveva confermato il giudizio di
colpevolezza del Tribunale ritenendo innanzitutto
sussistente una condotta inosservante delle regole tecniche
del settore, come stabilite dalla specifica normativa (Dlgs
192/2005, Dpr n. 412/1993 e relativi allegati, costituenti
attuazione della direttiva 2002/91/CE) e, in particolare,
quanto al ruolo del manutentore, veniva sottolineato che nel
primo rapporto tecnico egli aveva attestato che il locale di
installazione non era idoneo per caldaie tipo B», senza
esercitare il potere di diffida o la messa fuori servizio
espressamente previsto dalla normativa vigente.
Il tecnico della revisione della caldaia ha proposto ricorso
per Cassazione, chiedendo l'annullamento della decisione,
sulla premessa che la Corte di appello, appiattendosi sulla
posizione del giudice di primo grado, avrebbe erroneamente
ritenuto che i tecnici manutentori abbiano il potere e
l'obbligo di ordinare al proprietario della caldaia di
interromperne l'esercizio allorché rilevino l'immediato
pericolo alle persone, agli animali alle cose, senza
indicare quale sia la situazione idonea a integrare tale
pericolo immediato: mancherebbe infatti una norma
prescrittiva di riferimento.
Il tecnico secondo i cassazionisti aveva riscontrato carenze
tali da compromettere la sicurezza di funzionamento
dell'impianto, dopo aver messo fuori servizio l'apparecchio
e diffidato l'occupante dal suo utilizzo, avrebbe dovuto
indicare le operazioni necessarie per la messa a norma e il
ripristino delle condizioni di sicurezza. Nulla di tutto ciò
era stato fatto, con la conseguente inevitabile sussistenza
in capo al tecnico di profili di colpa specifica, connessa
all'obbligo del tecnico di chiudere l'impianto controllato
nei casi di pericolo, oltre a profili di colpa generica, per
imperizia e negligenza del manutentore.
La posizione della Corte di Cassazione. Il tecnico
condannato per omicidio colposo, nel presentare ricorso per
Cassazione, ha fatto valere la non accoglienza da parte dei
giudici dell'interruzione del nesso causale, addossando la
colpa dell'evento morte in capo al tecnico manutentore
intervenuto successivamente che, come lui, aveva omesso di
certificare il malfunzionamento della caldaia.
Dunque, a
distanza di alcuni anni, in sede di controlli per il
corretto funzionamento della caldaia, nessuno dei due
tecnici manutentori intervenuti aveva compiuto con diligenza
e perizia le dovute certificazioni, omettendo entrambi di
adottare le necessarie precauzioni.
Per la Cassazione , entrambi i tecnici manutentori sono
responsabili e dell'omicidio colposo a titolo di concorso.
Quando l'obbligo di impedire l'evento ricade su più persone
che debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il
nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del
titolare di una posizione di garanzia non viene meno per
effetto del successivo mancato intervento da parte di un
altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di
impedire l'evento.
Configurandosi, in tale ipotesi, un
concorso di cause ai sensi dell'articolo 41, comma primo,
cod. pen. in questa ipotesi, la mancata eliminazione di una
situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo o
omissivo dell'agente), a opera di terzi, non è una distinta
causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare
l'evento, ma una causa/condizione negativa grazie alla quale
la prima continua a essere efficace (affermazione resa
nell'ambito di un procedimento penale per i reati di
omicidio colposo e di lesioni personali colpose provocati
dal malfunzionamento di una caldaia installata in un
appartamento, addebitato alla condotta colposa di colui che
aveva rilasciato erroneamente la dichiarazione di idoneità
dell'impianto e di coloro che avevano eseguito in modo
analogamente erroneo alcuni lavori di manutenzione che non
avevano rimosso la condizione di pericolo derivante dalle
condizioni dell'impianto).
In tema di responsabilità per un evento che si aveva obbligo
di evitare, per escludere, nel caso di più garanti, la
responsabilità di uno dei precedenti garanti, che abbia
violato determinate norme precauzionali è indispensabile
che, intervenendo, sollecitato o meno dal precedente,
rimuova effettivamente la fonte di pericolo dovuta alla
condotta (azione o omissione) di quest'ultimo. Con la
conseguenza che, ove l'intervento risulti incompleto,
insufficiente, tale da non rimuovere quella fonte, il
precedente garante, qualora si verifichi l'evento, anche a
causa del mancato rispetto, da parte sua, di quelle norme
precauzionali, non può non risponderne (ciò è una
conseguenza logica dei principi in tema di prevedibilità ed
evitabilità dell'evento).
Il nesso di causalità tra la condotta omissiva del titolare
della posizione di garanzia, tenuto per primo a intervenire,
non viene meno per effetto del mancato intervento da parte
di altro garante, «sempre che la posizione di pericolo non
si sia modificata, per effetto del tempo trascorso o di un
comportamento del secondo garante, in modo tale da escludere
la riconducibilità al primo garante della nuova situazione
creatasi».
Il primo tecnico era garante e, violando norme
precauzionali, non ha imposto la messa fuori servizio della
caldaia; il successivo tecnico manutentore che è intervenuto
non ha neppure lui per colpa rimosso la situazione di
pericolo, con la conseguenza che i due garanti tecnici
manutentori saranno entrambi responsabili in misura
equivalente ex art. 41 c.p. in virtù della regola del
concorso di cause.
La Corte ha altresì escluso
l'interruzione del nesso causale per la condotta imprudente
della vittima consistita nell'aver disposto l'installazione
della caldaia in luogo non idoneo e per averla ivi
mantenuta, in quanto siffatta condotta imprudente della
vittima non costituisce fatto eccezionale e atipico idoneo a
interrompere il nesso di causalità (articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016). |
APPALTI: Valida
l’offerta con carte superiori ai limiti del bando.
Appalti. Sentenza del Tar di Firenze.
In sede di gara di appalto,
l’amministrazione non può rifiutare un documento le cui
dimensioni eccedano le previsioni del bando:
lo sottolinea il TAR Toscana -Sez. I- con
la
sentenza 24.10.2016 n. 1524,
che offre spunti interessanti anche per le comunicazioni
telematiche, come quelle previste dalla nuova legge 197/2016
sulla giustizia civile ed amministrativa. Il caso esaminato
riguardava una gara per lavori edili: un candidato
contestava l’aggiudicazione a un concorrente che aveva
fornito una relazione di consistenza superiore alle tre
pagine previste dal bando. Esso prevedeva inoltre invii
telematici di documenti con dimensione massima di 20 MB in
un unico file.
Secondo l’impresa ricorrente, accettare dimensioni superiori
avrebbe alterato la situazione di parità (par condicio) tra
concorrenti, dando maggiori possibilità di chiarire la
propria offerta. Opinione non condivisa dal Tar, che ha
invece applicato il principio di tassatività delle cause di
esclusione, ritenendo che il superamento dei limiti fisici
di un’offerta (cartacea o digitale) non può costituire di
per sé motivo per l’estromissione dalla procedura
dell’impresa che non si sia attenuta ai limiti.
Sul principio, la giustizia amministrativa applica infatti
il favor partecipationis, ritenendo che un’ampia platea di
concorrenti dia all’ente pubblico la possibilità di
selezionare la migliore offerta: applicando tale principio,
è stata tollerata un’eccedenza di tre pagine rispetto alle
19 previste dal bando (Consiglio di Stato, sentenza
3677/2012) e persino una relazione di centinaia di pagine
invece delle 30 previste da un bando che si esprimeva solo
in termini di preferibilità delle più contenute dimensioni
(Tar L’Aquila, sentenza 344/2016). La parte più innovativa
della sentenza fiorentina riguarda il limite di un unico
file di 20 MB per l’offerta tecnica: il giudice ha ritenuto
valutabile l’offerta anche se difforme dal bando, in quanto
l’amministrazione non aveva espressamente previsto una
clausola di esclusione.
In ogni caso, si sottolinea poi, non spetta alla piattaforma
informatica rifiutare di caricare file di dimensioni
maggiori di quelle indicate nella lettera di invito: il
potere di esclusione spetta alla commissione di gara.
Sull’estensione di tali princìpi si interrogano di recente
gli avvocati, che hanno problemi analoghi nell’applicare la
legge 197/2016, il cui articolo 7 prevede rigide modalità
telematiche nella trasmissione di documenti. La modifica
l’articolo 13 del Dlgs. 104/2010 (sul processo
amministrativo), prevedendo che il segretario generale della
giustizia amministrativa possa stabilire limiti di
dimensioni dei singoli file allegati al modulo di deposito,
salvo casi eccezionali da autorizzare da parte del singolo
magistrato. Attualmente, la dimensione prevista (in
sperimentazione) per i files è di 30 Mb, peraltro superabili
ricorrendo ad invii plurimi.
Di fatto, tuttavia, non vi è solo il rischio di una mancata
accettazione da parte del sistema digitale, ma anche di
un’omessa valutazione da parte del giudice: già per gli
scritti difensivi opera l’articolo 120 del Dlgs 104/2010,
che li limita a 30 pagine in caso di appalti, abilitando il
giudice a trascurare ciò che gli avvocati scrivono in
eccedenza. E non è tutto, perché vi sono anche le incertezze
sugli stili di scrittura: la Cassazione civile ammette il
Times New Roman, ma le sezioni penali (protocolli 18.12.2015) preferiscono il Verdana (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2016).
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MASSIMA
Premesso che:
- l’Unione dei Comuni della Garfagnana, con lettera d’invito
dell’08.07.2016, indiceva una procedura ristretta con
modalità telematica, da aggiudicarsi con il sistema
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per
l’esecuzione dei lavori di “ripristino del movimento
franoso in Camporgiano…lotto n. 4”;
- l’offerta tecnica, secondo la lettera d’invito, doveva
essere contenuta in un file delle dimensioni massime di 20
mb e in proposito la stazione appaltante, rispondendo ad un
quesito posto dalla stessa ricorrente precisava che “il
concorrente dovrà redigere relazione max 3 pagine ed
eventuali elaborati grafici allegati, pertanto non vi sono
limiti quantitativi agli elaborati. Rimane il limite dei 20
Mb in quanto deve essere un unico file”,
- la ricorrente si atteneva a tale limite, peraltro
rispettato da tutte le altre imprese concorrenti ad
eccezione dell’aggiudicataria, ma all’esito delle
valutazioni compite dal seggio di gara si classificava al
secondo posto della graduatoria provvisoria, pur avendo
presentato la migliore offerta economica;
- il contratto veniva aggiudicato in favore del RTI D.De.
s.r.l. disponendo, altresì, la consegna dei lavori in via
d’urgenza ex art. 32, co. 8, d.lgs. n. 50/2016;
- la ricorrente è insorta contro tale atto chiedendone
l’annullamento, previa sospensione, deducendo la violazione
della par condicio tra i concorrenti per avere
l’aggiudicataria violato il limite fissato dalla legge di
gara in ordine alle dimensioni del file contenente
l’offerta,
- nell’odierna camera di consiglio il ricorso è stato
trattenuto per la decisione con sentenza in forma
semplificata;
considerato che:
- come rilevato da controparte il chiarimento menzionato
dalla ricorrente non risulta pubblicato sul sistema
telematico START e, dunque, non poteva essere conosciuto
dagli altri concorrenti e, comunque, tale limite non era
imposto a pena di esclusione dalla lex specialis di
gara;
- inoltre è consolidato ormai
l’orientamento della giurisprudenza secondo cui, in virtù
del principio di tassatività delle cause di esclusione, il
superamento delle dimensioni dell’offerta (non rileva se in
forma cartacea o digitale) non può costituire, di per se
motivo, per l’estromissione dalla procedura dell’impresa che
non vi si sia attenuta
(Cons. di Stato sez. V, 21.06.2012 n. 3677; TAR Abruzzo,
L'Aquila, 01.06.2016 n. 344; TAR Emilia-Romagna, sez. I
18.12.2014 n. 1242);
- in ogni caso non risulta dimostrato che
la maggiore ampiezza del file utilizzato dalla
controinteressata abbia determinato la possibilità di una
più incisiva illustrazione dell’offerta a cui di conseguenza
sarebbe stata, per tale sola ragione, attribuito il miglior
punteggio;
- d’altra parte neppure la legge di gara
sembra suscettibile di univoca interpretazione riferendo
alternativamente il limite in parola “ad esempio
all’offerta economica, alla domanda di partecipazione e
scheda di rilevazione relativa i requisiti di ordine
generale” dovendo perciò le norme del bando essere
interpretate secondo il senso fatto palese dal loro testo e
non ricercando significati impliciti ed assegnando la
prevalenza la principio del favor partecipationis e
all’affidamento dei concorrenti
(ex multis, Cons. Stato, sez. V, 12.05.2016 n. 1889;
TAR Emilia-Romagna, Parma 30.06.2016 n. 223);
ritenuto che:
- il ricorso risulta perciò, per tali profili, sprovvisto di
fondamento mentre gli altri motivi, una volta che sia
confermata l’aggiudicazione si palesano inammissibili per
carenza di interesse;
- in ogni caso, per le ragioni già esposte, non può
ritenersi che il sistema di gara attraverso la piattaforma
START abbia alterato gli esiti della procedura dal momento
che, a fronte dell’inesistenza di una clausola di
esclusione, il sistema non avrebbe potuto rifiutare di “caricare”
un file di dimensioni maggiori di quelle indicate nella
lettera d’invito, spettando alla commissione di gara ogni
valutazione in merito;
- in conclusione il ricorso va rigettato seguendo le spese
di giudizio la soccombenza come in dispositivo liquidate; |
TRIBUTI: No
alla notifica privata. Raccomandate solo con le poste
pubbliche. Ctr di Bari sulla consegna degli atti di
riscossione degli enti locali.
È rischioso per le amministrazioni comunali notificare gli
atti di accertamento e riscossione tramite corrieri privati.
La Commissione tributaria regionale di Bari, Sez. staccata
di Foggia (XXV), con la
sentenza
20.10.2016 n. 2463/25/2016, ha dichiarato illegittimi
gli atti di accertamento emanati dall'amministrazione
comunale perché notificati a mezzo agenzie private di
recapito.
I giudici d'appello, richiamando una pronuncia
della Cassazione (7156/2016), hanno ritenuto la notifica
degli atti impositivi come «mai avvenuta». Secondo la
commissione regionale «in tema di notifiche a mezzo posta,
il dlgs n. 261 del 1999, pur liberalizzando i servizi
postali in attuazione della direttiva 97/67/Ce, all'art. 4,
comma 5, ha continuato a riservare in via esclusiva, per
esigenze di ordine pubblico, al fornitore del servizio
universale (l'ente poste), gli invii raccomandati attinenti
alle procedure amministrative e giudiziarie.
Ne consegue
che, in tali procedure, la consegna e la spedizione mediante
raccomandata, affidata a un servizio di posta privata, non
sono assistite dalla funzione probatoria che l'articolo 1
del citato dlgs 261/1999 ricollega alla nozione di «invii
raccomandati» e devono, pertanto, considerarsi inesistenti.
Va posto in rilievo che i giudici vanno in ordine sparso
sulle notifiche tramite corrieri privati degli atti e dei
ricorsi tributari, creando una totale incertezza del
diritto.
Il contrasto alcune volte emerge anche tra pronunce
emanate dalle stesse sezioni delle commissioni tributarie.
Non a caso, mentre con la sentenza sopra citata la Ctr della
Puglia ha dichiarato illegittima la notifica effettuata da
un corriere privato, che ha comportato l'annullamento degli
atti di accertamenti Ici emanati dal comune per un importo
complessivo di 300 mila euro, la stessa sezione (XXV) della
commissione regionale, con la sentenza 323 del 10.02.2016, aveva invece ritenuto valida la notifica degli
accertamenti Ici tramite le poste private.
Continua a essere
dibattuta la questione delle notifiche a mezzo posta degli
atti e ricorsi tributari e dei soggetti legittimati a
portarli a conoscenza dei destinatari. La giurisprudenza
prevalente ha affermato che le notifiche fatte dagli agenti
di poste italiane hanno la stessa efficacia di quelle
effettuate dall'ufficiale giudiziario e che le dichiarazioni
da loro rilasciate valgono fino a querela di falso, mentre
la stessa valenza non può essere riconosciuta alle agli atti
recapitati dai dipendenti di una società che svolge un
servizio postale privato.
Questo orientamento, però, non
tiene conto delle modifiche normative intervenute nel 2011
che eliminano l'esclusività del servizio per poste italiane
e consente anche alle agenzie private, debitamente
autorizzate, di notificare gli atti, tranne in casi
limitati. In realtà, gli atti notificati dal 30.04.2011
dalle società private hanno la stessa efficacia di quelli
notificati tramite poste italiane. L'articolo 1 del decreto
legislativo 58/2011 specifica che può essere fornitore di un
servizio postale, su tutto il territorio nazionale, un
soggetto sia pubblico sia privato.
L'articolo 4 dello stesso
decreto attribuisce a poste italiane, in via esclusiva, «i
servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di
comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di
atti giudiziari di cui alla legge 20.11.1982, n. 890»,
effettuate tramite le cosiddette «buste verdi».
Dunque, la
raccomandata ordinaria spedita utilizzando un'agenzia di
recapiti, debitamente autorizzata, ha la stessa efficacia e
lo stesso valore di quella inviata da poste italiane
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Tetto in eternit-amianto ammalorato: chi deve provvedere?
Questo Tribunale ha già esaminato fattispecie analoghe,
svolgendo le considerazioni che possono così essere
riassunte:
- la disciplina speciale che regola la materia per cui è causa
(cessazione dell'impiego dell'amianto) contiene principi in
parte diversi da quelli applicabili al settore dei rifiuti
e, in generale, all’inquinamento ambientale;
- dalla Legge n. 257/1992 e dal D.M. 06.09.1994 emerge la
circostanza per cui l’amianto non è di per sé qualificabile
come un rifiuto;
- nei casi di abbandono dei rifiuti o di inquinamento ambientale è
possibile (anche se a volte molto difficoltoso) accertare
chi sia stato il soggetto responsabile dell’inquinamento o,
in negativo, se l’attuale proprietario del terreno inquinato
o adibito a discarica abusiva sia o meno identificabile come
responsabile della condotta illecita;
- nel caso dell’amianto la situazione è diversa, perché l’eternit
diviene pericoloso per la salute pubblica solo a certe
condizioni, il che implica una continua evoluzione della
situazione e quindi anche il passaggio delle responsabilità
fra cedente e cessionario dei beni immobili in cui sia
presente la sostanza inquinante. Di conseguenza, l’obbligo
di sorveglianza, di una situazione che può modificarsi nel
tempo, consente di scindere le responsabilità e obbliga
passivamente il soggetto che detiene il bene nel momento in
cui si verificano le condizioni (di pericolosità) per
l’applicazione della normativa speciale.
---------------
Circa la doglianza relativa alla pretesa applicabilità della
disciplina sui rifiuti e all’impossibilità di coinvolgere il
proprietario incolpevole, vanno richiamati i principi
giurisprudenziali esposti in precedenza e condivisi anche
dall’odierno Collegio.
Di conseguenza, è legittima l’ordinanza emessa rivolta
all’attuale detentore del bene su cui grava l’onere di
sorveglianza e di eliminazione del pericolo.
---------------
... per l'annullamento
- dell’ordinanza sindacale 31.07.2015 n. 87 per interventi
su struttura contenente amianto;
- degli atti connessi del procedimento.
...
1. Con ordinanza 31.07.2015 n. 87, adottata ai sensi della
Legge n. 257/1992, del DM 06.09.1994, dell’art. 54 del
D.Lgs. n. 267/2000 e oggetto di gravame insieme agli atti
presupposti e connessi del procedimento amministrativo, il
Comune di Jesi disponeva, a carico della ricorrente, una
pluralità di interventi urgenti proposti dall’ASUR Marche
che rilevava possibili pericoli, per gli edifici
residenziali nelle vicinanze, conseguenti allo stato di
degrado della copertura in cemento-amianto dell’edificio
sito in via Roma ... di proprietà della stessa ricorrente.
In particolare veniva ordinato:
- di eseguire, entro 45 giorni, interventi di incapsulamento
conservativo e riparazione delle zone danneggiate con
prodotti incapsulanti certificati ai sensi del DM 20.08.1999
mirati alle parti rotte della copertura. Entro lo stesso
termine veniva ordinato anche di procedere alla pulizia
delle gronde e alla rimozione delle eventuali lastre a
terra;
- la rimozione, entro il 31.12.2015, della copertura in
cemento-amianto dell’edificio.
Qualora la ricorrente avesse preferito effettuare la
sollecita rimozione della copertura, avrebbe potuto (in
alternativa alle predette misure), presentare al Comune e
all’ASUR, entro 30 giorni, un piano di lavoro ai sensi
dell’art. 256 del D.Lgs. n. 81/2008, da eseguire entro 45
giorni dal parere favorevole espresso dall’ASUR sul piano
proposto.
Si è costituito il Comune di Jesi per contestare, nel
merito, le deduzioni di parte ricorrente chiedendone il
rigetto.
Si sono altresì costituiti, ad opponendum, i Sigg.
Gi.Gi. e Cu.An., allegando di essere residenti a ridosso
dell’edificio in questione e direttamente esposti ai
pericoli derivanti dall’amianto presente nella relativa
copertura.
2. Con un’unica ed articolata censura viene dedotta
violazione e falsa applicazione degli artt. 50 e 54 del
D.Lgs. n. 267/2000, degli artt. 192, 239 e ss. del D.Lgs. n.
152/2006, del DM 06.09.1994, del D.Lgs. n. 81/2008, della
Legge n. 241/1990, nonché eccesso di potere sotto svariati
profili.
In particolare viene dedotto:
- che non sussistevano i presupposti per l’adozione di
un’ordinanza contingibile ed urgente perché la situazione
era nota dal 2013, era stato redatto un programma di
manutenzione e controllo del materiale nell’ottobre 2014 con
sopralluoghi dell’ASUR, la quale, nella relazione del
dicembre 2014, non evidenziava ragioni di urgenza, mentre,
nella relazione del 17.06.2015, proponeva la programmazione
di un intervento di bonifica entro 12 mesi a fronte di un
eventuale pericolo derivante dalla sola presenza di alcuni
frammenti e danneggiamenti della copertura. Di conseguenza
il Comune avrebbe dovuto esercitare i poteri ordinari di cui
all’art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006;
- che l’edificio è stato realizzato abusivamente dalla
società Li. (che poi ha chiesto il condono nel 1986) e
utilizzato dalla società MA.. La ricorrente è mera
proprietaria del terreno e non era a conoscenza
dell’edificazione, dovendosi pertanto considerare
proprietario incolpevole. L’ordine avrebbe dovuto essere
rivolto alla società Li. benché abbia cessato l’attività nel
1994 e sia stata posta in liquidazione, in quanto devono
rispondere i soci fino alla concorrenza delle somme riscosse
con il bilancio finale di liquidazione ai sensi dell’art.
2495 CC. C’è comunque responsabilità solidale degli
amministratori ai sensi dell’art. 192, c. 4, del D.Lgs. n.
152/2006.
L’articolata censura non può trovare condivisione.
In via generale occorre premettere che questo Tribunale ha
già esaminato fattispecie analoghe, svolgendo le
considerazioni che possono così essere riassunte (cfr. TAR
Marche, 05.06.2015 n. 467):
- la disciplina speciale che regola la materia per cui è
causa (cessazione dell'impiego dell'amianto) contiene
principi in parte diversi da quelli applicabili al settore
dei rifiuti e, in generale, all’inquinamento ambientale;
- dalla Legge n. 257/1992 e dal D.M. 06.09.1994 emerge la
circostanza per cui l’amianto non è di per sé qualificabile
come un rifiuto;
- nei casi di abbandono dei rifiuti o di inquinamento
ambientale è possibile (anche se a volte molto difficoltoso)
accertare chi sia stato il soggetto responsabile
dell’inquinamento o, in negativo, se l’attuale proprietario
del terreno inquinato o adibito a discarica abusiva sia o
meno identificabile come responsabile della condotta
illecita;
- nel caso dell’amianto la situazione è diversa, perché
l’eternit diviene pericoloso per la salute pubblica solo a
certe condizioni, il che implica una continua evoluzione
della situazione e quindi anche il passaggio delle
responsabilità fra cedente e cessionario dei beni immobili
in cui sia presente la sostanza inquinante. Di conseguenza,
l’obbligo di sorveglianza, di una situazione che può
modificarsi nel tempo, consente di scindere le
responsabilità e obbliga passivamente il soggetto che
detiene il bene nel momento in cui si verificano le
condizioni (di pericolosità) per l’applicazione della
normativa speciale.
Poste tali premesse, va osservato che sussisteva l’urgenza
di intervenire poiché, trattandosi di una situazione in
evoluzione, gli accertamenti eseguiti dopo l’avvio del
procedimento (avvenuto nel 2013) non potevano considerarsi
definitivi e irripetibili, tanto è vero che l’ordinanza
oggetto di gravame, sulla scorta degli accertamenti
successivi, diversifica gli interventi a carico della
proprietà, distinguendo tra quelli da eseguire entro 45
giorni (incapsulamento conservativo e riparazione mirati
alle parti danneggiate della copertura) e quelli da
eseguire entro il 31.12.2015 (rimozione della
copertura), con possibilità di optare immediatamente per un
intervento unitario previa elaborazione di un piano di
lavoro.
Del resto anche parte ricorrente ammette l’esistenza di
parti danneggiate della copertura, pur ritenendo che la sola
presenza di alcuni frammenti e danneggiamenti escluda
pericoli per l’incolumità, senza tuttavia fornire elementi
tecnici a confutazione di quanto accertato dai competenti
organismi pubblici e per ritenere che il pericolo possa
considerarsi definitivamente superato attraverso meri
interventi di riparazione di una copertura comunque in stato
di degrado spontaneo dovuto al naturale invecchiamento delle
lastre e che libera materiale friabile e polverulento
rinvenuto depositato in gronda (cfr. relazione ASUR del
17.06.2015).
Per quanto concerne l’ulteriore doglianza, relativa alla
pretesa applicabilità della disciplina sui rifiuti e
all’impossibilità di coinvolgere il proprietario
incolpevole, vanno richiamati i principi giurisprudenziali
esposti in precedenza e condivisi anche dall’odierno
Collegio. Di conseguenza l’ordinanza non poteva che essere
rivolta all’attuale detentore del bene su cui grava l’onere
di sorveglianza e di eliminazione del pericolo.
3. Il ricorso va conclusivamente respinto
(TAR Marche,
sentenza 19.10.2016 n. 571 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi Legge 104: spetta lo stipendio?
Assenze per assistere un familiare disabile: legittimo il
diritto alla retribuzione e ai premi.
Le tre giornate di permesso al mese,
concesse al lavoratore che beneficia della legge 104, vanno
retribuite regolarmente. In più al dipendente spettano anche
i compensi incentivanti la produttività.
È quanto
chiarito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 13.10.2016 n. 20684.
I permessi della legge 104, concessi ai dipendenti che
assistono un familiare disabile, sono spesso al centro di
battaglie giudiziarie. Di recente estesi dalla Corte
Costituzionale anche ai conviventi stabili (ossia alle
coppie di fatto non sposate), la principale ragione di
contestazione si registra tra lavoratori e azienda per via
dell’illegittimo utilizzo per scopi personali.
Ora la Cassazione ha chiarito che, tutte le volte in cui il
lavoratore è costretto a prendere i permessi (massimo tre
giorni al mese) per assistere il parente affetto da
handicap, per tali giornate di assenza dal lavoro ha
comunque diritto a vedersi riconosciuta non solo la
retribuzione prevista ma anche i compensi incentivanti la
produttività, previsti per specifici progetti. E ciò vale
sia per il pubblico che per il privato.
I «riposi» previsti dalla legge numero 104 del 1992 «sono
equiparati ai riposi per le lavoratrici madri», che, a
loro volta, «sono considerati ore lavorative a tutti gli
effetti». Ciò significa che «il trattamento da
corrispondere in relazione a tali “permessi” devono essere
esattamente quello che viene corrisposto in caso di
effettiva prestazione lavorativa».
Pieno riconoscimento, quindi, alle pretese avanzate dal
lavoratore a cui la sentenza in commento riconosce
ufficialmente il diritto alla corresponsione dello
stipendio, comprensivo dei compensi incentivanti.
In ogni caso, la Cassazione ricorda che la legge «prevede
il pagamento dei compensi incentivanti unicamente previa
valutazione e verifica dei risultati conseguiti».
Pertanto, sbaglia l’Inps nel ritenere che «tali compensi
non dovrebbero essere corrisposti nei giorni di permesso
retribuito» previsti dalla legge 104 anche perché essi
sono da includere nella «retribuzione» e sono
applicati «anche in misura non direttamente proporzionale
al regime orario adottato» dal lavoratore (commento
tratto da www.laleggepertutti.it).
---------------
MASSIMA
Secondo orientamento consolidato di questa Corte, al
quale si ritiene di dare continuità (Cass. n. 688/2014),
l'evidente portata lessicale della norma di
interpretazione autentica del D.L. n. 324 del 1993, art. 2,
comma 3-ter (convertito con modificazioni in L. n. 423 del
1993) determina la corresponsione della retribuzione
comprensiva dei compensi incentivanti.
Invero, l'art. 33, comma 3, primo periodo, della L. n. 104
del 1992 e successive modifiche prevede: "A
condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a
tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato,
che assiste persona con handicap in situazione di gravità,
coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero
entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della
persona con handicap in situazione di gravità abbiano
compiuto sessantacinque anni di età oppure siano anche essi
affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o
mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso
mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa,
anche in maniera continuativa";
il successivo comma 4 prevede poi che "Ai permessi di cui
ai commi 2 e 3, che si cumulano con quelli previsti alla
citata l. n. 1204 del 1971, art. 7, si applicano le
disposizioni di cui alla L. n. 1204 del 1971, medesimo art.
7, u.c., nonché quelle contenute nella L. 09.12.1977, n.
903, artt. 7 e 8 ".
Sulla base di tale disposto normativo, anche in relazione
all'espresso richiamo fatto alla L. n. 903 del 1977, art. 8
(abrogato dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 86, comma 2, che
tuttavia, all'art. 43 riproduce una disposizione di analogo
contenuto), che, ai primi due commi, prevede che per i
riposi di cui alla L. n. 1204 del 1971, art. 10 sia dovuta
dall'ente assicuratore un'indennità pari all'intero
ammontare della retribuzione relativa ai riposi medesimi e
che tale indennità sia anticipata dal datore di lavoro e sia
poi portata a conguaglio con gli importi contributivi
dovuti, l'Istituto ricorrente delinea le
differenze tra settore pubblico e privato poste a fondamento
del motivo.
Tuttavia il D.L. n. 324 del 1993, art. 2, comma 3-ter,
convertito con modificazioni in L. n. 423 del 1993,
stabilisce che "Al comma 3 dell'art. 33
della legge 05.02.1992, n. 104, le parole "hanno diritto a
tre giorni di permesso mensile" devono interpretarsi nel
senso che il permesso mensile deve essere comunque
retribuito";
lo stesso ricorrente osserva, condivisibilmente, che
con tale norma di interpretazione autentica si è
voluto chiarire che anche nel settore pubblico i permessi
de quibus dovevano intendersi retribuiti; dal che
derivano però conseguenze del tutto opposte a quelle
prospettate nel ricorso, posto che l'inequivoca previsione
dell'obbligo di retribuzione dei permessi anche per il
settore pubblico esclude, per evidente contrasto con la
suddetta portata della norma di interpretazione autentica,
l'interpretazione secondo cui, proprio nel settore pubblico,
dovrebbe essere esclusa la corresponsione della retribuzione
comprensiva dei compensi incentivanti a causa delle
evidenziate differenze rispetto al settore privato.
In ordine poi alla stretta connessione dei compensi
incentivanti alla singola valutazione dell'effettivo impegno
profuso nel conseguimento degli obiettivi fissati dall'Ente
ed alla verifica dell'effettiva realizzazione dei medesimi
obiettivi, osserva il Collegio che, a mente della L. n. 88
del 1989, art. 18, comma 2, "Con la contrattazione
articolata di ente sono stabiliti i criteri per la
corresponsione, al personale e ai dirigenti che partecipano
alla elaborazione e realizzazione dei progetti di cui al
comma 1, di compensi incentivanti la produttività".
La Corte territoriale ha dato atto che l'Inps non ha
prodotto la contrattazione articolata dalla quale dovrebbe
trovare conferma l'assunto secondo cui il compenso in parola
dovrebbe essere corrisposto solo per le ore effettivamente
lavorate; né il ricorrente fa cenno dell'esistenza di una
previsione in tal senso ad opera della contrattazione
articolata nel motivo all'esame.
Ne discende che, prevedendo la normativa legale il pagamento
dei compensi incentivanti unicamente "previa valutazione
e verifica dei risultati conseguiti", risulta privo di
base normativa l'assunto del ricorrente secondo cui tali
compensi non dovrebbero essere corrisposti nei giorni di
permesso retribuito di cui alla L. n. 104 del 1992 e
successive modifiche, art. 33, comma 3.
4. Il terzo motivo è parimenti infondato.
Preliminarmente, va osservato che -a fronte di un quadro
normativa che, giusta le considerazioni innanzi svolte,
legislativamente conduce alla ricomprensione anche dei
compensi de quibus nella retribuzione relativa al
giorni di fruizione dei permessi- il silenzio al riguardo
del CCNL 1994-97 non può valere ad escludere dalla
retribuzione (e, quindi, dal pagamento) tali compensi.
In ogni caso, la stessa contrattazione collettiva, con il
CCNL 1998-2001, ha espressamente indicato i compensi
incentivanti nella struttura della retribuzione (cfr, art.
28, comma 1, lett. e) e sempre il medesimo contratto
collettivo, disciplinando il trattamento economico-normativo
del personale a tempo parziale (che, per definizione, svolge
la propria prestazione lavorativa in orario inferiore a
quella dei dipendenti a tempo pieno), ha previsto che i
trattamenti accessori collegati al raggiungimento di
obiettivi o alla realizzazione di progetti (fra i quali,
come si è detto, rientrano i compensi incentivanti de
quibus) sono applicati a quei dipendenti "... anche
in misura non frazionata o non direttamente proporzionale al
regime orario adottato" (cfr, art. 23, comma 5), con ciò
implicitamente riconoscendo che la "previa valutazione e
verifica dei risultati conseguiti" richiesta dalla legge
non è limitata al numero delle ore o dei giorni
effettivamente lavorati. |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Impianti
eolici, rileva il catasto. L'imponibile non va calcolato
sulle scritture contabili. Due
pronunce della Ctr di Bari su Ici e Imu dovuti per gli
immobili delle imprese.
Per gli immobili delle imprese la base imponibile di Ici e
Imu va calcolata sulla rendita catastale e non sulle
scritture contabili anche per il periodo che precede
l'istanza di accatastamento. L'attribuzione della rendita ha
efficacia retroattiva e si applica anche per il periodo che
precede la richiesta di accatastamento dei fabbricati.
In questo senso si è espressa la Commissione tributaria
regionale di Bari, sezione staccata di Foggia (XXVII), con
la sentenza 13.10.2016 n. 2414.
Qualora si tratti di parchi
eolici, poi, ha aggiunto la stessa commissione regionale
(sezione XXV, sentenza 18.10.2016 n. 2442), non possono
formare oggetto di classamento e agli stessi non può essere
attribuita la rendita, poiché sono soggetti
all'accatastamento solo le singole parti degli impianti.
Dunque per i giudici pugliesi, nonostante quanto affermato
dalla Cassazione (sezioni unite, sentenza 3160/2011) da
diversi anni, una volta attribuita la rendita non conta più
il valore degli immobili risultante dalle scritture
contabili. Secondo la commissione regionale l'applicazione
del criterio contabile presuppone che gli immobili da
sottoporre a imposizione non siano accatastati e siano stati
dall'impresa distintamente contabilizzati.
Peraltro, hanno
ritenuto sbagliato ritenere che il parco eolico sia
«un'unica entità», in quanto non può essere in quanto tale
classificato catastalmente e non può essere destinatario di
una rendita catastale. L'Agenzia delle entrate, infatti,
procede «all'accatastamento e all'attribuzione della rendita
per ciascun aerogeneratore, piazzola e sottostazione».
Le pronunce in esame non possono essere condivise, in quanto
i fabbricati delle imprese, ai sensi dell'articolo 5, comma
3, del decreto legislativo 504/1992, sono soggetti al
pagamento in base ai valori risultanti dalle scritture
contabili fino alla richiesta di accatastamento. Per i
fabbricati iscritti in catasto il valore dell'immobile si
ottiene facendo riferimento all'ammontare delle rendite,
vigenti al 1° gennaio dell'anno di imposizione.
Per i
fabbricati interamente posseduti da imprese, classificabili
nel gruppo catastale D (come i parchi eolici), distintamente
contabilizzati, qualora gli stessi siano sforniti di rendita
catastale, la base imponibile è costituita dai costi di
acquisizione e incrementativi contabilizzati, ai quali vanno
applicati dei coefficienti stabiliti annualmente con decreto
del ministro delle finanze. Il valore è determinato sulla
base delle scritture contabili fino all'istanza di
accatastamento. In questo senso si è espressa la Cassazione
con varie sentenze (5042/2015, 8656/2015).
Incomprensibile, inoltre, è la distinzione tra parco eolico
e singole unità che lo compongono. In passato l'Agenzia del
territorio, con la circolare 14/2007, ha chiarito che gli
impianti eolici devono essere accatastati e sono soggetti al
pagamento delle imposte locali. L'Agenzia ha precisato la
categoria catastale che deve essere attribuita a questi
impianti e ha fornito i chiarimenti necessari sulla
disciplina che deve essere osservata dagli uffici
provinciali per determinare la rendita.
La qualificazione di
questa tipologia di immobili e la relativa rendita assumono
rilevanza ai fini fiscali. Del resto, l'articolo 4 del rdl
n. 652/39 definisce immobili urbani i fabbricati e le
costruzioni stabili di qualunque materiale costruiti,
stabilmente assicurati al suolo. Gli aerogeneratori, in
effetti, costituiscono il fulcro della centrale e senza di
essi l'immobile non avrebbe alcuna destinazione d'uso e
capacità reddituale. Gli impianti eolici destinati alla
produzione di energia sono degli opifici e devono essere
iscritti in catasto nella categoria D/1.
Le scritture
contabili sono ex lege l'unico parametro al quale occorre
fare riferimento per i fabbricati di categoria «D» fino a
quando l'immobile non risulti accatastato, o quantomeno non
risulti presentata l'istanza di accatastamento, come più
volte chiarito dalla Cassazione. Solo con la richiesta di
accatastamento si passa dal valore contabile a quello
catastale. Pertanto, fino alla data di accatastamento Ici e
Imu devono essere calcolate sul valore contabile degli
impianti.
---------------
La giurisprudenza è poco uniforme.
Prima dell'intervento delle sezioni unite (sentenza
3160/2011) le interpretazioni della giurisprudenza erano
discordanti. La Cassazione, con la sentenza 27062/2009, era
tornata sui propri passi, sostenendo che nel «regime
ordinario Ici» gli immobili del gruppo D rientrano solo dopo
l'attribuzione della rendita e che il provvedimento
catastale ha «natura costitutiva e non dichiarativa».
Quindi, non aveva efficacia retroattiva e non produceva
effetti per i periodi precedenti all'attribuzione della
rendita, in relazione ai quali trovava applicazione il solo
criterio del valore fissato sulla base dei costi contabili.
Per i giudici di legittimità la rendita catastale poteva
essere utilizzata, «in forza della legge n. 342 del 2000,
art. 74, soltanto dall'annualità in cui avviene la
notificazione dell'atto di attribuzione della rendita
medesima (Cass. n. 3233/2005), poiché l'aggiornamento, in
più o in meno, delle rendite degli anni pregressi, riguarda
i soli casi di variazione di rendite già attribuite (cfr.
Cass. nn. 5109/2005, 11162/2005, 16701/2007), rispetto a cui
l'aggiornamento ha valore ricognitivo- dichiarativo».
Sulle regole per l'imposizione dei fabbricati delle imprese
si è pronunciata anche la Corte costituzionale con la
sentenza 67/2006, secondo la quale i fabbricati del gruppo
catastale D sono per le loro caratteristiche funzionali e
tipologiche «a destinazione speciale» e sono quindi ordinati
per rendita catastale ottenuta con stima diretta. E che in
mancanza di tale stima, il legislatore ha preferito il
criterio già sperimentato del costo rivalutato ricavabile
dalle scritture contabili. Questo criterio vale fino al
momento dell'attribuzione della rendita, che «ha valore
costitutivo».
Tra l'altro anche il Ministero delle finanze, con la
risoluzione 35 del 01.03.1999, ha sostenuto che il passaggio
dal valore contabile a quello catastale non comporta il
recupero dell'imposta da parte del Comune per gli anni
pregressi, né dà diritto al contribuente di richiedere i
rimborsi d'imposta, qualora risulti un maggiore o minore
valore catastale dell'immobile rispetto a quello contabile
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire sottoposto a condizione.
E' legittimo il provvedimento con il
quale un Comune ha apposto ad un permesso di costruire la
condizione secondo cui il relativo rilascio è subordinato
alla preventiva realizzazione, da parte del richiedente, di
alcune opere di urbanizzazione, specie se si tratta di opere
alla cui realizzazione l’Ente locale ha subordinato il
rilascio del titolo edilizio e che siano strettamente
interconnesse con il lotto sul quale si intende edificare,
trattandosi di una strada che ne consente il collegamento
con la viabilità già esistente e di un parcheggio ad esso
adiacente.
La sentenza in oggetto ha sancito che “nelle zone di
espansione la realizzazione contestuale delle opere di
urbanizzazione e delle costruzioni al cui servizi esse sono
preordinate è assicurata dalla necessità della previa
approvazione di un piano esecutivo che svolge la duplice
funzione di specificare il disegno urbanistico del
comprensorio e stabilire le modalità ed i tempi della sua
infrastrutturazione".
Nelle zone di completamento, invece, il rilascio del
permesso di costruire non è –di regola– "subordinato alla
approvazione di un piano esecutivo in quanto il disegno dei
singoli lotti è già presente nella realtà delle cose o,
comunque, è previsto con sufficiente dettaglio dal piano
regolatore generale”.
Ciò non significa, però, che tali zone debbano essere per
definizione presenti tutte le infrastrutture di
urbanizzazione primaria necessarie affinché possano erigersi
le volumetrie di completamento astrattamente consentite dal
p.r.g..
In questi casi si applica l’art. 31 della L. 1150/1942, il
quale consente il rilascio del permesso di costruire solo se
negli strumenti di programmazione del comune sia prevista la
realizzazione delle opere mancanti nel successivo triennio
oppure, in mancanza di tale previsione, qualora i
richiedenti si adoperino per realizzarle a proprie spese
(commento tratto da www.giurdanella.it).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento della nota prot n. 23407 del
12.10.2000 emessa dal servizio 4° dei "Servizi al
Territorio e Sviluppo Economico" del Comune di Vinci,
con la quale il rilascio della permesso di costruire in
ordine alla realizzazione di n. 3 villette viene subordinato
alla realizzazione di alcune opere di urbanizzazione, nonché
per l'annullamento di ogni altro atto presupposto, connesso
o consequenziale;
...
In data 17.01.2000 i ricorrenti hanno presentato al comune
di Vinci istanza per il rilascio del permesso di costruire 3
villette in zona classificata dal P.R.G allora vigente in
zona edificabile R1.
Il comune ha subordinato il rilascio del titolo alla
realizzazione di alcune opere di urbanizzazione consistenti
nella viabilità che circonda il lotto e in un parcheggio.
Avverso tale determinazione è stato proposto ricorso innanzi
a questo Tribunale amministrativo.
Secondo i ricorrenti la richiesta del comune contrasterebbe
con le previsioni del piano regolatore generale che,
inserendo il lotto in zona di saturazione, nella quale è
consentita l’edificazione con concessione edilizia diretta,
avrebbe già operato a monte una valutazione sulla
sufficienza delle opere di urbanizzazione.
In tale situazione l’eventuale realizzazione delle
urbanizzazioni mancanti potrebbe essere assunta dai
richiedenti il permesso di costruire solo su base
volontaria, qualora essi intendano beneficiare dello
scomputo degli oneri, ma non già imposta dal comune come
condizione di rilascio del titolo.
Nel caso di specie ciò non sarebbe avvenuto in quanto il
costo delle opere imposte dal comune (pari a circa lire
300.000.000) sarebbe di gran lunga superiore all’ammontare
degli oneri di urbanizzazione dovuti per legge in relazione
alla consistenza dell’intervento (pari a circa 50-60 milioni
di lire).
Si è costituito il comune di Vinci che ha proposto
preliminarmente alcune eccezioni di inammissibilità del
ricorso dal cui esame si può prescindere attesa la sua
infondatezza nel merito.
Il ricorrenti, infatti, muovono da premesse giuridiche
errate.
Non corretto è, in primo luogo, l’assunto secondo cui il
disposto dell’art. 31 della L. 1150 del 1942, a mente del
quale il rilascio della concessione edilizia è subordinato
alternativamente: a) alla esistenza delle necessarie opere
di urbanizzazione; b) alla previsione da parte dei comuni
della attuazione delle stesse nel successivo triennio; c)
all’impegno dei privati di procedere essi stessi alla loro
costruzione, sarebbe applicabile ai soli interventi
ricadenti in zona di espansione.
In realtà nelle zone di espansione la
realizzazione contestuale delle opere di urbanizzazione e
delle costruzioni al cui servizi esse sono preordinate è
assicurata dalla necessità della previa approvazione di un
piano esecutivo che svolge la duplice funzione di
specificare il disegno urbanistico del comprensorio e
stabilire le modalità ed i tempi della sua
infrastrutturazione.
Nelle zone di completamento, invece, il
rilascio del titolo non è –di regola– subordinato alla
approvazione di un piano esecutivo in quanto il disegno dei
singoli lotti è già presente nella realtà delle cose o,
comunque, è previsto con sufficiente dettaglio dal piano
regolatore generale.
Ciò non significa, però, che tali zone
debbano essere per definizione presenti tutte le
infrastrutture di urbanizzazione primaria necessarie
affinché possano erigersi le volumetrie di completamento
astrattamente consentite dal p.r.g..
Ed è proprio in questi casi che opera
l’art. 31 della l.u. il quale consente il rilascio del
titolo edilizio solo se negli strumenti di programmazione
del comune sia prevista la realizzazione delle opere
mancanti nel successivo triennio oppure, in difetto di tale
previsione, qualora gli istanti di impegnino a realizzarle a
proprie spese.
Diversamente da quanto affermano i ricorrenti fra tale
impegno e l’ammontare degli oneri di urbanizzazione dovuti
in base alla consistenza dell’intervento non sussiste alcun
nesso di corrispettività o di proporzionalità essendo la sua
assunzione esclusivamente finalizzata a rimuovere la
condizione ostativa che la legge frappone al rilascio del
titolo data dalla assenza delle opere di urbanizzazione.
E’ pertanto del tutto legittima una situazione, come quella
prospettata dai ricorrenti, in cui il valore delle opere di
urbanizzazione necessarie per il completamento del lotto sia
di gran lunga superiore a quello degli oneri di
urbanizzazione e non possa, pertanto, essere coperto dal
relativo scomputo (TAR Catania-Sicilia, sez. III,
14/04/2011, n. 934).
Nel caso di specie, peraltro, non vi è
dubbio che le opere alla cui realizzazione il comune ha
subordinato il rilascio del titolo siano strettamente
interconnesse con il lotto sul quale si intende edificare
trattandosi di una strada che ne consente il collegamento
con la viabilità già esistente e di un parcheggio ad esso
adiacente, tant’è che il nuovo piano regolatore approvato
nelle more del giudizio (e non impugnato) include
l’intervento edilizio privato e le menzionate infrastrutture
in un unico comprensorio per la cui attuazione è necessario
un piano attuativo.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto sia per quanto
attiene alla domanda di annullamento che alla conseguente
istanza risarcitoria
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.10.2016 n. 1451 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Esoneri
estesi per gli appalti solidali. La Cassazione amplia il
perimetro dell’esclusione a tutti gli affidamenti della Pa.
Responsabilità. Nel Codice dei contratti altri casi in cui
non si applica il subentro nei pagamenti di retribuzioni e
contributi.
La responsabilità
solidale negli appalti incontra diverse eccezioni. L’ultima
è quella riaffermata dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro.
Con la
sentenza 10.10.2016 n. 20327,
la Corte suprema ha chiarito che la responsabilità solidale
tra committente, appaltatore e subappaltatore per crediti
retributivi e contributivi non si applica alla pubblica
amministrazione, anche per fatti antecedenti all’entrata in
vigore dell’articolo 9 del Dl 76/2013 che ha definitivamente
sottratto la Pa all’applicazione di questo principio.
L’articolo 29 del Dlgs 276/2003 afferma che i committenti di
appalti rispondono, in solido con gli appaltatori e
subappaltatori, per i debiti retributivi (compreso il Tfr) e
contributivi nei confronti del personale impiegato
nell’esecuzione dell’appalto, per due anni dalla cessazione
del contratto.
La norma si applica anche in relazione ai compensi e agli
obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei
confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo.
Per espressa previsione dell’articolo 29 comma 1, in primo
luogo, c’è la «possibilità di limitare la responsabilità
solidale del committente qualora la contrattazione
collettiva individui metodi e procedure di controllo e di
verifica della regolarità complessiva degli appalti». Queste
previsioni, in ogni caso, non potranno riguardare i
contributi in quanto sottratti alla disponibilità delle
parti (articolo 9 del Dl 76/2013).
Le esclusioni
Oltre che nella pubblica amministrazione, la responsabilità
solidale, inoltre, non trova applicazione nei confronti del
committente-persona fisica che non esercita attività
d’impresa o professionale (articolo 29, comma 3-ter, Dlgs
276).
Il regime delineato nella legge Biagi, poi, non riguarda i
contratti di trasporto (ma si veda l’articolo a fianco per
le modalità). In questo senso, comunque, va evidenziato che
la prestazione continuativa, ininterrotta e predeterminata
di trasporti di cose (o persone) accompagnata da un
corrispettivo unitario, postulano la ricorrenza di un unico
contratto di appalto di servizi che fa scattare comunque il
regime della responsabilità solidale.
Solo se il rapporto si esaurisce in occasionali prestazioni
di trasferimento, può essere esclusa la configurabilità di
un appalto di servizi di trasporto (Corte d’appello di
Brescia sentenza 27.05.2016 n. 107; Cassazione, sentenza
14.07.2015 n. 14670).
La responsablità solidale, di nuovo, non trova applicazione
nel contratto di spedizione che, ai sensi dell’articolo 1737
del Codice civile, è un mandato che ha per oggetto
l’obbligo, per lo spedizioniere, di concludere, in nome
proprio e per conto del mandante, un contratto di trasporto
e di compiere le operazioni accessorie. Questo regime è
escluso anche nei casi di nolo a caldo (ossia noleggio del
macchinario con messa a disposizione di lavoratori con
specifica competenza nel suo utilizzo) e di fornitura di
materiale con successiva posa in opera.
Nello specifico, l’articolo 105 del Codice appalti (Dlgs
50/2016) stabilisce che negli appalti di lavori «non
costituiscono comunque subappalto le forniture senza
prestazione di manodopera, le forniture con posa in opera e
i noli a caldo, se singolarmente di importo inferiore al 2%
dell’importo delle prestazioni affidate o di importo
inferiore a 100mila euro e qualora l’incidenza del costo
della manodopera e del personale non sia superiore al 50 per
cento dell’importo del contratto da affidare».
Altre
eccezioni minori al principio generale della responsabilità
solidale sono contemplate in alcune leggi di settore. Così
come è possibile la deroga se inserita in contratti di
prossimità (articolo 8, legge 138/2011).
Giudici e subforniture
Da ultimo, si discute dell’applicabilità dell’articolo 29
anche alla subfornitura che, in sintesi, è il contratto con
il quale un’impresa si impegna ad effettuare lavorazioni su
prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla
committente medesima utilizzando progetti esecutivi e
conoscenze del committente.
Una parte della giurisprudenza, infatti, partendo
dall’assunto che si tratti di una fattispecie tipica,
esclude la ricorrenza di un appalto e del suo regime
normativo (tribunale di Modena, sentenza 132 del 14.02.2014; Corte d’appello di Brescia sentenza 112 del
06.03.2008).
Altra giurisprudenza, invece, partendo dall’assunto che si
tratti di una fattispecie trasversale, finisce per applicare
alla stessa la disciplina della responsabilità solidale di
cui all’articolo 29 Dlgs 276 (tribunale Rovigo 09.02.2016) (articolo Il Sole 24 Ore del 28.11.2016). |
TRIBUTI: Inammissibile
il ricorso tramite poste private.
Il ricorso proposto dal contribuente e notificato tramite un
gestore privato di servizi postali, diverso dal fornitore
universale (Poste Italiane), è inammissibile, se la
controparte risulta essere un soggetto che non ha natura di
ente locale, bensì di ente pubblico economico, quale per
esempio è il Consorzio generale di bonifica. In tal caso, la
notifica del ricorso per posta privata è inesistente e non è
sanabile con la costituzione in giudizio del convenuto.
È quanto si legge nella
ordinanza
30.09.2016 n. 19467 della Corte di Cassazione, Sez.
VI civile.
Il Consorzio di bonifica del bacino del Volturno proponeva
ricorso per Cassazione contro una sentenza della Ctr di
Napoli, favorevole al contribuente, in relazione
all'originaria impugnazione di ingiunzioni per i contributi
di bonifica per gli anni 2006-2010. Nei motivi di gravame,
si insisteva particolarmente sull'inammissibilità del
ricorso di primo grado, che il contribuente aveva notificato
con raccomandata spedita tramite un gestore privato di
servizi postali. La Cassazione ha cassato la sentenza
impugnata, rilevando la fondatezza del motivo di ricorso
sollevato dal consorzio.
Piazza Cavour ha ricordato che, per esigenze di ordine
pubblico, restano comunque affidati in via esclusiva al
fornitore del servizio universale (cioè a Poste Italiane
spa) i servizi inerenti alle notificazioni a mezzo posta e
di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione
di atti giudiziari; il Collegio ha quindi affermato che «la
notifica a mezzo posta privata del ricorso di primo grado
sia da ritenere inesistente, come tale non suscettibile di
sanatoria in conseguenza della costituzione in giudizio del
resistente Consorzio».
Nel caso del consorzio di bonifica
poi, essendo lo stesso un soggetto avente natura di ente
pubblico economico, e non di ente locale, neppure si può
ritenere perfezionata la notifica al momento della consegna
del plico, equiparando tale situazione a quella della
consegna diretta all'ufficio.
Qualora, infatti, l'atto sia
indirizzato all'Amministrazione Finanziaria o a un ente
locale, la notifica a mezzo posta privata è equiparabile
alla consegna diretta e si considera quindi eseguita non nel
momento della spedizione, bensì in quello dalla ricezione.
Ciò, tuttavia, non può avvenire quando la controparte non è
né l'Amministrazione finanziaria, né un ente locale, come
nel caso di specie, ove destinatario della prima
impugnazione era appunto il consorzio di bonifica.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Incontroverso, in fatto, come attestato dalla stessa
sentenza impugnata, che il contribuente si sia avvalso per
la spedizione dell'invio raccomandato per la notifica del
ricorso introduttivo del giudizio di primo grado
direttamente del servizio di posta gestito da licenziatario
privato, il motivo è basato sulla costante giurisprudenza di
questa Corte in materia.
Si è, infatti, in proposito,
osservato che l'art. 4, 1° comma, lett. a), del dlgs 22.07.1999 n. 261, emanato in attuazione della direttiva
97/67/Ce, che ha liberalizzato i servizi postali, stabilisce
pur sempre che, per esigenze di ordine pubblico, sono
affidati in via esclusiva al fornitore del servizio
universale, (cioè a Poste Italiane spa) i servizi inerenti
le notificazioni a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo
posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di
cui alla legge 20/11/1982 n. 890 e successive modificazioni.
Tra questi vanno, dunque, annoverate le notificazioni a
mezzo posta degli atti tributari sostanziali e processuali
(tra le molte, Cass. sez. 6-5, ord. 19.12.2014, n.
27021; Cass. sez. 6-5, ord. 23.03.2014, n. 5873; Cass.
sez. 5. 17.02.2011, a 3932; Cass. sez. 5, 07.05.2008, n. 11095). A ciò consegue che la notifica a mezzo
posta privata del ricorso di primo grado sia da ritenere
inesistente, come tale non suscettibile di sanatoria in
conseguenza della costituzione in giudizio del resistente
Consorzio (oltre alle pronunce sopra citate, si veda anche
Cass. sez. 6-2, ord. 31.01.2013, n. 2262).
Né nella
fattispecie in esame è ipotizzabile l'equiparazione
dell'agente postale privato al vettore, così da ritenere la
notifica avvenuta per consegna diretta e perfezionata a
detta data, dovendo essere esclusa la natura di ente locale
del consorzio, che ha natura di ente pubblico economico
(cfr. Cass. sez. unite 31.01.2008, n. 2275 e sez. lav.
17.07.2012, n. 12242; Cass. sez. unite 18.01.1991, n. 456 e,
con specifico riferimento alle modalità della riscossione
mediante ruolo dei contributi consortili, Cass. sez. 5,
11.06.2014, n. 13165, in punto di esclusione ai consorzi di
bonifica dell'applicazione dell'art. 1, comma 161 e ss.,
della legge n. 296/2006) ( )
PQM
La Corte accoglie il ricorso in relazione al primo motivo,
assorbito il secondo e cassa senza rinvio la sentenza
impugnata, perché la causa non avrebbe potuto essere
proseguita. Dichiara compensate tra le parti le spese del
doppio grado di merito e condanna l'intimato ( ) alla
rifusione in favore del ricorrente Consorzio delle spese del
presente giudizio di legittimità, che liquida in 200,00 per
esborsi e in 600,00 per compenso, oltre rimborso spese
forfettarie e accessori, se dovuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.11.2016). |
VARI: Pedone
fuori dalle strisce? Omicidio sempre colposo.
L'omicidio è comunque colposo anche se il pedone attraversa
la strada fuori dalle strisce.
La Corte di Cassazione -Sez. IV penale- ritorna sul
punto, con la
sentenza 23.09.2016 n.
39474, in cui ha rigettato il ricorso di un
automobilista che ha investito un pedone, nel cuore della
notte e in una strada priva di illuminazione pubblica, che a
causa delle gravi ferite ha perso successivamente la vita.
Citando delle sentenze precedenti del 2013 (la 10635 e la
332017) i porporati aggiungono ulteriori principi di
diritto.
«In tema di omicidio colposo, per escludere la
responsabilità del conducente per l'investimento del pedone,
chiosano i giudici, è necessario che la condotta di
quest'ultimo si ponga come una causa eccezionale e atipica,
imprevista e imprevedibile dell'evento», quindi i
porporati specificano che «quando una strada è
costeggiata su entrambi i lati da case ed esercizi
commerciali, il conducente di un'autovettura, pur non
trovandosi nell'immediata prossimità di un attraversamento
pedonale, deve considerare possibile l'eventuale
sopravvenienza di pedoni e, quindi, tenere un'andatura e un
livello di attenzione idonei a evitare di investirli».
La Corte infine tiene a precisare che «seppur la vittima
ha tenuto una condotta poco prudente non si può ritenere che
il suo comportamento integri una causa eccezionale, del
tutto atipica, imprevista e imprevedibile da sola idonea a
causare l'evento lesivo e, quindi, tale da escludere
qualsivoglia profilo di colpa del conducente»
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2016). |
APPALTI: Pena
celata dal titolare fa perdere il subappalto.
Addio subappalto se il titolare della ditta non dichiara una
pena che ha patteggiato in passato. E dopo il dl trasparenza
neppure il soccorso istruttorio può salvare il piccolo
imprenditore che si è limitato ad allegare il casellario
giudiziale ai documenti inerenti la gara d'appalto, ma va
applicato il rigido orientamento pregresso, anteriore al dl
90/2014.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.09.2016 n. 530,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Marche.
Sul punto si sono formati due indirizzi interpretativi
opposti, ma il collegio aderisce a quello più restrittivo.
Il motivo? Neppure il diritto eurounitario, spiegano i
giudici amministrativi, impone alle stazioni appaltanti di
ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che debbono
portare all'esclusione dell'offerente secondo le espresse
disposizioni dei documenti dell'appalto.
Nella specie il legale rappresentante della ditta ha
precedenti penali per due incidenti stradali, ma si limita a
riportarne uno perché l'altro è caratterizzato
dall'applicazione della pena su richiesta delle parti. Il
bando di gara, però, parla chiaro: pretende di conoscere
tutte le condanne riportate dagli imprenditori, anche quelle
per le quali c'è stato il beneficio della non menzione,
oltre che le pene patteggiate.
Non può dunque trovare ingresso la domanda del titolare
secondo cui la stazione appaltante avrebbe dovuto
considerare la non inerenza delle condanne per sinistri
automobilistici rispetto ai requisiti di moralità
dell'impresa. Spese di giudizio compensate per il contrasto
di giurisprudenza esistente
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2016).
---------------
MASSIMA
7. Il ricorso va respinto, per le ragioni di seguito
esposte, il che esonera il Collegio dall’esame delle
eccezioni preliminari formulate dalla difesa di
An..
8. In punto di fatto va rilevato che effettivamente le
sentenze di condanna a carico del sig. Va. sono due,
mentre in sede di dichiarazione è detto testualmente che
“…nei confronti del socio e direttore tecnico sig. Va.Sa. … sussistono precedenti penali relativi ad incidente
stradale, come da certificato del casellario giudiziale
allegato…” (il certificato riporta solo la sentenza del
03/10/2007).
9. Sempre in punto di fatto, il bando della presente gara,
in perfetta consonanza con l’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006,
prevedeva espressamente che andavano dichiarate anche le
condanne per le quali l’interessato aveva beneficiato della
non menzione, nonché quelle applicate ai sensi dell’art. 444
c.p.p., aggiungendo altresì che non sarebbe stata comunque
ritenuta sufficiente la sola allegazione del certificato del
casellario giudiziale.
10. Non sono pertanto condivisibili le argomentazioni con le
quali parte ricorrente tenta di sminuire la portata
dell’omissione, e ciò anche per il fatto che in casi del
genere non rileva in alcun modo la eventuale buona fede del
dichiarante.
11. In punto di diritto, è noto che la giurisprudenza
amministrativa prevalente ritiene da tempo che l’omessa
indicazione di una o più sentenze di condanna in sede di
domanda di partecipazione alle procedure ad evidenza
pubblica costituisce autonoma causa di esclusione, in quanto
ciò impedisce in radice alla stazione appaltante la
possibilità di procedere alla valutazione dell’inerenza
delle condanne con l’oggetto dell’appalto e, quindi, a
verificare l’eventuale sussistenza della causa di esclusione
di cui all’art. 38, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006.
Nella specie, come detto, è indiscutibile che il legale
rappresentante della ditta ricorrente ha omesso di
dichiarare una sentenza di condanna, pronunciata ai sensi
dell’art. 444 c.p.p. Ciò sarebbe quindi sufficiente a
giustificare la revoca dell’autorizzazione al subappalto.
12. La ricorrente, pur non invocando direttamente l’istituto
del c.d. soccorso istruttorio, ritiene invece che l’omessa
dichiarazione sia comunque sanabile e che la stazione
appaltante deve procedere alla valutazione dell’inerenza
della condanna non dichiarata con la moralità professionale
dell’impresa.
13. La tesi non è condivisibile.
In effetti, dopo l’entrata in vigore della novella di cui al
D.L. n. 90/2014 (che ha aggiunto all’art. 38 il comma
2-bis), la questione giuridica nuova che si è posta al
giudice amministrativo è quella di stabilire se il c.d.
soccorso istruttorio si applica anche alla presente
fattispecie oppure se, al contrario, resta applicabile il
rigido orientamento pregresso.
14. Pur registrandosi pronunce di segno favorevole
all’estensione del soccorso istruttorio (vedasi, ad esempio,
TAR Lazio, n. 798/2016, relativa però ad una vicenda
peculiare), l’orientamento maggioritario si pone in
continuità con la giurisprudenza precedente, negando la
possibilità di sanare le carenze delle dichiarazioni
“reticenti” (si vedano in tale senso TAR Lazio, n.
7586/2016, TAR Lombardia, Milano, n. 1624/2016, Cons. Stato,
n. 834/2016). Questo perché, come statuito ad esempio nella
citata sentenza n. 1624/2016 del TAR Lombardia,
nemmeno il
diritto comunitario impone alle stazioni appaltanti di
ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le
espresse disposizioni dei documenti dell’appalto, debbono
portare all’esclusione dell’offerente (CGUE, sentenza
06.11.2014, Cartiera dell’Adda, C-42/13).
15. Il Tribunale ritiene di dover aderire a questo secondo
orientamento (condividendo il percorso argomentativo delle
sentenze da ultimo richiamate), il che conduce al rigetto
del ricorso. |
TRIBUTI: Aree
incolte con l'Imu. I terreni incolti, identificati in
catasto come agricoli, pagano l'Imu.
Lo ha stabilito la sezione seconda della Commissione
tributaria provinciale di Como nella sentenza 27.09.2016 n. 353/2016.
La vertenza tratta di dieci accertamenti Imu che il Comune
di Casnate con Bernate notificava a una società per azioni
proprietaria di dieci terreni incolti identificati in
catasto come seminativi, prato e bosco. I giudici
provinciali di Como, motivano la decisione osservando come,
l'Imposta municipale (Imu) sia stata istituita dal dlgs n.
23/2011 in sostituzione dell'Ici, è stata anticipata in via
sperimentale a decorrere dall'anno 2012 dall'articolo 13 del
dl 201/2011 convertito nella Legge n. 214/2011.
«A
differenza dell'Ici» si legge nella sentenza di cui al
commento «il cui presupposto era costituito dal possesso di
fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, il
presupposto della nuova imposta, è, più genericamente, il
possesso di immobili».
Nessun dubbio, pertanto, (dice la
Commissione) che il possesso di terreni agricoli, o incolti,
rientri nel campo applicativo della nuova imposta. Il
Collegio provinciale dice che si tratta di vedere se
l'esenzione dell'imposta municipale per i terreni agricoli
ricadenti in zone collinari (debba trovare applicazione
oltre che per i terreni agricoli anche per i terreni
incolti.
Nella sentenza n. 353/2016, il Collegio ha ritenuto
che l'esenzione non trovi applicazioni per due ragioni: sia
perché il presupposto Imu è diverso e più ampio di quello
dell'Ici; e inoltre perché l'esenzione riguarda solo i
terreni coltivati, e non può estendersi, in via estensiva o
analogica, a quelli incolti ostandovi il principio per cui
la disciplina di vantaggio è di stretta interpretazione, e
non è suscettibile di estensione analogica.
Di diverso
avviso il ministero dell'economia, che rispondendo a un
quesito sui terreni «incolti», ha affermato che le esenzioni
per l'Ici sono applicabili anche per l'Imu
(articolo ItaliaOggi dell'08.12.2016). |
VARI: L'associazione
sportiva sopravvive a lungo.
Un'associazione sportiva si può considerare estinta soltanto
quando non sia più titolare di rapporti giuridici; di
contro, non è invocabile l'estinzione dell'ente quando ne
sia stato deliberato lo scioglimento e sia stata chiusa la
partita Iva, non verificandosi in alcun caso gli effetti di
cui all'articolo 2495 del codice civile (estinzione della
società).
È quanto afferma la Ctr di Milano nella
sentenza 20.09.2016 n. 4804/12/2016.
La vertenza nasce da una verifica condotta dall'Agenzia
delle entrate di Como nei confronti di un'associazione
sportiva dilettantistica operante nel mondo della danza. I
verificatori formulavano rilievi d'imposta ai fini Ires,
Irap e Iva per l'annualità 2009.
Nel ricorso introduttivo, la prima doglianza riguardava la
presunta nullità dell'accertamento, poiché rivolto a un
ente, l'associazione, che si era estinto in un momento
antecedente alla formazione dell'atto di controllo.
L'eccezione veniva rigetta dalla Ctp di Como che, in prima
istanza, accoglieva parzialmente il ricorso, riducendo gli
importi della pretesa erariale.
Nell'appello, proposto
all'attenzione della Ctr di Milano, la parte riproponeva la
questione circa l'estinzione dell'associazione, ricevendo
una nuova bocciatura dai giudici di secondo grado. In capo a
un'associazione non riconosciuta, spiega il collegio di Via
Vincenzo Monti, non si verifica mai quell'effetto estintivo
proprio delle società e disciplinato dall'articolo 2495 del
codice civile. Così che appaiono irrilevanti, sotto tale
profilo, la delibera di scioglimento dell'ente o la chiusura
della partita Iva, poiché l'estinzione dello stesso ha luogo
soltanto quando siano cessati i rapporti giuridici di cui lo
stesso è titolare.
Alla definizione di tali rapporti,
successivamente allo scioglimento, devono procedere gli
organi ordinari dell'associazione, che rimangono in carica,
in regime di prorogatio, conservando il diritto/dovere di
agire per conto della stessa.
La Ctr di Milano ha richiamato un'analoga decisione della
Ctr di Firenze, la n. 992/29/2015: in tale sentenza, il
collegio toscano affermava chiaramente che «nel caso di
scioglimento di associazione non opera l'articolo 2495 cod.
civ., ma l'associazione sopravvive fino a quando non sono
stati definiti tutti i rapporti giuridici, senza distinzione
tra soggetti comuni e fisco».
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'appello non è meritevole di accoglimento per i
motivi di seguito esposti.
a) Invero, diversamente da quanto sostenuto dall'appellante,
l'Associazione sportiva non riconosciuta può essere
considerata estinta solo quando non sia più titolare di
rapporti giuridici, cosi come anche recentemente ribadito
dalla Commissione tributaria regionale Toscana, Sez. XXIX,
con sentenza n. 992/2015 che ha ritenuto non applicabili
alle associazioni le norme in materia di cancellazione ed
estinzione previste, invece, per le società commerciali:
«nel caso scioglimento dell'associazione non opera
l'articolo 2945 cod. civ., ma l'associazione sopravvive fino
a quando non sono stati definiti tutti rapporti giuridici
senza distinzione tra soggetti comuni e fisco. Alla
definizione devono procedere gli organi ordinari
dell'associazione che rimangono in carica, anche in regime
di prorogatio, conservando il diritto di agire
giudizialmente per la tutela dei diritti dell'associazione».
Tale principio giuridico conferma quanto già statuito dalla
Corte di Cassazione nella sentenza n. 9656/1992.
b) Correttamente, inoltre, l'Agenzia dell'entrate ha
ritenuto che l'appellante solidalmente responsabile con
l'Associazione da lui rappresentata. Infatti, come più volte
affermato dalla Corte di cassazione la quale, nel ribadire
che «la responsabilità personale e solidale, prevista
dall'art. 38 c.c., di colui che agisce in nome e per conto
dell'associazione non riconosciuta non è collegata alla mera
titolarità della rappresentanza dell'associazione stessa,
bensì all'attività negoziale concretamente svolta per suo
conto e risoltasi nella creazione d rapporti obbligatori,
all'ente e i terzi», ha altresì precisato che «il principio
in questione non esclude, peraltro, che per i debiti
d'imposta, i quali non sorgono su base negoziale, ma ex lege
al verificarsi del relativo presupposto, sia chiamato a
rispondere solidalmente, tanto per le sanzioni pecuniarie,
quanto per il tributo non corrisposto, il soggetto che, in
forza dei ruolo rivestito, abbia diretto la complessiva
gestione associativa nel periodo considerato» (Cass.
12473/2015).
Anche sotto questo profilo, la sentenza impugnata è corretta
e quindi da confermare. (...)
Tutte le questioni qui riproposte, sono già state
ampiamente, anche mediante puntuali richiami documentali,
confutate dai primi giudici, oltre che, ancor prima dai
verificatori stessi in sede di contraddittorio
pre-contenzioso.
In considerazione di quanto esposto, la sentenza impugnata
deve essere integralmente confermata. Le spese di lite
seguono la soccombenza.(...) (articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016). |
TRIBUTI: Nulla
la notifica a casa del familiare.
La notificazione dell'atto tributario eseguita in un luogo
diverso dall'abitazione del destinatario e specificamente
presso l'abitazione di un familiare è nulla; se il luogo di
notifica diverge dalla casa di abitazione o dal domicilio
del notificando, diventa irrilevante il rapporto di
parentela. Di contro, se il parente che riceve l'atto può
considerarsi un vicino di casa, la validità della notifica è
subordinata all'invio di una seconda raccomandata, con cui
si dia notizia al destinatario dell'avvenuta consegna nelle
mani del parente-vicino di casa.
Sono i principi che si leggono nella
sentenza 16.09.2016 n. 18202 della Corte di
Cassazione, Sez. V civile.
Il caso nasce dal ricorso proposto contro una intimazione di
pagamento, non preceduta, secondo il ricorrente, dalla
regolare notifica della pregressa cartella esattoriale. Nel
corso di causa, emergeva che la cartella era stata
consegnata allo stesso indirizzo del contribuente (stessa
via, stesso civico), ma a un «interno» diverso, ove
risiedeva un parente del contribuente stesso.
Secondo i
giudici tributari di merito, siffatta notifica doveva
considerarsi regolare, poiché eseguita nelle mani di un
familiare e all'indirizzo di residenza del contribuente.
La Cassazione ha ribaltato l'esito dei giudizi di merito,
accogliendo sia il ricorso per Cassazione che quello
introduttivo, con conseguente annullamento della pretesa
erariale.
In primo luogo, la Corte chiarisce che la notifica eseguita
allo stesso indirizzo, stessa via, stesso numero civico, ma
a un «interno» diverso, non può considerarsi eseguita
«presso la casa di abitazione del notificando». A questo
punto, prosegue la sentenza, diventa irrilevante il rapporto
di parentela tra il destinatario effettivo e colui che
riceve l'atto, elemento che rileva soltanto se il luogo di
notifica è la casa di abitazione del contribuente.
Così che, conclude Piazza Cavour, una siffatta consegna deve
considerarsi come notifica al «vicino di casa che accetti di
riceverla» (articolo 139, comma 3, del codice di procedura
civile) e il suo perfezionamento è subordinato all'invio
della raccomandata informativa (art. 139, comma 4, cpc).
Essendo, nel caso di specie, stato omesso tale adempimento,
la notifica della cartella deve ritenersi nulla e,
parimenti, è nulla la successiva intimazione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Questa Corte ha da tempo chiarito che, quando la
notificazione non avviene in nani proprie, il destinatario,
giusta il disposto dei commi primo e secondo dell'art. 139
c.p.c., va ricercato nel comune di residenza e,
precisamente, nella casa di abitazione o dove ha l'ufficio o
esercita l'industria o il commercio, e, nel caso in cui non
venga trovato in tali luoghi, l'atto va consegnato ivi, a
persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o
all'azienda.
«Ne consegue che il presupposto per
l'esecuzione di una valida notificazione con queste modalità
è che la consegna avvenga nella casa di abitazione o presso
il domicilio del notificando, mentre, se essa avviene in
luoghi diversi, diventa irrilevante il rapporto tra il
consegnatario e la persona cui l'atto è destinato e la
notificazione deve considerarsi comunque nulla (Cass. n.
3445/1996). La notificazione dell'atto mediante consegna al
familiare del destinatario, infatti, è assistita da
presunzione di ricezione, ai sensi dell'art. 139, secondo
comma, c.p.c., solo se avvenuta presso l'abitazione del
destinatario, non anche se effettuata presso l'abitazione
del familiare (cfr. Cass. n. 18989/2015).
In tale ultima
ipotesi, ricorrente nella specie, in cui, alla stregua del
terzo comma dell'art. 139 c.p.c., il «vicino di casa», non
avendo rilievo il rapporto fra il consegnatario e la persona
cui l'atto è destinato, accetti di ricevere la copia
dell'atto, il successivo quarto comma prescrive che il
vicino sottoscriva l'originale, e l'ufficiale giudiziario
dia notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione
dell'atto, a mezzo di lettera raccomandata. Tale adempimento
non ha avuto luogo nel caso in esame, con conseguente
nullità della notificazione della cartella di pagamento,
costituente qui atto prodromico.
Il giudice d'appello è
incorso nell'errore di diritto addebitatogli in quanto,
preso atto che la Commissione provinciale aveva rilevato che
«la realtà storica, ricostruita a posteriori, consente di
accertare che il contribuente abita in un'unità immobiliare
diversa da quella della parente», ha nondimeno affermato che
«la notifica è avvenuta nel medesimo immobile, indirizzo e
numero civico in cui il ricorrente aveva la propria
residenza, qualificabile quindi, in qualche modo, «nella
casa di abitazione», e nella persona della cognata dello
stesso, quindi qualificabile, in un certo senso, come
«persona di famiglia» ai sensi di quanto previsto dal codice
di procedura civile».
Con la nullità della notifica della
cartella recante l'iscrizione a ruolo, atto prodromico
rispetto all'intimazione di pagamento impugnata nel presente
giudizio, viene meno il fondamento di quest'ultima
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.11.2016). |
APPALTI: Appaltatore
«interventista» responsabile della sicurezza. Edilizia. In
caso di subappalto.
Se l’appaltatore si «intromette» nei lavori subappaltati
rimane responsabile delle norme antifortunistiche.
Su questo aspetto è
recentemente intervenuta la Corte di Cassazione con la
sentenza 08.09.2016 n. 37229 (Sez. III penale),
che richiama la precedente (50996/2013) per la quale: «In
tema di prevenzione degli infortuni, l’appaltatore che
procede a subappaltare l’esecuzione delle opere non perde
automaticamente la qualifica di datore di lavoro, neppure se
il subappalto riguardi formalmente la totalità dei lavori ,
ma continua ad essere responsabile del rispetto della
normativa antinfortunistica, qualora eserciti una continua
ingerenza nella prosecuzione dei lavori (si veda la sentenza
50996/2013): ne consegue che occorre sempre verificare se
nell’ambito del contratto di appalto l’appaltatore eserciti
o meno una ingerenza sulla esecuzione dei lavori appaltati
ad altri».
La sentenza afferma pertanto che la giurisprudenza di
questa Suprema Corte (sentenza 37738/2013 è concorde nel
ritenere che «in tema di infortuni sul lavoro, la nomina
del coordinatore per la progettazione o per l’esecuzione dei
lavori non esonera il committente ed il responsabile dei
lavori da responsabilità per la redazione del piano di
sicurezza e del fascicolo per la protezione dai rischi,
nonché dalla vigilanza sul coordinatore medesimo in ordine
all’effettivo svolgimento dell’attività di coordinamento e
controllo sull’osservanza delle disposizioni contenute nel
piano di sicurezza e di coordinamento».
Va precisato che la posizione di garanzia attribuita al
committente e al responsabile dei lavori ricomprende
l’esecuzione di controlli non solo formali, ma soprattutto
sostanziali su prevenzione, sicurezza del luogo di lavoro e
salvaguardia della salute dei lavoratori. Con la conseguenza
che spetta al committente verificare che i coordinatori per
la progettazione e l’esecuzione dell’opera adempiano agli
obblighi incombenti su costoro nella materia in esame
(sentenza 14012/2015 della Cassazione) (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.11.2016). |
VARI: Il
figlio che non aiuta commette reato.
Il figlio che omette volontariamente di prestare cura ed
assistenza al genitore in difficoltà pur sapendo che egli
non può provvedere a se stesso commette il reato di
abbandono di persone incapaci, rivestendo una posizione di
garanzia nei confronti del genitore.
Nel caso di specie, il
Tribunale ha ritenuto volontario il totale disinteresse di
un uomo nei confronti della madre affetta da psicosi cronica
con deficit cognitivo che si trovava
a vivere isolata ed in stato di degrado materiale e morale (TRIBUNALE di Firenze - Sez. penale -
sentenza 27.08.2016 n. 3964)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Niente
avvocati in comune. Uffici unici solo nel rispetto della
legge professionale. Legali contro il municipio di Busto
Arsizio che ha condiviso l'avvocatura con altri enti.
Guerra aperta tra avvocati ed enti locali sull'utilizzo di
uffici legali congiunti. In particolare sulla possibilità,
da parte di un comune, di mettere al servizio di altri enti
la propria avvocatura comunale, ricevendo in compenso
l'onorario calcolato sulla base dei parametri in vigore.
È questa, in sostanza, la controversia che inizialmente
riguardava solo il comune di Busto Arsizio e i suoi
avvocati, che hanno presentato ricorso al Tar Lombardia per
essere stati «messi sul mercato» dal comune, e che ora
invece vede la discesa in campo dell'Ordine degli avvocati
di Milano, che si è costituito ad opponendum al Consiglio di
stato contro il comune, e di altri comuni e province che
invece si sono schierati ad adiuvandum di Busto Arsizio.
Ma
vediamo la vicenda nel dettaglio.
La vicenda.
Un gruppo di avvocati ha presentato ricorso al Tar Lombardia
contro il comune di Busto Arsizio per ottenere
l'annullamento di una serie di delibere stipulate dal
comune: prima di tutto una convenzione intercomunale
costitutiva dell'avvocatura comunale unica da proporre ai
comuni interessati, e successivamente gli accordi
sottoscritti con altri comuni sprovvisti di ufficio legale.
In particolare, la convenzione prevede che i comuni aderenti
individuino nell'avvocatura del comune di Busto Arsizio
l'ufficio unico per lo svolgimento delle attività di
rappresentanza e difesa in giudizio nelle cause e affari
facenti capo a ciascuno dei due enti.
Inoltre, i comuni
convenzionati possono richiedere all'avvocatura comunale
unica la prestazione della costituzione in giudizio a favore
dell'ente convenzionato. I comuni, infine, devono
compartecipare alle spese sostenute dal comune di Busto
Arsizio per la gestione dell'avvocatura unica in proporzione
agli incarichi conferiti da ogni ente. Successivamente, il
comune ha stipulato accordi con altri enti e gli avvocati
hanno contestato, al Tar Lombardia, il fatto che la facoltà
concessa ai comuni di costituire uffici unici di avvocatura
(art. 2, comma 12, legge 244/2007) con lo strumento della
convenzione (art. 30, dlgs 267/2000) non corrisponderebbe al
modello operativo posto in essere da Busto Arsizio.
Il
comune, infatti, secondo gli avvocati non avrebbe costituito
un «ufficio comune» alle dipendenze degli enti
convenzionati, ma avrebbe individuato la propria avvocatura
comunale come ufficio di cui gli altri comuni possono
avvalersi senza prevedere il distacco del personale dei
comuni convenzionati, realizzandosi così una sorta di
intermediazione di attività legale.
La sentenza e il ricorso.
Il TAR Lombardia-Milano (Sez. III -
sentenza
26.08.2016 n. 1608)
ha accolto il ricorso degli avvocati, affermando che la
possibilità di istituire uffici unici di avvocatura deve
avvenire nel pieno rispetto della legge professionale.
Il
modello operativo posto in essere dal comune di Busto,
secondo il Tar, risulta invece in contrasto con la
disciplina dell'ordinamento forense, e con lo stesso art. 2,
comma 12, della legge 244/2007, avendo di fatto previsto «una
convenzione aperta con possibilità di adesioni successive,
in base alla quale si mette a disposizione degli altri enti
l'avvocatura del comune di Busto Arsizio, i cui avvocati
assegnati tratterebbero così gli affari legali degli enti
convenzionati, in palese contrasto con l'art. 23 della legge
n. 247/2012».
Il comune ha poi impugnato la sentenza avanti il Consiglio
di stato e ottenuto un decreto presidenziale di sospensione
«inaudita altera parte» e la fissazione della camera di
consiglio per il 10 novembre scorso. Udienza in cui invece
Palazzo spada ha revocato la misura cautelare e fissato
l'udienza di merito per il 7 aprile.
L'Ordine degli avvocati
di Milano ha deliberato quindi di intervenire nel giudizio
di appello «a sostegno delle ragioni dedotte nel ricorso di
primo grado per ottenere l'annullamento dei provvedimenti
assunti dalle amministrazioni intimate». Ad adiuvandum del
comune di Busto Arsizio si sono schierati invece la
provincia di Alessandria e i comuni di Venezia, Monza e
Gabicce
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
passo carraio può avere ad oggetto l’accesso posto sull’area
del richiedente, oppure su un’area in parte di proprietà del
richiedente ed in parte di proprietà di terzi ma, in tal
caso, con diritto di passaggio a favore del primo.
Esso, invece, non può avere ad oggetto la diversa area di
terzi, sulla quale l’interessato non possa vantare alcun
diritto di passaggio, ancorché la stessa serva per
immettersi sulla strada pubblica.
---------------
Secondo i principi da tempo enunciati dalla giurisprudenza
amministrativa:
- affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica
di passaggio su di una strada realizzata in area privata
occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e
non soltanto da quei soggetti che si trovano in una
posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il
collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di
interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della
Pubblica amministrazione;
- l’adibizione ad uso pubblico di una strada (o comunque di
un’area) può anche avvenire mediante la c.d. dicatio ad
patriam, per effetto del comportamento del proprietario che
metta il bene a disposizione dei cittadini, oppure con l’uso
del bene da parte della collettività indifferenziata
protratto per lungo tempo, di guisa che il bene stesso venga
ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale.
---------------
3.2. Sul punto, in primo luogo, occorre rilevare che, come
già chiarito dalla giurisprudenza, il passo carraio può
avere ad oggetto l’accesso posto sull’area del richiedente,
oppure su un’area in parte di proprietà del richiedente ed
in parte di proprietà di terzi ma, in tal caso, con diritto
di passaggio a favore del primo; esso, invece, non può avere
ad oggetto la diversa area di terzi, sulla quale
l’interessato non possa vantare alcun diritto di passaggio,
ancorché la stessa serva per immettersi sulla strada
pubblica (cfr. TAR Liguria, n. 535/2001).
3.3. Come già rilevato nella fase cautelare, invero, dalle
sentenze del Tribunale di Busto Arsizio – Sezione distaccata
di Gallarate n. 345 del 26.07.2011 e della Corte d’Appello di
Milano n. 3229 del 28.08.2014 può desumersi che non sussiste
un diritto di passaggio per i mezzi pesanti in favore della
ricorrente, essendo riconosciuto dalle stesse pronunce solo
il passaggio con automobili e a piedi.
3.4. L’area di cui al mappale 3451, inoltre, non possiede
nemmeno le caratteristiche necessarie perché su di essa
possa essere riconosciuta una servitù di uso pubblico.
L’area in questione, infatti, come efficacemente evidenziato
dalla difesa comunale, “è funzionale solo all’ingresso dei
soggetti interessati alle proprietà che trovano accesso dal
mappale stesso”, sicché non sono ad essa applicabili i
principi da tempo enunciati dalla giurisprudenza
amministrativa, secondo i quali:
- affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica
di passaggio su di una strada realizzata in area privata
occorre che essa:
a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di
persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in
una posizione qualificata rispetto al bene gravato;
b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il
collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di
interesse generale;
c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della
Pubblica amministrazione (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI,
n. 2544/2013, che conferma TAR Toscana, n. 1834/2008).
- l’adibizione ad uso pubblico di una strada (o comunque di
un’area) può anche avvenire mediante la c.d. dicatio ad
patriam, per effetto del comportamento del proprietario che
metta il bene a disposizione dei cittadini, oppure con l’uso
del bene da parte della collettività indifferenziata
protratto per lungo tempo, di guisa che il bene stesso venga
ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 3531/2012; C.d.S., Sez.
I, parere n. 4361/2011)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 08.07.2016 n. 1365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Titoli
edilizi, i limiti dell’autotutela. L’interesse pubblico va
raffrontato con quello privato alla conservazione del
provvedimento.
Procedimento amministrativo. Le indicazioni della
giurisprudenza sull’esercizio del potere di annullamento
degli atti da parte della Pa.
Il potere della
pubblica amministrazione di riesaminare la legittimità dei
propri atti, per modificarli o annullarli attraverso un
procedimento d’ufficio di secondo grado, costituisce una
delle tematiche più affrontate dalla giurisprudenza, che ha
definito i presupposti e le modalità necessarie per poter
ritenere legittimo l’esercizio di questa potestà, anche con
riferimento alla materia edilizia.
L’autotutela «costituisce un rimedio volto alla rimozione
di un errore commesso nell’esercizio della funzione di primo
grado e quindi opera in una logica essenzialmente correttiva
dell’azione pubblica», (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.07.2016 n. 3335).
L’interesse pubblico perseguito dalla Pa non è il mero e
generico ripristino della legalità violata, ma deve essere
concreto ed attuale e va dunque valutato con riferimento
alle singole e specifiche fattispecie, tenendo conto
dell’interesse dei destinatari dell’atto al mantenimento
delle posizioni che su di esso si sono consolidate e del
conseguente affidamento dei privati (Consiglio Stato,
sentenza 5609/2014).
L’annullamento in autotutela di un titolo edilizio sarà
quindi possibile solo se ciò risulti concretamente
giustificato dalla sussistenza di un interesse pubblico
prevalente rispetto alla «conservazione dello status quo che
si è venuto nel frattempo a consolidare in capo al privato
interessato» (Tar Campania-Napoli, sentenza 1686/2016).
Iter condiviso
Secondo la Corte costituzionale (sentenza 49/2016),
l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio, si impernia
su «un istituto di portata generale -quello dell’autotutela- che si colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra
il potere amministrativo e il suo riesercizio, da una parte,
e la tutela dell’affidamento del privato, dall’altra». La
comparazione dell’interesse privato con quello pubblico è,
quindi, una regola assoluta che non tollera eccezioni «per
quanto rilevante possa essere l’interesse pubblico» (Tar
Lazio-Roma, sentenza 13555/2015; Consiglio Stato, sentenza
4997/2012).
Di conseguenza risulta essenziale la fase partecipativa e
questo «rende la comunicazione di avvio del procedimento di
autotutela non mero adempimento formale, ma atto prodromico»
(Consiglio di Stato, sentenza 532/2014). La sua assenza
determina quindi l’illegittimità del provvedimento, perché
da una parte non consente «il rispetto dei principi di
completezza istruttoria e congruità motivazionale» e,
dall’altra, impedisce l’acquisizione di tutti gli elementi e
le circostanze di fatto e di diritto che l’amministrazione
deve valutare (Tar Campania-Salerno, sentenza 2276/2016).
Assenza di dolo
L’affidamento del privato deve essere inoltre “incolpevole”:
l’autotutela potrà cioè riguardare solo il provvedimento
ottenuto in buona fede (Consiglio di Stato, sentenza
2769/2015) e non anche quello conseguito dolosamente (nel
caso in cui la Pa sia stata indotta in errore con false
informazioni), ovvero colposamente, qualora il vizio che
inficia l’atto risulti facilmente riconoscibile
dall’interessato, come nell’ipotesi di opere realizzate con
Dia in assenza di autorizzazione paesaggistica (Consiglio di
Stato, sentenza 2071/2015).
Le norme «Madia» e «Scia»
La “legge Madia” (n. 124/2015), ha fissato in 18 mesi il
termine decadenziale entro cui la Pa può disporre
l’annullamento d’ufficio (articolo 21-nonies della legge
241/1990). Il Consiglio di Stato (sentenza n. 3762 del 31
agosto scorso) ha chiarito che la nuova disposizione
costituisce «uno sbarramento temporale all’esercizio del
potere di autotutela», che scatta «dal momento dell’adozione
dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici». La previsione inoltre, pur se non
applicabile agli atti assunti prima della sua entrata in
vigore, «rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del
sistema degli interessi rilevanti» (Consiglio di Stato,
sentenza 5625/2015).
I giudici di Palazzo Spada hanno ribadito questa posizione
anche nel parere del 30.03.2016, n. 839, reso sullo schema
del “Decreto Scia” (Dlgs 126/2016), osservando come tali
modifiche abbiano introdotto un “nuovo paradigma” nei
rapporti tra cittadino e Pa prevedendo un limite massimo
temporale massimo dopo il quale si consolidano le situazioni
dei privati. Si tratta di «termini decadenziali di valenza
nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli
atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire
limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini,
valorizzando il principio di affidamento».
----------------
Il termine di 18 mesi blinda
l’esecuzione dell’intervento. I terzi. L’azione dei
controinteressati.
La giurisprudenza
prevalente ritiene che l’autotutela consiste nell’esercizio
«di un potere tipicamente discrezionale e, pertanto, ad
eventuali istanze volte a sollecitare l’esercizio di
siffatto potere non può che essere riconosciuta una funzione
meramente sollecitatoria» (Tar Lazio, sentenza 8108/2015;
Consiglio di Stato, 2237/2015).
Anche le modifiche introdotte dalla riforma Madia
all’articolo 21-nonies della legge 241/1990 non hanno
configurato un esplicito obbligo per la Pa di provvedere,
limitandosi a stabilire che, quando un privato segnala un
abuso e sollecita l’annullamento d’ufficio di titoli edilizi
ritenuti illegittimi. i suoi interessi siano valutati al
pari di quelli del destinatario dell’ annullamento.
Il nuovo termine rappresenta uno stimolo per i
controinteressati, poiché limita l’arco temporale in cui
possono agire. Secondo il Consiglio di Stato (parere
839/2016), infatti la previsione temporale «deve essere
applicata senza prestarsi a prassi elusive», come «quella di
ritenere che per il rispetto del termine di diciotto mesi
sia sufficiente un mero avvio dell’iter dell’autotutela,
magari privo di motivazioni e destinato a protrarsi per
anni, mentre invece il termine va riferito alla compiuta
adozione degli atti di autoannullamento».
Ne deriva che
l’omesso tempestivo esercizio dell’ autotutela,
cristallizzando gli effetti del titolo edilizio, potrebbe
pregiudicare definitivamente la posizione giuridica dei controinteressati e determinare le «responsabilità connesse
all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento
illegittimo».
L’individuazione dei controinteressati è importante anche
sul piano processuale. In tal senso, «il semplice vicino,
anche se ha provocato interventi repressivi non assume la
veste di controinteressato nei ricorsi che il titolare della
concessione edilizia promuove avverso provvedimenti di
annullamento d’ufficio» (Consiglio di Stato, sentenza
4582/2015).
Diversa è invece la posizione di coloro che dall’intervento
costruttivo illegittimo subiscano conseguenze negative,
anche solo indirette, come nelle ipotesi di proprietari
confinanti che vedano violate le distanze minime legali
(Consiglio di Stato, sentenza 3553/2015) o sul cui suolo
siano state eseguite parte delle opere abusive (Consiglio di
Stato, sentenza 4582/2015).
In questo caso essi risulteranno «portatori di un interesse
qualificato alla conservazione degli effetti prodotti dal
provvedimento impugnato e che abbia natura uguale e
contraria a quella del ricorrente» (Consiglio di Stato,
sentenza 4654/2015) ed agli stessi il ricorso va notificato
a pena di inammissibilità (Consiglio di Stato, sentenza
5362/2015), anche se non dovessero essere nominativamente
menzionati nel provvedimento, essendo sufficiente che siano
agevolmente identificabili dalla sua lettura (Consiglio di
Stato, sentenza 3059/2015) (articolo Il Sole 24 Ore del 28.11.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
La cognizione dell’accertamento, in via
principale, della natura pubblica o privata di una strada, o
della servitù pubblica di passaggio, spetta al giudice
ordinario, investendo l’esistenza e l’estensione di diritti
soggettivi dei privati ovvero del Comune medesimo.
Tuttavia poiché la natura, pubblica o privata, delle aree in
questione costituisce un presupposto degli atti di rimozione
impugnati è possibile indagare, incidenter tantum, il
predetto profilo, non sussistendo alcuna pregiudiziale
obbligatoria a favore del giudice ordinario.
---------------
La posa di una recinzione –manufatto essenzialmente
destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo
di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da
intrusioni– è solo diretta a far valere lo ius excludendi
alios che costituisce il contenuto tipico del diritto
dominicale, e per pacifica giurisprudenza persino la
presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non
può incidere di per sé negativamente sulla potestà del
dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai
sensi dell’art. 841 del c.c..
E’ stato osservato che il titolo abilitativo edilizio non è
necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza
opere murarie (ad esempio con rete metallica), in quanto
entro tali limiti il manufatto rientra tra le manifestazioni
del diritto di proprietà.
Solamente la recinzione che presenti un elevato impatto
urbanistico deve essere preceduta da un titolo abilitativo
del Comune, mentre tale atto non risulta necessario in
presenza di trasformazioni che –per l'utilizzo di materiale
di scarso impatto visivo e per le dimensioni
dell'intervento– non comportino un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale: la distinzione tra
esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios
va rintracciata quindi nella verifica concreta delle
caratteristiche del manufatto.
Nella fattispecie esaminata, i new jersey, in plastica e di
modeste dimensioni, sono stati collocati per pochi metri,
per cui non rivelano un’incidenza sensibile sul territorio.
---------------
La ricorrente contesta i provvedimenti adottati
dall’amministrazione comunale per rimuovere i dissuasori,
collocati a protezione delle aree sulle quali la Società
assume di poter vantare la piena proprietà privata, libera
da pesi o diritti altrui.
0. Preliminarmente deve essere respinta l’eccezione di
difetto di giurisdizione sollevata dal Comune.
0.1 Il presente giudizio verte sulla legittimità degli atti
assunti dall’Ente locale per ripristinare il libero transito
del pubblico sul parcheggio e sull’area di accesso.
La
cognizione dell’accertamento, in via principale, della
natura pubblica o privata di una strada, o della servitù
pubblica di passaggio, spetta al giudice ordinario,
investendo l’esistenza e l’estensione di diritti soggettivi
dei privati ovvero del Comune medesimo.
Tuttavia poiché la
natura, pubblica o privata, delle aree in questione
costituisce un presupposto degli atti di rimozione impugnati
è possibile indagare, incidenter tantum, il predetto
profilo, non sussistendo alcuna pregiudiziale obbligatoria a
favore del giudice ordinario (cfr. TAR Calabria Reggio
Calabria – 08/04/2015 n. 348 e la giurisprudenza ivi
richiamata, riformata nel merito dal Consiglio di Stato,
sez. V – 14/07/2015 n. 3531 senza incidere sul punto della
giurisdizione, non gravato da appello; TAR Toscana, sez. III – 30/03/2015 n. 516, che risulta appellata e sospesa con
ordinanza cautelare del Consiglio di Stato n. 4323/2015
sulla base di riflessioni afferenti al merito della vicenda;
TAR Emilia Romagna Bologna, sez. I – 14/01/2015 n. 4;
Consiglio di Stato, sez. VI – 21/10/2013 n. 5087).
Tutto ciò premesso, può essere esaminato il merito della
vicenda controversa, dopo aver rilevato che esula dalla
materia del contendere la questione della debenza degli
oneri di urbanizzazione correlati al cambio di destinazione
d’uso dell’immobile della ricorrente, definita con la
sentenza del Consiglio di Stato n. 263/2016 già richiamata
nell’esposizione in fatto.
Nel merito, il ricorso è fondato, per le ragioni di seguito
precisate.
1. Come evidenziato dalla parte ricorrente nella propria
memoria del 28/12/2015 (che ha fatto seguito alle produzioni
documentali del 30/11/2011 e del 17/12/2015), il Giudice di
pace di Bergamo, con la sentenza n. 731/2011 (passata in
giudicato) ha accolto i ricorsi contro i verbali di
accertamento della Polizia Locale di Gorle, dopo aver
statuito l’inesistenza della servitù.
2. Le sentenze di merito dei giudici ordinari e dei giudici
amministrativi, le quali abbiano statuito sui profili
sostanziali della controversia, una volta divenute
irrevocabili sono suscettibili di acquisire autorità di
giudicato esterno, con la conseguente incontestabilità
(“efficacia panprocessuale”) negli altri giudizi tra le
stesse parti, che abbiano ad oggetto questioni identiche
rispetto a quelle già esaminate: così il giudicato esterno
di merito, rilevabile pure d’ufficio, spiega la sua
efficacia nella stessa causa intentata davanti a un altro
giudice, di ordine diverso (cfr. TAR Lazio Latina, sez. I
– 10/7/2015 n. 517).
2.1 Anche i principi costituzionali del giusto processo e
della sua ragionevole durata impongono al giudice di
rilevare –anche d'ufficio– l’esistenza di un eventuale
giudicato esterno: è del tutto evidente che la reiterazione
di analoghe vertenze urta contro i principi fondamentali
predetti, tutelati dall’art. 111 della Costituzione (TAR
Piemonte, sez. II – 12/11/2015 n. 1559).
2.2 Nell’indagine volta ad accertare l'oggetto ed i limiti
del giudicato esterno, l’organo giurisdizionale non può
limitarsi a tener conto della formula conclusiva che
riassume il contenuto precettivo della pronuncia divenuta
immodificabile, ma deve individuarne l'essenza e l'effettiva
portata, ricavabile dal dispositivo e dai motivi che la
sorreggono (Corte di Cassazione, sez. II civile – 23/12/2015
n. 25966).
In proposito, nella sentenza del Giudice di pace
di Bergamo invocata, divenuta appunto irrevocabile, si
afferma che dall’atto di impegno unilaterale del 22/12/1997
“non può desumersi … l’attualità della servitù” e che
quest’ultima non può dirsi costituita dalla dicatio ad
patriam, per la “precisa volontà di non considerare l’area
in questione a disposizione della collettività e, in
particolare, neppure a favore dell’attività commerciale “Ro...”.
Le citate statuizioni, dunque, sono “coperte” dal giudicato
e non possono essere riesaminate da questo TAR,
osservandosi in aggiunta sul profilo residuale che il
presupposto per il compimento dell’usucapione è l’inattività
del titolare del diritto (certamente non riscontrabile nella
fattispecie).
3. L’amministrazione, nelle proprie difese, ha sottolineato
che, anche qualora l’area a parcheggio non risultasse
adibita all’uso pubblico, la tutela del diritto di proprietà
non poteva essere associata al provvedimento impugnato,
poiché con questo il Comune di Gorle aveva in realtà
sanzionato un abuso edilizio, negando la concessione
richiesta (con provvedimento non ritualmente contestato).
3.1 La tesi non persuade, in quanto gli atti amministrativi
censurati in questa sede hanno elevato a presupposto
l’esigenza di salvaguardare l’esercizio di una servitù di
uso pubblico.
Sotto altro punto vista, in via generale, la
posa di una recinzione –manufatto essenzialmente destinato
a delimitare una determinata proprietà allo scopo di
separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da
intrusioni– è solo diretta a far valere lo ius excludendi
alios che costituisce il contenuto tipico del diritto
dominicale, e per pacifica giurisprudenza persino la
presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non
può incidere di per sé negativamente sulla potestà del
dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai
sensi dell’art. 841 del c.c. (TAR Campania Napoli, sez. II –
04/02/2005 n. 803; TAR Lombardia Milano, sez. II –
11/02/2005 n. 367).
3.2 E’ stato osservato che il titolo abilitativo edilizio
non è necessario per modeste recinzioni di fondi rustici
senza opere murarie (ad esempio con rete metallica), in
quanto entro tali limiti il manufatto rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà (C.G.A. Sicilia,
sez. consultive – 18/12/2013 n. 1548; TAR Campania
Salerno, sez. II – 11/09/2015 n. 1902).
Solamente la
recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico deve
essere preceduta da un titolo abilitativo del Comune, mentre
tale atto non risulta necessario in presenza di
trasformazioni che –per l'utilizzo di materiale di scarso
impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento– non
comportino un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica
e funzionale: la distinzione tra esercizio dello jus
aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata
quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del
manufatto (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 06/02/2015
n. 938, che risulta appellata e che richiama Consiglio di
Stato, sez. V – 09/04/2013 n. 922).
Nella fattispecie
esaminata, i new jersey, in plastica e di modeste
dimensioni, sono stati collocati per pochi metri, per cui
non rivelano un’incidenza sensibile sul territorio.
In conclusione il ricorso impugnatorio è fondato e merita
accoglimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 17.02.2016 n. 246 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può essere messo in dubbio che un ente
pubblico possa dichiarare l’usucapione di un’area di sedime,
relativa a una strada, appartenente a privati qualora si
siano verificati i presupposti di legge.
Il trasferimento è previsto anche dall’art. 31, c. 21, della
legge 448/1998, che prevede il potere degli enti con proprio
provvedimento, di disporre l'accorpamento al demanio
stradale delle porzioni di terreno utilizzate ad uso
pubblico, ininterrottamente da oltre venti anni, previa
acquisizione del consenso da parte degli attuali
proprietari.
In ogni caso essa richiede il consenso del proprietario per
l’acquisizione.
---------------
Come è noto, con l'espressione
"usucapione pubblica" si intende far riferimento non ad un
distinto istituto acquisitivo di matrice pubblicistica, che
non esiste, ma alla ordinaria usucapione civilistica il cui
beneficiario sia un soggetto pubblico, che semmai presenta
alcune particolarità derivanti dalla natura pubblica
dell'usucapente.
L'usucapione avviene quando il soggetto pubblico, mediante
gli organi del suo apparato amministrativo, esercita
continuativamente il possesso ad usucapionem del bene per
tutta la durata necessaria.
In particolare, l'usucapione a favore di un soggetto
pubblico territoriale quale il Comune, può configurarsi
anche quando il possesso ad usucapionem non sia esercitato
direttamente dall'ente, bensì da una indifferenziata
comunità di persone alla quale sia riconducibile tanto il
corpus (la signoria di fatto sul bene) quanto l'animus
possidendi (l'intenzione di esercitare uti cives sul bene un
potere corrispondente a quello di proprietario o di titolare
di un ius in re aliena).
E’ inoltre necessario che l’usucapione sia funzionale allo
soddisfacimento di un pubblico interesse. Riassumendo,
l'usucapione pubblica presuppone:
- l'idoneità del bene all'uso pubblico;
- la rispondenza dell'uso a una utilità pubblica e non al
soddisfacimento dell'interesse privato di alcuni singoli;
- l'esercizio della signoria sul bene, corrispondente ad un
diritto reale di godimento, da parte dell'ente o di una
collettività di persone agenti uti cives e non uti singuli;
- il disconoscimento anche implicito di ogni contrario
diritto del proprietario, la non riscontrabilità nel
proprietario di un atteggiamento di mera tolleranza;
- la continuità nell'esercizio dell'uso per la durata
stabilita dal codice civile ai fini dell'usucapione.
---------------
Per l’usucapione della servitù di uso pubblico, a differenza
dell’usucapione della proprietà del bene, sono sufficienti i
cosiddetti uso ab immemorabili (uso pubblico risalente nel
tempo) e dicatio ad patriam (tolleranza o espliciti atti di
assegnazione del bene).
---------------
Per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad
una via privata è necessario che con la destinazione della
strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da
parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo o
(per effetto di un contratto, in conseguenza di un
procedimento d'esproprio, per effetto di usucapione o
dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto
dell'appartenenza della sede viaria al Comune, l'iscrizione
della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale
iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche
attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il
regime giuridico della medesima.
Né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla
prospettazione della mera previsione programmatica di tale
destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del
pubblico transito per un periodo infraventennale, o
dall'intervento di atti di riconoscimento
dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da
una determinata strada.
---------------
... per l'annullamento della delibera di Consiglio Comunale
di Pesaro n. 135 del 16.12.2013, provvedimento prot. 15744
portante "Atto dichiarativo di intervenuta usucapione in
favore del Comune di Pesaro della strada di collegamento
dell'abitato di Fiorenzuola di Focara con la spiaggia
sottostante (detta Strada della Marina. Acquisto per
usucapione al demanio del Comune" notificata in data
08.03.2014,di tutti i provvedimenti citati nella predetta
delibera e mai notificati;
...
1 Il ricorso e i motivi aggiunti sono fondati e devono
essere accolti.
1.1 Non può essere messo in dubbio (e del resto la
ricorrente non lo contesta nel ricorso), che un ente
pubblico possa dichiarare l’usucapione di un’area di sedime,
relativa a una strada, appartenente a privati qualora si
siano verificati i presupposti di legge.
1.2 Il trasferimento è previsto anche dall’art. 31, c. 21,
della legge 448/1998, che prevede il potere degli enti con
proprio provvedimento, di disporre l'accorpamento al demanio
stradale delle porzioni di terreno utilizzate ad uso
pubblico, ininterrottamente da oltre venti anni, previa
acquisizione del consenso da parte degli attuali
proprietari. In realtà tale norma è citata solo nel ricorso
e non nel provvedimento di acquisizione. In ogni caso essa
richiede il consenso del proprietario per l’acquisizione,
consenso che non si può ritenere presente nel caso in esame.
1.3 Nel caso in esame, il Comune nella delibera impugnata
con il ricorso introduttivo, intende quindi fare valere
l’istituto della c.d. usucapione pubblica. Ciò posto in
linea di diritto, si osserva che nel caso di specie non sono
ravvisabili con il necessario rigore i presupposti di
applicabilità dell’istituto in esame.
Come è noto, con
l'espressione "usucapione pubblica" si intende far
riferimento non ad un distinto istituto acquisitivo di
matrice pubblicistica, che non esiste, ma alla ordinaria
usucapione civilistica il cui beneficiario sia un soggetto
pubblico, che semmai presenta alcune particolarità derivanti
dalla natura pubblica dell'usucapente.
1.4 L'usucapione avviene quando il soggetto pubblico,
mediante gli organi del suo apparato amministrativo,
esercita continuativamente il possesso ad usucapionem del
bene per tutta la durata necessaria. In particolare,
l'usucapione a favore di un soggetto pubblico territoriale
quale il Comune, può configurarsi anche quando il possesso
ad usucapionem non sia esercitato direttamente dall'ente,
bensì da una indifferenziata comunità di persone alla quale
sia riconducibile tanto il corpus (la signoria di fatto sul
bene) quanto l'animus possidendi (l'intenzione di esercitare
uti cives sul bene un potere corrispondente a quello di
proprietario o di titolare di un ius in re aliena).
E’
inoltre necessario che l’usucapione sia funzionale allo
soddisfacimento di un pubblico interesse. Riassumendo,
l'usucapione pubblica presuppone: l'idoneità del bene
all'uso pubblico; la rispondenza dell'uso a una utilità
pubblica e non al soddisfacimento dell'interesse privato di
alcuni singoli; l'esercizio della signoria sul bene,
corrispondente ad un diritto reale di godimento, da parte
dell'ente o di una collettività di persone agenti uti cives
e non uti singuli, il disconoscimento anche implicito di
ogni contrario diritto del proprietario, la non
riscontrabilità nel proprietario di un atteggiamento di mera
tolleranza; la continuità nell'esercizio dell'uso per la
durata stabilita dal codice civile ai fini dell'usucapione.
2 Come si vede si tratta di requisiti piuttosto severi,
tanto che gli stessi spesso vengono opposti dall’ente che ha
avviato una procedura espropriativa non portata a
conclusione alla richiesta di restituzione del bene, mentre
sono piuttosto rari, in giurisprudenza, i casi come il
presente in cui l’usucapione viene dichiarata in via
principale.
2.1 Tra l’altro, nel caso in esame, il Comune non si limita
a dichiarare l’usucapione di una servitù di uso pubblico sui
beni, ma di aver usucapito la proprietà sugli stessi. Per
l’usucapione della servitù di uso pubblico, a differenza
dell’usucapione della proprietà del bene, sarebbero
sufficienti i cosiddetti uso ab immemorabili (uso pubblico
risalente nel tempo) e dicatio ad patriam (tolleranza o
espliciti atti di assegnazione del bene) (Cass. Sez. II 04.06.2001 n. 7481).
2.2 Nella fattispecie in esame, il Collegio ritiene che il
corredo motivazionale della delibera impugnata risulti
carente nel riportare i presupposti per il riconoscimento
dell’usucapione. Tali lacune, a parere del Collegio non sono
colmate dai documenti fatti conoscere alla ricorrente dopo
la delibera. Ciò in particolare, con riguardo alla prova
dell’effettivo esercizio del potere del proprietario da
parte del Comune per vent’anni, privo di interruzioni.
Riguardo tale prova, la scansione temporale del possesso
deve essere precisa, dovendosi esplicitare quando è iniziato
e quando è maturato il termine ventennale.
2.3 Ciò appare conforme con il costante orientamento
giurisprudenziale per cui, per l'attribuzione del carattere
di demanialità comunale ad una via privata è necessario che
con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra
l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della
proprietà del suolo relativo o (per effetto di un contratto,
in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto
di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in
difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune,
l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali,
giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni
giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse
con il regime giuridico della medesima; né la natura
pubblica di una strada può essere desunta dalla
prospettazione della mera previsione programmatica di tale
destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del
pubblico transito per un periodo infraventennale, o
dall'intervento di atti di riconoscimento
dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da
una determinata strada (Cass. civ., sez. II, 28.12.2010, n.
20405; Cass. civ., sez. I, 26.08.2002 n. 12540; Cass. civ.
Sez. II, 07.04.2006, n. 8204)
(TAR Marche,
sentenza 01.02.2016 n. 52 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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